mercoledì 16 ottobre 2024

ZIO VANJA Anton Čechov




ZIO VANJA
 

Anton Čechov

Recensione 

Una storia complessa, che racconta l’intreccio delle vite di  nove personaggi appartenenti ad una famiglia medio borghese.

Vanja è appesantito dall’età che avanza e dalle delusioni che la vita gli ha riservato. Si rende conto di aver sprecato una vita intera per dedicarsi agli interessi di un uomo vile e mediocre come il professore. 

Il senso di vuoto, il disagio e l’imbarazzo che  vengono espressi dai protagonisti, creando un’atmosfera malinconica che coinvolge il pubblico e lo invita a riflettere sul senso della propria esistenza.

Vengono affrontati temi come il distacco generazionale che genera incomprensioni tra padri e figli, l’alcolismo per dimenticare una vita infelice, la noiosa quotidianità che rende l’uomo schiavo. Disillusione e rammarico sono  sentimenti che traspaiano. Quelli di Vanja che ha ammirato e dedicato tutto il suo lavoro al cognato, il Professore. Oggi scopre che è un mediocre, che non ha concluso nulla e che è vissuto alle sue spalle. Zio Vanja ha rinunciato alle sue aspirazioni per questo ed ora non c’è più tempo!

Delusione e dolore per Sonja che vede davanti a se una vita dedicata solo al lavoro, al dovere e priva di amore.

Delusione ed insofferenza del dottore Astrov che si trova a dover tornare ai meschini malanni dei suoi pazienti. Persa la possibilità di una storia d’amore. Sembra aver perso anche quell’amore da misantropo rivolto tutto alla natura ai boschi.

Ognuno di loro è costretto a fare i conti con la vita condotta finora e i risultati che ne traggono più o meno tutti è di aver sprecato il tempo fino ad ora, ma anche che non c’è più tempo per cambiare rotta.

Tutto questo senza un banale lieto fine, ma attraverso la consapevolezza che solo il duro lavoro può riscattare un’esistenza senza senso.

Recensione

Angelo Maria Ripellino

Il personaggio principale di Zio Vanja (1896) non è Zio Vanja, ma il Professore. La fittizia rispettabilità, la goffaggine, l’abito e il cerimoniale a sproposito dànno a Serebrjakòv un carattere di sussiegoso pagliaccio. Il suo primo ingresso («Fa caldo, c’è afa, e il nostro grande scienziato ha il cappotto, le calosce, l’ombrello e i guanti») si può considerare un’autentica «entrée» clownesca. Ai nostri occhi egli appare contiguo talvolta ad uno dei Fratellini1, talvolta ai grassoni maligni delle comiche chapliniane. Il giuoco col plaid, l’attrezzería di medicali boccette, i pomposi sermoni, il «si faccia fare una nuova fotografia», con cui Maria Vasílievna prende da lui congedo: molti elementi concorrono a porre in risalto la ridicolezza da circo di questa «tinca sapiente», di questo trombone, che immagino enorme testa asinina, adornata dal fiotto di una capelliera rigogliosa e rossiccia.


Con la sua consueta avversione per gli attivisti e i campioni di falsa sollecitudine Čèchov si ingegna di renderlo inviso. A contrasto con le parole rivolte da Marina a Telèghin: «Tutti noi siamo parassiti di Dio», – nell’accomiatarsi da Àstrov, egli dirà con fasulla prosopopea: «Bisogna agire, signori! Bisogna agire!» Questo «agire», slogan di alacrità e di arroganza, che la vecchia Maria Vasílievna, ammiratrice di Serebrjakòv, ha fatto suo, è l’opposto, s’intende, del «lavorare», a cui Zio Vanja si appiglia per vincere la disperazione.


Capriccioso, lagnoso, dispotico, incline a impartire precetti e a stercorare le altrui fatiche col proprio egoismo, rimasticatore di idee rubacchiate, bramoso di sciorinare discorsi da gran baccelliere infrascati di frasi da vento e pensieri manchi di peso, come «Appendete, per cosí dire, le vostre orecchie al chiodo dell’attenzione», – il Professore appartiene alla vasta famiglia dei gretti santoni e dei barbassori che imbrigliano le aspirazioni degli uomini. Àstrov ubriaco vorrebbe che Telèghin sonasse la chitarra, ma non si può, perché «in casa dormono». La stessa notte Elèna Andrèevna è presa dal desiderio di mettersi al pianoforte ma «non si può», perché il Professore «sta male»: «la musica lo irrita». Il «non si può», mormorato da Sonja lugubremente alla fine del secondo atto, sembra significare l’inevitabile soggezione dell’uomo, la sua desolata inabilità a frantumare le imposizioni, i soprusi.


Pedantaccio disutile, il Professore invade, non solo la villa, ma l’intero universo con l’incubo della sua Podagra da baraccone. Al secondo atto, di notte, in antítesi col temporale che refrígera il creato, la Podagra di Serebrjakòv lièvita e cresce carnevalesca, proterva, fantasma di insonnia, quasi mutandosi in un madornale feticcio autonomo, in emanazione del Professore, suo infetto prolungamento che soffoca la parentela.


Sembra a tratti che il Signor Podagra, il pagliaccio gottoso continui in un certo senso Trigòrin. Perdigiorno che schicchera pecoreschi trattati con idee mariolate ad autori diversi, trattati che legge forse soltanto la vecchia Maria Vasílievna, il Professore vende fumo come Trigòrin e anche lui è incalzato dall’ansia di scrivere. Durante l’insonnia pensa con insistenza al volume di Bàtjusckov, del quale avrà bisogno il giorno dopo. Da quel che dice Zio Vanja, il cui piglio collerico verso il Professore assomiglia all’atteggiamento di Trepliòv verso Trigòrin, si ha l’impressione che le sue ricerche («insegna e scrive di arte, senza capirne nulla») siano oziose e superflue, come di uno che si diverta a studiare le scaglie morte dei pesci, il deretano delle lucciole. Anche lui dunque come Trigòrin è incalzato dall’ansia di scrivere, di riempir carta da porre a squarcio a squarcio sulle unte bilance del pizzicarolo. Come Trigòrin anche lui ha abbindolato con la propria fama posticcia una giovane donna. Ma è curioso: se, nel Gabbiano, la vicenda di Nina appare a Trigòrin un «soggetto per un breve racconto», qui è la biografia del clown-professore a sembrare a Zio Vanja un «soggetto magnifico».


Non va dimenticato che anche nei drammi Čèchov immette momenti e figure da vaudeville. Come i personaggi dei suoi vaudevilles, nel folto dell’aspra contesa con Serebrjakòv al terzo atto, Zio Vanja beve acqua. Direttamente dal circondario vaudevillico proviene Telèghin, il bonaccione sputasentenze, l’ottimista soddisfatto e svampito. Il soprannome Vàflja (da «Waffel»), Cialdone, non si riferisce soltanto alla faccia butterata, ma anche alla sua sostanza di buon diavolaccio, di buona pasta, di pecora da pastura.


Egli è rassegnato alla propria bruttezza vaiolosa e alla condizione presente di mangiaufo, e ha persino accettato con sopportazione il tradimento della moglie, educandone i figli. «Il tempo è meraviglioso, gli uccellini cantano, noi tutti viviamo in pace e concordia»: cosí afferma Telèghin, pieno di beatitudine: ma Čèchov si affretta a capovolgere, a mettere in burla quelle frasi raggianti. Poco dopo, di notte, si scatenerà la bufera, ed Elèna Andrèevna dirà due volte: «Non c’è armonia in questa casa». Quegli «uccellini» rimangono il simbolo di una melensa bonomía, di un impossibile amiamoci-tutti, come piú tardi, nel teatro di Suleržickij e Vachtàngov, il «grillo del focolare».


Le pappolate scolastiche, le ciarle a vànvera di Telèghin sul tempo sereno, sull’infedeltà, sulla devozione alla scienza (quando si innesta a sproposito nel concitato dialogo come un «contre-pitre» di Serebrjakòv) sono indici di grullería vaudevillesca, ma anche sferzate di assurdità e di «nonsense», che accrescono la desolazione. La battuta in cui Telèghin paragona il diverbio tra il Professore e Zio Vanja ad un quadro di Ajvazòvskij, pittore di paesaggi marittimi, si fonda, sebbene in chiave grottesca, sullo stesso principio della dissonanza e dello scarto semantico, che ispira la sconfortata, straziante battuta di Àstrov sull’Africa, – principio al quale Čèchov spesso ricorre in Zio Vanja, per dilatare la magia dell’incongruo.


I personaggi di Zio Vanja costituiscono una consortería di bislacchi. Il tema del «bislacco» è impostato da Àstrov al primo atto: «attorno a te solamente bislacchi, nient’altro che bislacchi» e ripreso da lui al quarto atto, là dove, a Zio Vanja che si considera pazzo, urla: «Sei un arcibuffone», aggiungendo che «la condizione normale dell’uomo» è «di esser bislacco».


I confini tra questi termini sono del resto assai labili. Dal bislacco al buffone, e lo si vede soprattutto nella figura di Zio Vanja, il passo è breve. Il Professore dirà di Àstrov che è un «mentecatto», ma Àstrov in fondo si mostra superbo della sua qualità di bislacco e ritiene di non esser tale soltanto quando ha bevuto. Il suo sproloquio sulle foreste si chiude con l’osservazione: «tutto ciò probabilmente è una bislacchería in fin dei conti».


Nei personaggi maschili di questo dramma la bislacchería è cosí radicata, che tutti (Àstrov, Zio Vanja, Telèghin, Serebrjakòv) potrebbero, come le figure del Godot di Beckett, portare strampalate bombette. Ma nemmeno le donne sfuggono a questa sorte. Sonja è anche lei una bislacca, con quella sua fede dolciastra da suffragetta e zitella e con quei premurosi discorsi da Esercito della Salute. Alcuni segni esteriori e particolari dell’abbigliamento palesano la stravaganza: gli «enormi mustacchi» di Àstrov, vegetazione selvatica, la «cravatta da vagheggino» che indossa Zio Vanja, su cui tanto Čèchov insistette: non stivali unti di grasso, ma una «meravigliosa cravatta»2.


È la banalità filistea che rende bislacchi, la «noiosa, stupida, sudicia» vita della provincia, per cui si aggirano «grigie macchie» e «fisionomie sonnolente». Il lavoro rispecchia il ristagno, l’accídia della Russia nello scorcio dell’Ottocento. «Ricordo bene – scrisse Mandel′štàm – gli anni sordi della Russia: gli anni Novanta, il loro lento strisciare, la loro tranquillità malaticcia, il loro profondo provincialismo – la quieta insenatura: estremo rifugio di un secolo morente»3. Ma il tema della bislaccheria assume un valore piú ampio, significando la condizione comune dell’uomo, che gli affanni e la squallidezza dell’esistenza a grado a grado tramutano in un eccentrico.


Per quanto esacerbato e nevrotico possa essere Zio Vanja, per quanto vicino a Trepliòv nella sua irrequietudine, con in piú il rammarico per la vita sciupata, – tuttavia emana da lui una pagliacceria, che a tratti fa pensare persino a quella dei buffoni dostoevskiani. In realtà, sebbene appartenga con Sonja alla categoria degli angeli, ha qualcosa di appiccicaticcio, di strisciante, di untuoso. Il suo sconforto e la sua umiliazione non impediscono che in certi momenti ci appaia guitto e quasi verme. Sono indicative certe sue uscite da ipocrita come: «E va bene, chiedo scusa» oppure «Su, su, gioia mia, mi perdoni».


Nel terribile scontro con quel fiele di Serebrjakòv, per il quale egli è solo una «nullità senza uguali», in quel gloglottare di paperi, Zio Vanja dà a volte nel comico. I suoi sbalzi dallo stupore al sarcasmo e ai sovrattoni di rabbia, l’invocazione alla madre, in cui cerca (come Trepliòv) vanamente consenso, suonano enfatici e striduli, malgrado la verità del dolore che li sottende. E là dove afferma: «Sarei potuto diventare uno Schopenhauer, un Dostoevskij», sembra di risentire il «vraniò», le panzane di un Chlestakòv, quando si vanta di essere amico di Puškin.


Si resta in dubbio se, imbizzarrito, egli voglia sparare davvero sul Professore o se piuttosto non si proponga di mancare il colpo, di incuter paura col suo «bum» all’intera famiglia, paura e nient’altro. E il suo lamento, piú tardi, per avere sparato due volte senza coglier nel segno è forse soltanto simulazione. Il suo dimenío, la sua turbazione del resto si spiegano con lo spasmodico desiderio di donna che lo tortura, perché forse da anni, in quella campagna remota, Zio Vanja con mulieribus non est coinquinato.


Ma il culmine della buffoneria di Zio Vanja è l’attimo in cui egli appare, come uscito da un vaudeville, con un mazzetto di rose, mentre Àstrov bacia Elèna Andrèevna. Con un mazzetto di rose turgheneviane e, può darsi, con striminzita bombetta. Piú tardi, tornando a baciarla, Àstrov dirà con acre irrisione: «prima che entri Zio Vanja con un mazzetto». Eppure quell’uomo umiliato e ridicolo non è lontano dall’Ufficiale in finanziera e cilindro che, nel Sogno (1901) di Strindberg, aspetta infinitamente e senza speranza, con un mazzo di rose che deperiscono, l’inafferrabile cantante Victoria.


Questo lavoro ha una doviziosa provvista di ingenua angelogía, che sovente scade nel melodramma. Quando, parlando della sorella morta, prima moglie del Professore, Zio Vanja la paragona a «puri angeli», ti viene in mente l’«anges purs! anges radieux!» del Faust di Gounod.


Capofila degli angeli è Sonja, macchina di consolazione, figura liliale e sin troppo mansueta, degna di far compagnia alle languide parvenze di Dante Gabriel Rossetti e Fernand Khnopff. Solo pensando che è una bislacca anche lei, si capiscono la sua tirata sulle contrade incantate dal clima soave e in specie quella finale sulla quiete dell’oltretomba. A meno che nella prima non si voglia scorgere un estremo residuo del modo con cui le stampe folcloriche («lubòčnye kartinki») e le lettere russe (ad esempio il settecentesco Coro di Sumaròkov al «mondo volubile») idealizzavano la «zamòrskaja stranà», le felici e senza difetti contrade oltremarine. E nella seconda, con quel «cielo smaltato di diamanti» e quella musica di angeli, un vago riflesso del simbolismo.


Certo, con la filastrocca finale (proiezione nel tempo) Sonja vuole coprire il baratro, il vuoto del «sono partiti» (proiezione nella distanza). Ma alle nostre orecchie essa suona come uno stucchevole fervorino, come il verboso bàlsamo di un’educanda, insomma come una bislacchería. Si vorrebbe rispondere a Sonja con le parole di Plasfodor nella chiusa del secondo atto di una commedia di Witkiewicz, Pragmatyści (I pragmatisti, 1919): «La piú strana cosa che esista è la vita. Non ho affatto bisogno degli oltretomba. L’eternità non riusciremo mai ad approfondirla, e l’oltretomba, se esiste, è soltanto una variazione di ciò che è qui. Non in questo risiede la stranezza dell’essere. Questo è un babau per l’infanzia, una serie di arcani di terza classe, di spettri da seduta di spiriti. Oh, come mi annoia!» Considerando la propensione di Čèchov alle ambiguità, si dovrebbe chiedere a Sonja di immettere una leggera autoironia, un risvolto di dubbio nella sua religione (che è una variante del resto dell’avvenirismo astroviano), nel fortissimo, nel lacrimoso del suo terminale vaneggiamento,


Sdegnata con Zio Vanja, Elèna Andrèevna esclama: «Anche un angelo perderebbe la pazienza». Ma in effetti, a contrasto con Sonja, ella appartiene alla famiglia dei dèmoni, giunti di fuori a sommuovere le acque stagnanti degli angeli.


L’arrivo di Elèna Andrèevna e del Signor Podagra rappresenta l’intrusione della demonía nel torpore di giorni tediosi e monotoni. Essi contagiano la malavoglia di lavorare, distolgono dalle faccende, perché la demonia va d’accordo con l’indolenza. Elèna Andrèevna «ha pigrizia di vivere», «ah, quanta pigrizia», «cammina e barcolla dalla pigrizia». La demonía influisce persino sul nutrimento: da quando c’è il Professore con la consorte, Zio Vanja mangia «ogni sorta di intíngoli». E anche il microcosmo del samovàr, cui presiede un altro angelo, la balia Marina, è sconvolto da quella presenza. Inaudito, il samovàr a notte fonda sta ancora sul tavolo.


Ma il sovvertimento è fugace: dopo il gloglottare dei paperi, dopo il parossismo e la pirotecnica di Zio Vanja, i dèmoni partono, tutto riprende il corso di prima, l’angelogía ha il sopravvento e prorompe nel cantico del «riposeremo». Se i dèmoni invece restassero, «si scatenerebbe», come Àstrov afferma, «un’immensa devastazione».


Che Elèna Andrèevna sia un dèmone è messo in risalto dalle parole con cui la designano gli angeli: Sonja la giudica «un’incantatrice»: «nelle sue vene scorre sangue di rusalca» le dice Zio Vanja. Per l’ambigua bellezza e il demonismo e l’accidía si approssima alle donne dei quadri Art Nouveau. Trapelano a tratti da lei, dalla sua ritenutezza, il rancore di una creatura nauseata del gottoso consorte e insieme il desiderio sessuale.


Nel secondo atto, all’inizio, all’avvicinarsi del temporale notturno, stizzita per la lagna del Professore, chiude la finestra, quasi ad esprimere il soffocamento di quel matrimonio. In modo simile Strindberg, nel Sogno, indica l’asfissía del connubio, facendo incollare con strisce di carta ogni fessura e spiraglio della stanza nuziale. Quando, cessate le smanie del temporale, Elèna Andrèevna spalanca la finestra, il suo oh, il suo nitrito, il suo respirare a pieni polmoni e súbito la domanda: «Dov’è il dottore?» sono il segno, non solo della liberazione da un incubo, ma anche di una vibrante sessualità inappagata.


Cosí un clown e una rusalca perturbano un assopito acquerello. E perciò sembra strano sentire da Elèna Andrèevna: «io sono stata soltanto un personaggio episodico», è strano il suo paragonarsi a Zio Vanja («perché siamo entrambi seccanti e noiosi»), l’accostamento del dèmone all’angelo torbido. Strano, se si ripensa alle sue (sia pur inconsce) manovre per avvincere Àstrov col pretesto di aiutar Sonja, che per lui è come un fantoccio asessuato, se si ripensa che è lei a portare scompiglio. Del resto, come viàtico per l’esistenza, è piú efficace e piú suggestiva una sola frase della rusalca: «Bisogna credere a tutti, altrimenti non si può vivere», che i lunghi discorsi ispirati dell’angelo Sonja.


La bellezza è insidiata dalla banalità. E i maggiori indizi del banale sono sempre per Čèchov il bere, il mangiare, il dormire. Come Nietzsche affermò in Ecce Homo: «Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini». Di questa vita vegetativa si lamenta Elèna Andrèevna, si lamenta Zio Vanja, il quale attribuisce la propria ghiottoneria di cose piccanti alla presenza del Professore. Per la balia Marina la partenza dei dèmoni coincide con la possibilità di mangiare di nuovo i tagliolini, di cui è golosa. Ma nemmeno la rusalca si sottrae alla «fisiología» del banale: «tutto il suo lavoro – come Àstrov asserisce – consiste nel mangiare, dormire, far quattro passi...»


Se ci si impernia su Àstrov, il dramma risulta un’immagine del decadimento della bellezza. Come dice il Poeta nel Sogno di Strindberg, «tutto ciò che è bello deve ora andar giú, giú nel fango». E qui entra in ballo il motivo delle foreste, che sembrano avere in Zio Vanja la funzione del lago nel Gabbiano, una «rêverie» vegetale dopo una lacustre. La tirata di Àstrov sulle foreste è una sorta di virtuosismo monologale, di cantilena incantata, come la commedia in commedia di Nina nel teatrino sul lago. E il senso è questo: che il taglio delle foreste equivale allo sfacelo e alla morte della bellezza.


La parte di Àstrov abbonda di lunghi passaggi lirici, come la descrizione del cartogramma, che sembra, per il brulichío dei colori, mimare un quadro degli impressionisti e i frequenti pronòstici sul lontano avvenire felice, cosí irritanti in un tempo che innalza l’insegna «paradise now». Il debole di Àstrov per le profezie è connesso con la sua índole di bislacco. Vien solo da chiedersi se egli creda davvero nei vaghi, indefinitissimi oròscopi. Il commercio con l’avvenire è prerogativa di tutti i personaggi di Čèchov. Anche la vecchia Maria Vasílievna «cerca nei suoi dotti libri l’aurora di una nuova vita». Anche Zio Vanja, che pure disdegna ogni «filosofia», a un certo punto si mette a tattamellare di un luminoso risveglio. In realtà, con la sua dura esperienza di medico, Àstrov non è uomo da farsi troppe illusioni. Il presente è oscuro, con le foreste che muoiono, con la distrutta bellezza. La felicità nel presente sarebbe per Čèchov un assenso al sopruso della banalità, e perciò bisogna rimandarla al futuro, soffocare con miraggi lo sconforto, anche se è chiaro che fra due-trecento anni non sarà diverso: e l’uomo dovrà sempre uscire dal collo di una bottiglia.


Sebbene sia il piú operoso e il piú pratico, anche Àstrov ha un ramo di stoltizia, un granello di comicità e, in quanto bislacco, pèncola a tratti verso la buffoneria incarnata dal personaggio epònimo. Non occorre idealizzare il suo amore per la «predatrice», la «bella faína piumosa». È una fiammata di paglia, un capriccio, una bramosía passeggera. I personaggi di Zio Vanja non cercano di forzare il destino. Non c’è una Nina che fugga dietro a Trigòrin. Non c’è forse nemmeno bisogno di fantasticare che Elèna Andrèevna, uscita dal dramma, si incontri con Àstrov «a Chàrkov o a Kursk o in qualche altro luogo». Di tutto quel sommovimento resterà alla rusalca soltanto una matita, che ha preso a ricordo della «pittura» di Àstrov, un minuscolo oggetto insignificante a confronto della «devastazione» che la sua demonía stava per scatenare.


Anche in Zio Vanja gli amori si intrecciano come nel Gabbiano: due donne (Elèna Andrèevna, Sonja) amano lo stesso uomo (Àstrov), due uomini (Àstrov, Zio Vanja) amano la stessa donna (Elèna Andrèevna). Ma gli angeli (Sonja, Zio Vanja) non trovano rispondenza sulla terra, e perciò «riposeremo», «riposeremo». Prepotenza dei vecchi: legata al carro pesante della Podagra, Elèna Andrèevna non si sottrae all’oppressione dello stantío Professore. Ma Nina, al contrario, dispregia la giovinezza innamorata, Trepliòv, per correre dietro al molliccio quarantacinquenne Trigòrin.


Le variazioni meteorologiche e l’alternativa di giorno e notte hanno significato simbolico in questo dramma. All’afa, al beltempo dell’inizio fa riscontro alla fine una lacerante mestizia autunnale, con desolata melodía di congedi e avvisaglie del lungo letargo del prossimo inverno. Il beltempo è la superficie, l’esteriorità sorridente, e del resto «con un tempo simile – afferma Zio Vanja – sarebbe bello impiccarsi».


Gli odii, i conflitti, le turbolenze d’amore deflagrano col temporale nella Notte della Podagra, notte insonne, scandita dalla domanda «Che ora è?», che picchia ossessiva come i numeri della tombola nel Gabbiano e l’«ein, zwei, drei» di Charlotta nel Giardino dei ciliegi. La fine del temporale, che ha intriso di ozono la soffocante atmosfera, scacciando il tanfo della Podagra professorale, suscita nelle due donne un inattuabile desiderio di musica. E, cose se vi fosse un rapporto tra i fili di pioggia e le lacrime, quel desiderio di musica si accompagna a un presagio di pianto. Ma «non si può». «Non si può». Lo vieta la gabelliera arroganza del vecchio sapiente.


Nelle due notti, al secondo e al quarto atto, balenano fiammelle di candele. Tanto piú inquietante sarà quel balenío, quanto piú nuda e piú irreale la scenografia. Vi sono fantasmi in Zio Vanja. Ad Àstrov riappare l’operaio morto sotto il cloroformio. Zio Vanja intravede nel vólto di Sonja l’effigie della sorella defunta. È spettrale il «pio, pio, pio», con cui Marina chiama la chioccia e i pulcini, perché «non li rapiscano i corvi».


Čèchov accresce l’attività dell’incongruo, le irradiazioni spettrali, articolando sovente le battute in due tempi discordi e díssoni, con uno stacco che è come un fulmíneo perdere quota, con una sorta di salto nel vuoto, con una vertiginosa caduta semantica. Esempio-chiave il momento in cui Àstrov, nella notte autunnale, nella casa deserta e mestissima, perché il pandemònio si è spento e i dèmoni sono partiti, – dopo aver accennato alla necessità di passare dal maniscalco, di punto in bianco prorompe, guardando la carta dell’Africa: «Ma in quest’Africa adesso chissà che caldo terribile!»


La lontananza dell’Africa tòrrida, l’immensità della Russia aggricciata, «una gabbia con uno storno», solitudine, fiévole luce, l’inverno che si avvicina, e un’angoscia che stringe come un nodo scorsoio. E la chitarra. E la bislacchería dei due angeli intenti a preparare assurde fatture come bàlsami consolatori. E l’irrisione di quel fervorino tombale. Dio mio!



ANGELO MARIA RIPELLINO


1 Cfr. TRISTAN RÉMY, Les Clowns, Paris 1945, pp. 212-37.


2 Cfr. KONSTANTIN STANISLAVSKIJ, Moja žizn′ v iskusstve (1924), Moskva 1962, p. 284.


3 OSIP MANDEL′ ŠTAM, Šum vremeni (1925).


ZIO VANJA 

Personaggi

Aleksàndr Vladímirovič Serebrjakòv, professore in pensione

Elèna Andrèevna, sua moglie, ventisette anni

Sòfja Aleksàndrovna (Sonja), figlia di primo letto di Serebrjakòv

Maria Vasílievna Vojnízkaja, vedova di un consigliere segreto, madre della prima moglie del professore

Ivàn Petròvič Vojnízkij, suo figlio

Michaíl Lvòvič Àstrov, medico

Iljà Ilíč Telèghin, possidente impoverito

Marina, la vecchia balia

Un garzone

L’azione si svolge nella villa di Serebrjakòv.

ATTO PRIMO

Un giardino. Se ne vede una parte, con una terrazza. Nel viale, sotto un vecchio pioppo, una tavola apparecchiata per il tè. Panche, sedie, su una panca una chitarra. Non lontana dalla tavola un’altalena. Le tre del pomeriggio. Nuvolo. Marina, vecchietta flaccida e pesante, siede accanto al samovàr e sferruzza. Àstrov cammina.


MARINA (riempie un bicchiere) Sèrviti, tesoro.


ÀSTROV (prende di mala voglia il bicchiere) Non mi va troppo.


MARINA Berresti forse un po’ di vodka?


ÀSTROV No. Non bevo vodka ogni giorno. E poi con quest’afa. (Pausa). Balia, da quanto tempo ci conosciamo?


MARINA (riflettendo) Da quanto? Dio mio, la memoria... Tu sei giunto qui, in queste contrade... quando?... era ancora viva Vera Petròvna, la madre di Sònečka. Quando era viva, venisti da noi per due inverni... Vuol dire che sono passati undici anni. (Dopo aver meditato) E forse anche piú...


ÀSTROV Sono cambiato molto da allora?


MARINA Molto. Allora eri giovane, bello, e adesso sei invecchiato. E la bellezza non è piú quella. E, diciamolo pure, ti piace la vodka.


ÀSTROV Sí... In dieci anni sono diventato un altro uomo. E qual è la causa? Mi sono troppo affaticato, balia. Dal mattino alla notte sempre in piedi, non conosco riposo e, di notte, sotto le coltri sto con la paura che vengano a trascinarmi da qualche malato. Da quando ci conosciamo non ho avuto un giorno libero. Come non invecchiare? E la vita stessa è noiosa, stupida, sudicia... Risucchia questa vita. Attorno a te solamente bislacchi, nient’altro che bislacchi. E se vivi con loro due-tre anni, a poco a poco tu stesso, senza avvedertene, diventi un bislacco. Inevitabile sorte. (Attorcigliandosi i lunghi mustacchi) Enormi mustacchi mi sono cresciuti... Stupidi mustacchi. Sono diventato un bislacco, balia... Quanto a istupidire, non sono ancora istupidito, grazie a Dio, il cervello è al suo posto, ma i sentimenti si sono alquanto affievoliti. Non voglio niente, non ho bisogno di niente, non amo nessuno... Forse solo a te voglio bene. (La bacia sulla testa) Da bambino avevo una simile balia.


MARINA Vuoi mangiare?


ÀSTROV No. La terza settimana di Quaresima sono andato a Malízkoe per un’epidemia... Tifo petecchiale... Nelle isbe la gente ammucchiata... Sudiciume, fetore, fumo, i vitelli sul pavimento assieme ai malati... I porcellini pure... Mi affannai tutto il giorno, senza sedermi, senza toccar cibo e, quando giunsi a casa, non mi diedero tregua: mi portarono dalla ferrovia un deviatore. Lo adagiai sul tavolo, per operarlo, e lui mi muore sotto il cloroformio. Ed ecco, quando non era piú necessario, si svegliarono in me i sentimenti, e la coscienza prese a rimordermi, come se di proposito lo avessi ucciso... Mi sedetti, chiusi gli occhi, ecco cosí, e pensai: coloro che vivranno dopo di noi fra cento-duecento anni e per cui adesso noi apriamo la strada ci ricorderanno con una parola buona? Balia, è vero che non ci ricorderanno?


MARINA Gli uomini no, ma in cambio sarà Dio a ricordarci.


ÀSTROV Grazie. Hai parlato bene.


VOJNÍZKIJ (entra dalla casa: ha dormito a lungo dopo la colazione e ha un aspetto gualcito. Si siede su una panca, si raccomoda la cravatta da vagheggino) Sí... (Pausa). Sí...


ÀSTROV Hai dormito abbastanza?


VOJNÍZKIJ Sí... Molto. (Sbadiglia) Da quando abita qui il professore con la sua consorte, la vita è uscita dai binari... Dormo a contrattempo, a colazione e a pranzo mangio ogni sorta di intíngoli, bevo vino... è malsano tutto questo! Prima non c’era un minuto libero, io e Sonja lavoravamo, e come, mentre adesso lavora solo Sonja, ed io dormo, mangio, bevo... Non va bene!


MARINA (scrollando la testa) Bel sistema! Il professore si alza alle dodici, e il samovàr bolle sin dal mattino, aspettandolo. Quando non c’erano, si pranzava sempre all’una, come in tutte le famiglie, e adesso che ci sono loro, alle sette. Di notte il professore legge e scrive, e all’improvviso verso le due il campanello... Che succede, Dio mio! Il tè! Sveglia la gente per lui, riscalda il samovàr... Bel sistema!


ÀSTROV E resteranno ancora a lungo?


VOJNÍZKIJ (fischietta) Cento anni. Il professore ha deciso di stabilirsi qui.


MARINA Vedi, anche adesso. Il samovàr è già da due ore sulla tavola, e loro sono andati a passeggio.


VOJNÍZKIJ Vengono, vengono... Non ti agitare.


Si sentono voci. Dal fondo del giardino, tornando dalla passeggiata, vengono Serebrjakòv, Elèna Andrèevna, Sonja e Telèghin.


SEREBRJAKÒV Magnifico, magnifico... Vedute stupende.


TELÈGHIN Straordinarie, eccellenza.


SONJA Domani andremo nella foresta demaniale, papà. Vuoi?


VOJNÍZKIJ Signori, il tè!


SEREBRJAKÒV Amici miei, mandatemi il tè nello studio, per favore! Oggi ho ancora qualcosa da sbrigare.


Elèna Andrèevna, Serebrjakòv e Sonja si ritirano in casa. Telèghin va verso la tavola e si siede accanto a Marina.


VOJNÍZKIJ Fa caldo, c’è afa, e il nostro grande scienziato ha il cappotto, le calosce, l’ombrello e i guanti.


ÀSTROV Vuol dire che si riguarda.


VOJNÍZKIJ Ma com’è bella lei! Com’è bella! Nell’intera mia vita non ho visto donna piú bella.


TELÈGHIN Se vado per i campi, Marina Timofèevna, se passeggio nel giardino ombroso, se guardo questa tavola, io provo un’ineffabile beatitudine! Il tempo è meraviglioso, gli uccellini cantano, noi tutti viviamo in pace e concordia. Che cosa ci manca? (Accettando un bicchiere) Le sono sentitamente grato!


VOJNÍZKIJ (fantasticando) Gli occhi... Una donna stupenda!


ÀSTROV Racconta qualcosa, Ivàn Petròvič.


VOJNÍZKIJ (fiaccamente) Che cosa?


ÀSTROV Non c’è niente di nuovo?


VOJNÍZKIJ Niente. Tutto vecchio. Io sono sempre lo stesso e forse peggiore, perché mi sono impigrito, non faccio niente e soltanto borbotto come un vecchio barbogio. La mia vecchia cornacchia, maman, balbetta sempre di emancipazione femminile: con un occhio guarda la tomba e con l’altro cerca nei suoi dotti libri l’aurora di una nuova vita.


ÀSTROV E il professore?


VOJNÍZKIJ Il professore come al solito se ne sta dal mattino a tarda notte nel suo studio a scrivere. «Odi scriviamo sussiegosi e assorti: – mai una lode però che ci conforti». Povera carta! Scrivesse piuttosto la propria autobiografia. Che soggetto magnifico! Un professore in pensione, capisci, un vecchio pedante, una tinca sapiente... Podagra, reumatismi, emicrania, il fegato gonfio per la gelosia e per l’invidia... Abita, questa tinca, nella tenuta della prima moglie, vi abita di mala voglia, perché abitare in città non è per la sua tasca. Eternamente si lagna dei suoi malanni, sebbene, in sostanza, sia straordinariamente fortunato. (Con tono nervoso) Pensa un po’ che fortuna! Figlio di un semplice sagrestano, seminarista, ha fatto la carriera accademica e ottenuto la cattedra, è diventato eccellenza, genero di un senatore, eccetera eccetera. Tutto ciò non ha importanza del resto. Ma ascolta. Quest’uomo esattamente da venticinque anni insegna e scrive di arte, senza capirne nulla. Da venticinque anni rimastica le idee altrui sul realismo, sul naturalismo e simili frottole. Da venticinque anni insegna e scrive ciò che agli intelligenti è ormai noto da tempo e per gli stupidi non è interessante: vuol dire che da venticinque anni blàtera a vànvera. E tuttavia che presunzione! Che pretese! È andato in pensione, e non c’è anima viva che lo conosca, è del tutto sconosciuto: vuol dire che per venticinque anni ha occupato il posto di un altro. Eppure guarda: incede come un feticcio!


ÀSTROV Tu lo invidi, mi pare.


VOJNÍZKIJ Sí, lo invidio! E che successo con le donne! Nessun dongiovanni ha conosciuto un cosí pieno successo! La prima moglie, mia sorella, bella e mite creatura, pura come questo cielo azzurro, nobile, generosa e piú ricca di ammiratori che lui di scolari, lo amava cosí come solo i puri angeli possono amare esseri puri e belli come loro. Mia madre, sua suocera, lo adora ancor oggi e ancor oggi egli le incute un sacro terrore. La seconda moglie, bella ed intelligente, l’avete vista or ora, lo sposò già vecchio, sacrificandogli la giovinezza, la bellezza, la libertà, il proprio brio. Perché? Per quale ragione?


ÀSTROV È fedele al professore?


VOJNÍZKIJ Sí, purtroppo.


ÀSTROV Perché «purtroppo»?


VOJNÍZKIJ Perché questa fedeltà è falsa dal principio alla fine. È piena di retorica, ma priva di logica. Tradire il vecchio marito che non puoi sopportare è immorale. Sforzarsi di soffocare in se stessi la povera giovinezza e il vivo sentimento non è immorale.


TELÈGHIN (con voce piagnucolosa) Vanja, non mi piace, quando parli cosí. Perché, vedi... chi tradisce la moglie o il marito è sleale e può tradire anche la patria.


VOJNÍZKIJ (con stizza) Tappa la fontana, Cialdone!


TELÈGHIN Permetti, Vanja. Mia moglie mi scappò con l’amico due giorni dopo il matrimonio a causa del mio aspetto disavvenente. Ma non per questo ho mancato al mio dovere. Io l’amo ancora e le sono fedele, l’aiuto come posso e ho dedicato tutto il mio patrimonio all’educazione dei bambini che ha messo al mondo col suo amico. Ho perduto la felicità, ma mi è rimasto l’orgoglio. E lei? La giovinezza è ormai passata, sotto l’influsso delle leggi di natura la bellezza è sfiorita, l’amico è morto... Che cosa le è rimasto?


Entrano Sonja e Elèna Andrèevna. Poco dopo entra Maria Vasílievna con un libro: si siede e legge, le servono il tè, beve senza alzare lo sguardo.


SONJA (in fretta, alla balia) Balia, sono venuti i contadini. Va’ tu a parlare con loro, al tè penso io... (Versa il tè).


La balia esce. Elèna Andrèevna prende la sua tazza e beve, sedendo sull’altalena.


ÀSTROV (a Elèna Andrèevna) Sono qui per suo marito. Lei ha scritto che è molto malato, reumatismi e non so che altro, e invece sta bene.


ELÈNA ANDRÈEVNA Ieri sera era di cattivo umore, si lagnava per il dolore alle gambe, e oggi niente...


ÀSTROV Ed io ho galoppato a rotta di collo per trenta verste. Non fa niente, non è la prima volta. In compenso resterò da voi sino a domani e almeno potrò dormire quantum satis.


SONJA Benissimo. È cosí raro che lei pernotti da noi. Scommetto che non ha pranzato.


ÀSTROV No, non ho pranzato.


SONJA E allora pranzerà assieme a noi. Adesso pranziamo alle sette. (Beve) Il tè è freddo!


TELÈGHIN La temperatura del samovàr si è notevolmente abbassata.


ELÈNA ANDRÈEVNA NON IMPORTA, IVÀN IVÀNYČ, LO BERREMO ANCHE FREDDO.


TELÈGHIN Mi scusi, signora... Non Ivàn Ivànyč, ma Iljà Ilíč... Iljà Ilíč Telèghin, ovvero, come alcuni mi chiamano a causa del mio viso butterato, Cialdone. Un tempo ho tenuto a battesimo Sònečka, e sua eccellenza il suo consorte mi conosce molto bene. Adesso vivo in casa sua, in questa tenuta, signora... Se si è compiaciuta di notarlo, pranzo ogni giorno con voi.


SONJA Iljà Ilíč è il nostro aiutante, il braccio destro. (Teneramente) Dia qui, padrino, gliene verserò ancora.


MARIA VASÍLIEVNA Ah!


SONJA Che c’è, nonna?


MARIA VASÍLIEVNA Ho dimenticato di dirlo ad Aleksàndr... ho perduto la memoria... ho ricevuto oggi una lettera da Chàrkov, da Pàvel Aleksèevič... Mi ha mandato un suo nuovo opuscolo...


ÀSTROV Interessante?


MARIA VASÍLIEVNA Interessante, ma alquanto strano. Cònfuta ciò che ha difeso sette anni or sono. È terribile!


VOJNÍZKIJ Non c’è niente di terribile. Beva il tè, maman.


MARIA VASÍLIEVNA Ma io voglio parlare!


VOJNÍZKIJ Sono già cinquant’anni che parliamo e parliamo e leggiamo opuscoli. Sarebbe tempo di finirla.


MARIA VASÍLIEVNA Chissà perché ti dà fastidio ascoltare, quando parlo. Scusami, Jean, ma nell’ultimo anno sei cosí cambiato, che non ti riconosco affatto... Eri un uomo di precise convinzioni, una personalità luminosa...


VOJNÍZKIJ Oh sí! Ero una personalità luminosa, che non illuminava nessuno... (Pausa). Ero una personalità luminosa... Non si può far dello spirito piú velenoso! Adesso ho quarantasette anni. Sino all’anno passato anch’io come lei a bella posta mi sforzavo di annebbiare i miei occhi con questa sua scolastica, per non vedere l’autentica vita, – e pensavo di far bene. Ora invece, se sapesse! La notte non dormo dalla stizza, per il rammarico di essermi lasciato scappare il tempo in cui avrei potuto avere tutto ciò che adesso mi rifiuta la mia vecchiaia!


SONJA Zio Vanja, che noia!


MARIA VASÍLIEVNA (al figlio) È come se tu incolpassi le tue convinzioni di prima... Non esse sono colpevoli, ma tua è la colpa. Hai dimenticato che le convinzioni in sé non valgono nulla, sono lettera morta... Bisognava agire.


VOJNÍZKIJ Agire? Non tutti sono capaci di trasformarsi in uno scrivente moto perpetuo, come il suo Herr Professor.


MARIA VASÍLIEVNA Che vuoi dire con questo?


SONJA (supplichevole) Nonna! Zio Vanja! Vi supplico!


VOTNÍZKIJ Non parlo piú. Non parlo piú e chiedo scusa.


Pausa.


ELÈNA ANDRÈEVNA Bel tempo oggi... Non fa caldo...


Pausa.


VOJNÍZKIJ Con un tempo simile sarebbe bello impiccarsi...


Telèghin accorda la chitarra. Marina va accanto alla casa e chiama le galline.


MARINA Pio, pio, pio...


SONJA Balia, che volevano i contadini?...


MARINA È sempre la stessa storia, di nuovo per quella sterpaia. Pio, pio, pio...


SONJA Chi stai chiamando?


MARINA La chioccia si è allontanata coi pulcini... Che non li rapiscano i corvi... (Esce).


Telèghin suona una polca. Tutti ascoltano in silenzio. Entra un garzone.


GARZONE Il signor dottore è qui? (Ad Àstrov) Scusi, Michaíl Lvòvič, son venuti a cercarla.


ÀSTROV Da dove?


GARZONE Dalla fabbrica.


ÀSTROV (con stizza) Questo ci voleva. Ebbene, bisogna andare... (Cerca con gli occhi il berretto) Fa rabbia, che diavolo...


SONJA È davvero spiacevole... Dalla fabbrica venga a pranzare.


ÀSTROV No, sarà già tardi. Macché... Macché... (Al garzone) Senti, mio caro, portami un bicchierino di vodka. (Il garzone esce). Macché... macché... (Ha trovato il berretto) In una commedia di Ostrovskij c’è un uomo con grandi mustacchi e piccole attitudini... Quello sono io. Bene, ho l’onore, signori... (A Elèna Andrèevna) Se una volta o l’altra farà un salto da me assieme a Sòfja Aleksàndrovna, sarò sinceramente contento. Ho una minuscola tenuta, in tutto trenta desjatíne, ma, se la interessa, un giardino modello e un vivaio, che non ha uguali per mille verste all’intorno. Accanto a me è la foresta demaniale... Il guardaboschi è vecchio, sempre malato, sicché, in sostanza, sono io ad occuparmi di tutto.


ELÈNA ANDRÈEVNA Mi hanno già detto che lei ama molto le foreste. Certo, ciò può arrecare grandi vantaggi, ma non disturba la sua vera vocazione? Lei è un dottore.


ÀSTROV Solo Dio sa quale sia la nostra vera vocazione.


ELÈNA ANDRÈEVNA Ma è interessante?


ÀSTROV Sí, interessante.


VOJNÍZKIJ (CON IRONIA) Molto!


ELÈNA ANDRÈEVNA (ad Àstrov) Lei è ancora giovane, non le si dànno... piú di trentasei-trentasette anni... e mi sembra che tutto questo non sia cosí interessante come lei dice. Sempre foreste e foreste. Dev’esser monotono.


SONJA No, è straordinariamente interessante. Michaíl Lvòvič ogni anno pianta nuove foreste, e ha già ottenuto una medaglia di bronzo e un diploma. Si adopera perché quelle antiche non siano sterminate. Se lo ascolterà, sarà pienamente d’accordo con lui. Egli dice che le foreste abbelliscono la terra, che insegnano all’uomo a capire il bello e gli ispirano un umore maestoso. Le foreste addolciscono il clima rigido. Nelle contrade in cui il clima è dolce si sciupano meno energie nella lotta con la natura, e perciò l’uomo che vi abita è piú dolce e piú tenero. Gli uomini di quelle contrade sono belli, flessuosi, facilmente emotivi, il loro linguaggio è squisito, i movimenti graziosi. Tra loro fioriscono le scienze e le arti, la loro filosofia non è lugubre, si comportano verso le donne con elevatezza squisita...


VOJNÍZKIJ (ridendo) Brava, brava!... Tutto ciò è piacevole, ma non persuasivo, per cui (ad Àstrov) permettimi, amico mio, di continuare ad accender le stufe con la legna e di costruire rimesse di legno.


ÀSTROV Tu puoi accender le stufe con la torba, e le rimesse costruirle di pietra. Va bene, lo ammetto, abbatti foreste, se è necessario, ma perché sterminarle? Le foreste russe scricchiano sotto l’ascia, periscono miliardi di alberi, sono devastati i rifugi delle bestie e degli uccelli, si insabbiano e seccano i fiumi, scompaiono senza rimedio meravigliosi paesaggi, e tutto questo perché all’uomo indolente manca il buon senso di ricavare dalla terra il combustibile. (A Elèna Andrèevna) Non è vero, signora? Bisogna essere barbari sconsiderati, per ardere nella propria stufa questa bellezza, per distruggere ciò che noi non possiamo foggiare. L’uomo è dotato di intelligenza e di forza creativa per moltiplicare ciò che gli è dato, sinora però egli non ha creato, ma distrutto. Le foreste si fanno sempre piú rade, i fiumi si seccano, la selvaggina si è estinta, il clima è guastato, e di giorno in giorno la terra diventa sempre piú povera e piú brutta. (A Vojnízkij) Tu mi guardi con ironia, e tutto ciò che io dico ti sembra futile, e... e forse in effetti è una bislacchería. Ma quando passo vicino alle foreste contadine che ho salvato dal taglio fraudolento o quando sento stormire la mia giovane foresta piantata dalle mie mani, io mi accorgo che il clima è un poco anche in mio potere e che se fra mille anni l’uomo sarà felice, ne avrò un poco anch’io la colpa. Quando pianto una betullina e la vedo poi verdeggiare e cullarsi al vento, l’anima mia si riempie di orgoglio, ed io... (Avendo visto il garzone, che ha portato su un vassoio un bicchierino di vodka) Mah... (Beve) devo andarmene. Tutto ciò probabilmente è una bislacchería in fin dei conti. Ho l’onore di salutarvi! (Si avvia verso la casa).


SONJA (lo prende sotto braccio e si avvia assieme a lui) Quando tornerà a trovarci?


ÀSTROV Non so...


SONJA Di nuovo fra un mese?...


Àstrov e Sonja si ritirano in casa. Maria Vasílievna e Telèghin restano accanto alla tavola. Elèna Andrèevna e Vojnízkij vanno verso la terrazza.


ELÈNA ANDRÈEVNA Ma lei, Ivàn Petròvič, si è comportato di nuovo in un modo impossibile. C’era proprio bisogno di irritare Maria Vasílievna, di parlare del moto perpetuo? E oggi a colazione ha bisticciato di nuovo con Aleksàndr. Com’è meschino tutto questo!


VOJNÍZKIJ Ma se lo detesto!


ELÈNA ANDRÈEVNA Non c’è ragione di detestarlo, è come tutti gli altri. Non peggiore di lei.


VOJNÍZKIJ Se lei potesse vedere il proprio viso, i propri movimenti... Quanta pigrizia di vivere c’è in lei! Ah, quanta pigrizia!


ELÈNA ANDRÈEVNA Ah, pigrizia e noia! Tutti biasimano mio marito, tutti mi guardano con compassione: sfortunata, ha un marito vecchio! Questa simpatia per me: oh, come la capisco! È proprio cosí come ha detto or ora Àstrov: voi rovinate sconsideratamente le foreste, e presto sulla terra non resterà nulla. Con la stessa sconsideratezza rovinate l’uomo, e presto grazie a voi sulla terra non resteranno né fedeltà né purezza né abnegazione. Perché non può vedere con indifferenza una donna che non sia sua? Perché in tutti voi, ha ragione il dottore, siede il dèmone della distruzione. Non avete pietà né delle foreste né degli uccelli né delle donne né l’uno dell’altro.


VOJNÍZKIJ Non mi piace questa filosofia!

Pausa.

ELÈNA ANDRÈEVNA Il dottore ha uno stanco viso nervoso. Un viso interessante. A Sonja piace, è evidente, ne è innamorata, ed io la capisco. Da quando abito qui è già venuto tre volte, ma io sono timida e non ho conversato con lui come avrei dovuto, non gli ho fatto buona accoglienza. Avrà pensato che io sia cattiva. Probabilmente noi due, Ivàn Petròvič, siamo cosí amici appunto perché siamo entrambi seccanti e noiosi! Seccanti! Non mi guardi cosí, non mi piace.

VOJNÍZKIJ Posso guardarla diversamente se l’amo? Mia felicità, mia vita, mia giovinezza! Lo so, le probabilità che lei mi corrisponda sono minime, uguali a zero, ma io non ho bisogno di nulla, mi permetta soltanto di guardarla, di udir la sua voce...

ELÈNA ANDRÈEVNA Piano, possono sentirla!

Si avviano verso la casa.

VOJNÍZKIJ (dietro di lei) Mi permetta di parlar del mio amore, non mi cacci via, e già questo sarà per me una grandissima felicità...

ELÈNA ANDRÈEVNA Che tortura...

Si ritirano in casa. Telèghin pizzica le corde e suona una polca. Maria Vasílievna annota qualcosa sui margini di un opuscolo.

ATTO SECONDO

Stanza da pranzo in casa di Serebrjakòv. Notte. In giardino un guardiano batte. Serebrjakòv siede in poltrona dinanzi alla finestra aperta e sonnecchia. Elèna Andrèevna gli siede accanto e sonnecchia anche lei.


SEREBRJAKÒV (svegliandosi) Chi c’è? Sonja, sei tu?


ELÈNA ANDRÈEVNA Sono io.


SEREBRJAKÒV Tu, Lènočka... Un dolore insopportabile!


ELÈNA ANDRÈEVNA Il plaid ti è caduto per terra. (Gli avvolge le gambe) Aleksàndr, io chiudo la finestra.


SEREBRJAKÒV No, soffoco... Mi ero appena assopito e ho sognato che la mia gamba sinistra fosse di un altro. Mi sono svegliato per il dolore lancinante. No, non si tratta di podagra, ma di reumatismi. Che ora è?


ELÈNA ANDRÈEVNA Mezzanotte e venti.


Pausa.


SEREBRJAKÒV Domattina cercami in biblioteca Bàtjusckov. Mi sembra che ci sia.


ELÈNA ANDRÈEVNA A?


SEREBRJAKÒV Cercami domattina Bàtjusckov. Ricordo che lo avevamo. Ma perché respiro con tanta fatica?


ELÈNA ANDRÈEVNA Sei stanco. Da due notti non dormi.


SEREBRJAKÒV Dicono che a Turghènev l’angina pectoris gli sia venuta dalla podagra. Ho paura che mi succeda lo stesso. Maledetta, ripugnante vecchiaia. Il diavolo se la porti. Invecchiando, sono diventato ripugnante a me stesso. E per tutti dev’essere ripugnante guardarmi.


ELÈNA ANDRÈEVNA Tu parli della tua vecchiaia con un tono, come se tutti noi avessimo colpa che tu sia vecchio.


SEREBRJAKÒV Sei tu la prima a provare ripugnanza. (Elèna Andrèevna va a sedersi piú lontano). Del resto hai ragione. Non sono stupido e capisco. Sei giovane, sana, bella, vuoi vivere, mentre io sono un vecchio, quasi un cadavere. Ebbene? Vuoi che non lo capisca? Certo, è stupido che io sia ancora vivo. Ma aspettate, presto vi lascerò tutti liberi. Non dovrò trascinarmi ancora a lungo.


ELÈNA ANDRÈEVNA Sono sfinita... Taci per amor di Dio.


SEREBRJAKÒV Ora vien fuori che per causa mia tutti sono sfiniti, si annoiano, rovinano la propria giovinezza. Solo io mi godo la vita e sono contento. Ma certo!


ELÈNA ANDRÈEVNA Taci! Mi stai torturando!


SEREBRJAKÒV Io torturo tutti. Ma certo.


ELÈNA ANDRÈEVNA (tra le lacrime) È insopportabile. Dimmi, che vuoi da me?


SEREBRJAKÒV Niente.


ELÈNA ANDRÈEVNA E allora taci. Ti prego.


SEREBRJAKÒV Strano, se apre bocca Ivàn Petròvič o quella vecchia idiota di Maria Vasílievna, niente, tutti ascoltano, ma basta che io dica una sola parola, perché tutti comincino a sentirsi infelici. Persino la mia voce è ripugnante. Ebbene, ammettiamolo, io sono ripugnante, sono un egoista, sono un dèspota, ma forse nemmeno in vecchiaia ho un certo diritto all’egoismo? Non me lo sono forse meritato? Non ho forse diritto, io vi chiedo, a una vecchiaia tranquilla, al rispetto da parte degli altri?


ELÈNA ANDRÈEVNA Nessuno ti contesta i tuoi diritti. (La finestra sbatte per il vento). Si è alzato il vento, chiudo la finestra. (Chiude) Tra poco pioverà. Nessuno ti contesta i tuoi diritti.


Pausa. In giardino il guardiano batte e canta.


SEREBRJAKÒV Tutta la vita lavorare per la scienza, abituarsi al proprio studio, a un’aula, a colleghi rispettabili – e d’improvviso, di punto in bianco, ritrovarsi in questa cripta, ogni giorno vedere gente stupida, ascoltare discorsi insignificanti... Io voglio vivere, io amo il successo, amo la notorietà, il rumore, e qui mi sento come al confino. Ogni minuto rimpiangere il passato, seguire i successi degli altri, aver paura della morte... Non posso! Non ho forza! E per giunta non mi si vuol perdonare la mia vecchiaia!


ELÈNA ANDRÈEVNA Aspetta, abbi pazienza: tra cinque-sei anni sarò vecchia anch’io.


Entra Sonja.


SONJA Papà, tu stesso hai ordinato di chiamare il dottor Àstrov e, ora che è venuto, ti rifiuti di riceverlo. Non è delicato. Abbiamo disturbato un uomo inutilmente...


SEREBRJAKÒV A che mi serve il tuo Àstrov? Si intende di medicina, come io di astronomia.


SONJA Non si può convocare qui per la tua podagra un’intera facoltà di medicina.


SEREBRJAKÒV Con questo mentecatto non voglio nemmeno parlare.


SONJA Come preferisci. (Si siede) Per me è lo stesso.


SEREBRJAKÒV Che ora è?


ELÈNA ANDRÈEVNA L’una.


SEREBRJAKÒV Si soffoca... Sonja, dammi le gocce che stanno sulla tavola!


SONJA Subito. (Gli porge le gocce).


SEREBRJAKÒV (irritato) Ma non queste! Non si può chiedere niente!


SONJA Ti prego, non fare i capricci. Qualcuno forse ci trova gusto, ma a me risparmiali, per favore! Non li amo. E poi non ho tempo, domattina devo alzarmi presto, c’è la falciatura.


Entra Vojnízkij in veste da camera e con una candela.


VOJNÍZKIJ Si sta addensando un temporale. (Un lampo). Càspita! Hélène, Sonja, andate a dormire, sono venuto a darvi il cambio.


SEREBRJAKÒV (spaventato) No, no! Non mi lasciate con lui! Mi stordirà con le sue chiacchiere.


VOJNÍZKIJ Ma bisogna dar loro un po’ di riposo! Già da due notti non dormono.


SEREBRJAKÒV Vadano pure a dormire, ma anche tu vattene. Ti ringrazio. Ti supplico. In nome della nostra amicizia di prima, non protestare. Converseremo dopo.


VOJNÍZKIJ (con un sorriso beffardo) Della nostra amicizia di prima... Di prima...


SONJA Taci, zio Vanja.


SEREBRJAKÒV (alla moglie) Mia cara, non mi lasciare con lui! Mi stordirà con le sue chiacchiere.


VOJNÍZKIJ La cosa sta diventando persino ridicola.


Entra Marina con una candela.


SONJA Dovresti coricarti, balia. È già tardi.


MARINA Il samovàr è ancora sulla tavola. Non posso coricarmi.


SEREBRJAKÒV Nessuno dorme, tutti sono sfiniti, solo io me la godo.


MARINA (si avvicina a Serebrjakòv, con tenerezza) Che c’è, tesoro? Ti fanno male le gambe? Anche a me ronzano, ronzano, e come. (Gli raccomoda il plaid) È una vecchia malattia, la sua. Vera Petròvna, buon’anima, la madre di Sònečka, fece tante nottate, se ne affliggeva... Molto le voleva bene... (Pausa). I vecchi sono come i bambini, vogliono che qualcuno li compatisca, ma nessuno ha compassione dei vecchi. (Bacia Serebrjakòv sulla spalla) Mettiti a letto, tesoro... Andiamo, luce mia... Ti farò bere un decotto di tiglio, ti riscalderò i piedini... Pregherò Dio per te...


SEREBRJAKÒV (commosso) Andiamo, Marina.


MARINA Anche a me le gambe ronzano, ronzano, e come! (Lo conduce assieme a Sonja) Vera Petròvna sempre se ne affliggeva, piangeva sempre... Tu, Sònjuscka, allora eri ancora piccola, stupida... Vieni, vieni, tesoro...


Serebrjakòv, Sonja e Marina escono.


ELÈNA ANDRÈEVNA Mi sono estenuata a lottare con lui. Non mi reggo piú in piedi.


VOJNÍZKIJ Lei con lui, ed io con me stesso. Sono tre notti che non dormo.


ELÈNA ANDRÈEVNA Non c’è armonia in questa casa. Sua madre detesta tutto, tranne i propri opuscoli e il professore. Il professore è irritato, non mi crede, ha paura di lei. Sonja ce l’ha col padre, ce l’ha con me e non mi rivolge la parola già da due settimane. Lei detesta mio marito e apertamente disprezza la propria madre. Io sono irritata ed oggi una ventina di volte mi è venuto da piangere... Non c’è armonia in questa casa.


VOJNÍZKIJ Lasciamo stare la filosofia!


ELÈNA ANDRÈEVNA Lei, Ivàn Petròvič, è colto e intelligente e dovrebbe capire, mi sembra, che il mondo perisce, non per i briganti o per gli incendi, ma per l’odio, per l’inimicizia, per tutti questi meschini litigi... Invece di brontolare, farebbe meglio a riconciliare tutti.


VOJNÍZKIJ Prima riconcili me con me stesso! Mia cara... (Si stringe alla sua mano).


ELÈNA ANDRÈEVNA Mi lasci! (Ritrae la mano) Se ne vada!


VOJNÍZKIJ Fra poco cesserà la pioggia, e la natura rinfrescata avrà il respiro leggero. Solo a me non darà refrigerio il temporale. Giorno e notte, come un dèmone del focolare, mi soffoca il pensiero che la mia vita sia perduta senza rimedio. Non c’è un passato, è stato speso stupidamente in bagattelle, e il presente è terribile per la sua assurdità. Ecco dinanzi a lei la mia vita e il mio amore: dove riporli, che farne? Il mio sentimento perisce inutilmente, come un raggio di sole caduto in una fossa, ed io stesso perisco.


ELÈNA ANDRÈEVNA Quando lei mi parla del suo amore, io stordisco e non so che dire. Mi scusi, non posso dirle niente. (Fa per andare) Buona notte.


VOJNÍZKIJ (sbarrandole la strada) Se lei sapesse come soffro al pensiero che accanto a me in questa casa perisce un’altra vita, la sua! Che aspetta? Quale maledetta filosofia la trattiene? Mi capisca, mi capisca...


ELÈNA ANDRÈEVNA (lo guarda fisso) Ivan Petròvič , lei è ubriaco!


VOJNÍZKIJ Può essere, può essere...


ELÈNA ANDRÈEVNA Dov’è il dottore?


VOJNÍZKIJ Di là... pernotta in camera mia. Può essere, può essere... Tutto può essere!


ELÈNA ANDRÈEVNA Anche oggi ha bevuto? Perché?


VOJNÍZKIJ Almeno un simulacro di vita... Non me lo impedisca, Hélène!


ELÈNA ANDRÈEVNA Prima non beveva mai e non parlava mai tanto... Vada a dormire! Mi annoia.


VOJNÍZKIJ (stringendosi alla sua mano) Mia cara... meravigliosa!


ELÈNA ANDRÈEVNA (con stizza) Mi lasci. È ripugnante tutto questo alla fine. (Esce).


VOJNÍZKIJ (solo) Se ne è andata... (Pausa). Dieci anni fa la incontrai da mia sorella, buon’anima. Aveva allora diciassette anni, io ne avevo trentasette. Perché allora non mi sono innamorato di lei e non ho chiesto la sua mano? Eppure era cosí possibile! Adesso sarebbe mia moglie... Sí... Adesso ci saremmo svegliati per il temporale. Si sarebbe spaventata dei tuoni, e la terrei fra le mie braccia, sussurrandole: «Non aver paura, io sono qui». Oh, meravigliosi pensieri, come sarebbe bello, mi viene persino da ridere... ma, Dio mio, i pensieri mi si confondono nella testa. Perché sono vecchio? Perché non mi capisce? La sua retorica, la sua pigra morale, i suoi pigri e insulsi pensieri sullo sfacelo del mondo: tutto ciò mi è profondamente odioso. (Pausa). Oh, come sono stato ingannato! Io idolatravo questo professore, questo abietto signor Podagra, ho lavorato per lui come un bue! Sonja ed io abbiamo spremuto gli ultimi succhi da questa tenuta. Come culàchi abbiamo fatto commercio di olio di lino, di piselli, di giuncata, ci siamo tolti il pane di bocca, per raggranellare a copeca a copeca le migliaia da mandargli. Io ero fiero di lui e della sua scienza, io vivevo, io respiravo per lui! Ogni suo scritto, ogni suo parolone mi sembrava geniale... Dio, e ora? Ora che è in pensione, si vede il bel risultato della sua vita: di lui non resterà nemmeno una pagina, è del tutto sconosciuto, è un nulla! Una bolla di sapone! Ed io sono stato ingannato... lo vedo, – stupidamente ingannato...


Entra Àstrov in prefettizia senza gilè e senza cravatta. È brillo. Dietro di lui Telèghin con la chitarra.


ÀSTROV Suona!


TELÈGHIN Dormono tutti, signore!


ÀSTROV Suona! (Telèghin accenna sommessamente una melodia. A Vojnízkij) Sei solo? Non ci sono dame? (Tenendo le mani ai fianchi, canta sottovoce) «Balla, capanna. Balla, focolare, – il padrone non ha dove posare...» Il temporale mi ha svegliato. Una pioggerella notevole. Che ora è?


VOJNÍZKIJ Lo sa il diavolo.


ÀSTROV Come se avessi udito la voce di Elèna Andrèevna.


VOJNÍZKIJ Era qui adesso.


ÀSTROV Splendida donna. (Esamina le boccette sulla tavola) Medicine. E quante ricette! Di Chàrkov e di Mosca e di Tuia... Tutte le città ha infastidito con la sua podagra. È malato o finge?


VOJNÍZKIJ Malato.


Pausa.


ÀSTROV Perché sei cosí malinconico oggi? Ti fa pena il professore?


VOJNÍZKIJ Lasciami stare.


ÀSTROV O ti sei innamorato piuttosto della professoressa?


VOJNÍZKIJ È mia amica.


ÀSTROV Già amica?


VOJNÍZKIJ Che vorresti dire?


ÀSTROV Nei suoi rapporti con un uomo la donna passa per tre fasi consecutive: prima è una conoscente, poi un’amante, e infine un’amica.


VOJNÍZKIJ Filosofia volgare.


ÀSTROV Come? Sí... Bisogna riconoscerlo: sto diventando volgare. Vedi? Sono anche ubriaco. Di solito bevo cosí solo una volta al mese. Quando mi trovo in un tale stato, divento sfrontato e insolente in sommo grado. Allora me ne infischio di tutto! Azzardo le piú difficili operazioni e le faccio magnificamente. Disegno sconfinati progetti per il futuro. In quei momenti non mi pare piú di essere un bislacco e credo di poter arrecare un immenso... un immenso beneficio al genere umano! In quei momenti ho un mio sistema filosofico, e tutti voi, fratellini, mi sembrate coleotteri... microbi. (A Telèghin) Suona, Cialdone!


TELÈGHIN Amico mio, Io farei volentieri per te: con tutta l’anima, ma cerca di capire, in casa dormono!


ÀSTROV Suona! (Telèghin accenna sommessamente una melodia). Bere bisognerebbe. Andiamo di là: in camera nostra dev’esser rimasto del cognàc. E quando si farà giorno, andremo a casa mia. Ti vaà? Ho un assistente medico, che non dice mai «va», ma «vaà». Un briccone matricolato. Ti vaà dunque? (Avendo visto entrare Sonja) Mi scusi, sono senza cravatta. (Esce in fretta, Telèghin lo segue).


SONJA E tu, zio Vanja, di nuovo hai bevuto col dottore. Han fatto comunella i puri falchi. Lo so, lui è sempre lo stesso, ma tu per quale ragione? Alla tua età non si addice.


VOJNÍZKIJ L’età non c’entra. Quando manca l’autentica vita, si vive di miraggi. Sempre meglio che niente.


SONJA Il fieno è già stato tagliato, piove ogni giorno, ogni cosa marcisce, e tu ti occupi di miraggi. Hai abbandonato del tutto l’azienda... Io lavoro da sola, sono sfinita... (Spaventata) Zio, hai le lacrime agli occhi!


VOJNÍZKIJ Ma quali lacrime? Non è niente... sciocchezze... Mi hai guardato or ora come tua madre, buon’anima. Mia cara... (Le bacia avidamente le mani e il viso) Mia sorella... la mia dolce sorella... dove sarà adesso? Se sapesse! Ah, se sapesse!


SONJA Che cosa? Zio, che rosa?


VOJNÍZKIJ Ho un peso sul cuore, non mi sento bene... Niente... Piú tardi... Niente... Vado di là... (Esce).


SONJA (bussa alla porta) Michaíl Lvòvič! Non dorme? Un minutino solo!


ÀSTROV (di dietro la porta) Subito! (Poco dopo entra: si è rimesso gilè e cravatta) Ai suoi ordini!


SONJA Lei beva pure, se non le ripugna, ma la supplico: non lasci bere lo zio. Gli fa male.


ÀSTROV Bene. Non berremo piú. (Pausa). Ora me ne andrò a casa. Deciso e firmato. Prima che attacchino i cavalli, sarà già l’alba.


SONJA Piove. Aspetti il mattino.


ÀSTROV Il temporale passa oltre, ci coglierà solo di sbieco. Vado via. E per favore, non mi chiami piú per suo padre. Io gli dico: podagra, e lui: reumatismi. Io lo prego di stendersi, e lui sta seduto. Oggi poi non ha voluto nemmeno parlare con me.


SONJA È viziato. (Cerca nella credenza) Vuol fare uno spuntino?


ÀSTROV Volentieri.


SONJA A me piace fare di notte uno spuntino. Nella credenza dev’esserci qualcosa. Nella sua vita, dicono, ha avuto un gran successo con le donne, e le sue dame lo hanno viziato. Prenda del formaggio.


Stanno in piedi accanto alla credenza e mangiano.


ÀSTROV Oggi non ho mangiato niente, ho solo bevuto. Suo padre ha un carattere difficile. (Prende dalla credenza una bottiglia) Posso? (Beve un bicchierino) Qui non c’è nessuno, e si può parlare schiettamente. Sa, mi sembra che in casa sua non resisterei nemmeno un mese, quest’aria mi soffocherebbe... Suo padre ingolfato nella podagra e nei libri, zio Vanja con la sua ipocondría, sua nonna, e infine la sua matrigna...


SONJA Matrigna?


ÀSTROV Nell’uomo tutto dev’essere bello: e il viso, e il vestiario, e l’anima, e i pensieri. È bella, non c’è che dire, ma... tutto il suo lavoro consiste nel mangiare, dormire, far quattro passi, incantarci con la propria bellezza – e nient’altro. Per lei non ci sono doveri, per lei lavorano gli altri... Non è cosí? E una vita oziosa non può essere pura. (Pausa). Del resto può darsi che io sia troppo severo nei riguardi della sua matrigna. Come zio Vanja, non sono soddisfatto della vita: lui ed io stiamo diventando dei brontoloni.


SONJA Lei è insoddisfatto della vita?


ÀSTROV In complesso amo la vita, ma la nostra vita distrettuale, russa, filistea non posso sopportarla e la disprezzo con tutte le forze della mia anima. E per quanto concerne la mia propria vita, la personale, in verità non contiene assolutamente nulla di bello. Vede, se nel buio della notte cammini per la foresta e frattanto in lontananza luccica una fiammella, non ti accorgi della stanchezza né delle tenebre né dei rami spinosi che ti colpiscono in viso... Io lavoro, lei lo sa, come nessun altro nel distretto, la sorte mi colpisce senza tregua, a volte soffro insopportabilmente, ma per me in lontananza non c’è una fiammella. Per me non aspetto piú nulla, non amo gli uomini... Da tempo non amo nessuno.


SONJA Nessuno?


ÀSTROV Nessuno. Provo una certa tenerezza soltanto per la sua balia – sotto l’influsso dei ricordi. I contadini sono molto monotoni, arretrati, vivono nel sudiciume, e con gli intellettuali è difficile intendersi. Stancano. I nostri buoni conoscenti hanno tutti idee meschine, sentimenti meschini e non vedono piú in là del proprio naso: semplicemente sono stupidi. E i piú acuti, i piú validi sono isterici, corrosi dall’analisi, dalla riflessione... Si lamentano, odiano, calunniano sino a ferirti, si avvicinano agli altri di fianco, ti guardano di traverso e decidono: «Oh, quello è uno psicopatico!» oppure: «Quello è un ciarlone!» E quando non sanno che etichetta attaccare alla mia fronte, allora dicono: «È un uomo strano, strano!» Io amo le foreste: è strano. Io non mangio carne: anche questo è strano. Non c’è piú un rapporto immediato, puro, libero con la natura e con gli uomini... No e poi no! (Fa l’atto di bere).


SONJA (glielo impedisce) No, la prego, la supplico, non beva piú.


ÀSTROV Perché?


SONJA Le si addice cosí poco! Lei è fine, ha una voce cosí soave... Dirò di piú: lei è bello, come nessuno di tutti coloro che conosco. Perché vuol somigliare alle persone ordinarie, che bevono e giocano a carte? Oh, non lo faccia, la supplico! Lei dice sempre che gli uomini non creano, ma soltanto distruggono ciò che è dato loro dall’alto. E allora perché, perché distrugge se stesso? Non deve, non deve, la scongiuro, la supplico.


ÀSTROV (le tende la mano) Non berrò piú.


SONJA Mi dia la parola.


ÀSTROV Parola d’onore.


SONJA (gli stringe forte la mano) Grazie!


ÀSTROV Basta! Ho smaltito la sbornia. Vede, sono ormai del tutto sobrio e resterò tale sino alla fine dei miei giorni. (Guarda l’orologio) Continuiamo dunque. Io dico: il mio tempo è già passato, per me è tardi. Sono già vecchio, mi sono troppo affaticato, sono diventato volgare, si sono affievoliti tutti i miei sentimenti, e mi sembra che non potrei piú affezionarmi a nessuno. Io non amo e... non amerò piú nessuno. Ciò che ancora mi avvince è la bellezza. Non mi lascia indifferente. Mi sembra che, se Elèna Andrèevna volesse, potrebbe farmi girare la testa in un sol giorno... Ma questo non è amore, non è affetto... (Si copre gli occhi con la mano e sussulta).


SONJA Che ha?


ÀSTROV Niente... A Quaresima un malato mi è morto sotto il cloroformio.


SONJA Sarebbe ora di dimenticarlo. (Pausa). Mi dica, Michaíl Lvòvič... Se io avessi un’amica o una sorella minore e se lei venisse a sapere che quella, mettiamo, l’ama, come prenderebbe la cosa?


ÀSTROV (stringendosi nelle spalle) Non so. Forse, senza particolare entusiasmo. Le farei capire che non posso amarla... e del resto ho altro per la testa. Comunque, se devo andare, è già tempo. Addio, colombella, altrimenti non la finiremo sino al mattino. (Le stringe la mano) Passerò per il salotto, se permette. Ho paura che suo zio mi trattenga. (Esce).


SONJA (da sola) Non mi ha detto nulla... L’anima e il cuore di lui mi sono ancora nascosti, ma perché io mi sento cosí felice? (Ride dalla felicità) Gli ho detto: lei è fine, gentile, ha una voce cosí soave... Forse a sproposito? La sua voce vibra, accarezza... la sento nell’aria. E quando gli ho parlato di una mia sorella minore, non ha capito... (Torcendosi le mani) Oh, com’è terribile che io sia brutta! Com’è terribile! E io lo so di esser brutta, lo so, lo so... Domenica scorsa, mentre uscivamo dalla chiesa, ho udito qualcuno parlare di me, e una donna ha detto: «È buona, generosa, peccato però che sia cosí brutta...» Brutta...


Entra Elèna Andrèevna.


ELÈNA ANDRÈEVNA (spalanca le finestre) Il temporale è passato. Che aria buona! (Pausa). Dov’è il dottore?


SONJA Se ne è andato.


Pausa.


ELÈNA ANDRÈEVNA Sophie!


SONJA Che c’è?


ELÈNA ANDRÈEVNA Sino a quando mi terrà il broncio? Noi due non ci siamo fatte nulla di male. Perché dunque esser nemiche? Finiamola...


SONJA Io stessa volevo... (L’abbraccia) Bando ai rancori.


ELÈNA ANDRÈEVNA Cosí va bene.


Sono entrambe commosse.


SONJA Papà si è coricato?


ELÈNA ANDRÈEVNA No, siede in salotto... Noi due non ci siamo parlate per intere settimane e Dio sa perché... (Accortasi che la credenza è aperta) Come mai?


SONJA Michaíl Lvòvič ha cenato.


ELÈNA ANDRÈEVNA C’è anche del vino... Beviamo alla nostra riconciliazione.


SONJA Beviamo.


ELÈNA ANDRÈEVNA Dallo stesso bicchiere... (Versa) È meglio. Allora intese: ci daremo del tu?


SONJA Del tu. (Bevono e si baciano) Era già tempo che volevo fare la pace, ma ne avevo vergogna... (Piange).


ELÈNA ANDRÈEVNA Perché piangi?


SONJA Niente, cosí.


ELÈNA ANDRÈEVNA Su, basta, basta... (Piange) Che stramba, anch’io mi son messa a piangere... (Pausa). Tu te la prendi con me, perché pensi che io abbia sposato tuo padre per calcolo... Se credi ai giuramenti, ti giuro che l’ho sposato per amore. Mi sono infatuata dell’uomo dotto e illustre. Non era autentico amore, era amore posticcio, eppure allora mi parve che fosse autentico. Non sono colpevole. Tu però dal giorno del nostro matrimonio non hai cessato di riprovarmi coi tuoi penetranti occhi sospettosi.


SONJA Su, pace, pace! Dimentichiamo.


ELÈNA ANDRÈEVNA Non bisogna guardare in quel modo: non ti si addice. Bisogna credere a tutti, altrimenti non si può vivere.


Pausa.


SONJA Dimmi in coscienza, da amica... Sei felice?


ELÈNA ANDRÈEVNA No.


SONJA Lo sapevo. Un’altra domanda. Dimmi con franchezza: vorresti avere un marito giovane?


ELÈNA ANDRÈEVNA Come sei bambina. Certo che vorrei. (Ride) Su, chiedimi ancora qualcosa, chiedi...


SONJA Ti piace il dottore?


ELÈNA ANDRÈEVNA Sí, molto.


SONJA (ride) Ho un viso stupido... è vero? Lui se ne è andato, ed io continuo a sentire la sua voce e i suoi passi e, se guardo la tenebrosa finestra, mi appare il suo volto. Lascia che io mi sfoghi... Ma non posso parlare a voce alta, mi vergogno. Andiamo in camera mia a conversare. Ti sembro stupida? Confessalo... Dimmi qualcosa di lui...


ELÈNA ANDRÈEVNA Che cosa?


SONJA È intelligente... Sa tutto, può tutto... Cura gli uomini e pianta le foreste...


ELÈNA ANDRÈEVNA Non di foreste né di medicina si tratta... Mia cara, capisci, è un ingegno! Sai che vuol dire un ingegno? Audacia, libertà di pensiero, ampiezza di impulsi... Pianta un alberello e già presagisce che cosa ne verrà fuori tra mille anni, già gli par di vedere in lontananza la felicità del genere umano. Uomini come lui sono rari, bisogna amarli... Egli beve, sa essere ruvido a volte, – ma che c’è di male? In Russia un uomo d’ingegno non può essere puro. Pensa tu stessa che vita fa questo dottore! Fango da sprofondare sulle strade, geli, bufere di neve, spropositate distanze, gente rozza, selvaggia, d’ogni intorno povertà, malattie, e in una tale situazione per chi lavora e lotta di giorno in giorno è difficile conservarsi fino a quarant’anni puro e sobrio... (La bacia) Con tutta l’anima ti auguro felicità, tu lo meriti... (Si alza) Ma io sono un personaggio seccante, episodico... E nella musica, e in casa di mio marito, in tutte le mie storie – dappertutto, in breve, io sono stata soltanto un personaggio episodico. Insomma, Sonja, a pensarci bene, io sono molto, molto infelice! (Cammina turbata per il palcoscenico) Per me non esiste felicità a questo mondo. No! Perché ridi?


SONJA (ride, coprendosi il volto) Sono cosí felice... cosí felice!


ELÈNA ANDRÈEVNA Ed io ho voglia di sonare... Vorrei sonare qualcosa adesso.


SONJA Suona. (L’abbraccia) Non posso dormire... Suona!


ELÈNA ANDRÈEVNA Adesso.Tuo padre non dorme.Quando sta male, la musica lo irrita. Va a domandarglielo. Se non ha nulla in contrario, sonerò. Va da lui.


SONJA Subito. (Esce).


In giardino il guardiano batte.


ELÈNA ANDRÈEVNA Da molto tempo non suono. Sonerò e piangerò, piangerò come una sciocca. (Dalla finestra) Sei tu che batti, Efím?


VOCE DEL GUARDIANO Sono io!


ELÈNA ANDRÈEVNA Non battere, il padrone è malato.


VOCE DEL GUARDIANO Me ne vado subito! (Fischietta) Ehi, Lupo! Lupetto!


Pausa.


SONIA (tornando) Non si può!

ATTO TERZO

Salotto in casa di Serebrjakòv. Tre porte: una a destra, una a sinistra e una in mezzo. Giorno. Vojnízkij e Sonia sono seduti. Elèna Andrèevna cammina per il palcoscenico, pensando.


VOJNÍZKIJ Herr Professor si è degnato di esprimere il desiderio che tutti noi ci si riunisca oggi in questo salotto verso l’una. (Guarda l’orologio) Manca un quarto all’una. Vuol rivelare qualcosa al mondo.


ELÈNA ANDRÈEVNA Si tratta di affari probabilmente.


VOJNÍZKIJ Lui non ha affari. Scrive scempiaggini, brontola e fa il geloso, nient’altro.


SONJA (con tono di rimprovero) Zio!


VOJNÍZKIJ E va bene, chiedo scusa. (Indica Elèna Andrèevna) Ammiratela: cammina e barcolla dalla pigrizia. Molto grazioso! Molto!


ELÈNA ANDRÈEVNA Lei invece ronza tutto il giorno, ronza sempre. Non si stanca mai? (Con angoscia) Io muoio dalla noia, non so che fare.


SONJA (stringendosi nelle spalle) C’è poco lavoro forse? Magari ne avessi voglia.


ELÈNA ANDRÈEVNA Per esempio?


SONJA Occupati dell’azienda, istruisci, cura. È poco? Quando tu e papà non eravate qui, zio Vanja ed io andavamo noi stessi al mercato a vendere la farina,


ELÈNA ANDRÈEVNA Non è cosa mia. E poi non mi interessa. Solo nei romanzi ideologici si istruiscono e curano i contadini, ma io come potrei, di punto in bianco, mettermi d’improvviso a curarli e a istruirli?


SONJA Io non capisco perché non potresti andare fra loro ed istruirli? Aspetta, e ti abituerai. (L’abbraccia) Non ti annoiare, mia cara. (Ridendo) Tu ti annoi, non trovi un’occupazione, e la noia e l’ozio si contagiano. Guarda: zio Vanja non fa piú nulla e ti vien dietro come un’ombra, io ho abbandonato le mie faccende e corro da te a chiacchierare. Sono impigrita, non posso! Michaíl Lvòvič, il dottore, prima veniva da noi molto di rado, una volta al mese, era difficile smuoverlo, ed ora viene ogni giorno, trascurando le sue foreste e la medicina. Devi essere un’incantatrice.


VOJNÍZKIJ Perché si strugge? (Con vivacità) Su, mia cara, splendore, sia saggia! Nelle sue vene scorre sangue di rusalca, sia dunque rusalca! Si abbandoni almeno una volta nella vita, si innamori al piú presto sino ai capelli di un dèmone acquàtile – e si tuffi a capofitto nel vortice, lasciando sbigottiti Herr Professor e noi tutti!


ELÈNA ANDRÈEVNA (con sdegno) Mi lasci in pace! È una crudeltà! (Fa per andarsene).


VOJNÍZKIJ (la trattiene) Su, su, gioia mia, mi perdoni... Chiedo scusa. (Le bacia la mano) Pace.


ELÈNA ANDRÈEVNA Anche un angelo perderebbe la pazienza, ne convenga.


VOJNÍZKIJ In segno di pace e di concordia le porterò subito un mazzetto di rose: l’avevo già preparato stamattina per lei... Rose d’autunno – leggiadre, meste rose... (Esce).


SONJA Rose d’autunno – leggiadre, meste rose...


Guardano entrambe dalla finestra.


ELÈNA ANDRÈEVNA È già settembre. In qualche modo passeremo qui l’inverno! (Pausa). Dov’è il dottore?


SONJA Nella camera di zio Vanja. Sta scrivendo qualcosa. Sono contenta che zio Vanja sia uscito, devo parlarti.


ELÈNA ANDRÈEVNA Di che cosa?


SONJA Di che cosa? (Le appoggia la testa sul petto).


ELÈNA ANDRÈEVNA Su, basta, basta... (Le carezza i capelli) Basta.


SONJA Sono brutta.


ELÈNA ANDRÈEVNA Hai dei capelli bellissimi.


SONJA No! (Si gira, per guardarsi allo specchio) No! Quando una donna è brutta, allora le dicono: «Lei ha gli occhi belli, ha dei capelli bellissimi»... Sono sei anni che lo amo, lo amo piú di quanto amassi mia madre. Ogni minuto lo sento, sento la stretta della sua mano. E guardo la porta, ed aspetto, e mi sembra sempre che stia per entrare. Ed ecco, vedi, vengo sempre da te a chiacchierare di lui. Ora viene qui ogni giorno, ma non mi guarda, non mi vede... È un tale tormento! Non ho alcuna speranza, no, no! (Con disperazione) O Dio, dammi forza... Tutta la notte ho pregato... Sovente mi accosto a lui, gli rivolgo la parola io stessa, lo guardo negli occhi... Non ho piú orgoglio né forza di dominarmi... Non ho potuto resistere e ieri ho confessato a zio Vanja che amo il dottore... Tutta la servitú sa che io lo amo. Lo sanno tutti.


ELÈNA ANDRÈEVNA E lui?


SONJA No. Non si accorge di me.


ELÈNA ANDRÈEVNA (riflettendo) Strano uomo... Sai che ti dico? Lascia che gli parli io... Con cautela, per allusioni... (Pausa). In verità, sino a quando restare nell’incertezza... Acconsenti! (Sonja annuisce con la testa). Benissimo. Ama o non ama: non è difficile saperlo. Non turbarti, colombella, non darti pensiero: lo interrogherò con cautela, non se ne accorgerà nemmeno. A noi occorre solo sapere: sí o no? (Pausa). Se no, che non venga piú qui. Non ti pare? (Sonja annuisce con la testa). È meglio se non lo vedrai. Non andremo per le lunghe, lo interrogheremo subito. Egli si proponeva di mostrarmi dei disegni... Va a dirgli che desidero vederlo.


SONJA (con grande agitazione) Mi dirai tutta la verità?


ELÈNA ANDRÈEVNA Sí, certo. Mi sembra che la verità, qualunque possa essere, non sia cosí terribile come l’incertezza. Confida in me, colombella...


SONJA Sí... sí... Gli dirò che vuoi vedere i suoi disegni... (Si avvia e si ferma accanto alla porta) No, l’incertezza è meglio... Resta sempre la speranza...


ELÈNA ANDRÈEVNA Ma che dici?


SONJA Niente. (Esce).


ELÈNA ANDRÈEVNA (da sola) Non c’è niente di peggio che conoscere il segreto di un’altra persona e non poterla aiutare. (Riflettendo) Egli non è innamorato di lei, è chiaro, ma perché non potrebbe sposarla? È brutta, ma per un dottore di campagna, della sua età, sarebbe un’ottima moglie. Intelligente, cosí buona, cosí pura... No, non è questo il problema... (Pausa). Io la capisco questa povera ragazza. In mezzo alla noia disperata, quando, invece di uomini, grige macchie ti girano intorno e si sentono solo volgarità, quando non si fa che mangiare, bere, dormire, – talvolta arriva lui, non simile agli altri, bello, interessante, piacevole, cosí come in mezzo alle tenebre spunta la limpida luna... Cedere al fascino di un simile uomo, stordirsi... Anch’io, mi sembra, me ne sono un poco invaghita. Sí, senza di lui mi annoio, e sorrido se penso a lui... Zio Vanja dice che nelle mie vene scorre sangue di rusalca. «Si abbandoni almeno una volta nella vita»... Chissà? Sarebbe forse necessario... Spiccare il volo come un libero uccello, allontanandosi da tutti voi, dalle vostre fisionomie sonnolente, dalle conversazioni, dimenticare che voi esistete al mondo... Ma io sono pusillanime, timida... Mi rimorderebbe la coscienza... Viene qui ogni giorno, intuisco perché viene, e già mi sento colpevole, e sono pronta a cadere in ginocchio dinanzi a Sonja, a chiederle scusa, a piangere...


ÀSTROV (entra con un cartogramma) Buon giorno! (Le stringe la mano) Voleva vedere la mia pittura?


ELÈNA ANDRÈEVNA Ieri mi ha promesso di mostrarmi i suoi lavori... È libero?


ÀSTROV Oh, certamente. (Distende sul tavolino da giuoco il cartogramma e lo fissa con puntine) Dov’è nata?


ELÈNA ANDRÈEVNA (aiutandolo) A Pietroburgo.


ÀSTROV E ha studiato?


ELÈNA ANDRÈEVNA Al conservatorio.


ÀSTROV Allora questo non la interessa.


ELÈNA ANDRÈEVNA Perché? È vero che non conosco la campagna, ma ho letto molto.


ÀSTROV In questa casa ho un mio tavolo... In camera di Ivàn Petròvič. Quando sono spossato sino al pieno abbrutimento, lascio tutto e corro qui, e mi trastullo con questa roba un’ora, due... Ivàn Petròvič e Sòfja Aleksàndrovna fanno i conti sul pallottoliere, ed io seggo accanto a loro al mio tavolo e impiastriccio, e ho caldo, ho pace, e il grillo stride. Ma questo piacere me lo concedo non spesso, una volta al mese... (Indicando sul cartogramma) Ora guardi qui. È il quadro del nostro distretto, com’era cinquant’anni addietro. Il Verdescuro e il Verdechiaro designano le foreste: metà di tutta la superficie è occupata da foreste. Là dove sul Verde si posa un Rosso Retícolo, un tempo vagavano gli alci, le capre... Io indico insieme la flora e la fauna. Su questo lago vivevano cigni, oche, anatre e, come dicono i vecchi, ogni ragione di uccelli, un visibilio, fittissimi: volavano a núvoli. Vede, oltre ai borghi e ai villaggi, sono disseminati qua e là cascinali, poderi, èremi di scismatici, mulini ad acqua... C’erano molti bovini e cavalli. Lo si vede dall’Azzurro. In questa circoscrizione, ad esempio, è spalmato un Azzurro piú denso: v’erano intere mandrie, all’incirca ogni massería tre cavalli. (Pausa). Ora guardiamo piú in basso. Com’era venticinque anni addietro. Qui ormai dalle foreste è coperto solo un terzo di tutta la superficie. Non vi sono capre, ma restano gli alci. Il Verde e l’Azzurro sono già piú pallidi. E cosí via, e cosí via. Passiamo alla terza parte: il quadro del distretto al presente. Il Verde persiste in qualche punto, ma non piú tanto compatto, piuttosto a macchie. Sono scomparsi anche gli alci, ed i cigni, ed i galli cedroni... Dei cascinali, dei poderi, degli èremi, dei mulini di prima non c’è piú traccia. In complesso un quadro di progressivo e innegabile decadimento, al quale, evidentemente, non mancano che dieci anni o quindici, per diventare totale. Lei dirà che qui sono in ballo gli influssi della cultura, che la vecchia vita, naturalmente, doveva cedere il posto alla nuova. Sí, lo capisco: se al posto di queste foreste devastate passassero strade, ferrovie, se vi fossero officine, fabbriche, scuole, il popolo sarebbe piú sano, piú ricco, piú intelligente, ma qui nulla di simile! Il distretto ha sempre le stesse paludi, le stesse zanzare, le stesse impraticabili strade, miseria, tifo, difterite, incendi... Siamo di fronte a un decadimento dovuto a una troppo gravosa lotta per l’esistenza. Questo decadimento deriva da inerzia, da insipienza, da assoluta mancanza di consapevolezza, perché, raggricciato dal freddo, affamato, malato, l’uomo, per salvare qualche vestigio di vita, per conservare i suoi figli, istintivamente, inconsciamente si aggrappa a tutto ciò con cui sia possibile saziare la fame, riscaldarsi, distrugge tutto, senza pensare al domani... Distrutto è ormai quasi tutto, ma in cambio non si è creato ancora nulla. (Con freddezza) Dal suo volto vedo che questo non la interessa.


ELÈNA ANDRÈEVNA Ci capisco cosí poco...


ÀSTROV Non c’è nulla da capire, semplicemente non la interessa.


ELÈNA ANDRÈEVNA Parlando con franchezza, ho altro per la testa. Mi scusi. Devo farle un piccolo interrogatorio, e sono confusa, non so come cominciare.


ÀSTROV Un interrogatorio?


ELÈNA ANDRÈEVNA Sí, un interrogatorio, ma... abbastanza innocente. Sediamoci! (Si siedono). Si tratta di una giovane persona. Parleremo da gente onesta, come amici, senza infingimenti. Parleremo e dimenticheremo quel che ci siamo detti. D’accordo?


ÀSTROV D’accordo.


ELÈNA ANDRÈEVNA Si tratta della mia figliastra Sonja. Le piace?


ÀSTROV Sí, la stimo.


ELÈNA ANDRÈEVNA Le piace come donna?


ÀSTROV (non subito) No.


ELÈNA ANDRÈEVNA Ancora due o tre parole – e ho finito. Non si è mai accorto di nulla?


ÀSTROV Di nulla.


ÈLENA ANDRÈEVNA (lo prende per la mano) Lei non la ama, lo vedo dai suoi occhi. Eppure ella soffre... Cerchi di capire e... la smetta di venir qui.


ÀSTROV (si alza) Il mio tempo è ormai passato... E non ho avuto mai un momento... (Stringendosi nelle spalle) Quando del resto? (È turbato).


ELÈNA ANDRÈEVNA Tfu, che sgradevole conversazione! Ànsimo, quasi avessi trascinato sulle spalle mille chili. Grazie a Dio, è finita. Dimentichiamola, come se non avessimo parlato affatto, e... e se ne vada. Lei è un uomo intelligente, cerchi di capirmi... (Pausa). Sono diventata persino tutta rossa.


ÀSTROV Se me lo avesse detto uno, due mesi addietro, avrei magari potuto riflettere, ma adesso... (Si stringe nelle spalle) Certo, se Sonja soffre... Una sola cosa non capisco: perché ha sentito il bisogno di farmi questo interrogatorio? (La guarda negli occhi e la minaccia col dito) È scaltra, lei!


ELÈNA ANDRÈEVNA Che significa?


ÀSTROV (ridendo) Scaltra! Supponiamo che Sonja soffra, di buon grado lo ammetto, ma a che scopo questo suo interrogatorio? (Impedendole di parlare, con vivacità) Permetta, non faccia quel viso attònito, lei sa perfettamente perché io vengo qui ogni giorno... Perché e per chi io vengo, lo sa perfettamente. Mia predatrice, non mi guardi cosí, sono una vecchia volpe...


ELÈNA ANDRÈEVNA (perplessa) Predatrice? Non capisco nulla.


ÀSTROV Bella faína piumosa... Ha bisogno di vittime! Da un mese intero non faccio piú nulla, ho abbandonato tutto, cerco lei avidamente – e questo le piace da morire... Ebbene, che vuole? Io sono vinto, lo sapeva anche senza interrogatorio. (Incrociate le braccia e chinata la testa) Mi arrendo. Mi prenda, mi divori!


ELÈNA ANDRÈEVNA Lei è impazzito!


ÀSTROV (ride tra i denti) Lei è timida...


ELÈNA ANDRÈEVNA Oh, io sono migliore e piú nobile di quanto lei pensi! Le giuro! (Fa per andarsene).


ÀSTROV (sbarrandole il passo) Oggi andrò via, non verrò piú qui, ma... (La prende per la mano e si guarda intorno) Dove ci vedremo? Lo dica presto: dove? Potrebbero entrare, lo dica. Presto. (Appassionatamente) Com’è splendida, com’è stupenda... Un bacio, un bacio... Almeno baciare i suoi capelli odorosi...


ELÈNA ANDRÈEVNA Le giuro...


ÀSTROV (impedendole di parlare) Perché giurare? Non c’è bisogno di giurare. Non c’è bisogno di superflue parole... Oh, com’è bella! Che mani! (Le bacia le mani).


ELÈNA ANDRÈEVNA E ora basta... Se ne vada... (Ritira le mani) Ha ecceduto.


ÀSTROV Mi dica dunque, mi dica: dove ci vedremo domani? (La prende per la vita) Lo vedi, è inevitabile, dobbiamo vederci. (La bacia).


In quell’attimo entra Vojnízkij con un mazzetto di rose e si ferma sulla soglia.


ELÈNA ANDRÈEVNA (non vedendo Vojnízkij) Mi risparmi... mi lasci... (Appoggia la testa sul petto di Àstrov) No! (Fa per andarsene).


ÀSTROV (trattenendola per la vita) Vieni domani nella foresta demaniale... verso le due... Sí? Sí? Verrai?


ELÈNA ANDRÈEVNA (avendo visto Vojnízkij) Mi lasci! (Fortemente turbata, si allontana verso la finestra) È terribile.


VOJNÍZKIJ (posa il mazzetto su una sedia. Sconvolto, si asciuga con un fazzoletto il viso e il collo) Non fa niente... Sí... Non fa niente...


ÀSTROV (stizzito) Oggi, illustrissimo Ivàn Petròvič, il tempo è discreto. Al mattino era nuvolo, come se dovesse piovere, ed ora c’è il sole. A dire il vero, abbiamo avuto un bell’autunno... e i seminati vernini non c’è male. (Arrotola il cartogramma) Solo che i giorni si sono accorciati... (Esce).


ELÈNA ANDRÈEVNA (si avvicina rapidamente a Vojnízkij) Si adòperi, eserciti tutto il suo influsso, perché io e mio marito partiamo di qui oggi stesso! Mi sente? Oggi stesso!


VOJNÍZKIJ (asciugandosi il viso) Ah? Sí, sí... bene. Io, Hélène, ho visto tutto, tutto...


ELÈNA ANDRÈEVNA (nervosamente) Mi sente? Io devo partire di qui oggi stesso!


Entrano Serebrjakòv, Sonja, Telèghin e Marina.


TELÈGHIN Io pure, eccellenza, sono malfermo in salute. Da due giorni non mi sento bene. La testa...


SEREBRJAKÒV Dove sono gli altri? Non amo questa casa. È un labirinto. Ventisei stanze enormi. Ci si disperde da ogni lato e non si trova mai nessuno. (Suona) Chiamate Maria Vasílievna e Elèna Andrèevna!


ELÈNA ANDRÈEVNA Io sono qui.


SEREBRJAKÒV Vi prego, signori, sedetevi.


SONJA (avvicinandosi a Elèna Andrèevna, con impazienza) Che ha detto?


ELÈNA ANDRÈEVNA Piú tardi.


SONJA Tu tremi? Sei sconvolta? (Ne osserva il viso con occhio scrutatore) Capisco... Ha detto che non verrà piú... è vero? (Pausa). Dimmi: è vero?


Elèna Andrèevna annuisce con la testa.


SEREBRJAKÒV (a Telèghin) Alla cattiva salute ci si può ancora rassegnare, bene o male, ma ciò che io non posso digerire è il sistema di vita in campagna. Ho l’impressione di esser piombato dalla terra su un pianeta straniero. Sedetevi, signori, vi prego. Sonja! (Sonja non lo sente, sta in piedi con la testa malinconicamente chinata). Sonja! (Pausa). Non sente. (A Marina) Anche tu, balia, siediti. (La balia si siede e sferruzza). Prego, signori. Appendete, per cosí dire, le vostre orecchie al chiodo dell’attenzione. (Ride).


VOJNÍZKIJ (agitandosi) Io non sono forse necessario. Posso andarmene?


SEREBRJAKÒV No, tu sei piú necessario di tutti.


VOJNÍZKIJ Che cosa vuole da me?


SEREBRJAKÒV «Vuole»? Perché sei in collera? (Pausa). Se sono colpevole verso di te, scusami, ti prego.


VOJNÍZKIJ Smettila con questo tono. Veniamo al concreto... Che cosa ti occorre?


Entra Maria Vasílievna.


SEREBRJAKÒV Ecco anche maman. Io comincio, signori. (Pausa). Vi ho convocati, signori, per annunziarvi che sta arrivando da noi un revisore. Ma scherzi a parte. È una faccenda seria. Io, signori, vi ho convocati, per chiedervi aiuto e consiglio e, conoscendo la vostra abituale affabilità, spero di riceverli. Scienziato, uomo di tavolino, sono stato sempre alieno dalla vita pratica. Far a meno dei suggerimenti di persone esperte io non posso e ti prego, Ivàn Petròvič, prego lei, Iljà Ilíč, e lei, maman... Il fatto è che manet omnes una nox, ossía tutti noi siamo nelle mani di Dio. Io sono vecchio, malato e perciò ritengo opportuno regolare le questioni patrimoniali che concernono la mia famiglia. La mia vita è ormai agli sgoccioli, non penso a me stesso, ma ho una giovane moglie, una figlia núbile. (Pausa). Continuare a vivere in campagna mi è impossibile. Noi non siamo creati per la campagna. Vivere in città coi mezzi che riceviamo da questa tenuta è impossibile. Vendere la foresta, mettiamo, sarebbe un provvedimento straordinario, al quale non si può certo ricorrere ogni anno. Bisogna scovare dei provvedimenti che ci garantiscano un dato intròito costante. Io ne ho escogitato uno e ho l’onore di sottoporlo al vostro esame. Tralasciando i particolari, lo esporrò nei suoi tratti essenziali. La nostra tenuta rende in media non piú del due per cento. Propongo di venderla. Se convertiamo in titoli di rendita il denaro ricavato, riceveremo dal quattro al cinque per cento, ed io penso che vi sarà persino un sopravanzo di alcune migliaia, che ci consentirà di comprare in Finlandia una piccola dacia.


VOJNÍZKIJ Aspetta... Mi sembra che l’udito mi tradisca. Ripeti quello che hai detto.


SEREBRJAKÒV Convertire il denaro in titoli di rendita e col sopravanzo comprare una dacia in Finlandia.


VOJNÍZKIJ Ma che Finlandia... Tu hai detto anche qualcosa d’altro.


SEREBRJAKÒV Io propongo di vendere la tenuta.


VOJNÍZKIJ Qui sta il punto. Tu vendi la tenuta. Ottimamente, una magnifica idea... Ma dove vorresti che io vada a finire con la vecchia madre e con Sonja?


SEREBRJAKÒV Questo lo discuteremo a suo tempo. Non súbito.


VOJNÍZKIJ Aspetta. A quanto pare, sinora io non ho avuto nemmeno una goccia di buon senso. Sinora ho avuto la stupidità di pensare che questa tenuta appartenga a Sonja. Mio padre, buon’anima, comprò questa tenuta, per darla in dote a mia sorella. Sinora io sono stato un ingenuo, non ho interpretato le leggi alla turca e ho pensato che la tenuta di mia sorella fosse passata a Sonja.


SEREBRJAKÒV Sí, la tenuta appartiene a Sonja. Chi lo mette in dubbio? Senza il consenso di Sonja io non risolverò di venderla. Del resto io propongo di farlo per il bene di Sonja.


VOJNÍZKIJ È incomprensibile, incomprensibile! O io sono impazzito oppure... oppure...


MARIA VASÍLIEVNA Jean, non contrariare Aleksàndr. Credi, lui sa meglio di noi ciò che è bene e ciò che è male.


VOJNÍZKIJ No, datemi un po’ d’acqua. (Beve l’acqua) Ditemi che volete, che volete!


SEREBRJAKÒV Non capisco perché ti agiti. Io non dico che il mio progetto sia ideale. Se tutti lo giudicheranno inadeguato, io non insisterò.


Pausa.


TELÈGHIN (imbarazzato) Io, eccellenza, nutro per la Scienza, non solo venerazione, ma altresí sentimenti di parentela. Il fratello della moglie di mio fratello Grigorij Ilíč, lei l’avrà conosciuto, Konstantín Trofímovič Lakedèmonov, era laureato...


VOJNÍZKIJ Aspetta, Cialdone, stiamo parlando di affari... Aspetta, piú tardi... (A Serebrjakòv) Ecco, domandalo a lui. Fu suo zio a venderci questa tenuta.


SEREBRJAKÒV Ah, perché domandarglielo? A che scopo?


VOJNÍZKIJ Questa tenuta fu comprata secondo la valutazione d’allora per novantacinquemila. Mio padre ne pagò solo settanta, e restò un debito di venticinquemila. Ora ascoltate... Questa tenuta non si sarebbe potuta comprare, se io non avessi rinunziato alla mia eredità in favore di mia sorella, che amavo ardentemente. E non solo, ma per dieci anni vi ho lavorato come un bue, spegnendo cosí tutto il debito...


SEREBRJAKÒV Mi rincresce di aver cominciato questo discorso.


VOJNÍZKIJ La tenuta è esente da debiti e non si trova in dissesto solo grazie ai miei sforzi personali. Ed ecco, ora che sono vecchio, mi si vuole scacciare di qui bruscamente!


SEREBRJAKÒV Non capisco dove vai a parare!


VOJNÍZKIJ Per venticinque anni ho amministrato questa tenuta, ho lavorato, ti ho mandato il denaro, come il piú coscienzioso degli ecònomi, e in tutto questo tempo non mi hai ringraziato nemmeno una volta. In tutto questo tempo, ora e quand’ero giovane, ho ricevuto da te uno stipendio di cinquecento rubli l’anno. Un grúzzolo da accattone! E non ti è venuto in mente nemmeno una volta di aggiungervi sia pure un rublo!


SEREBRJAKÒV Ivàn Petròvič, che ne sapevo io? Non sono un uomo pratico e non ci capisco nulla. Avresti potuto aumentarlo tu stesso a piacere.


VOJNÍZKIJ Perché non ho rubato? Perché non mi disprezzate per non aver rubato? Sarebbe stato giusto, ed ora non sarei un accattone!


MARIA VASÍLIEVNA (severamente) Jean!


TELÈGHIN (agitandosi) Vanja, amico mio, non si deve, non si deve... io tremo... Perché guastare delle buone relazioni? (Lo bacia) Non si deve.


VOJNÍZKIJ Per venticinque anni assieme a mia madre sono rimasto fra quattro pareti, come una talpa... Tutti i nostri pensieri e sentimenti erano solo per te. Di giorno parlavamo di te, dei tuoi lavori, andavamo orgogliosi di te, con venerazione pronunziavamo il tuo nome. Le notti le sciupavamo a leggere libri e riviste, che ora profondamente disprezzo!


TELÈGHIN Non si deve, Vanja, non si deve... Non posso...


SEREBRJAKÒV (infuriato) Non capisco che cosa vuoi.


VOJNÍZKIJ Tu eri per noi un essere di ordine superiore, e i tuoi articoli li conoscevamo a memoria... Ma adesso mi si sono aperti gli occhi! Vedo tutto! Scrivi di arte, ma di arte non capisci nulla! Tutti i tuoi lavori che amavo non valgono un soldo! Ti sei fatto beffa di noi!


SEREBRJAKÒV Signori! Calmatelo insomma! Io me ne vado!


ELÈNA ANDRÈEVNA Ivàn Petròvič, esigo che lei la smetta! Mi sente?


VOJNÍZKIJ Non la smetterò! (Sbarrando a Serebrjakòv il passo) Aspetta, non ho finito! Tu hai devastato la mia vita! Io non ho vissuto, non ho vissuto! Per bontà tua ho rovinato, ho distrutto gli anni migliori della mia vita! Tu sei il mio peggiore nemico!


TELÈGHIN Non posso... non posso... Me ne vado... (Esce, fortemente agitato).


SEREBRJAKÒV Che vuoi da me? E quale diritto hai tu di parlarmi in quel tono? Nullità! Se la tenuta è tua, prendila, non ne ho bisogno!


ELÈNA ANDRÈEVNA Io parto subito da questo inferno! (Grida) Non vi posso piú resistere!


VOJNÍZKIJ Si è dileguata la vita! Io ho ingegno, intelligenza, coraggio... Se io fossi vissuto in modo normale, sarei potuto diventare uno Schopenhauer, un Dostoevskij... Sto cianciando a vànvera! Mi sembra di impazzire... Mamma, sono disperato! Mamma!


MARIA VASÍLIEVNA (severamente) Dai retta ad Aleksàndr!


SONJA (si mette in ginocchio dinanzi alla balia e si stringe a lei) Balia mia! Balia mia!


VOJNÍZKIJ Mamma! Che devo fare? Non c’è bisogno, non parli! So io stesso che fare! (A Serebrjakòv) Ti ricorderai di me! (Esce dalla porta di mezzo, seguito da Maria Vasílievna).


SEREBRJAKÒV Signori, che sta succedendo? Levatemi di torno questo pazzo! Non posso vivere con lui sotto lo stesso tetto! Abita qui, (indica la porta di mezzo) quasi accanto a me... Si trasferisca al villaggio, nella palazzina in cortile, oppure sarò io a trasferirmi di qui, ma restare con lui nella stessa casa non posso...


ELÈNA ANDRÈEVNA (al marito) Partiremo di qui oggi stesso! È necessario far subito i preparativi.


SEREBRJAKÒV Nullità senza uguali!


SONJA (stando in ginocchio, si volta verso il padre: nervosamente, tra le lacrime) Bisogna essere misericordiosi, papà! Zio Vanja ed io siamo cosí infelici! (Trattenendo la disperazione) Bisogna essere misericordiosi! Ricorda: quando tu eri piú giovane, zio Vanja e la nonna di notte traducevano libri per te, copiavano le tue carte... tutte le notti, tutte le notti! Zio Vanja ed io lavoravamo senza riposo, avevamo paura di sprecare per noi una copeca, ti mandavamo tutto... Il nostro pane ce lo siamo guadagnati! Io non dico questo, non è questo che dico, ma tu devi capire, papà. Bisogna essere misericordiosi!


ELÈNA ANDRÈEVNA (sconvolta, al marito) Aleksàndr, in nome di Dio spiègati con lui... Ti supplico.


SEREBRJAKÒV Bene, mi spiegherò con lui... Io non lo accuso di nulla, non sono in collera, ma, ammettetelo, il suo comportamento è per lo meno strano. Scusatemi, vado a cercarlo. (Esce dalla porta di mezzo).


ELÈNA ANDRÈEVNA Sii piú dolce con lui, rassicuralo... (Esce dietro al marito).


SONJA (stringendosi alla balia) Balia mia! Balia mia!


MARINA Non è niente bambina. Gloglotteranno i paperi – e poi sarà pace di nuovo... Gloglotteranno – e poi sarà pace...


SONJA Balia mia!


MARINA (la accarezza sulla testa) Tremi, come se avessi i brividi! Su, su, orfanella, Dio è misericordioso. Un decotto di tiglio o di lampone, e passerà... Non ti affliggere, orfanella... (Guardando la porta di mezzo, con calore) Vedi, si sono dispersi i paperi. Vi prenda il malanno! (Dietro la scena uno sparo. Un grido di Elèna Andrèevna. Sonja sussulta). Il malanno!


SEREBRJAKÒV (irrompe, barcollando dallo spavento) Tenetelo! Tenetelo! È impazzito!


Elèna Andrèevna e Vojnízkij lottano sulla porta.


ELÈNA ANDRÈEVNA (cercando di togliergli la rivoltella) La dia a me! La dia a me, le dico!


VOJNÍZKIJ Mi lasci, Hélène! Mi lasci! (Liberatosi, irrompe e cerca con gli occhi Serebrjakòv) Dov’è? Ah, eccolo! (Gli spara contro) Bum! (Pausa). Non l’ho colpito? Di nuovo ho fatto cilecca? (Con rabbia) Ah, il diavolo, il diavolo... il diavolo se lo porti... (Scaglia a terra la rivoltella e, spossato, si siede su una sedia).


Serebrjakòv è sbalordito. Elèna Andrèevna si appoggia alla parete: si sente male.


ELÈNA ANDRÈEVNA Portatemi via di qui! Portatemi via, uccidetemi, ma... io non posso restare, non posso!


VOJNÍZKIJ (disperato) Oh, che sto facendo! Che sto facendo!


SONJA (sommessamente) Balia mia! Balia mia!

ATTO QUARTO

La stanza di Ivàn Petròvič: insieme camera da letto e ufficio della tenuta. Accanto alla finestra un grande tavolo con libri mastri e carte d’ogni sorta, un leggío, armadi, una bilancia. Un tavolo piú piccolo per Àstrov: su questo tavolo attrezzi da disegno, colori, una cartella. Una gabbia con uno storno. Alla parete una carta dell’Africa, che evidentemente non serve a nessuno. Un enorme divano rivestito di tela cerata. A sinistra una porta che conduce alle altre stanze. A destra una porta che dà sull’anticamera. Accanto alla porta di destra è posta una stuoia, perché i contadini non sporchino il pavimento. Sera d’autunno. Silenzio. Telèghin e Marina siedono l’uno di fronte all’altra e aggomitolano lana da calze.


TELÈGHIN Piú presto, Marina Timofèevna, fra poco ci chiameranno per congedarsi. Hanno già ordinato di attaccare i cavalli.


MARINA (si sforza di aggomitolare piú in fretta) Ne è rimasta poca.


TELÈGHIN Partono per Chàrkov. Vivranno là.


MARINA Meglio cosí.


TELÈGHIN Si sono spaventati... «Non voglio piú vivere qui nemmeno un’ora, – ha detto Elèna Andrèevna, – partiamo, partiamo... Vivremo a Chàrkov, – ha detto, – ci sistemeremo e poi manderemo a prendere la nostra roba...» Partono senza bagagli. Vuol dire, Maria Timofèevna, che non è destino che vivano qui. Non è destino. Fatale predeterminazione.


MARINA Meglio cosí. Hanno levato rumore, si son messi a sparare: è una vergogna!


TELÈGHIN Sí, un soggetto degno del pennello di Ajvazovskij.


MARINA Avrei preferito non vedere tutto questo coi miei occhi. (Pausa). Ricominceremo a vivere come prima, al vecchio modo. Il tè alle otto del mattino, all’una il pranzo, la sera la cena tutti insieme. Ogni cosa col suo ordine, come tra gli uomini... al modo cristiano. (Con un sospiro) È già molto tempo che io, peccatrice, non mangio i tagliolini.


TELÈGHIN Sí, è molto tempo che in casa nostra non si fanno i tagliolini. (Pausa). Molto tempo... Stamattina, Maria Timofèevna, vado per il villaggio, e un bottegaio mi grida alle spalle: «Ehi tu, parassita!» Mi ha preso un’amarezza!


MARINA Ma tu non ci badare, tesoro. Tutti noi siamo parassiti di Dio. Come te, come Sonja, come Ivàn Petròvič – nessuno se ne sta senza far niente, tutti ci arrabattiamo! Tutti... Dov’è Sonja?


TELÈGHIN In giardino. Va su e giú col dottore. Cerca Ivàn Petròvič. Temono che si tolga la vita.


MARINA E dov’è la sua pistola?


TELÈGHIN (con un sussurro) L’ho nascosta in cantina!


MARINA (con un sorriso beffardo) Poveri noi peccatori!


Entrano dall’anticamera Vojnízkij e Àstrov.


VOJNÍZKIJ Lasciami. (A Marina e a Telèghin) Andate via di qui! Lasciatemi solo almeno per un’ora! Non tollero tutele.


TELÈGHIN Subito, Vanja. (Esce in punta di piedi).


MARINA Papero: glo glo glo! (Raccoglie la lana ed esce).


VOJNÍZKIJ Lasciami!


ÀSTROV Con gran piacere. È già un pezzo che devo andarmene, ma, ti ripeto, non me ne andrò, finché non mi avrai restituito ciò che mi hai preso.


VOJNÍZKIJ Io non ti ho preso nulla.


ÀSTROV Dico sul serio. Non mi trattenere. È un bel pezzo che me ne devo andare.


VOJNÍZKIJ Non ti ho preso nulla.


Si siedono.


ÀSTROV Ah sí? E va bene. Pazienterò ancora un poco e poi, scusami, mi toccherà ricorrere alla violenza. Ti lelegheremo e verrai perquisito. Lo dico con assoluta serietà.


VOJNÍZKIJ Come vuoi. (Pausa). Ho fatto la figura dell’imbecille! Sparare due volte e non riuscire a colpirlo! Non me lo perdonerò mai!


ÀSTROV Se ti era venuta voglia di sparare, potevi piuttosto tirarti un colpo nella fronte.


VOJNÍZKIJ (stringendosi nelle spalle) Strano. Ho tentato un omicidio, e non mi arrestano, non mi mettono sotto processo. Vuol dire che mi si considera pazzo. (Una risata cattiva). Io sono pazzo. E non sono pazzi coloro che, sotto la maschera di professori e di maghi eruditi, nascondono la propria inettitudine, l’ottusità, la ributtante frigidezza. Non sono pazze coloro che sposano i vecchi e poi li ingannano agli occhi di tutti. Ho visto, ho visto come la abbracciavi!


ÀSTROV Sí, la abbracciavo, se non ti dispiace. (Gli fa marameo).


VOJNÍZKIJ (guardando la porta) No, pazza è la terra che ancora vi sopporta!


ÀSTROV Ma è sciocco tutto questo.


VOJNÍZKIJ Ebbene, se pazzo, se forsennato, avrò pure il diritto di dire sciocchezze.


ÀSTROV Vecchia storia. Tu non sei un pazzo, ma semplicemente un bislacco. Sei un arcibuffone. Prima consideravo malato e anormale ogni bislacco, ma ora sono del parere che la condizione normale dell’uomo sia di esser bislacco. Tu sei del tutto normale.


VOJNÍZKIJ (si nasconde il viso tra le mani) Ho vergogna! Se sapessi come mi vergogno! Questo pungente senso di vergogna non si può paragonare con alcun dolore. (Con angoscia) È insopportabile! (Si china sul tavolo) Che devo fare? Che devo fare?


ÀSTROV Niente.


VOJNÍZKIJ Dammi qualcosa! Oh, Dio mio... Ho quarantasette anni. Se, supponiamo, vivrò sino a sessanta, me ne restano ancora tredici. È lunga! Come passerò questi tredici anni? Che farò, con che cosa colmarli? Oh, capisci... (Convulsamente stringe la mano di Àstrov) capisci, se fosse possibile vivere il resto della vita in qualche modo, in un modo nuovo. Svegliarsi in un limpido, quieto mattino e sentire che la vita ricomincia di nuovo, che tutto il passato è dimenticato e si è dissolto come il fumo. (Piange) Cominciare una nuova vita... Suggeriscimi come cominciare... di dove cominciare...


ÀSTROV (Con stizza) Che ti prende! Ma che nuova vita! La nostra situazione, la tua e la mia, è disperata.


VOJNÍZKIJ Tu credi?


ÀSTROV Ne sono convinto.


VOJNÍZKIJ Dammi qualcosa... (Indica il cuore) Ho un bruciore qui.


ÀSTROV (grida con collera) Smettila! (Raddolcendosi) Coloro che vivranno dopo di noi fra cento, duecento anni e che ci disprezzeranno perché abbiamo vissuto la nostra vita in modo cosí stupido e insulso, – quelli forse sapranno trovare un mezzo per esser felici, ma noi... Tu ed io abbiamo una sola speranza. La speranza che, quando riposeremo nelle nostre tombe, vengano a visitarci visioni forse persino piacevoli. (Con un sospiro) Sí, fratello. In tutto il distretto c’erano due sole persone per bene e intelligenti: tu ed io. Ma nel giro di una decina di anni la vita filistea, questa vita spregevole, ci ha risucchiati. Coi suoi putridi miasmi ha intossicato il nostro sangue, e noi siamo diventati volgari come tutti gli altri. (Vivacemente) Tu però non darmela a bere. Restituiscimi ciò che mi hai preso.


VOJNÍZKIJ Io non ti ho preso nulla.


ÀSTROV Tu mi hai preso dalla borsa dei medicamenti una fiala di morfina. (Pausa). Ascolta, se a qualunque costo hai voglia di farla finita, fila nella foresta e là tírati un colpo. Restituiscimi però la morfina, se no cominceranno le chiacchiere, le congetture, qualcuno penserà che sono stato io a dartela... Io ne avrò già abbastanza, se dovrò farti l’autopsia... Pensi che sia interessante?


Entra Sonja.


VOJNÍZKIJ Lasciami!


ÀSTROV (a Sonja) Sòfja Aleksàndrovna, suo zio mi ha sottratto dalla borsa dei medicamenti una fiala di morfina e non vuole restituirmela. Gli dica che ciò... non è intelligente dopo tutto. Non ho tempo da perdere. Devo andare.


SONJA Zio Vanja, hai preso la morfina al dottore?


Pausa.


ÀSTROV L’ha presa. Ne sono sicuro.


SONJA Restituiscila. Perché ci vuoi spaventare? (Teneramente) Restituiscila, zio Vanja! Io forse non sono meno infelice di te, eppure non mi abbandono alla disperazione. Io sopporto e sopporterò, finché la mia vita non terminerà da sola... Sopporta anche tu. (Pausa). Restituiscila! (Gli bacia le mani) Zio caro, dolce, buono, restituiscila! (Piange) Tu sei generoso, avrai pietà di noi, la restituirai. Sopporta, zio! Sopporta, zio! Sopporta!


VOJNÍZKIJ (prende dal cassetto del tavolo una fiala e la consegna ad Àstrov) Tieni! (A Sonja) Ma bisogna subito lavorare, fare subito qualcosa, altrimenti non posso... non posso...


SONJA Sí, sí, lavorare. Appena avremo preso commiato dai nostri, ci metteremo a lavorare... (Sfoglia nervosamente le carte sul tavolo) In casa nostra tutto è in abbandono.


ÀSTROV (ripone la fiala nella borsa dei medicamenti e stringe le cinghie) Ora ci si può mettere in viaggio.


ELÈNA ANDRÈEVNA (entra) Ivàn Petròvič, è qui? Stiamo partendo... Vada da Aleksàndr, vuol dirle qualcosa.


SONJA Va’, zio Vanja. (Prende Vojnízskij sotto braccio) Andiamo insieme. Tu e papà dovete riconciliarvi. È indispensabile.


Sonja e Vojnízkij escono.


ELÈNA ANDRÈEVNA Parto. (Dà la mano ad Àstrov) Addio.


ÀSTROV Di già?


ELÈNA ANDRÈEVNA I cavalli sono pronti.


ÀSTROV Addio.


ELÈNA ANDRÈEVNA Mi aveva promesso di andar via di qui.


ÀSTROV Ricordo. Ora andrò via. (Pausa). Ha avuto paura? (La prende per la mano) Ma era poi cosí spaventoso tutto questo?


ELÈNA ANDRÈEVNA Sí.


ÀSTROV E se invece restasse? A? Domani nella foresta demaniale...


ELÈNA ANDRÈEVNA No... È già deciso... Io la guardo con tanto ardire appunto perché è già decisa la partenza... Di una sola cosa la prego: abbia di me un’opinione migliore. Voglio esser stimata da lei.


ÀSTROV Eh! (Un gesto di insofferenza). Resti, la prego. Lo riconosca, lei non ha nulla da fare in questo mondo, non ha alcuno scopo la sua vita, non c’è nulla che occupi la sua attenzione e, presto o tardi, cederà ai sentimenti: è inevitabile. Perciò, piuttosto che a Chàrkov o a Kursk o in qualche altro luogo, meglio qui, nel grembo della natura... È poetico almeno, qui persino l’autunno è bello... V’è una foresta demaniale, vi sono ville semidistrutte nel gusto di Turghènev...


ELÈNA ANDRÈEVNA Ma lo sa che è proprio buffo!... Io sono in collera con lei, eppure... la ricorderò con piacere. Lei è un uomo interessante, originale. Noi non ci rivedremo mai piú, e quindi perché nasconderlo? Mi sono persino un poco invaghita di lei. Su, stringiamoci la mano e separiamoci da amici. Senza rancore.


ÀSTROV (dopo averle stretta la mano) Sí, parta... (Riflettendo) Lei sembra una creatura buona e cordiale, ma è come se ci fosse qualcosa di strano in tutta la sua sostanza. È arrivata qui con suo marito, ed ecco: tutti coloro che lavoravano, annaspavano, creavano qualcosa hanno dovuto tralasciare le loro faccende e tutta l’estate occuparsi soltanto della Podagra di suo marito e di lei. Voi due ci avete contagiato il vostro ozio. Io mi sono invaghito, un mese intero non ho fatto nulla, e frattanto la gente ammalava, nelle mie foreste, nei miei vivai silvestri i contadini pascolavano il loro bestiame... E cosí, dovunque metta piede con suo marito, lei porta rovina... Io scherzo, s’intende, eppure... è strano, anch’io sono convinto che, se lei restasse, si scatenerebbe un’immensa devastazione. Io soccomberei, ma anche lei... non sfuggirebbe allo sfacelo. Su, parta. La commedia è finita.


ELÈNA ANDRÈEVNA (prende dal tavolo di Àstrov una matita e la nasconde rapidamente) Prendo questa matita per ricordo.


ÀSTROV Che strano... Ci siamo appena conosciuti e d’improvviso senza ragione non ci rivedremo mai piú. Tutto cosí nel mondo... Finché non c’è qui nessuno, prima che entri zio Vanja con un mazzetto, mi consenta... di baciarla... In segno di addio... Me lo consente? (La bacia sulla guancia) Oh, meraviglia.


ELÈNA ANDRÈEVNA Le auguro ogni bene. (Dopo essersi guardata attorno) Qualunque cosa accada, per una volta nella vita! (Lo abbraccia con impeto, e subito si allontanano rapidamente l’uno dall’altra). Bisogna partire.


ÀSTROV Parta al piú presto. Se i cavalli sono già pronti, mettetevi in viaggio.


ELÈNA ANDRÈEVNA Vengono, mi sembra.


Tendono entrambi l’orecchio.


ÀSTROV Finita!


Entrano Serebrjakòv, Vojnízkij, Maria Vasílievna con un libro, Telèghin e Sonja.


SEREBRJAKÒV (a Vojnízkij) Mettiamo una pietra sul passato. Dopo ciò che è avvenuto, in queste poche ore io ho sofferto e meditato tanto che potrei scrivere, mi sembra, a edificazione dei posteri, un intero trattato sull’arte di vivere. Accetto di buon grado le tue scuse ed io stesso ti prego di scusarmi. Addio! (Scambia un triplice bacio con Vojnízkij).


VOJNÍZKIJ Riceverai puntualmente ciò che ricevevi prima. Tutto andrà al vecchio modo.


Elèna Andrèevna abbraccia Sonja.


SEREBRJAKÒV (bacia la mano a Maria Vasílievna) Maman...


MARIA VASÍLIEVNA (baciandolo) Aleksàndr, si faccia fare una nuova fotografia e me la mandi. Lei sa come mi è caro.


TELÈGHIN Addio, eccellenza! Non ci dimentichi!


SEREBRJAKÒV (dopo aver baciata la figlia) Addio... Addio a tutti! (Dando la mano ad Àstrov) La ringrazio per la piacevole compagnia... Io stimo il suo modo di pensare, i suoi ardori, i suoi impulsi, ma permetta ad un vecchio di inserire tra le parole di addio una sola osservazione: bisogna agire, signori! Bisogna agire! (Fa un inchino a tutti i presenti) Vi auguro ogni bene! (Esce, seguito da Maria Vasílievna e da Sonja).


VOJNÍZKIJ (bacia forte la mano di Elèna Andrèevna) Addio... Mi scusi... Non ci vedremo mai piú.


ELÈNA ANDRÈEVNA (commossa) Addio, mio caro. (Lo bacia sulla testa ed esce).


ÀSTROV (a Telèghin) Cialdone, fa attaccare anche i miei cavalli.


TELÈGHIN Subito, amico mio. (Esce).


Restano soltanto Àstrov e Vojnízkij.


ÀSTROV (raccoglie dal proprio tavolo i colori e li nasconde in una valigia) Perché non li accompagni?


VOJNÍZKIJ Partano pure, ma io... io non posso. Ho un peso sul cuore. Bisogna occuparsi al piú presto di qualcosa... Lavorare, lavorare! (Fruga tra le carte sul tavolo).


Pausa. Si sentono i sonagli.


ÀSTROV Sono partiti. Sarà contento il professore! Ormai nemmeno con le lusinghe riuscirai ad attirarlo qui.


MARINA (entra) Sono partiti. (Si siede in poltrona e sferruzza).


SONJA (entra) Sono partiti. (Si asciuga gli occhi) Dio li protegga. (Allo zio) Su, zio Vanja, facciamo qualcosa.


VOJNÍZKIJ Lavorare, lavorare...


SONJA È tanto, tanto tempo che non sediamo insieme a questo tavolo. (Accende un lume sul tavolo) Non c’è piú inchiostro, mi pare... (Prende il calamaio, va all’armadio, versa dell’inchiostro) Mi rattrista però che siano partiti.


MARIA VASÍLIEVNA (entra lentamente) Sono partiti! (Si siede e si immerge nella lettura).


SONJA (si siede al tavolo e scartabella un libro di conti) Prima di tutto, zio Vanja, prepariamo le fatture. C’è un terribile disordine nelle nostre cose. Oggi sono venuti di nuovo a chiedere un conto. Scrivi. Una fattura tu, ed una io...


VOJNÍZKIJ (scrive) Fattura intestata al signor...


Scrivono entrambi in silenzio.


MARINA (sbadiglia) Mi piacerebbe andarmene a nanna...


ÀSTROV Che silenzio. Le penne scricchiano, il grillo stride. C’è caldo, si sta bene... Non ho voglia di partire. (Si sentono i sonagli). Stanno attaccando i cavalli... Non resta dunque che prender congedo da voi, amici miei, che prender congedo dal mio tavolo: e via! (Ripone i cartogrammi nella cartella).


MARINA Ma perché ti agiti tanto? Resta ancora un poco.


ÀSTROV Non si può.


VOJNÍZKIJ (scrive) Rimanenza del vecchio debito: due e settantacinque...


Entra un garzone.


GARZONE Michaíl Lvòvič, i cavalli sono pronti.


ÀSTROV Ho sentito. (Gli porge la borsa dei medicamenti, la valigia e la cartella) Tieni. Bada di non gualcire la cartella.


GARZONE Bene. (Esce).


ÀSTROV Allora, signori... (Si avvicina per congedarsi).


SONJA Quando ci rivedremo?


ÀSTROV Non prima dell’estate, forse. D’inverno è difficile... Se accadesse qualcosa, s’intende, fatemelo sapere: verrei. (Stringe le mani) Grazie dell’ospitalità, dell’affetto... in una parola: di tutto. (Va dalla balia e la bacia sulla testa) Addio, vecchia.


MARINA Te ne vai cosí, senza prendere il tè?


ÀSTROV Non ne ho voglia, balia.


MARINA Allora un po’ di vodka?


ÀSTROV (indeciso) Forse... (Marina esce. Dopo una pausa) Il mio bilancino zoppica. Me ne sono accorto ieri, mentre Petruscka lo portava ad abbeverare.


VOJNÍZKIJ Bisogna farlo ferrare.


ÀSTROV Mi toccherà passare a Roždestvènnoe dal maniscalco. Non si scappa. (Si avvicina alla carta dell’Africa e la guarda) Ma in quest’Africa adesso chissà che caldo terribile!


VOJNÍZKIJ Sí, probabilmente.


MARINA (torna col vassoio, sul quale sono un bicchierino di vodka e un pezzetto di pane) Tieni. (Àstrov beve la vodka). Alla salute, tesoro. (Fa un profondo inchino) E pane niente?


ÀSTROV No, basta cosí... Allora statemi bene! (A Marina) Non mi accompagnare, balia. Non c’è bisogno. (Esce).


Sonja lo segue con una candela, Marina si siede nella propria poltrona.


VOJNÍZKIJ (scrive) Il due febbraio: venti libbre di olio di lino... Il sedici altre venti dello stesso olio... Di grano saraceno invece...


Pausa. Si sentono i sonagli.


MARINA È partito.


Pausa.


SONJA (torna, posa la candela sul tavolo) È partito...


VOJNÍZKIJ (fa il conto sul pallottoliere e annota) Totale: quindici... e venticinque...


Sonja si siede e scrive.


MARINA (sbadiglia) Oh, poveri noi peccatori...


Telèghin entra in punta di piedi, si siede accanto alla porta e accorda la chitarra.


VOJNÍZKIJ (a Sonja, accarezzandole i capelli) Bambina mia, ho un peso sul cuore! Oh, se tu sapessi che peso!


SONJA Che fare? Bisogna vivere! (Pausa). Noi vivremo, zio Vanja. Vivremo una lunga, una lunga sequela di giorni, di interminabili sere. Sopporteremo pazientemente le prove che ci manderà la sorte. Faticheremo per gli altri, adesso e in vecchiaia, senza conoscere tregua. E quando verrà la nostra ora, moriremo con rassegnazione e là, oltre la tomba, diremo che abbiamo patito, pianto, sofferto amarezza. E Dio avrà compassione di noi, e noi due, zio, zio caro, vedremo una vita limpida, bella, armoniosa, ci rallegreremo e ci volgeremo a guardare commossi, con un sorriso, le nostre sventure presenti. E riposeremo. Io credo, zio, credo con fervore, appassionatamente... (Si mette in ginocchio dinanzi a lui e posa la testa sulle sue mani. Con voce estenuata) Riposeremo! (Telèghin suona sommessamente la chitarra). Riposeremo! Udremo gli angeli, vedremo tutto il cielo smaltato di diamanti, vedremo tutto il male terreno, tutti i nostri patimenti annegare nella misericordia che colmerà l’universo, e la nostra vita diverrà deliziosa, serena, soave come una carezza. Io credo, credo... (Gli asciuga con un fazzoletto le lacrime) Povero, povero zio Vanja, tu piangi... (Tra le lacrime) Tu non hai conosciuto alcuna gioia nella tua vita. Ma aspetta, zio Vanja, aspetta... Riposeremo... (Lo abbraccia) Riposeremo! (Il guardiano batte. Telèghin accenna una melodia sommessamente. Maria Vasílievna scrive sui margini di un opuscolo. Marina sferruzza). Riposeremo!

Il sipario cala lentamente.