DRIVE MY CAR
Film diretto da Ryûsuke Hamaguchi
Recensione
[...]Tratto da un racconto di Murakami Haruki presente nella raccolta "Uomini senza donne", un lungo, complesso e struggente percorso nelle solitudini e nelle fragilità di un gruppo di uomini e di donne la cui vita ruota attorno al teatro. Drive My Car è un film di parole: parole scritte in un testo, recitate su un palcoscenico, mimate con le mani, create nell'estasi del piacere o dette nell'abitacolo di un'automobile. Parole, ancora, usate per inventare storie, per confessare traumi, per ammettere colpe e trovare sé stessi.[...] (My movies)
Visto il film e ultimata la mia lettura del racconto, posso dire di aver apprezzato l’adattamento cinematografico. È difficile di solito condensare al meglio un’opera letteraria quando se ne trae un film. Ma questa volta il film, diretto da Ryûsuke Hamaguchi rende in modo mirabile lo stile di Murakami.
Soprattutto ho apprezzato i dettagli e i dialoghi che giocano un ruolo molto importante nello sviluppo della storia. Inoltre, Hamagichi e Oe, sono riusciti a creare una trama molto più ricca, a partire dai primi fotogrammi e – decisamente – nella parte finale.
DRIVE MY CAR
Racconto estratto da "Uomini senza donne"
Murakami Haruki
Drive my car
Nella sua vita Kafuku aveva visto molte donne alla guida di un’auto, e grossomodo le divideva in due categorie: quelle un po’ troppo aggressive e quelle un po’ troppo prudenti. Le seconde erano molto piú numerose delle prime – cosa della quale possiamo solo rallegrarci. In generale, le donne sono piú corrette e caute degli uomini: e di una guida cauta e corretta è ovvio che nessuno si può lamentare. Anche se a volte, però, può essere esasperante per gli automobilisti intorno.
Quanto alle donne appartenenti all’altro gruppo, le «aggressive», di solito si credevano degli assi del volante. Consideravano quelle troppo prudenti delle imbecilli e si vantavano di non essere come loro. Cambiavano corsia all’improvviso, senza rendersi conto che cosí costringevano gli altri automobilisti a frenare sospirando o ricoprendole di improperi.
Naturalmente, c’erano anche donne che non appartenevano né all’una né all’altra categoria. Donne che guidavano in maniera del tutto normale, né troppo aggressiva, né troppo cauta. Fra queste, alcune erano davvero brave. Anche in loro, tuttavia, Kafuku percepiva segni di tensione. In cosa consistessero, questi segni, non sarebbe stato in grado di dirlo, ma seduto al loro fianco intuiva una certa asperità che si trasmetteva fino a lui, mettendolo a disagio. Provava uno sgradevole bisogno di inumidirsi la gola, e per colmare il silenzio si lanciava in discorsi futili e superflui.
È ovvio che anche fra gli uomini c’era chi guidava bene e chi no. Nella maggior parte dei casi, però, gli uomini al volante non gli davano l’impressione di essere tesi. Non che fossero particolarmente rilassati. Magari in realtà erano un fascio di nervi. Però riuscivano in maniera naturale – forse inconscia – a non lasciar trapelare la tensione nei loro gesti. Pur concentrandosi nella guida, conversavano e si muovevano normalmente. Erano due sfere d’azione diverse. Kafuku non si spiegava il perché di questa differenza di comportamento tra uomini e donne.
Nella vita quotidiana, gli capitava raramente di notarne altre. Di percepire, cioè, una qualche differenza tra le capacità di maschi e femmine. Nella sua professione aveva occasione di lavorare sia con gli uni che con le altre, e, a essere sinceri, si sentiva piú a suo agio con le donne. Erano piú attente ai dettagli, e sapevano ascoltare. Ma quando doveva salire su un’automobile, se a stringere il volante, accanto a lui, erano mani femminili, Kafuku per tutto il tempo ne era sgradevolmente consapevole. Però non aveva mai parlato a nessuno di questa sua visione delle cose. Non gli sembrava un argomento di conversazione proponibile.
Quindi non si mostrò particolarmente contento quando il suo meccanico Oba, a cui aveva chiesto di trovargli un autista, gli propose una giovane donna. Vedendolo perplesso, Oba sorrise con l’aria di chi pensa: «La capisco benissimo».
– Guardi che questa ragazza guida davvero bene, sa, signor Kafuku. Glielo garantisco. Perché non la incontra, una volta? Perché non si fa portare un po’ in giro?
– Se me la raccomanda lei, non ho nulla da obiettare, – rispose Kafuku. Aveva bisogno di un autista al piú presto, e Oba era un uomo affidabile. Erano ormai quindici anni che lo conosceva. Aveva capelli come fil di ferro e l’aria di un folletto, ma in materia di automobili era praticamente infallibile.
– Per scrupolo, farei una revisione completa. Se per lei va bene, signor Kafuku, gliela consegno rimessa a nuovo dopodomani alle due. Chiederò alla ragazza di cui le ho parlato di venire qui per quell’ora, cosí potrà metterla alla prova, farsi scorrazzare un poco per il quartiere. Cosa ne pensa? Se non la convince, lo dica tranquillamente. Non ha bisogno di fare complimenti, con me.
– Quanti anni ha?
– Credo venticinque o ventisei. Ma non gliel’ho chiesto, – disse Oba. Poi proseguí, l’aria perplessa: – Come le ho detto, al volante è bravissima, però…
– Però?
– Mah, come spiegarle? Ha un lato… diciamo scomodo.
– In che senso?
– Be’, ecco, è un po’ scontrosa, di poche parole. E fuma ininterrottamente. Quando la vedrà, capirà cosa voglio dire. Non è il tipo della bambolina, insomma. Non sorride mai. A dirla tutta, si potrebbe quasi definire… sí, un po’ rozza.
– Non ha importanza. Anzi, meglio se non è una bellezza: non mi sentirei a mio agio, e poi darei adito a pettegolezzi.
– Allora è perfetta per lei.
– In ogni caso, a guidare è brava, no? Me l’assicura?
– Bravissima. E non «bravissima per essere una donna». È davvero in gamba. In assoluto.
– Adesso che lavoro fa?
– Questo con precisione non lo so. Cassiera in un minimarket, consegna pacchi a domicilio… lavoretti saltuari, insomma, giusto per sbarcare il lunario. Impieghi che può lasciare dall’oggi al domani, se le si presenta un’occasione migliore. È stato un mio conoscente a mandarcela, ma anche da noi la crisi si fa sentire, non possiamo permetterci di assumere un’altra impiegata. Tutto quel che possiamo fare è chiamarla quando ne abbiamo bisogno. Ma penso che sia una ragazza a posto, affidabile. Tanto per cominciare, non beve un goccio d’alcol.
A sentir parlare di alcol, Kafuku si adombrò. Senza rendersene conto, portò la mano destra alla bocca.
– Allora la vedrò dopodomani alle due, – disse. Quella ragazza scontrosa e taciturna, poco affabile, lo interessava.
Due giorni dopo, alle due in punto, la sua Saab 900 cabriolet era pronta. L’ammaccatura sulla parte anteriore destra era scomparsa, sulla carrozzeria ben verniciata adesso non se ne vedeva piú traccia. Oba aveva anche provveduto a controllare il motore, sostituire le pastiglie dei freni e il tergicristallo, far lavare la vettura, lucidare e ingrassare i cerchioni delle ruote. Come sempre, un servizio impeccabile. Erano dodici anni che Kafuku aveva quella Saab, con la quale aveva fatto piú di centomila chilometri. La tela della capote ormai era sgualcita e nei giorni di pioggia forte c’era il rischio che lasciasse passare l’acqua. Ma per il momento Kafuku non aveva intenzione di cambiare automobile. Di grossi problemi la Saab non gliene aveva mai dati, e soprattutto ci era affezionato. Gli piaceva lasciare il tettuccio aperto, in qualunque stagione fosse. D’inverno metteva un cappotto pesante e una sciarpa intorno al collo, d’estate un berretto in testa e gli occhiali da sole. Seduto al volante, provava il sottile piacere di cambiare marcia mentre attraversava la città, e quando era fermo ai semafori guardava le nuvole che si spostavano nel cielo e gli uccelli fermi sui fili della luce. Quell’abitudine era ormai diventata una parte imprescindibile del suo stile di vita. Kafuku fece un lento giro intorno all’automobile, controllando una cosa qui e una lí, come il proprietario di un cavallo prima di una corsa.
L’aveva comprata quando sua moglie era ancora viva. Era stata lei a sceglierla gialla. Nei primi anni la usavano spesso insieme. Sua moglie non guidava, cosí al volante si metteva sempre lui. Avevano anche fatto lunghi viaggi. Izu, Hakone, Nasu… In seguito però, per quasi dieci anni, su quella Saab Kafuku non aveva portato nessuno. Dopo la morte della moglie, aveva avuto diverse storie, ma per qualche ragione non gli si era mai presentata l’occasione di far sedere una donna in macchina accanto a sé. Né gli era piú capitato di spostarsi fuori città, se non per motivi di lavoro.
– Be’, cosette da riparare qua e là ce n’erano parecchie, ma è ancora piú che valida, – disse Oba carezzandone amorevolmente il cruscotto, come se fosse il collo di un grosso cane. – È una vettura affidabile. Le automobili svedesi di quegli anni sono eccellenti. Hanno qualche difettuccio al circuito elettrico, va tenuto d’occhio, ma la meccanica di base non dà mai grossi problemi. Comunque l’ha trattata proprio bene, lei.
Kafuku aveva firmato i documenti per la riconsegna e stava ascoltando la spiegazione dettagliata della fattura, quando arrivò la ragazza. Era piuttosto alta, forse un metro e sessantacinque, e pur non essendo grassa aveva le spalle larghe e un fisico robusto. Sul collo, a destra, aveva una macchia ovale grande come un’oliva, violacea, alla quale non sembrava dare molta importanza visto che non si preoccupava di coprirla con i capelli, che aveva neri e spessi e per comodità teneva legati sulla nuca. No, Oba aveva ragione, nessuno avrebbe potuto trovarla bella, il suo viso aveva qualcosa di indisponente. Sulle guance le erano rimasti i segni di un’acne adolescenziale. Gli occhi dalle iridi scurissime avevano uno sguardo sospettoso, ma forse davano quell’impressione perché erano molto grandi. Le orecchie a sventola sembravano antenne paraboliche in piena campagna. Indossava una giacca da uomo a spina di pesce un po’ troppo pesante per la stagione – era maggio –, dei pantaloni di tela marrone e ai piedi aveva delle sneakers nere della Converse. Sotto la giacca e la maglietta bianca, il seno era voluminoso.
Oba la presentò: si chiamava Watari Misaki.
– Misaki si scrive in hiragana. Se lo desidera, posso farle avere il mio curriculum, – disse la ragazza in un tono che non aveva nulla di deferente.
Kafuku scosse la testa.
– No, per il momento non è necessario. Come se la cava col cambio manuale?
– Lo preferisco, – rispose freddamente la ragazza, come una convinta vegetariana a cui avessero chiesto se mangiava l’insalata.
– È un modello vecchio, non ha il navigatore.
– Non ne ho bisogno. Per un certo periodo ho consegnato pacchi a domicilio. Ho bene in mente la topografia della città.
– Be’, allora vogliamo fare un giro di prova qui intorno? È una bella giornata, possiamo lasciare il tettuccio aperto.
– Dove vuole andare?
Kafuku ci pensò su un momento. Erano vicini a Shinohashi.
– Potremmo girare a destra all’incrocio del tempio Tengenji, fermarci nel parcheggio sotterraneo dei grandi magazzini Meijiya, dove devo comprare una cosa, poi salire la collina verso il parco Arisugawa, superare l’ambasciata francese e tornare qui passando da Meiji-dōri.
– Perfetto, – disse la ragazza, senza preoccuparsi di verificare il percorso. Prese da Oba le chiavi della macchina, regolò con gesti svelti la posizione del sedile e del retrovisore. Sembrava conoscere benissimo la funzione di ogni pulsante. Schiacciò sull’acceleratore, provò il cambio. Tirò fuori dal taschino della giacca dei Ray-ban verdi e se li mise. Poi si voltò verso Kafuku e gli fece un piccolo cenno col capo. Come per dirgli che era pronta.
– Cassette, – disse come se parlasse da sola, dando un’occhiata all’impianto stereo.
– Sí, preferisco le cassette, – rispose Kafuku. – Sono piú facili da usare dei cd. E posso esercitarmi nella parte.
– Era da un po’ che non ne vedevo.
– Quando ho iniziato a guidare, si usavano ancora gli stereo 8 piste.
Misaki non rispose. Dall’espressione, sembrava che non sapesse nemmeno cosa fossero, gli stereo 8 piste.
Come aveva detto Oba, al volante era bravissima. Aveva una guida sicura e fluida, senza bruschi scatti. Malgrado il traffico fosse intenso e le soste ai semafori frequenti, badava a mantenere il motore a un numero costante di giri, lo si capiva dal modo in cui spostava lo sguardo dal cruscotto alla strada. E se Kafuku chiudeva gli occhi, non avvertiva quasi i cambiamenti di marcia. Per accorgersene, doveva tendere l’orecchio al ronzio del motore, sentirne le variazioni. Anche il modo di usare freno e frizione era attento e leggero. Ma quello che faceva davvero piacere a Kafuku era il fatto che quella ragazza mentre guidava fosse rilassata, per tutto il tempo. Anzi, sembrava quasi che ogni tensione l’abbandonasse appena metteva le mani sul volante di un’automobile. La sua espressione diventava piú affabile, lo sguardo piú gentile. Ma restava taciturna. Apriva bocca solo per rispondere alle domande.
A Kafuku però questo non dava fastidio. Nemmeno lui era molto portato per la conversazione. Parlare con le persone con cui era in confidenza non gli dispiaceva, ma con tutti gli altri preferiva stare zitto. Sprofondato nel sedile accanto a Misaki che guidava, guardava distrattamente le strade. Di solito stava seduto al volante, e vista da questa nuova posizione la città gli faceva un effetto diverso.
Sulla trafficata Gaiennishi-dōri, Kafuku chiese piú volte a Misaki di parcheggiare lungo il marciapiede, per prova, e lei ogni volta eseguí la manovra con abilità e precisione. Aveva i riflessi pronti. E ottime funzioni senso-motorie. Durante le lunghe attese ai semafori, fumava. Fumava Marlboro. Ma appena il semaforo passava al verde spegneva la sigaretta, e non ne accendeva mai una mentre guidava. Non aveva rossetto sulle labbra, né smalto sulle unghie. Nemmeno l’ombra di fondotinta sul viso.
– Avrei alcune cose da chiederle, – disse Kafuku quando arrivarono al parco Arisugawa.
– Prego, – lo incoraggiò Misaki.
– Dove ha imparato a guidare?
– Sono cresciuta fra le montagne dell’Hokkaidō. Guido da quando avevo quindici anni. Dalle mie parti, senza automobile non si sopravvive. È una cittadina in fondo a una valle, il sole ci arriva poco e per metà dell’anno le strade sono gelate. Che piaccia o meno, si impara a guidare.
– Sí, ma a parcheggiare? Non credo si faccia molta pratica di parcheggi, su quelle strade di montagna.
La ragazza non rispose, non sembrava ritenerlo necessario.
– Il signor Oba le ha spiegato perché ho avuto bisogno di un autista da un giorno all’altro?
– Mi ha detto che lei è un attore, – rispose Misaki in tono neutro, guardando dritto davanti a sé, – e che sei giorni alla settimana recita a teatro. Di solito ci va con la sua macchina, e guida lei. La preferisce ai mezzi pubblici. Perché in macchina può esercitarsi a ripetere la parte. Ma poco tempo fa ha avuto un piccolo incidente, in seguito al quale le è stata sospesa la patente. Era positivo all’alcoltest, inoltre ha un problema agli occhi.
Kafuku annuí. Aveva l’impressione di sentir raccontare un sogno fatto da un’altra persona.
– All’esame della vista presso la struttura che mi ha indicato la polizia, l’oculista ha riconosciuto i sintomi di un glaucoma. Ho un angolo cieco nel campo visivo. All’estremità destra. Io non me n’ero mai accorto.
Riguardo alla guida in stato di ebbrezza, in realtà il tasso alcolico non era molto alto, cosí era riuscito a tenere segreta la notizia, evitando che giungesse fino ai media. Ma per il problema alla vista, non aveva potuto fare a meno di informare il suo agente. C’era il rischio che quell’angolo morto gli impedisse di vedere un’automobile che arrivava da destra. Gli era stato detto di non guidare per nessuna ragione, fino a quando nuove analisi non avessero dato risultati rassicuranti.
– Signor Kafuku? – gli chiese Misaki. – Va bene se la chiamo cosí? È il suo vero cognome?
– Sí, è il mio vero cognome, – rispose lui. – Contiene la parola fortuna, ma alla mia famiglia non ha mai portato grandi benefici. Nessuno dei miei parenti è ricco.
Scese un breve silenzio. Poi Kafuku le disse quanto l’avrebbe pagata al mese per il suo lavoro. Non era una grossa somma, ma era tutto quello che poteva offrire l’agenzia. Kafuku era un attore conosciuto, ma non aveva mai ruoli da protagonista al cinema o alla televisione, e a teatro non si guadagna granché. Per un attore del suo livello assumere un autista, anche solo per qualche mese, era molto oneroso.
– L’orario di lavoro varia in funzione dei miei impegni professionali, ma al momento recito soprattutto a teatro, quindi la mattina di solito sarà libera. Potrà dormire anche fino a mezzogiorno. La sera, farò in modo di tenerla impegnata al massimo fino alle undici. Nel caso io finisca piú tardi, chiamerò un taxi. E le darò un giorno di ferie alla settimana.
– D’accordo, – rispose Misaki senza scomporsi.
– Il lavoro in sé non penso sia faticoso. Può darsi che la parte piú seccante sia restare a disposizione senza fare niente.
A questo proposito, Misaki non fece commenti. Tenne le labbra serrate, con l’aria di chi ne aveva viste di peggio.
– Quando il tettuccio è aperto, può fumare, ma quando è chiuso vorrei che se ne astenesse, – disse Kafuku.
– D’accordo.
– Lei ha qualche richiesta?
– No, niente in particolare, – fece Misaki. Socchiuse un po’ le palpebre e scalò marcia facendo un lungo respiro. – Mi piace, questa macchina, – disse.
Per il resto del tempo non parlarono. Tornarono all’officina meccanica, dove Kafuku chiamò Oba in un angolo per dirgli che aveva deciso di assumere la ragazza.
Dal giorno dopo, Misaki divenne l’autista di Kafuku. Ogni pomeriggio, alle tre e mezza, tirava fuori la Saab gialla dal parcheggio sotterraneo del palazzo dove abitava lui, nel quartiere di Ebisu, e lo accompagnava al suo teatro a Ginza. Se non pioveva, lasciava il tettuccio aperto. All’andata Kafuku, seduto accanto a lei, infilava una cassetta nello stereo – un dramma di Anton Čechov, Zio Vania, in un adattamento ambientato nel Giappone dell’era Meiji – e recitava il testo ad alta voce, all’unisono con quello registrato. Interpretava la parte di Vania. Ormai la sapeva a memoria dall’inizio alla fine, ma per sentirsi tranquillo aveva bisogno di ripeterla ogni giorno. Era un’abitudine che aveva da anni.
Al ritorno, ascoltava spesso Beethoven nell’esecuzione di un quartetto d’archi. Gli piacevano, le opere di Beethoven per quartetto d’archi, era un genere di musica che non gli veniva mai a noia, e in piú gli permetteva di pensare agli affari suoi, o al contrario di non pensare a nulla. Quando aveva voglia di qualcosa di piú leggero, sentiva vecchio rock americano – i Beach Boys, i Rascals, i Creedence, i Temptations… –, roba di moda quando lui era giovane. Misaki non faceva commenti sulla musica che sceglieva Kafuku, il quale non capiva se le piacesse, se le facesse schifo, o se non l’ascoltasse neanche. Non mostrava mai le sue emozioni, quella ragazza.
Normalmente, Kafuku non riusciva a ripetere la parte davanti ad altre persone, si sentiva a disagio, ma la presenza di Misaki non lo disturbava. Al contrario, apprezzava l’atteggiamento distaccato, quasi scostante di lei. Anche quando parlava a voce molto alta, la ragazza, pur essendo seduta accanto a lui, manteneva un’aria indifferente, come se non lo sentisse nemmeno. Ma forse era proprio cosí, pensava solo alla guida. O magari guidando entrava in uno stato di concentrazione zen.
E di lui, che opinione aveva? Kafuku non riusciva a immaginarlo. Lo trovava almeno un po’ simpatico, o non aveva per lui alcun interesse, alcuna curiosità? O addirittura lo trovava repellente, tanto da averne la pelle d’oca, ma sopportava in silenzio per non perdere il lavoro? In ogni caso, di quel che pensava Misaki, a Kafuku non importava nulla. Gli piaceva il suo modo scorrevole e sicuro di guidare, e tanto gli bastava, anzi, apprezzava anche il fatto che lei si tenesse le sue emozioni per sé.
Appena finiva di recitare, Kafuku si toglieva il trucco di scena, si cambiava e lasciava in fretta il teatro. Non gli piaceva fermarsi a perdere tempo. Non frequentava quasi i suoi colleghi. Chiamava Misaki col cellulare perché venisse con la macchina all’ingresso degli artisti, in modo che la Saab gialla cabriolet fosse lí ad attenderlo quando usciva. E verso le dieci e mezza era di ritorno al suo appartamento a Ebisu. Questa era la sua routine quotidiana.
Gli capitava anche di lavorare in altri posti. Una volta alla settimana doveva andare in uno studio televisivo per registrare la sua parte in un telefilm. Si trattava di una banalissima serie poliziesca, ma l’audience era alta e il compenso ottimo. Kafuku sosteneva il ruolo di un indovino che aiutava una poliziotta, la protagonista. Per immedesimarsi nel personaggio, diverse volte si era travestito da cartomante e per la strada si era messo a leggere la fortuna ai passanti. Tanto che si era fatto la reputazione di essere tagliato per la parte. Nel tardo pomeriggio, appena terminata la registrazione, doveva correre direttamente al teatro. Era la parte piú rischiosa del programma settimanale. Nei weekend, dopo lo spettacolo in matinée, teneva corsi serali agli allievi di una scuola di recitazione. Insegnare ai giovani gli piaceva moltissimo. Il compito di Misaki consisteva nel portare Kafuku avanti e indietro da un posto all’altro. Lo accompagnava puntualmente di qua e di là, senza mai creare problemi, e lui si era abituato a sedere nella Saab di fianco alla ragazza che guidava. A volte finiva addirittura per addormentarsi.
Con l’arrivo del caldo, Misaki sostituí la sua pesante giacca maschile con una estiva, piú leggera. In ogni caso, quando guidava indossava sempre una giacca. Forse al posto della divisa. Nella stagione delle piogge il tettuccio restava quasi sempre chiuso.
Sul sedile di fianco, Kafuku pensava spesso alla moglie morta. Da quando Misaki gli faceva da autista, per qualche motivo gli tornava in mente di continuo. Di due anni piú giovane, un viso stupendo, era stata attrice anche lei. Kafuku all’epoca era soprattutto un «caratterista», interpretava sovente il ruolo del nevrotico pieno di fissazioni. Con la sua faccia lunga e stretta, e la tendenza precoce a perdere i capelli, non era adatto ai ruoli di protagonista. La moglie invece, con la sua bellezza, era la tipica prima attrice, cui venivano attribuiti ruoli e compensi adeguati. Col passare degli anni, tuttavia, era stato piuttosto lui, bravissimo nell’interpretare i suoi personaggi tipici, ad acquisire notorietà. Comunque i due coniugi riconoscevano i rispettivi meriti professionali, e non era mai successo che la differenza di popolarità e guadagni creasse problemi fra loro.
Kafuku amava la moglie. Se ne era profondamente innamorato poco dopo averla conosciuta – all’epoca lui aveva ventinove anni –, e da allora fino alla morte di lei – vent’anni dopo –, il suo sentimento era rimasto invariato. Per tutta la durata del suo matrimonio, non aveva mai avuto rapporti sessuali con altre donne. Le occasioni non gli erano certo mancate, ma non ne aveva mai provato il desiderio.
La moglie invece era andata a letto con altri uomini. Con quattro, per quel che ne sapeva Kafuku. Quattro volte, per periodi limitati, lei aveva avuto un amante. Naturalmente non ne aveva fatto parola al marito, ma Kafuku percepiva immediatamente quando lei, in qualche luogo, stava fra le braccia di un altro. Per carattere era piuttosto intuitivo, ma c’è da dire che qualunque persona veramente innamorata è in grado di cogliere certi segnali, per quanto sgradevoli. Dal tono di voce di lei, capiva anche chi era l’uomo. Si trattava sempre di qualche attore col quale recitava nel film di turno. Di solito piú giovane. La relazione continuava per diversi mesi, finché veniva meno in modo naturale al termine delle riprese. Un copione che si era ripetuto ben quattro volte.
Perché lei sentisse il bisogno di andare a letto con altri uomini, Kafuku non l’aveva mai capito. Ancora adesso non riusciva a spiegarselo. Da quando si erano sposati il loro rapporto, sia in quanto marito e moglie, sia in quanto compagni di vita, era sempre stato ottimo. Quando se ne presentava l’occasione, parlavano con passione e sincerità di tante cose, e cercavano la reciproca fiducia. Fra loro c’era un’intesa magnifica, sia in senso fisico che spirituale, pensava Kafuku. Amici e conoscenti li consideravano una coppia unita e ideale.
Ciononostante, perché sua moglie aveva avuto altri uomini? Avrebbe dovuto farsi coraggio e domandarlo a lei finché era in vita. Kafuku se lo diceva spesso. Una volta era stato sul punto di chiederglielo. Che cosa cercavi in loro? Che cosa non ti bastava, in me? Era successo pochi mesi prima che lei morisse. Ma davanti alla moglie che stava per andarsene fra terribili sofferenze non era riuscito a proferire quelle parole. Cosí lei aveva lasciato il mondo dei vivi senza dargli uno straccio di spiegazione. Una domanda inespressa, una risposta mancata. Al crematorio, mentre raccoglieva in silenzio le ceneri della moglie, Kafuku era immerso in questi pensieri. Al punto da non sentire nemmeno quello che le altre persone gli sussurravano all’orecchio.
Immaginare la moglie fra le braccia di un altro, per Kafuku era stato uno strazio. D’altronde, come avrebbe potuto non esserlo? Se chiudeva gli occhi, vivide immagini si formavano nella sua mente una dopo l’altra. Non che lui cercasse intenzionalmente quelle fantasie, ma non riusciva a reprimerle. Lo trafiggevano con lentezza, senza pietà, come la lama di un coltello. A volte si diceva che sarebbe stato preferibile se fosse rimasto all’oscuro di tutto. Ma era fondamentalmente convinto che – in qualunque circostanza – sapere è sempre meglio che ignorare. Doveva conoscere la verità, per quanto grande fosse il dolore che comportava. Solo la conoscenza della verità rende gli esseri umani piú forti.
Ancora piú dolorosi di quelle immagini, tuttavia, erano gli sforzi che doveva fare per stare insieme alla moglie come se nulla fosse, senza farle capire che sapeva tutto. Mostrarsi sereno, mentre dentro di sé si sentiva lacerare il petto e ribollire il sangue. Portare avanti con noncuranza le solite attività quotidiane, conversare in modo naturale, fare l’amore con lei nel loro letto. Non era una cosa alla portata di chiunque. Ma Kafuku era un attore professionista. Distaccarsi da sé e immedesimarsi in un ruolo era il suo lavoro. E recitava mettendoci l’anima. Una recita senza spettatori.
Però, a prescindere da questa circostanza – dal fatto, cioè, che lei a volte facesse l’amore di nascosto con altri –, marito e moglie conducevano insieme una vita soddisfacente e tranquilla. Sia l’uno che l’altra erano contenti del loro lavoro e guadagnavano bene. In vent’anni di vita matrimoniale avevano fatto sesso innumerevoli volte, e almeno da parte di Kafuku, sempre con piacere. Dopo che lei era morta – un tumore all’utero se l’era portata via in pochi mesi –, lui aveva incontrato diverse donne e ci era andato a letto. Senza mai ritrovare con loro, però, l’intima gioia che aveva conosciuto con la moglie. Tutto quello che provava era un vago senso di déjà vu, il pallido ricordo di un’esperienza già vissuta.
Per pagare Misaki l’agenzia aveva bisogno dei suoi dati, quindi Kafuku le chiese di annotare il suo indirizzo attuale, il domicilio legale, la data di nascita e il numero della patente. La ragazza viveva in un appartamento nel quartiere di Akabane, nella parte nord di Tōkyō. Era domiciliata nel comune di Kamijūnitaki, nell’Hokkaidō, e aveva appena compiuto ventiquattro anni. Kafuku non sapeva in che parte dell’Hokkaidō si trovasse quella città, quanto fosse grande o cosa facessero gli abitanti. Ma nell’apprendere l’età della ragazza era rimasto colpito.
Kafuku aveva avuto una figlia che era vissuta solo tre giorni. Era morta nel nido della clinica, durante la terza notte, senza nessun preavviso. Il cuore si era fermato, cosí, di colpo. Quando era spuntata l’alba, la neonata non respirava piú. I medici avevano ipotizzato che era nata con un difetto congenito alla valvola cardiaca. Ma non c’era modo di provarlo. D’altronde, conoscere la vera causa della morte non avrebbe riportato in vita la bambina. Per fortuna, o forse per disgrazia, ancora non le avevano messo un nome. Se fosse vissuta, ora avrebbe avuto ventiquattro anni. Nell’anniversario della sua nascita, Kafuku calcolava sempre gli anni trascorsi, e diceva una preghiera, in solitudine.
Per Kafuku e la moglie, perdere la figlia in modo tanto brusco era stato naturalmente un colpo terribile. Sentivano la sua assenza con dolore profondo. Impiegarono molto tempo a riprendersi. Passavano le giornate chiusi in casa, quasi senza parlarsi. Perché qualunque cosa dicessero, sembrava loro senza significato. Lei prese l’abitudine di bere grandi quantità di vino. Lui per un certo periodo si dedicò con singolare passione alla calligrafia. Tracciando ideogrammi sulla carta candida col pennello imbevuto di inchiostro nerissimo, gli pareva di veder sciogliersi a poco a poco il groviglio che aveva nel cuore.
Tuttavia, col reciproco sostegno, gradualmente riuscirono a guarire da quella ferita e a superare quel periodo difficile. E a concentrarsi ancora piú intensamente di prima nelle rispettive carriere. Si dedicavano frenetici alla preparazione dei ruoli che venivano loro assegnati. «Scusami, ma non voglio piú avere figli», disse a Kafuku la moglie. Lui era dello stesso avviso. «D’accordo, farò in modo che non succeda. Se è quello che desideri, per me va bene», rispose.
Era stato a partire da quel momento che sua moglie aveva iniziato ad avere delle relazioni con altri uomini, rifletteva Kafuku ripensando a quel periodo. Poteva darsi che il fatto di aver perso una figlia avesse risvegliato dentro di lei quel bisogno. Ma erano soltanto supposizioni. Era soltanto una possibilità.
– Posso farle una domanda? – gli chiese Misaki.
Kafuku, che stava pensando ai fatti suoi e guardava distrattamente fuori dal finestrino, si voltò sorpreso verso di lei. Erano due mesi che passavano molte ore insieme in macchina, ma Misaki non aveva quasi mai attaccato discorso.
– Certamente, prego, – disse.
– Perché è diventato attore, signor Kafuku?
– Quand’ero all’università, un’amica mi ha invitato a far parte del club di recitazione. In realtà non è che avessi un particolare interesse per il teatro. Avrei voluto entrare nella squadra di baseball. Al liceo me la cavavo abbastanza bene, ero un discreto interbase. Peccato che all’università la squadra fosse di livello ben superiore al mio. Allora mi sono detto che mi conveniva accettare l’invito di quella mia amica. Sono entrato nel gruppo teatrale cosí, tanto per provare, e anche per passare piú tempo con lei. Ma a poco a poco, fra un’interpretazione e l’altra, ho capito che recitare mi piaceva. Quando mi calavo in un ruolo, potevo diventare qualcuno di diverso. E quando finivo di recitare, ritrovare me stesso. Era una sensazione bellissima.
– Cosa? Diventare qualcuno di diverso?
– Sí. Ma solo a condizione di poter tornare indietro.
– Non ha mai provato il desiderio di non tornare?
Kafuku ci pensò un po’ su. Era la prima volta che qualcuno gli faceva una domanda del genere. Nel traffico intenso, avanzavano lentamente lungo l’autostrada metropolitana verso l’uscita di Takebashi.
– Be’, dove altro avrei potuto andare? – disse.
Misaki non fece commenti.
Seguí qualche minuto di silenzio. Kafuku si tolse il berretto da baseball, ne controllò la forma, se lo rimise in testa. La Saab cabriolet stava procedendo accanto a un tir e alla sua serie infinita di ruote. Al confronto, sembrava una fragile barchetta di fianco a un cargo.
– Senta, so che non sono fatti miei, ma c’è una cosa che trovo strana, – proseguí Misaki dopo un po’. – Posso…
– Prego, – fece Kafuku.
– Come mai lei non ha amici?
Kafuku si voltò a guardare la ragazza, che vedeva di profilo, con una certa curiosità.
– Cosa le fa pensare che non ne abbia?
Misaki fece spallucce.
– Quando si porta una persona in macchina ogni giorno per due mesi, certe cose si capiscono.
Kafuku osservò le ruote del tir. A lungo e con grande concentrazione.
– Visto che me lo chiede, è da tanto che non ho dei veri e propri amici, – disse poi.
– Non ne aveva neanche da bambino?
– Da bambino sí. Giocavamo insieme a baseball, andavamo a nuotare… Ma una volta diventato adulto, non ho piú sentito il bisogno di amicizie. Soprattutto da quando mi sono sposato.
– Vuol dire che le bastava sua moglie, che gli amici non erano piú necessari?
– Può darsi. Perché eravamo anche buoni amici, io e lei.
– A che età si è sposato?
– A trent’anni. Ci siamo conosciuti sul set, lavoravamo nello stesso film. Ma lei aveva una parte importante, io un ruolo secondario.
La vettura avanzava a singhiozzo nel traffico. Il tettuccio era chiuso, come sempre quando prendevano l’autostrada.
– Lei non tocca mai un goccio d’alcol, vero? – chiese Kafuku, tanto per cambiare argomento.
– No, sembra che il mio fisico lo rifiuti, – disse Misaki. – Mia madre beveva, abitudine che ha causato tanti guai. Può darsi che c’entri anche questo.
– Beve ancora?
Misaki scosse piú volte la testa.
– È morta. Guidava ubriaca, ha perso il controllo della vettura, è uscita di strada ed è andata a schiantarsi contro un albero. È morta praticamente sul colpo. Io avevo diciassette anni.
– Mi dispiace, – disse Kafuku.
– Se l’è cercata, – fece Misaki freddamente. – Prima o poi doveva capitare, era solo questione di tempo.
Ci fu un altro silenzio.
– E suo padre?
– Non so dove sia. Se n’è andato di casa quando avevo otto anni, e da allora non l’ho piú visto. Né sentito. Mia madre dava sempre la colpa a me.
– Perché?
– Ero figlia unica, e lei diceva che se fossi stata una bella bambina, lui non mi avrebbe mai abbandonata. Non faceva che ripetermelo. Che mi aveva lasciata perché ero brutta.
– Ma lei non è affatto brutta, – disse Kafuku senza incertezze. – Semplicemente a sua madre piaceva pensare che fosse andata cosí.
Misaki si strinse di nuovo nelle spalle.
– Normalmente non lo faceva, ma quando era ubriaca, mia madre era capace di dirmi qualsiasi schifezza. Ripeteva sempre le stesse cose, all’infinito. E mi feriva. So che non è una bella cosa, ma quando è morta, a essere sincera, per me è stato un sollievo.
Questa volta, il silenzio che seguí fu molto piú lungo.
– E lei ne ha, di amici?
Misaki scosse la testa.
– No, non ne ho.
– Come mai?
La ragazza non rispose. Strinse leggermente le palpebre continuando a guardare davanti a sé.
Kafuku chiuse gli occhi pensando di dormire un po’, ma non ci riuscí. Anche se Misaki ogni volta inseriva la marcia con delicatezza, la macchina si fermava e ripartiva tutti i momenti. Nella corsia di fianco, il tir era sempre lí, un po’ piú avanti o un po’ piú indietro, come l’ombra gigantesca del destino.
Kafuku rinunciò a dormire.
– L’ultima volta che mi sono fatto un amico è stata quasi dieci anni fa, – disse riaprendo gli occhi. – Ma forse sarebbe piú esatto dire «qualcosa di simile a un amico». Aveva sei o sette anni meno di me, ed era una brava persona. Bere gli piaceva, per tenergli compagnia bevevo anch’io, e intanto parlavamo di tante cose.
Misaki annuí lievemente. Aspettava il seguito della storia. Dopo qualche esitazione, Kafuku si decise a raccontare.
– Le dirò la verità, quell’uomo per un certo periodo era andato a letto con mia moglie. Ma ignorava che io lo sapessi.
Qualche secondo, il tempo di mandare giú quell’informazione, poi Misaki chiese:
– Vuole dire che quell’uomo faceva sesso con sua moglie?
– Esattamente. Ha fatto sesso con lei diverse volte, per tre o quattro mesi, credo.
– E come è venuto a saperlo?
– Be’, non è stata lei a dirmelo, naturalmente, ma io l’ho capito. Ora spiegarle sarebbe troppo lungo. Ma è una cosa di cui sono certo. Non me la sono immaginata.
Mentre erano fermi a un semaforo, Misaki regolò la posizione del retrovisore con entrambe le mani.
– E il fatto che quell’uomo andasse a letto con sua moglie non le ha impedito di diventare suo amico? – chiese.
– Al contrario, – rispose Kafuku. – Ho voluto farmelo amico proprio perché andava a letto con lei.
Misaki non aprí bocca, in attesa che lui continuasse.
– Come spiegarle, volevo… volevo capire. Capire cosa avesse spinto mia moglie a tradirmi con quell’uomo, quale ragione avesse di farlo. Perlomeno all’inizio, la mia motivazione era questa.
Misaki fece un respiro profondo. Sotto la giacca il suo petto si sollevò e scese lentamente.
– Non era una sofferenza, per lei? Starsene a bere e chiacchierare con un uomo che si portava a letto sua moglie?
– Certo che lo era, è ovvio, – disse Kafuku. – Il mio pensiero, anche non volendo, andava sempre lí. Mi tornavano in mente cose che avrei preferito non ricordare. Ma recitavo. Dopotutto era il mio mestiere.
– Diventare un altro personaggio, – disse Misaki.
– Appunto.
– Per ritornare poi nei propri panni.
– Appunto, – ripeté Kafuku. – Ritornare nei miei panni, anche se non ne avevo alcuna voglia. Ma il fatto è che una volta tornati indietro, non si è piú esattamente quelli di prima, non è possibile. È una regola.
Ora cadeva una pioggerella fine fine, Misaki azionò piú volte il tergicristallo.
– Ed è riuscito a capirlo? Il motivo per cui sua moglie andava a letto con quell’uomo?
Kafuku scosse la testa.
– No, non l’ho capito. C’erano alcune qualità che lui aveva, e io no. Cioè… in realtà penso che fossero molte. Ma cosa in particolare avesse attratto mia moglie, non avevo modo di saperlo. Non è che noi agiamo spinti da motivazioni precise. Quando due persone si frequentano, soprattutto un uomo e una donna, come dire…? È una questione piú globale. Piú ambigua, piú arbitraria, piú… piú sofferta.
Misaki rifletté qualche secondo su quelle parole.
– Non è riuscito a capire, però ha continuato a essere amico di quell’uomo, vero?
Di nuovo Kafuku si tolse il berretto e questa volta lo posò sulle ginocchia. Si strofinò il cranio col palmo della mano.
– Vede… il fatto è che quando si inizia a recitare una parte, è difficile trovare il momento giusto per smettere. Per quanto stressante sia, finché la recita non trova il suo senso, un senso compiuto, non la si può interrompere. È come nella musica, una melodia non è completa se non si conclude con la nota dominante… Capisce quello che voglio dire?
Misaki prese una Marlboro dal pacchetto e se la mise fra le labbra, ma non l’accese. Non succedeva mai che fumasse quando il tettuccio della macchina era chiuso. Si contentava di tenere la sigaretta fra le labbra.
– E nel frattempo, quell’uomo continuava ad andare a letto con sua moglie?
– No, questo no, – disse Kafuku. – Non ce l’avrei fatta a sostenere un ruolo cosí difficile! Sono diventato amico di quell’uomo poco dopo la morte di lei.
– Ma gli era veramente amico? Oppure era soltanto una recita, nulla di piú?
Kafuku rifletté.
– Entrambe le cose, – disse. – Io stesso non riuscivo piú a distinguere il confine. Ma recitare sul serio significa proprio questo.
A Kafuku quell’uomo era rimasto simpatico fin dal primo incontro. Si chiamava Takatsuki. Alto, un bel viso, interpretava spesso la parte del seduttore. Aveva da poco superato la quarantina e nel suo mestiere non si poteva dire eccellesse. Non avendo una forte personalità, poteva sostenere una varietà limitata di ruoli. Di solito gli affibbiavano quello dell’affascinante uomo di mezza età. Sempre sorridente, un’ombra di malinconia a offuscargli ogni tanto il volto. Caratteristiche che conquistavano le spettatrici anziane. Kafuku lo aveva incontrato per caso nella sala d’attesa degli studi televisivi. Takatsuki, sapendo che sua moglie era morta sei mesi prima, si era avvicinato, si era presentato e gli aveva fatto le sue condoglianze. Gli aveva detto con aria contrita che una volta aveva lavorato con lei in un film, e che lei era stata molto affabile. Kafuku aveva ringraziato. Per quel che ne sapeva, cronologicamente Takatsuki era l’ultimo degli uomini con cui sua moglie era andata a letto. Poco dopo la fine di quella relazione, lei aveva fatto delle analisi all’ospedale e aveva scoperto di avere un tumore all’utero a uno stadio già avanzato.
– Avrei una richiesta da farle, – disse Kafuku una volta terminati i convenevoli.
– Di cosa si tratta?
– Se lei è d’accordo, vorrei rubarle un po’ del suo tempo. Potremmo bere qualcosa insieme, e lei magari potrebbe raccontarmi cosa ricorda di mia moglie… Mia moglie parlava spesso di lei.
A quella proposta inattesa, Takatsuki parve stupito. Anzi, inquieto. Sollevò un poco le sopracciglia dalla forma elegante e posò su Kafuku uno sguardo circospetto. Come se si chiedesse se non ci fosse qualcosa sotto. Ma non riuscí a leggere sul suo viso nessun secondo fine. Kafuku aveva assunto l’espressione pacata che ci si aspetta da un uomo che ha perso da poco la moglie, dopo aver passato con lei tanti anni della sua vita. La superficie di un lago che ritrova la quiete quando si placano le onde.
– Vorrei solo parlare di mia moglie con qualcuno che l’ha conosciuta, – insistette Kafuku. – Sono sempre in casa da solo, e a dire la verità, a volte è dura. Ma se sono importuno, signor Takatsuki…
Takatsuki si tranquillizzò: Kafuku non sembrava essere al corrente della sua relazione.
– No, non è affatto importuno! Le dedico tutto il tempo che vuole, – disse. – Se si accontenta di un interlocutore sprovveduto come me… – Sorrise, rughe gentili apparvero agli angoli degli occhi. Un sorriso davvero affascinante. Se Kafuku fosse stato una donna di mezza età, sarebbe di sicuro arrossito.
Takatsuki ripassò mentalmente la sua agenda.
– Potremmo vederci domani sera, parlare con calma. Per lei andrebbe bene?
Kafuku rispose di sí, era libero anche lui. Questo Takatsuki è una persona piuttosto trasparente, pensava intanto con stupore. Il suo sguardo rispecchiava senza ambiguità il suo pensiero. Sembrava non avere né tortuosità né malizia. Insomma, non era il tipo da scavare nottetempo una buca profonda, e aspettare zitto zitto che qualcuno passando ci cadesse dentro. Decisamente, non sarebbe mai stato un bravo attore.
– Dove vuole che ci incontriamo? – chiese Takatsuki.
– Decida lei. Qualsiasi posto per me va bene, – rispose Kafuku.
Takatsuki fece il nome di un noto bar di Ginza. Riservando un séparé, avrebbero potuto parlare in santa pace, senza timore di essere ascoltati, disse. Kafuku sapeva dove si trovava quel locale. I due uomini si salutarono con una stretta di mano. La mano di Takatsuki era morbida, le sue dita lunghe e affusolate. Il palmo era leggermente umido, come se avesse sudato. Forse a causa della tensione.
Rimasto solo, Kafuku sedette su una poltrona della sala d’attesa, aprí la mano destra e la osservò. La sensazione lasciata dalla mano di Takatsuki, da quel palmo e quelle dita che avevano accarezzato il corpo nudo di sua moglie – accarezzato lentamente, dalla testa ai piedi –, era ancora lí, vivida. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Cosa cercava, con quella manovra, cosa voleva ottenere? Comunque fosse, ormai non poteva tirarsi indietro.
Nella quiete del séparé, mentre sorseggiava il suo whisky di malto, Kafuku capí una cosa: Takatsuki era ancora innamorato di sua moglie. E non era ancora riuscito ad accettare la realtà: lei era morta e il suo corpo era ridotto in cenere e ossa. Era un sentimento che Kafuku conosceva bene. Mentre parlavano di lei, notava che a tratti gli occhi di Takatsuki si velavano di lacrime. Tanto che, vedendolo in quello stato, provava quasi l’impulso di confortarlo battendogli sulla spalla. Quest’uomo non riesce a nascondere i suoi sentimenti, pensò. Basterebbe che gli dessi l’abbrivio, e finirebbe col confessare ogni cosa. Dai discorsi di Takatsuki, Kafuku comprese che a metter fine alla loro relazione era stata lei. «Forse è meglio che non ci vediamo piú», gli aveva probabilmente detto, e non l’aveva mai piú cercato. Per quel che ne sapeva Kafuku, le storie d’amore di sua moglie – ammesso che si potessero chiamare cosí – seguivano tutte lo stesso schema: incontri che si susseguivano per alcuni mesi e poi cessavano in modo netto e definitivo. Peccato che Takatsuki, impreparato all’idea di separarsi da lei tanto bruscamente, a quanto pareva avesse sperato in un legame piú duraturo.
Quando il tumore era giunto all’ultimo stadio e sua moglie era stata ricoverata fra i malati terminali, Takatsuki aveva chiesto di farle visita, ma anche quella volta lei gli aveva opposto un netto rifiuto. Lí, all’ospedale, non voleva vedere quasi nessuno. A parte il personale medico, nella sua stanza ammetteva solo la madre, la sorella e Kafuku. Takatsuki sembrava rimpiangere che non gli fosse stato concesso di incontrarla almeno un’ultima volta. Aveva saputo della sua malattia solo poche settimane prima che morisse. La notizia era stata uno shock, e ancora adesso non riusciva a rassegnarsi. Kafuku capiva bene quello che provava. Però non si poteva dire che i loro sentimenti fossero gli stessi. Kafuku aveva visto sua moglie consumarsi giorno dopo giorno, al crematorio aveva raccolto ciò che restava di lei. Aveva superato la fase dell’accettare o meno la realtà. Ed era una differenza importante.
Sembra quasi che sia io a consolare lui, si diceva Kafuku mentre con Takatsuki si scambiavano tanti ricordi. Se mia moglie potesse vederci, che effetto le farebbe? A quell’idea provava una strana sensazione. Ma i morti con ogni probabilità non avevano piú né pensieri né sensazioni… Dal suo punto di vista, era uno dei vantaggi della morte.
Quella sera Kafuku capí un’altra cosa di Takatsuki: beveva troppo. Nel suo ambiente professionale, di etilisti ne incontrava tanti – perché mai gli attori erano quasi tutti degli alcolizzati? –, e pensava che si dividessero in due categorie: quelli che bevevano per acquisire qualcosa, e quelli che bevevano per liberarsi di qualcosa. Takatsuki apparteneva chiaramente al secondo gruppo, ed era una reazione naturale e tutto sommato positiva.
Di cosa cercasse di liberarsi, Kafuku non lo sapeva. Forse della propria debolezza, forse della ferita ricevuta in passato. Oppure di problemi presenti che lo assillavano. O tutte queste cose insieme. In ogni caso, dentro di lui c’era qualcosa che «potendo, avrebbe voluto dimenticare», e per dimenticarlo, o per sfuggire al dolore che gli procurava, doveva bere. Nel tempo che Kafuku ci metteva a vuotare un bicchiere, lui ne scolava due o tre. Un ritmo impressionante.
A meno che il motivo non fosse la tensione. In fin dei conti, Takatsuki si trovava di fronte al marito di una donna con cui un tempo aveva avuto una relazione clandestina. Sarebbe stato strano che non fosse teso. Ma non doveva essere la sola ragione. Fondamentalmente, quell’uomo non riusciva a moderarsi nel bere, pensò Kafuku (che invece seguiva il proprio ritmo, mentre lo teneva d’occhio). Vedendo che man mano che beveva Takatsuki sembrava rilassarsi, gli chiese se avesse famiglia. Lui rispose che era sposato da dieci anni, e aveva un figlio di sette. Ma che per diverse ragioni l’anno precedente si era separato dalla moglie. Probabilmente in tempi molto brevi avrebbe divorziato, e si preparava ad affrontare il problema dell’affidamento del bambino. Voleva a tutti i costi ottenere di poter vedere suo figlio quando gli pareva. Aveva bisogno di lui. Ne mostrò la foto a Kafuku: era un bambino molto carino, dall’aria giudiziosa.
Come la maggior parte degli alcolizzati, Takatsuki diventava piú loquace a ogni bicchiere che beveva. Raccontava quello che non avrebbe dovuto, e che nessuno desiderava sentire. Ormai Kafuku, che aveva assunto il ruolo dell’ascoltatore, lo incoraggiava, e se riteneva il caso di consolarlo, gli diceva qualche parola per rincuorarlo. E intanto cercava di raccogliere quante piú informazioni poteva. Si comportava come se provasse per Takatsuki una gran simpatia. Cosa che, essendo una persona che sapeva ascoltare, non gli riusciva affatto difficile, lo trovava davvero simpatico. Inoltre i due uomini avevano qualcosa di molto importante in comune: sia l’uno che l’altro continuavano a essere innamorati di una donna affascinante ormai scomparsa. Nessuno dei due era riuscito a superare quella perdita, quindi, malgrado avessero avuto con la defunta dei rapporti di natura molto diversa, avevano tante cose da dirsi.
– Se è d’accordo, signor Takatsuki, potremmo vederci di nuovo. Mi ha fatto veramente piacere parlare con lei. Sa, era da tanto tempo che non provavo qualcosa di simile, – disse Kafuku al momento di separarsi. Aveva già provveduto a pagare le consumazioni. Perché il pensiero che in quel bar qualcuno dovesse regolare il conto non sembrava sfiorare Takatsuki. Evidentemente l’alcol gli faceva dimenticare tante cose. Anche cose importanti, forse.
– Certamente, – disse Takatsuki sollevando il viso dal bicchiere. – Spero proprio di vederla ancora, ci tengo. Ora che ho parlato con lei, anch’io mi sento molto piú sollevato.
– In questo nostro incontro vedo la mano del destino, – disse Kafuku. – Chissà che non sia stata mia moglie a farci avvicinare.
E in un certo senso era vero.
Si scambiarono il numero di cellulare, si salutarono con una stretta di mano.
Fu cosí che divennero amici. Compagni di bevute ben affiatati. Si telefonavano, si davano appuntamento in qualche bar della città, e fra un sorso e l’altro discorrevano tranquillamente. Ma non succedeva mai che cenassero insieme, andavano sempre e solo al bar. Non una sola volta Kafuku vide Takatsuki servirsi degli stuzzichini che accompagnavano le ordinazioni. Al punto che si chiedeva se quell’uomo mangiasse, ogni tanto. E a parte qualche birra occasionale, ordinava solo whisky, whisky di malto.
I due uomini parlavano di tanti argomenti, ma gira e rigira il discorso finiva sempre sulla defunta. Kafuku raccontava episodi della giovinezza di lei, Takatsuki ascoltava con espressione compunta, quasi raccogliesse materiale per un libro di memorie. Kafuku si rese conto di gustare quelle conversazioni.
Una sera si trovavano in un piccolo bar di Aoyama. Un locale che non dava nell’occhio, in una viuzza sul retro del museo Nezu. Il barista era un uomo taciturno sulla quarantina. Su uno scaffale, acciambellato in un angolo, dormiva sempre un gatto grigio, piuttosto magro. Un gatto randagio approdato in quel bar per caso. Vecchi dischi di jazz giravano sul piatto dello stereo. Sia a Kafuku che a Takatsuki quell’atmosfera piaceva, erano già stati in quel locale diverse volte. Per qualche ragione misteriosa, quasi sempre pioveva, quando si vedevano, e anche quella sera cadeva una pioggerella leggera.
– Era veramente una donna straordinaria, – disse Takatsuki guardando le proprie mani, che teneva posate sul ripiano del tavolino. Mani belle, per un uomo che aveva superato la mezza età. Poche rughe, unghie ben curate. – È stato molto fortunato, signor Kafuku, a sposare una donna cosí, a vivere con lei. Di sicuro era un uomo felice.
– Sí, ha ragione, – disse Kafuku. – Probabilmente ero felice. Ma è proprio la felicità a portare la sofferenza, a volte.
– Cioè? Che genere di sofferenza?
Kafuku fece girare i grossi pezzi di ghiaccio nel suo bicchiere di whisky con acqua.
– Il timore di perderla un giorno. Solo a immaginare quest’eventualità, provavo un dolore in petto.
– Sí, so bene cosa vuol dire, – fece Takatsuki.
– Lo sa?
– Be’… – Takatsuki esitava, cercava le parole giuste. – Perdere una donna meravigliosa come lei…
– Parlando in generale?
– Sí, certo, – disse Takatsuki, poi annuí diverse volte, come per convincere se stesso. – È una cosa che posso soltanto immaginare.
Kafuku taceva. Prolungò al massimo, al limite estremo, quel silenzio.
– In conclusione, però, l’ho persa, – disse infine. – L’ho persa poco per volta mentre era ancora in vita, e poi del tutto. Come se venisse lentamente erosa, finché è stata trascinata via, con tutte le radici, da una grande onda. Capisce cosa voglio dire?
– Credo di sí.
No, questo non lo puoi sapere, pensò Kafuku.
– La cosa piú dolorosa, per me, – proseguí, – è che non sono riuscito a capirla, o perlomeno a capire una parte importante di lei. E adesso che è morta, so che probabilmente non la capirò mai, e me ne andrò cosí. Lasciando un piccolo scrigno sepolto in fondo al mare. A questo pensiero, mi si stringe il cuore.
Takatsuki rifletté sulle parole che aveva appena sentito.
– Sí, signor Kafuku, – disse poi, – ma chi è che può capire del tutto un’altra persona? Anche amandola profondamente.
– Abbiamo vissuto insieme per vent’anni, eravamo una coppia molto unita, e al tempo stesso eravamo amici, avevamo fiducia uno nell’altra. Ci dicevamo apertamente qualsiasi cosa. Perlomeno, era quello che pensavo. Ma forse non era cosí. Come spiegarle… è possibile che ci fosse in me un angolo cieco a cui non potevo sfuggire.
– Un angolo cieco… – ripeté Takatsuki.
– Non sono riuscito a vedere qualcosa di molto importante nella sua personalità. O forse l’ho visto, senza darvi il giusto peso.
Takatsuki si morse le labbra, poi vuotò d’un fiato il bicchiere e chiese al barista un altro whisky.
– So bene cosa vuol dire, – fece Takatsuki.
Kafuku lo guardò dritto in faccia. Takatsuki per un po’ sostenne il suo sguardo, poi distolse gli occhi.
– Come fa a saperlo? – chiese in tono pacato Kafuku.
Il barista portò un altro whisky con ghiaccio, sostituí il sottobicchiere bagnato con uno nuovo. In sua presenza i due uomini rimasero in silenzio.
– Come fa a saperlo? – ripeté Kafuku quando il barista si fu allontanato.
Takatsuki rifletté a lungo. Nei suoi occhi qualcosa vacillava. Quest’uomo sta esitando, pensò Kafuku. Sta combattendo strenuamente contro il desiderio di confessare. Alla fine però Takatsuki non cedette.
– Il fatto è che noi non possiamo capire fino in fondo cosa pensa una donna, non crede? – finí col rispondere. – Volevo dire solo questo. Mi riferivo alle donne in genere. Quindi non è solo in lei che esiste un angolo cieco, non mi sembra, perlomeno. Se la sensazione di cui mi ha parlato la consideriamo un angolo cieco, l’abbiamo tutti, ci accompagna per tutta la vita. Quindi farebbe meglio a non sentirsi in colpa, signor Kafuku.
– Sí, ma lei sta generalizzando, – disse Kafuku dopo averci pensato un po’ su.
– Ha ragione, – ammise Takatsuki.
– Io sto parlando di mia moglie e di me. Preferirei evitare le facili generalizzazioni.
Takatsuki tacque a lungo.
– A mio parere, – disse poi, – sua moglie era davvero una donna straordinaria. Naturalmente quello che io so di sua moglie non è nemmeno un centesimo di quello che sa lei, signor Kafuku, però sono convinto di quello che le sto dicendo. Comunque stiano le cose, lei deve essere grato di aver passato vent’anni della sua vita con una donna cosí. Lo penso sinceramente. Per quanto ci sia comprensione reciproca con una persona, per quanto la si ami, non si può leggere nel cuore di qualcun altro come in un libro aperto. Se ci proviamo, andiamo incontro solo a sofferenza. Ma se cerchiamo di guardare nel nostro cuore, se ci sforziamo davvero di farlo, alla fine ci riusciremo, questo sí. Quindi, in conclusione, quello che dobbiamo fare è venire a patti col nostro cuore. Se desideriamo davvero capire qualcuno, possiamo soltanto guardare dentro noi stessi. Questo è ciò che penso.
Quelle parole sembravano emergere da qualche luogo situato nel profondo dell’uomo che si chiamava Takatsuki. Solo per qualche istante, una porta nascosta si era socchiusa per lasciar uscire la voce della sua anima. Era chiaro che non stava recitando. Non ne sarebbe stato capace, non era tanto bravo. Kafuku lo guardò in silenzio negli occhi. Lui questa volta non distolse lo sguardo. Si scrutarono a lungo. E negli occhi l’uno dell’altro videro una luce. Una luce come lo sfavillio di una stella distante.
Quando si salutarono, si strinsero la mano. Fuori piovigginava. Takatsuki, che indossava un impermeabile beige, aprí l’ombrello e si allontanò nella pioggia, mentre Kafuku, come faceva sempre, rimase a osservare la propria mano. Pensando, come faceva sempre, che quella di Takatsuki aveva carezzato il corpo nudo di sua moglie.
Quella considerazione, tuttavia, non gli procurò l’usuale senso di oppressione. Sono cose che possono succedere, si limitò a pensare. In fin dei conti, si trattava soltanto del suo corpo, ormai tutto quel che ne restava era qualche osso e un po’ di cenere, si ripeteva Kafuku come per farsene una ragione. C’erano sicuramente cose che contavano di piú. Quello era forse il suo angolo cieco, doveva ammetterlo, ma lo avevano tutti, un angolo cieco.
Le parole di Takatsuki gli restarono a lungo nelle orecchie.
– Siete rimasti amici per molto tempo? – chiese Misaki guardando la fila di macchine davanti a loro.
– Circa sei mesi, fra una cosa e l’altra… Piú o meno ogni due settimane ci davamo appuntamento in qualche bar e bevevamo insieme, – rispose Kafuku. – Poi ho smesso di vederlo. Lui mi ha chiamato, ma io ho preferito ignorarlo. Né da parte mia l’ho piú cercato. Cosí anche lui ha finito col non telefonarmi piú.
– Gli sarà parso molto strano.
– Forse.
– Può anche darsi che ne sia rimasto ferito.
– Sí, può darsi.
– Come mai tutt’a un tratto non ha piú voluto vederlo?
– Perché non era piú necessario recitare.
– E non essendo piú necessario recitare, non aveva piú bisogno di essergli amico?
– C’era anche questa ragione, – disse Kafuku. – Ma non è tutto.
– Cioè?
Kafuku rimase a lungo in silenzio. Misaki, la sigaretta sempre fra le labbra, ogni tanto gli lanciava un’occhiata.
– Se ha voglia di fumare, fumi pure, – le disse Kafuku.
– Come?
– Può accenderla.
– Anche se il tettuccio è chiuso?
– Non importa.
Misaki abbassò il vetro e con l’accendisigari della macchina si accese la Marlboro. Aspirò profondamente il fumo, gli occhi socchiusi. Lo tenne per un po’ nei polmoni, poi lo soffiò lentamente fuori dal finestrino.
– Potrebbe esserle fatale, lo sa? – le disse Kafuku.
– Be’, se è per questo, la vita stessa è un rischio fatale.
Kafuku rise.
– È un modo di vedere le cose, – ammise.
– Non l’avevo mai vista ridere, signor Kafuku, – disse Misaki.
– Già, ora che mi ci fa pensare, forse è vero. A parte quando recito, mi succede raramente di ridere, – rispose lui. – Senta, è da un bel po’ che voglio dirglielo: a guardarla bene, lei è piuttosto carina. Non è affatto brutta.
– La ringrazio. Neanch’io penso di essere brutta. Semplicemente non sono bella. Come Sonia, – disse Misaki.
Sorpreso, Kafuku si voltò a guardarla.
– Ha letto Zio Vania? – le chiese.
– Lei ne recita ogni giorno dei brani presi a caso qua e là, cosí mi è venuta voglia di conoscere la storia intera. Sono una persona curiosa, – disse Misaki. – «Ah, che brutta cosa non essere bella! È terribile! E io lo so di non essere bella, lo so, lo so…» È un’opera molto triste.
– Una storia senza speranza, – disse Kafuku. – «Oh Dio mio… Ho quarantasette anni; se, putacaso, arrivo ai sessanta, me ne restano ancora tredici. È lunga! Come li vivo questi tredici anni? Che cosa ci faccio, come li riempio?»1. All’epoca la gente viveva in media una sessantina d’anni. Lo zio Vania poteva ritenersi fortunato di non essere nato oggi…
– Ho fatto una piccola verifica. Lei ha la stessa età di mio padre.
Kafuku non rispose. Prese in silenzio alcune cassette e passò in rassegna i titoli scritti sull’etichetta. Ma non ne infilò nessuna nello stereo. Misaki teneva la sigaretta accesa fuori dal finestrino. La metteva per un momento fra le labbra solo quando doveva cambiare marcia, per avere la mano libera. Intanto la fila di vetture avanzava lentamente.
– Per dirle tutta la verità, avevo pensato di punire quell’uomo. Quell’uomo che era andato a letto con mia moglie, – riprese Kafuku col tono di chi fa una confessione, mentre rimetteva al loro posto le cassette.
– Di punirlo?
– Di farlo soffrire in qualche modo, soffrire terribilmente. Conquistarne la fiducia fingendomi amico, trovare il suo punto debole, e colpirlo proprio lí.
Misaki corrugò la fronte, pensando al significato di quelle parole.
– Un punto debole? Quale, ad esempio?
– Non sono riuscito a scovarlo. Ad ogni modo era uno che quando beveva abbassava la guardia, e questo mi avrebbe permesso di inventare qualcosa. Me ne sarei servito per far scoppiare uno scandalo – non è molto difficile imbastire una storia che screditi una persona –, in conseguenza del quale gli avrebbero tolto l’affidamento del figlio nella causa di divorzio. Un colpo cui lui non avrebbe retto. Non si sarebbe piú ripreso.
– Che brutto programma.
– Sí, bruttissimo.
– Voleva vendicarsi di lui perché era andato a letto con sua moglie?
– Vendicarmi? No, non è esatto, – disse Kafuku. – Ma non riuscivo a dimenticare. Mi sforzavo, mi sforzavo davvero, di non pensarci piú. Non serviva a nulla! Vedevo sempre mia moglie nelle braccia di lui. Una visione che tornava di continuo, come un fantasma che non trova pace e resta attaccato a un angolo del soffitto, a controllare quello che succede in basso… Dopo che mia moglie è morta, mi dicevo che col tempo questa sensazione mi avrebbe finalmente abbandonato. Invece no, era sempre presente. Anzi, era piú forte e vivida di prima. Avevo bisogno di liberarmene. E a questo scopo dovevo sciogliere qualcosa dentro di me, qualcosa che somigliava tanto alla collera.
Chissà perché, si chiese Kafuku, sto raccontando tutte queste cose a questa ragazza che viene da Kamijūnitaki nell’Hokkaidō, e che ha l’età che avrebbe mia figlia. Eppure, una volta iniziato, non riusciva piú a fermarsi.
– Cosí ha pensato di punire quell’uomo, – disse Misaki.
– Esatto.
– Però in pratica non ha fatto nulla.
– No. Nulla, – disse Kafuku.
A quelle parole Misaki sembrò tranquillizzarsi. Tirò una boccata di fumo, poi gettò la sigaretta ancora accesa dal finestrino. Forse è una cosa che a Kamijūnitaki fanno tutti, pensò Kafuku.
– Non saprei spiegarle il perché, ma tutto a un tratto quella storia perse importanza. Come se una maledizione si fosse sciolta, – disse. – Non provavo piú collera. O forse non si trattava veramente di collera, ma di qualcos’altro.
– Be’, tanto di guadagnato per lei, su questo non ci sono dubbi. Cioè, il fatto che non abbia ferito nessuno, in alcun modo.
– Sí, lo penso anch’io.
– Però non ha mai capito perché sua moglie abbia fatto sesso con quell’uomo, e perché proprio con lui.
– No, non l’ho capito. È un dubbio che mi porto ancora dentro. Era un uomo simpatico, e anche franco. E amava davvero mia moglie. Non se l’era portata a letto solo per divertirsi. La sua morte gli ha causato uno shock profondo. E il rifiuto di lei di farlo entrare nella stanza, quando era andato all’ospedale per vederla un’ultima volta, lo faceva ancora soffrire. Non potevo impedirmi di pensare che fosse una cara persona, tanto che avrei anche potuto essergli davvero amico.
Kafuku fece una pausa per seguire il corso delle sue emozioni. Cercava le parole per avvicinarsi il piú possibile alla verità.
– Però, a dire il vero, non era un individuo di grande valore. Probabilmente aveva un buon carattere. Era un bell’uomo e aveva un sorriso affascinante. E perlomeno non era un superficiale. Ma non era il genere di persona che infonde rispetto. Era sincero, ma mancava di spessore. Aveva molte debolezze, e come attore non valeva granché. Mia moglie al contrario era una donna forte, e di grande profondità spirituale. Poteva passare molto del suo tempo a riflettere. Allora perché si è innamorata di quell’uomo da poco, perché è finita nelle sue braccia? Questa domanda mi tormenta ancora adesso, è una spina nel fianco.
– Vuole dire che la sente come un insulto nei suoi confronti?
Kafuku ci pensò su.
– Sí, può darsi, – ammise.
– Ma sa, forse sua moglie non era affatto innamorata di lui, – disse Misaki con molta semplicità. – Per questo ci è andata a letto.
Kafuku si voltò a guardare Misaki, come se osservasse un paesaggio lontano. Lei azionò piú volte il tergicristallo per pulire il parabrezza. Le lame nuove facevano contro il vetro un rumore stridente, come strilli di bambini capricciosi.
– Sono cose che a volte le donne fanno, – aggiunse Misaki.
Kafuku non sapeva cosa rispondere.
– È un tipo di comportamento per cosí dire patologico, signor Kafuku. Non è qualcosa che si possa controllare razionalmente. Anche mio padre che ci ha lasciate, e mia madre che mi trattava male, lo hanno fatto perché erano squilibrati. Arrovellarsi su cose del genere non serve a niente. Tutto quel che possiamo fare è cercare di sopravvivere, mandare giú e andare avanti.
– Allora tutti dobbiamo recitare?
– Sí, piú o meno è cosí.
Kafuku si sistemò bene sul sedile e chiuse gli occhi per concentrarsi su una cosa sola, cogliere il momento in cui Misaki cambiava marcia, ma non ci riuscí. Tutto avveniva in modo troppo morbido e sicuro di sé. Alle sue orecchie arrivava solo una leggera variazione nel ronzio del motore, come se sentisse un insetto andare e venire.
Pensò di dormire un poco. Farsi un sonnellino breve ma profondo. Dieci o quindici minuti. Poi sarebbe di nuovo salito sul palco. Avrebbe recitato la sua parte sotto i riflettori. Il pubblico avrebbe applaudito, e sarebbe calato il sipario. Per un determinato lasso di tempo sarebbe diventato un’altra persona, per tornare poi a essere se stesso. Non esattamente quello di prima, tuttavia.
– Faccio un sonnellino, – disse.
Misaki non rispose. Continuò a guidare senza parlare. Kafuku le fu grato di quel silenzio.
1 Anton Čechov, Zio Vania, traduzione di Luigi Lunari, Rizzoli, Milano 2008 [N.d.T.].