REBECCA LA PRIMA MOGLIE
Daphne du Maurier
Recensione
L’inizio è molto lento, ma l’inquietudine di questo romanzo è sottile e cresce in continuazione. Rebecca la prima moglie è un libro dalla trama semplicissima: una coppia di sposi alle prese con il ricordo della moglie precedente ma in realtà c’è molto di più. Daphne Du Maurier con leggerezza e ricchezza di particolari scrive un romanzo carico di tensione, mistero che porta verso un finale che ribalta le convinzioni. Rebecca morta in un misterioso incidente è ovunque. In ogni stanza, in ogni piega delle tende, in ogni sguardo e diventa ben presto l’ossessione della protagonista.
«Non si tratta di questa camera soltanto» disse «lo stesso vale per gran parte della casa. Per il soggiorno, per l’atrio, perfino per la stanzetta del giardinaggio. Sento la sua presenza ovunque. Anche voi, non è vero?»
Rebecca non vi lascerà.
REBECCA LA PRIMA MOGLIE
I
Sognai l’altra notte che ritornavo a Manderley. Mi pareva di essere al cancello che dà sul viale d’ingresso, e non potevo entrare: la via era sbarrata. Una catena con un lucchetto chiudeva il cancello. In sogno chiamavo il guardiano, ma nessuno mi rispondeva, e accostandomi a guardare di tra le sbarre arrugginite, mi accorgevo che la casetta era disabitata.
Non un fil di fumo usciva dal camino, e le finestrelle ingraticciate sembravano grandi occhi sconsolati. Poi, come accade in sogno, dotata di sovrannaturale potenza, simile a uno spirito, passavo attraverso la barriera che m’impediva la via. Tortuoso il viale si snodava dinanzi a me, ma, via via ch’io avanzavo, mi accorgevo che non era più quello di una volta; era angusto e trascurato, e non era il viale che avevamo conosciuto. Sorpresa, sulle prime non capivo, e solo quando curvai il capo per evitare un lungo ramo che quasi toccava terra, allora soltanto mi resi conto di ciò che era accaduto. La natura aveva avuto il sopravvento; a poco a poco, furtiva, insidiosa, con lunghe dita tenaci s’era insinuata su per il viale. I boschi, che in passato erano stati sempre una minaccia, avevano finito per trionfare. Scuri, prepotenti, si accalcavano ai limiti del viale. I faggi dalle bianche membra nude si addossavano fitti l’uno all’altro, con i rami frammisti in strani amplessi; e formavano una volta sopra al mio capo, come le arcate di una chiesa. E c’erano anche altri alberi, alberi ch’io non conoscevo, querce tozze e tormentati olmi, che vagavano a fianco a fianco con i faggi, e a forza s’eran fatta strada fuor della pacifica terra, assieme a mostruosi cespugli e parassiti, nessuno dei quali io ricordavo.
Il viale era poco più d’un nastro, ora una parvenza di quel ch’era stato; scomparsa la ghiaia che lo ricopriva, erbacce e muschi lo avevano invaso. I rami più bassi che si partivano dai tronchi ingombravano la via, le radici nodose sembravano artigli ischeletriti. Sparsi qua e là tra quella selvaggia vegetazione, io riconoscevo cespugli che ai tempi nostri ci avevan segnato il cammino, cose di cultura e di grazia: erano le idrangee, celebri per il loro colore azzurro. Nessuna mano le aveva curate, ed esse erano ritornate allo stato selvatico, erano cresciute a prodigiose altezze, senza mai rifiorire, nere e brutte come i parassiti anonimi che pullulavano loro accanto. E così, ora a destra ora a sinistra, ora a oriente ora a ponente, si snodava il misero sentiero che un giorno era stato il nostro viale. A volte credevo d’averlo perduto, poi riappariva, forse sotto un tronco caduto, o risorgeva dall’altra parte di uno stagno fangoso, residuo delle piogge invernali. Mai quel cammino m’era parso così lungo. Certamente le miglia s’erano moltiplicate, così come gli alberi; e quel sentiero non conduceva che a un labirinto, a un impenetrabile luogo selvatico, e non più alla casa. Vi giunsi poi subitamente: la vista di essa era mascherata da uno smisurato cespuglio che si allargava in tutte le direzioni. Mi arrestai, il cuore che mi scoppiava in petto, gli occhi brucianti di lacrime non ancora sgorgate.
Ecco Manderley, il nostro Manderley, segreto e silente come sempre era stato. La pietra grigia splendeva al raggio di luna del mio sogno. I vetri delle bifore riflettevano i prati verdi e la terrazza. Il tempo non aveva potuto diroccare la perfetta simmetria di quelle mura, né il sito in sé, che era come un gioiello nel cavo della mano. La terrazza digradava fino ai prati, e i prati si stendevano fino al mare; voltandomi vedevo lo specchio d’argento, placido sotto la luna, simile a un lago remoto da venti o tempeste. Nessuna onda sarebbe giunta mai a increspare quelle acque di sogno; nessuna massa di nuvoloni, sospinta dal vento di ponente, avrebbe mai oscurato la chiarità di quel pallido cielo. Di nuovo mi volsi alla casa; e sebbene fosse là inviolata, non toccata, quasi l’avessimo lasciata ieri, vidi che il giardino, non diversamente dai boschi, aveva obbedito alle leggi della giungla. I rododendri erano cresciuti smisuratamente alti, intricati e avvinghiati a verzura selvatica; e s’erano dati a indegne nozze con una folla di ignoti arbusti, poveri esseri bastardi che si aggrappavano alle loro radici, quasi consci delle loro spurie origini. Un lillà s’era accoppiato con una faggiola, e per legarli ancor più strettamente l’uno all’altro la maligna edera, nemica d’ogni grazia, aveva gettato i suoi viticci attorno ai due, imprigionandoli. L’edera regnava sovrana in quel paradiso perduto, lunghi tralci strisciavano per l’erba verde, e ben presto avrebbero invaso anche la casa.
E c’era anche un’altra pianta, specie di bastardo dei boschi, il cui seme il vento doveva aver sparso tanto tempo addietro sotto gli alberi, e che poi era stato dimenticato; e ora, camminando di pari passo con l’edera, simile a un gigantesco rabarbaro, cacciava le brutte foglie verso la molle erba dove un giorno fiorivano i narcisi. E ovunque, avanguardia dell’esercito, si vedevano ortiche. Soffocavano la terrazza, si allargavano per i sentieri; volgari e sparute, si appoggiavano financo alle finestre della casa: sentinelle negligenti, poiché in molti punti quel rabarbaro dei boschi aveva rotto le loro file, ed esse giacevano a terra, le foglie avvizzite e gli steli senza vita, e aprivano la via ai conigli. Abbandonato il viale, salii alla terrazza: le ortiche non erano una barriera per me che in sogno camminavo per virtù di magia, e non trovavo ostacoli.
Il chiaro di luna gioca strani tiri alla fantasia, anche alla fantasia di chi sogna. Mentre ero là, silenziosa e immobile, avrei giurato che la casa non era una vuota conchiglia, ma viveva e respirava come una volta. Luci brillavano alle finestre, le cortine si gonfiavano dolcemente all’aria notturna, e nella biblioteca la porta doveva essere socchiusa così come l’avevamo lasciata, col mio fazzoletto sulla tavola accanto alla coppa piena di rose autunnali. La stanza recava tutte le tracce della nostra presenza. I libri da restituirsi alla biblioteca circolante, e il numero già letto del Times. Qualche posacenere, con un mozzicone di sigaretta; cuscini abbandonati sulle poltrone, con l’impronta delle nostre teste; le ceneri del caminetto, ancora soffuse di brace verso il mattino. E Jasper, caro Jasper, coi suoi occhi fedeli e le lunghe gote cascanti, era là, disteso sul pavimento, e dimenava la coda non appena udiva i passi del suo padrone. Una nube, che sino allora non avevo veduto, nascose la luna, e per un istante aleggiò sulla faccia come una mano scura. Con essa l’illusione svanì e le luci alle finestre si spensero. Non vedevo più che un desolato guscio, finalmente senz’anima, non popolato neppure da fantasmi; e nessuna voce del passato vibrava attorno a quelle tristi mura.
La casa era una tomba, e i nostri terrori, i nostri dolori erano sepolti sotto a quelle rovine. Né mai sarebbe venuta la resurrezione. Quando, desta, avessi pensato a Manderley, sarebbe stato senza alcuna amarezza. Lo avrei veduto così come avrebbe potuto essere, ove avessi potuto vivervi spoglia d’ogni terrore. Avrei ricordato il giardino delle rose com’era d’estate, e gli uccelli che cantavano all’alba. L’ora del tè sotto l’ippocastano, e il murmure del mare che, traverso la prateria, saliva sino a noi.
Avrei pensato ai lillà in fiore, e alla Valle della Felicità. Erano, quelle, cose perenni, che non potevano andar dissolte. Erano memorie che non ferivano il cuore. Così pensavo in sogno, mentre le nubi velavano la faccia della luna, poiché, come spesso accade ai dormienti, io sapevo di sognare. In realtà mi trovavo centinaia di miglia lontano, in terra straniera, e fra pochi secondi mi sarei svegliata nella nuda cameretta d’albergo, la quale, col suo aspetto comune, mi rassicurava. Un momento avrei sospirato, stirando le braccia e voltandomi; e aprendo gli occhi, ancora una volta avrei stupito alla vista di quel sole smagliante, di quel cielo terso e duro, tanto diverso dal dolce chiaro di luna del mio sogno. E davanti a noi avremmo avuto la giornata, oh, quanto lunga, senza eventi, ma piena di una certa qual pace, di una cara tranquillità che non avevamo conosciuto prima. Né avremmo parlato di Manderley, né io avrei raccontato il mio sogno. Poiché Manderley non era più nostro. Manderley non era più.
Il
Non potremo tornarvi mai più: questo almeno è certo. Ancora il passato è troppo vicino a noi. Le cose che abbiamo tentato di dimenticare, di gettare dietro di noi si ridesterebbero, e quel senso di terrore, di furtiva inquietudine, tale da diventare, a tratti, cieco irragionevole panico -ora, grazie a Dio, pietosamente assopito -per qualche impreveduta via potrebbe diventare il nostro compagno vivente, così come già è stato un giorno. Egli è di una pazienza ammirevole e non si lamenta mai, nemmeno quando ricorda… cosa che, credo, accade assai più sovente di quanto non vorrebbe dare a vedere. Me ne accorgo, quando improvvisamente egli appare sperduto e confuso; ogni espressione scompare dal caro volto, come rapita da una mano invisibile, e lentamente vi si forma una maschera, qualcosa di scolpito, lineare, gelido, bellissimo ancora, ma senza vita. Allora egli si mette a fumare una sigaretta dopo l’altra, le butta via senza curarsi di spegnerle, e i mozziconi ardenti giacciono in giro sul suolo come petali di strani fiori. Allora egli parla rapidamente, discorre con vivacità di cose futili, afferrandosi a ogni tema, quasi a una panacea per il suo male. Esiste, se non erro, una certa teoria che uomini e donne escano migliori e più forti da un grande dolore, e che per progredire in questo o in un altro mondo si debba attraversare la prova del fuoco. E questo noi, per quanto possa sembrare un’ironia della sorte, l’abbiamo compiuto pienamente. Entrambi abbiamo conosciuto la paura, e la solitudine, e una miseria grande oltre ogni dire.
Io sono convinta che nella vita di ognuno giunga, tosto o tardi, l’ora della prova. Tutti quanti noi abbiamo il nostro dèmone, che ci aizza e ci tormenta, e col quale, tosto o tardi, dobbiamo combattere. Noi abbiamo vinto il nostro; o così almeno crediamo.
Il dèmone ha cessato di tormentarci. Dalla nostra crisi, siamo usciti; non incolumi, naturalmente. Il presagio di sciagura ch’egli ebbe sin da principio era giusto; e, come una leziosa attrice in un dramma di maniera, potrei dire che noi abbiamo acquistato la libertà a caro prezzo. Ma questa mia vita è stata finora abbastanza romantica; e volentieri darei qualche anno di essa, se ciò bastasse a garantirci un po’ di pace per il resto dei nostri giorni. La felicità non è un bene che possa esser stimato a peso d’oro, è uno stato d’animo, una piega mentale. Abbiamo, certo, i nostri momenti di scoraggiamento; ma vi sono anche altri momenti in cui il tempo non misurato dalle lancette, corre e corre verso l’eternità; e allora, cogliendo il suo sorriso, io so che noi siamo uniti, che camminiamo insieme, che nessun contrasto di pensiero né d’opinioni ci turba o ci separa.
Noi non abbiamo segreti l’uno per l’altro; e dividiamo gioie e dolori. Il piccolo albergo dove abitiamo è modesto, è vero, e il vitto non è molto variato; e il sole nasce e tramonta sempre uguale, o quasi, ogni giorno. Eppure non desideriamo nemmeno che sia diverso. In un grande albergo incontreremmo troppe delle sue conoscenze d’un tempo. Amiamo entrambi la semplicità, e se talvolta ci annoiamo, la noia è un grato antidoto contro la paura. La nostra vita quotidiana è monotona e io -chi mai lo crederebbe? -io ho acquisito un vero genio per leggere ad alta voce. L’unico momento in cui lo vedo impaziente è quando la posta non ci reca nulla; ciò significa dover aspettare fino al giorno seguente per aver notizie dall’Inghilterra. Abbiamo tentato anche la radio, ma i disturbi sono piuttosto irritanti, e, tutto ben sommato, preferiamo accantonare le nostre emozioni: così il risultato di un incontro di cricket Vecchio di parecchi giorni ci diverte un mondo.
Ah, quanti incontri sportivi non ci hanno salvati dalla noia: incontri di pugilato, e persino gare di bigliardo. Finali di manifestazioni sportive scolastiche, corse di cani, curiose piccole competizioni nelle più remote contee: tutto ciò è cibo alla nostra fame. A volte mi capitano fra le mani vecchi numeri del Field; e da quest’isola che m’è indifferente mi trovo trasportata nel pieno di una primavera inglese. Leggo di torrenti, di “damigelle”, dell’acetosella che cresce nei verdi prati, delle cornacchie che volando tracciano ampi giri sopra ai boschi: così come le vedevamo a Manderley… Un odor di terra bagnata sale da quelle pagine sciupate e segnate d’impronte; è l’effluvio asprigno delle torbe di brughiera, e par di vedere il muschio umido picchiettato di bianco dagli escrementi di un airone.
Una volta trovai un articolo sui colombi selvatici, e leggendolo ad alta voce mi pareva di essermi sperduta nel folto dei boschi a Manderley, e i colombi svolazzavano alti sul mio capo. Udivo il loro richiamo, dolce e sommesso, che nel calore del pomeriggio d’estate dava un senso di frescura; e nulla disturbava la loro pace, fino a che Jasper non sbucava attraverso i cespugli, il muso umido a terra, le lunghe orecchie che spazzavano il suolo. Come vecchie dame pudiche sorprese al bagno, svolazzando, i colombi fuggivano dal loro nascondiglio, colti da un’agitazione assurda e irragionevole, e con gran batter d’ali disordinatamente sì libravano a volo oltre le cime degli alberi, e in un baleno erano lontani, e non si udivano più. Spariti, un nuovo silenzio cadeva sul luogo, e io -inquieta senza ragione -mi accorgevo che il sole non macchiava più le foglie sussurranti, che le fronde s’erano fatte più scure, le ombre più lunghe; e là, a casa, avrei trovato lamponi freschi per il tè. Allora mi alzavo dal mio letto di verzura, scotendo dalle vesti il polverio lieve delle foglie secche dell’anno avanti; e, chiamato con un fischio Jasper, mi avviavo verso casa, rammaricandomi, pur mentre camminavo, per il mio passo frettoloso, e per la rapida occhiata che non sapevo fare a meno di gettar dietro di me.
Strano davvero, che un articolo sui colombi selvatici avesse tanto potere da richiamare il passato e turbarmi mentre lo leggevo ad alta voce. Fu quell’improvviso grigiore sul volto di lui, che mi costrinse a smettere, e a sfogliare la rivista fino a che non trovai un altro articolo sul cricket, interminabile, molto pratico e noioso. Ah, come benedicevo quelle robuste figure in calzoni di flanella: in men di pochi minuti il volto di lui si era rasserenato, aveva ripreso i suoi colori; e sanamente irritato, egli si pigliava gioco della tattica della squadra del Surrey. Così io avevo imparato a mie spese; e ci furono risparmiate altre scorribande nel passato. Leggere notizie dall’Inghilterra, sì, le notizie sportive e politiche e mondane; ma, in avvenire, tenere per me sola le cose che fanno male. Esse saranno il segreto diletto in cui indulgerò. Colori e voci ed effluvi, pioggia e gorgogliar di acque, anche le nebbie dell’autunno e l’odor della marea; sono, queste, memorie di Manderley che non mi saranno mai negate, Certa gente ha l’abitudine di leggere gli orari ferroviari. Progettano innumerevoli viaggi in lungo e in largo, per il solo piacere di combinar coincidenze impossibili. La mia mania, se pure altrettanto bizzarra, è meno tediosa. Io sono una vera miniera d’informazioni sulla provincia inglese. Conosco il nome d’ogni proprietario d’ogni brughiera inglese; sicuro, e anche il nome dei loro fittavoli. So quanti galli di montagna, quante pernici, quanti daini sono stati uccisi in una stagione di caccia. So. dove si trovano le trote, e i punti dove salta il salmone. Prendo parte a tutti i convegni, seguo ogni caccia a cavallo. Persino i nomi dì coloro che allevano cani da caccia mi sono familiari. Lo stato dei raccolti, il prezzo del bestiame, le misteriose malattie dei suini, rappresentano altrettante delizie per me. Un ben misero passatempo, non certo troppo intellettuale; ma leggendo queste cose io respiro l’aria dell’Inghilterra, e posso guardare con maggior coraggio a questo cielo smagliante. I vigneti intristiti, le pietre sgretolate mi danno meno fastidio allora, poiché, solo ch’io voglia, posso galoppare a briglia sciolta con la fantasia, e raccogliere digitale e pallide rose canine da una siepe gocciolante e screziata di sole.
Poveri capricci, ma teneri e che non fanno male. Sono i nemici dell’amarezza e del rimpianto, e addolciscono questo esilio che noi stessi abbiamo voluto. Per queste fantasie riesco a passare il pomeriggio, e sorridente e rasserenata arrivo al piccolo rito del tè delle cinque. Il quale non varia mai. Due fette di pane e burro per ciascuno, e tè cinese. Che coppia abitudinaria dobbiamo mai sembrare, attaccati alle nostre abitudini perché così facevamo in Inghilterra! Qui, su questo balcone lindo, bianco e impersonale, luminoso di secoli di sole, rievoco le quattro e mezzo del pomeriggio a Manderley, e il tavolino da tè preparato davanti al caminetto in biblioteca. Puntuale sino al minuto, il domestico spalancava la porta; e seguiva la rappresentazione sempre uguale: il vassoio d’argento, il bollitore, la tovaglia nivea. E Jasper, le lunghe orecchie di spaniel cascanti, fingeva la massima indifferenza all’arrivo delle paste. Ogni giorno era un festino che ci veniva posto dinanzi; e dire che noi mangiavamo così poco… Quei crumpets ancora stillanti di burro, li rivedo ora. Minuscoli tondini di pane tostato, e scones caldi, usciti appena dal forno, spolverati di fior di farina. Tramezzini di ignota natura, manipolati con ingredienti misteriosi e prelibati; e quel pan pepato ch’era la specialità della casa. Pan di Spagna tanto soffice che fondeva in bocca, e quell’altro suo compagno alquanto più vigoroso, che scoppiava di scorza d’arancio candita e di uva passa. C’era roba abbastanza da sfamare una famiglia per una settimana. Non ho mai saputo dove andasse poi a finire, e a volte quello sciupio mi preoccupava. Ma non trovavo mai il coraggio di domandare alla signora Danvers che cosa ne facesse. Ella mi avrebbe squadrata dall’alto in basso, con quel suo sorriso gelido e altezzoso sulle labbra; e mi pareva di sentirle dire: «Non abbiamo mai avuto lagnanze, quando c’era la signora de Winter». La Danvers… Chi lo sa, che cosa farà ora? Lei e Favell. Credo sia stata l’espressione sul volto di lei, a darmi la prima impressione d’inquietudine. “Essa mi confronta con Rebecca” pensai, istintivamente; e acuta come una spada l’ombra scese tra di noi… Ora tutto è finito: son cose passate, e lontane. Nessun dèmone mi tormenta più, e noi siamo liberi. Anche il mio fedeleJasper se n’è partito per i beati Campi Elisi, e Manderley non esiste più. È una vuota conchiglia fra l’intrico dei boschi inselvatichiti, così come l’ho veduto in sogno. Una moltitudine di male erbe, una colonia di uccelli. A volte, forse, vi capiterà qualche vagabondo, in cerca di rifugio da un improvviso acquazzone; e se egli è animoso abbastanza, vi si aggirerà senza timore. Ma quanto al suo timido compagno, il nervoso cacciatore di frodo, no, i boschi di Manderley non sono fatti per lui. Egli potrebbe capitare alla piccola casetta nella baia, e non si troverebbe bene sotto il tetto in rovina, sul quale tambureggia la pioggia sottile. Là potrebbe aleggiare tuttora una certa lugubre atmosfera… E quell’angolo del viale, là dove gli alberi si sono fatti strada fin sulla ghiaia -anche quello non è luogo ove sostare: non dopo che il sole è andato sotto. Quando le foglie si agitano, non par di udire un fruscio di seriche vesti femminili -di una veste da sera -e quando subitamente rabbrividiscono, e cadono, e si sparpagliano al suolo, non potrebbe essere il trepestio frettoloso d’un passo femminile? E quel segno nella ghiaia, non è l’impronta del tacco d’una scarpetta di raso?
Quando rievoco queste cose, allora mi volgo con sollievo al nostro balcone. L’occhio può spaziar lontano; nessuna ombra invade l’infocato paesaggio, i vigneti petrosi brillano al sole e le bougainvillee sono bianche di polvere. Un giorno, chissà, potrò forse guardare a questo paesaggio con amore. Se non amore, per il momento esso m’ispira fiducia, quanto meno. E la fiducia è una qualità ch’io apprezzo, sebbene un po’ tardi essa sia scesa nel mio cuore. Credo sia stato il fatto che egli fida così interamente in me, a darmi coraggio in ultimo. Certo è che ho perduto la mia diffidenza, la mia timidezza, la mia ritrosia verso gli estranei. Quanto diversa era la creatura che per la prima volta pose piede a Manderley: piena di speranze, ardente, sebbene sminuita da una goffaggine senza speranza; e animata da un’intensa volontà di accattivarsi gli animi! E là mia mancanza di sicumera non poteva non produrre cattiva impressione su gente come la signora Danvers. Che effetto doveva mai farle, dopo Rebecca? Mi rivedo ora -la memoria traversa gli anni come un ponte -coi capelli corti e lisci, il visuccio infantile vergine di cipria; infagottata in un abito, giacca e gonna di maglia, di mia “creazione”, seguivo alle calcagna la signora Van. Hopper, ombrosa e malcerta come un giovine puledro. Ella mi precedeva in sala da pranzo, il corpo tozzo in precario equilibrio sugli alti tacchi traballanti; la camicetta infronzolita di merletti poneva in rilievo il seno abbondante e i fianchi onduleggianti, il cappello nuovo trafitto da una smisurata penna, posato di traverso sui capelli, lasciava scoperto un bel tratto di fronte, nudo come il ginocchio d’un maschietto. Una mano reggeva una gigantesca borsetta, di quelle borsette che albergano passaporti, taccuini per gli impegni e quaderni da bridge, mentre l’altra mano giocherellava con quell’inevitabile occhialino che era il nemico d’ogni segretezza altrui.
Ella andava verso il solito tavolo nell’angolo del ristorante, vicino alla finestra, e portando l’occhialino agli occhietti porcini ispezionava la scena a destra e a sinistra, poi, lasciando ricadere l’occhialino, prorompeva in un sommesso grido di disgusto: “Nemmeno una personalità mondana! Veramente, dirò alla direzione che debbono farmi una riduzione sul prezzo. Per che cosa credono ch’io venga qui? Per guardarmi i ragazzini dell’ascensore?”. E chiamava a sé il cameriere; lo staccato della sua voce fendeva l’aria come una sega. Quanto diversi i piccoli ristoranti dove pranziamo oggi, da quel vasto salone da pranzo, pomposo e sovraccarico di stucchi, dell’Hòtel Còte d’Azur a Monte Carlo! E quanto diverso il mio compagno d’oggi, e le sue mani ferme e ben formate che tranquille e metodiche sbucciano un mandarino -ogni tanto egli alza lo sguardo a sorridermi -a confronto delle mani grassocce e ingioiellate della signora Van Hopper che s’impadronivano avide d’un piatto colmo di ravioli, mentre saettava un’occhiata sospettosa al mio piatto, per timore ch’io avessi scelto meglio! Non aveva bisogno di crucciarsi, ché il cameriere, con l’incredibile fiuto della sua professione, da tempo aveva intuito la mia posizione inferiore e asservita alla signora, e mi aveva messo davanti un piatto di prosciutto che mezz’ora avanti qualcuno aveva respinto perché male affettato. Curioso, quel risentimento delle persone di servizio, e la loro troppo ovvia impazienza. Ricordo d’esser stata una volta ospite in una villa di campagna, con la signora Van Hopper; la cameriera non si faceva mai vedere, alle mie timide scampanellate, non mi portava su le scarpe, e al mattino mi mettevano il vassoio col tè fuor della porta, e lo trovavo poi freddo gelato. Le stesse cose, sebbene con un carattere meno virulento, accadevano sulla Costa Azzurra; talvolta, poi, la studiata indifferenza si mutava in una familiarità affettata e offensiva, che faceva del semplice acquisto di francobolli al banco del portiere una prova che procuravo sempre di evitare. Quanto giovane e inesperta dovevo sembrare, e come lo sentivo! Ero troppo sensibile, troppo primitiva, e parole che in realtà volavano leggere si mutavano per me in altrettante spine e punture di spillo.
Lo ricordo come fosse oggi, quel piatto di prosciutto e lingua affumicata. Roba secca, poco appetitosa, tagliata troppo spessa, che pure non avevo il coraggio di rifiutare. Mangiavamo in silenzio, ché alla signora Van Hopper piaceva concentrarsi nei cibi; e dal modo come il sugo le colava lungo il mento, sapevo che era soddisfatta dei suoi ravioli. Non era uno spettacolo che ravvivasse il mio appetito per il piatto freddo che m’ero scelto, e distogliendo lo sguardo da lei vidi che il tavolo accanto al nostro, che per tre giorni era rimasto vuoto, tornava a essere occupato. Il direttore di sala, con quel particolare inchino riserbato ai clienti “speciali”, accompagnava il nuovo arrivato al suo posto.
La signora Van Hopper posò la forchetta, e mise mano all’occhialino. Arrossii per il suo sguardo indiscreto; il nuovo ospite, intanto, ignaro di quell’interesse, scorreva con occhio indifferente la lista delle vivande. D’un tratto la signora Van Hopper richiuse di scatto l’occhialino., e sporgendosi verso di me attraverso il tavolo, gli occhiettiaccesi d’emozione, la voce un pochino troppo forte, mi sussurrò: «È Max de Winter. Il proprietario di Manderley. Ne avrete sentito parlare. Che aria sofferente, non è vero? Dicono che non si sia ancora consolato della morte di sua moglie…».
III
Mi domando che cosa sarebbe oggi la mia vita, se la signora Van Hopper non fosse stata una snob. E buffo il pensiero che il corso della mia esistenza pendesse come un filo da quella sua qualità. La sua curiosità era una malattia, era quasi una mania. Sulle prime ne ero rimasta urtata; mi vergognavo per lei, e quando vedevo gente ridere alle sue spalle, abbandonare frettolosamente una sala al suo apparire o sgattaiolar persino dalla porta di servizio, mi pareva di essere un capro espiatorio che subisse le staffilate per il proprio padrone. La signora Van Hopper era un’assidua dell’Hótel Còte d’Azur, e oltre il bridge l’unico suo passatempo, notorio a Monte Carlo, era quello di vantarsi dell’amicizia di ospiti di qualità, per poco che li avesse veduti una volta di sfuggita all’ufficio postale. A forza di raggiri riusciva a presentarsi, e prima che la vittima avesse fiutato il pericolo, la signora snocciolava un invito nel suo appartamento privato. Tanto diretto e improvviso era il suo metodo di attacco, che raramente c’era modo di scappare. All’albergo vantava un suo antico diritto su di un sofà nella galleria, a mezza strada tra il salone d’ingresso e il corridoio che dava al ristorante; là soleva prendere il caffè, dopo colazione e dopo cena, e chiunque andasse e venisse era costretto a passarle davanti. Talvolta si serviva di me come di un’esca per attirare la preda; nonostante la mia riluttanza, mi mandava alla vittima, seduta dall’altra parte della galleria, con un messaggio verbale: la preghiera di prestarle un libro o un giornale, l’indirizzo di un negozio, la fulminea scoperta di un amico comune. Ella divorava addirittura le celebrità; e sebbene le sue preferenze andassero di gran lunga ai titolati, qualsiasi faccia vista su di un giornale mondano faceva ugualmente al caso: nomi sparsi per le cronache pettegole, autori drammatici, artisti, attori, anche mediocri, trovavano grazia agli occhi suoi, purché ella avesse letto il loro nome nero sul bianco.
La vedo ancora come se fosse ieri, in quell’indimenticabile pomeriggio -poco importa quanti anni siano trascorsi -seduta sul suo diletto sofà nella galleria, in procinto di muovere all’attacco. Da un certo suo fare brusco, dal modo come picchiava l’occhialino contro i denti, avrei giurato che andava architettando il suo piano. Sapevo che aveva lasciato il dolce, trangugiando rapida la frutta, per finire la colazione prima del nuovo ospite, e appostarsi là dove inevitabilmente doveva passare. D’un tratto si volse a me, gli occhietti accesi. «Andate di sopra, presto, e trovatemi quella lettera di mio nipote. Ricordate? Quella che mi ha scritto mentre era in viaggio di nozze, con l’istantanea… E portatemela subito.»
Capii che il progetto era ormai formato, e che il nipote sarebbe stato il mezzo per intrufolarsi. Non per la prima volta la parte ch’ella mi costringeva a recitare mi umiliava. Come l’assistente di un prestidigitatore porgevo gli oggetti che facevano parte del gioco e silenziosa e attenta aspettavo la mia battuta. Quel nuovo arrivato non avrebbe gradito l’indiscrezione, di questo ne ero certa. Da quel poco che su di lui avevo saputo a colazione -briciole di “sentilo dire” raccolte dieci mesi prima dalla signora Van Hopper sui giornali quotidiani e immagazzinate per farne uso ove si presentasse il caso -immaginavo, nonostante la mia gioventù e la scarsa esperienza del mondo, quanto egli si sarebbe risentito, al veder così violata la propria solitudine. Per quale ragione egli fosse venuto a Monte Carlo era cosa che non ci riguardava; i suoi problemi gli appartenevano interamente, e chiunque fuorché la signora Van Hopper avrebbe capito queste cose. Ma ella ignorava che cosa fosse il tatto, e viveva di pettegolezzi; perciò quell’estraneo era lì unicamente per servir di pasto alla sua curiosità. Trovai la lettera in un cassettino della scrivania; ed esitai un momento, prima di tornare a scendere. Per non so quale insensata impressione, mi pareva di concedere allo sconosciuto qualche istante ancora di pace.
Avrei voluto trovare il coraggio di passare per la scaletta di servizio e, facendo poi il giro dal ristorante, avvertirlo dell’imboscata. Ma il senso delle convenienze era ancora troppo fortemente radicato in me, e non avrei nemmeno saputo come formulare un giro di frasi adatto. Non mi restava altro che rincantucciarmi all’ombra della signora Van Hopper, al mio posto solito, mentre, simile a un grosso ragno compiacente, ella avrebbe tessuto la sua vasta e tediosa rete intorno all’estraneo. Ero rimasta assente più a lungo di quanto non avessi creduto, poiché ritornando alla galleria vidi che il forestiero aveva già lasciato la sala da pranzo; e la signora Van Hopper, timorosa di perderlo, non aveva aspettato la lettera, rischiando invece spudoratamente una presentazione di propria iniziativa.
Già egli era seduto accanto a lei sul sofà. Mi avvicinai, e senza una parola le porsi la lettera. Immediatamente egli si alzò, mentre la signora Van Hopper, rossa in viso per la gioia del successo, con un vago cenno di mano verso di me mormorava il mio nome. «Il signor de Winter prende il caffè con noi, andate a dire al cameriere di portare un’altra tazza» ella disse, con tono indifferente quanto bastava per fargli capire la mia condizione sociale. Significava che ero una personcina giovane, senza alcuna importanza, e che non c’era affatto bisogno che venissi associata alla conversazione. Sempre ella mi parlava su quel tono, quando voleva produrre una certa impressione; quel suo modo di presentarmi era una forma come un’altra di autoprotezione, poiché una volta, con grave imbarazzo per tutte e due, ero stata scambiata per sua figlia. Diceva, quel tono, che mi si poteva tranquillamente ignorare; le signore, di solito, mi facevano grazia di un breve cenno che serviva insieme di saluto e di congedo, mentre gli uomini intendevano con gran sollievo che potevano permettersi di sprofondarsi in un’ampia poltrona, -senza venir meno alle regole della cortesia.
Fu una sorpresa per me, che quello sconosciuto restasse così in piedi, e fosse lui a far segno al cameriere. «Mi dispiace, ma debbo contraddirvi» diss’egli. «Siete voi, signore, che prendete il caffè con me.» E prima ancora che potessi reagire, egli s’era seduto sulla mia scomoda seggiola, e io mi trovavo sul sofà vicino alla signora Van Hopper.
Per un attimo ella apparve seccata: non intendeva affatto che le cose andassero così. Ma subito si ricompose, e, insinuando l’ampia persona fra me e il tavolino, si protese verso la seggiola.
«Vi ho riconosciuto al momento stesso che avete messo piede nel ristorante!» Ella parlava con voce eccitata e troppo forte, sventolando la lettera. «E mi son detta: “Ma come, non è il signor de Winter, l’amico di Billy? Oh, ma bisogna che gli faccia vedere le fotografie di Billy e di sua moglie in luna di miele…” ed eccole qua. Ecco Dora. Non è un amore? Quel vitino di vespa… e quegli occhioni… Stanno facendo il bagno di sole a Palm Beach. Billy è pazzo per lei; ve lo potete figurare! Ancora non l’aveva conosciuta, però, quando diede quella festa al Claridge, dove ci siamo incontrati… Ma già, voi non vi ricorderete di una povera vecchia come me!» Seguì un’occhiata provocante, e uno sfolgorio di denti. «Al contrario, mi ricordo benissimo» egli disse, e prima che ella potesse attirarlo ad arte nelle reminiscenze del loro primo incontro, egli le porgeva il portasigarette aperto, e la faccenda di accendere la sigaretta la bloccò per il momento. «Non credo che a me piacerebbe molto Palm Beach» egli proseguì, spegnendo con un soffio il fiammifero; e guardandolo di sfuggita, pensai quanto irreale sarebbe apparso sullo sfondo della Florida. Quell’uomo apparteneva a una città fortificata del XV secolo, una città tutta viuzze strette, selciati di pietra e guglie sottili, dove gli abitanti portassero calzari a punta e calze di lana fatte a mano. Egli aveva un viso sensibile, che fermava l’attenzione, medioevale per un singolare, inesplicabile suo carattere; mi ricordava un ritratto visto in una galleria, non so più dove, il ritratto di un “gentiluomo ignoto”. Lo si fosse potuto spogliare del suo abito di tweed inglese e vestire di nero, con un merletto al collo e ai polsi, egli avrebbe guardato a noi, nel nostro nuovo mondo, da un remoto passato; un passato in cui gli uomini erravano intabarrati di notte, e si celavano nell’ombra di vecchi anditi, un passato di strette scale a chiocciola e di oscure carceri, un passato di sospiri fra le tenebre, di balenar di lame sguainate, di silenti e squisite cortesie.
Avrei voluto rammentare l’antico maestro che aveva dipinto quel ritratto. Il quadro era in un angolo della galleria; dalla cornice d’oro sbiadito, gli occhi seguivano chi lo guardava…
I due discorrevano, intanto, e io avevo perduto il filo del loro discorso.
«No, nemmeno venti anni fa» egli diceva. «Quelle cose non mi hanno mai divertito.»
Udii la grassa risata soddisfatta della signora Van Hopper. «Se Billy avesse una casa come Manderley, non se ne andrebbe girando per Palm Beach! Mi è stato detto che è un vero paesaggio incantato; non si può descrivere altrimenti.»
Ella s’interruppe, aspettando forse ch’egli sorridesse. Invece egli continuò a fumare; e per la prima volta notai, tenue come un filo di seta, la ruga fra le sopracciglia. «Ho veduto delle fotografie, naturalmente» insisteva la signora Van Hopper «e mi sembra proprio un luogo incantevole. Ricordo che Billy me lo ha descritto come la più bella fra le grandi dimore patrizie. Come fate ad allontanarcene?»
Il silenzio di lui era diventato penoso, e sarebbe stato esplicito per chiunque, eppure ella procedeva come una capra impazzita, saltellando e pestando su di un terreno riservato. Trascinata mio malgrado in quella situazione che mi umiliava, sentii che arrossivo.
«Già, voialtri inglesi siete tutti uguali, quando si tratta delle vostre case.» La voce era sempre più chiassosa. «Fingete di tenerle in poco conto, per non dare a vedere che ne siete orgogliosi. Non c’è una certa galleria dei menestrelli a Manderley, e ritratti di grande valore?» E si volgeva a me, come per spiegarmi… «Il signor de Winter è tanto modesto che non vuole ammetterlo, ma io credo che la sua bellissima casa sia venuta
in possesso della famiglia fin dai tempi della Conquista. Dicono che quella galleria dei menestrelli sia un gioiello. E mi figuro che i vostri antenati abbiano avuto spesso ospiti regali a Manderley, nevvero, signor de Winter?» Questo era troppo. Mai m’era toccato sopportarne una più grossa, nemmeno da lei; ma la sferzata della risposta di lui fu rapida quanto imprevista. «Non dopo Etelredo» diss’egli «quello che fu soprannominato il Tardo. Di fatto, fu mentre era ospite della mia famiglia che gli venne dato quel soprannome. Arrivava invariabilmente in ritardo a pranzo.»
Ella se l’era meritato; m’aspettavo che cangiasse colore, ma per quanto incredibile sembrasse, quelle parole andarono perdute, e fui io che mi vergognai per lei. Mi sentivo come una bambina che sia stata sculacciata. «Dite davvero?» ella continuava, a vanvera. «Io non ne ho alcuna idea. Non sono molto forte in fatto di storia, e per quanto riguarda i re d’Inghilterra poi, mi confondo sempre. Molto interessante, però. Bisogna che lo scriva a mia figlia. Lei sì che ha una grande cultura.» Ci fu una pausa; e mi sentii rinfrancata. Ero troppo giovane, ecco il male. Avessi avuto qualche anno di più, avrei ammiccato e sorriso, e lo sfacciato contegno di quella donna avrebbe creato subito un legame tra noi due; ma così stando le cose non potevo far altro che soffrire tutte le pene dell’inferno, come spesso accade alla gioventù. Credo ch’egli si accorgesse della mia angustia, poiché volgendosi a me mi parlò con gentilezza, domandandomi se desideravo ancora del caffè; e quando scotendo il capo rifiutai, sentii gli occhi suoi fissi ancora su di me. Uno sguardo curioso, riflessivo. Forse si chiedeva quali fossero esattamente i legami che mi univano a quella donna, e se eravamo parenti anche in fatto di futilità… «Che cosa ne pensate di Monte Carlo? Sempre che ne pensiate qualche cosa…» egli disse. Quel trovarmi inclusa nella conversazione scombussolava la ex-collegiale ancor goffa, dai gomiti rossi e dai capelli lisci ch’io ero; Mormorai qualche trita osservazione sull’artificiosità del luogo, ma prima ancora che avessi finito di balbettare la mia frase la signora Van Hopper m’interruppe. «È una ragazza viziata, signor de Winter, ecco il guaio. Quante, invece, darebbero anche gli occhi del capo, pur di vedere Monte Carlo!»
«E non vi pare che allora cesserebbe lo scopo?» egli disse sorridendo.
La signora Van Hopper scrollò le spalle, soffiando un gran nugolo di fumo in aria. Suppongo che non avesse capito affatto. «Per conto mio, sono fedele a Monte Carlo. L’inverno inglese mi butta giù, e il mio temperamento non lo sopporta proprio. Che cosa vi ha condotto qui? Voi non siete mica uno dei “nostri”. Giocate allo chemin de fer? o avete portato i vostri bastoni da golf?»
«Ancora non ho deciso nulla» egli rispose. «Sono venuto via da casa piuttosto in fretta.» Le sue stesse parole dovevano aver agitato in lui qualche ricordo, poiché tornò a rannuvolarsi in viso impercettibilmente e aggrottò la sopracciglia. Imperterrita la signora Van Hopper seguitava a chiacchierare. «Naturalmente sentirete la mancanza delle nebbie di Manderley. Là è tutta un’altra cosa. Però, la campagna inglese deve essere deliziosa in primavera.» Egli tese una mano verso il posacenere, schiacciandovi la sigaretta. Non mi sfuggì il sottile mutamento nei suoi occhi, l’indefinibile sfumatura che vi aleggiava; sentii che stavo per penetrare in una regione che apparteneva interamente a lui e non mi riguardava.
«Sì» egli disse, breve. «Manderley era bellissimo, infatti, quando sono partito.»
Un silenzio cadde tra di noi; un silenzio che non durò a lungo, ma recò con sé un certo disagio. Guardando quell’uomo di sottecchi, più che mai vedevo il mio Gentiluomo Ignoto camminar furtivo in un corridoio, di nottetempo, intabarrato e segreto. La voce della signora Van Hopper trafisse il mio sogno come un trillo di campanello elettrico.
«Immagino che conoscerete un subisso di gente qui, benché debba dire che Monte Carlo è piuttosto noioso quest’inverno. Si vedono così poche facce conosciute! C’è qui il Duca di Middlesex col suo panfilo, ma io non sono ancora stata a bordo.» Ch’io sapessi, non c’era stata mai. «Conoscerete Nell Middlesex, naturalmente» ella continuò. «Che donna interessante! Si dice che quel secondo bambino non sia di lui, ma io non ci credo. Che cosa non dice la gente di una bella donna, eh? Ed essa è veramente graziosa. Ditemi un po’, è vero che il matrimonio Caxton-Hyslop non ha poi fatto quella gran riuscita?» E andava avanti col vento in poppa, per un groviglio di chiacchiere, senza vedere che quei nomi erano estranei al signor de Winter, che non significavano nulla per lui, e che egli diventava sempre più freddo e taciturno. Mai, neppure un momento egli la interruppe o diede un’occhiata all’orologio; pareva che sin dal momento in cui s’era lasciato andare a canzonarla in mia presenza, si fosse prefisso di essere un modello di educazione; e alla sua risoluzione si attaccava disperatamente, piuttosto di peccar di nuovo. Giunse finalmente, a liberarlo, un fattorino dell’albergo, con l’ambasciata che la sarta aspettava la signora Van Hopper nel suo appartamento.
Subito egli si alzò, spingendo indietro la seggiola. «Non voglio trattenervi» disse. «La moda varia così presto al giorno d’oggi, che potreste trovarla già cambiata arrivando di sopra.»
La stoccata non la colpì; ella l’accettò piuttosto come una piacevolezza. «È stata una bella sorpresa, avervi incontrato così, signor de Winter» ella disse, mentre c’incamminavamo verso l’ascensore «ora che sono stata tanto coraggiosa da rompere il ghiaccio, spero di vedervi qualche volta. Dovete salire a prendere un aperitivo, nel mio appartamento privato; anzi… credo che proprio domani sera avrò due o tre persone… perché non venite anche voi?». Mi distolsi, per non avere l’umiliazione di vederlo lambiccarsi il cervello in cerca d’una scusa. «Mi rincresce» egli disse «ma è probabile ch’io faccia domani una corsa a Sospel, e non so bene a che ora ritornerò.»
Benché a malincuore, ella non insistè. Ma ancora indugiava, davanti al cancello dell’ascensore. «Speriamo che vi abbiano dato una buona camera, almeno; l’albergo è mezzo vuoto, sicché se non vi trovate bene non vi fate scrupolo di protestare. Il vostro domestico avrà pensato a disfare i vostri bagagli, no?» Questo era troppo, e io colsi un rapido mutamento d’espressione nel volto del signor de Winter. Poi egli rispose quetamente:
«Non ho domestico. Forse vorreste esser tanto gentile da pensarci voi?»
La freccia finalmente aveva colpito nel segno: la signora Van Hopper diventò di brace, e rise, un po’ impacciata. «Ecco, veramente non so…» ella incominciò; e d’un tratto, oh stupore, si volse a me: «Voi forse potreste trarre d’impiccio il signor de Winter, se ha bisogno d’aiuto. Siete una ragazzina capace, quando volete.» Ci fu una pausa, durante la quale, allibita, io attesi la risposta. Egli ci guardava tutte e due, con aria lievemente sardonica; l’ombra d’un sorriso gli errava sulle labbra. «Un’idea molto gentile» replicò «ma io mi attengo al motto della mia famiglia. Viaggia più veloce chi viaggia solo. Forse non lo conoscevate ancora.» E senza attender risposta, si volse e ci lasciò. «Che cosa buffa» diceva la signora Van Hopper, mentre l’ascensore saliva. «Non credete che quella fuga improvvisa possa essere un tratto di spirito? Gli uomini tanno di queste sorprese. Ricordo sempre che uno scrittore molto noto aveva l’abitudine di precipitarsi per la scala di servizio ogni volta che mi vedeva. Ho il sospetto che avesse un debole per me, ma non si sentisse troppo sicuro del fatto suo. Ma già, a quei tempi ero più giovane.» Con un sobbalzo l’ascensore si era arrestato. Eravamo arrivate al nostro piano; il fattorino spalancò il cancelletto. «A proposito, mia cara» riprese la signora Van Hopper, mentre attraversavamo il corridoio «non voglio essere severa con voi, ma mi sembra che oggi abbiate voluto darvi un pochino troppo d’importanza. I vostri sforzi per intrufolarvi nella conversazione mi hanno veramente imbarazzata, e son sicura che il signor de Winter era del mio parere. Gli uomini, sapete, aborrono queste cose.» Non dissi nulla. Mi pareva che non ci fosse nulla da dire. «Suvvia, non fate il broncio.» Ridendo ella scrollò le spalle. «In fin dei conti, io sono responsabile per il modo come vi comportate qui, e potete ben accettare i consigli di una donna che potrebbe essere vostra madre. Eh bien, Blaize, je viens…» E canterellando un’arietta facile entrò nella camera da letto, dove la sarta stava ad aspettarla. M’inginocchiai sul sedile nel vano della finestra e guardai fuori. Il sole pomeridiano splendeva tuttora vivido; un venticello gaio aleggiava nella strada. Fra mezz’ora saremmo state sedute al tavolino del bridge, le finestre ermeticamente chiuse, il termosifone completamente aperto. La mia mente correva ai posacenere che spettava a me vuotare, dove i mozziconi schiacciati, macchiati di rosso per le labbra, tenevano compagnia a cioccolatini rosicchiati a metà. Il bridge non riesce facile a una ragazza allevata in collegio; a parte ciò, gli amici della signora Van Hopper si seccavano a giocare con me. Sentivo che la mia giovanile presenza poneva un freno alle loro conversazioni, non altrimenti di quella d’una cameriera; essi esitavano a tuffarsi a capofitto entro il crogiuolo degli scandali e dei doppi sensi. Gli uomini assumevano una specie di forzata cordialità, e mi ponevano domande facete sulla storia della pittura, supponendo che, uscita di fresco dalla scuola, fossero quelle le uniche cose su cui mi si potesse intrattenere.
Sospirando mi distolsi dalla finestra. Il sole era così pieno di promesse, e le onde, frustate dal gaio venticello, si orlavano di bianco. Pensai a quell’angolino di Monaco, per il quale ero passata un paio di giorni prima. Una piccola casa sbilenca si appoggiava a una piazzetta selciata a pietre. Su in alto, sul tetto cadente c’era una finestra, stretta come una feritoia. Avrebbe potuto affacciatisi un volto medioevale; e, tendendo la mano verso carta e matita, sulla scrivania, colta da improvvisa fantasia, distratta schizzai un profilo, pallido e aquilino. Un occhio scuro, uri naso prominente, un labbro superiore sprezzante. E come avrebbe fatto il pittore tanti anni addietro, in un’epoca diversa, vi aggiunsi una barba a punta, e un merletto al collo.
Bussarono; il valletto dell’ascensore entrò con un biglietto in mano. «Madame è nella camera da letto» dissi, ma egli scosse il capo, e replicò che era per me. Aprii la busta, e vi trovai un unico foglio di carta, con poche parole scritte da una mano
ignota. “Perdonatemi. Oggi sono stato molto sgarbato,” Era tutto. Non c’era né la firma, né
il mio nome. Ma il mio nome era sulla busta, e – cosa insolita – scritto correttamente. «C’è risposta?» domandava il valletto. Alzai il capo da quei frettolosi caratteri. «No. Non c’è risposta.» Non appena se ne fu andato mi cacciai il biglietto in tasca, e tornai al mio disegno,
ma senza che ve ne fosse ragione non mi piaceva più, il volto era duro e privo di vita, e il colletto di pizzo e la barba a punta sembravano i dati di un rebus.
IV
La mattina seguente a quella riunione di bridge la signora Van Hopper si svegliò con la gola gonfia e una temperatura di trentotto e cinque. Telefonai al suo medico, il quale venne e diagnosticò la solita influenza. «Rimarrete a letto fino a quando non vi permetterò io di alzarvi» egli disse. «C’è il cuore che non mi piace affatto, e non migliorerà certo se non osserverete un riposo assoluto, Preferirei» e si rivolse a me «che la signora avesse un’infermiera diplomata. Voi, tanto per cominciare, non potete nemmeno sollevarla… Ma non si tratterà che di una quindicina di giorni.» Quelle disposizioni mi parevano assurde, e protestai, senonché, con mia gran sorpresa, la signora Van Hopper le approvò. Io credo che le facesse piacere darsi un po’ d’importanza, e vedersi compiangere dagli amici, e ricever visite e bigliettini e mazzi di fiori. A Monte Carlo cominciava ad annoiarsi, e quella piccola malattia sarebbe stata una distrazione provvidenziale.
L’infermiera avrebbe dovuto farle qualche iniezione, e praticarle dei leggeri massaggi. Oltre a ciò ella doveva seguire un regime. La lasciai fra quelle mani esperte, sorretta dai guanciali, con la temperatura già in via di diminuire, le spalle protette dalla sua più bella giacchettina da boudoir, in testa una cuffia infiocchettata di nastri. Vergognandomi un poco di prender le cose alla leggera, telefonai alle sue amiche, rimandando la piccola riunione ch’ella aveva predisposto per la serata, e scesi al ristorante per la colazione una buona mezz’ora prima della nostra ora solita. Avrei trovato la sala deserta o quasi: generalmente, nessuno mangiava prima dell’una. Infatti, nessun tavolino era occupato, meno quello vicino al nostro… Ecco un caso al quale non ero preparata. Credevo che il signor de Winter fosse andato a Sospel. Probabilmente egli mangiava presto, nella speranza di evitarci. Ero ormai giunta a metà della sala, e non potevo tornare indietro. Non lo avevo più veduto da quando, il giorno avanti, eravamo entrate nell’ascensore. Certo per la medesima ragione per cui mangiava ora in anticipo, aveva evitato di cenare al ristorante dell’albergo. A una situazione simile non ero certo addestrata. Quanto avrei voluto essere più matura, diversa! Lo sguardo dritto avanti a me filai al nostro tavolino, e subito resi omaggio alla goffaggine, rovesciando il vaso di anemoni mentre dispiegavo il tovagliolo. L’acqua bagnò la tovaglia, e a rivoli mi gocciolò in grembo. Il cameriere si trovava in quel momento dalla parte opposta, e non aveva veduto. Ma in men d’un secondo il mio vicino mi stava al fianco, un tovagliolo asciutto in mano.
«Non potete rimanere lì con quella tovaglia bagnata» disse, piuttosto brusco. «Vi farebbe passar l’appetito. Toglietevi di qui.»
E cominciò ad asciugar la tovaglia, mentre il cameriere, che finalmente aveva veduto la catastrofe, correva in suo aiuto.
«Ma non importa» dicevo io. «Non fa nulla, davvero. Tanto, sono sola…»
Egli taceva, mentre il cameriere allontanava il vaso e i fiori sparsi.
«Lasciate stare» disse improvvisamente il signor de Winter al cameriere. «Preparate un altro posto alla mia tavola, invece. Mademoiselle farà colazione con me.» Confusa alzai il capo. «Oh no! È impossibile…» «E perché?»
Cercai una scusa. Sapevo benissimo ch’egli non aveva alcuna voglia di mangiare con me. Era una pura cortesia da parte sua. Gli avrei rovinato la colazione. Coraggiosamente mi risolsi a essere sincera. «Per piacere, non vi forzate a esserecortese. È molto gentile da parte vostra, ma quando il cameriere avrà asciugato la tovaglia starò benissimo.»
«Ma non lo faccio per essere cortese» egli insistè. «Gradirei molto di avervi a tavola con me. Anche se non vi fosse accaduta la disgrazia di rovesciare il vaso, vi avrei invitata ugualmente.» Il dubbio dovette leggermisi chiaro in viso, poiché egli sorrise. «Non mi credete? Non importa. Su, venite qui e sedetevi. Del resto, non ci sarà bisogno che facciamo conversazione, a meno che non ce ne venga voglia.»
Ci sedemmo, ed egli mi porse la lista delle vivande affinché scegliessi, e seguitò a mangiare l’antipasto come se nulla fosse accaduto.
Quella sua facoltà di astrarsi era quanto mai singolare; ero sicura, ormai, che avremmo potuto continuare a mangiare così, senza parole, e che sarebbe stato perfettamente naturale. Lui almeno non mi avrebbe fatto domande sulla storia della
pittura…
«Che cosa ne è della vostra amica?» egli domandò. Gli dissi dell’influenza.
«Oh, mi dispiace.» E poi, dopo un momento: «Avrete avuto il mio biglietto. Mi sono vergognato di me stesso. Ho dei modi atroci, veramente. L’unica mia scusa è che è stata la solitudine a fare di me un orso. Ecco perché, tenendomi compagnia oggi, mi fate una gentilezza.» «Non siete stato scortese» replicai «almeno, non è quello il genere di scortesie che ella possa capire. La sua curiosità… non ha veramente cattive intenzioni. Fa così con tutti. Cioè, con le persone d’una certa importanza.» «Allora dovrei esserne lusingato. Ma perché dovrebbe considerarmi un personaggio importante?» Esitai un momento prima di rispondere. «Credo sia per via di Manderley.»
Egli non mi diede risposta, e di nuovo mi assalì quel senso di disagio, come se mi fossi avventurata su di un terreno vietato. Chissà mai perché quella sua dimora, che tanta gente conosceva e nominava, aveva il potere di ridurlo al silenzio, inevitabilmente, creando una barriera fra lui e gli altri…
Per un po’ mangiammo in silenzio. Pensavo a una cartolina illustrata che un giorno avevo comperato in una bottega del paese dove, da bambina, passavo le vacanze. Rappresentava una gran casa: un disegno grossolano, a tinte chiassose, ma nemmeno quelle manchevolezze riuscivano a distruggere la simmetria dell’architettura, l’ampia scalea davanti alla terrazza, la prateria verde che digradava sino al mare.
Avevo pagato due pence per quell’opera d’arte: metà della somma settimanale per i miei minuti piaceri. La vecchia grinzosa ch’era al banco apparve stupita della mia ignoranza, allorché le domandai che cos’era. «Come? È Manderley» mi rispose; e rammentavo d’esser uscita dalla bottega mortificata, ma senza saperne più di prima.
Fu forse il ricordo di quella cartolina illustrata, sepolta poi tra le pagine di qualche libro perduto o dimenticato, a farmi simpatizzare col suo atteggiamento difensivo. La signora Van Hopper e i suoi simili lo irritavano, con le loro domande indiscrete. C’era forse, attorno a Manderley, una aureola d’inviolabilità, di luogo eletto, di cui non si doveva discutere. Immaginavo la signora Van Hopper e le sue simili che calpestavano i tappeti, nelle sale -forse avevano anche pagato sei pence d’ingresso -e turbavano la quiete col loro riso stridulo e indiscreto. I nostri pensieri dovevano aver seguito il medesimo corso, poiché egli si mise a parlare di lei. «La vostra amica è parecchio piùanziana di voi… è una vostra parente? È molto che la conoscete?» M’avvedevo che ancora egli non aveva ben compreso quali fossero i nostri rapporti.
«Veramente, non è affatto un’amica» dissi. «Io sono stipendiata da lei. Essa vorrebbe fare di me quel che si dice una dama di compagnia, e mi dà novanta sterline all’anno.»
«Toh! Non sapevo che si potesse comperare la compagnia» egli replicò. «Mi sembra un’idea alquanto primitiva. Qualcosa come la tratta degli schiavi.» «Una volta ho cercato, in un vocabolario, che cosa volesse dire “dama di compagnia” e ricordo che diceva “una dama di compagnia è un’amica del cuore”.» «Ma voi non avete molto in comune con quella signora!» Egli uscì in una risata, e tutt’a un tratto apparve diverso, più giovanile, meno assente. «E perché fate la “dama di compagnia”?»
«Novanta sterline sono una bella somma, per me.» «Non avete famiglia?» «No. I miei genitori sono morti.» «Avete un nome molto bello, e tutt’altro che comune.»
«Mio padre era un bell’uomo, e tutt’altro che comune.»
«Parlatemi di lui.»
Lo guardai, di sopra al mio bicchiere di limonata. Non era facile dire di mio padre, e di solito non avevo mai parlato molto di lui. Egli era la mia proprietà segreta e riservata, non altrimenti che Manderley per il mio compagno. E non avevo alcuna voglia di presentarlo così, con indifferenza, a un tavolino di ristorante, a Monte Carlo.
Quella colazione si svolgeva in una singolare atmosfera d’irrealtà; e anche ora, se la considero nel ricordo, ha serbato per me un incanto strano. Non erano passate ventiquattr’ore dacché, collegiale angolosa, taciturna e sottomessa, ero seduta là in compagnia della signora Van Hopper, e già la storia della mia famiglia non mi apparteneva più: ne avevo fatto parte a un uomo che non conoscevo. Non so quale misteriosa ragione mi spingesse a parlare: forse era perché gli occhi suoi mi seguivano, pieni di simpatia, come quelli del Gentiluomo Ignoto. La mia timidezza dileguava, si scioglieva come la lingua riluttante; e i piccoli segreti, le gioie e i dolori della fanciullezza venivano alla luce. Mi pareva che, attraverso le mie povere parole, quell’uomo comprendesse un poco della vibrante personalità ch’era stato mio padre, e anche un poco dell’amore che mia madre aveva avuto per lui; amore simile a una forza vitale, essenziale, che aveva in sé una divina scintilla, tanto che quando, in quello sconsolato inverno, egli era morto di polmonite, ella aveva indugiato ancora sulla terra per cinque brevi settimane, e poi l’aveva abbandonata. Ricordo la mia pausa, a un dato momento; ero un poco ansante, un poco sbalordita. Ora il ristorante si riempiva di gente, che sul rumoroso sfondo del suono di un’orchestrina e dell’acciottolio delle stoviglie chiacchierava e rideva; un’occhiata all’orologio sopra la porta mi rivelò che erano le due. Eravamo lì da un’ora e mezzo, e avevo parlato quasi sempre io sola. Precipitai nuovamente nella realtà, le mani calde, confusissima. Col viso in fiamme, balbettando, mi scusavo, ma egli non mi diede neppure ascolto. «Vi ho già detto, non appena ci siamo seduti, che avete un nome molto bello e punto comune. Vi dirò di più, se permettete: esso vi sta assai bene, come doveva star bene a vostro padre. Ho goduto quest’ora con voi, come da parecchio tempo non godevo nessuna altra cosa al mondo. Voi mi avete aiutato a evadere da me stesso, da uno smarrimento e da una mania d’introspezione che, da un anno, sono i dèmoni dei quali mi trovo in balia.» Lo guardai: senza dubbio diceva la verità. Pareva meno inceppato di quanto non lo fosse prima, più moderno e umano, non più imprigionato da ombre. «Lo sapete che noi abbiamo qualcosa in comune?» disse. «Siamo tutti e due soli al mondo. Io ho una sorella, è vero, ma non ci vediamo molto, e una nonna decrepita alla quale faccio visita per dovere tre volte l’anno. E né l’una né l’altra sono per me quel che si dice una compagnia. Finirò per congratularmi con la signora Van Hop per le novanta sterline l’anno, voi non siete costosa davvero.»
«Dimenticate che voi avete una casa, e io no» replicai. Non appena pronunciate queste parole le rimpiansi, poiché vidi quel segreto sguardo inscrutabile riaffiorare nei suoi occhi, e ancora una volta soffersi dell’intollerabile disagio che segue a una mancanza di tatto. Egli chinò il capo, mentre accendeva una sigaretta, e non rispose subito.
«Una casa deserta può essere solitaria quanto un albergo affollato» disse. «Il male è che è meno banale.» Esitava; per un attimo credetti che finalmente avrebbe parlato di Manderley, ma qualcosa doveva trattenerlo, qualche fobia che da segrete profondità saliva alla superficie dell’animo suo e vinceva. Soffiando sul fiammifero, parve ch’egli spegnesse al tempo stesso l’ultimo bagliore di fiducia in me.
«Sicché, l’amica del cuore è in vacanza?» disse, tornando al livello di un facile cameratismo. «E come si propone di trascorrerla?»
Pensai alla piazzetta lastricata, a Monaco, è alla casa dalla finestrella. Alle tre avrei potuto essere laggiù, col mio album di schizzi e la matita; e glie lo dissi, un po’ timidamente forse, come tutte le persone che accarezzano una loro piccola mania artistica senza vere disposizioni, «Vi ci condurrò con la mia macchina» egli disse, e non volle sentir proteste.
Ricordai le osservazioni della signora Van Hopper, la sera avanti, sull’importanza che m’ero data; dissi, timorosa, che forse egli pensava ch’io avessi parlato di Monaco per approfittar della sua automobile. Era proprio il genere d’indiscrezione che una signora Van Hopper avrebbe commesso, e io non volevo esserle associata, nella sua mente. Già le mie azioni erano cresciute, dopo quella colazione, poiché quando ci alzammo da tavola il piccolo direttore di sala si precipitò a scostare la mia seggiola, con un inchino e un sospiro -mutamento radicale, dal solito atteggiamento indifferente -raccolse da terra il fazzoletto che m’era caduto e proferì l’augurio che “mademoiselle” avesse trovato la colazione di suo gusto. Persino il valletto alla porta girevole mi occhieggiò con rispetto. Naturalmente il mio compagno, che nulla sapeva del disgraziato piatto di prosciutto del giorno avanti, dovette trovar tutto ciò naturale. Ma quel cambiamento mi umiliava; quasi mi disprezzavo, ricordando mio padre e il suo odio per ogni genere di superficiali snobismi. «A che cosa pensate?» Camminavamo per il corridoio che dava alla galleria, e alzando il capo vidi che i suoi occhi, fissi su di me, tradivano la curiosità. «C’è qualche cosa che non va?»
Le attenzioni del direttore avevano dato la stura a tutta un’associazione, d’idee, e mentre prendevamo il caffè gli dissi di Blaize, la sarta. Era rimasta tanto contenta che la signora Van Hopper avesse comperato tre vestiti; e io, accompagnandola all’ascensore, me l’ero figurata al lavoro nel suo minuscolo salon, in un retrobottega dove si soffocava, col figlio tisico che lentamente si consumava su di un divano adattato a letto. Mi pareva di vederla che aguzzava gli occhi affaticati per infilar l’ago; e il pavimento, tutt’intorno, sparso di ritagli di stoffa. «Ebbene? E la vostra visione non rispondeva alla verità?» egli domandò sorridendo.
«Non lo so. Non l’ho mai saputo.» E gli dissi come, mentre premevo il campanello dell’ascensore, la donna, dopo aver frugato nella borsetta, mi aveva messo in mano un biglietto da cento franchi, sussurrando, in un tono confidenziale ed equivoco: «Qua, eccovi un piccolo regalo… siete stata così gentile, a portare la vostra padrona nel mio negozio…». Quando, rossa in viso per l’imbarazzo, avevo rifiutato, ella aveva scrollato le spalle, sgarbata. «Come vi pare, ma vi accerto che è l’uso. Forse preferite un vestitino… Venite giù al negozio con madame, e penserò a voi senza farvi spendere un soldo.» Non so perché, avevo provato l’impressione morbosa, malsana di quando, bambina, sfogliavo un libro proibito. La visione del figlio roso dalla tisi dileguava, per far luogo all’immagine di una me stessa diversa, in atto d’intascare quel sudicio biglietto da cento con un sorrisetto d’intesa, o di correr nascostamente al primo pomeriggio di libertà nel salon della Blaize, tornandone con un vestito che avrei trovato modo di non pagare.
M’aspettavo che egli ridesse: era una storiella sciocca e non sapevo nemmeno io perché glie l’avessi raccontata. Invece egli mi guardò meditabondo, rigirando il cucchiaino nel caffè.
«Secondo me, avete fatto un grosso sbaglio» disse, dopo un momento.
«Rifiutando quei cento franchi?» «No… per chi mi prendete, buon Dio? Credo abbiate fatto un grosso sbaglio a venire qui, ad accodarvi alla signora Van Hopper. Voi non siete fatta per un mestiere di questo genere. Siete troppo giovane, per prima cosa, e troppo sensibile. La Blaize e la sua “commissione”… oh, non vuol dir nulla. Non è che il primo di altri incidenti, che vi verranno da altre Blaize. O dovrete cedere, e diventare anche voi una specie di Blaize, oppure, se volete rimanere quella che siete, non resisterete… Chi è stato a consigliarvi per primo questo posto, intanto?» Pareva naturale ch’egli m’interrogasse, e non mi offendeva affatto. Era come se ci conoscessimo da gran tempo, e ci ritrovassimo dopo una pausa di molti anni. «Avete mai pensato all’avvenire, e a che cosa condurrà questo stato di cose?» egli domandò. «Supponiamo che la Van Hopper si stanchi dell’“amica del cuore”… e allora?»
Sorrisi, e gli dissi che non me ne sarebbe importato gran che. Avrei trovato altre signore Van Hopper; e poi, ero giovane, e forte, e fiduciosa nelle mie energie. Ma mentre egli parlava, io vedevo quegli appelli, che spesso si leggono su qualche rivista mondana, coi quali una bene intenzionata società invoca la carità altrui in favore di giovani donne “provate dalla sorte”; pensavo al genere di pensioni di famiglia che concedono temporanea ospitalità a quelle disgraziate; e mi vedevo poi, il libro degli schizzi sottobraccio, priva di requisiti particolari, a balbettar timide risposte a gelidi agenti di collocamento. Forse avrei dovuto accettare il dieci per cento della Blaize.
«Quanti anni avete?» egli mi domandò. Rise, quando glie lo ebbi detto, e si alzò. «Conosco quest’età; si è particolarmente cocciuti, e mille babau non vi fanno temere l’avvenire. Peccato che non possiamo fare il cambio, però. Andate di sopra a mettervi il cappello; io intanto vado a prendere la macchina.»
Mentre egli mi guardava entrare in ascensore, pensavo al giorno avanti. Il chiacchiericcio inconcludente della signora Van Hopper, e la gelida cortesia di lui. Lo avevo giudicato male, egli non era né freddo né sardonico; per me era di già l’amico di lunghi anni, il fratello che non avevo mai avuto. Quel pomeriggio mi trovavo in uno stato di grazia; e lo ricordo bene. Vedo il cielo increspato di cirri leggeri, e il mare chiazzato di bianche spume. Mi par di sentire ancora il vento alitarmi in viso, e odo la mia risata, e la sua, che faceva eco. Non era più la Monte Carlo che conoscevo,
o forse mi piaceva di più. Aveva un color d’incantesimo che mi riusciva nuovo. Sino allora dovevo averla guardata con occhi spenti. Ora la rada era una cosa gaia, ove danzavano barchette che parevano di carta, e i marinai sul quai erano gioviali e sorridenti, mattacchioni quanto il vento. Passammo vicino al panfilio che formava l’ammirazione della signora Van Hopper per via dei suoi blasonati proprietari, e davanti ai luccicanti ottoni, guardandoci, scoppiammo di comune accordo in una risata sbarazzina. Ricordo come fosse oggi l’abito di flanella che portavo, comodo e mal fatto; la gonna, un po’ più logora dall’uso, era più leggera della giacca. E il cappello di feltro spelato, dalla falda troppo larga, e le scarpe dal tacco basso, allacciate con le stringhe. E un paio di guanti alla moschettiera, stretti in una mano un po’ ruvida. Mai avevo avuto l’aria più “collegiale”, mai. m’ero sentita più vecchia. La signora Van Hopper e la sua influenza non esistevano per me. Obliate erano le riunioni di bridge e i cocktails, e, con quelle cose, la mia umile condizione di dama di compagnia. Ero un personaggio importante, ero “grande”, finalmente. Quella ragazza che, vittima della timidezza, fuor della porta cincischiava il fazzoletto tra le mani inquiete, mentre di dentro le giungeva quel confuso brusio di chiacchiere, tanto snervante per l’intrusa, quella ragazza oggi il vento l’aveva rapita Povera creatura: io pensavo a lei con compatimento, se pure ancora vi pensavo. Il vento, troppo vivo, m’impediva di disegnare: in allegre folate arrivava dall’angolo della mia piazzetta lastricata; cosicché risalimmo in automobile, e ripartimmo per luoghi che m’erano sconosciuti. La lunga strada saliva su per le colline, e con essa saliva la macchina, e per tortuosi giri ci librammo tosto alti come uccelli a volo. Quanto diversa era questa dalla macchina che la signora Van Hopper prendeva a nolo per la stagione: una vetusta e monumentale Daimler che in certi placidi pomeriggi ci portava a Mentone ed io, accoccolata sul seggiolino voltando le spalle al guidatore, ero costretta a torcere il collo per vedere il paesaggio. Questa macchina aveva davvero le ali di Mercurio; sempre più in alto salivamo, a una perigliosa velocità; ma io mi godevo il pericolo, perché era per me una novità, e perché ero giovane. Ridevo forte, e il vento recava lontano il mio riso; poi, guardando il mio compagno, m’avvidi che non rideva più, che era tornato taciturno e assente: di nuovo era l’uomo di ieri, racchiuso in un suo io segreto. Vidi anche che non potevamo
salire più in alto. Avevamo raggiunto il culmine del monte, e sotto di noi, precipitosa, tutta curve, si snodava la strada percorsa. Egli frenò di colpo, e vidi che il ciglio della strada costeggiava uno strapiombo il quale finiva in un vuoto pauroso, a un’altezza di forse trecento metri. Scendemmo, e guardammo al basso. Rinsavii, finalmente, vedendo che mezza lunghezza appena della macchina ci aveva divisi dall’abisso. Simile a un’ondulata carta nautica il mare si estendeva fino all’orizzonte, e lambiva il contorno netto della costa, mentre le case, picchiettate qua e là da un sole arancione, erano bianche conchiglie aggrappate a una grotta rotonda. Quassù, anche il sole pareva più aspro e austero. Il nostro pomeriggio s’era trasfigurato, aveva perduto la sua aurea levità. Il vento cadde, e improvvisamente l’aria rabbrividì.
Quando parlai, la mia voce era troppo disinvolta, e il mio era il tono futile e nervoso di chi si sente a disagio. «Conoscete questo luogo? Ci siete già stato?» Egli mi guardò come se non mi riconoscesse, e con una piccola punta d’ansia m’accorsi che doveva avermi dimenticato, e forse da un po’ di tempo già; e che tanto era perduto nel labirinto dei suoi stessi irrequieti pensieri, ch’io non esistevo per lui. Egli aveva il volto di un sonnambulo, e per un disperato istante mi colse l’idea che forse non era un uomo normale, che non aveva la testa a posto. Avevo sentito parlar di gente che andava soggetta a visioni… Gente che seguiva strane leggi di cui non sapevamo, che obbediva ai bizzarri comandi del proprio subcosciente. Forse costui era uno di quegli infelici; ed eccoli lì, a due metri dalla morte… «Si fa tardi: se andassimo a casa?» dissi. Ma il mio tono indifferente, il mio sorrisetto fatuo non avrebbero ingannato nemmeno un bambino.
Naturalmente m’ero sbagliata sul conto suo: non c’era proprio nulla di anormale in lui, poiché quando ebbi parlato, questa volta, egli si ridestò dal suo sogno a ocelli aperti, e subito cominciò a scusarsi. Dovevo essermi sbiancata in viso, ed egli se n’eraaccorto. «È stata una cosa imperdonabile, questa che ho fatto» disse, e prendendomi per il braccio mi spingeva verso l’automobile. Risalimmo, ed egli chiuse lo sportello. «Non vi spaventate, la svolta è molto più facile di quel che sembra.»
La vertigine mi dava quasi nausea; con ambe le mani mi aggrappai al sedile. Intanto, egli manovrava la macchina, piano, con dolcezza, fino a che l’ebbe riportata sulla strada, verso la discesa.
«Dunque siete stato qui altre volte?» Quel senso di pena mi abbandonava, via via che ridiscendevamo per la via stretta e tortuosa.
«Sì» diss’egli, e dopo una pausa: «Ma sono già molti anni, volevo vedere se era mutato…» «E lo è?»
«No. Non è mutato.»
Che cosa poteva mai averlo spinto a quella scorribanda nel passato, prendendomi a ignara testimone delle sue emozioni? Quale abisso di anni sbadigliava tra lui e quell’altro momento, quale stato d’animo, quale diversità di temperamento? Non volevo sapere. Mi pentivo di essere venuta.
Così scendemmo a valle, per la via tutta svolte, senza un arresto, senza una parola. Un gran baluardo di nubi sbarrava ora il sole presso al tramonto, e l’aria era limpida e fredda. Subitamente egli si mise a dire di Manderley. Non parlò della sua vita laggiù non una parola di se stesso -ma mi raccontava come il sole tramontava laggiù nei pomeriggi di primavera, lasciando un baglior d’incendio dietro il promontorio che sporgeva in mare. Allora le acque, fredde ancora del lungo inverno, avevano un color d’ardesia, e dalla terrazza si udiva il chioccolio della marea che veniva a infrangersi nella piccola baia. Gli asfodeli in fiore, testoline d’oro in cima ai lunghi steli, si movevano dolcemente alla brezza vespertina; e per quanti se ne raccogliessero la fitta massa non si diradava, e avevan l’aria di un piccolo esercito raccolto a spalla a spalla. Su di un argine al di là della prateria crescevano i fiori di croco, rosei e color gridellino, ma a quest’ora dovevano esser di già sfioriti, cadenti e sbiaditi come i pallidi bucaneve. La margheritina era più comune: donnina graziosa e casalinga, che come un’erba invadeva tutte la fratte. Troppo presto era ancora per le campanule, ancora celavano le testine sotto le foglie dell’anno avanti, ma quando spuntavano, facevano scomparire le umili mammole, soffocavano financo la madreselva nei boschi, e col loro azzurro sfidavano il cielo. A lui non piaceva averle in casa, però. Messe nei vasi scomparivano, avvizzivano; per vederle in tutta la loro bellezza bisognava andar per i boschi al mattino, verso mezzogiorno, quando il sole era alto. Avevano un olezzo fumoso, un poco amarognolo, come se nei loro steli scorresse un succo selvatico, pungente e ricco. Coloro che strappavano le campanule nei boschi erano vandali, ed egli l’aveva proibito, a Manderley. A volte in campagna aveva incontrato dei ciclisti che ne portavano legati grandi mazzi al manubrio; già le corolle morenti pendevano inerti, e gli steli violati avevano un che di nudo e impudico.
Le margheritine erano assai meno sensibili, sebbene quella creatura delle selve avesse una certa inclinazione verso la civiltà; talora se ne incontravano, che in un vasetto di vetro sorridevano e civettavano alla finestra d’una Casina rustica; e se non si lasciava mancar loro l’acqua, vivevano magari una settimana. Ma a Manderley, fiori selvatici in casa non ne entravano.
C’erano fiori che venivano coltivati specialmente per la casa, nel giardino cintato. La rosa, egli diceva, era uno tra i rari fiori che facesse miglior figura colta che non sulla pianta. Le rose raccolte in un vaso, in una sala, sviluppavano un’intensità di colore e di profumo che non avevano avuto all’aperto. Una rosa in pieno sboccio aveva un che di sfacciato, che faceva pensare a una femmina sciatta dalla voce rauca e volgare. E in casa, lo stesso fiore diventava misterioso, raffinato. A Manderley, c’erano rose in casa per otto mesi dell’anno. E le siringhe mi piacevano? Ce n’era un albero, sull’orlo del prato, che mandava il profumo fino alla finestra della sua camera da letto. Sua sorella, che era uno spirito piuttosto positivo e pratico, si lamentava sempre che a Manderley c’erano troppi profumi, e che le davano alla testa. Forse aveva ragione. A lui non davano fastidio: erano l’unica forma di ebbrezza per cui avesse un debole. Le sue più remote memorie risalivano a grandi rami di lillà entro anfore bianche, che spandevano per la casa intera effluvi grevi e ardenti.
Il piccolo sentiero che giù per la valletta conduceva alla baia era orlato di cespugli di azalee e rododendri; a camminarvi nelle sere di maggio, dopo cena, si sarebbe detto che i cespugli fossero traspirati nell’aria. Se ti chinavi a raccogliere un petalo caduto, a schiacciarlo tra le dita… ecco, avevi lì nel cavo della mano l’essenza di mille profumi. Tutto per un petalo riccioluto e schiacciato. E dalla valle uscivi stordito come per aver bevuto un vin forte, e sbucavi di fronte alla bianca distesa petrosa del lido, alle acque silenti. Contrasto strano, forse troppo improvviso…
Mentre egli parlava l’automobile s’era confusa fra le molte altre, il crepuscolo era sceso senza che me ne fossi accorta: e ci trovavamo in mezzo al brusio e alle mille luci delle strade di Monte Carlo. Il frastuono era una tortura per i miei nervi: tutte quelle luci erano troppo gialle, troppo brillanti. Il contrasto era brusco, spiacevole, deprimente.
Presto saremmo stati davanti all’albergo; cercai i miei guanti, nella borsa dello sportello. Li trovai; e le mie dita palparono anche un volume. Versi, forse, a giudicar dalla copertina sottile? Mi curvai a leggerne il titolo, mentre la macchina rallentava davanti al peristilio dell’albergo.
«Potete prenderlo e leggerlo, se volete» egli disse. E la sua voce era monotona e indifferente, ora che la corsa era finita, ed eravamo ritornati, e Manderley era assai lontano.
Felice, strinsi il volume assieme ai guanti. Sentivo che, finita la giornata, ero contenta che mi restasse qualcosa di lui.
«Ecco, scendete» egli diceva. «Io vado a mettere a posto la macchina. Non vi vedrò questa sera al ristorante; ceno fuori. Grazie per oggi, in ogni modo.» Sola mi avviai su per la gradinata, sconsolata come una bimba che vede la fine di una festa. Quel pomeriggio aveva spogliato d’ogni bellezza le ore che ancora mi restavano; quanto lunghe mi sarebbero parse fino all’ora di coricarmi, quanto solitaria sarebbe stata la mia cena! Mi ripugnava, in certo modo, subir le inevitabili domande dell’infermiera, o magari l’incalzante interrogatorio della signora Van Hopper; andai perciò a sedermi in un angolo della galleria dietro una colonna, e ordinai un tè.
Il cameriere aveva l’aria annoiata; era l’ora -passate da poco le cinque -che si trascina lenta, finito il normale servizio del tè e lontana ancora l’ora dell’aperitivo. In ogni modo, io ero sola, sicché non sentiva alcun bisogno di affrettarsi per me.
Smarrita e non poco scontenta, mi abbandonai nella poltrona e presi il volume di versi. Era assai sciupato, recava i segni di molte letture, e automaticamente si aprì a una pagina che doveva essere prediletta fra tutte.
Io lo fuggii, per notti e giorni interi;
Io lo fuggii, per lungo corso d’anni;
Io lo fuggii pei labirinti del mio spirito;
E a mezzo delle lagrime a Lui mi celavo
E fra squillanti risa.
Su per aspri declivi io m’affannai,
E caddi, precipitai
Giù per titaniche tenebre o paurosi abissi, Fuggendo il passo che spietato m’incalzava, M’incalzava…
Mi sentivo un po’ come se guardassi dal buco della serratura d’una porta chiusa; furtivamente posai il libro in disparte. Quale dèmone aveva cacciato quell’uomo lassù in cima al monte, oggi? Pensavo all’automobile, ai pochi palmi di terra che la separavano dallo strapiombo di trecento metri, e al volto assente di lui. Quale eco di passi risonava nella sua memoria? Quali voci sommesse, e quali ricordi? E perché mai egli teneva quel volume nella borsa dello sportello? Avrei voluto vederlo meno chiuso in sé; così come avrei voluto essere tutto meno che la fanciulla ch’io ero, col mio vecchio abito a giacca e il cappello da collegiale dalla falda troppo larga. L’imbronciato cameriere mi portò finalmente il tè, e mentre mangiavo una fettina di pane e burro insipida come segatura, ripensavo al sentiero per la valle così come egli me lo aveva descritto oggi, e al lido bianco e petroso, e al profumo delle azalee. Se quelle cose gli erano tanto care, perché ricercava le spumeggianti frivolezze di Monte Carlo? Aveva detto alla signora Van Hopper di non avere progetti particolari, di esser partito piuttosto in fretta. E lo immaginavo, che correva giù per quel sentiero della valle, incalzato dal suo dèmone. Ripresi il libro; questa volta mi cadde aperto al frontespizio, e lessi la dedica. “A Max -Rebecca. 17 maggio.” Era una curiosa calligrafia, tutta di sghembo. Una piccola macchia d’inchiostro sfregiava l’immacolata pagina opposta, quasi che la mano che scriveva avesse scosso impaziente la penna per far scorrer meglio l’inchiostro. Cosicché, sgorgando dal pennino un po’ più denso, quel “Rebecca” risaltava nero e marcato, e l’alta R obliqua rimpiccioliva le altre lettere.
Chiusi il libro di scatto, e lo posi sotto i miei guanti; da una seggiola vicina presi un vecchio numero dell’Illustration e mi misi a sfogliarlo. C’erano belle fotografie dei castelli sulla Loira, accompagnate da un articolo, che lessi attentamente, guardando anche le fotografie; ma quando lo ebbi finito, non ne avevo capito una parola. Non era Blois con le torrette e le guglie sottili che mi fissava dalla pagina stampata, ma la faccia della signora Van Hopper al ristorante, com’era il giorno avanti, gli occhi porcini che dardeggiavano occhiate al tavolo vicino, la forchetta carica di ravioli sospesa a mezz’aria. «Una tragedia spaventosa» ella diceva. «Tutti i giornali ne erano pieni, naturalmente. Dicono che lui non ne parli mai, che non faccia mai il nome dilei. È annegata, capite, in una baia vicino a Manderley…»
V
È un bene che non si ripeta due volte, la febbre del primo amore. Poiché è una febbre, e anche un fardello, checché ne dicano i poeti. Non si è molto coraggiosi, quando si ha ventun anno. Sono tempi pieni di piccole viltà, di minime paure senza fondamento, e ci si sente così presto vinti, ci vuol tanto poco a esser feriti; e si cede alla prima parola pungente. Oggi, avvolta nella comoda armatura della maturità che s’avvicina, le innumeri piccole punture della vita quotidiana non mi sfiorano che lievemente e sono presto obliate, ma allora -oh, allora, una parola detta a caso sostava a lungo, diventava un marchio rovente; e uno sguardo, un’occhiata di sopra una spalla s’imprimeva per l’eternità. Un rifiuto annunciava un triplice canto di gallo, e una mancanza di sincerità era simile al bacio di Giuda. La mente matura può mentire con la coscienza netta, con un viso ridente, ma in quei giorni, anche il più lieve inganno bruciava sulla lingua, legandoci al palo del supplizio da noi stessi innalzato.
«Che cosa avete fatto, questa mattina?» Mi par di sentirla, alzata a sedere sul letto, sostenuta dai guanciali, con tutta la meschina irritabilità del paziente che non è veramente malato, che è stufo di stare a letto; e io, cercando il mazzo di carte nel cassetto del comodino, sentivo che il rimorso mi macchiava di rosso il collo. «Ho giocato al tennis con l’allenatore» le dicevo, e le menzognere parole mi riempivano di panico. Che sarebbe mai accaduto, se nel pomeriggio l’allenatore si fosse presentato a lamentarsi che da tanti giorni ormai io saltavo la mia lezione?
«Il brutto è che, adesso che io sono a letto, voi non avete abbastanza da fare.» Ella schiacciò la sigaretta entro il vasetto della crema per la faccia; e, prese le carte, le mescolò con quel gesto isterico del giocatore inveterato, a tre colpi per volta, con uno schioccar secco. «Io non so come trovate il modo di passar la giornata, così sola» ella continuava «non avete mai nemmeno uno schizzo da farmi vedere, e se vi prego di farmi qualche commissione dimenticate di comperarmi il Taxol. Che volete che vi dica? Speriamo almeno che facciate progressi nel tennis, chissà che più tardi non debba riuscirvi utile. Un cattivo giocatore è una noia per tutti. Il vostro “servizio” è sempre così cattivo?» «Sì» risposi, colpita da quella domanda, pensando quanto giusta e appropriata fosse. Mi descriveva a puntino. Avevo un “cattivo servizio”. Non avevo mai più giocato con l’allenatore; non una sola volta avevo giocato da quando s’era ammalata, ed erano passati più di quindici giorni. Perché poi tanti misteri? Perché non dirle che ogni mattina uscivo con de Winter in automobile, e pranzavo al suo tavolo, al ristorante?
«Dovete accostarvi di più alla rete, altrimenti non avrete mai un buon gioco» ella riprese; e le diedi ragione, inorridita della mia stessa ipocrisia, mentre rispondevo alla sua regina con un fante di cuori dal mento a pesce. Quanto ho dimenticato di Monte Carlo, di quelle passeggiate mattinati, dei luoghi dove andavamo; financo di quel che dicevamo… Ma non ho dimenticato il tremore delle mie dita rinserrate sulla falda del cappello; né le folli corse in corridoio, giù per le scale, troppo impaziente per aspettare l’ascensore che veniva su lento e cigolante. E spalancavo da me la porta, prima ancora che il valletto avesse potuto venirmi in aiuto.
Egli era là, seduto al volante, e leggeva un giornale mentre aspettava, e al vedermi sorrideva, e lo gettava dietro di sé, sul sedile posteriore. «Dunque, come sta l’amica del cuore stamattina, e dov’è che desidera andare?» diceva, aprendomi lo sportello. Mi avesse anche condotto in giro come in giostra, poco m’avrebbe importato; mi trovavo in quel primo stadio d’esaltazione in cui salire accanto a lui, e curvarmi in avanti verso il parabrezza stringendomi le ginocchia, era già troppo per me. Ero come un pavido scolaretto, il quale coltivasse una segreta passione per un camerata d’una classe superiore reso vieppiù inaccessibile dalla sua stessa gentilezza. «Il vento è freddo stamane, fareste bene a coprirvi col mio soprabito.»
M’è rimasta in mente, quella frase, poiché ero tanto giovane, che indossar qualcosa di suo mi riempiva di felicità. Quel soprabito buttato attorno alle mie spalle, anche solo per breve tempo, era già una beatitudine in sé, e irradiava su tutta la mattinata un riflesso gioioso. Dov’erano i languori, le sottigliezze di cui avevo letto nei romanzi? E le provocazioni reciproche, la caccia… La perigliosa danza dei coltelli, le occhiate di sfuggita, gli allettanti sorrisi… Le arti dell’amore m’erano sconosciute; e me ne stavo seduta lì con la carta stradale in grembo, i capelli scuri e lisci al vento, godendo del suo silenzio eppur avida delle sue parole. Poco variava il mio umore, ch’egli parlasse
o no. Unico nemico mio era l’orologio sul cruscotto, le cui lancette movevano implacabili verso l’una. Viaggiavamo in un senso, viaggiavamo nell’altro, tra la miriade dei paeselli che come molluschi allo scoglio si aggrappano alle coste del Mediterraneo; e oggi io non ne ricordo più alcuno. Tutto quanto ricordo è la mollezza di quei cuscini di cuoio, e la carta stradale dai bordi sfrangiati, dalle costure usate, che reggevo sulle ginocchia; e ricordo come un giorno, guardando all’orologio, tra me pensavo: “Questo momento -adesso, alle undici e venti -non deve andar perduto”. E chiusi gli occhi perché l’istante durasse di più. Quando li riaprii eravamo a una curva della strada, e una contadinella avvolta in uno scialle nero ci salutava con la mano. La rivedo oggi ancora, con la gonna polverosa, e i denti che luccicavano in un sorriso buono; in meno d’un secondo avevamo oltrepassato la curva e non la vidi più. Già ella apparteneva al passato, già era diventata ricordo.
Avrei voluto ritornare indietro, riafferrare l’istante fuggito, e poi mi sorse alla mente che, se anche l’avessimo fatto, non sarebbe stato più lo stesso istante: anche il sole sarebbe mutato, e avrebbe gettato un’altra ombra, e la contadinella che dianzi se ne andava con passo stanco sarebbe stata diversa, forse non ci avrebbe salutato, forse non si sarebbe neppure accorta di noi. Quel pensiero mi diede freddo al cuore, m’ispirò una malinconia lieve; guardando l’ora vidi che erano passati altri cinque minuti. Presto avremmo raggiunto il limite del tempo che avevamo per noi, e sarebbe stata ora di ritornare all’albergo.
«Se ci fosse mai qualcuno che scoprisse il modo di imbottigliare le memorie, come un profumo…» dissi. «Che non svanissero mai, non perdessero mai la freschezza. E quando si volesse, si potrebbe aprir la boccetta, e rivedere il momento…» Lo guardai, per vedere che cosa avrebbe detto. Egli non si voltò verso di me. «E quale particolare momento della vostra giovine vita vorreste stappare?» domandò, senza toglier lo sguardo dalla strada diritta. Non avrei saputo dire se mi prendesse in giro o no.
«Non saprei, proprio…» cominciai; e poi, un po’ stordita, senza riflettere a quel che dicevo: «Vorrei conservare questo momento e non perderlo mai più». «Questo vorrebbe essere un complimento alla giornata, o alle mie abilità di guidatore?» Ed egli scoppiò a ridere, come un fratello burlone. Sopraffatta dal grande abisso che si apriva tra di noi, e che la stessa sua cortesia non faceva che allargare, io m’ero fatta silenziosa. Sapevo che mai avrei osato rivelare quelle scorribande mattutine alla signora Van Hopper; il sorriso di lei m’avrebbe urtato quanto m’aveva ferito quella risata. Ella non si sarebbe inquietata né scandalizzata; si sarebbe limitata a sollevare appena le sopracciglia, come se la mia storiella non le sembrasse troppo degna di fede, e poi, con una longanime scrollatina di spalle avrebbe detto: “Mia cara bambina, lui è certo estremamente cortese e simpatico, a condurvi in automobile; però, però… siete sicura che non sia anche una grande seccatura per lui?” E poi, picchiandomi sulla spalla mi avrebbe mandata fuori a comperarle il Taxol. Quale umiliazione la gioventù! pensavo. E mi misi a mordicchiarmi le unghie. Quando parlai, memore ancora della sua risata, buttai al vento ogni riserbo; e il mio tono era acre. «Vorrei essere una donna di trentasei anni, vestita di raso nero, e con un filo di perle al collo.»
«Se foste così, non sareste qui con me in automobile» egli replicò. «E smettetela di mordervi le unghie, le avete già brutte abbastanza.» «Troverete che sono sgarbata e impertinente» ripresi «però, vorrei sapere perché continuate a invitarmi a uscire ogni giorno con voi. Siete cortese, questo è vero, ma perché avete scelto proprio me per oggetto della vostra carità?»
E con tutta la povera boria della gioventù m’ero drizzata a sedere impettita.
«Vi invito perché non siete vestita di raso nero, con un filo di perle al collo, e perché non avete trentasei anni» egli rispose gravemente. Dal suo volto impassibile non indovinavo se entro di sé ridesse o no, «Sì, è vero, voi sapete di me tutto quel che c’è da sapere» dissi, «Non è gran che, lo riconosco, perché non ho ancora vissuto molto e non mi sono accadute molte cose, se non la perdita di qualche persona cara. Ma voi… di voi io non so più di quanto ne sapessi il primo giorno che vi ho incontrato.» «E che cosa ne sapevate, allora?» «Oh… che abitate a Manderley e… e che avete perduto vostra moglie.»
Ecco, l’avevo detta finalmente, la parola che da tanti giorni mi bruciava sulla lingua. Vostra moglie. E m’era uscita di bocca facilmente, senza riluttanze: quel semplice accenno poteva ben essere la cosa più naturale che ci fosse al mondo. Vostra moglie. Una volta pronunciata, la parola aleggiò come sospesa in aria, mi danzò davanti agli occhi, e poiché egli l’accolse in silenzio e senza far commenti, ingrandì, divenne qualcosa di nefando e spaventevole: una parola proibita, che in bocca mia non sonava naturale. E non potevo riprenderla, non potevo più ingoiarla. Rividi la dedica sul volumetto di versi, e quella R obliqua. Mi sentii stringere il cuore, con un senso di gelo. Egli non m’avrebbe mai perdonato; questa era la fine della nostra amicizia.
Fissai lo sguardo avanti a me, attraverso il vetro dello schermo, senza nulla vedere della strada che fuggiva in un lampo; e mi tinniva tuttora negli orecchi quella parola. Il silenzio si prolungava di minuto in minuto, e i minuti si cambiavano in miglia; e tutto è finito ormai, pensavo, non mi prenderà mai più con sé. Domani egli partirà. E la signora Van Hopper si alzerà. Io e lei passeggeremo come abbiamo fatto sempre, su e giù per la terrazza davanti all’albergo. Il facchino porterà i suoi bagagli, io li vedrò di sfuggita nell’ascensore di servizio, le etichette nuove fiammanti appiccicate di fresco. Il trambusto della partenza. Lo scatto secco del cambio di velocità alla svolta della strada; e poi, anche quel rumore si confonderà agli altri del traffico, e andrà perduto, e assorbito per sempre.
Tanto m’ero immedesimata in quel quadro, che mi pareva di vedere il facchino intascare la mancia e rientrare per la porta girevole, voltandosi a gridar qualche cosa al portiere; e non m’ero accorta che la macchina rallentava. Soltanto allorché ci fermammo sul ciglio della strada tornai alla realtà. Egli sedeva immobile; e senza cappello, la sciarpa bianca attorno al collo, pareva più che mai una creatura medioevale, che avesse vita entro l’ambito d’una cornice. Non aveva nulla a che fare con quel paesaggio colorito; lo vedevo fermo davanti alla gradinata d’una severa cattedrale, il mantello al vento; e un pezzente raccattava monete d’oro ai suoi piedi. Sparito era l’amico, con tutta la sua bontà, la facile camerateria; sparito anche il fratello che m’aveva deriso perché mi mordevo le unghie. Quell’uomo era uno straniero Che cosa facevo io, accanto a lui? E poi, si volse e mi parlò. «Poco fa, avete parlato di una invenzione; di un sistema per conservare le memorie. Vi piacerebbe rievocare il passato a un dato momento, avete detto. Purtroppo io non la penso come voi. Tutte le memorie sono amare, e io preferisco ignorarle. Un anno fa è accaduto qualche cosa che ha mutato il corso della mia vita intera, e io desidero dimenticare ogni fase della mia esistenza fino a quel momento. Quei giorni sono finiti. Cancellati. Io debbo ricominciare a vivere. Il primo giorno che ci siamo incontrati, la vostra signora Van Hopper mi ha domandato perché fossi venuto a Monte Carlo. La mia venuta qui aveva posto un freno a quelle memorie che voi vorreste risuscitare. Non sempre agisce, naturalmente, a volte il profumo è troppo forte per la boccetta, e anche per me. Altre volte c’è un diavolino, che come un fantoccio a molla tenta di cacciar via il tappo. Così è stato in quella prima gita che abbiamo fatto insieme. Quando salimmo in cima al monte, e guardammo giù, nel precipizio. Ero stato lassù qualche anno fa, con mia moglie. Mi avete domandato se era sempre il medesimo luogo, se non era mutato. Era sempre il medesimo, sì, ma -e ho ringraziato il Cielo constatandolo – stranamente impersonale. Non c’era nessuna analogia con l’altra volta. Lei e io non avevamo lasciato traccia di noi. Può darsi fosse perché c’eravate voi… Voi avete cancellato il passato per me, assai più efficacemente che non le mille luci di Monte Carlo. Se non fosse stato per voi, sarei già partito da parecchio tempo, me ne sarei andato in Italia, in Grecia, forse ancor più lontano. Voi m’avete risparmiato tutte quelle peregrinazioni. Al diavolo il vostro discorsetto puritano a labbra strette! Al diavolo le vostre idee di bontà e carità da parte mia!. Se v’invito a venire con me, è perché mi piacete, voi e la vostra compagnia; e se non mi credete potete scendere e tornarvene a casa da sola. Su, avanti! Aprite lo sportello e scendete.»
Rimasi immobile, le mani in grembo. Ancora una volta non sapevo se facesse sul serio o no. «Ebbene?» egli domandava. «Quali intenzioni avete?»
Avessi avuto un anno o due di meno, avrei forse pianto. I fanciulli hanno le lagrime a fior di pelle, che sgorgano alla prima crisi. Intanto me le sentivo bruciare negli
occhi, sentivo il sangue pronto ad affluirmi al volto; un’occhiata di sfuggita nello specchietto sopra allo schermo di vetro mi rivelò in pieno il miserando spettacolo ch’io davo, con quegli occhi offuscati e quelle gote in fiamme, e le ciocche lisce che mi sfuggivano di sotto al cappellone di feltro…
«Voglio tornare a casa» dissi, la voce perigliosamente vicina al tremito. Senza una parola egli rimise in moto il motore, e lentamente voltò la macchina, verso la direzione per la quale eravamo venuti. Velocemente andavamo; troppo velocemente, a parer mio, con troppa facilità; e il paesaggio vecchio quanto il mare ci guardava con indifferenza. Fummo così alla svolta della via che avrei voluto imprigionare nella mia memoria: la contadina era sparita, ogni colore mi pareva dileguato, e non era, dopo tutto, che una delle tante svolte, che ci sono in infinite strade, e dove passano migliaia di automobilisti. Svanito era ogni incanto, in uno con la mia gioiosità; ma bastò quell’idea perché il mio volto raggelato si animasse in un brivido: il mio orgoglio di donna si mitigò, e quelle tanto deprecate lagrime mi sgorgarono finalmente dagli occhi, fiere d’aver vinto, e mi inondarono le guance.
Tanto inattese erano venute, che non potei frenarle; e se mi fossi messa la mano in tasca in cerca d’un fazzoletto, egli se ne sarebbe accorto. Dovetti dunque lasciarle cadere liberamente, e patir l’amara salsedine sulle labbra, suggello, ahimè, alla mia profonda umiliazione. Se egli volgesse il capo a guardarmi non so, ché non distoglievo più dalla strada uno sguardo fisso e annebbiato; ma tutt’a un tratto sentii la sua mano cercare la mia, prenderla e baciarla, sempre senza dir una parola. Poi egli mi buttò in grembo un fazzoletto che nella mia immensa vergogna non toccai.
Pensavo a tutte quelle eroine di romanzo, tanto graziose quando si scioglievano in lagrime: quale contrasto dovevo offrire io, con la mia faccia gonfia, chiazzata, con gli occhi orlati di rosso! Triste fine di quella mattinata; e la giornata che avevo dinanzi a me era lunga. Avrei fatto colazione con la signora Van Hopper nella sua stanza, perché l’infermiera aveva la sua giornata libera; e dopo, con tutta l’instancabile energia dei convalescenti, ella m’avrebbe fatto giocare a bazzica con lei. Già mi pareva di respirar l’aria soffocante di quella stanza; vedevo quel certo che di sordido delle lenzuola spiegazzate, delle coperte scomposte e dei guanciali non sprimacciati; e quel tavolino accanto al capezzale, imbrattato di cipria, di profumo versato, e di rossetto che si discioglieva al caldo. E il letto era ingombro delle pagine sparse del giornale quotidiano, mentre romanzi francesi dai margini sciupati e dalla copertina strappata tenevano compagnia a riviste americane… E i mozziconi schiacciati insudiciavano tutto: il vasetto della crema, un piatto con dell’uva, e il pavimento vicino al letto. Gli amici della signora Van Hopper si prodigavano in doni di fiori, e i vasi erano ovunque, alla rinfusa: fiori esotici, fiori di serra erano ficcati entro un mazzo di mimosa e un gran cestello dall’alto ciuffo di nastro, colmo a strati digradanti di frutta candite, troneggiava su tutto.
Un poco più avanti nel pomeriggio sarebbero venuti gli amici, per l’aperitivo che io manipolavo per loro -odioso lavoro che compivo con mani timide e maldestre silenziosa tra un chiacchiericcio di pappagalli; e di nuovo sentivo vergogna per quella donna quando, eccitata dalla piccola folla, alzata a sedere sul letto elevava sempre più la voce stridente, e rideva troppo forte, e al fruscio d’un disco sul grammofono portatile moveva in ritmo con la melodia le sue grosse spalle. La preferivo irritabile e stizzosa, i capelli pieni di mollette, arrabbiata perché avevo dimenticato il suo Taxol. Tutto questo mi aspettava, mentre lui, dopo avermi lasciata all’albergo, se ne sarebbe andato solo per conto suo, chissà dove, forse verso il mare, e avrebbe sentito il vento sulle guance, e seguito il sole; e forse si sarebbe smarrito in quelle memorie di cui io nulla sapevo, che non potevo condividere, e avrebbe risalito il corso degli anni perduti…
La voragine tra di noi era più vasta che mai. Discosto da me, il più lontano possibile, egli mi voltava quasi il dorso. Mi sentii giovane e piccina e molto, oh, molto sola, e a dispetto del mio orgoglio cercai il suo fazzoletto e mi soffiai il naso, noncurante del mio aspetto poco civettuolo. Ma che cosa importava ormai? «Al diavolo!» egli esclamò d’un tratto, tra iroso e seccato, e traendomi vicina a sé mi pose un braccio attorno alla spalla, sempre guardando avanti a sé, la destra sul volante. Se non sbaglio, accelerò ancora la marcia. «Mi figuro che siate abbastanza giovane da essere mia figlia, e non so davvero come devo trattarvi» disse. La strada si assottigliava a una svolta, ed egli dovette deviare un poco per evitare un cane. Credetti che mi avrebbe lasciata invece seguitò a tenermi stretta a sé, anche quando, passata la curva, la strada tornò diritta come prima. «Dimenticate tutto quel che vi ho detto stamane. E tutta acqua passata, che non ritorna più. In famiglia mi chiamano Maxim, e vorrei che mi chiamaste così anche voi. Siete stata cerimoniosa anche troppo con me, finora.» Prese il mio cappello per la falda, e oltre le sue spalle lo buttò sul sedile posteriore, poi si curvò e mi baciò sui capelli. «Promettetemi che non vestirete mai di raso nero» disse. Sorrisi, ed egli mi rispose con una risata, e il mattino tornò gioioso, tornò a essere una cosa piena di fulgore. Che cosa me ne importava della signora Van Hopper, e del pomeriggio? Sarebbe passato in un lampo, e sarebbe venuta la sera, e domani era un’altra giornata… Mi sentivo spavalda, giubilante in cuor mio, tanto che in quel momento avevo quasi il coraggio di affermare la mia indipendenza: già mi vedevo entrare lemme lemme dalla signora Van Hopper, in ritardo per la partita a bazzica, e mentre sbadigliando noncurante ella m’interrogava, ribattevo: “Non ho badato affatto all’ora. Ho fatto colazione con Maxim”.
Ero ancora abbastanza bambina da considerare il chiamar qualcuno col nome di battesimo qualcosa come una affermazione, una vittoria; benché fin da principio egli avesse chiamato me per nome. Quella mattina, malgrado i suoi istanti d’ombra, aveva segnato un grande passo avanti nella nostra amicizia. Non ero poi una cosina da poco come m’ero figurata. Egli mi aveva anche baciata, ed era stato, quello, un gesto
naturale, tranquillo e che m’aveva rinfrancata. Nulla di drammatico come nei romanzi. Nulla d’imbarazzante. Dava, ai nostri rapporti, un calore nuovo, e rendeva tutto più semplice. Era un ponte gettato sulla voragine. Lo avrei chiamato Maxim. E quel pomeriggio, la partita a carte con la signora Van Hopper fu meno tediosa di quanto avrei creduto. Tuttavia il coraggio mi venne quando ella, raccogliendo le carte alla fine della partita, e allungando la mano per prendere la scatola, come a caso disse: «E… dite un po’, Max de Winter è ancora in albergo?». Come un nuotatore sul punto di tuffarsi, esitai un attimo, poi smarrii tutto il mio coraggio, tutta quella padronanza di nuovo acquisto, e non dissi nulla di ciò che era accaduto al mattino. «Sì, credo di sì» mi limitai a rispondere. «Pranza ancora al ristorante.»
Qualcuno glie l’avrà detto, pensavo, qualcuno ci avrà veduti insieme, l’allenatore si sarà lamentato, il direttore dell’albergo le avrà mandato un biglietto… E m’aspettavo un fiero attacco. Invece ella seguitò a riporre le carte, con un piccolo sbadiglio, mentre io rassettavo il letto in disordine. Le porsi quindi la scatola della cipria, lo scatolino del rossetto, e il rosso per le labbra. «Un simpatico individuo» ella diceva, mentre dal comodino prendeva lo specchio a mano «ma un carattere bislacco, direi, difficile a conoscersi. Avrei creduto che si fosse deciso a un invito a Manderley, quel giorno nella galleria, e invece se n’è guardato bene.» Non replicai nulla. La guardavo tracciare un arco di rosso sulla bocca imperiosa. «Non l’ho mai veduta, lei» riprese allontanando lo specchio per studiare l’effetto «ma credo fosse molto bella. Una donna squisita, e brillante in tutto e per tutto. Davano delle feste spettacolose, aManderley. È stata poi una cosa tragica, improvvisa; credo che lui l’adorasse. Con questo rosso così vivo ho bisogno della cipria più scura, volete andarmela a prendere, cara, e rimettere questa scatola nel cassetto?» Così avemmo il nostro da fare con ciprie, rossetti e profumi, fino a che il campanello cominciò a sonare e arrivarono le visite. Macchinalmente, parlando pochissimo io porgevo da bere, cambiavo i dischi sul grammofono, vuotavo i posacenere.
«E la nostra signorina ha fatto di nuovo qualche bel disegno in questi ultimi tempi?» La sforzata cordialità di un vecchio banchiere dal monocolo ballonzolante a un cordone nero, e il mio sorriso radioso e falso: «No, non ho più concluso nulla da un po’ di tempo in qua. Un’altra sigaretta?».
Non ero io che rispondevo; non ero lì in quella stanza. Seguivo nella mia mente un fantasma, i cui vaghi contorni avevano preso forma, finalmente. I suoi lineamenti erano confusi, i colori indecisi, il taglio degli occhi, la qualità dei capelli erano cose tuttora incerte, non ancora rivelate. Ma il fantasma aveva quella beltà che dura, e un sorriso indimenticabile, La sua voce, il ricordo delle parole proferite da quella bocca ancora aleggiavano nell’aria. Cerano luoghi ove era stata, oggetti che aveva toccato. Qualche armadio serbava forse le vesti che aveva indossato, ancora impregnate del suo profumo. Nella mia camera, sotto il mio guanciale, c’era un libro che aveva tenuto fra le sue mani, e io la vedevo sfogliarlo, e poi fermarsi a quel frontespizio bianco, sorridendo nello scrivere, e scotendo la penna. “A Max -Rebecca.” Forse era il compleanno di lui, ed ella aveva messo il libro fra gli altri doni, sulla tavola preparata per la colazione del mattino. E avevano riso insieme, mentre egli slegava il pacco, strappando la carta. Forse s’era appoggiata alla sua spalla, intanto che egli leggeva. Max. Ella lo chiamava Max. Era familiare, gaio, facile a pronunciarsi. I parenti potevano ben chiamarlo Maxim, se preferivano. Nonne e zie. E persone come me, quiete e poco appariscenti e giovanili, che tenevano poco posto. Max l’aveva scelto lei, era una parola di sua proprietà, e con tanta sicumera l’aveva scritto sul frontespizio di quel libro. Quei caratteri audaci, tutti di sghembo, che bucavano la carta bianca; simbolo del suo io, così sicuro di sé, così ardito. Quante volte doveva avergli scritto così, in quanti diversi stati d’animo… 1
Bigliettini, scarabocchiati su mezzi fogli, e lettere, quando egli era lontano, pagine e pagine, intime, piene delle loro cose… E la voce di lei risonava per la casa, e per tutto il giardino, disinvolta e familiare come la calligrafia della dedica.
E io dovevo chiamarlo Maxim.
VI
Bagagli da fare. Le logoranti piccole noie della partenza. Chiavi perdute, etichette da scrivere, carta velina sparsa per tutta la stanza. Come odio tutto ciò! Anche ora, quando tanto mi tocca veder queste cose; ora che vivo, come si dice, in mezzo alle valige, ora che chiuder cassetti o aprir per la prima volta un armadio d’albergo, o gli impersonali ripostigli di una villa ammobiliata, son diventate cose meccaniche e abituali… Sì, anche ora mi assale una malinconia che è come l’impressione di aver perduto qualcosa. Qui, mi dico, qui abbiamo vissuto, siamo stati felici; tutto questo, sia pur per breve tempo, è stato nostro. Se anche due notti sole abbiamo trascorso sotto uri tetto, ci lasciamo dietro qualcosa di noi. Nulla di materiale, non la forcina sull’acconciatoio o il tubetto vuoto di aspirina, non il fazzoletto sotto un guanciale, ma qualcosa d’indefinito, un momento della nostra vita, un pensiero, uno stato d’animo. Questa casa ci ha accolto, tra le sue mura abbiamo parlato, amato. Ciò era ieri. Oggi noi ce ne andiamo, non la vedremo più; e noi non siamo più gli stessi, per imperscrutabili vie siamo mutati. Mai più torneremo a essere gli stessi. Anche se mi fermo per pranzare in un’osteria lungo la strada, ed entro a lavarmi le mani in una stanzuccia buia e sconosciuta, se tocco una maniglia che mi è ignota, se vedo la tappezzeria che casca a pezzi dalla parete, se mi guardo in un ridicolo specchio screpolato sopra al lavabo: tutto ciò, per un momento almeno, è mio, mi appartiene.Ci conosciamo. È il presente. Non c’è passato e non c’è avvenire. Io sono qui, mi risciacquo le mani, e lo specchio incrinato mi rivela a me stessa, sospesa, per così dire, nel tempo: questa sono io, questo momento non passerà. E poi apro la porta, ed entro nella sala da pranzo, dove egli mi aspetta seduto davanti a una tavola, e io penso che in quei momenti sono invecchiata, e ho camminato avanti, fosse pur di un sol passo, verso un destino ignoto. Ci sorridiamo, scegliamo le vivande, discorriamo del più e del meno, ma -così dico a me stessa -io non son più quell’io che lo aveva lasciato cinque minuti fa. Quella donna è rimasta addietro. Io sono un’altra, più vecchia, più matura.
Ho letto l’altro giorno che l’Hotel Còte d’Azur a Monte Carlo era “passato a una nuova direzione”, e aveva cambiato nome. Le stanze sono state rimesse a nuovo, e tutto l’impianto è stato rinnovato. Forse l’appartamento della signora Van Hopper al primo piano non esiste più. Forse di quella cameretta che fu mia non c’è più traccia. Quel giorno che, inginocchiata sul pavimento, mi davo da fare intorno alla serratura di un baule che non riusciva a scattare, sapevo che non sarei mai più tornata. L’episodio era finito, con lo scatto della serratura. Guardai fuori della finestra, e mi parve di voltare la pagina di un album di fotografie. Quei tetti, quel mare non erano più miei. Appartenevano a ieri, al passato. Le stanze, prive delle nostre cose, avevano un’aria deserta; parevano affamate, come se fossero impazienti di vederci partire, per ingoiare nuovi ospiti che domani avrebbero preso il nostro posto. Fuori in corridoio c’erano già i pesanti bauli, chiusi e legati con le cinghie. Il bagaglio piccolo era ancora da chiudere. I cestini della carta gemevano sotto l’ingombro della roba gettata via: bottiglie di medicine a mezzo vuote, vasetti di cosmetici, lettere e conti strappati.
I cassetti sbadigliavano semiaperti, lo scrittoio appariva nudo.
La mattina innanzi, mentre a colazione le versavo il caffè, la signora Van Hopper mi aveva buttato una lettera. «Elena s’imbarca sabato per Nuova York» disse. «Nancy, la piccola, minaccia un’appendicite. Le hanno mandato un cablogramma, consigliandole di tornare a casa. E così mi sono decisa… partiamo anche noi. Sono stufa dell’Europa, del resto, e potremo sempre ritornare in autunno. Non vi sorride l’idea di vedere Nuova York?» L’idea mi parve peggiore d’una prigione. Un po’ della mia infelicità dovette leggermisi in viso, poiché ella apparve prima stupita, poi seccata. «Che strana bambina siete mai. Non date nessuna soddisfazione. Non vi capisco. Ma non sapete che in America una ragazza della vostra posizione può divertirsi un mondo, anche se non ha mezzi? Troverete giovanotti e distrazioni fin che ne vorrete. Potrete farvi il vostro piccolo gruppo di amici e non ci sarà bisogno che siate sempre a mia disposizione come qui. Credevo non ve ne importasse nulla di Monte Carlo!»
«Ormai mi ci ero abituata» risposi, mogia. Ero piena d’angoscia; avevo l’anima in tempesta. «Ebbene, vuol dire che dovrete abituarvi a Nuova York, ecco tutto. Vedremo di prendere lo stesso piroscafo di Elena; questo significa che bisogna cambiar subito i nostri biglietti. Scendete giù in ufficio e dite a quel giovane impiegato che mostri un po’ di comprendonio. Oh, la giornata sarà così piena che non avrete tempo di sentire il dispiacere della partenza!»
Con una risatina maligna schiacciò la sigaretta nel piattino del burro e se ne andò al telefono, per confabulare con tutti i suoi amici.
Non ebbi il coraggio di scender subito in ufficio. Andai in camera da bagno, chiusi la porta a chiave e sedetti sul tappeto di sughero, la testa fra le mani. Era arrivata finalmente, quella partenza. Tutto finito. L’indomani sera sarei stata in treno, reggendo la valigetta dei gioielli e la coperta da viaggio della signora Van Hopper, come una cameriera; e lei, con quell’orribile cappello nuovo dalla piuma gigantesca, infagottata nel mantello di pelliccia che la rimpiccioliva, seduta là in faccia a me, nella vettura-letto. Ci saremmo lavata la faccia e le mani e risciacquati i denti in quello stanzino afoso dalla porta eternamente cigolante, con l’acqua che ballava entro il catino, gli asciugamani umidi, il sapone con un capello appiccicato sopra, la caraffa piena sino a metà, l’inevitabile scritto sulla parete “Sous le lavabo se trouve un vase”; e ogni sobbalzo, ogni rintronar del treno urlante sulle rotaie mi avrebbe detto che ogni miglio mi portava lontano da lui, che era seduto solo nel ristorante dell’albergo, indifferente, senza pensieri.
Forse lo avrei salutato ancora nella galleria, prima di partire. Un addio furtivo, rubato, per via della signora Van Hopper; ci sarebbe stata una pausa, e un sorriso, e parole come “Sì, scriverete, naturalmente” e “Non vi ho mai detto veramente grazie per la vostra gentilezza” e “Dovrete mandarmi quelle fotografie” e “E il vostro indirizzo?” e “Oh, ve lo manderò”. Ed egli avrebbe acceso una sigaretta, così a caso, chiedendo magari un fiammifero a un cameriere che passava, mentre io avrei pensato: “Ancora quattro minuti e mezzo. Non lo vedrò mai più”.
Perché partivo, perché tutto era finito, non avremmo più avuto nulla da dirci, e ci saremmo trovati stranieri, due esseri che s’incontrano per un’ultima e unica volta, mentre il mio cuore piangendo dolorosamente gridava: “Vi amo tanto. Sono terribilmente infelice. Mai avevo vissuto giorni come questi, e mai più li ritroverò”. Ma avrei irrigidito il volto in un sorriso affettato e convenzionale, mentre la mia voce avrebbe detto: “Guardate come è buffo quel vecchio signore; chi sarà? dev’essere nuovo…” e avremmo così sciupato gli ultimi istanti ridendo di un estraneo, perché già eravamo noi stessi estranei. “Spero che quelle fotografie riusciranno bene” ripete la voce esasperata; e “Sì, quella sulla piazza dovrebbe essere buona, la luce era proprio giusta”. E che m’importava anche se la fotografia era nera e sfocata? Quello era l’ultimo momento, il momento dell’addio. “Dunque” e quel mio sorriso mi contraeva la bocca “grazie infinite ancora una volta, quelle nostre gite erano veramente fantastiche…” Parole ch’io non avevo mai usato. Fantastico: che cosa voleva dire? Dio solo lo sapeva, a me non importava. Espressioni come ne usano le ragazzine per una partita di calcio, ma disperatamente inadeguate a quelle settimane d’infelicità e di gioia. E poi, il cancello dell’ascensore si sarebbe schiuso sulla signora Van Hopper e io le sarei andata incontro, mentre egli si sarebbe tranquillamente diretto verso un angolo della galleria per prendere un giornale Dovevo fare una figura alquanto ridicola, seduta lì sul tappeto di sughero in camera da bagno. E rivivevo tutto ciò; e vivevo anche il nostro viaggio e l’arrivo a Nuova York. La voce stridula di Elena, edizione in piccolo della madre; e Nancy, un’orribile bambinetta maleducata. E i giovanotti che la signora Van Hopper mi avrebbe presentato, i giovani impiegati di banca, adatti alla mia posizione sociale. “Combiniamo qualche cosa per mercoledì sera…”. “Vi piace il jazz?” Ragazzi dalla faccia lucida, col naso rincagnato. E bisognava mostrarsi gentili. E io non desideravo che di esser sola coi miei pensieri, come ora, chiusa in camera da bagno… Venne la signora Van Hopper e scosse la maniglia. «Che cosa fate li?» «Subito, scusatemi, vengo subito.» E facevo finta di aprire il rubinetto, di ripiegare un asciugamano sulla sbarra, di affaccendarmi… Ma non appena ebbi aperto la porta ella mi guardò in un certo modo. «Siete stata là dentro un’eternità. Questa non è mica una mattinata da sognare a occhi aperti, sapete, c’è troppo da fare.» E lui sarebbe tornato a Manderley, fra poche settimane; ne ero certa. Nel vestibolo ci sarebbe stato un mucchio di lettere per lui, e fra le altre anche la mia, scribacchiata sul piroscafo. Una lettera artificiosa, che si sarebbe sforzata di apparir frizzante, con la descrizione dei compagni di viaggio. E sarebbe poi rimasta entro la. cartella da scrivere, ed egli vi avrebbe risposto parecchie settimane dopo, un mattino di domenica, in fretta e in furia, essendogli capitata tra le mani nel liquidar certi conti. E poi, più niente. Una veduta di Manderley, forse, su uno sfondo iemale. Con la scritta stampata: “Maximilian de Winter augura un buon Natale e un felice Anno Nuovo”. A caratteri d’oro. Ma tanto per non esser scortese egli avrebbe cancellato con un tratto di penna il nome stampato, scrivendo un “Maxim” in fondo al cartoncino; e, se fosse rimasto spazio, forse una frase: “Spero vi divertiate a Nuova York”. Appiccicato il francobollo, chiusa la busta, e via nel mucchio, assieme a dozzine d’altre simili.
«Peccato che partiate domattina» diceva l’impiegato al banco, l’apparecchio telefonico nella sinistra. «I Balletti cominciano la settimana ventura. La signora Van Hopper lo sa?» Dal Natale a Manderley, penosamente mi riportai alle realtà della vettura-letto. La signora Van Hopper faceva colazione al ristorante per la prima volta dopo la sua influenza; e io frenavo un dolore alla bocca dello stomaco, entrando dietro di lei nella sala. Lui era andato a Cannes, a passare la giornata, e lo sapevo poiché me lo aveva detto il giorno avanti; ma non potevo togliermi dalla testa che il cameriere avrebbe commesso una indiscrezione, uscendo a dire: “Mademoiselle cenerà con Monsieur stasera, come al solito?”. La paura mi dava una lieve nausea, allorché egli s’avvicinò al nostro tavolo. Ma non disse nulla.
La giornata passò tra i bagagli, e verso sera venne gente a salutare la signora Van Hopper. Cenammo nel salotto, ed ella andò a letto subito dopo cena. Non lo avevo più veduto. Alle nove e mezzo circa scesi dabbasso, col pretesto di farmi dare delle etichette per i bagagli; nella galleria egli non c’era. L’odioso impiegato al banco sorrise vedendomi. «Se cercate il signor de Winter, ci ha fatto telefonare da Cannes, per avvertire che non sarebbe tornato prima di mezzanotte.»
«Desidero un pacchetto di etichette» replicai, ma gli lessi negli occhi che non si era lasciato ingannare. Niente “ultima serata”, dunque. L’ora alla quale tutto il giorno avevo anelato l’avrei trascorsa sola e soletta nella mia camera, a guardar la mia vecchia valigia e la grossa borsa da viaggio. Ma forse era meglio così, ché sarei stata una pessima compagnia, ed egli mi avrebbe letto in viso il rimpianto.
So che quella notte piansi, amare lagrime giovanili che non saprei più versare oggi. Quel pianto soffocato tra i guanciali non sgorga più, dopo i ventun anni. Le tempie pulsanti, gli occhi gonfi, la gola serrata, contratta da uno spasimo. E al mattino l’affannosa ansia di celare le tracce davanti al mondo, le abluzioni d’acqua fredda, gli spruzzi d’acqua di Colonia, e quelle furtive toccatine con la cipria che sono tanto significative in sé. E il terrore di piangere di nuovo, e le lagrime che irresistibili minacciano di traboccare, e il fatale tremito della bocca sono, ahimè, forieri d’una nuova catastrofe. Rammento d’aver spalancata la mia. finestra, affacciandomi fuori, nella speranza che la fresca aria mattutina avrebbe dissipato l’indiscreto rossore delle gote sotto la cipria; e mai il sole era parso così vivido, mai il mattino tanto ricco di promesse. Tutt’a un tratto Monte Carlo appariva pieno di bontà e d’incanti, unico luogo al mondo che albergasse un po’ di sincerità. L’affetto m’inondò l’animo. Avrei voluto vivere qui per tutta la vita. E oggi, oggi era il giorno della partenza! Ecco, è l’ultima volta che tu ti spazzoli i capelli davanti a questo specchio, l’ultima volta che ti risciacqui i denti a questo lavabo. Mai più dormirai in quel letto. Mai più girerai la chiavetta di quella lampadina elettrica.
E gironzolavo in vestaglia, profondendo sentimento su una volgare camera d’albergo.
«Non minacciate mica un raffreddore, spero?» ella mi domandò, a colazione.
«No, speriamo di no, almeno» risposi, aggrappandomi a quel fuscello che in seguito avrebbe potuto servirmi di scusa, se mai dovessi avere gli occhi esageratamente rossi.
«Non c’è niente di più odioso che starsene con le mani in mano quando si ha tutto pronto» ella brontolava. «Avremmo dovuto decidere di partire col treno prima. Se facessimo un piccolo sforzo arriveremmo ancora a prenderlo, e avremmo più tempo per stare a Parigi. Telegrafate a Elena di non venirci incontro alla stazione; le daremo un altro appuntamento. Chissà se…» ella diede un’occhiata all’orologio al polso «…
ma credo di sì, non faranno difficoltà a cambiarci i posti per la vettura-letto. Vale sempre la pena di tentare. Scendete giù in ufficio a informarvi.»
«Sì..» Fantoccio inerte che obbediva ai suoi capricci, tornai nella mia stanza a togliermi la vestaglia. Mi allacciai l’inevitabile gonna di lana, m’infilai sopra il capo la camicetta di maglia lavorata a mano. La mia indifferenza si mutava in odio. Questa era dunque la fine, anche la mattina doveva essermi rubata. Niente mezz’ora sulla terrazza; nemmeno dieci minuti, forse, per prendere congedo. Perché lei aveva terminato di fare colazione più presto di quanto non avesse creduto, perché si annoiava. Ah! Quand’era così, avrei buttato al vento ogni ritegno di modestia. Al diavolo l’orgoglio! Sbattei dietro di me la porta del salotto, di corsa feci il corridoio. Senza aspettar l’ascensore salii le scale, a tre gradini per volta, fino al terzo piano. Sapevo il numero della sua camera, il 148. Rossa in viso e ansante picchiai furiosamente alla porta. «Avanti!» gridò la voce di lui. Già, mentre aprivo la porta m’ero pentita e ogni coraggio mi veniva meno. Forse egli, avendo fatto tardi la sera avanti, s’era appena destato, ed era ancora in letto, irritato, i capelli arruffati.
Si stava radendo vicino alla finestra aperta, una giacca di pelo di cammello sopra al pigiama. Con il mio vestitino di lana e le grosse scarpe, mi sentivo goffa e troppo vestita. Non ero che una piccola isterica, che aveva voluto drammatizzare le cose.
«Che cosa volete?» egli domandò. «È successo qualcosa?»
«Sono venuta a salutarvi» dissi. «Partiamo questa mattina.»
Egli mi guardò fisso. «Chiudete la porta» disse, posando il rasoio sul piano sopra al lavabo.
Feci come m’aveva detto, e rimasi lì, alquanto impacciata, le mani penzoloni lungo
i fianchi.
«Che diamine andate dicendo?» egli domandò.
«È vero, partiamo oggi. Dovevamo prendere un treno del pomeriggio, ma lei si è messa in mente di arrivare a quello che parte prima, e io temevo di non vedervi più. E volevo assolutamente vedervi prima di partire… per ringraziarvi.»
Alla rinfusa mi uscivano di bocca, quelle parole idiote, proprio come avevo immaginato. Me ne stavo lì rigida impalata; un minuto ancora, e avrei detto che tutto quanto era stato… fantastico. «Perché non m’avete avvertito prima?» «Si è decisa ieri soltanto. Tutt’in un momento. Sua figlia s’imbarca sabato per Nuova York, e noi partiamo con lei. La raggiungeremo a Parigi, e poi proseguiremo tutti per Cherbourg.»
«Vi porta con sé a Nuova York?» «Sì; e io non voglio andare. Non mi piacerà affatto; e sarò infelicissima.»
«Ma perché andate con lei, in nome di Dio?» «Non posso far diversamente; lo sapete. Io lavoro per vivere. E non potrei permettermi il lusso di piantare la signora Van Hopper.»
«Sedetevi.» Ripreso il rasoio, egli si toglieva la schiuma dalla faccia. «Faccio presto. Mi vesto di là in camera da bagno; fra cinque minuti sono pronto.» Prese i vestiti in un fascio dalla seggiola, li buttò sul pavimento, in camera da bagno, entrò e sbatté la porta dietro di sé. Mi sedetti sul letto, e cominciai a mordicchiarmi le unghie. La situazione era assurda; mi pareva d’essere un burattino. Che cosa aveva in mente quell’uomo? Che cosa avrebbe fatto? La stanza che mi vedevo d’attorno era una stanza maschile, impersonale e disordinata. Molte scarpe, più di quante non occorressero, e file di cravatte. Sull’acconciatoio non c’era che una grossa bottiglia di lozione per i capelli, e un paio di spazzole d’avorio. Niente fotografie. E neppure istantanee. Istintivamente il mio sguardo aveva cercato qualcosa del genere: pensavo che ci dovesse essere almeno una fotografia vicino al capezzale, o sul marmo del caminetto. Una sola, grande, in una cornice di pelle. Ma non vidi che libri, e una scatola di sigarette.
Come aveva promesso, fu pronto in cinque minuti. «Venite giù alla terrazza mentre io faccio colazione» mi disse.
Guardai l’ora. «Ma io non ho tempo. Dovrei essere giù in ufficio, a cambiar i biglietti per la vettura-letto.» «Lasciate correre queste cose. Ho bisogno di parlarvi.» Ci avviammo per il corridoio, ed egli suonò per l’ascensore. Non vuol capire che il treno della mattina parte tra un’ora e mezzo. Fra poco la signora Van Hopper telefonerà giù in ufficio, per domandare se sono lì… Senza una parola scendemmo giù, e uscimmo sulla terrazza, dove erano preparati i tavolini per la colazione. «Che cosa prendete?» egli domandò. «Ho già fatto colazione. E non ho che quattro minuti di tempo…»
«Portatemi del caffè, un uovo al guscio, del pane tostato, della marmellata di arance, e un mandarino» egli ordinò al cameriere. E toltosi di tasca una lima di carta smerigliata, si mise a limarsi le unghie. «Dunque, la signora Van Hopper ne ha abbastanza di Monte Carlo, e vuole andarsene a casa? E anch’io. Lei a Nuova York e io a Manderley. Quale preferireste, dei due? Potete scegliere.»
«Non scherzate, vi prego; non è bello da parte vostra. E in ogni modo, è ora che vada a vedere per quei biglietti; è meglio che ci salutiamo.» «Se credete che io sia di quelli che hanno voglia di scherzare all’ora di colazione vi sbagliate» egli disse. «Al mattino presto io sono invariabilmente di pessimo umore. Vi ripeto: avete la scelta. O andate a Nuova York con la signora Van Hopper, o venite a Manderley con me.» «Volete dire che avete bisogno di una segretaria, o qualcosa di simile?»
«No. Vi chiedo di sposarmi, sciocchina.» Il cameriere arrivava con la colazione, e io, seduta con le mani in grembo, lo guardavo mentre posava la caffettiera e la lattiera.
«Voi non capite» dissi non appena l’uomo se ne fu andato «io non sono una ragazza da sposare.» «Che cosa diavolo intendete?» Egli aveva posato il cucchiaino, e mi guardava. Osservai una mosca che si posava sulla marmellata; impaziente egli la cacciò. «Non so… Non credo che saprei spiegarmi…» dissi titubante. «Intanto, per prima cosa io non appartengo al vostro mondo.»
«E quale sarebbe, il mio mondo?» «Mio Dio… Manderley. Sapete benissimo che cosa voglio dire.»
Egli aveva ripreso il cucchiaino e si servì di marmellata. «Siete ignorante quasi quanto la signora Van Hopper, e altrettanto poco intelligente. Che cosa ne sapete di Manderley? Se c’è qualcuno che possa sapere se voi appartenete a quel mondo o no, sono proprio io. Voi pensate che io vi abbia fatto quella domanda così su due piedi, tanto per dire? Perché avete detto che non volete andare a Nuova York. Siete convinta che io chieda la vostra mano per la stessa ragione per cui credevate che io vi portassi a spasso in automobile, sicuro, e per cui vi invitai a cena la prima sera. Per bontà. Non è così?» «Sì.»
«Un giorno vi accorgerete forse che la filantropia non è il mio forte.» E intanto, egli spalmava il pane tostato. «In questo momento, credo non vi accorgiate di nulla. E non avete risposto alla mia domanda. Volete sposarmi?»
Non credo che avessi mai contemplato, neppure nei miei momenti di maggiore esaltazione, quella possibilità. Una volta, mentre l’automobile correva e tacevamo da parecchio tempo, nella mia fantasia avevo incominciato una sconnessa vicenda: lui era molto malato, aveva il delirio, anzi, e mi mandava a chiamare e io dovevo curarlo. Ero al punto in cui gli mettevo sulla fronte delle compresse di acqua di Colonia, quando eravamo arrivati all’albergo, e tutto era finito lì. E un’altra volta immaginavo di vivere in una casetta nel parco di Manderley, e lui veniva qualche volta a trovarmi, e sedeva davanti al caminetto acceso. Quella fulminea proposta di matrimonio mi scombussolava, anzi, credo persino che mi scandalizzasse. Non era una cosa vera: come se ci si sentisse chiedere la propria mano da un re… E intanto, lui seguitava a mangiar marmellata come se niente fosse. Nei romanzi gli uomini cadevano a ginocchi dinanzi all’amata; e avrebbe anche dovuto esserci il chiaro di luna. Ma a colazione, e in quel modo…
«Mi sembra che la mia proposta non abbia avuto troppa fortuna» egli disse. «Mi rincresce; m’ero illuso che mi voleste bene. Un bel colpo per la mia vanità.» «Vi voglio bene» risposi. «Vi voglio un bene immenso. Mi avete reso molto infelice e ho pianto tutta la notte, perché credevo di non vedervi mai più.» Ricordo che mentre così parlavo lui rideva; e attraverso il tavolo mi tese la mano. «Che Dio vi benedica per questo che mi dite! Un giorno, quando avrete raggiunto quella benedetta età di trentacinque anni che era la vostra ambizione, mi permetterò di ricordarvi questomomento. E pensare che non mi volete credere… È un vero peccato che abbiate da crescere ancora.» Mi vergognavo già anche troppo; e quella sua ilarità m’irritava. Dunque le donne non facevano confessioni di quel genere agli uomini. Avevo ancora molto da imparare. «Dunque è deciso, non è vero?» egli diceva, continuando a mangiare; «invece di far compagnia alla signora Van Hopper la farete a me; i vostri doveri saranno pressappoco gli stessi. Anche a me piace esser tenuto al corrente delle novità librarie, e veder fiori in salotto, e giocare a bazzica dopo mangiato. E gradisco che qualcuno mi serva il tè. L’unica differenza è che non prendo il Taxol, preferisco l’Eno, e non dovete mai lasciarmi mancare il mio dentifricio speciale.»
Io, intanto, tamburellavo con le dita sul tavolo, non sapendo che pensare né di me né di lui. Si prendeva ancora gioco di me? Era tutta una burla? Come egli alzò il capo, dovette leggermi in viso l’ansia. «Sono stato un po’ brutale con voi, non è vero?» disse. «Non è proprio così che vi figuravate una proposta di matrimonio. Dovremmo essere in un giardino d’inverno, voi vestita di bianco con una rosa in mano, un violino che suona un valzer in lontananza, e io, dietro una palma, dovrei dare a vedere coi gesti il mio violento amore per voi. Allora sareste forse soddisfatta.
Povera piccola mia, che peccato… ma non abbiate paura, andremo a Venezia a passare la luna di miele e ci terremo stretti per mano in gondola. Ma non ci staremo troppo, perché voglio farvi vedere Manderley.»
Voleva farmi vedere Manderley… e tutt’a un tratto mi resi conto che questa era la realtà; io sarei stata sua moglie, avremmo camminato insieme nel giardino, e lentamente saremmo andati per quel sentiero lungo la valle fino al lido. E mi vedevo sui gradini della scalinata, dopo colazione, a guardare che tempo faceva, a gettar le briciole agli uccelletti; e più tardi sarei uscita con un cappellone di paglia in testa, e lunghe cesoie in mano, a tagliar fiori per la casa. Ora sapevo che quando, bambina, avevo comperato quella cartolina illustrata, era stato un presagio, un passo alla cieca verso l’avvenire. Egli voleva farmi vedere Manderley… Nella mente in subbuglio mi vedevo passar davanti figure ignote, e immagini e immagini, e intanto lui mangiava il mandarino, e me ne porgeva ogni tanto uno spicchio, e mi guardava di sottecchi. Ci trovavamo in mezzo a una folla di gente, ed egli diceva: “Mi sembra di non avervi ancora presentata mia moglie”. La signora de Winter. Sarei stata la signora de Winter. Vedevo quel nome. Su di un assegno, e in fondo alle lettere con cui invitavo gente a cena. E mi udivo parlare al telefono: “Perché non venite giù a Manderley sabato venturo, a passar la fine di settimana?”.
Gente, sempre gente. “Oh, essa è simpaticissima, vi dico, dovreste conoscerla… ” Si parlava di me, un mormorio colto a volo in una sala gremita di gente; e io mi distoglievo, facendo finta di non aver sentito. Andavo giù alla casetta del giardiniere, con un cestino al braccio, pieno di uva e pesche per la vecchia che era ammalata. Ella mi stendeva le mani: “Che Dio vi benedica, madama, siete tanto buona… ” e io ripetevo il detto consueto: “Se avete bisogno di qualche cosa, mandatelo a dire su alla villa”. La signora de Winter. Sarei stata la signora de Winter. Vedevo la tavola smagliante, dalla candida tovaglia, e le alte candele nei candelabri. Maxim sedeva a capo tavola. Un pranzo di ventiquattro coperti. Io avevo un fiore nei capelli. E tutti si volgevano verso di me, alzando il calice. “Dobbiamo bere alla salute della sposa… ” E Maxim dopo mi diceva: “Non ti ho mai veduta così graziosa”. Grandi sale fresche, piene di fiori. La mia camera da letto, con un fuoco acceso d’inverno; qualcuno bussa alla porta, entra una signora, sorridente, è la sorella di Maxim. “E’ veramente straordinario come lo avete reso felice” ella dice “tutti sono tanto contenti, avete compiuto un miracolo. ” La signora de Winter. Sarei stata la signora de Winter.
«Il resto di questo mandarino è acido, meglio non mangiarlo» egli disse. Io lo guardai, afferrando lentamente le parole, poi guardai il frutto sul mio piatto. Gli ultimi spicchi erano duri e verdognoli. Egli aveva ragione. Quel mandarino era assai acido. Mi aveva lasciato in bocca un gusto aspro, amaro, e solo ora me ne accorgevo. «Debbo dar io la gran notizia alla signora Van Hopper, o glie lo direte voi?» egli domandò, ripiegando il tovagliolo, spingendo da parte il piatto. Perché mai quel tono indifferente, quasi si trattasse di cosa da poco, di un semplice cambiamento di progetti? Per me era stata uria bomba, esplosa in mille frammenti.
«Diteglielo voi» pregai. «Chissà come andrà in furia.»
Ci alzammo da tavola; eccitata, rossa in viso, io tremavo già tutta. Quasi m’aspettavo che, prendendomi per il braccio e sorridendo, egli dicesse al cameriere:
“Fateci le congratulazioni, la signorina e io ci sposiamo”, E tutti gli altri camerieri avrebbero sentito, e tra inchini e sorrisi saremmo andati nella galleria, seguiti da un’ondata di emozione, da un’agitazione gioiosa. Ma egli non disse nulla. Senza una parola rientrò, e io lo seguii all’ascensore. Passammo davanti al banco del segretario; nessuno ci guardò. L’impiegato, affaccendato con un mucchio di carte, parlava a un suo collega, voltandoci le spalle. Egli non sa, pensai, che sarò, la signora de Winter. Andrò ad abitare a Manderley. Manderley mi apparterrà. Ci fermammo al primo piano, e ci avviammo per il corridoio. Nel camminare egli mi prese la mano, dondolandola avanti e indietro. «Quarantadue anni vi sembrano molti?» domandò.
La mia risposta giunse forse troppo rapida e affrettata. «Oh, no! Non mi piacciono i giovanotti.» «Non ne avete mai conosciuto nessuno» egli disse. Eravamo alla porta dell’appartamento. «Credo sarà meglio che me la cavi da solo» egli disse. «Ma ditemi una cosa: v’importa se ci sposiamo presto? Non vorrete mica un corredo, non è vero, né sciocchezze di quel genere? Perché tutto quanto si potrà accomodare benissimo inqualche giorno. Al consolato, davanti a un impiegato… È poi fileremo in automobile a Venezia o dove vi piacerà.»
«Non in chiesa?» domandai. «Non in bianco, con le damigelle d’onore, le campane, e i cantori? Che diranno i vostri amici, e la vostra famiglia?» «Dimenticate che una cerimonia di quel genere l’ho già avuta un’altra volta» egli disse, Eravamo rimasti fermi davanti alla porta dell’appartamento. Notai che il giornale sporgeva ancora dalla cassetta delle lettere. La signora Van Hopper e io avevamo avuto troppo da fare a colazione, per pensare a leggere il giornale.
«Dunque? Che facciamo?» egli insistè. «Naturalmente, lì per lì avevo pensato che ci saremmo sposati in Inghilterra. Ma è certo che non m’aspetto né la chiesa, né invitati, né altro…» risposi. E gli sorrisi, foggiandomi un viso lieto. «Sarà bello ugualmente.»
Egli si era rivolto verso la porta, e l’aprì. Entrammo nel piccolo ingresso.
«Siete voi?» chiamava la signora Van Hopper, dal salotto… «Ma che diamine avete mai fatto? Ho telefonato tre volte giù in ufficio, e m’hanno risposto che non vi avevano veduta.»
Mi colse un improvviso desiderio di piangere, di ridere; e intanto avevo un dolore alla bocca dello stomaco. Per un attimo mi colse lo sgomento, e avrei voluto che non fosse accaduto nulla, e trovarmi lontana, a passeggio, spensierata…
«Temo sia stata tutta colpa mia» egli disse, entrando nel salotto. E mentre chiudeva la porta dietro di sé udii l’esclamazione di sorpresa della signora Van Hopper. Me né andai nella mia camera, e sedetti vicino alla finestra aperta. Mi pareva di essere nell’anticamera di un medico; e dovevo sfogliar riviste, guardar fotografie che m’erano indifferenti e leggere articoli che mai avrei ricordato, fino a che non arrivasse l’infermiera, vispa, capace, ogni umanità cancellata da anni di disinfettanti: “Tutto è andato bene, l’operazione è riuscita. Non c’è ragione di preoccuparsi. Al posto vostro, andrei a casa e farei una buona dormita”.
I muri dell’albergo erano spessi; attraverso di essi non coglievo neppure un brusìo. Che cosa le diceva egli? Come rigirava le sue frasi? Forse le diceva: “Mi sono
innamorato di lei fin dal primo giorno che l’ho veduta. E poi, ci siamo visti tutti i giorni…“. E lei rispondeva: “Oh, signor de Winter, non ho mai sentito una storia così romantica”.
Romantico: ecco la parola che avevo tentato di riconnettere, salendo in ascensore. Sicuro. Romantico. Così diceva la gente. Tutto era stato così improvviso e romantico. Avevano deciso di sposarsi improvvisamente, ed ecco lì. Che avventura! Sorridevo, serrando le ginocchia contro il davanzale, e pensavo che tutto ciò era molto bello, e che sarei stata molto felice. Avrei sposato l’uomo che amavo. Sarei diventata la signora de Winter. Era assurdo, quel dolorino alla bocca dello stomaco, quando ero tanto felice. Nervi, naturalmente. Quell’attesa: l’anticamera d’un medico. Quanto meglio, dopo tutto, e più naturale non sarebbe stato entrar tutti e due nel salotto, tenendoci per mano, sorridendoci a vicenda; e lui avrebbe dovuto dire: “Abbiamo intenzione di sposarci, siamo molto innamorati”.
Innamorati. Ancora egli non aveva parlato d’amore, non aveva detto di essere innamorato. Forse non aveva avuto tempo. Tutto era successo così precipitosamente, mentre lui faceva colazione. Marmellata d’arance, caffè, e quel mandarino. No, non aveva detto di essere innamorato. Soltanto che ci saremmo sposati. Era stato conciso, positivo: molto originale. E le proposte originali non son forse le più belle? Più sincere. Non come tutti quanti. Non come i giovanotti, che probabilmente raccontavano un mucchio di frottole di cui non credevano la metà. Non come gli aveva fatto la prima volta, quando aveva parlato a Rebecca… Via, via quel pensiero. Un pensiero proibito, suggerito da diabolici spiriti. Indietro, Satana. Non devo pensarvi, mai, mai, mai. Egli mi ama, vuole farmi vedere Manderley. Ma quando avrebbero finito di parlare, quando mi avrebbero chiamata dentro, quei due? Ecco là, sul mio tavolino da notte, quel volume di versi, Egli s’era dimenticato d’avermelo prestato. E allora non doveva poi essergli molto caro. “Suvvia” sussurrava il demone“aprilo al frontespizio. È questo che vuoi, no? Aprilo al frontespizio.” Macché! dicevo io, voglio soltanto riporre il libro con le altre cose. Sbadigliando mi accostai al tavolino; presi il libro, e in quel mentre il piede mi si impigliò nel cordone della lampadina elettrica, e inciampai… Il libro mi cadde di mano, rotolò e si apri al frontespizio. “A Max -Rebecca.” Ella era morta, ed è male rimuginar su chi è morto. Dormono in pace, l’erba cresce sul luogo del loro riposo. Quanto vivi erano quei caratteri, però, quanto pieni di forza! Curiose, quelle lettere, tutte di sghembo. E lo spruzzo d’inchiostro. Pareva fatto ieri. Nella mia valigetta da viaggio cercai le forbici e tagliai la pagina; e intanto, lanciavo dietro di me sguardi furtivi, come un malfattore.
Tagliai via tutta la pagina, netta, senza lasciar bordi frastagliati; il libro appariva pulito come se nessuno lo avesse toccato, un libro nuovo. Strappai la pagina in pezzetti minuscoli, li buttai nel cestino della carta. Poi, tornai a sedermi nel vano della finestra. Ma quei pezzetti di carta là nel cestino non mi volevano uscir di mente; dovetti alzarmi, gettarvi dentro un’occhiata. Anche ora, sui frammenti, l’inchiostro risaltava spesso e nero; la calligrafia non aveva perso nulla della sua vivezza. Presi una scatola di fiammiferi, e vi diedi fuoco. La fiamma aveva un bel colore: divorava la carta, arricciava i bordi; a poco a poco gli audaci caratteri scomparivano. Presto i frammenti non furono che cenere grigia. La lettera R fu l’ultima a svanire: si torceva alla fiamma, per un istante si piegò tutta in fuori, e apparve più grande che mai. Poi, anch’essa si accartocciò; e la fiamma la distrusse per sempre: neppur più cenere, polvere impalpabile soltanto era… Andai a risciacquarmi le mani nel lavabo. Mi sentivo meglio, molto meglio. Provavo l’impressione di novità, di pulizia che si ha quando si appende il calendario nuovo alla parete il giorno di Capodanno. Il 1° gennaio. M’invadeva la stessa frescura, la stessa lieta fiducia. La porta si aprì, ed egli entrò. «Tutto bene. Sulle prime la sorpresa le ha tolto la parola, ma ora comincia a rimettersi: ora scendo giù in ufficio per vedere che possa prendere ancora il primo treno. Per un momento è rimasta un po’ incerta… credo avesse una lontana speranza di poter far da testimone alle nostre nozze, ma io sono stato molto energico. Ora andate, e parlatele…» Non diceva di essere contento, non parlava di felicità. Non mi prendeva per il braccio, per guidarmi verso il salotto. Con un sorriso mi fece un cenno, e se ne uscì. Titubante, alquanto intimorita, come una cameriera cui a mezzo di terzi sia stato comunicato il licenziamento, entrai dalla signora Van Hopper.
Era in piedi presso la finestra, e fumava una sigaretta. Mai più avrei riveduto quella figura tozza, comica, la giacca tirata sui seni abbondanti, il ridicolo cappello piantato di traverso sulla testa.
«Dunque?» Ella aveva la voce dura, asciutta, non certo la voce con cui aveva parlato a lui. «Dovrò pur farvi i complimenti per il modo come avete saputo recitarela vostra doppia parte. È proprio vero che le acque chete sono le più profonde! Ma dite un po’, come avete fatto?» Non sapevo che rispondere. Non mi piaceva come ella sorrideva. 1
«Una vera fortuna, per voi, è stata quella mia influenza. Ora capisco come passavate le giornate, e perché eravate così distratta! Altro che lezioni di tennis. Però, avreste anche potuto dirmelo.» «Perdonatemi» dissi.
Ella mi guardò in un certo modo, frugandomi con gli occhi per tutta la persona. «E mi ha detto che vorrebbe sposarvi fra pochi giorni. Altra fortuna per voi, che non abbiate dei parenti che facciano domande indiscrete. Bah, io non c’entro più, io me ne lavò le mani di tutta questa faccenda. Mi domando che cosa diranno gli amici di lui, ma questo è affar suo. Vi rendete conto che è molto più vecchio di voi, di parecchi anni?» «Ne ha soltanto quarantadue, e io sono vecchia per la mia età» replicai.
Ella rise, scuotendo in terra la cenere della sigaretta. «Questo è vero!» disse E seguitava a guardarmi, come non mi aveva guardato mai prima. Mi valutava, considerava i miei pregi e difetti come un giudice in una fiera di bestiame. Quei suoi occhietti avevano qualcosa di inquisitorio, di estremamente sgradevole. «Ditemi» e il suo tono diventava confidenziale, come da amica ad amica «avete fatto qualche cosa che non va?»
Sembrava Blaize, la sarta, quando m’aveva offerto il dieci per cento.
«Non so che cosa vogliate dire» risposi. Ridendo scrollò le spalle. «Oh, bene… non importa. Però, l’ho sempre detto che le ragazze inglesi sono delle santarelline, nonostante le loro tendenze sportive. Sicché, io dovrò andarmene a Parigi da sola, e lasciarvi qui mentre il vostro amato bene si procura la licenza di matrimonio? Nota bene, non sono stata invitata alle nozze.» «Credo ch’egli non voglia nessuno, e in ogni modo, voi dovevate imbarcarvi» replicai.
«Hm… hm…» ella fece. Tolse dalla borsetta il portacipria e cominciò a incipriarsi il naso. «Sapete voi quel che volete fare, immagino» riprese; «però, tutto è stato deciso in modo un po’ precipitoso, non vi pare? In poche settimane… Io non credo che lui sia un carattere facile, e dovrete adattarvi alle sue idee. Finora voi avete fatto sempre una vita estremamente ritirata, e non potete dire che io abbia mai preteso troppo da voi. A Manderley, il vostro compito di padrona di casa vi verrà assegnato a puntino. Ora, per
esser proprio sinceri, mia cara, non vi ci vedo in quella parte.»
Le sue parole sonavano come un’eco di quelle ch’io avevo detto un’ora prima…
«Voi non avete esperienza» proseguì «non conoscete quell’ambiente. Ai miei tè, arrivavate a mala pena a cucir due frasi di fila; e come terrete conversazione a tutti i suoi amici? Le feste a Manderley erano celebri, quando essa era viva. Lui ve ne avrà parlato, naturalmente?»
Io titubavo; grazie al Cielo ella andò avanti senza aspettare la mia risposta.
«Naturalmente, non c’è chi non vi augurerebbe di essere felice, e io ammetto che lui è un uomo molto simpatico, ma… ecco, io non so che dirvi; e personalmente penso che commettete un grosso errore… un errore che rimpiangerete amaramente.»
Ella posò il portacipria, e mi sbirciò al disopra della spalla. Forse, in ultima analisi quella donna era sincera, ma non era quella la specie di franchezza ch’io desideravo. E così, non replicai nulla. Dovevo avere un’aria imbronciata, perché ella scrollò le spalle e andò allo specchio, dove si raddrizzò quel suo cappelluccio che pareva un fungo. Ero contenta che partisse, contenta di non vederla mai più. Rimpiangevo i mesi trascorsi con lei, dipendente sua, stipendiata da lei, a trotterellar nella sua scia come un’ombra, muta e incolore. Certamente non avevo esperienza, certamente ero una stupidella, timida e immatura. Le sapevo, tutte queste cose. Non c’era bisogno che me le dicesse lei. Ma credo che il suo fosse un partito preso: per qualche oscura e bizzarra reazione femminile quel matrimonio non le andava: la sua scala di valori aveva ricevuto un fiero colpo. Ma insomma, presto avrei dimenticato lei e le sue parole pungenti. Una fiducia nuova era nata in me, dal momento in cui avevo strappato quella pagina, bruciandone i pezzetti. Il passato non sarebbe più esistito per nessuno di noi due: cominciavamo una nuova vita, lui e io. Il passato se n’era andato disperso, come quel poco di cenere nel cestino della carta. Io sarei stata la signora de Winter. E avrei vissuto a Manderley.
Fra poco ella se ne sarebbe andata; si sarebbe trovata sola nella vettura-letto, senza la mia compagnia, e lui e io avremmo fatto colazione insieme al ristorante dell’albergo, architettando l’avvenire. Ero sull’orlo di una grande avventura. Forse quando ella se ne fosse andata, egli mi avrebbe parlato finalmente d’amore, di felicità. Finora non c’era stato tempo, e in ogni modo erano cose difficili a dirsi, cose che richiedevano il momento giusto. Alzando il capo, la vidi nello specchio. Mi spiava, un sorrisetto tollerante sulle labbra. Pensai che finalmente si sarebbe mostrata generosa, mi avrebbe teso la mano augurandomi buona fortuna, infondendomi un po’ di coraggio, assicurandomi che tutto sarebbe finito bene. Ma ella seguitava a sorridere, cacciandosi una ciocca ribelle sotto l’ala del cappellino.
«Naturalmente, lo sapete perché vi sposa?» disse. «Non vi sarete mica illusa che sia innamorato di voi? La verità è che quella casa deserta gli ha dato ai nervi tanto da farlo quasi uscir di cervello… questo lo ha ammesso lui, prima che entraste. Non se la sente più di vivere tutto solo…»
VII
Fummo a Manderley al principio di maggio, arrivando, come disse Maxim, con le prime rondini e le campanule. Era il momento migliore, prima del pieno rigoglio dell’estate, e nella valletta le azalee profondevano i loro effluvi, e i rododendri sanguigni erano in fiore. Eravamo partiti da Londra in automobile in una mattina greve di pioggia, e giungemmo a Manderley verso le cinque del pomeriggio, per l’ora del tè. Mi vedo ancora, vestita, come al solito, in modo non appropriato all’occasione, sebbene fossi sposa da sette settimane appena: un vestito di maglia color bruciato, una piccola cravatta di un’imitazione di martora attorno al collo, e un impermeabile informe, troppo largo per me, che m’arrivava alle caviglie. Era stato per via del tempo; e intanto, quell’indumento mi faceva apparir più lunga ancora. Stringevo in mano un paio di guanti alla moschettiera, e portavo anche una grossa borsetta di cuoio.
«Questa è pioggia londinese» disse Maxim quando partimmo «ma aspetta, e vedrai che il sole splenderà in tuo onore, quando arriveremo a Manderley.» Aveva ragione: le nubi si diradarono a Exeter e fuggirono dietro di noi lasciando scoperto un gran cielo azzurro sopra le nostre teste, e una strada bianca di fronte a noi. La vista del sole mi rendeva felice; un poco superstiziosa, la pioggia mi pareva di cattivo, augurio, e i cieli plumbei di Londra m’avevano resa silenziosa. «Va meglio?» mi domandò Maxim, e io sorrisi, prendendogli la mano. Pensavo quanto doveva esser facile per lui rientrare in casa propria, entrare nel vestibolo, prendere un pacco di lettere, sonare per far portare il tè… Forse aveva indovinato ch’io ero nervosa, e la sua domanda significava che aveva capito. «Stai tranquilla, presto saremo arrivati. Mi figuro che avrai voglia di una tazza di tè» egli disse; e lasciò la mia mano, perché eravamo a una curva e bisognava rallentare. Allora capii che aveva interpretato il mio silenzio come effetto di stanchezza; non gli era mai passato per la mente ch’io paventavo quell’arrivo a Manderley tanto quanto in teoria lo avevo desiderato. Ora che il momento era giunto, avrei voluto rimandarlo; mi sarebbe piaciuto che ci fossimo fermati davanti a una locanda lungo la via, e fossimo entrati nel caffeuccio, a sederci presso un modesto caminetto. Avrei voluto essere una viaggiatrice qualsiasi, una sposina innamorata del marito. Non io, la moglie di Maxim de Winter, che arrivava per la prima volta a Manderley. Attraversavamo tanti paesini, dove le finestre delle casette occhieggiavano con un’aria di cortesia. Una donna con un bambino in braccio mi sorrise dalla soglia della sua porta; un uomo, intanto, ciabattava verso un pozzo, con un paiuolo in mano… Avrei voluto essere una di loro: forse una vicina, e alla sera Maxim fumava la pipa appoggiato a un cancelletto, tutto fiero del bell’agrifoglio che cresceva alto, e che aveva piantato lui; e intanto io, linda come una gattina, mi affaccendavo attorno alle pentole, e preparavo la tavola per la cena. Sulla credenza c’era una sveglia che ticchiettava forte, e anche una fila di lucidi rami; dopo cena Maxim leggeva il giornale, i piedi allungati sugli alari, e io andavo a prendere nel cassetto della credenza un gran mucchio di roba da rammendare. Doveva pur essere una vita pacifica e sicura, quella, e anche più facile della nostra.
«Due miglia ancora» annunciava Maxim; «la vedi quella gran cinta di alberi sul ciglio della collina, che declinano verso la valle? Si vede anche un pezzetto di mare… Là in mezzo c’è Manderley. Quelli sono i boschi.» Abbozzai un sorriso e non gli risposi. Provavo ora uno spasimo acuto al petto e non riuscivo a vincere una sgradevole nausea. Sparita era ogni gaia emozione, lontano il mio felice orgoglio. Ero come un bambino che per la prima volta vien condotto a scuola, come una piccola servetta inesperta che non è mai uscita di casa e va a cercar lavoro. Quel po’ di fiducia in me stessa acquistata durante le prime settimane di vita coniugale era ridotto a un cencio in balìa del vento; mi pareva di aver dimenticato financo le più elementari regole di “saper vivere”: sicuramente non sapevo più quale era la destra e quale la sinistra, non sapevo se restare in piedi o sedermi, e quali posate bisognasse adoperare a tavola… «Io mi toglierei l’impermeabile, al posto tuo» mi diceva Maxim, sbirciandomi «qui non ha piovuto affatto… E raddrizzati quella tua buffa pelliccetta… Povero amore, ti ho fatta partire a precipizio, tu forse avresti voluto comprar chissà quanti vestiti a Londra.» «A me importa poco, se non importa a te» replicai. «La maggior parte delle donne non pensa che ai vestiti» diss’egli, distratto. Dopo una svolta ci trovammo a un crocevia, dove cominciava un alto muro di cinta. «Eccoci.» Un’emozione nuova vibrava nella voce di Maxim; io m’ero aggrappata con ambe le mani al cuscino di cuoio del sedile.
La strada girava: davanti a noi, a sinistra, due alti cancelli di ferro accanto a un casotto si aprivano su di un lungo viale. Mentre entravamo, vidi dietro alla finestra scura del casotto alcune facce che ci spiavano; un bimbetto scappò fuori dalla porta di dietro e rimase a fissarci con occhi grandi di curiosità. Mi rincantucciai sul sedile, il cuore che mi batteva forte: sapevo perché quelle facce erano alla finestra, e perché il bimbo guardava così. Volevano vedere com’ero. Immaginavo il loro chiacchiericcio, le risate, nella piccola cucina. “S’è vista appena la punta del cappellino” dicevano “non ha voluto far vedere la faccia. Oh, beh, domani si saprà com’è. Da casa ce lo verranno a dire.” Maxim dovette indovinar finalmente che ero intimorita, perché mi prese la mano e me la baciò ridendo mentre parlava.
«Non dovrai spaventarti se ci sarà un po’ di curiosità. Tutti vorranno sapere come sei. Probabilmente non parlano d’altro da qualche settimana. Ma tu non hai che da essere quella che sei, e li avrai tutti ai tuoi piedi. E in quanto alla casa, non devi preoccuparti, c’è la signora Danvers che pensa a tutto. Lascia fare a lei. In principio sarà un po’ sostenuta con te, è un tipo originale, ma tu non devi lasciarti imporre dalei. È il suo modo di fare. Vedi quei cespugli? Quando le idrangee sono in fiore, è tutta una gran parete azzurra.»
Non gli diedi risposta: pensavo a quella bambina che tanti anni addietro aveva comperato una cartolina illustrata in una bottega d’un villaggio, ed era uscita al sole rigirandola in mano, tutta felice dell’acquisto. “Farà una bella figura nel mio album… Manderley: che bel nome!” E ora, Manderley sarebbe stato la mia casa. Avrei camminato per questo viale che ora m’era ignoto ed estraneo, conoscendone ogni sasso, ogni svolta; osservando i giardinieri al lavoro, approvando, qua dove avevano sfoltito i cespugli, là dov’erano stati potati i ramoscelli. E mi sarei anche fermata al casotto del guardiano, per una visitina… “Ebbene, come va la gamba, oggi?” E la vecchia, non più curiosa, mi avrebbe invitata a entrare nella sua cucina. Invidiavo Maxim, così disinvolto e noncurante, con quel sorrisetto sulle labbra, che rivelava quanto egli fosse felice di ritornare a casa sua. Lontanissimo, e troppo remoto ancora mi pareva il tempo in cui anch’io avrei sorriso con tanta disinvoltura. Desiderai che venisse presto, dovessi anche essere Vecchia, i capelli grigi, male in gambe, usa da molti anni a quella terra e diversa, oh quanto diversa dalla creatura timida e stordita che mi sentivo.
I cancelli si erano chiusi dietro di noi con uno strider di ferraglie, la polverosa via maestra non si vedeva più; e subito mi resi conto che non era quello un viale come lo avevo immaginato a Manderley: una bella distesa spaziosa ricoperta di ghiaia, orlata da una bell’erba verde, che rivelava assidue cure di rastrelli e scope. Questo viale girava, si snodava al pari d’un serpente, largo appena quanto un sentiero in certi punti; al pari d’un colonnato altissimi alberi lo fiancheggiavano, i cui rami, intrecciane dosi, allacciandosi, formavano archi simili alle navate d’una chiesa. Nemmeno il sole meridiano rompeva l’intrico di quel verde fogliame troppo infittito; solo qua e là uno sprazzo di calda luce d’oro liquido macchiava il suolo. Sulla strada maestra, una vispa arietta che faceva danzare in ritmo eguale le erbe nelle siepi, mi aveva alitato in viso; ma qui non spirava un filo di vento. Persino il motore aveva un rombo diverso, più basso di tono, più sommesso di prima. Poi, il viale cominciò a dichinar verso la valle; e gli alberi ci vennero incontro, allora, grandi faggi dai bei tronchi chiari e lisci che movevano gli infiniti rami gli uni verso gli altri, e altri alberi, alberi di cui non sapevo il nome; e venivano vicini, così vicini che potevo toccarli con la mano. Passammo un ponticello su di un torrente; e sempre ancora quella strada che non era una strada si snodava, girava tortuosa come un nastro incantato per i boschi scuri e silenziosi, andando forse verso il più profondo cuore della foresta, e non si vedeva una radura, né uno spazio ove sorgesse una casa. Tanto lunga era, che cominciava a darmi un senso d’irritazione; sarà ora, a questa svolta, mi dicevo, o un po’ più in là, dopo quel gomito; e ogni volta, dopo che m’ero protesa in avanti, tornavo a ritrarmi delusa: nessuna casa, né campi, né grandi giardini accoglienti; nulla, fuorché quella fitta boscaglia, e il gran silenzio… Già i cancelli col casotto del guardiano avevano il color d’una reminiscenza, e la strada maestra apparteneva a un’altra epoca, a un altro mondo.
D’un tratto il cupo fogliame si schiuse a mostrarmi una radura, e un lembo di cielo, e in un attimo gli alberi s’erano diradati, gli ignoti cespugli erano scomparsi, e dalle due parti si ergeva una muraglia di colore, d’un rosso sanguigno, alta assai oltre le nostre teste. Eravamo in mezzo ai rododendri. Quella rivelazione così improvvisa mi aveva causato una sorpresa tanto brusca da rasentare il malessere. I boschi non mi avevano preparato a quello spettacolo. I fiori mi turbavano con le loro facce cremisi, ammassate le une sulle altre in una profusione incredibile, tanto che non si vedeva una foglia, non un ramo, nulla fuorché quel sanguinario rosso, lussureggiante e fantastico, dissimile da qualsiasi altro rosso di rododendri che avessi mai veduto.
Guardai Maxim: sorrideva. «Ti piacciono?» domandò. Con un fil di voce risposi di sì; non ero ben certa se dicevo la verità o no. Per me, i rododendri erano piante modeste, domestiche, abbastanza convenzionali, color rosa o celestino; e s’allineavano gli uni accanto agli altri in una bella aiuola tonda. E questi erano mostri che tendevano al cielo, uniti come in un battaglione: troppo belli, troppo vigorosi, non erano esseri che appartenessero al regno vegetale…
Ci avvicinavamo alla casa: vidi la strada allargarsi, formando la spianata cui m’ero attesa, e accompagnati sempre dalla sanguigna muraglia svoltammo per l’ultima volta e fummo, finalmente, a Manderley. Sì, era là, quel Manderley tanto agognato, il Manderley della mia cartolina illustrata. Una cosa di grazia e di bellezza, impeccabile e squisita, più leggiadra di quanto non l’avessi sognata, era là, annidata come in una custodia di verdi praterie e di erbite terrazze, che digradavano verso giardini, e i giardini digradavano verso il mare. La macchina salì una rampa di pietra, e si fermò davanti al portale aperto; dalle finestre a bifora vidi che il vestibolo era pieno di gente. Maxim si lasciò sfuggire un’imprecazione a bassa voce. «Diavolo d’una donna! Lo sa benissimo che non voglio di queste cose…» E frenò bruscamente. «Che cosa c’è?» domandai. «Chi è tutta quella gente?»
«Ho ben paura che dovrai affrontarla ora» egli mi rispose, irritato. «La signora Danvers ha radunato tutta quanta la servitù e la gente del rustico, che le pigli un accidente, per darci il benvenuto. Bene, tu non hai da dire niente, me la caverò io.»
Un poco stordita, infreddolita dal lungo viaggio, con mano tremante cercai la maniglia dello sportello, e mentre armeggiavo il maggiordomo scese la gradinata, seguito da un domestico, e mi aprì.
Era un uomo anziano con un viso buono, e gli sorrisi porgendogli la mano, ma forse non vide nemmeno, perché prese invece la coperta da viaggio e la mia valigetta, e aiutandomi a scendere si volse a Maxim. «Dunque, Frith, eccoci qua» disse Maxim, togliendosi i guanti. «Abbiamo lasciato Londra con la pioggia. Ma sembra che qui non l’abbiate avuta, eh? Tutti bene?» «Sì, signore, grazie, signore. No, abbiamo avuto un mese piuttosto asciutto nell’insieme. Son contento di vedervi tornato, e spero sarete stato bene. E anche la signora.» «Sì, stiamo bene tutti e due, grazie, Frith. Un po’ stanchi del viaggio; non vediamo l’ora di prendere il tè. Non mi aspettavo tutta quella…» E con una mossa del capo indicava il vestibolo.
«Ordini della signora Danvers, signore» disse l’uomo, e rimase impassibile.
«L’avevo immaginato» replicò Maxim, secco. E volgendosi a me: «Vieni, ce la sbrigheremo presto, e poi avrai il tuo tè».
Insieme salimmo la breve scalinata, seguiti da Frith e da un giovane domestico che portavano la coperta e il mio impermeabile.
Se chiudo gli occhi e rivivo la scena, mi rivedo quale dovevo essere, ferma sulla soglia della casa, figuretta smilza e timida nell’abituccio di maglia, stringendo nelle mani umide i guanti alla moschettiera. Vedo il gran vestibolo dal pavimento di pietra, le grandi porte spalancate della biblioteca, i Peter Lely e i Van Dyck alle pareti, la squisita scalea che dava alla galleria dei menestrelli; e, assiepate una dietro l’altra per tutto il vestibolo e fin nei corridoi che vi accedevano, un mare di facce, facce a bocca aperta, curiose, che mi fissavano come là folla che si stipasse attorno al patibolo, e io la vittima con le mani legate dietro il dorso. Una figura si staccò dal mare di facce, una figura alta e ossuta, vestita di nero, d’un nero d’inchiostro, cui gli zigomi salienti e
i grandi occhi infossati davano l’aspetto lugubre d’un teschio, un teschio color della pergamena, piantato su di uno scheletro. La donna avanzò verso di me, e io, invidiandole la sua composta dignità, le tesi la mano; ma quella che prese la mia era inerte e pesante, mortalmente gelida, e la sentii come una cosa senza vita.
«Questa è la signora Danvers» disse Maxim, ed ella cominciò a parlare, sempre lasciandomi quella mano morta, gli occhi infossati che non abbandonavano i miei, i quali erravano qua e là e facevano di tutto per evitarli; e intanto la mano si moveva nella mia, si ridestava a vita, e io mi sentivo invadere da un senso di disagio e di vergogna.
Non rammento più le sue parole, ma so che mi diede il benvenuto a Manderley, in nome suo e della servitù: un discorsetto freddo e convenzionale, mandato a memoria per l’occasione, detto con una voce gelida e senza vita quanto le mani. Quand’ebbe finito parve in attesa d’una risposta, e io balbettai qualche parola di ringraziamento, mentre diventavo di brace, e al colmo della confusione lasciavo cadere tutti e due i guanti. Ella si curvò a raccogliermeli, e mentre me li porgeva m’avvidi che un’ombra di sprezzo le increspava le labbra, e subito capii che mi considerava una maleducata. C’era nell’espressione di quel viso qualcosa che m’inquietava, e anche quando si fu ritirata ed ebbe ripreso il suo posto fra gli altri, vedevo quella figura nera, che spiccava isolata, e benché tacesse non mi abbandonava con lo sguardo. Maxim mi prese per il braccio e improvvisò un piccolo discorso, perfettamente disinvolto e senza il minimo imbarazzo, come se non gli costasse alcuno sforzo; poi mi trasse verso la biblioteca, dove era preparato il tè; chiuse le porte dietro di noi, e di nuovo ci trovammo soli.
Due cocker spaniels si alzarono dal canto del fuoco e vennero a farci le feste. Mettevano le zampe addosso a Maxim, rizzando affettuosamente le lunghe orecchie seriche, cercandogli le mani col muso; poi si staccarono da lui e vennero a me, annusandomi i tacchi delle scarpe, ancora incerti, ancora sospettosi. Uno era la madre, cieca da un occhio; presto ne ebbe abbastanza di me, e con un brontolìo tornò a rincantucciarsi presso il fuoco, ma Jasper, il piccolo, mi mise il muso nel cavo della mano, poi mi posò il mento sulle ginocchia; e i suoi occhi volevano dirmi tante cose, e dimenò la coda mozza, allorché gli accarezzai le morbide orecchie.
Mi sentii meglio quando mi fui tolto il cappello, e lo sciagurato piccolo boa di pelliccia, buttando l’uno e l’altro accanto ai guanti e alla borsetta, sul sedile nel vano della finestra. La stanza era ampia e piacevole, rivestita di libri fino al soffitto: una di quelle stanze nelle quali un uomo che vive solo se ne starebbe tutta la giornata: poltrone monumentali davanti a un gran caminetto, ceste per i due cani, che, subito lo indovinai, essi dovevano occupar ben di rado, a giudicar dalle profonde impronte sulle poltrone. Le alte finestre guardavano sulle terrazze, e oltre queste s’intravedeva il lontano luccichio del mare.
Un quieto odor di cose antiche permeava l’intera stanza, come se l’aria vi venisse cambiata ben di rado, e un dolce profumo di lillà e di rose recava un presagio della prima estate. Ma quale si fosse l’aria che entrava in quell’ambiente, dai giardini o dal mare, perdeva la sua primitiva freschezza, diventava parte dell’immutabile atmosfera, si fondeva coi libri vecchi e non mai sfogliati, col soffitto a cassette, coi pannelli scuri alle pareti, con le cortine pesanti. Era un vecchio sentor di muffito, l’odor di una chiesa silenziosa ove raramente si celebrano funzioni, ove rugginosi licheni crescono tra le pietre e l’edera invade anche le finestre. Una stanza che invitava alla pace e alla meditazione.
Tosto ci portarono il tè, piccola cerimonia cui attendevano Frith e il giovane domestico, e alla quale io non presi parte fino a che non si furono ritirati. Mentre Maxim scorreva un gran mucchio di lettere, io giocherellavo con due pasticcini, sbriciolavo una fetta di torta, e mandavo giù sorsi di tè bollente.
Ogni tanto Maxim alzava il capo a guardarmi e a sorridermi, poi tornava a dedicarsi alle lettere, che dovevano essersi accumulate durante gli ultimi mesi. Pensavo quanto poco sapessi della sua vita a Manderley: le abitudini quotidiane, le persone ch’egli conosceva, i suoi amici, uomini e donne, i conti che pagava, gli ordini che dava per l’andamento della casa. Quelle ultime settimane erano trascorse in un lampo, e io, seduta al fianco suo davanti al volante, attraverso la Francia e l’Italia, m’ero beata del suo amore solamente, vedendo Venezia con gli occhi suoi, facendo eco alle sue parole, paga dell’effimero splendore dell’attimo presente.
Poiché egli era d’umor più gaio di quanto non avessi creduto, più tenero di quanto non avessi sognato, giovanile e ardente in mille felici modi: non il Maxim che avevo conosciuto le prime volte, non l’estraneo che sedeva solo al tavolo del ristorante, gli occhi fissi avanti a sé, avvolto nel suo io segreto. Il mio Maxim rideva e cantava, buttava sassi nell’acqua, mi prendeva la mano, non aggrottava le sopracciglia, non portava il peso di alcun fardello sulle sue spalle. Lo avevo conosciuto come amante, come amico, e avevo obliato, in quelle settimane, che egli aveva una sua esistenza ordinata, metodica, un’esistenza che bisognava pur riprendere, continuare come prima; e presto quelle svanite settimane non sarebbero state che una vacanza come tante altre.
Lo osservavo mentre leggeva le sue lettere; su una corrugava la fronte, un’altra lo fece sorridere; un’altra la mise da parte, noncurante. Non fosse stato per grazia di Dio, la mia lettera scritta da Nuova York sarebbe ora lì, ed egli l’avrebbe letta con la stessa indifferenza, interdetto forse per un momento davanti alla firma, e con uno sbadiglio l’avrebbe buttata assieme alle altre nel cestino, riprendendo poi la tazza del tè. Quella visione mi diede freddo al cuore: quanto sottile il filo che divideva la mia sorte e “ciò che avrebbe potuto essere”… Ora egli se ne starebbe lì solo, e avrebbe ripreso poi la sua vita, come l’avrebbe ripresa ora del resto; e forse mi avrebbe dedicato appena un fuggevole pensiero, senza troppo rimpianto, mentre io a Nuova York giocavo a bridge con la signora Van Hopper, e ogni giorno aspettavo una lettera che non giungeva mai.
Abbandonandomi nella poltrona studiavo la stanza, sforzandomi d’instillarmi una certa fiducia in me stessa, di capire che questa era la realtà, che io ero qui, a Manderley, la dimora della cartolina illustrata, quel Manderley che era celebre: dovevo imparare a rendermi conto che tutto questo era mio, ormai, mio quanto di Maxim; la poltrona in cui m’ero sprofondata, quella miriade di libri che arrivavano al soffitto, e i quadri alle pareti, i giardini, i boschi: tutto questo era mio, perché avevo sposato Maxim.
Saremmo invecchiati insieme, e così avremmo preso insieme il tè, allora, Maxim e io, con altri cani, figli e nipoti di questi, e nella biblioteca avrebbe regnato lo stesso lieve odor di vecchio e di muffito. E la biblioteca avrebbe conosciuto un periodo di glorioso disordine e deterioramento, durante gli anni giovanili dei ragazzi… i nostri ragazzi: li vedevo sdraiati sul divano con le scarpe infangate, eternamente accompagnati da un arsenale di lenze, e mazze da cricket, e coltelli a serramanico, e archi e frecce. Su quel tavolino, polito ora e vuoto, ci sarebbe stata una brutta scatola dal coperchio di vetro, piena di farfalle e libellule, e un’altra con uova di uccelli avvolte nella bambagia. “Non qui tutte queste carabattole!” avrei detto io; “portatele un po’ nella stanza da studio, cari…” E sarebbero scappati via, gridando, chiamandosi tra di loro; solo il piccolo sarebbe rimasto ad armeggiare, più tranquillo che non i fratelli.
A interrompere la mia visione entrò Frith col domestico per sbarazzare la tavola del tè. «La signora Danvers desidererebbe sapere quando alla signora farebbe comodo vedere la sua stanza…» egli mi disse, non appena il domestico fu uscito col grande vassoio. Maxim alzò il capo dalle sue lettere: «Che razza di roba sono riusciti a fare, dell’ala a levante?».
«È riuscito tutto molto bene, signore, almeno così pare a me. Gli operai hanno fatto parecchio disordine mentre lavoravano, si capisce, e per un po’ di tempo la signora Danvers aveva persino paura che non avrebbero finito per il vostro ritorno. Ma se ne sono andati lunedì scorso. Io credo che vi ci troverete benissimo, signore. C’è molta più luce, da quella parte della casa.» «Hai fatto dei cambiamenti?» domandai. «Oh, poca cosa» rispose Maxim, breve «ho soltanto fatto rimettere a nuovo e rinfrescare le pareti nell’appartamento dell’ala a levante; pensavo che fosse il più adatto per noi. Come dice Frith quella parte della casa è molto più gaia, e c’è una bella vista sul giardino delle rose. Era l’appartamento degli ospiti quando c’era ancora mia madre. Finisco soltanto di vedere queste lettere e poi ti raggiungo. Vai su e cerca di renderti amica la signora Danvers, è una buona occasione.»
Mi alzai lentamente, e uscii nel vestibolo. Mi sentivo di nuovo invasa dal nervosismo di prima; avrei voluto aspettare Maxim, e vedere le stanze a braccetto con lui. Non volevo andarci sola, con la signora Danvers. Quanto smisurato appariva il grande vestibolo, ora che era vuoto! I miei passi risonavano sul pavimento a mosaico, risvegliando echi dal soffitto, e quel rumore mi dava quasi un senso di colpa, come talvolta accade nelle chiese. Le mie scarpe scricchiolavano stupidamente, e pensavoche Frith con le sue suole di feltro doveva disapprovarmi. «È molto grande, non è vero?» dissi, troppo gaia, troppo artificiosa, ancora collegiale; ma egli mi rispose gravemente. «Sì, signora, Manderley è una casa molto grande. Ce ne sono di più grandi, naturalmente, ma questa è già abbastanza grande. Questa era la sala dei banchetti, in tempi antichi. Si usa ancora nelle grandi occasioni, come un gran pranzo, o un ballo, E saprete che il pubblico viene ammesso qui una volta la settimana.» «Già» dissi, tuttora conscia del mio passo pesante. Seguendolo dubitavo che Frith mi considerasse né più né meno che uno di quei pubblici visitatori; e infatti non mi comportavo diversamente, guardando con discrezione a destra e a sinistra, ammirando le panoplie appese al muro, e i quadri, e toccando con le dita gli intagli dello scalone.
In cima a questo c’era una figura nera ad aspettarmi; gli occhi infossati mi guardavano intensamente dal bianco viso di teschio. Mi voltai in cerca del buon Frith, ma già egli aveva proseguito per il vestibolo, e silenziosamente era sparito in un corridoio. Io ero sola con la signora Danvers. Immobile, le mani giunte, senza abbandonarmi con gli occhi ella attese che io salissi gli ultimi gradini dell’ampia scalea. Abbozzai un sorriso, che non mi venne reso; non glie ne volli, del resto, perché non c’era alcuna ragione di sorridere, era stato un gesto stupido e poco sincero. «Spero di non avervi fatta aspettare troppo» dissi.
«La signora può disporre del suo tempo come le pare» ella rispose «io sono qui per eseguire ordini.» Poi si volse, e passando sotto un arco della galleria si avviò verso il corridoio. Percorremmo un largo andito dove uno spesso tappeto attutiva i passi, svoltammo a destra, entrammo per una porta di quercia, poi, giù per una stretta rampa di scale, su per un’altra uguale, e fummo davanti a un’altra porta. La signora Danvers la spalancò, si scostò per cedermi il passo; e mi trovai in una piccola anticamera, o salottino che fosse, mobiliato con un sofà, poltrone e uno scrittoio, che dava in una camera da letto matrimoniale con ampie finestre. Dietro c’era ancora un gabinetto da bagno. Subito andai alla finestra e guardai fuori. Sotto si distendeva il giardino delle rose, e la parte orientale della terrazza; oltre il giardino si elevava un dolce declivio a prato, che andava fino ai boschi, non lontani.
«Di qui il mare non si vede» dissi, volgendomi alla signora Danvers.
«No, non da quest’ala, e nemmeno si sente» ella rispose. «Non si direbbe davvero che il mare sia tanto vicino, da questa parte della casa.»
Ella aveva parlato in uno strano modo, come se le sue parole celassero un sottinteso; e poneva una certa enfasi nelle parole “questa parte della casa” come se volesse insinuare che le stanze dove ci trovavamo avessero qualche difetto.
«Mi dispiace, io adoro il mare» dissi. Senza darmi risposta ella seguitò a fissarmi, le mani giunte sul petto.
«Però è una bella stanza, sì, bella» dissi «e sono certa che mi ci troverò benissimo.
A quanto ho sentito è stata rimessa a nuovo per il nostro ritorno.» «Sì.»
«Com’era prima?» domandai.
«Aveva una tappezzeria viola pallido, e i tendaggi erano diversi; il signor de Winter trovava che era un po’ funerea. Non si apriva quasi mai, se non per qualche ospite. Ma nella sua lettera il signor de Winter ha dato ordine che questa stanza venisse messa a nuovo particolarmente per voi, signora.»
«Allora non era la sua stanza da letto, in origine?» «No, signora, il signore non ha mai abitato in quest’ala, prima d’ora.»
«Oh… non me l’aveva detto.» Andai alla pettiniera, e incominciai a spazzolarmi i capelli. Le mie cose erano già messe a posto, le spazzole e il pettine bene allineati sul piano di cristallo. Fui contenta che Maxim mi avesse regalato un servizio da toeletta e che la signora Danvers lo vedesse lì, sulla pettiniera. Era nuovo, assai costoso, e non avevo di che vergognarmene. «Alice ha disfatto i vostri bagagli e avrà cura di voi fino a che sia arrivata la vostra cameriera» diceva la signora Danvers.
Tornai a sorriderle, mentre posavo la spazzola. «Non ho una cameriera» dissi, imbarazzata «ma sono sicura che Alice» se è pratica della casa, mi servirà benissimo.»
La signora Danvers mi guardò così come mi aveva guardata quando, al nostro primo incontro, goffamente avevo lasciato cadere i guanti. «Non so se così si potrà andare avanti molto a lungo» ella disse. «Una signora del vostro rango non potrà fare a meno di una cameriera personale!»
Arrossii, e tornai a prender la spazzola. C’era, in quelle parole, una frecciata che capivo anche troppo bene. «Se credete, potete forse provvedere voi…» dissi, evitando i suoi occhi. «Qualche ragazza giovane, forse, che abbia voglia d’imparare.»
«Come desiderate» ella replicò. «Spetta a voi decidere, signora.»
Un silenzio cadde tra di noi. Avrei dato non so cosa perché se ne fosse andata. Per quale ragione se ne stava lì a osservarmi, le mani giunte sulla veste nera? «Saranno molti anni ormai che siete a Manderley, penso» dissi facendo un nuovo sforzo. «Più di tutti gli altri?»
«Non tanto quanto Frith» ella disse. Come era fredda e senza vita quella voce! Fredda quanto la mano che avevo sentito nella mia. «Frith era già qui quando era
ancora vivo il vecchio signore, quando il signor de Winter era ancora ragazzo.»
«Ho capito. Dunque voi siete venuta dopo?» «Sì. Sono venuta dopo.»
Ancora una volta la guardai, ancora una volta incontrai i suoi occhi, neri e cupi in quel suo viso sbiancato; e senza sapere perché mi diedero uno strano senso d’inquietudine, quasi un presagio. Tentai di sorridere, e non potei. Mi trovavo imprigionata da quegli occhi, nei quali non c’era luce, non un barlume di simpatia per me. «Venni qui con la prima signora de Winter, quando essa era sposa» ella disse, e la sua voce che finora era stata monotona, afona, ora s’era fatta aspra, inaspettatamente animata, acquistava vita ed espressione; e una macchia di colore appariva al sommo degli zigomi ossuti. Il mutamento fu così improvviso che ne rimasi urtata, e un poco intimorita. Non sapevo che fare, né che dire. Era come se avesse proferito parole proibite, parole che aveva tenuto in fondo all’anima sua per lungo tempo, e ora non poteva più reprimere. E i suoi occhi non abbandonavano il mio viso, e mi guardavano ora con un curioso misto di compassione e disprezzo, fino a che mi fecero sentire di essere più giovane e inesperta della vita di quanto io stessa non avessi creduto. Era evidente che ella mi disprezzava, che con tutta la volgarità della sua classe mi faceva capire che io non ero una gran dama, che ero umile, timida, e sfiduciata. Eppure c’era qualcosa in quegli occhi che non era disprezzo soltanto; un’antipatia profonda… o era, forse, malignità?
Dovevo pur dire qualcosa, non potevo continuare a rimaner seduta lì, a giocherellare con la spazzola, dando a vedere tutto il timore e la diffidenza ch’ella m’ispirava. «Signora Danvers» mi udii dire «spero che saremo buone amiche e arriveremo a comprenderci. Dovete avere pazienza, sapete, perché questo genere di vita è nuovo per me; finora ho vissuto in modo assai diverso. Voglio che tutto vada bene, e soprattutto voglio rendere felice mio marito. So di poter lasciare il governo della casa in mano vostra, così mi ha detto il signor de Winter; disponete pure tutto come avete fatto sempre finora. Non desidero che ci sia alcun cambiamento.» Mi fermai, un poco ansante, sempre ancora malsicura. Avevo parlato bene? Quando alzai lo sguardo vidi che la signora Danvers si era mossa, e aveva già la mano sul pomo della porta. «Benissimo» ella disse; «spero che farò tutto in modo da soddisfarvi. La casa è in mano mia da più di un anno ormai, e il signor de Winter non si è mai lamentato. Le cose erano molto diverse, naturalmente, quando era ancor viva la signora de Winter; sì riceveva molto, si davano feste, e benché facessi tutto io, a lei piaceva dirigere le cose in grande.»
Ancora una volta ebbi l’impressione che ella scegliesse le sue parole con cura, che mi scrutasse, per così dire, e ne osservasse l’effetto sul mio viso. «Io preferisco lasciare tutto in mano a voi, sì, preferisco così» ripetei. Il viso della signora Danvers rivelò la stessa espressione di quando le avevo offerto la mano per la prima volta: uno sguardo derisorio, decisamente sprezzante. Ella sapeva che non l’avrei contrastata, e che la temevo anche.
«Posso fare altro per voi?» domandò. Finsi di guardarmi d’attorno, osservando la stanza: «No» risposi. «No, c’è tutto quel che mi occorre. Starò benissimo qui. Avete accomodato tutto veramente bene». Era un ultimo disperato sforzo per cattivarmi l’animo suo. Senza sorridere ella si strinse nelle spalle. «Non ho fatto che eseguire gli ordini del signor de Winter» disse. Ancora esitava, la mano sul pomo della porta già aperta; come se ancora avesse qualcosa da dirmi, e non trovasse le parole, eppure aspettasse che io le porgessi l’occasione di parlare. Avrei voluto che se ne andasse; era lì come un’ombra, e mi spiava, mi valutava con quei suoi occhi infossati nella faccia di teschio.
«Se trovate qualche cosa che non è di vostro gradimento, me lo direte subito?» domandò finalmente. «Sì» dissi «sì, naturalmente, signora Danvers.» Ma sentivo che non era questo che aveva inteso dire. E il silenzio tornò a cadere tra di noi.
«Se il signor de Winter chiede del suo armadio grande» uscì tutt’a un tratto a dire «dovrete dirgli che non è stato possibile rimuoverlo. Abbiamo tentato, ma non poteva passare per queste porte strette. Queste stanze sono più piccole di quelle dell’ala a ponente. Se c’è qualche cosa che non è di suo gusto, dovrà dirmelo. È stato un po’ difficile ammobiliare queste stanze.» «Oh, signora Danvers, non vi preoccupate» replicai «sono sicura che sarà soddisfatto di tutto. Mi rincresce che abbiate avuto tanto fastidio. Non avevo idea che facesse rimettere delle stanze completamente a nuovo; non avrebbe dovuto dar tanto disturbo. Sono certa che sarei stata benissimo e comoda anche nell’ala a ponente.» Ella mi guardò in modo curioso; e cominciò a rigirare il pomo sul quale aveva la mano: «Il signor de Winter diceva che avreste preferito questa parte; le stanze nell’ala a ponente sono molto antiche. La camera da letto nel grande appartamento è larga due volte questa, una bellissima stanza, con un soffitto a cassettoni. Le poltrone e le tappezzerie sono di grande valore, e anche ilcaminetto scolpito. È la più bella stanza di tutta la casa. E dalla finestra si vedono i prati, giù fino al mare.» Perché mai quella donna metteva nella sua voce quel tono risentito, quasi volesse significarmi che la stanza che mi era stata assegnata era indegna delle tradizioni di Manderley? Una stanza di second’ordine, per così dire, che si addiceva a una persona di second’ordine. «Forse il signor de Winter vorrà tenere le stanze più belle per farle vedere al pubblico» dissi. La signora Danvers non abbandonava il pomo della porta. Rialzò il capo, e colse il mio sguardo, esitando prima di rispondere. «Le stanze da letto non vengono mai mostrate al pubblico.» La sua voce era tornata calma, afona, anzi, lo era più di prima. «Solo il gran vestibolo e la galleria, e le sale del pianterreno.» Tacque un istante, senza perdermi d’occhio. «Il signor de Winter e la signora abitavano l’ala a ponente, quando la signora era ancora viva. E quella gran stanza di cui vi dicevo, con la vista sul mare, era la stanza della signora.» Poi, un’ombra le scese sul volto; al suono d’un passo nel corridoio ella si ritrasse contro la parete quasi volesse sparire.
«Come va?» disse Maxim entrando, e rivolgendosi a me. «Va bene? Credi che ti piacerà?» E si guardava d’attorno, entusiasmato, soddisfatto come un ragazzo. «Ho sempre trovato che questa era una bellissima stanza. Era veramente sciupata, come camera per gli ospiti; io lo dicevo sempre che si poteva trarne qualche cosa. Non potevate far di meglio, signora Danvers; vi dò dieci con lode!»
«Grazie, signore.» Ella era rimasta impassibile; si volse, e uscì, chiudendo piano la porta dietro di sé. Maxim era andato ad affacciarsi alla finestra. «Mi piace tanto, questo giardino delle rose. Uno dei miei più lontani ricordi, è quando camminavo dietro a mia madre, sulle mie gambette ancora incerte, mentre essa tagliava le rose appassite. C’è un’aria di pace, di felicità, in questa stanza; ed è anche molto tranquilla. Mai si direbbe che si è a cinque minuti dal mare.»
«Così ha detto la signora Danvers…» feci io.
Egli si staccò dalla finestra, e si mise a girare per la stanza, toccando i mobili, guardando i quadri, aprendo gli armadi, carezzando i miei vestiti che già erano stati
appesi.
«Come ti sei trovata con la vecchia Danvers?» domandò d’un tratto.
Ero davanti allo specchio, e avevo ripreso a spazzolarmi i capelli. «Mi sembra soltanto un po’ sostenuta» dissi, dopo un momento d’agitazione. «Forse avrà creduto che avessi intenzione di intralciarla nelle sue mansioni.» «Non credo che glie ne importerebbe molto.» Alzando il capo, vidi ch’egli osservava il mio viso riflesso nello specchio; poi tornò alla finestra, fischiettando piano, tranquillamente, mentre si dondolava avanti e indietro sui calcagni.
«Non te la pigliare con lei» mi disse «è un’originale, per molti versi, e forse a un’altra donna non riesce facile andarci d’accordo. Ma non preoccuparti, se diventasse proprio seccante, ce ne libereremo. Però è una donna capace, e certo ti solleverà da tutti i fastidi che altrimenti ti darebbe la casa. Credo che meni un poco a bacchetta la servitù. Ma non osa fare altrettanto con me. Se mai ci si fosse provata, l’avrei già mandata a spasso da tempo.» «Quando mi conoscerà meglio, andremo benissimo d’accordo» mi affrettai a dire. «Dopo tutto, è giusto che essa risenta un poco la mia presenza, i primi giorni.» «Risentire…? E perché? Che cosa diavolo intendi?» Egli si era staccato dalla finestra, le sopracciglia aggrottate, una strana espressione di ira contenuta in volto. Perché s’era offeso? Rimpiansi le mie parole.
«Voglio dire che per una governante di casa è sempre più facile servire un uomo solo» dissi. «Forse essa era ormai abituata così, e aveva paura di trovarmi molto esigente.»
«Esigente, mio Dio…» egli cominciò. «Se tu credi che…» S’interruppe, e avvicinatosi mi baciò sui capelli. «Non pensiamo più alla Danvers. Dopo tutto, che cosa vuoi che m’interessi? Su, vieni ora; ti farò vedere un po’ di Manderley.»
Non rividi la governante quella sera, e non si parlò più di lei. Una volta che l’ebbi allontanata dai miei pensieri mi sentii più contenta, meno “intrusa”. Ora che giravamo per le sale a pianoterra, e guardavamo i quadri, e Maxim mi poneva un braccio attorno alle spalle, cominciavo a sentirmi assai più affine a quell’io che avrei voluto diventare, quell’io che m’ero figurato nei miei sogni, e che di Manderley avrebbe fatto la propria casa. Il passo non risonava più goffo sul pavimento a mosaico del vestibolo, dato che le scarpe coi chiodi di Maxim facevano assai più rumore delle mie, e il trepestio dei due cani che ci seguivano erano una nota simpatica e piena d’intimità.
Ero contenta anche perché, essendo la prima sera, e noi tornati da poco, la visita ai quadri ci aveva portato via molto tempo, e quando Maxim guardò l’ora disse che era ormai tardi per cambiarsi d’abito per la cena; e così mi fu risparmiato l’imbarazzo di sentirmi domandare da Alice, la cameriera, che cosa desideravo indossare; e quello del suo aiuto per vestirmi; e anche di dover scendere la lunga scalea fino al freddo vestibolo, le spalle nude, col vestito da sera che la signora Van Hopper mi aveva regalato perché la figlia lo aveva smesso. Avevo paventato la formale cena nell’austera sala da pranzo, e ora bastava quel piccolo fatto di non esserci cambiati d’abito, perché tutto apparisse semplice e naturale, non diverso dalle altre volte che avevamo cenato assieme nei ristoranti. Mi sentivo tanto bene, nell’abitino di maglia, e ridevo e parlavo di cose viste in Italia e in Francia, e avevamo perfino sparpagliato le fotografie sulla tavola; e Frith e il domestico erano gente qualsiasi, come gli altri camerieri, e non mi guardavano fisso come la signora Danvers. Dopo cena andammo nella biblioteca; vennero tirate le cortine, e buttata altra legna sul fuoco. L’aria era fredda per maggio, e quel calore che veniva dal fuoco ben nutrito riusciva assai grato. Quello starsene così seduti era una novità per noi; in Italia, dopo cena solevamo uscire, a piedi o in automobile, o andavamo nei piccoli caffè; o appoggiati a vecchi ponti, guardavamo scorrer l’acqua. E mentre meditabonda, a capo chino, accarezzavo le seriche orecchie d’uno dei due spaniels riflettevo che non ero la prima a sprofondarmi in quella poltrona: altri c’era stato prima di me, che per certo doveva aver lasciato l’impronta della sua persona sui cuscini, e sul bracciuolo, là dove avevo posato la mano. Un’altra aveva versato il caffè dalla medesima caffettiera d’argento, aveva recato la tazza alle labbra, s’era curvata sul cane, così come facevo io. Inconsciamente rabbrividii, come se qualcuno avesse aperto la porta dietro di me e una ventata fosse entrata nella stanza. Io sedevo nella poltrona di Rebecca, mi appoggiavo ai cuscini di Rebecca, e il cane che era venuto ad appoggiarmi la testa in grembo così aveva fatto per una vecchia abitudine, e perché ricordava che in passato ella soleva dargli lo zucchero.
VIII
Mai avrei immaginato che a Manderley la vita si dovesse svolgere così ordinata e metodica. Riandando ora con la mente al passato, ricordo che, quella prima mattina, Maxim era vestito di tutto punto, e prima ancora della colazione scriveva delle lettere; e quando, passate le nove, scesi precipitosamente, avvertita dai sonori rintocchi di gong, lo trovai che aveva quasi finito, e stava sbucciando un frutto.
Alzò il capo, e mi sorrise. «Non devi badarci: anche a questo ti dovrai abituare. Io non ho tempo d’impigrirmi a quest’ora. Mandare avanti una proprietà come Manderley, sai, è cosa che richiede la giornata intera. Il caffè e i piatti caldi sono là sulla credenza. A colazione ci serviamo sempre da noi.» Mormorai qualche scusa: che il mio orologio ritardava, che m’ero indugiata nel bagno, ma egli non m’ascoltava. Scorreva una lettera, con un certo cipiglio.
Ricordo bene l’impressione, unita a un lieve sgomento, che provai alla vista della magnificenza di quella colazione del mattino, preparata per noi. C’era il tè, in una grande teiera d’argento, e anche il caffè; e su uno scaldavivande elettrico stavano al caldo piatti di uova stracciate, di lardo e di pesce. C’erano anche delle uova al guscio, sul loro fornellino speciale, e della minestra d’orzo in una terrina d’argento. Su un’altra credenza c’era un intero prosciutto, e una grossa trancia di lardo freddo. Sulla tavola, stiacciatine, e fette di pane tostato, e diversi e svariati vasetti di marmellata, e miele; e ai due capi troneggiavano piatti colmi di frutta. A me pareva strano che Maxim, il quale in Italia e in Francia s’era accontentato di un panino, un frutto e una tazza di caffè, a casa sua sedesse davanti a quella tavola che sarebbe bastata per una dozzina di persone: ogni giorno dell’anno, da molti anni, e non ci vedesse nulla di ridicolo, e nemmeno di superfluo.
Vidi che aveva mangiato un pezzetto di pesce. Presi un uovo. Chissà mai che n’era poi del resto, di tutti quei piatti di uova, di lardo crocchiante, di minestra d’orzo, dei resti del pesce… C’erano forse dei pezzenti, ch’io non avrei mai visto, dei quali nulla avrei mai saputo, che alle porte della cucina aspettavano l’elemosina della nostra colazione? O forse tutto veniva buttato via, rovesciato nell’immondezzaio? Non avrei mai saputo, naturalmente: non avrei neanche osato domandare… «Grazie a Dio, non ho una brigata di parenti noiosi da infliggerti» disse Maxim. «Una sorella che vedo di rado, e una nonna quasi cieca. Beatrice, a proposito, si è invitata a colazione. Me l’aspettavo, a dir la verità. Certo vorrà vederti.»
«Oggi?» domandai, e sentii i miei spiriti precipitare a zero.
«Sì, così dice nella lettera che ho avuto stamane. Non si tratterrà a lungo. Credoche ti piacerà. È molto brusca e le piace dire la verità in faccia a tutti. Nessuna falsità in lei. Se non le vai a genio te lo spiattellerà sulla faccia.»
Ciò non mi pareva molto consolante, e mi domandai se l’ipocrisia non avesse il suo valore. «Ho molte cose da sbrigare questa mattina. Credi che potrai divertirti da sola?» Maxim s’era alzato, accendendo una sigaretta. «Vorrei condurti in giro per il giardino, ma debbo vedere Crawley, il mio agente. Da troppo sono assente. Ci sarà
anche lui a colazione, a proposito. Davvero non te ne importa? Ti troverai bene?» «Ma certo. Starò benissimo.»
Egli radunò le sue lettere, e uscì; e io pensavo che non così avevo immaginato la mia prima mattina: m’ero vista camminare a braccetto con lui sino al mare; tornati in ritardo e stanchi e felici, avremmo pranzato con roba fredda, e dopo ci saremmo seduti sotto l’ippocastano che vedevo dalla finestra della biblioteca. Indugiai a lungo, seduta a tavola, cercando di prolungare la mia prima colazione; solo quando vidi Frith entrare e far capolino di dietro al paravento di servizio, m’accorsi ch’erano le dieci passate. Subito balzai in piedi, sentendomi in colpa, e mi scusai d’esser rimasta lì tanto a lungo, ed egli s’inchinò senza nulla dire. Oltremodo educato, oltremodo corretto; ma colsi nei suoi occhi un bagliore di sorpresa. Forse avevo detto qualcosa che non andava? Certamente non doveva essere di buon gusto, scusarsi con un domestico; e ciò mi avrebbe abbassata nella considerazione di Frith. Chissà se, al pari della signora Danvers, egli non sospettava che signorilità, e grazia, e sicurezza di sé non erano qualità innate in me, ma cose ch’io dovevo acquisire, e penosamente forse, e lentamente, e che mi sarebbero costate più d’un amaro momento! Così stando le cose, nell’uscire non guardai dove mettevo i piedi, e inciampai sul gradino della porta, incespicai, e Frith accorse ad aiutarmi, mentre Roberto, il giovane domestico, che era dietro al paravento, si distolse per nascondere un sorriso. Udii il mormorio delle loro voci, nell’attraversare il vestibolo; uno -Roberto, credo -rideva. Forse ridevano di me. Risalii di sopra, per rifugiarmi nella mia stanza, ma quando aprii la porta trovai le cameriere intente a riordinarla: una spazzava, l’altra spolverava la pettiniera. Mi guardarono attonite e frettolosamente tornai a uscire. Non doveva essere nelle regole, ch’io entrassi nella mia stanza a quell’ora del mattino; disturbavo, interrompevo l’ordine dei lavori di casa. Mogia, silenziosa ridiscesi: grazie a Dio le mie scarpette non ridestavano alcuna eco, dai pavimenti di pietra. E andai nella biblioteca, dove, con le finestre spalancate, il fuoco pronto ma non ancora acceso, rabbrividivo dal freddo. Chiusi le finestre, e mi guardai d’intorno in cerca d’una scatola di fiammiferi, ma non ne trovai. Che fare? Non mi piaceva sonare il campanello. Ma l’ambiente, così intimo e caldo la sera avanti col ceppo scoppiettante, era una vera ghiacciaia. C’erano dei fiammiferi nella mia stanza da letto, ma temevo di disturbare ancora le cameriere, salendo a prenderli. Non avrei sopportato quelle facce di luna piena che mi guardavano. Finalmente decisi che, non appena Frith e Roberto se ne fossero andati dalla sala da pranzo, sarei corsa a prendere i fiammiferi sulla credenza. In punta di piedi uscii nel vestibolo, ristetti in ascolto. Ancora stavano sparecchiando la tavola. Udivo le voci, e l’acciottolio di piatti e vassoi. Poi, tutto tacque: dovevano essere andati alle cucine, passando per la porta di servizio. Entrai nella sala da pranzo: sì, c’era una scatola di fiammiferi sulla credenza… In fretta mi avvicinai, presi la scatola; in quel mentre rientrò Frith, Come colta in fallo tentai di celare la scatola nella tasca della gonna; ma vidi che Frith, sorpreso, guardava di sottecchi la mia mano.
«La signora aveva bisogno di qualche cosa?» domandò.
«Oh, Frith, non riuscivo a trovare dei fiammiferi…» Subito egli me ne offerse un’altra scatola, porgendomi in pari tempo le sigarette. Ciò mi creava un nuovo imbarazzo, poiché non fumavo.
«No… ecco, veramente sentivo un po’ freddo in biblioteca» dissi. «Quest’aria mi sembra molto fresca, dopo il sole d’Italia, e pensavo di accendere quel fuoco nel caminetto.»
«Di solito, in biblioteca il fuoco non si accende che nel pomeriggio, signora» replicò Frith. «La signora de Winter stava sempre nella stanza di soggiorno. Là c’è un buon fuoco. Ma se la signora gradisce che si accenda il fuoco in biblioteca, darò ordine che venga fatto.» «Oh no! Neppure per sogno. Andrò nella stanza di soggiorno. Grazie, Frith.» «Troverete della carta da lettere, penne e inchiostro, signora. La signora de Winter aveva l’abitudine di sbrigar la sua corrispondenza e le telefonate in quella stanza, dopo la colazione. Là c’è anche il telefono interno, se mai desideraste parlare con la signora Danvers.» «Grazie, Frith.» Canterellando sottovoce per darmi un contegno, tornai nel vestibolo. Non potevo dirgli che non avevo mai visto la stanza di soggiorno, che Maxim non me l’aveva mostrata la sera avanti. Sentivo che dalla soglia della sala da pranzo egli mi seguiva con lo sguardo; dovevo quindi far finta di conoscer la strada. A destra dello scalone c’era una porta, e coraggiosamente m’incamminai, pregando in cuor mio che fosse quella giusta; senonché quando l’ebbi aperta mi trovai in una specie di giardino d’inverno, un luogo dove si riponevano ogni sorta di aggeggi. C’era un tavolino dove si accomodavano i fiori nei vasi, e delle seggiole di paglia ammucchiate contro la parete, e da un attaccapanni pendevano due o tre impermeabili. Indietreggiai, e diedi un’occhiata al vestibolo. Frith era sempre lì: non lo avevo ingannato neppur per un momento.
«Per andare nella stanza di soggiorno si passa per la sala, signora» disse. «Da questa porta alla vostra destra, più vicino allo scalone. Attraversate le due sale unite, e voltate a destra.»
«Grazie, Frith» dissi, umile, senza fingere oltre. Attraversai la lunga sala, come egli mi aveva indicato. Una bella stanza anche questa, di proporzioni magnifiche, con la vista sui prati e sul mare. Qui doveva essere ammesso il pubblico, mi figuravo; e Frith che faceva da cicerone, conosceva certo la storia dei quadri alle pareti, e sapeva a quale periodo appartenessero i mobili. Erano bellissimi, questo lo sapevo; quei tavoli, quelle seggiole dovevano aver un prezzo inestimabile. Tuttavia non provavo alcun desiderio di trattenermi lì, non mi vedevo seduta in quelle poltrone, in piedi davanti al caminetto scolpito, o a buttare un libro su quei tavolini. C’era, lì dentro, l’atmosfera fredda di una stanza in un museo, dove si schiudevano tende su alcove, e un guardiano intabarrato e col berretto in testa come nei castelli francesi, sonnecchiava su una seggiola presso la porta. Passai oltre, e svoltai a destra, nella piccola stanza che non avevo ancora visto.
Fui lieta di trovarvi i cani, accovacciati davanti al fuoco, e subito Jasper, il più piccolo, mi venne incontro scodinzolando, e mi annusò la mano. La vecchia cagna alzò il muso al mio avvicinarsi, e guardò verso di me con l’occhio cieco, ma non appena, annusata l’aria, scoprì che non ero la persona che aveva creduto, distolse la testa col solito brontolìo e tornò a fissare il fuoco. Anche Jasper mi lasciò, e si accomodò accanto alla madre, leccandosi il fianco. Queste erano le loro abitudini. Sapevano, essi, non meno di Frith, che in biblioteca non si accendeva il fuoco che al pomeriggio. Per lunga consuetudine venivano nella stanza di soggiorno. Non so perché, prima ancora di accostarmi alla finestra avevo indovinato che di là si dovevano vedere i rododendri. Sì, eccoli, sanguigni e lussuriosi, come li avevo veduti il giorno avanti: ammassati a grandi cespugli sotto la finestra, parevano minacciar la curva del viale. Tra i fiori c’era una piccola radura, quasi un praticello, dove l’erba formava un morbido tappeto, e al centro la statuetta d’un fauno nudo, la zampogna alle labbra.
La radura era un piccolo palcoscenico dove egli, sullo sfondo dei rododendri scarlatti, danzava e recitava la sua parte. Qui non c’era odor di muffito, come nella biblioteca. Non vecchie poltrone logore per l’uso, né tavoli ingombri di riviste e giornali, di rado letti ma lasciati lì per lunga consuetudine, perché così avevano fatto il padre, e fors’anche il nonno di Maxim. Questo era il salotto di una donna, leggiadro, fragile: la stanza di qualcuno che con amorosa cura aveva predisposto tutti i particolari, anche minimi, dell’arredo, sicché ogni seggiola, ogni vaso, ogni ninnolo fosse in armonia col resto, e con la propria personalità. Colei che aveva composto l’ambiente doveva aver detto: “Questo voglio avere, e questo, e questo”; spigolando pezzo per pezzo tra i tesori di Manderley, scegliendo ciò che più le piaceva, ignorando quel che era di second’ordine o mediocre, con sicuro e infallibile istinto non ponendo la mano che sul meglio. Qui non c’erano confusioni di periodi, né mescolanze di stili, e il risultato era la perfezione, una perfezione bizzarra e sorprendente, non freddamente formale come la gran sala aperta al pubblico, ma fremente di vita, partecipe dello stesso ardore, della stessa vitalità dei rododendri che si ammassavano sotto la finestra. Vidi allora che i fiori, non soddisfatti d’aver creato il loro piccolo teatro là fuori sul praticello, erano stati ammessi nella stanza. Dal marmo del caminetto le loro facce prepotenti mi guardavano, e fluttuavano in una grande anfora sul tavolino presso il divano, e la loro snella grazia fiancheggiava i candelabri d’oro dello scrittoio. La stanza ne era piena, perfino le pareti ne riflettevano il colore, e al sole mattutino avevano una tinta calda, sentita. Non c’erano altri fiori nella stanza, e mi domandai se non ci fosse un’idea prestabilita, se la stanza non fosse stata concepita per quell’effetto, poiché in nessun altro luogo entravano i rododendri. Di fiori ce n’erano, nella sala da pranzo, e in biblioteca, ma eran fiori ordinati, composti non così, non in quella profusione. Andai a sedermi allo scrittoio: strano, riflettei, che quell’ambiente tanto bello e ricco di colore avesse al tempo stesso un che di professionale, di metodico. Avrei creduto che un salotto d’un gusto tanto squisito nonostante quei fiori invadenti, dovesse essere puramente decorativo, languido e intimo.
Eppure quello scrittoio, bello e prezioso, non era certo un grazioso trastullo ove una donna scribacchiasse dei bigliettini, mordicchiando la penna, per lasciarlo poi in disordine, la cartella da scrivere un poco di traverso. Gli scomparti avevano ognuno la sua etichetta, “lettere inevase“, ”lettere da conservare“, ”conti di cassa“, ”proprietà“, ”cucina“, varie”, “indirizzi”; ogni etichetta scritta con quella bislacca calligrafia aguzza che già m’era nota. E mi spaventò il riconoscerla, ché da quando avevo distrutto il frontespizio di quel libro di versi non l’avevo più vista, e non credevo che l’avrei riveduta mai. Apersi un cassetto a caso; ed ecco di nuovo gli stessi caratteri, questa volta su un quaderno rilegato di pelle rimasto aperto, il cui titolo “Ospiti a Manderley” segnalava divisi, per settimane e per mesi, gli ospiti che erano giunti e ripartiti, le camere che avevano occupato, le vivande che erano state loro servite. Lo sfogliai; vidi che era il resoconto completo di un’annata, di modo che la padrona di casa, sfogliandolo, poteva sapere al giorno, all’ora quasi, quale ospite avesse passato la notte, la tal giornata, a Mandeiley, e dove aveva dormito, e il pranzo che gli era stato offerto. Nello stesso cassetto c’erano dei grossi fogli di carta bianca, carta per appunti, e la carta da lettere della casa, con lo stemma e l’indirizzo; e biglietti da visita, in bianco avorio, entro scatoline. Ne presi uno e lo guardai, togliendo il lieve foglio di carta velina che lo proteggeva. “La signora de Winter” recava scritto; e nell’angolo “Manderley”. Lo rimisi nella scatola e chiusi il cassetto, sentendomi a un tratto colpevole e ambigua, come se, ospite in una casa, la signora mi avesse detto: “Ma certo, scrivete pure le vostre lettere al mio scrittoio”; e io, imperdonabilmente, di straforo, avessi dato un’occhiata alla sua corrispondenza. Da un momento all’altro ella poteva entrare, e mi avrebbe sorpresa lì, davanti al cassetto aperto che non avevo diritto di toccare.
E quando all’improvviso, allarmante, il telefono trillò sullo scrittoio, di faccia a me, il cuore mi balzò in gola, e spaurita mi alzai. Mi pareva d’essere stata scoperta. Con mano tremante presi il ricevitore e: «Chi è? che cosa volete?» domandai. Ci fu un breve ronzio, all’altro capo del filo, poi giunse una voce bassa e un po’ aspra, non avrei saputo dire se d’uomo o di donna: «La signora de Winter?». E ripeté: «Signora de Winter?». «Temo ci sia uno sbaglio» risposi. «La signora de Winter è morta da più di un anno.» E rimasi lì in attesa, a fissare intontita nel microfono, e solo allorché la voce, in tono più forte, incredulo, ripetè il nome, capii d’aver commesso un irreparabile sbaglio. Ma era troppo tardi ormai, e sentii il rossore salirmi alle guance. «Sono la signora Danvers, signora» diceva la voce. «Parlo al telefono interno.» Il mio errore era così palesemente ovvio, così idiota e imperdonabile, che volerlo ignorare significava rendermi ancor più ridicola, se era possibile, di quanto non lo fossi già.
«Mi rincresce, signora Danvers» balbettai, affastellando le parole nella mia confusione. «La vostra chiamata mi ha sorpresa, non sapevo quel che mi dicevo, non credevo chiamaste me, e… e non sapevo che fosse il telefono interno.»
«Scusate se vi ho disturbato, signora» replicò la signora Danvers (ella sa, pensavo, ella ha indovinato che guardavo nei cassetti) «solo desideravo sapere se avevate bisogno di me, e se approvate la lista per il pranzo di oggi.»
«Oh…» risposi. «Oh, son sicura che sì, volevo dire, certo che approvo la lista, ordinate quel che vi pare meglio, non c’è bisogno che lo chiediate a me, signora Danvers.»
«Credo sarebbe meglio che leggeste la lista» continuava la voce. «La troverete sulla cartella, vicino a voi.» Febbrilmente cercai intorno a me, e, trovato finalmente un foglio che non avevo visto prima, lo scorsi: cavolfiori con salsa piccante, vitella arrosto, asparagi, crema al cioccolato fredda: era colazione o cena? Forse colazione… «Sì, signora Danvers» dissi «molto bene, un’ottima scelta.»
«Se desiderate qualche cambiamento ditelo, per piacere, e darò subito gli ordini necessari. Avrete visto che ho lasciato uno spazio in bianco per segnare la salsa. Non ero ben sicura con quale salsa foste abituata ad aver servito l’arrosto. La signora de Winter era molto difficile, in fatto di salse, e preferiva disporre lei.» «Oh…» dissi. «Oh… fatemi pensare, signora Danvers, non saprei davvero; forse sarà meglio che facciate fare la salsa che si serviva di solito… quella che avrebbe ordinato la signora de Winter.» «Non avete preferenze, signora?» «No. Proprio no, signora Danvers.» «Credo che la signora de Winter avrebbe ordinato una salsa al vino, signora.» «E allora si potrà fare così.»
«Scusatemi se vi ho disturbata mentre scrivevate, signora.»
«Non mi avete affatto disturbata; non c’è di che scusarsi, signora Danvers, vi prego.» «La posta parte a mezzogiorno. Roberto verrà a pendere le vostre lettere, e le affrancherà lui. Non avrete che da chiamarlo al telefono se avete da spedire qualche cosa d’urgente, e penserà lui a farla portare immediatamente alla posta.»
«Grazie, signora Danvers…» Ascoltai un momento ancora, ma non udii più che un piccolo “clic”: ella doveva aver tolto la comunicazione. Posai il microfono, e tornai a guardare nello scrittorio. Le etichette sugli scomparti parevano guardarmi, e le parole “lettere inevase”, “proprietà”, “varie” erano un rimprovero per me che ero lì in ozio. Colei che là s’era seduta prima di me non aveva perso il proprio tempo come facevo io. Al telefono interno aveva dato gli ordini per la giornata, svelta, pratica; forse aveva cancellato sulla lista, con un tratto di matita, una vivanda che non le piaceva. Certo non diceva “Sì, signora Danvers” e “Va bene, signora Danvers”, come me. E poi, aveva cominciato la corrispondenza, cinque, sei, sette lettere in risposta ad altrettante ricevute, tutte in quella curiosa calligrafia di sghembo che conoscevo tanto bene. E strappava fogli di quella carta bianca e liscia, usandone senza parsimonia; e in fondo a ogni lettera personale poneva il suo nome “Rebecca”, e l’alta R che dominava il resto…
Tamburellavo con le dita sullo scrittoio. Gli scomparti erano vuoti, ora. Non c’erano “lettere inevase” che attendessero d’esser sbrigate, né conti da pagare per quel che ne sapevo io. Se c’era qualcosa di urgente, aveva detto la Danvers, potevo telefonare a Roberto, che avrebbe provveduto a mandare alla posta. Quante lettere urgenti soleva scrivere Rebecca, e a chi erano dirette? Alle sarte forse. “Mi occorre un abito di raso bianco per martedì, senza fallo” o al parrucchiere: “Verrò in città venerdì prossimo, e desidero un appuntamento con Monsieur Antoine in persona. Lavaggio, frizione, messa in piega e manicure”. No, lettere di quel genere sarebbero state una perdita di tempo. Ella avrebbe fatto telefonare a Londra; Frith ci avrebbe pensato lui. “Per ordine della signora de Winter…” avrebbe detto Frith. A chi mai potevo scrivere? Non mi venne in mente che la signora Van Hopper. E c’era qualcosa di ridicolo, una certa ironia nel fatto che ero lì, nel mio scrittoio, in casa mia, con nulla di meglio da fare che scrivere alla signora Van Hopper, una donna che m’era antipatica, che non avrei mai più veduto in vita mia. Presi un foglio di carta per le brutte copie, e la penna sottile, slanciata, dal lucido pennino aguzzo. “Cara signora Van Hopper” cominciai. E mentre scrivevo, penosamente, con lunghe pause, dicendo che speravo che la traversata fosse stata felice, e che avesse trovato la figlia in buona salute, e che il tempo a Nuova York fosse piacevole e caldo, per la prima volta vedevo la mia calligrafia contorta, informe, senza carattere, senza stile, rozza, financo: la calligrafia di una allieva mediocre educata in un collegio di second’ordine.
IX
Uno strider di ruote di gomma sulla ghiaia mi fece trasalir subitamente e gettare un’occhiata all’orologio: dovevano essere giunti Beatrice e il marito. Erano appena le dodici passate: dunque erano in anticipo. E Maxim non era ancora tornato. Se avessi potuto occultarmi in qualche modo, uscire in giardino passando per la porta a vetri… Se Frith introducendoli nella stanza di soggiorno avesse detto: “La signora dev’essere uscita”; sarebbe parso una cosa naturalissima. I cani mi sbirciarono interdetti, vedendo che mi precipitavo alla porta, e Jasper mi seguì, dimenando la coda.
La porta a vetri s’apriva sulla terrazza e sulla radura, ma mentre mi accingevo a passar oltre i rododendri, le voci s’avvicinarono, e mi ritrassi nella stanza. Indubbiamente Frith doveva aver detto dove io mi trovavo; e perciò entravano in essa direttamente dal giardino. Fui svelta a ritirarmi nella grande sala, e presi per la porta più vicina, a sinistra. Mi trovai in un lungo corridoio dal pavimento di pietra, e, conscia della mia stupidità, pur disprezzandomi per quell’improvviso panico, mi misi a correre; ma sentivo di non poter affrontare quelle persone, non lì su due piedi, almeno. Il corridoio, a quanto pareva, conduceva a quartieri più appartati; svoltando ad un certo punto scorsi un’altra scala, dalla quale scendeva una persona di servizio che non avevo mai visto, una sguattera, forse, con un secchio e un cencio. Mi fissò attonita, quasi fossi una visione inattesa in quella parte della casa. «Buon giorno» mormorai confusa, avviandomi su per la scala; e: «Buon giorno, madama» ella mi rispose, guardandomi dietro a bocca aperta, gli occhi grandi di sorpresa.
Immaginavo che sarei giunta alle camere da letto, e che avrei ritrovato il mio appartamento nell’ala a levante. Mi sarei seduta un poco, fino a quando, avvicinandosi l’ora di mezzogiorno, sarebbe stato educato e opportuno ch’io scendessi nuovamente dabbasso. Ma dovevo aver smarrito il senso d’orientamento, poiché per una porta in cima alla scala sbucai in un altro, lunghissimo corridoio, analogo a quello dell’ala a levante, ma più largo e scuro, a causa dei pannelli alle pareti. Esitai; poi volsi a sinistra e capitai su un largo pianerottolo, il quale apparteneva a un’altra scala ancora. Mi circondava una buia quiete; non si vedeva anima viva. Se mai qui c’erano delle cameriere, dovevano aver finito il loro lavoro ed essersene andate. Non c’era traccia della loro presenza, nessun polvericcio di tappeti da poco spazzati; e mentre ero lì, incerta da qual parte volgermi, pensavo che quel silenzio non era normale: era opprimente, come in una casa vuota, deserta dei suoi abitanti. Apersi una porta a caso, e trovai una stanza immersa in un’oscurità completa: non un barlume di luce filtrava dalle persiane chiuse, mentre vagamente intravvedevo nel centro i contorti mobili ricoperti di fodere bianche. Regnava un odor di chiuso, l’odor di una stanza da gran tempo disabitata, dove ornamenti e aggeggi sono stati ammucchiati su di un letto e ricoperti di un lenzuolo. E le tende, forse, non erano state tirate dalle finestre sin dalla scorsa estate; se ora una mano le avesse smosse, aprendo le cigolanti persiane, una falena morta, imprigionata là da molti mesi, sarebbe caduta inerte sul tappeto, accanto a uno spillo dimenticato, e a una foglia secca recata dal vento prima che le finestre fossero state chiuse per l’ultima volta.
Piano richiusi la porta, e titubante avanzai lungo il corridoio, fiancheggiato da molte porte, ora tutte chiuse; finché giunsi a una piccola alcova, addentrata in una parete esterna, e là, finalmente, per una larga finestra rividi la luce. Mi affacciai: i morbidi prati si distendevano fino al mare, un mare glauco e macchiato di bianche onde che, travagliato da un vento di ponente, flagellava la spiaggia.
Era più vicino di quanto non avevo creduto, assai più vicino; oltre quel piccolo gruppo d’alberi sotto i prati; non ci dovevano essere che cinque minuti di strada, e ascoltando, l’orecchio ai vetri, udivo i marosi infrangersi sul lido d’una piccola baia che mi rimaneva celata. Capivo ora d’aver fatto il giro interno della casa: mi trovavo nel corridoio dell’ala a ponente. Sì, la signora Danvers aveva ragione. Si udiva il mare, di qui. E gli occhi della fantasia vedevano come d’inverno esso strisciasse invadente fino a quei verdi prati e minacciasse la casa stessa, poiché anche ora, con quel gran vento, i vetri delle finestre erano offuscati da una nebbiolina, come se una bocca vi avesse alitato sopra. Una frettolosa nube velò per un momento il sole, mentre ero lì a guardare, e subitamente il mare divenne nero, e le bianche creste che lo animavano apparvero assai spietate e crudeli, e non era più il gaio mare scintillante che avevo veduto prima. Infine ero contenta che le mie stanze guardassero a levante. Dopo tutto, preferivo il giardino delle rose alla voce del mare. Ritornai al pianerottolo, in capo alle scale, e mentre mi accingevo a scendere, una mano sulla ringhiera, udii la porta alle mie spalle schiudersi: era la signora Danvers. Un attimo ci fissammo senza aprir bocca, e non ero ben certa se fosse ira che leggevo negli occhi suoi, o curiosità, ché non appena mi ebbe vista il suo volto fu una maschera. Ella non aveva aperto bocca, eppure io mi sentivo colpevole, vergognosa come se fossi stata colta in fallo, e il paventato rossore mi saliva alle gote.
«Mi sono sperduta. Cercavo le mie stanze» dissi. «Siete arrivata alla parte opposta della casa. Questa è l’ala a ponente» replicò. «Sì, lo so.»
«Siete già entrata in quella stanza?» «No…» replicai. «No, ho soltanto aperto una porta, ma non sono entrata. Era buio, tutto coperto con le fodere. Mi dispiace. Non volevo recar disturbo. Forse vorrete tener tutto chiuso da questa parte.» «Se desiderate aver aperte le stanze sarà fatto. Non avete che a dirmelo. Le stanze sono tutte mobiliate, e possono essere usate.»
«Oh no! Non lo pensate neppure.» «Desiderate forse che vi faccia vedere tutta l’ala a ponente?»
Scossi il capo. «No. Preferisco di no. Ora debbo scendere giù.» Cominciai a scendere, ed ella mi seguiva, a fianco, come se fosse un guardiano che mi avesse in custodia.
«In qualunque momento abbiate tempo, non avete che da avvertirmi, e vi farò vedere queste stanze» ella insisteva, e senza che ne sapessi la ragione m’ispirava un vago disagio. «Farò togliere le fodere, e potrete vedere le stanze così come quando erano abitate. Ve le avrei fatte vedere questa mattina, ma ho pensato che eravate occupata a scrivere delle lettere. Non avete che da telefonarmi, in camera mia, quando vorrete. Non ci vorrà molto per preparare le stanze.»
Eravamo alla fine della breve scala; la signora Danvers aprì la porta e si ritrasse per cedermi il passo, e intanto i suoi neri occhi mi scrutavano.
«Siete molto gentile, signora Danvers» dissi. «Vi avvertirò, uno di questi giorni.»
Al di là della porta mi trovai a capo del grande salone, dietro la galleria dei menestrelli. «Come mai vi siete perduta?» diceva la signora Danvers. «La porta che dà all’ala a ponente è molto diversa da questa.» «Non sono passata di qui» dissi.
«Allora dovete esser entrata dal retro, dal corridoio di pietra?»
«Sì.» Ed evitavo il suo sguardo. «Sì, sono passata per un corridoio di pietra.»
Ella continuava a guardarmi, quasi che si attendesse che le confessassi come, colta da un panico improvviso, ero uscita dal salotto; e sentii d’un tratto ch’ella sapeva, che doveva avermi spiata; e forse, da una porta socchiusa mi aveva vista penetrare in quell’ala a ponente. «La signora Lacy e il maggiore sono qui da un po’ di tempo» ella disse. «Ho sentito arrivare la macchina, appena passate le dodici.» «Oh! Non sapevo…» dissi.
«Frith li avrà condotti nella stanza di soggiorno. Saranno le dodici e mezzo ora. Ritroverete la strada adesso, non è vero, signora?»
«Sì, signora Danvers.» E scesi nel vestibolo, sentendo che ella era là dietro di me, e mi guardava. Era tempo che ritornassi nella stanza di soggiorno, per salutare la sorella di Maxim e suo marito. Non potevo più rifugiarmi nella mia camera, ormai. Entrando nella sala gettai un’occhiata dietro le mie spalle, e scorsi la signora Danvers ferma là a capo delle scale, simile a una nera sentinella.
Mi trattenni un momento fuor della porta, e tesi l’orecchio al brusio di voci. Maxim doveva esser tornato mentre io ero di sopra, portando con sé il suo agente: mi pareva che la stanza fosse piena di gente. Provavo la stessa impressione d’incertezza mista a nausea che tante volte mi aveva assalita quando, bambina, invitata a salutare degli ospiti, irrompevo nella stanza, e mi trovavo accolta da quel che mi pareva un mare di facce, e da un silenzio generale.
«Eccola finalmente!» disse Maxim. «Dove t’eri nascosta? Già pensavamo a mandare in giro una squadra di soccorso. Questa è Beatrice, e questo è Giles, e questo è Frank Crawley. Attenta, a momenti inciampavi nel cane…»
Beatrice era alta, larga di spalle: una magnifica donna, molto rassomigliante a Maxim negli occhi, e nella mascella, ma non raffinata come avrei creduto, anzi, piuttosto alla buona. Una di quelle persone capaci di curare un cane malato di cimurro, che s’intendono di cavalli, e sono ottime tiratrici. Non mi baciò. Mi diede una forte stretta di mano, guardandomi diritto negli occhi, poi si volse a Maxim. «Tutta diversa da quel che m’ero atteso. Non corrisponde affatto alla tua descrizione.» Tutti risero, e io feci eco, non ben sicura se ridessero o no alle mie spalle, domandandomi che cosa si fosse mai attesa Beatrice e come Maxim m’avesse descritta. «Ecco Giles» ripeteva Maxim, tirandomi per il braccio, e Giles, tendendo una manona enorme, serrò la mia mano tanto da torcermi le dita; e un par d’occhi mi sorrisero cordiali dietro le lenti montate in tartaruga. «Frank Crawley» diceva Maxim, e mi volsi all’agente, un individuo incolore, piuttosto magro, con un grosso pomo d’Adamo. Lessi nei suoi occhi, mentre mi guardava, un certo sollievo. Perché? Non ebbi tempo di pensarvi: era entrato Frith, e mi offriva un bicchiere di sherry, e Beatrice si rivolgeva di nuovo a me. «Maxim mi dice che siete tornati soltanto ieri
sera. Non lo sapevo, altrimenti non vi avremmo certo disturbati così presto. Dunque, che ve ne pare di Manderley?»
«Ho veduto pochino ancora, ma è veramente bello» risposi.
Ella mi scrutava tutta da capo a piedi, ma in modo aperto, leale, non maligno come la signora Danvers, non con antipatia. Aveva il diritto di giudicarmi, dopo tutto: era sorella di Maxim. Ora anche Maxim si avvicinava, infilava il braccio nel mio, e mi dava coraggio. «Ti trovo meglio, vecchio mio» disse Beatrice, considerandolo col capo piegato da una parte. «Hai perduto quell’aria stravolta, grazie al cielo. E sarà a voi che dobbiamo dir grazie?» E accennava a me. «Io sono sempre in forma» rispose Maxim, secco. «Non ho mai avuto malanni in vita mia. Tu immagini che tutti quelli che non sono ben pasciuti come Giles debbano esser malati.»
«Uhh!» esclamò Beatrice. «So benissimo che sei mesi fa cascavi a pezzi. Non ti dico lo spavento che m’hai dato, quando ti ho visto in quello stato. Ho creduto che tu fossi sull’orlo di un esaurimento nervoso, ma di quelli… Giles, di’ tu… Maxim non aveva una gran brutta faccia, l’ultima volta che siamo venuti qui, e io non ho detto che andava diritto filato verso un esaurimento nervoso?» «Ecco, se debbo dire la verità, ora è tutt’altra cosa, caro mio» sentenziò Giles. «Hai fatto benissimo ad andartene via. È vero che sta bene ora, Crawley?» Dal fremito di muscoli di Maxim sotto il mio braccio sentivo ch’egli cercava di frenarsi. Per qualche ragione, tutte quelle chiacchiere sulla sua salute non gli erano grate, anzi lo indisponevano, e io trovavo che era scarso tatto da parte di Beatrice insistervi tanto a farne gran caso.
«Maxim è molto abbronzato dal sole» avanzai timidamente «e questo nasconde molte magagne. Avreste dovuto vederlo a Venezia: faceva colazione sul balcone, per abbronzarsi a bella posta. Trova che gli sta bene.» Tutti risero.
«Venezia doveva esser bellissima di questa stagione, signora de Winter» disse il signor Crawley. E io: «Sì, abbiamo avuto un tempo veramente magnifico. Una sola brutta giornata, non è vero Maxim?». Così, felicemente sviai il discorso dalla sua salute, e lo portai verso l’Italia, il più sicuro fra tutti i temi, e verso quello, benedetto sempre, del bel tempo. Ora la conversazione procedeva animata e senza sforzi; Maxim discuteva con Giles e Beatrice del motore della sua macchina, e il signor Crawley voleva sapere se fosse vero che nei canali non c’erano più gondole, ma solo motoscafi. Io credo che poco gl’importasse, anche se ci fossero stati dei piroscafi ancorati nel Canal Grande, ma parlava per aiutarmi, modestamente contribuiva al piccolo sforzo di allontanar la conversazione dal tema della salute di Maxim, e glie ne fui grata: nonostante il suo aspetto poco interessante, sentivo in lui un alleato. «Jasper ha bisogno di esercizio» diceva Beatrice, stuzzicando il cane col piede; «ingrassa troppo, e ha appena due anni. Cosa gli dai da mangiare, Maxim?» «Cara Beatrice mia, Jasper è tenuto esattamente come i tuoi cani» ribatté Maxim. «Non cercar di far vedere che di bestie te ne intendi più di me.».«Caro ragazzo mio, perché vuoi far finta di sapere che cosa mangia Jasper, quando sei stato assente per un paio di mesi? E non mi dire che Frith se lo porta a passeggio almeno un paio di volte al giorno fino al cancello. Questo cane non ha fatto una corsa da parecchie settimane; lo vedo dallo stato del suo pelo.»
«Preferisco che sia una montagna di grasso, piuttosto che sembri sempre affamato come quel tuo cane mezzo incitrullito» disse Maxim.
«Non è un’osservazione molto intelligente, dato che Lion è arrivato primo in due gare a Cruft, lo scorso febbraio» replicò Beatrice.
L’atmosfera tornava a farsi tesa, a giudicar dalle labbra strette di Maxim; e mi domandavo se fratello e sorella litigassero sempre così, con gran consolazione di chi stava a sentire. Se Frith fosse entrato ad annunciare che il pranzo era servito… O forse saremmo stati avvertiti da sonori rintocchi di gong? Non conoscevo ancora gli usi di Manderley.
«Quanto siete distanti da noi?» domandai a Beatrice, sedendomi vicino a lei. «Avete dovuto partire molto presto?»
«Siamo a cinquanta miglia di qui, cara, nella contea vicina, dall’altra parte di Trowchester. In fatto di caccia ci troviamo tanto meglio! Dovete venire da noi, se una volta Maxim potrà far a meno di voi. Giles penserà a trovarvi un buon cavallo.»
«Ma io non ho mai cacciato» confessai. «Da bambina ho imparato a stare in sella, ma pochino, e non ne ho che un vago ricordo.»
«Allora ricomincerete da capo. Non è possibile vivere in campagna e non andare acavallo. Non sapreste come passare il tempo. Maxim dice che dipingete. È moltobello, certo, ma non si fa del moto, vero? È una bella cosa per una giornata di pioggia, quando non c’è meglio da fare.» «Mia cara Beatrice, non tutti siamo smaniosi della vita all’aria aperta come te» disse Maxim. «Non parlavo con te, vecchio. Lo sappiamo, che tu ti contenti di pestar l’erba dei prati di Manderley, e di qualche gita a passo di formica.» «Anche a me piace molto camminare» fui svelta a dire. «E credo non mi stancherò mai di vagabondare per Manderley. E quando sia più caldo si potranno anche fare i bagni.»
«Siete ottimista, cara» disse Beatrice. «Non rammento che si siano mai fatti i bagni qui. L’acqua è troppo fredda, e la spiaggia è tutta sassi.»
«Oh, poco importa. A me piace nuotare» dissi. «Se non ci sono correnti troppo forti… Si è sicuri, nella baia?» Nessuno rispose; e troppo tardi mi resi conto di quel che avevo detto. Il cuore mi batté forte, e mi si infiammarono le gote. Angosciata, confusa mi curvai ad accarezzare le orecchie di Jasper.
«A Jasper sì che farebbe bene una nuotatina, tanto per perdere un po’ di quel grasso» disse Beatrice, rompendo la pausa. «Ma nella baia si troverebbe un po’ a mal partito, eh, Jasper? Bravo piccolo Jasper. Bravo cane.» «Sentite, ho una fame da lupi, che ne sarà del pranzo?» disse Maxim.
«È appena l’una» disse il signor Crawley. «Almeno, quella pendola sul caminetto…» «Quella pendola è sempre andata avanti» osservò Beatrice.
«Sono mesi ormai che va perfettamente a tempo» rimbeccò Maxim.
In quel momento la porta si aprì e Frith annunciò che il pranzo era servito.
«Dite un po’, io mi darei una lavatina» disse Giles, guardandosi le mani.
Ci alzammo tutti, e sollevati passammo nel vestibolo. Beatrice e io precedemmo gli uomini. «Caro vecchio Frith» ella diceva, prendendomi per il braccio. «Sempre il medesimo; a vederlo mi par di tornare ragazza. Sapete, scusate se ve lo dico, ma vi trovo ancora più giovane di quel che m’ero figurata. Maxim mi ha detto la vostra età, ma siete una vera bambina. Ditemi, siete molto innamorata di lui?» A quella domanda non ero preparata; certo ella mi lesse la sorpresa in viso, poiché ruppe in una risatina, e mi serrò il braccio.
«Non rispondete!» disse. «Capisco, oh, capisco! Sono una seccatrice, un’indiscreta, eh? Ma non fate caso a me. Voglio molto bene a Maxim, benché, quando ci troviamo, ci abbaruffiamo come cane e gatto. Mi congratulo ancora con voi per il suo aspetto. Eravamo tutti impensieriti per lui, l’anno scorso… ma già, saprete l’intera storia.» Eravamo entrate nella sala da pranzo, intanto, ed ella tacque, ché c’erano i domestici e anche gli altri ci avevano raggiunto. Che cosa avrebbe mai detto Beatrice, mi domandavo, sedendo e spiegando il tovagliolo, se avesse saputo che ignoravo tutto di quell’anno precedente, che i particolari della tragedia che s’era svolta là nella baia m’erano sconosciuti; che Maxim teneva queste cose per sé, e che io mi guardavo bene dal fargli domande… Il pranzo riuscì meglio di quanto non avessi osato sperare. Almeno, furono pochi i battibecchi, o forse Beatrice usava finalmente un po’ di tatto; lei e Maxim chiacchieravano di cose che concernevano Manderley, di cavalli, del giardino, di amici comuni; e Frank Crawley, alla mia sinistra, m’intratteneva di inezie, che non richiedevano grandi sforzi, e glie ne ero grata. Giles si dedicava assai più alle vivande che non alla conversazione, quantunque ogni tanto si ricordasse che io esistevo; e allora, a caso mi rivolgeva la parola.
«Sempre lo stesso cuoco, mi pare, eh, Maxim?» disse mentre Roberto gli serviva per la seconda volta lo sformato. «Lo dico sempre a Bea; Manderley è l’unica casa rimasta in Inghilterra, dove ci sia una cucina decente. Me lo ricordo bene, questo sformato.» «Io credo che qui si cambia periodicamente di cuoco» disse Maxim «ma la regola della cucina rimane la stessa. La signora Danvers conserva tutte le ricette, e dice loro come si deve fare.»
«Una donna stupefacente, quella Danvers.» E Giles si volgeva a me. «Non vi pare?»
«Oh, sì» risposi: «la signora Danvers è veramente una persona rara, a quanto sembra.» «E con ciò, ha un caratterino!» disse Giles, e si smascellava in una grati risata. Frank Crawley non fece commenti, e alzando lo sguardo vidi che Beatrice mi osservava. Subito però ella distolse lo sguardo, e riprese a parlare col fratello.
«Dunque, non giocate affatto al golf, signora de Winter?» mi domandò Crawley.
«No, proprio no» risposi, contenta che di nuovo si fosse mutato argomento, che la signora Danvers andasse tosto obliata; e quantunque, oltre a non essere giocatrice, non sapessi nulla di quel gioco, mi preparavo a dedicare la mia attenzione a Crawley. Del resto, il golf era un argomento solido, onesto e magari noioso, e non poteva condurci a nuovi scogli. Venne servito il formaggio, e poi il caffè. Forse avrei dovuto accennare ad alzarmi. Guardavo Maxim, ma non mi faceva alcun segno, e Giles s’era imbarcato nel racconto, alquanto difficile a Seguirsi, di un’automobile che s’era dovuta disincagliare da un mucchio di neve -come si fosse venuti sul discorso non lo so -e io lo ascoltavo con sopportazione, assentendo ogni tanto col capo e sorridendo, e intanto mi accorgevo che Maxim, all’altro capo della tavola, stava diventando irrequieto. Finalmente Giles si fermò, e io colsi lo sguardo di Maxim, che aggrottando lievemente le sopracciglia accennava verso la porta.
Immediatamente mi alzai, e nello smuovere la seggiola diedi un colpo alla tavola e rovesciai il bicchiere di Porto di Giles. «Oh mio Dio!» feci, sconcertata, non sapendo che fare; e afferrai il mio tovagliolo, ma già Maxim diceva: «Sta bene, ci penserà Frith; non far più confusione ancora. Beatrice, conducila un poco in giardino, quasi non lo ha ancora veduto». Egli appariva stanco, e piuttosto irritato. Se tutta quella gente se ne fosse rimasta a casa! Intanto, ci avevano rovinato la giornata. Era stato uno sforzo troppo grande, così, non appena tornati. Anch’io mi sentivo stanca e depressa. Maxim m’era parso quasi di cattivo umore, quando ci aveva invitate ad
andare in giardino. Che sciocca ero stata, a rovesciare quel bicchiere!
Uscimmo sulla terrazza e ci avviammo verso i bei prati verdi.
«Un vero peccato, che siate ritornati così presto a Manderley» disse Beatrice. «Sarebbe stato molto meglio girovagare tre o quattro mesi per l’Italia, e tornare poi verso la metà dell’estate. Avrebbe fatto un gran bene a Maxim, e facilitato le cose anche a noi. Non posso fare a meno di pensare che i primi tempi qui vi riusciranno piuttosto penosi.»
«Oh, non credo» risposi. «Sono convinta che Manderley mi piacerà molto.»
Beatrice tacque. Per un po’, camminammo avanti e indietro sull’erba.
«Raccontatemi qualche cosa di voi» ella disse finalmente. «Che cos’è che facevate, in Riviera? Vivevate con un’americana, un tipo straordinario, mi ha detto Maxim…»
Le dissi della signora Van Hopper, e le ragioni per cui avevo accattato quel posto; Beatrice mi ascoltava con simpatia ma un po’ distratta, come se pensasse ad altro. «Sì» disse quando tacqui «è stata una cosa improvvisa, come dite. Ma naturalmente ha fatto molto piacere a noi tutti, e io spero che sarete felici, mia cara.» «Grazie, Beatrice, grazie infinite» replicai. Perché mai diceva di sperare che saremmo stati felici? Ella era gentile, era sincera, la trovavo simpatica; però, c’era nella sua voce un’ombra di dubbio che mi sgomentava.
«Quando Maxim mi scrisse, dicendomi che vi aveva scoperta, nel Mezzogiorno della Francia» ella riprese, prendendomi a braccetto «e che eravate assai giovane, assai graziosa, debbo riconoscere che rimasi un po’ spaventata. Ci aspettavamo tutti una fanciullina mondana, molto moderna e impiastricciata di cipria e rossetto: il tipo di ragazza che s’incontra di solito in quei luoghi. Vi garantisco che quando siete entrata nel salotto, prima di colazione, sono rimasta di stucco.» Ella rise, e io risi con lei. Ma Beatrice non aveva precisato se al vedermi avesse provato sollievo o delusione. «Povero Maxim! Ha passato un periodo orribile» ella disse. «Speriamo davvero che l’abbiate aiutato a dimenticare. Certo è ch’egli adora Manderley.» Una parte di me avrebbe voluto ch’ella seguitasse quel corso di pensieri, che mi parlasse ancora del passato, così semplicemente, naturalmente; eppure nell’intimo mio c’era qualcosa che non voleva sapere, non voleva sentire. «Non ci rassomigliamo affatto, sapete» diceva Beatrice; «i nostri caratteri sono ai poli opposti. A me mi si legge tutto in faccia: se la gente mi va a genio o no, se sono in collera o contenta. Io non nascondo nulla. Maxim è completamente diverso. Molto calmo, molto riservato. Non si sa mai che cosa ci sia, in quella sua testa bislacca. Io perdo le staffe alla minima provocazione, piglio fuoco, e poi tutto finisce lì. Maxim, le staffe le perde una o due volte all’anno, e allora… mio Dio!… allora è per davvero. Ma non credo gli accadrà mai con voi. Penso che dovete essere una donnina placida, voi.» E sorridendo mi pizzicò il braccio, e io pensavo a una donnina placida, con un lavoro a maglia in grembo, la fronte liscia e serena: visione di calma, di pace… Un’anima che non conosceva ansie, né le torture del dubbio o dell’irresolutezza; non piena di speranze e ardori e sgomenti come me, che ero sempre lì a mordicchiarmi le unghie, incerta sulla via da prendere, sulla stella da seguire.
«Non vi offendete se ve lo dico, no? Ma dovreste far qualcosa per i vostri capelli» riprese Beatrice. «Perché non ve li fate ondulare? Sono un po’ troppo lisci, così; non vi pare? Non debbono essere una bellezza, sotto il cappello. Perché non ve li tirate piuttosto dietro alle orecchie, allora?»
Obbediente, provai, e attesi il suo consenso. Ella mi considerò con occhio critico, ilcapo da una parte. «No, no. Mi sembra peggio. È troppo severo, e non vi sta bene. No, voi avete bisogno soltanto di un’ondulazione, tanto per ravvivarli un poco. Non mi è mai piaciuta quella pettinatura alla Giovanna d’Arco, o come la chiamano. E Maxim, che ne dice? Trova che vi sta bene?»
«Non lo so. Non me ne ha mai parlato» risposi. «Oh, bene. Forse gli piacerà. Non badate a quel che dico io. Sentite un po’, avete preso dei vestiti a Londra, o a Parigi?»
«No» risposi. «Non abbiamo avuto tempo. Maxim aveva fretta di trovarsi a casa. E poi, posso sempre far arrivare dei cataloghi.»
«Dal modo come siete vestita, vedo che non ve ne importa un fico di quel che portate.» Guardai la mia gonna di lana, come a scusarmi. «Non è vero. Mi piacciono molto le belle cose. Ma finora non ho mai avuto molto denaro da spendere per i miei vestiti.» «Curioso che Maxim non si sia trattenuto una settimana a Londra; potevate procurarvi qualcosa di bello da mettervi addosso» ella disse. «Piuttosto egoista da parte sua, se debbo dire la verità. E non è affatto da lui. Per questo genere di cose è di gusti alquanto raffinati.» «Davvero?» dissi. «A me non è mai sembrato troppo raffinato. Credo non s’accorga nemmeno di quello che porto. Suppongo che non glie ne importi affatto.» «Oh… Quand’è così, si vede che sarà cambiato.» Scostandosi da me ella fischiò a Jasper, le mani in tasca, poi alzò il capo a guardar la casa dietro di noi. «Dunque non usate più l’ala a ponente» osservò. «No» risposi. «Abbiamo l’appartamento a levante. È stato rimesso tutto a nuovo.» «Ah sì? Non lo sapevo. Maperché, mi domando?» «È stata un’idea di Maxim» dissi. «Pare che preferisca così.»
Beatrice non replicò. Fischiettando seguitava a guardare le finestre. «Come vi trovate, con la signora Danvers?» domandò tutt’a un tratto.
Mi curvai ad accarezzare la testa di Jasper e a lisciargli le orecchie. «Non ho avuto molto a che fare con lei, finora» risposi. «Ma m’intimorisce un poco. Non avevo mai visto una persona simile.» «Lo credo» esclamò Beatrice.
Jasper alzava verso di me due grandi occhi umidi, un poco offesi. Gli baciai la testa serica, e gli misi la mano sul nasetto nero.
«Non c’è nessun bisogno di lasciarsi intimorire da lei» disse Beatrice. «E in ogni modo, non ve ne fate accorgere, qualunque cosa accada. Io non ho mai avuto niente a che vedere con lei, naturalmente, e non avrei mai nemmeno voluto. Però, con me essa è stata sempre molto educata.»
Seguitai ad accarezzare la testa del cane. «Vi è sembrata ben disposta?» insistè Beatrice. «No. Non molto» replicai.
Beatrice riprese a zufolare, e intanto, strofinava col piede la testa di Jasper. «Io mi regolerei in modo da averci a che fare il meno possibile» disse. «Certo» replicai. «Per il governo della casa essa è molto capace; non c’è bisogno ch’io intervenga.» «Non credo che se la piglierebbe, in quanto a questo» disse Beatrice.
Così aveva detto Maxim, la sera avanti; trovai strano che entrambi avessero la stessa opinione. Avrei immaginato che un mio intervento fosse proprio l’ultima cosa al mondo che la signora Danvers avrebbe voluto. «Io dico che col tempo essa ci passerà sopra» disse Beatrice «ma i primi tempi può rendervi le cose alquanto spiacevoli. Essa è follemente gelosa; ed è naturale. Avevo ben temuto che sarebbe stato così.» «Perché?» domandai, guardando in viso Beatrice. «Perché dovrebbe essere gelosa? Non mi sembra che Maxim abbia molta simpatia per lei.»
«Mia cara bambina, non è di Maxim che le importa. Essa lo rispetta in tutto e per tutto, certamente, ma nulla più. No, vedete…» Ella mi guardava titubante. «Essarisente la vostra presenza qui in genere. È questo il male.» «Perché? Perché dovrebbe risentirla?» «Credevo sapeste» rispose Beatrice. «Credevo che Maxim ve l’avesse detto. Essa adorava Rebecca; è la vera parola.»
«Oh!» esclamai. «Oh… capisco.» E continuammo ad accarezzare e lisciare Jasper, il quale, non abituato a tali attenzioni, si rotolava estasiato sul dorso.
«Ecco i nostri uomini» disse Beatrice «facciamoci portare fuori qualche seggiola e mettiamoci sotto l’ippocastano. Come ingrassa Giles! Vicino a Maxim è addirittura ripugnante. M’immagino che Frank debba ritornare in ufficio. Che creatura uggiosa, non ha mai nulla d’interessante da dire… Dunque, cari miei? Di che avete discusso? Avrete fatto a pezzi il mondo, m’immagino!» Ella rise. Gli altri vennero avanti, adagino, e ci trovammo tutti riuniti. Giles buttò un rametto a Jasper perché lo riportasse. Il cane diventava il centro dell’interesse generale. «È ora che me ne vada» disse il signor Crawley, guardando l’ora. «Grazie infinite per il vostro pranzo, signora de Winter.»
«Dovete ritornare spesso» dissi, stringendogli la mano. Mi domandai se anche gli altri se ne sarebbero andati. Non ero ben certa se fossero venuti per il pranzo soltanto,
o per passare la giornata. Speravo che se ne andassero, in cuor mio. Desideravo esser sola con Maxim, così come quando eravamo in Italia. Intanto, ci sedemmo sotto l’ippocastano, dove Roberto aveva portato seggioloni di paglia e coperte. Giles s’era addirittura sdraiato, il cappello sugli occhi; e non andò molto, e cominciò a russare a bocca aperta.
«Zitto, Giles!» fece Beatrice. «Non dormo mica» egli brontolò, e aprì gli occhi richiudendoli subito. Lo trovavo assai poco seducente; e mi domandai come mai Beatrice lo avesse sposato. Non poteva essere innamorata di lui. Ma forse ella pensava lo stesso di me. Ogni tanto sentivo l’occhio suo fisso su di me, curioso, riflessivo, quasi ella si andasse dicendo
“Che può mai trovarci Maxim, in quella donna?“. Ma con bonarietà, senza cattive intenzioni. Udii che parlavano della loro nonna. «Bisognerà che andiamo a vedere quella povera vecchia» diceva Maxim. E Beatrice: «Rimbambisce. Si sbrodola tutta mentre mangia, povera cara». Li ascoltavo appoggiata al braccio di Maxim, strofinando il mento sulla sua manica. Assente egli mi accarezzava la mano, mentre parlava con la sorella. ”Così faccio io con Jasper“ pensavo. ”Ora mi strofino a lui come Jasper; e lui mi accarezza ogni tanto, quando se ne ricorda, e io sono contenta, mi par d’essergli più vicina. Mi vuol bene come io voglio bene a Jasper.’’
Il vento era caduto. Il pomeriggio si trascinava sonnolento, pacifico. L’erba falciata di fresco mandava effluvi dolci e grevi, presaghi dell’estate. Un’ape ronzò sulla testa di Giles che la scacciò col cappello. Sgambettando, con la lingua fuori, Jasper, che sentiva troppo caldo al sole, venne a raggiungerci. Si lasciò cadere vicino a me, e cominciò a leccarsi il fianco, guardandomi coi grandi occhi come a chiedermi scusa. Il sole splendeva nelle bifore della casa, e vedevo, riflessi nei vetri, i verdi prati e la terrazza. Da uno dei comignoli salivano sottili spire di fumo: forse, secondo l’abitudine, era stato acceso il caminetto in libreria.
Un merlo volò attraverso il prato, e andò a posarsi sulla magnolia davanti alla finestra della sala da pranzo. Fin dov’ero seduta giungeva il flebile profumo dolcissimo dei fiori. Una gran pace regnava ovunque. Lontanissimo si udiva lo sciacquio delle onde nella baia, laggiù in fondo. La marea doveva esser tornata bassa. L’ape tornò a ronzare, sostando a gustare i fiori d’ippocastano sopra le nostre teste. “Ecco, è come ho immaginato sempre” pensavo. “Così speravo che fosse la vita a Manderley.” In eterno avrei voluto rimanere seduta lì, senza parlare, senza porgere ascolto agli altri, trattenendo l’attimo prezioso per tutti i tempi, perché eravamo così in pace, noi tutti, eravamo beati e sonnolenti come l’ape che ronzava sopra le nostre teste. Fra breve tutto sarebbe stato diverso, sarebbe venuto domani, e domani ancora, e un altro anno. E noi saremmo forse mutati, e mai più ci saremmo trovati riuniti così. Alcuni di noi sarebbero andati lontani, a soffrire, o a morire; e l’avvenire era là davanti a noi, ignoto, invisibile, e forse non era come lo avremmo voluto, non come lo avevamo architettato. Ma questo momento era benigno, non poteva esserci rapito. Eccoci qui seduti vicini, Maxim ed io, la mano nella mano; e che c’importava del passato e dell’avvenire? Questa era la sicurezza: questo insignificante piccolo frammento di tempo che mai egli avrebbe ricordato. Non lo avrebbe custodito come una cosa sacra, lui; stava parlando di tagliare un po’ di vegetazione nel viale, e Beatrice approvava, interrompendolo ogni tanto con qualche consiglio, e al tempo stesso buttava un filo d’erba a Giles. Per essi era l’ora dopo colazione, le tre e un quarto di un pomeriggio fra i tanti, un’ora come le altre, di un giorno come gli altri. Non si curavano essi, di tenerla stretta, imprigionata e al sicuro, come io avrei voluto. Non avevano paura, essi.
«Beh, credo sia ora d’incamminarci» disse Beatrice, ripulendosi la gonna dall’erba. «Non voglio far tardi, abbiamo i Cartright a cena.» «Come va la nostra buona Vera?» domandò Maxim. «Oh, sempre la stessa, non fa che parlare della sua salute. Lui è invecchiato molto. Certamente ci faranno un monte di domande su di voi.» «Porterai loro i miei saluti» disse Maxim. Ci alzammo. Maxim sbadigliò, stirandosi. Il sole
s’era nascosto. Guardai il cielo; già era mutato, un cielo a pecorelle. Nuvolette che si formavano correndo, una fila dopo l’altra.
«Il vento è cambiato» disse Maxim.
«Speriamo di non andare incontro alla pioggia» disse Giles.
«Ho paura che il meglio della giornata l’abbiamo avuto» fece Beatrice.
Lentamente andammo verso la spianata, dove c’era l’automobile.
«Non avete ancora visto come è trasformata l’ala a levante» disse Maxim.
«Venite di sopra» proposi. «In un paio di minuti…» Entrammo nel vestibolo, e salimmo su per lo scalone, seguite dagli uomini.
Pareva strano, che Beatrice avesse vissuto qui per tanti anni. Per questi stessi giardini ella saltellava su e giù, bambina, con la sua governante. Era nata qui, cresciuta qui, conosceva ogni cosa; apparteneva a Manderley più di quanto non vi avrei mai appartenuto io. Molte memorie ella doveva portar racchiuse in cuore. Chissà se mai ricordava i giorni passati, e la bimba dalle lunghe gambe e dalle trecce sulle spalle ch’ella era stata un tempo, così diversa dalla donna di quarantacinque anni che era ora, vigorosa e ormai formata: un’altra creatura… «Oh, com’è gaio! Questo sì che è un gran progresso davvero!» esclamò Giles, curvandosi sotto un basso architrave, quando fummo alle stanze, «Non trovi, Bea?» «Di’ un po’, vecchio mio, hai fatto spese pazze, eh?» disse Beatrice al fratello. «Tende nuove, letti nuovi, tutto nuovo. Ti ricordi, Giles, avevamo questa stanza, quella volta che hai dovuto rimanere a letto per via della tua gamba? Era un po’ tetra, allora. Ma già, la mamma non aveva un gran concetto delle comodità. E tu non mettevi mai nessuno qui, vero Maxim?A meno che non ci fosse un subisso di gente. Qui si cacciavano sempre i giovanotti. Beh, bisogna riconoscere che è un amore. E c’è anche la vista del giardino delle rose, cosa che è sempre un vantaggio. Posso darmi un po’ di cipria?» Gli uomini erano scesi dabbasso, e Beatrice si guardava allo specchio.
«E la vecchia Danvers ha pensato lei a tutto?» domandò.
«Sì. E mi sembra che abbia fatto molto bene» risposi. «Dovere suo, con la pratica che ha. Dio sa quanto sarà costato! Un bel mucchio di biglietti, scommetto? Glie lo avete chiesto?» «No, io almeno no…» risposi.
«Non sarà stato un gran fastidio per la Danvers. Permettete che prenda il vostro pettine? Oh, che belle spazzole. Un regalo di nozze?» «Me le ha regalate Maxim.»
«Hm… Mi piacciono. Anche noi dobbiamo farvi un regalo. Che cosa desiderereste?» «Oh, non saprei. Ma non vi disturbate.» «Mia cara, non siate assurda. Vi pare che io sia donna da defraudarvi di un regalo, anche se non siamo stati invitati
alle nozze?»
«Spero non ve ne sarete avuta a male. Maxim ha voluto rimanere all’estero.»
«Affatto! Anzi, avete fatto benissimo. Dopo tutto, non era come se…» A mezzo della frase s’interruppe: le era caduta la borsetta. «Accidenti, ho rotto la cerniera? No, non è successo nulla. Che cosa stavo dicendo? Non ricordo. Ah, sì… i regali di nozze. Penseremo a qualche cosa. Di gioielli v’importa poco, suppongo.» Non risposi, ed ella continuò. «Con le giovani coppie solite, le cose son molto diverse! L’altro giorno si è sposata la figlia di una mia amica, e naturalmente hanno fatto le cose secondo le regole: biancheria da casa, e servizi da caffè, e seggiole per la stanza da pranzo e via dicendo. Io ho regalato loro una bella lampada da studio. Mi è costata ben cinque sterline da Harrod. Se andate a Londra per prendervi dei vestiti, ricordatevi della mia sarta, Madame Carroux. Ha un gusto straordinario e non vi deruberà.»
Si era alzata dalla pettiniera, e si lisciava, la gonna. «Credete che riceverete molto?» «Non so. Maxim non ha ancora detto nulla.» «Che buffo ragazzo, non si sa mai che cosa abbia in mente. C’era un tempo che la casa era sempre stipata, e non si riusciva più a trovare un letto libero. Però, non vi ci vedo…» Si fermò e mi diede un colpettino sul braccio. «Oh, beh, vedremo. Peccato che non andiate a cavallo né a caccia, perderete davvero molte occasioni di divertirvi. Non remate mica, per caso?» «No» risposi. «Ringraziamo Iddio.»
Ella s’incamminò per uscire, e la seguii nel corridoio. «Venite a trovarci quando ne avrete voglia» disse Beatrice. «Io aspetto sempre che la gente s’inviti da sé. La vita è troppo breve per mandare inviti.» «Vi ringrazio» dissi.
Eravamo alla balaustra che guardava giù nel vestibolo. Gli uomini erano già presso il portale. «Vieni giù, Bea» gridava Giles. «Sento certe goccioline; abbiamo tirato su un soffietto. Maxim dice che il barometro cade.»
Beatrice mi prese per la mano, e curvandosi mi scoccò un bacetto sulla guancia. «Addio» disse. «Perdonatemi se vi ho fatto un sacco di domande indiscrete, cara, e detto tante cose che non avrei dovuto. Il tatto non è mai stato il mio forte, e Maxim ve lo dirà. E, come già vi ho detto, non siete affatto come m’aspettavo.» Mi guardò ben bene, le labbra atteggiate a zufolare, poi prese una sigaretta dalla borsetta, e fece scattare l’accendisigari. «Vedi» disse, richiudendolo di scatto, e avviandosi giù per le scale «sei così diversa da Rebecca.» Uscimmo: il sole s era celato dietro un baluardo di nuvole, cadeva una pioggerella sottile, e Roberto correva sul prato a ritirare le seggiole.
X
Guardammo l’automobile sparire oltre la prima curva del viale, poi Maxim mi prese a braccio dicendo: «Grazie a Dio, anche questa è passata. Vai a cercarti un mantello, presto, e vieni fuori. Accidenti alla pioggia, ho bisogno di far quattro passi. Mi è insopportabile, starmene lì seduto in ozio». Appariva bianco in viso e affaticato, tanto che stupii che la visita di Beatrice e Giles, di una sorella e d’un cognato, lo avesse stancato sino a quel punto.
«Aspetta che corro di sopra a prendere il soprabito» dissi.
«Ci sono tanti impermeabili di là, nella stanza dei fiori, prenditene uno» diss’egli impaziente. «Le donne si trattengono sempre mezz’ora quando salgono nella loro stanza. Roberto, fate il piacere, andate a prendere un impermeabile per la signora, nello stanzino dei fiori. Ce ne devono essere una mezza dozzina appesi là, lasciati un po’ dall’uno, un po’ dall’altro.» Egli era già nel viale, e chiamava Jasper. «Su vieni, brutto poltroncello, ti faremo perdere un po’ di quel grasso.» Jasper correva in tondo, abbaiava furiosamente alla prospettiva d’una passeggiata. «Zitto, stupido!» gli gridò Maxim. «Ma che diavolo fa Roberto?»
Roberto arrivava correndo con un impermeabile, che io indossai in fretta e in furia, cercando di chiuderlo al collo. Era troppo largo e lungo, ma non c’era tempo per cambiarlo, e c’incamminammo verso i boschi, preceduti da Jasper che saltava.
«Trovo che una parte della mia famiglia esagera alquanto» disse Maxim. «Beatrice è una delle migliori donne del mondo, ma pesta invariabilmente i piedi al prossimo».
Non ben sicura in che cosa Beatrice avesse sbagliato, credetti bene di non indagare. Forse Maxim ricordava ancora la discussione sulla sua salute, prima di tavola. «Che cosa ne pensi di lei?» mi domandò. «Mi è piaciuta molto; è stata assai gentile con me» risposi.
«Di che cosa ti ha parlato, qui, dopo colazione?» «Oh, non so. Mi sembra d’aver parlato sempre io. Le raccontavo della signora Van Hopper, e come ti ho conosciuto e così via. Mi ha detto che ero completamente diversa da quel che s’era aspettato.» «E che diavolo si aspettava?»
«Una persona molto più elegante, molto più raffinata, m’immagino. Una farfallina moderna, ha detto.» Maxim non rispose che dopo un momento: prima si curvò, e buttò un pezzo di legno a Jasper. «Certe volte, Beatrice è capace di essere diabolicamente poco intelligente.»
Salita la sponda erbosa che sovrastava i prati, ci addentrammo nei boschi. I tronchi erano assai fitti, tanto che era quasi buio. Camminavamo su rami spezzati e foglie dell’anno avanti, e anche, qua e là, sugli steli verdi dell’erba giovane, e sulle campanule ancora chiuse, che presto sarebbero state in fiore. Jasper s’era fatto
silenzioso, ora, e andava col naso a terra.
Presi Maxim per il braccio. «Ti piacciono i miei capelli?» domandai.
Mi guardò stupito. «I tuoi capelli? E perché me lo domandi? Certo che mi
piacciono. Che cosa c’entrano i tuoi capelli, adesso?»
«Oh, niente. Un’idea soltanto» risposi. «Come sei buffa» diss’egli.
Ci trovammo in una radura, da dove due sentieri si partivano in direzione opposte. Jasper prese a destra, senza esitare.
«Non da quella parte!» gli gridò Maxim. «Qua, Jasper.»
Il cane si voltò a guardarci, si fermò dimenando la coda, ma non tornò indietro.
«Perché vorrà andare da quella parte?» domandai. «Sarà l’abitudine» rispose Maxim, breve. «Conduce a una piccola insenatura, dove una volta tenevamo un battello. Su vieni, Jasper!»
Prendemmo il sentiero a destra, senza parlare, e voltandomi vidi Jasper che ci seguiva. «Di qui arriviamo alla valle di cui ti ho raccontato. Sentirai il profumo delle azalee» diceva Maxim. «Non importa se piove, anzi, odoreranno più forte.» Sembrava tornato in sé, ora, contento, allegro, il Maxim che conoscevo e amavo; cominciò a parlare di Frank Crawley, un così bravo ragazzo, tutto d’un pezzo, e fidato, e così devoto a Manderley.
“Ora si sta meglio” pensavo. “Come in Italia.” E lo guardai sorridendo, serrandogli il braccio, sollevata al non vedergli quella faccia stravolta; e mentre dicevo «Sì?» e «Davvero?» e «Sicuro, amore!» col pensiero riandavo a Beatrice, e mi domandavo perché mai la presenza di lei lo avesse turbato; e pensavo, anche, a quel che lei m’aveva detto di Maxim: che perdeva le staffe una o due volte all’anno. Ella doveva conoscerlo, naturalmente: era sua sorella. Ma non era quel che avevo immaginato: non rispondeva all’idea che m’ero fatta di Maxim. Lo vedevo d’umor mutevole, difficile di carattere, irritabile forse, ma non iroso come ella aveva insinuato, non facile preda alle passioni. Forse aveva esagerato; tante volte ci si fa un’idea errata dei propri parenti, anche dei più stretti. «Ecco» disse tutt’a un tratto Maxim. «Guarda.» Eravamo sul pendio di un’altura boschiva, e il sentiero dinanzi a noi scendeva tortuoso fino alla valle, lungo un torrentello. Non alberi cupi, qui, non intricati cespugli: ai lati del sentiero fiorivano azalee e rododendri, non sanguigni, questi, come i giganti del viale, ma rosei, bianchi, dorati, pieni di bellezza e di grazia; e sotto alla tepida pioggia estiva curvavano le leggiadre testoline delicate.
L’aria era piena dei loro effluvi, dolci e grevi, e mi pareva che la stessa essenza si fosse frammista alle acque del torrentello, e diventasse una con la pioggia che cadeva, col ricco tappeto di muschio sotto i nostri piedi. Non si udiva altro, qui, fuorché il gorgogliar del piccolo corso d’acqua, e la pioggia che cadeva cheta; e quando Maxim parlò, anche la sua voce era sommessa, dolce e bassa, come se egli non avesse alcun desiderio di rompere il silenzio. «La chiamiamo la Valle della Felicità» diss’egli. Eravamo rimasti immobili, silenziosi, a guardare i chiari visi banchi dei fiori più vicini a noi; Maxim si curvò a raccogliere un petalo caduto, e me lo porse. Era schiacciato, rovinato, già ingiallito nei bordi accartocciati, ma come lo strofinai contro la mia palma se ne sprigionò un profumo soave e sentito, vivido come il vivo arbusto dal quale s’era staccato.
Poi, gli uccelli cominciarono a cantare. Prima fu la nota limpida e fredda di un merlo, sopra al torrentello garrulo; tosto gli rispose la compagna celata nei boschi dietro di noi, e ben presto l’aria fu tutta una sinfonia assieme alla fragranza dei petali che ci seguiva, via via che avanzavamo nella valle. Mi sentivo turbata, come se fossi in un luogo incantato. Non avrei creduto che al mondo ci potesse essere tanta bellezza.
Né il cielo, ormai chiuso e fosco, così diverso dal cielo delle prime ore pomeridiane, né la pioggia continua, insistente, disturbavano la dolcissima quiete della valle; pioggia e torrentello si rispondevano, e la limpida nota del merlo cadeva nell’aria umida, in armonia con entrambi. Nel passare mi sfioravano i ciuffi grondanti delle azalee, che formavano una fitta spalliera lungo il sentiero. Dai petali umidi piccole gocce mi piovevano sulle mani, Dal suolo sorgeva l’odor dei petali caduti, ingialliti e impregnati d’acqua; e vi si univa un altro profumo, più vecchio, più greve: odor umido di muschio fitto e di amaro timo, d’erbe selvatiche e di contorte radici ricoperte di terra. Stretta la mano alla mano di Maxim, ancora non avevo detto una parola. L’incanto della Valle della Felicità mi prendeva a poco a poco. Questo, finalmente, era il cuore di Manderley, quel Manderley che avrei conosciuto e imparato ad amare. Dimenticato era il primo viale, i boschi simili a un branco di neri mostri, gli smaglianti rododendri, lussureggianti e sfacciati. E anche la vasta dimora, il silenzio di quel vestibolo ove il passo risonava sul marmo, l’inquietante calma di quell’ala a ponente avvolta in fodere di tela bianca. Là io ero una straniera aggirantesi per stanze che le erano ignote, e che sedeva in poltrona davanti a una scrivania non sua. Qui era un’altra cosa. La Valle della Felicità non conosceva intrusi. Al termine del sentiero, i fiori formavano un arco sopra le nostre teste. Ci curvammo nel passare, e quando mi raddrizzai, scuotendo le gocce di pioggia dai miei capelli, vidi che ci eravamo lasciati dietro la piccola valle e le azalee; e, come Maxim m’aveva descritto in quel pomeriggio a Monte Carlo, ci trovavamo in una stretta insenatura, ciottoli bianchi e duri sotto ai nostri piedi, e il mare che s’infrangeva sul lido dinanzi a noi.
Maxim, che non perdeva di vista il mio viso trasognato, sorrise.
«È un pugno nell’occhio, non è vero? Nessuno se l’aspetta. Il contrasto è troppo improvviso, fa quasi male.» Raccolse una pietra, e la gettò lontano, sulla spiaggia. «Su, Jasper, piglia!» E il cane partì come un bolide, in cerca della pietra, le lunghe orecchie nere dondolanti al vento.
L’incanto era svanito, dileguata la magia. Eravamo ritornati due mortali, un uomo e una donna che giocavano su una spiaggia. Buttammo altre pietre, scendemmo sino all’orlo dell’acqua, e corremmo dietro a pezzi di legno galleggianti. La marea cresceva, e le onde lambivano i piccoli scogli e tosto li coprirono, trascinando seco qualche alga. Riuscimmo a impadronirci d’una grossa tavola di legno che fluttuava e la trascinammo a riva, all’asciutto. Maxim si volse a me ridendo, scostandosi i capelli che gli cadevano sugli occhi, e io ricacciai indietro le lunghe maniche dell’impermeabile. La spuma mi spruzzava tutta. E poi ci guardammo intorno. Jasper era scomparso. Lo chiamammo, fischiammo; ma non veniva. Ansiosa guardai verso la bocca dell’insenatura, dove le onde schiaffeggiavano gli scogli.
«No, non può essere caduto, lo avremmo visto» disse Maxim. «Jasper! Idiota, dove sei? Jasper!» «Che sia tornato indietro?» dissi. «Alla Valle?» «Era lì vicino allo scoglio, un minuto fa, che annusava un gabbiano morto» disse Maxim. Risalimmo verso la Valle, dalla spiaggia. «Jasper! Jasper!» chiamava Maxim. Lontano, al di là degli scogli, a destra della spiaggia, s’udì un breve latrato imperioso. «Hai sentito?»dissi. «È risalito da quella parte.» E cominciai a inerpicarmi su per le rocce scivolose, in direzione del latrato. «Torna indietro» mi gridò Maxim. «Non vogliamo andare da quella parte. Quello sciocco d’un cane dovrà pur imparare a badare a sé.»
Esitai, guardando giù dalla roccia. «E se fosse caduto? Povero cagnolino! Lascia che vada a cercarlo.» Jasper abbaiò di nuovo, più lontano questa volta. «Oh… Senti? Debbo andare a prenderlo. Non si sarà fatto mica male, no? E la marea non lo taglierà fuori?» «Ma se sta benissimo!» fece Maxim, stizzito. «Perché non lo lasci perdere? La strada di casa la sa.» Feci finta di non aver sentito, e mi misi ad arrampicarmi su per la roccia, verso il punto dove pensavo di trovare Jasper. Grossi massi frastagliati m’impedivano di veder oltre, e io scivolavo e inciampavo sulla roccia umida, cercando di cavarmela come meglio potevo. Maxim era crudele, ad abbandonare così la povera bestia; non lo capivo. Inoltre, la marea cresceva. Arrivai al masso più grosso che mi celava la vista, e guardando al di là, con mia gran sorpresa vidi schiudersi un’altra insenatura, simile a quella che m’ero lasciata dietro, ma più ampia e rotonda. Una piccola gettata di pietra rompeva la furia delle onde; al di là di essa, l’insenatura formava un minuscolo porto naturale. C’era una boa ancorata, ma nessuna imbarcazione. Anche qui la spiaggia era bianca e sassosa; ma più ripida, cadeva quasi a picco sul mare. Gli alberi giungevano fin quasi all’intrico di alghe che indicavano un’acqua già abbastanza profonda; e sul margine del bosco c’era un lungo edificio basso, qualcosa tra la casetta rustica e la darsena, costruito della stessa pietra della gettata. C’era un uomo sulla spiaggia, un pescatore, forse. Portava alti stivali e un cappellaccio di tela cerata, e a lui abbaiava Jasper, saltellandogli intorno, scagliandosi contro le sue gambe. L’uomo, curvo a grattar tra i ciottoli, non gli badava. «Jasper!» gridai. «Jasper, vieni qui!» Il cane alzò il capo a guardarmi, scodinzolando, ma non obbedì, e seguitò a inveire contro la solitaria figura curva a terra.
Mi guardai dietro. Maxim non si vedeva ancora. Scesi tra gli scogli fin giù alla spiaggia. I ciottoli scricchiolavano sotto ai miei piedi, e l’uomo alzò la testa, al rumore. Vidi che aveva gli occhietti obliqui, e anche la bocca rossa e bavosa, di un idiota. Mi sorrise, mostrando le gengive sdentate.
«Buon giorno» mi disse. «Tempaccio, eh?» «Buon giorno» replicai. «Già, il tempo non è molto buono.»
Egli mi studiava attento, senza smettere di sorridere. «Cerco le telline» disse. «Maniente telline, qui. È da stamane che gratto.»
«Oh! Peccato che non ne abbiate trovate» replicai. «Giusto. Niente telline, qui» egli ripetè. «Vieni, Jasper!» chiamai. «Si fa tardi. Su, qui, cattivo!»
Ma Jasper pareva esasperato. Forse il vento e il mare gli avevano dato alla testa, perché si allontanò ancora, latrando disperatamente; poi si mise a correre in tondo per la spiaggia, senza scopo alcuno. Cominciavo a capire che non mi avrebbe mai seguito, e non avevo guinzaglio. Mi volsi all’uomo, che di nuovo s’era curvato, intento alla futile opera di scavo.
«Non avreste un pezzo di corda?» gli domandai. «Eh?» mi fece egli.
«Non avreste un pezzo di corda?» ripetei. «Niente telline» egli diceva, e scuotendo il capo si asciugò gli occhi azzurri, slavati e acquosi. «Ho bisogno di qualcosa per legare il cane» dissi. «Non vuol venirmi dietro.» «Eh?» mi sorrise, col suo povero sorriso d’idiota. «Va bene, non importa» dissi. Egli mi guardò, titubante, poi, piegandosi in avanti, mi puntò un dito in mezzo al petto.
«Lo conosco, quel cane» disse. «È della casa.» «Sì. E voglio che torni indietro con me, adesso» dissi. «Non è mica vostro» disse l’uomo. «È il cane del signor de Winter» dissi, paziente. «Voglio riportarlo a casa.» «Eh?»
Chiamai ancora il cane; ma correva dietro a una piuma cacciata dal vento. Chissà se nella darsena avrei trovato un pezzo di corda? Mi avviai. Ci doveva essere stato un giardino, un tempo, intorno alla casa, ma ora l’erba era alta e mal cresciuta, e piena di ortiche. Gli sportelli alle finestre erano chiusi. Certo anche la porta era chiusa; senza troppa speranza alzai il nottolino. Con mia gran sorpresa, dopo un lieve sforzo si sollevò, e io entrai, curvando la testa sotto l’uscio basso. M’aspettavo di trovare il solito rifugio di barche, pieno di sudiciume e di polvere, in completo abbandono, e cordame e remi e chiavarde sparsi per terra. C’era molta polvere, e qua e là c’era anche sudiciume, ma non vidi né remi né chiavarde. La stanza, che teneva l’intera lunghezza della casetta, era ammobiliata. C’era uno scrittoio in un angolo, e poi una tavola, delle seggiole, e contro la parete un divano-letto. C’era anche una credenza, con piatti e tazze. Una scansia era piena di libri, e sul piano più alto c’erano dei modellini di navi. Per un momento pensai che il luogo dovesse essere abitato -forse il poveraccio che avevo incontrato sulla spiaggia viveva qui -ma guardandomi ancora d’attorno non vidi tracce di abitanti recenti. Quella grata arrugginita nel caminetto, da tempo non conosceva il fuoco, né il piancito impolverato recava orme di piedi; e le stoviglie sulla credenza avevano macchie azzurrine di umido. E regnava uno strano tanfo di muffito. Sulle navi in miniatura, le ragnatele avevano intessuto spettrali sartie. Nessuno abitava qui. Nessuno vi metteva piede. La porta aveva cigolato sui cardini arrugginiti, quando l’avevo aperta. La pioggia tamburellava sul tetto con un rumor cavo, e picchiava sugli sportelli chiusi. La coperta del divano-letto appariva rosicchiata dai topi: vedevo certi buchi ineguali, e i bordi sfrangiati. E c’era un umidore che metteva addosso i brividi, in quella stanza scura e opprimente. Non mi piaceva. Non vedevo l’ora di uscirne. Il tap-tap sonoro della pioggia sul tetto m’era odioso. Pareva risvegliasse un’eco nella stanza stessa; e s’udiva gocciolar l’acqua entro il caminetto dalla grata rugginosa.
Cercai in giro, se vedessi un pezzo di corda. Non v’era nulla che potesse servire al mio scopo, assolutamente nulla. In fondo alla stanza c’era un’altra porta; mi avvicinai, l’apersi un poco timorosa: avevo l’ingrata impressione di scoprir qualcosa d’imprevisto, che avrei preferito ignorare. Uno spettacolo macabro, che m’avrebbe fatto male… Era assurdo, naturalmente. Questa volta la porta si aprì veramente su un rifugio di barche. Qui c’erano i remi e le chiavarde che avevo immaginato; due o tre vele, un piccolo canotto, delle latte di vernice, e ogni sorta di aggeggi e oggetti, insomma, che servivano a navigare. Su di un piano di legno c’era una matassa di corda di canapa, e accanto, un arrugginito coltello a serramanico. Quel che mi occorreva per Jasper. Tagliai un pezzo di corda, e tornai nella stanza. La pioggia seguitava a tamburellare sul tetto, e a gocciolar giù per il camino. In fretta uscii all’aperto, senza guardarmi dietro, cercando di non vedere né il divano roso dai topi, né le stoviglie ammuffite, né le ragnatele sui modellini di navi; richiusi la porta cigolante e tosto fui sulla bianca spiaggia. L’uomo non scavava più; mi spiava, ora. Jasper gli stava al fianco.
«Vieni, Jasper» dissi. «Andiamo su, da bravo!» Mi chinai, e questa volta si lasciò toccare e prendere per il collare. «Ho trovato della corda, in casa» dissi all’uomo. Egli non mi rispose; legai la corda al collare di Jasper, poi me lo tirai dietro. «Buon giorno» dissi. L’uomo mi fece un cenno col capo, guardandomi con gli occhietti d’idiota.
«V’ho veduta entrar là dentro» disse.
«Sì, ma non fa niente. Il signor de Winter non mi sgriderà» replicai.
«Adesso quella non ci viene più, là dentro» disse l’uomo.
«No, non ci viene più» ripetei. «È andata sul mare, eh? E non torna più, eh?» «No, non torna più.»
«Io non ho mica detto niente, vero?» disse l’idiota. «No, no, state tranquillo» dissi io. Mugolando parole tra sé egli tornò a curvarsi e a scavare. Attraversai la spiaggia; Maxim era là che m’aspettava sugli scogli, le mani in tasca.
«Scusami» gli gridai. «Jasper non voleva venire. Ho dovuto cercare un pezzo di corda.» Bruscamente Maxim girò sui tacchi, avviandosi verso il bosco.
«Non passiamo più sugli scogli?» domandai. «A che serve? Siamo qui, ormai» egli ribatté, breve. Ripassammo lungo la casetta, e infilammo un sentiero che s’addentrava nel bosco. «Mi spiace di essermi trattenuta così a lungo, ma la colpa è di Jasper» dicevo, intanto. «Seguitava ad abbaiare a quell’uomo. Chi era?» «È soltanto Ben; un individuo incapace di far male a una mosca, povero diavolo. Suo padre era uno dei nostri guardaboschi; abitavano vicino alla fattoria. Dove hai preso quel pezzo di
corda?»
«L’ho trovato dentro alla casetta sulla spiaggia» risposi.
«La porta era aperta?»
«Sì; non c’era che da spingere. Ho trovato la corda in quel ripostiglio dove c’erano le vele e una piccola barca.» «Ah… Ho capito.» E dopo un momento soggiunse: «Quella casetta dovrebbe esser chiusa; nessuno ha da aprire la porta.»
Non replicai; erano cose che non mi riguardavano. «È stato Ben a dirti che la porta era aperta?» «No» risposi. «Sembrava che non capisse nulla di quel che gli domandavo.»
«Fa lo scemo più di quanto non lo sia» disse Maxim. «Quando vuole, sa spiegarsi benissimo. Probabilmente sarà entrato e uscito chissà quante volte, e non voleva farsene accorgere da te.»
«Non lo credo» risposi. «La casetta mi è sembrata deserta; nessuno ci aveva toccato nulla. Era tutto pieno di polvere, e non ho visto impronte di piedi. È orribilmente umido, là dentro. Ho paura che, quei libri si guasteranno, e anche le seggiole, e il sofà. Ci sono anche dei topi; hanno mangiato tutta la coperta del sofà…» Maxim non disse nulla. Camminava a passi precipitosi, e la salita della spiaggia era ripida. Il luogo ove ci trovavamo ora era assai diverso dalla Valle della Felicità. Qui gli alberi erano scuri, i tronchi fitti, e non c’erano più azalee. La pioggia cadeva a rivoli dai rami folti; mi gocciolava sul colletto, e giù per la nuca. Mi dava un brivido sgradevole, come se mi sfiorasse un dito freddo. Dopo l’arrampicata su per gli scogli, alla quale non ero usa, mi dolevano le gambe; E Jasper, stanco della galoppata, si faceva trascinare, la lingua fuori.
«Vieni, Jasper, per amor di Dio!» esclamò Maxim. «Fallo correre, tira quella corda… Fai qualcosa, insomma! Beatrice aveva ragione. Quel cane è troppo grasso.»«È colpa tua» protestai. «Cammini così in fretta. Non possiamo tenerti dietro.»
«Se m’avessi dato retta, invece di metterti a saltare giù per quegli scogli, a quest’ora saremmo a casa. Jasper la sapeva perfettamente, la strada. Non vedo perché tu volessi corrergli dietro.»
«Pensavo che avrebbe potuto cadere in acqua, e avevo paura della marea.»
«Ti pare che avrei lasciato lì il cane, se ci fosse stato il pericolo della marea?» ribatté Maxim. «Te l’avevo detto di non andare da quella parte, e adesso brontoli perché sei stanca.»
«Non brontolo» replicai. «Chiunque si stancherebbe a camminar di questo passo, anche chi avesse le gambe d’acciaio. Intanto, quando sono andata dietro a Jasper credevo che tu venissi con me, invece di rimanere dove eri.» «E perché avrei dovuto sudare e galoppare dietro a quel maledetto cane?» esclamò Maxim. «Non avresti sudato di più a galoppar dietro a Jasper, che a correr dietro ai pezzi di legno che
galleggiavano sull’acqua» risposi. «Dici così soltanto perché non trovi altra scusa.»
«Mia cara fanciulla, per quale ragione dovrei mendicar scuse, secondo te?»
«Ma… Non so. Senti, finiamola» dissi, stanca. «Per niente affatto, sei stata tu a
cominciare. Che cosa intendevi, dicendo che volevo trovare una scusa? Una scusa per che cosa?»
«Una scusa per non voler venire con me sulle rocce, mi figuro…»
«Ebbene? E perché credevi che non volessi scendere giù alla spiaggia?»
«Oh, Maxim, che cosa vuoi che ne sappia? Non sono mica un lettore del pensiero! So che non volevi, ecco tutto. Te lo si leggeva in faccia.» «Che cosa mi si leggeva in faccia?» «Te l’ho già detto. Che non volevi venire. Per carità, lasciamo correre. Ne ho già fino sopra i capelli, di questo battibecco.»
«Tutte le donne dicono così, quando sanno d’aver torto. E va bene, non ho voluto scendere giù. Sei contenta, ora? Non ci vado mai, vicino a quel luogo di malaugurio. E se tu avessi i ricordi che ho io, non ci vorresti andare neanche tu, e nemmeno parlarne, e nemmeno pensarvi. Ecco. Manda giù, se ti piace; e spero che sarai soddisfatta, questa volta.»
Era pallidissimo, e i suoi occhi alterati avevano quello sguardo scuro, sperduto, come quando lo avevo veduto le prime volte. Tesi la mano, e a forza gli presi la sua, tenendola stretta.
«Ti prego, Maxim, ti prego!» supplicai. «Che cosa c’è?» diss’egli, aspro. «Non voglio vederti con quella faccia. Mi fa troppo male. Ti prego, Maxim. Dimentichiamo
tutto quel che abbiamo detto. È stato un battibecco futile e senza ragione. Perdonami, amore, perdonami.»
«Avremmo dovuto rimanere in Italia» egli replicò. «Non avremmo dovuto ritornare a Manderley. Dio, che pazzia è stata quella di ritornare!»
Insofferente, urtava i tronchi nel passare, e camminava ancor più presto di prima, e dovevo correre per seguirlo, ansante, le lagrime in pelle, tirandomi dietro a strattoni il povero Jasper legato alla corda. Finalmente fummo in cima al sentiero; e vidi il ramo che si staccava verso la Valle della Felicità. Noi eravamo dunque risaliti da quella parte dove Jasper s’era ostinato ad andare.
Ora capivo perché aveva voluto prendere quel ramo di sentiero: portava a quel tratto di spiaggia che più gli era noto, e alla casetta. Era un’antica abitudine. Senza una parola attraversammo i prati, e fummo davanti alla casa. Maxim aveva il viso duro, privo d’espressione. Senza guardarmi entrò nel vestibolo, e di là nella biblioteca.
«Portate subito il tè» buttò lì nel passare a Frith, che era nel vestibolo; e chiuse la porta della libreria dietro di sé.
A stento trattenevo le lagrime. Ma Frith non doveva vedermi piangere. Avrebbe creduto che avessimo litigato, e tornato nelle stanze di servizio avrebbe annunciato a tutti: “La signora era di là nel vestibolo che piangeva. Sembra che le cose non si mettano bene”. Mi voltai in modo da nascondergli il viso; ma egli mi si avvicinò ugualmente per aiutarmi a togliere l’impermeabile. «Lo porto io di là nella stanza dei fiori, signora» disse. «Grazie, Frith» replicai, senza guardarlo. «Non è una gran bella giornata per uscire a passeggio, signora.»
«No» dissi. «Il tempo non è affatto bello.» «Il vostro fazzoletto, signora?» egli disse, raccogliendo qualcosa che era caduto a terra. «Grazie» risposi, e cacciai il fazzoletto nella tasca della gonna. Ero incerta se salire di sopra, o seguire Maxim nella biblioteca. Frith aveva portato via l’impermeabile. Quando ritornò, ero lì titubante, a mordicchiarmi le unghie, ed egli apparve sorpreso.
«C’è un bel fuoco acceso in biblioteca, adesso, signora» disse.
«Grazie, Frith.» Lentamente mi avviai verso la biblioteca. Aprii la porta ed entrai. Maxim era seduto sulla poltrona, Jasper ai suoi piedi, la vecchia cagna nella cesta. Maxim aveva posato il giornale sul bracciuolo della poltrona, ma non leggeva. Andai a inginocchiarmi accanto a lui, accostai il mio viso al suo. «Non esser più in collera con me» sussurrai. Egli mi prese il viso tra le mani, mi guardò con gli occhi stanchi,alterati. «Non sono in collera con te» disse. «Sì» replicai. «Ti ho fatto dispiacere. È lo stesso che farti andare in collera. Sei tutto ferito e dilaniato e amareggiato, dentro di te. Non posso vederti così. Ti amo tanto.»
«Davvero?» E ripetè: «Davvero?». Mi tenne stretta a sé, scrutandomi con gli occhi cupi e incerti, gli occhi di un fanciullo addolorato, di un fanciullo sgomentato. «Che cosa c’è, caro?» domandai. «Perché mi guardi così?»
Udii la porta aprirsi prima ch’egli m’avesse risposto, e ricaddi a sedere sui calcagni, fingendo di prendere un pezzo di legno da gettare sul fuoco, mentre Frith entrava, seguito da Roberto. E principiava il rito del nostro tè. Si ripeteva lo spettacolo del
giorno avanti: trasportare al punto giusto il tavolino, dispiegare la candida tovaglia, posare i piatti coi pasticcini e le torte, deporre il bollitore con l’acqua calda sulla fiammella. E Jasper, dimenando la coda, le orecchie sollevate nel piacere dell’aspettativa, non perdeva d’occhio la mia faccia. Cinque minuti buoni dovevano esser trascorsi prima che fossimo nuovamente soli, e quando guardai Maxim vidi che il suo volto aveva ripreso il color naturale; i suoi occhi non avevano più quello sguardo affaticato e sperduto, e tendeva la mano verso un panino.
«Il male è stato d’aver avuto tutta quella gente a pranzo» disse. «Quella povera Beatrice ha l’arte di urtarmi. Da bambini ci abbaruffavamo come gatti. Però le voglio tanto bene, che Dio la benedica. E questo mi ricorda, a proposito, che dobbiamo pur andare un giorno a vedere la nonna. Versami il tè, tesoro, e perdonami se sono stato un orso.»
Era passato, dunque. L’episodio era finito. Non ne avremmo parlato più. Di sopra l’orlo della tazza Maxim mi sorrise, quindi prese il giornale dal bracciuolo della poltrona. Il sorriso era la mia ricompensa. Come un buffetto sulla testa a Jasper. Bravo cane, fai la cuccia, e non darmi più fastidio, Ero di nuovo Jasper: ero tornata al posto di prima. Presi un pezzo di torta, e lo divisi tra i due cani. Non avevo alcuna voglia di mangiare, non avevo fame. Mi sentivo assai stanca, ora, d’una stanchezza che era come un torpore pesante. Guardai Maxim; ma egli leggeva il giornale, lo aveva voltato a un’altra pagina. Mi cercai in tasca un fazzoletto per pulirmi le dita, appiccicose del burro della torta; e ne trassi un minuscolo cencio orlato di merletto. Lo guardai interdetta: non era mio. Ricordai che Frith lo aveva raccolto da terra, nel vestibolo. Doveva esser caduto dalla tasca dell’impermeabile. Lo rigirai in mano. Era tutto spiegazzato, e v’erano attaccati dei minuzzoli: chissà da quanto tempo era nella tasca di quell’impermeabile… E c’era una cifra, in un angolo. Un’altra R inclinata, cui s’intrecciavano le lettere “de W.”. La R dominava le altre lettere, uno svolazzo si proiettava fin nel lino, discosto dall’orlo di merletto. Era un fazzolettino, una cosina da nulla. Doveva esser stato appallottolato, cacciato nella tasca e dimenticato. Certo ero stata io la prima persona a indossare l’impermeabile da quando il fazzoletto si trovava là. Colei che lo aveva portato era alta, snella, aveva le spalle più larghe delle mie; per me, infatti, era troppo largo e lungo, e le maniche mi ricascavano oltre i polsi. Mancava anche qualche bottone. Ella non s’era dunque curata di farli riattaccare. Se lo era buttato sulle spalle come una cappa, oppure lo portava così, aperto, le mani in tasca… C’era un segno rosso, sul fazzoletto. Un’impronta di labbra. Ella s’era strofinata le labbra col fazzoletto, poi lo aveva appallottolato e cacciato in tasca. Mi asciugai le dita in quel pezzetto di lino, e mentre così facevo notai che serbava tuttora un vago profumo. Un profumo che riconoscevo, un profumo che ricordavo. Aveva un che di sfuggente, una fragranza delicata cui non avrei saputo dare un nome. Ma io l’avevo respirata, toccata forse, quel giorno stesso.
E d’un tratto seppi che lo svanito profumo che il fazzoletto serbava era quello dei bianchi petali schiacciati d’azalea, là nella Valle della Felicità.
XI
Come spesso accadeva in quel paese di mare nella prima estate, il tempo si mantenne umido e freddo per una settimana almeno, e non scendemmo più alla spiaggia. Vedevo il mare dalla terrazza, e dai prati: grigio e poco allettante; grandi cavalloni imperversavano nella baia, oltre la punta del promontorio, sulla quale spiccava il faro. Con la fantasia li vedevo insorger alti nella piccola insenatura, e frangersi ruggendo sugli scogli, poi correre impetuosi e veloci sul lido sassoso. Se mi affacciavo sulla terrazza udivo il mùrmure del mare, basso e minaccioso. Un rumor cupo, insistente, che non cessava mai. E i gabbiani, spinti dalle intemperie, volavano più dentro terra. Roteavano bassi sulla casa, svolazzavano in ampie volute, sbattendo le ali aperte, col loro gridio acuto. Cominciavo a capire come certa gente non potesse sopportare la voce del mare. A volte aveva una lugubre nota d’arpeggio, la cui stessa persistenza -quell’eterno rotolio e rombo e sibilio -stancava, consumava i nervi. Ero contenta che le nostre stanze si trovassero a oriente, ora; almeno potevo affacciarmi alla finestra e guardare sul giardino delle rose. A volte non riuscivo a prender sonno, e alzandomi piano piano dal letto nella notte silente, arrivavo fino alla finestra, e là, appoggiata con le braccia in croce al davanzale, respiravo l’aria immota, in cui non si moveva una foglia.
Non udivo, di là, il mare inquieto, e perché non lo udivo i miei pensieri erano pieni di pace. Non mi conducevano più per quel ripido sentiero dei boschi, alla grigia spiaggia e alla casetta deserta. Non volevo pensare alla casetta. Troppo spesso già la ricordavo di giorno. Il ricordo mi rodeva ogni volta che dalla terrazza vedevo il mare. E allora, rivedevo le macchie di umidità sulle stoviglie, le ragnatele tra l’attrezzatura dei modellini di navi, e la stoffa del divano rosicchiata dai topi. Ricordavo il tamburellar della pioggia sul tetto. E anche a Ben pensavo, coi suoi occhietti azzurri acquosi e il malizioso sorriso d’idiota. Quelle cose mi turbavano, mi inquietavano. Avrei voluto dimenticarle, ma al tempo stesso volevo sapere per quale ragione mi turbavano, perché mi rendevano inquieta e infelice. C’era, in un angolo della mia mente, un pauroso furtivo seme di curiosità che cresceva, lento e implacabile, benché m’ostinassi a negarlo; e io rivivevo tutte le ansie del bimbo al quale è stato intimato: “queste cose non si discutono, sono proibite”. Non potevo dimenticar lo sguardo stravolto di Maxim, quando era apparso in cima al sentiero; non potevo dimenticare le sue parole: “Dio, che pazzia è stata quella di ritornare!”. Era stata tutta colpa mia, perché m’ero avventurata fino alla baia. Io, io avevo riaperto una via al passato. E benché Maxim si fosse rimesso e fosse tornato quello di prima, e noi insieme vivessimo la nostra vita, benché mangiassimo, dormissimo, scrivessimo lettere, andassimo in paese con la macchina, così trascorrendo ora per ora la nostra giornata, nonostante tutto ciò io sentivo che c’era tra di noi una barriera. Dall’altra parte di quella barriera Maxim camminava solo, e raggiungerlo m’era proibito. Ero diventata nervosa, timorosa che una parola sconsiderata, la piega imprevista di un discorso qualsiasi richiamasse negli occhi suoi l’espressione di quel giorno. Cominciai a paventare qualsiasi allusione al mare, poiché dal mare il discorso poteva volgere alle barche, a incidenti, a morti per annegamento… Persino Frank Crawley, un giorno che era a pranzo da noi, mi mise in orgasmo, dicendo qualcosa sulle gare a vela nella rada di Kerrith, a tre miglia distante. Non alzavo più gli occhi dal piatto, e mi pareva che un ago mi penetrasse in cuore; e invece, Maxim continuava a parlare come se nulla fosse, e non s’era accorto di nulla, mentre io, sudando freddo per l’incertezza, mi domandavo che cosa sarebbe successo, dove sarebbe andata a finire la conversazione…
Frith era uscito dopo aver servito il formaggio; ricordo che mi alzai e andai alla credenza a prenderne un altro pezzo, sebbene non ne avessi voglia, ma solo per non esser là a tavola con gli altri; e intanto, canterellavo sottovoce per non sentire quel che dicevano. Erano idee errate, naturalmente, esaltate; il mio era diventato il contegno ipersensitivo di una neuropatica, ben lontana dalla creatura normale ch’io sapevo essere. Eppure era più forte di me. Che fare? La mia timidezza, la mia goffaggine aumentavano di giorno in giorno, e quando venivano delle visite facevo la figura di una stupida incapace di dir quattro parole.
Durante quelle prime settimane molte persone, vicini nostri della contea, vennero a farci visita; e il riceverli, i saluti, lo svolgersi di quella mezz’ora di prammatica erano una prova assai più dura di quanto non avrei creduto, sempre per la mia nuova paura che qualcuno avviasse il discorso verso quel tale terreno proibito. Ah! La tortura di quel rumor di ruote sulla ghiaia, di quello scampanellio! Il primo mio impeto era sempre di rifugiarmi nella mia stanza. E poi, l’affrettato picchiettar del piumino della cipria sul naso, la ravviatina alla svelta ai capelli; e l’inevitabile colpetto alla porta, e il biglietto di visita sul piatto d’argento…
«Va bene, Scendo subito.» Il ticchettìo delle mie scarpette sulle scale e sul marmo del vestibolo; la porta della biblioteca che s’apre o, peggio ancora, la porta di quella lunga sala fredda, senza vita; e la signora sconosciuta seduta lì; o sono due, a volte, marito e moglie. «Come state? Mi rincresce, Maxim è in giardino, non so dove. Frith è andato a cercarlo.» «Era ora che venissimo a porgere i nostri omaggi alla sposa.»
Una risatina, una piccola ondata di chiacchiericcio, una pausa, un’occhiata in giro.
«Manderley è sempre un gran bel soggiorno. Vi piace, non è vero?»
«Oh, sì, certo…» E nella mia timidezza, nel mio desiderio di compiacere chiunque fosse, mi lasciavo sfuggir quelle espressioni da collegio: parole di cui non mi servivo se non in momenti simili. “Oh, fantastico”; e, “Oh, straordinario”; e “assolutamente”; e “senza confronti”; credo persino d’aver detto, a una vecchia signora, che mi guardava con l’occhialino, “cincin”. Il mio sollievo all’arrivo di Maxim era sempre amareggiato dalla paura che qualcuno avanzasse una frase indiscreta, e subito ammutolivo, il sorriso cucito sulle labbra, le mani inerti in grembo. Allora gli ospiti si volgevano a Maxim, e discorrevano di persone o di luoghi che non conoscevo; e ogni tanto mi sentivo addosso i loro sguardi, dubitosi e alquanto stupiti.
Me li figuravo, che appena andati via facevano i commenti, tra di loro. “Caro mio, che pappa fredda! Ha appena aperto bocca”; e poi, la frase udita per la prima volta da Beatrice, che da allora in poi mi aveva assillato, la frase che leggevo in tutti gli occhi,su tutte le labbra: “È così diversa da Rebecca”.
A volte carpivo briciole d’informazioni, che aggiungevo alla mia provvista segreta.
Una parola sfuggita, una domanda, un’osservazione proferita a caso. E se Maxim non era presente, mi davano un piacere furtivo, un poco morboso; colpevole esperienza acquisita al buio… Restituivo le visite, ché Maxim era assai diligente in quelle cose e non me le risparmiava; e se non veniva con me, mi toccava affrontar la formalità da sola. Cadevano pause nella conversazione, mentre io mi frugavo il cervello, in cerca di qualcosa da dire. «Riceverete molto a Manderley, signora de Winter?» mi diceva qualcuno, e io rispondevo: «Non lo so, veramente Maxim non ha fatto progetti, finora». «Certo, è ancora presto. Gli altri anni, la casa era sempre piena di gente, però!» Altra pausa. «Gente che veniva fin da Londra, sicuro. Davano feste spettacolose.» Ed io: «Già. Così ho sentito». Altra pausa, e poi, il tono sommesso che si usa in chiesa, oppure quando si parla di morti. «Lei era straordinariamente popolare. Una personalità così spiccata.» «Sì» dicevo io. «Sì, infatti…» E dopo un momento, sollevato il guanto davo un’occhiata all’orologio: «Mi dispiace, ma è ora che me ne vada. Sono già le quattro passate». «Non vi trattenete per il tè? Lo prendiamo alle quattro e un quarto, di solito.»
«No… No davvero, vi ringrazio infinitamente. Ho promesso a Maxim…» E la mia frase restava a mezz’aria, ma il significato era chiaro. E ci alzavamo tutti, ben sapendo che io non m’illudevo su quell’invito al tè, né l’ospite credeva al pretesto d’una mia promessa a Maxim. A volte mi domandavo che cosa sarebbe accaduto se si fossero mandate a monte le convenienze, se dopo essere salita in automobile e aver salutato con un cenno della mano la padrona di casa ferma sulla soglia, tutt’a un tratto avessi riaperto lo sportello dicendo: “A pensarci bene, non vado a casa. Torniamo in salotto e sediamoci lì. Se volete mi fermo a cena e mi trattengo anche stanotte”. Se davvero le convenienze e le buone maniere avessero ceduto di fronte alla sorpresa, richiamando sul volto raggelato un sorriso inatteso! “Ma certamente! Che buona idea la vostra!” Avessi trovato tanto coraggio da fare una proposta simile! E invece, lo sportello sbatteva, la macchina partiva brontolando giù per la stradetta cosparsa di ghiaia, e la signora se ne tornava in casa con un sospiro di sollievo, deponendo la maschera. Fu la moglie del vescovo della cattedrale d’una piccola città vicina a dirmi: «Vostro marito non lascerà mica cadere l’uso del ballo in costume a Manderley, no? Uno spettacolo così bello, non lo dimenticherò mai». Dovetti sorridere come se sapessi benissimo di che si trattava. «Ancora non abbiamo deciso nulla. Ci son state tante cose da sistemare, da discutere.» «Oh, m’immagino. Ma spero che l’usanza non vada perduta. Dovete cercare voi di persuadere vostro marito. L’anno scorso il ballo non c’è stato, ed era naturale. Ma ricordo che due anni fa, mio marito ed io eravamo invitati, ed è stata una cosa deliziosa. Manderley si presta tanto, a feste di quel genere. Il gran vestibolo era una meraviglia. Ci si ballava; la musica stava sulla galleria. Tutto così in carattere. Certo, ci sarà voluta una gran fatica per organizzare una serata simile, ma tutti l’hanno tanto apprezzata.»
«Sì» risposi. «Sì, bisogna che ne parli a Maxim.» La mia mente andava agli scomparti etichettati della scrivania nella stanza di soggiorno, e mi figuravo pile e pile di biglietti d’invito, e la lunghissima lista dei nomi e degli indirizzi; vedevo una signora seduta lì, che segnava con una V i nomi delle persone da invitarsi, e a uno a uno prendeva i biglietti, immergeva la penna e scriveva, la mano svelta e decisa, con la sua calligrafia lunga e obliqua.
«Un’estate siamo anche stati invitati a una festa in giardino» riprese la moglie del vescovo. «Bisogna dire che le cose le sanno fare, a Manderley. Il giardino era tutto in fiore. Una giornata stupenda, ricordo. Il tè era servito a tanti tavolini, in mezzo ai rosai; un’idea originale. Certo, lei era una donna veramente abile…» La signora s’interruppe, arrossì, temendo d’esser stata poco delicata; ma per risparmiarle l’imbarazzo mi affrettai ad assentire, e udii la mia voce affermare, ardita, impavida: «Rebecca dev’esser stata una donna meravigliosa». Avevo pronunciato quel nome, finalmente? Non credevo ai miei orecchi. Attesi. Che sarebbe accaduto? Avevo detto quel nome. L’avevo detto ad alta voce: Rebecca. Fu un immenso sollievo. Come se avessi preso una medicina, e mi fossi liberata di un dolore intollerabile. Rebecca. L’avevo detto ad alta voce.
Ignoro se la moglie del vescovo scorgesse il rossore sul mio viso; ella continuava a chiacchierare, e io l’ascoltavo avidamente, come se tendessi l’orecchio a una porta chiusa.
«Dunque l’avete conosciuta?» ella mi domandò, e quando scossi il capo esitò un momento, tastando terreno. «Noi non eravamo in rapporti d’amicizia con lei, capite, mio marito è stato assegnato a questa sede soltanto quattro anni fa, però fummo invitati al ballo e alla festa in giardino. Abbiamo anche cenato a Manderley, un inverno. Sì, era una creatura incantevole. Così piena di vita.» «Sembra che facesse tutto tanto bene» dissi, con quel tanto d’indifferenza nella voce che valesse a mostrarmi disinvolta, mentre giocherellavo con un guanto. «Non si trova spesso una donna che sia così intelligente e bella e amante dello sport.»
«No, certo no» rispose la signora. «Essa era piena di qualità, bisogna riconoscerlo. La vedo ancora, la sera del ballo, che salutava tutti a piedi dello scalone, con quella nuvola di capelli neri che faceva risaltare la sua carnagione bianchissima; e quel costume, tutto bianco, le stava così bene. Sì, era veramente bella.» «Era lei che dirigeva la casa» dissi, sorridendo, come ad affermare “Non sono affatto imbarazzata, parlo spesso di lei”. «Chissà quanto tempo, e quanto impegno ci sarà voluto. Per conto mio, preferisco lasciar fare alla governante.»
«Oh, beh, non si può mica far tutto noi. E voi siete molto giovane, non è vero? Col tempo, col tempo, quando avrete preso confidenza con l’ambiente… E poi, avete la vostra piccola occupazione, mi sembra? Mi hanno detto che vi piace disegnare.»
«Oh, quello…» risposi. «Non so davvero se conti molto.»
«È simpatico, aver disposizione per la pittura» disse la signora. «Non tutti son capaci di disegnare. Dovete insistere. Manderley dev’essere pieno di begli angolini che si prestano a graziosi quadretti.»
«Sì, oh, sì…» Quelle parole mi deprimevano, procurandomi una subitanea visione di una me stessa che viaggiava per i prati con un seggiolino pieghevole e una scatola di matite sotto il braccio, e la mia “piccola occupazione”, come la signora l’aveva definita, sotto l’altro. «Giocate al tennis e al golf? Andate a cavallo? E a caccia?» ella mi domandava.
«No» risposi. «Niente di questo genere. Mi piace molto camminare» aggiunsi, a render completa la delusione.
«L’esercizio più sano che ci sia al mondo» ella replicò, facendo boccuccia. «Mio marito e io camminiamo molto.» Li vedevo camminare in tondo per la cattedrale, il vescovo col cappello ecclesiastico e le ghette, e la consorte a braccetto. Ella si mise a raccontare di un viaggio a piedi intrapreso anni avanti, durante una vacanza, nei Pennini, dove avevano fatto la media di venti miglia al giorno. Io assentivo, sorridendo garbatamente, domandandomi se i Pennini non fossero qualcosa di simile alle Ande, e ricordando poi che erano quelle catene di colline segnate con una linea ombreggiata nel mezzo di un’Inghilterra rosea, sul mio atlante scolastico. E vedevo il vescovo camminar su e giù per i monti, con il cappello da prete e le ghette.
L’inevitabile pausa, l’occhiatina all’orologio, inutile poiché la pendola batteva le quattro in quel momento; e m’alzavo da sedere. «Sono stata ben contenta d’avervi trovata in casa, signora. Spero verrete a trovarci.» «Con piacere. Purtroppo il vescovo è sempre molto occupato. Ricordatemi a vostro marito, e chiedetegli di rimettere in onore l’usanza del ballo.» «Sì, non mancherò.» Mentivo, fingendo di essere al correnti; e tornando a casa, rincantucciata nell’angolo della macchina, rosicchiandomi l’unghia del pollice, vedevo il salone a Manderley gremito di gente in costume, udivo il brusio, il chiacchiericcio, le risate della folla, i musicanti sulla galleria; la cena doveva certo esser preparata nella sala ad arcate, lunghi tavoli contro le pareti; e vedevo Maxim ai piedi dello scalone, che sorridendo porgeva la mano a chi entrava, e ogni tanto si volgeva a una figura che gli stava a fianco, capelli neri che incorniciavano un volto bianco; Una che con l’occhio pronto badava a che nulla mancasse agli ospiti, che si voltava a mormorare un ordine a un domestico; una che non era mai a corto d’argomenti, mai sgraziata; una che ballando si lasciava dietro una scia di profumo come un’azalea bianca.
“Riceverete molto a Manderley, signora de Winter?” Riudivo la voce d’una signora cui avevo fatto visita, che abitava dall’altra parte di Kerrith; e rivedevo i suoi occhi, dubitosi, severi, che notavano i miei vestiti da capo a piedi, chiedendomi forse, con quella rapida occhiata verso il basso che è l’omaggio a tutte le spose, se promettevo di aver presto un bambino. Non avevo alcun desiderio di rivederla. Non avevo desiderio di rivedere nessuno, di quella gente. Se la godevano a criticare la mia faccia, i miei modi, il mio aspetto, se la godevano a osservare come ci comportavamo Maxim e io quando eravamo insieme, se avevamo l’aria innamorata; e gongolavano, se tornando a casa loro potevano dire “Quanta differenza dai tempi d’una volta…”. Venivano da noi, perché volevano fare il confronto fra me e Rebecca…
No, non avrei più restituito quelle visite, decisi un giorno; lo avrei detto a Maxim. Poco m’importava se mi giudicassero sgarbata e poco civile. Dicessero pure che ero maleducata. “Non c’è da stupirsene” avrebbero detto. “Dopo tutto, chi è?” E una risata, e una scrollata di spalle. “Ma che dite, davvero? Gli uomini sono straordinari! Maxim, proprio lui, che faceva tanto il difficile! Ma come ha potuto, dopo Rebecca?”
Che m’importava? Dicessero pure quel che volevano. Allorché la macchina passò davanti alla casina presso i cancelli, mi protesi in avanti, a sorridere alla donna che abitava là. Stava raccogliendo dei fiori, nelle aiuole al principio del viale; udendo la macchina si raddrizzò, ma non vide il mio sorriso. Le feci un cenno con la mano, ed ella mi fissò attonita. Forse non sapeva nemmeno chi ero. Tornai ad appoggiarmi ai cuscini. E la macchina proseguì per il viale.
Mentre svoltavamo in una delle strette curve vidi un uomo che camminava, pochi passi avanti. Era Frank Crawley, l’agente. Si fermò udendo la macchina, e il conducente rallentò. Vedendomi, Crawley si tolse il cappello e mi sorrise. Pareva lieto d’incontrarmi. Gli resi il sorriso, contenta che fosse lieto di vedermi. M’era simpatico. Non lo trovavo noioso come Beatrice. Forse perché io stessa ero noiosa. Eravamo noiosi tutti e due. Non trovavamo mai una parola da dire di nostra iniziativa. Da simile a simile…
Picchiai sul vetro, e dissi al conducente di fermare. «Scendo e faccio la strada col signor Crawley.» Crawley m’aprì lo sportello. «Siete stata a far visite, signora de Winter?»
«Sì, Frank.» Lo chiamavo Frank perché Maxim faceva così, ma lui mi chiamava sempre signora de Winter. Era nel suo carattere. Fossimo stati gettati assieme su un’isola deserta e avessimo dovuto trascorrervi il resto dei nostri giorni, per lui io sarei stata sempre la signora de Winter.
«Sono stata a far visita alla moglie del vescovo» dissi.
«Il vescovo era uscito, ma ho trovato la signora in casa. Lei e il vescovo camminano molto volentieri. Qualche volta hanno fatto sino a venti miglia al giorno, nei Pennini.»
«Non conosco quella legione» disse Crawley. «Dicono che i dintorni siano molto belli. Avevo uno zio che ci abitava.»
Proprio il genere d’osservazioni che soleva fare Frank Crawley. Senza fantasia, convenzionale, correttissima. «La moglie del vescovo vorrebbe sapere quand’è che daremo un ballo in costume a Manderley» dissi, osservandolo con la coda dell’occhio. «Mi ha raccontato che è stata all’ultimo, e che si è divertita un mondo. Non sapevo che si dessero dei balli in costume da queste parti, Frank.»
Egli esitò un momento prima di replicare. Appariva un poco disorientato. «Oh, sì» disse finalmente. «Il ballo di Manderley si dava una volta all’anno, generalmente. E l’intera contea era invitata. E anche molta gente di Londra. Un vero avvenimento.»
«Ci sarà voluta molta fatica per organizzarlo» dissi. «Oh, sì» egli replicò.
«Immagino che fosse fatica particolare di Rebecca» buttai lì come per caso.
Guardavo diritto avanti a me, verso il viale, ma non mi sfuggivano i suoi occhi, che
mi osservavano come s’egli volesse leggermi in cuore.
«Lavoravamo tutti quanti con buona volontà» disse tranquillamente.
C’era, nel modo come parlava, un riserbo che aveva un che di buffo, una certa timidezza che mi ricordava la mia. Mi domandai, d’un tratto, se per caso egli non fosse stato innamorato di Rebecca. La sua voce era proprio la voce ch’io avrei usato se mi fossi trovata nei suoi panni. Quell’idea mi schiudeva tutto un campo di visioni nuove. Frank Crawley, così timido, così, per bene, non avrebbe rivelato il suo amore a nessuno, a Rebecca meno che a tutti.
«Ho ben paura che io non sarei di grande aiuto, se ci fosse il ballo» dissi. «Non ho alcuna disposizione per organizzare checché sia al mondo.» «Non ci sarebbe alcun bisogno che voi faceste qualcosa» egli replicò. «La vostra parte sarebbe quella di essere voi stessa, e far da ornamento.» «Questo è molto garbato da parte vostra, Frank» dissi «ma temo che non sarei capace di tanto.» «Io credo che ci riuscireste benissimo, invece.» Caro Frank, sempre tutto delicato e riguardoso. Quasi quasi gli credevo. Ma non mi aveva illuso, intanto. «Parlerete a Maxim del ballo?» gli domandai. «Perché non glie ne parlate voi?» egli domandò a sua volta.
«No… No, non voglio essere io a parlargliene.» Tacemmo, proseguendo su per il viale. Ora che avevo infranto la mia riluttanza pronunziando il nome di Rebecca, prima con là moglie del vescovo e poi con Frank, mi sentivo incalzata a continuare. Mi dava una curiosa soddisfazione, agiva su me come uno stimolante. Un momento ancora, e non avrei potuto fare a meno di pronunciarlo.
«Giorni fa sono stata giù alla spiaggia» cominciai. «Là dove ci sono gli scogli. Jasper era diventato furioso, e non la finiva di abbaiare a un poveretto con certi occhi d’idiota.»
«Volete dire Ben, forse?» La voce di Frank era tornata naturale. «È sempre lì chetraffica, sulla spiaggia. È un innocuo, non dovete aver paura di lui. Non farebbe male a una mosca.»
«Oh, non ho mica avuto paura!» canterellai piano, per un momento, tanto per farmi coraggio. «Ma quella casetta ha tutta l’aria di cascare a pezzi» ripresi, leggermente. «Ho dovuto entrarci, per cercare un pezzetto di corda da legare Jasper. Il vasellame è tutto muffito, e i libri sono rovinati. Perché non ci si mette rimedio? È un vero peccato.»
Sapevo ch’egli non avrebbe risposto subito. Si curvò a riallacciarsi una scarpa. Io, intanto, fingevo di studiare una foglia, su un cespuglio.
«Se Maxim volesse farci qualche riparazione me lo avrebbe già detto» disse Frank, sempre armeggiando con la scarpa.
«È tutta roba che apparteneva a Rebecca?» interrogai.
«Sì.»
Buttai via la foglia e ne spiccai un’altra, rigirandola in mano. «A che cosa le serviva, quella casetta?» domandai. «M’è sembrata fornita di tutto il necessario. A vederla da fuori, avevo creduto che fosse un ripostiglio di barche.»
«Lo era, in origine.» La sua voce era artificiosa, stentata; il tono di chi continua malvolentieri una conversazione. «Poi… poi essa l’ha trasformata così, ci ha fatto portare i mobili, e le stoviglie.» Trovavo strano che Frank dicesse “essa”. Non, come avrei creduto, Rebecca o la signora de Winter. «Ci andava spesso?» domandai. «Sì. Oh, sì, parecchio. Merende al chiaro di luna, e… cose del genere.»
Camminavamo a fianco a fianco. Io seguitavo a canterellare piano. «Che bellezza!» dissi poi con slancio. «Dev’esser divertente, una merenda al chiaro di luna. E voi, ci siete mai andato?»
«Un paio di volte…» Evitai di rilevare quel suo tono sommesso, come riluttante a parlar di quelle cose. «Perché la boa è ancora là, in quella piccola rada?» «Ci si amarrava il battello.» «Quale battello?» «Il suo.»
Ero in preda a una strana agitazione. Non potevo fare a meno di seguitare quell’interrogatorio. Frank non voleva parlare, lo sentivo; ma sebbene mi facesse pena, e avessi quasi orrore di me, mi sentivo spinta a incalzarlo, e incapace di tacere.
«E che cosa ne è poi stato? Era il battello col quale essa è annegata?»
«Sì» rispose Frank. «Si è capovolto ed è affondato. Ed essa è stata gettata in mare.» «Quanto era grande, quel battello?»
«Era tre tonnellate all’incirca. Aveva anche una piccola cabina.»
«E come mai si è capovolto?» «Il tempo può essere assai tempestoso, nella baia.» Pensavo a quel mare livido, chiazzato di schiuma, che infuriava oltre il promontorio. Forse una ventata era giunta improvvisa, da una valle tra le colline, aveva investito il piccolo battello, e la bianca vela non aveva resistito alla bufera.
«Non è stato possibile correre in aiuto?» domandai. «Nessuno ha visto; nessuno sapeva che essa fosse andata in mare.»
Ebbi cura di non guardarlo. Egli avrebbe potuto leggermi la sorpresa in viso. Avevo creduto sempre che la disgrazia fosse accaduta durante una regata a vela, che ci fossero altre barche, venute da Kerrith, e una folla che assistesse alla gara, dall’alto degli scogli… Ignoravo che ella si fosse trovata sola. «Ma a casa dovevano pur averlo saputo, no?» «No. Essa andava sovente sola in mare. Tornava poi a qualsiasi ora della notte, e dormiva nella casetta.» «Non doveva essere impressionabile!» «Impressionabile? Oh no, non c’era niente al mondo che la impressionasse.» «E Maxim… la lasciava andar sola, così?» Egli esitò un minuto, poi: «Non so» rispose, brusco. Intuivo ch’egli non voleva tradire qualcuno: Maxim, o Rebecca, o forse se stesso. Certo il suo contegno era curioso, e non sapevo che pensarne. «Allora, avrà tentato di nuotare, dopo che il battello s’era capovolto, e così si sarà annegata?» «È così» replicò Frank.
Vedevo il piccolo battello rullare, impennarsi, e l’acqua sommergere il timone; e le vele sbattevano orribilmente, in quella furia di vento. La notte doveva esser nera, al largo; e quanto lontana doveva sembrare la riva, a chi nuotasse laggiù, tra le acque in tempesta… «Dopo quanto tempo fu trovata?» domandai. «Dopo due mesi all’incirca.»
Due mesi. Avevo creduto sempre che gli annegati si trovassero dopo due giorni. La marea li rigettava a riva… «E dove l’hanno trovata?»
«Nei pressi di Edgecombe, a una quarantina di miglia da qui.»
Una volta ero stata a Edgecombe, durante le vacanze; avevo sette anni, allora. Era una cittadina cospicua, con una gettata, E c’erano gli asinelli. Mi rivedevo in groppa a un asinello, sulle dune sabbiose. «Ma come hanno potuto riconoscerla, dopo due mesi?» domandai. Perché Frank sostava dopo ogni frase, come se soppesasse le sue parole? Ella gli era stata cara, forse? E la sua morte era stata un dolore tanto grave per lui? «Fu Maxim che andò a Edgecombe a identificarla» egli disse.
Tutt’a un tratto non ebbi più voglia di interrogarlo oltre. Mi sentivo nauseata di me stessa, nauseata e disgustata. Mi pareva di essere un curioso sull’orlo d’una calca, in mezzo alla quale c’era un corpo esamine, a terra. O un povero in un casamento popolare, dove era morto qualcuno, che chiedeva di vedere il cadavere. Mi ero odiosa. Quelle mie domande erano indegne d’una persona per bene. Frank Crawley doveva disprezzarmi. «Dev’essere stata una cosa terribile per voialtri tutti» dissi precipitosamente. «E non vi deve far piacere sentirvela ricordare. Voleva soltanto sapere se si poteva far qualcosa per quella casetta; nient’altro. Rincresce, vedere i mobili guastati così dall’umidità.» Egli non replicò. Ero accaldata, stanca. Egli doveva aver sentito come non fosse l’interesse per la casina deserta che mi aveva ispirato tutte quelle domande; e ora, il suo silenzio significava ch’egli mi disapprovava. La nostra era stata un’amicizia pacata, che aveva fatto bene a entrambi. Avevo sentito in lui un alleato. Forse avevo distrutto tutto ciò, e mai più io sarei stata la stessa per lui.
«Com’è lunga questa strada» dissi. «Mi ricorda il sentiero della foresta, in unafiaba di Grimm, dove il principe smarrisce la via, non so se ricordate? È sempre più lunga di quanto uno non crede, e gli alberi sono così scuri, così fitti.» «Sì, non è una strada comune.» Dal tono sentivo ch’egli stava tuttora sulle sue, quasi s’aspettasse un’altra domanda ancora. Era sorta tra noi una barriera che non era più possibile ignorare. A costo di coprirmi di obbrobrio, qualcosa bisognava pur fare…
«Frank» dissi, buttandomi allo sbaraglio «lo so che cosa pensate. Non potete capire perché io vi abbia fatto tutte queste domande, proprio ora. Credete che la mia sia una curiosità morbosa, e poco simpatica. Non è così, ve lo giuro. Soltanto, ci sonomomenti che… che mi trovo in una tale posizione d’inferiorità! È così strano per me, ch’io mi trovi a vivere qui, a Manderley. Non è l’ambiente nel quale sono stata educata. Quando restituisco una visita, come oggi, so “che la gente mi studia dalla testa ai piedi, e si domanda che razza di riuscita farò. Mi par di sentir dire: “Ma che cosa vedrà Maxim in quella donna?”. E poi, Frank, comincio a dubitare anch’io, e m’assale un sentimento di paura, una vera ossessione… penso che non avrei mai dovuto sposare Maxim, che non raggiungeremo mai la felicità. Capite, sento che tutte le persone che mi vedono per la prima volta hanno la stessa idea…: Quanto è diversa da Kebecca!» Mi fermai, ansante, già un poco vergognosa del mio sfogo, con l’impressione di aver rotto ormai per davvero i ponti dietro di me.
«Signora de Winter, vi prego, non pensate a cose simili» disse Frank premuroso, e aveva l’aria oltremodo turbata. «Per conto mio, vi accerto che non potete figurarviquanto io sia contento che abbiate sposato Maxim. È un fatto che muterà la sua vita. Sono convinto che voi farete un’ottima riuscia. Da un mio punto di vista trovo che è un vero sollievo, è delizioso trovare una persona come voi che non è interamente… hm…» egli arrossì, cercando la parola giusta «non interamente au fait, diciamo, con l’ambiente di Manderley. E se le persone che incontrate vi dànno l’impressione di criticarvi, ebbene… è una cosa che non torna affatto a loro onore. Io per conto mio non ho mai sentito una parola di critica, ma se accadesse, vi accerto che avrei cura a che non succedesse mai più.» «Voi siete molto gentile, Frank» replicai «e quel che dite mi è di grandissimo aiuto. Devo confessare che sono stata molto sciocca. Io non sono una donna socievole, non ho mai vissuto in ambienti mondani, e non posso fare a meno di ripetermi continuamente come doveva essere Manderley… prima, quando c’era qualcuno che era nato ed educato per starci, che faceva tutto naturalmente e senza sforzi. E ogni giorno mi rendo conto che tutte le cose che mi mancano, disinvoltura, grazia, bellezza, intelligenza, spirito -oh, tutte le qualità che più importano in una donna – ebbene, essa le possedeva. È inutile, Frank, è inutile…»
Frank taceva. Ma non smetteva quell’aria ansiosa, preoccupata. Cavò il fazzoletto e si soffiò il naso. «Non dovete parlare così» disse. «Perché no? E’ la verità.»
«Voi avete qualità che sono altrettanto importanti, anzi, lo sono assai di più. Forse è ardito da parte mia, che io dica così, perché non vi conosco molto bene. Io sono uno scapolo, e non m’intendo molto di donne, faccio una vita tranquilla, qui a Manderley, e voi lo sapete; ma oserei dire che bontà, e modestia, e sincerità… sono qualità che per un uomo, per un marito valgono più che tutto lo spirito e tutte le bellezze del mondo!» Appariva oltremodo agitato. Tornò a soffiarsi il naso. Vedevo che lo avevo commosso assai più di quanto non fossi commossa io stessa; quella scoperta mi diede un senso di superiorità. Perché s’era agitato tanto? Dopo tutto, non avevo poi detto gran cosa. Avevo soltanto confessato che l’idea d’aver preso il posto di Rebecca mi dava un senso d’inferiorità. Ed ella doveva pur aver avuto quelle qualità ch’egli mi prospettava come mie. Con tutte le amicizie che aveva, con l’immensa popolarità di cui godeva, ella doveva essere stata buona e sincera. Quanto alla modestia, non ero ben sicura che cosa egli intendesse dire. Era una parola che non avevo mai capito bene. Avevo sempre immaginato che fosse una specie di paura d’incontrar qualcuno mentre s’andava in camera da bagno…
Povero Frank! E Beatrice me lo aveva descritto come un uomo privo di fantasia, che non sapeva dir quattro parole in croce.
«Ebbene» dissi, alquanto imbarazzata «non so se sia poi vero… Non credo d’essere molto buona, né particolarmente sincera, e quanto alla modestia, non mi sembra che ci siano molte altre virtù ch’io abbia avuto occasione di praticar tanto. Però riconosco che quel matrimonio così tra capo e collo, dopo esser stati soli insieme in quell’albergo a Monte Carlo, non era precisamente un esempio di modestia, ma voi forse non ci farete caso, a cose simili?»
«Mia cara signora, non crederete mica ch’io abbia pensato per un momento solo, che il vostro incontro laggiù non fosse interamente corretto?» «No, oh no» risposi gravemente. Forse lo avevo scandalizzato. E che espressione tutta sua, quell’ “interamente corretto”! Subito la mente correva a quelle cose che dovevano essere “interamente scorrette”. «Sono sicuro» egli cominciò, ed esitò, ancora turbato «sono sicuro che se Maxim sapesse di questi vostri pensieri, ne proverebbe un gran dispiacere. Non credo ne abbia la minima idea.» «Non gli direte nulla?» mi affrettai a dire. «No, neppur per sogno, per chi mi prendete? Ma vedete, signora de Winter, io conosco bene Maxim, e l’ho visto in molti… molti stati d’animo. Se mai egli sospettasse che voi vi affannate per… sì… per il passato, ciò lo angusterebbe più d’ogni cosa al mondo. Ve lo accerto io. Adesso ha l’aria di star benissimo, ma la signora Lacy aveva ben ragione, l’altro giorno, quando diceva che era stato sull’orlo di un esaurimento nervoso… anche se non è stato molto delicato ricordarlo proprio in presenza sua. Ecco perché voi gli fate tanto bene. Siete giovane e fresca… e piena di buon senso, non avete nulla a che vedere con tutto quel che è stato. Dimenticate, cara signora, dimenticate, come ha fatto lui, grazie al cielo, e tutti noi. Nessuno di noi ha voglia di rievocare il passato. E Maxim meno di tutti. E non spetta che a voi, distrarci da quel passato. Non farcelo sentire ancora.» Egli aveva ragione. Caro, buon Frank, amico, alleato mio.
Ero stata egoista, ipersensibile, martire del mio complesso d’inferiorità. «Avrei dovuto parlarvi prima, di queste cose» dissi.
«Vorrei che l’aveste fatto» diss’egli. «Vi sareste risparmiata qualche pena.»
«Ora mi sento più felice. Molto più felice. E voi mi sarete amico, non è vero,
Frank, qualsiasi cosa accada?»
«Sì, lo sarò» egli replicò.
Eravamo usciti dal buio cammino tra i boschi; rivedevamo la luce. I rododendri incombevano su di noi. Presto la loro ora sarebbe giunta alla fine. Già la loro fioritura appariva un poco malata, presso alla decadenza. Col mese venturo, i petali sarebbero caduti ad uno ad uno dai visi mostruosi, e i giardinieri li avrebbero spazzati via. Era una bellezza fuggevole, destinata a non durare a lungo. «Frank!» dissi. «Prima che terminiamo questo discorso, e per sempre, diciamo, volete promettermi di rispondere la verità, se vi rivolgo una domanda?» Egli si fermò guardandomi un poco insospettito. «Questo è un tranello» disse. «Potreste domandarmi qualcosa a cui non fossi in grado di rispondere. Se fosse una domanda impossibile?»
«No. Non è una domanda impossibile. Niente di personale, né d’intimo.» «Ebbene, farò quel che posso.» Ci eravamo lasciati dietro la gran curva del viale, e Manderley era di fronte a noi, sereno, pacifico nella corona dei prati, e ancora una volta mi affascinava la sua perfetta simmetria, la sua grazia, la sua grande semplicità. Il sole giocava nei vetri delle bifore traendone riflessi, e le mura di pietra, là dove sì avviticchiavano i licheni, avevano un color caldo, come di una ruggine antica. Una soffice colonna di fumo saliva da un comignolo. Mi mordicchiavo l’unghia del pollice, osservando Frank con la coda dell’occhio.
«Ditemi» e la mia voce era indifferente, noncurante «ditemi: Rebecca era molto bella?» Frank attese un momento, e non potevo vederlo in viso. Guardava altrove, verso la casa. «Sì» disse lentamente «sì; credo che sia stata la più bella creatura ch’io abbia mai visto in vita mia.»
Salimmo la gradinata fino al vestibolo, e subito suonai per far portare il tè.
XII
La signora Danvers faceva vita piuttosto ritirata, e io la vedevo di rado. Mi chiamava bensì al telefono ogni giorno, quando ero nella stanza di soggiorno, e sottometteva alla mia approvazione la lista delle vivande, ma era una questione di forma, e i nostri rapporti si fermavano lì. Aveva assunto una cameriera per il mio servizio particolare; una buona ragazza, tranquilla, educata, figlia di povera gente della fattoria. Si chiamava Clarice; grazie al cielo non era mai stata a servizio, e non si dava delle arie che mi mettessero soggezione. Credo, anzi, che fosse l’unica persona in tutta la casa cui io incutevo “rispetto. Per lei ero la padrona, ero la signora de Winter. I pettegolezzi altrui non la impressionavano punto. Essendo stata allevata da una zia che viveva nei dintorni, a una quindicina di miglia distante, e tornata solo da poco, in certo senso Manderley le riusciva nuovo quanto a me. Con lei mi sentivo a mio agio. Non avevo timore di dirle: «Oh, Clarice, vorreste rammendarmi questa calza?».
Alice, la cameriera di casa, era molto altezzosa. Preferivo toglier di soppiatto dai cassetti le mie camicie da giorno e da notte, e rammendarmele da sola, piuttosto che chiedere a lei. L’avevo sorpresa una volta con una mia camicia sul braccio, a esaminarne il tessuto ordinario, il merlettino allo scollo. Non dimenticherò mai la sua espressione. Pareva quasi scandalizzata, come ne andasse di mezzo il suo prestigio personale. Fino allora, non m’ero mai preoccupata troppo della mia biancheria. Purché fosse pulita e in ordine, non mi pareva che la qualità del tessuto e l’esistenza o meno del merletto avessero grande importanza. Le spose di cui si leggeva nei romanzi possedevano dei corredi con dozzine di capi, e io non ci avevo mai pensato. La faccia di Alice era stata una severa lezione per me. Mi affrettai a scrivere a una ditta di Londra, chiedendo un catalogo di biancheria fine. Ma quando ebbi scelto quel che mi occorreva, Alice non era più al mio servizio e Clarice aveva preso il suo posto. E comperare della biancheria nuova per Clarice soltanto pareva una spesa inutile, tanto che riposi il catalogo in un cassetto, e non scrissi mai a Londra. Pensavo, a volte, se Alice avesse raccontato agli altri della mia biancheria, e se ciò non fosse diventato un argomento di conversazione nelle stanze di servizio, qualcosa di molto arrischiato, di cui si parlottava a bassa voce quando non erano presenti gli uomini. Alice era troppo altera per trarne motivo di scherzo. Frasi come “Mi raccomando quella camicia…” non sarebbero mai corse tra lei e Frith, per esempio.
No, la mia biancheria personale era un capo d’accusa assai più grave. Quasi una ragione per divorziare, sorpresa in camera… In ogni modo, respirai quando Alice cedette il posto a Clarice. Clarice non avrebbe mai saputo discernere un merletto vero da un’imitazione. La signora Danvers era stata molto oculata, nell’assumerla per me. Doveva aver pensato che eravamo fatte l’una per l’altra. Ora ch’io sapevo la causa dell’avversione e del risentimento suo verso di me, mi sentivo un po’ più tranquilla. Sapevo che non odiava tanto me, quanto ciò che rappresentavo. Chiunque avesse presso il posto di Rebecca le avrebbe ispirato gli stessi sentimenti. Così almeno avevo capito dai discorsi di Beatrice, quel giorno che era stata a pranzo da noi.
«Credevo sapeste» ella aveva detto. «Essa adorava Rebecca; è la vera parola…»
Quelle parole m’avevano ferito, allora. Era stato un colpo inaspettato. Ma ripensandoci, non avevo più paura della signora Danvers come ai primi giorni. Cominciava financo a farmi pena. Doveva sentirsi male ogni volta che mi chiamava “signora de Winter”; ogni mattina, quando mi parlava al telefono interno, e io rispondevo “Sì, signora Danvers” ella doveva rievocare un’altra voce. Quando, passando per le stanze, vedeva tracce di me, un berretto sul sedile del vano della finestra, la borsa col lavoro a maglia su una seggiola, certo la sua mente correva a un’altra, che era stata là prima di me. Io non avevo mai conosciuto Rebecca… Lei conosceva il passo di Rebecca, e la sua voce. Conosceva il colore dei suoi occhi, il suo sorriso, la qualità dei suoi capelli. Io non sapevo nulla di queste cose, non ne avevo mai domandato a nessuno, ma qualche volta sentivo che Rebecca era viva per me quanto lo era per la signora Danvers. Frank mi aveva consigliato di dimenticare il passato, e io ero ben disposta a dimenticarlo. Ma Frank non era costretto come me a starsene nella stanza di soggiorno e a toccare la penna ch’ella aveva tenuto fra le dita; a posare le mani sulla cartella da scrivere, e a fissare avanti a sé l’alta calligrafia obliqua sulle etichette degli scomparti. Poteva fare a meno, lui, di guardare i candelabri sul marmo del caminetto, la pendola, il vaso pieno di fiori, i quadri alle pareti; e non aveva da ricordare ogni giorno che avevano appartenuto a lei, che lei li aveva scelti, che non erano miei, oh no. Frank non doveva sedersi a tavola al posto ch’ella aveva occupato, e servirsi del coltello e della forchetta che lei aveva tenuto in mano, e bere nello stesso suo bicchiere. Non si buttava sulle spalle un mantello che era stato di Rebecca, né si trovava in tasca un fazzoletto orlato di merletto. Non coglieva ogni giorno come me il cieco sguardo della cagna, che in biblioteca, dal suo cestello alzava il capo all’udire il mio passo, il passo di una donna, e poi lo lasciava ricadere dopo aver annusato l’aria, perché non era quella la persona che aveva creduto. Piccole cose, prive di senso e stupide in sé, ma io le vedevo, le udivo, le sentivo. Buon Dio, io non volevo pensare a Rebecca, non desideravo che di essere felice, e rendere felice Maxim. Non c’era altro desiderio, nel mio cuore. Ma che potevo fare, se ella mi perseguitava nei miei pensieri, nei miei sogni? Che potevo fare se a Manderley, che pure era la mia casa, io mi sentivo come un’ospite, un’ospite che non attendesse altro se non il ritorno della padrona di casa?
«Frith» dissi un mattino d’estate, entrando nella biblioteca con una bracciata di lillà. «Frith, dove posso trovare un vaso alto per questi rami? Quelli che ci sono nella stanza dei fiori sono tutti troppo piccoli.» «Di solito, per i lillà, serve il vaso di alabastro bianco che c’è nella sala, signora.» «Oh, ma non è peccato? Potrebbe rompersi.» «La signora de Winter si serviva sempre del vaso di alabastro bianco, signora.» «Ah… oh, va bene.»
E allora mi veniva portato il vaso d’alabastro, già riempito d’acqua, e io vi deponevo dentro i soavi rami dei lillà, a uno a uno, e i loro effluvi si diffondevano per tutta la sala, frammischiandosi a quelli dell’erba falciata di fresco che entrava dalle finestre aperte. E intanto, pensavo: “Rebecca faceva così. Come me prendeva il fascio dei lillà, e a uno a uno metteva i rami nel vaso. Io non sono la prima a far così. Questo è il vaso di Rebecca. Questi sono i lillà di Rebecca“. Anche lei era uscita in giardino, con quel cappellone di paglia che avevo scoperto un giorno nell’armadio della stanza dei fiori, nascosto sotto un mucchio di vecchi cuscini; e attraverso i prati era andata verso i lillà, canterellando tra sé, forse, chiamando i cani, in mano le cesoie che ora adoperavo io… «Frith, se mi spostate quella piccola scansia dal tavolino davanti alla finestra, potrei metterci i lillà.» «La signora de Winter metteva sempre il vaso di alabastro sul tavolo dietro al divano, signora.» «Oh…» Io esitavo, il vaso in mano; Frith rimaneva impassibile. Naturalmente mi avrebbe obbedito, se avessi detto che preferivo mettere il vaso sul tavolino davanti alla finestra. Avrebbe rimosso subito la scansia. «Va bene» dissi. «Forse sta meglio sul tavolo più grande…» E il vaso d’alabastro rimaneva là dov’era staio sempre, sul tavolo dietro al divano… Beatrice aveva ricordato la promessa d’un regalo di nozze. Giunse un mattino un pacco, tanto grande che Roberto poteva appena portarlo. Ero seduta nella stanza di soggiorno, dove avevo appena esaminato la lista per il pranzo. La vista di un pacco mi ha dato sempre una gioia quasi infantile. Agitata tagliai lo spago, e strappai la carta bruna. Sembravano libri… Avevo indovinato. Erano libri. Dei grossi volumi. Storia della pittura. Aperto il primo volume trovai un foglio di carta da lettere. ”Spero d’aver indovinato il tuo gusto“ c’era scritto. E sotto ancora: ”Affettuosamente, Beatrice“. Mi pareva di vederla entrare in una libreria, in Wigmore Street, per acquistare i volumi. Si guardava d’attorno, col suo fare spiccio, un po’ mascolino. ”Desidererei dei libri per una persona che s’intende d’arte“ ella diceva, e il commesso: ”Sì, signora, volete favorire da questa parte?“. Un poco sospettosa ella sfogliava i volumi: ”Sì, questo è all’incirca quel che vorrei spendere. È per un regalo di nozze. Vorrei che facessero bella figura. E trattano tutti d’arte?» “Sì, signora, è un’opera veramente esauriente in materia e la più recente” diceva il direttore della libreria. E poi Beatrice aveva scritto quelle poche parole, e pagato, e dato l’indirizzo: “Signora de Winter, Manderley”. Un gesto simpatico, da parte di Beatrice. C’era un che di sincero, di commovente quasi, nella sua risoluzione di essere andata apposta a Londra, e di essere entrata in una libreria a comperare quei libri per me, perché sapeva che amavo la pittura. Forse s’immaginava che in una giornata di pioggia mi sarei seduta a guardar le illustrazioni, e magari avrei preso un foglio di carta da disegno e una scatola a colori, e copiato qualche quadro. Cara Beatrice. Mi assalì all’improvviso un’assurda voglia di piangere. Radunai i pesanti volumi, cercai nella stanza un posto dove metterli. Non erano in carattere in quel salotto pieno di fragili delicatezze. Ma dopo tutto, non era il mio salotto? Li disposi in una fila, in cima allo scrittoio. Ondeggiavano perigliosamente, urtandosi l’uno contro l’altro. Mi ritrassi, per osservare l’effetto. Forse una mia mossa un po’ brusca li smosse; il primo d’essi cadde, e gli altri gli tennero dietro. Urtarono un piccolo Cupido di porcellana, che assieme ai candelabri se ne stava solo sullo scrittoio; cadde a terra, sul cestino della carta, e andò in pezzi. Come una bimba colta in fallo lanciai un’occhiata alla porta; poi m’inginocchiai a terra, e in fretta raccolsi i frammenti. Trovai una busta, ve li misi dentro, e la cacciai in fondo a un cassetto dello scrittoio. Poi, a uno a uno portai i volumi nella biblioteca, e li misi in uno scaffale; Maxim rise quando glieli feci vedere, assai fiera. «Cara vecchia Bea» disse. «Devi averla conquistata. Non apre mai un libro, a meno che proprio non vi sia costretta.»
«Ti ha detto qualcosa… insomma ti ha detto che cosa pensava di me?»
«Quel giorno che è venuta a pranzo? No, mi pare di no.»
«Pensavo che avesse scritto, o…» «Beatrice e io non ci scriviamo, a meno che non ci siano avvenimenti importanti in famiglia. Scriver lettere è una perdita di tempo» sentenziò Maxim. Evidentemente io non ero un avvenimento importante. Se io fossi stata Beatrice, e avessi avuto un fratello, e questi avesse preso moglie, sicuramente si sarebbe detto qualcosa, formulata un’opinione, scritte due parole. A meno, naturalmente, che non si fosse trovata antipatica la sposa, o la si fosse giudicata poco adatta per lui. Eppure, Beatrice s’era presa la briga di andare a Londra a comperare quei libri per me. Non l’avrebbe fatto, se non le fossi piaciuta.
Fu il giorno seguente, ricordo, che Frith, dopo averci servito il caffè nella biblioteca, aspettò un momento dietro a Maxim, poi disse: «Potrei, dirvi una parola, signore?».
«Si, Frith, che cosa c’è?» Maxim aveva alzato la testa dal giornale, alquanto sorpreso. Frith aveva una faccia solenne, compunta, le labbra strette. Il mio primo pensiero fu che gli fosse morta la moglie. «Si tratta di Roberto, signore. C’è stato un incidente… non tanto piacevole, fra lui e la signora Danvers. Roberto è rimasto molto male.»
«Oh Signore Iddio!» esclamò Maxim, e mi guardò contrariato. Mi curvai ad accarezzare Jasper: il mio infallibile espediente dei momenti imbarazzanti. «Sì, signore, sembra che la signora Danvers abbia accusato Roberto di aver sottratto unastatuetta preziosa dalla stanza di soggiorno. È Roberto che porta i fiori freschi e mette a posto i vasi in quella stanza. La signora Danvers è entrata stamane dopo che il lavoro era stato fatto, e si è subito accorta che mancava un oggetto. Ieri c’era ancora, ha detto. Ha accusato Roberto di averlo portato via, oppure lo ha rotto e non ha voluto confessarlo. Roberto ha negato tanto luna che l’altra cosa nel modo più assoluto, è venuto da me che quasi piangeva, signore. Avrete veduto che non sapeva quel che faceva mentre serviva.»
«Infatti, mi son domandato perché mi serviva le costolette senza avermi dato un piatto» mormorò Maxim. «Non sapevo che Roberto fosse così sensibile. Beh, sarà stato qualcun altro. Una delle cameriere.» «No, signore. La signora Danvers era stata nella stanza prima che la ragazza avesse fatto le pulizie. Non c’erano entrati altri dopo che ci si era trattenuta la signora ieri, e poi c’è stato Roberto coi fiori. È molto spiacevole per Roberto, e anche per me, signore.» «Sì, capisco. Ma… sarà meglio che diciate alla signora Danvers di venire qui, e andremo a fondo alla cosa. Di cheoggetto si tratta, a proposito?» «È il Cupido di porcellana che stava sullo scrittoio, signore.»
«Oh! Oh Dio, una delle cose più preziose che abbiamo. Bisogna trovarlo. Chiamate la signora Danvers.» Frith uscì, e tornammo a restar soli. «Che seccatura» disse Maxim. «Quel Cupido ha un grande valore. In ogni modo, queste discussioni fra la servitù mi sono odiose. Chissà perché poi vengono da me… Veramente sarebbe affar tuo, tesoro.»
Alzai un viso di brace. «Caro, volevo dirtelo prima, ma m’è passato di mente. Sono io che ho rotto quel Cupido, ieri mattina.»
«Tu? Ebbene, perché diavolo non l’hai detto prima mentre Frith era qui?»
«Non lo so. Non mi garbava… Pensavo che m’avreste creduta una stupida.»
«Ti crederà molto più stupida, ora. E dovrai spiegarti con lui e con la signora Danvers.»
«Oh no, Maxim, per piacere, parla tu con loro! Lascia che me ne vada di sopra!»
«Non far la sciocchina. Si direbbe che hai paura di quella gente.»
«Infatti, ho paura. Non proprio paura, ma…» La porta s’aprì e Frith fece entrare la signora Danvers. Nervosa, guardavo Maxim, che s’era stretto nelle spalle, tra divertito e seccato.
«È stato un errore, signora Danvers. Pare che la signora abbia rotto lei il Cupido e si sia dimenticata di avvertire.»
Tutti gli occhi erano rivolti su di me. Mi sentivo ritornare bambina; il rossore mi bruciava le gote. «Mi dispiace tanto» dissi, guardando la signora Danvers. «Non avrei mai creduto che si potesse accusare Roberto.» «Sarà possibile riparare la statuetta, signora?» domandò la signora Danvers. Non pareva punto sorpresa che fossi io la colpevole. Mi guardava con quei suoi occhi scuri nella faccia di teschio. Sentivo che fin da principio ella mi aveva sospettato, e aveva accusato Roberto per vedere seavrei avuto il coraggio di confessare. «Temo di no» risposi. «È andata in tanti pezzi.» Mi sentivo un accusato chiamato a render conto del suo delitto. Quanto vile e meschina pareva ora l’azione compiuta, anche a me stessa!
«E che cosa ne hai fatto dei pezzetti?» mi domandò Maxim.
«Li ho messi in una busta.»
«E della busta che cosa ne hai fatto?» Mentre accendeva la sigaretta Maxim aveva un tono più che mai esasperato, ma pareva divertirsi un mondo. «L’ho messa in fondo a un cassetto dello scrittoio» risposi.
«Si direbbe che la signora abbia creduto che l’avreste fatta mettere in prigione, eh, signora Danvers?» disse Maxim. «Via, trovate un po’ quella busta e mandate i frammenti a Londra. Se sono troppo minuti per esser rimessi insieme, beh, pazienza. Va bene, Frith. Dite a Roberto che asciughi le sue lagrime.» La signora Danvers indugiava, dopo che già Frith era uscito. «Chiederò scusa a Roberto, è inteso…» disse. «Ma le prove erano contro di lui. Non m’era venuto in mente che avesse potuto essere la signora a rompere la statuina. Forse, se un inconveniente simile avesse a ripetersi, la signora vorrà avvertirmi personalmente? Così potrò sbrigare la faccenda, e non ci saranno malintesi.» «Giusto» fece Maxim impaziente. «Non so proprio perché la signora non l’abbia fatto ieri.» «Forse la signora non sapeva quanto valesse quell’oggetto» disse la donna, volgendo gli occhi su di me. «Sì» replicai, al colmo dell’infelicità. «E per questo ho raccolto con tanta cura i pezzetti.» «Finora non s’era mai rotto niente di prezioso, in quella stanza» incalzava la signora Danvers. «Abbiamo fatto sempre molta attenzione. Ho sempre spolverato io… da un anno a questa parte. Quando c’era ancora la signora de Winter, li spolveravamo sempre insieme, gli oggetti di valore.»
«Beh… sì, ormai non c’è più niente da fare. Basta così, signora Danvers» disse Maxim.
Ella uscì, e io mi appoggiai al sedile davanti alla finestra e guardai fuori. Maxim aveva ripreso il suo giornale. Tacevamo entrambi.
«Sono tanto spiacente, caro» dissi, dopo un momento. «È stata una sbadataggine. Non so come io abbia potuto… Accomodavo quei volumi sullo scrittoio, per vedere se ci stavano, e la statuetta è scivolata.» «Mia cara bambina, non ci pensare più. Che cosa vuoi che importi?»
«Importa, sì. Avrei dovuto star più attenta. La signora Danvers sarà furibonda contro di me.» «E perché mai dovrebbe essere furibonda? Non è mica roba sua.»
«No, ma essa è tanto orgogliosa di tutto quel che c’è qui dentro. È orribile, pensare che non s’era mai rotto nulla prima d’ora. E dovevo esser proprio io!» «Meglio tu che non quello sfortunato di Roberto.» «Io vorrei che fosse stato Roberto. La signora Danvers non me la perdonerà mai.»
«Accidenti alla signora Danvers!» esclamò Maxim. «Non è mica Dio Onnipotente, no? Non ti capisco. Perché devi aver paura di lei? Che cosa intendi?» «Non intendevo proprio paura… La vedo così di rado. Non è questo. Non mi so spiegare.» «Sei davvero straordinaria» replicò Maxim. «Perché non chiamarla subito, non appena hai rotto quella roba, e dirle: “Qua, signora Danvers, vedete un po’ di far riparare questo oggetto”? Essa avrebbe capito l’antifona. E invece, raccogli i pezzetti in una busta e li nascondi in fondo a un cassetto. Cose che farebbe una serva, e non la padrona di casa.»
«Infatti, sono poco più d’una serva» replicai, e le parole mi uscivano lente di bocca. «So di esserlo, per tante ragioni. Ecco perché vado d’accordo con Clarice. Abbiamo la stessa mentalità. Per questo essa mi vuol bene. L’altro giorno sono andata a trovare sua madre. Lo sai che cosa ha detto? Le ho domandato se Clarice si trovava bene qui da noi, e mi ha risposto: “Oh sì, signora. Clarice mi pare proprio contenta. Dice sempre che non è come stare con una signora, ma quasi come trovarsi con una di noi”. Credi che intendesse farmi un complimento, o no?» «Santo Iddio!» replicò Maxim. «Se ben ricordo la madre di Clarice, io la prenderei come un’insolenza bella e buona. La sua casa è sempre sottosopra, e puzza di cavolo bollito. C’era un tempo che essa aveva nove bambini sotto gli undici anni, e lei girava per quel suo pezzetto di orto senza scarpe e con una calza legata intorno alla testa. Quasi l’avevamo diffidata ad andarsene. Non capisco come mai Clarice abbia sempre l’aria così pulita e ordinata.»
«È stata allevata in casa d’una zia» osservai. Mi sentivo alquanto mortificata. «Lo so che la mia gonna di lana ha una macchia sul davanti, però non sono mai andata in giro scalza, e con una calza in testa». Ora sapevo perché Clarice non disprezzava la mia biancheria, come aveva fatto Alice. «Sarà per questo, che preferisco andare a trovare la madre di Clarice, piuttosto che gente come la moglie del vescovo?» ripresi. «La moglie del vescovo non ha mai detto che ero come una di loro.» «Se porti quella gonna macchiata quando vai da lei, è naturale che non dica così.»
«Certamente non avrò messo una gonna vecchia! Avevo un vestito buono» replicai. «E in ogni modo, non penso un gran che delle persone che giudicano gli altri dai vestiti soltanto.»
«Non direi che la moglie del vescovo si occupi molto di moda, ma sarà rimasta un po’ male, vedendoti lì seduta sull’orlo della seggiola a dire sì e no come una governante che cerchi un posto, come hai fatto l’unica volta che abbiamo restituito una visita insieme.» «Lo so che sono timida.»
«Lo so che lo sei, tesoro. Ma non fai nemmeno uno sforzo per vincerti.»
«Questo non è vero!» ribattei. «Mi ci provo ogni giorno, ogni volta che vado in visita o mi presentano qualcuno. Faccio sempre degli sforzi. Tu non sai! Hai un bel dire tu, tu sei tanto abituato a queste cose. Io sono stata allevata in un ambiente diverso.» «Sciocchezze!» disse Maxim. «Non è una questione d’educazione, comedici tu. È questione di mettercisi d’impegno. Non crederai mica che per me sia un piacere far visite, no? Mi annoio a morte. Ma in provincia bisogna rassegnatisi.»
«Non si tratta di noia. La noia non è una cosa che mette paura. Se mi annoiassi soltanto sarebbe ben diverso. Ma non posso soffrire di sentirmi guardare da capo a piedi come se fossi una mucca al mercato.» «E chi ti guarda da capo a piedi?» «Tutti
quelli che vedo.»
«E che cosa te ne importa? Per essi, è un passatempo come un altro.»
«Ma perché debbo esser proprio io a servir di passatempo, per sentirmi poi criticata?» «Perché la vita a Manderley è l’unica cosa che desti l’interesse della gente, da queste parti.» «Che pugno nell’occhio devo mai essere per loro!» Maxim non rispose. Continuava a leggere il giornale. «Che pugno nell’occhio devo essere per loro!» ripetei. E poi: «M’immagino che sarà per questo che mi hai sposata. Sapevi che ero quieta e ingenua e incolore e perciò non avrei mai dato occasione a chiacchiere». Maxim buttò il giornale a terra e balzò in piedi. «Che dici?» gridò. Aveva un viso scuro, alterato; e la sua voce era aspra… non era più la sua voce solita. «No… non so» risposi, ritraendomi contro il davanzale. «Non volevo dire nulla di male. Perché mi guardi così?»
«Che cosa ne sai tu, di chiacchiere che possano esserci state o non state?»
«Niente.» Quel suo modo di guardarmi mi sgomentava. «Ho soltanto detto così… tanto per dire. Non mi guardare in quel modo, Maxim, che cosa ho detto? Che cos’hai?»
«Che cosa hai sentito dire?» «Nulla. Nulla, ti giuro.» «Perché hai detto così, allora?» «Ti ripeto che non so… Un’idea che mi è passata per il capo. Ero arrabbiata, stizzita. Le odio, quelle visite, è più forte di me. E tu m’hai rinfacciato la mia
timidezza. Non parlavo sul serio. Davvero, Maxim. Ti prego, credimi.»
«Non era una cosa particolarmente simpatica, quel che hai detto, capisci?»
«Sì… Sì; era una cosa acre, una malignità.» Egli mi guardava di malumore, le mani in tasca, dondolandosi sui calcagni. «Mi domando se, sposandoti, io non sia stato un grande egoista» disse. «Ci sono troppi anni fra di noi. Tu avresti dovuto aspettare ancora, e sposare poi un ragazzo della tua età. Non un individuo come me, che ha già dietro di sé metà della sua vita.» «Questo è ridicolo!» m’affrettai a dire. «Lo sai che l’età non conta nulla, nel matrimonio. E noi siamo buoni compagni.»
«Davvero? Non so…»
Mi inginocchiai sul sedile, gli posi le braccia attorno al collo. «Perché mi parli così? Lo sai che ti amo più di ogni cosa al mondo. Non ho altri che te. Tu sei miopadre e mio fratello e mio figlio. Sei tutto, per me.» «È stata colpa mia» egli proseguiva, senza darmi ascolto. «Io ti ci ho trascinata. Non t’ho nemmeno dato modo di pensarci sopra.»
«Ma io non volevo pensarci sopra» ribattei. «Tu non capisci, Maxim. Quando si ama qualcuno…» «Sei felice, qui?» Il suo sguardo spaziava lontano, fuor della finestra. «Mi domando, a volte… Tu sei dimagrita. Hai perduto i tuoi colori.»
«Ma sì che sono felice» risposi. «Manderley mi piace. Mi piace il giardino, tutto qui mi piace. E quelle visite non sono un peso per me. Ho detto così… tanto per farti un dispetto. Andrò a trovar gente anche ogni giorno, se ti fa piacere. Ma devi pur sentire che mai, nemmeno un giorno, ho rimpianto di averti sposato?» Egli mi carezzò la guancia, con quel suo terribile fare assente, e si chinò a baciarmi sui capelli. «Povero agnellino, non hai molti divertimenti, eh? Ho ben paura che viverecon me non sia molto facile.» «Non è vero!» protestai. «È facilissimo. Molto più facile di quanto non avrei creduto. Pensavo sempre che la vita matrimoniale fosse una gran brutta cosa, che un marito dovesse essere una persona che beve, e dice delle parolacce, o borbotta se il pane non è ben tostato a colazione; o non essere troppo simpatico in complesso… o puzzare di sigaro, magari. E tu non sei niente di tutto questo.»
«Buon Dio, spero di no» disse Maxim, e sorrise. Approfittando di quel sorriso, anch’io sorrisi; gli presi le mani e glie le baciai. «Che cosa assurda, dire che non siamo buoni compagni! Ma guarda un po’ come passiamo qui le nostre serate, tu con un libro o un giornale, io col mio lavoro a maglia. Come due anime in un nocciolo. Come due vecchietti sposati da quarant’anni. Certo che siamo buoni compagni. Certo che siamo felici. E tu parli come se fossi convinto che abbiamo commesso un errore? Ma non lo credi mica, non è vero, Maxim? Lo sai, che il nostro matrimonio è riuscito come meglio non poteva?» «Allora, sarà come dici tu» replicò Maxim. «No, di’ che lo pensi anche tu, amore mio! Non io soltanto! Noi siamo felici, non è vero? Terribilmente felici!»
Egli non rispose. Continuava a fissare la finestra, lasciando le sue mani tra le mie. Avevo la gola secca, e mi bruciavano gli occhi. Dio mio, pensavo, ecco che siamo due personaggi d’una commedia, tra un momento calerà il sipario, e poi c’inchineremo davanti al pubblico, e ritorneremo ai nostri camerini. Questo non può essere un momento di realtà, nelle nostre vite. Mi sedetti, e lasciai cadere le mani di Maxim. Udii la voce, aspra e fredda. «Se tu credi che non siamo felici, faresti molto meglio ad ammetterlo. Non pretendo che tu finga. Se così fosse, preferirei andarmene. Non vivere più con te.» Non era realtà, naturalmente. Era la donna sulla scena che parlava, non io. Immaginavo il tipo d’attrice che interpretava la parte. Alta e sottile, piuttosto cerebrale. «Dunque, perché non rispondi?» dissi. Egli mi prese il volto tra le mani e mi guardò, come già quel giorno che eravamo andati al mare, quando Frith era entrato col vassoio del tè.
«Come vuoi che risponda?» disse. «Io stesso ignoro la risposta. Se tu mi dici che sei felice, ebbene, così sia. Io non so nulla. Ti prendo parola. Siamo felici. E sta bene, eccoci d’accordo, allora!» Tornò a baciarmi, e fece per andarsene.
Rimasi seduta, diritta, irrigidita, le mani in grembo. «Parli così, perché dopo tutto io sono stata per te una delusione» dissi. «Sono goffa e senza spirito, vesto male, sono timida con la gente. Ti avevo avvertito, a Monte Carlo, come sarebbe stato… E adesso, lo vedi che non ti faccio far bella figura.»
«Non dir sciocchezze» egli replicò. «Non ho mai detto che tu fossi goffa, enemmeno che vestivi male. È tutta fantasia tua. Quanto alla timidezza, finirai per vincerti. Te l’ho già detto.»
«Questo è un circolo vizioso. Eccoci tornati là dove eravamo partiti. E tutto questo perché ho rotto il Cupido nella stanza di soggiorno. Se non lo avessi rotto, tutto questo non sarebbe accaduto. Avremmo preso il caffè, e poi saremmo usciti in giardino.» «Oh, al diavolo quel Cupido infernale!» esclamò Maxim, col tono di chi è stufo. «Credi che proprio me ne importi, anche se è andato in diecimila pezzi?» «Era molto prezioso?»
«Lo sa Iddio… Mi figuro di sì. Ma chi se ne ricorda più?»
«Tutte quelle cose che ci sono nella stanza di soggiorno hanno un grande valore?» «Sì, credo di sì.»
«E perché tutte le cose più preziose sono state messe in quella stanza?»
«Non lo so. Forse perché ci stavano bene.» «Sono state sempre lì? Anche quando
era ancora viva tua madre?»
«No… Allora non c’erano. Erano sparse un po’ dappertutto. Le seggiole erano in un solaio, se non sbaglio.» «E quando è stata ammobiliata così com’è ora, la stanza di
soggiorno?»
«Quando io mi sono sposato.» «E allora, ci avete messo anche il Cupido?» «Già.»
«L’avete trovato anche quello in solaio?» «No. Niente affatto. E’ stato un regalo di nozze, quello, se vuoi saperlo. Rebecca s’intendeva molto di porcellane.»
Non lo guardai. Mi misi a lustrarmi le unghie. Egli aveva pronunziato quel nome naturalmente, con la massima calma. Senza alcuno sforzo. Dopo un minuto, lo guardai di sfuggita, Era vicino al caminetto, le mani in tasca, lo sguardo fisso avanti a sé. Ora pensa a Rebecca, mi dissi. Quanto è strano, pensai, che un regalo di nozze fatto a me sia stato causa della rovina d’un regalo di nozze fatto a Rebecca. Egli pensa al Cupido. Ricorda chi lo donò a Rebecca, che era un’intenditrice di porcellane. Egli era entrato nella stanza, ed ella, inginocchiata in terra, stava aprendo la cassettina in cui era imballato il Cupido. Ella alzava il capo a lui, e sorrideva. “Guarda Max, guarda che cosa ci hanno mandato.” E immergeva le mani fra i trucioli, e tirava fuori la statuina del piccolo dio ritto su un piede, l’arco in mano. “Lo metteremo nella stanza di soggiorno” ella aveva detto, ed egli s’era inginocchiato accanto a lei, e insieme avevano ammirato il dono. Continuai a lustrarmi le unghie. Erano ruvide come le unghie d’un ragazzetto. Le pellicole invadevano la mezzaluna. L’unghia del pollice era tutta rosicchiata. Tornai a guardare Maxim, sempre ritto davanti al caminetto. «A che cosa pensi?» domandai.
La mia voce era fredda e calma. Non così il cuore, che mi batteva forte nel petto. Non così l’animo, amaro e pieno d’acredine. Maxim accese una sigaretta, certo la venticinquesima della giornata, e avevamo appena pranzato; buttò il fiammifero dietro la grata, e riprese il giornale.
«Nulla d’importante. Perché?» egli disse. «Ma… non so. Avevi l’aria così grave, così assente.» Indifferente egli fischiettò un motivo, rigirando la sigaretta tra le dita. «A dirti la verità, pensavo chi avranno scelto del Surrey per giocare contro Middlesex» disse. Sedette sulla poltrona, e ripiegò il giornale. Io guardai fuori dalla finestra. Intanto, Jasper s’era avvicinato e mi si arrampicava in grembo.
XIII
Alla fine di maggio Maxim dovette andare un giorno a Londra per un pranzo ufficiale. Un pranzo d’uomini, per non so quali interessi della contea. Sarebbe rimasto assente due giorni, e io sarei rimasta sola. La sua partenza mi angosciava. Quando vidi la macchina sparire oltre la curva del viale, sentii come se fosse un distacco definitivo, e non dovessi vederlo mai più. Sarebbe accaduta una disgrazia. Era fatale. Più tardi, nel pomeriggio, tornando dalla passeggiata, avrei trovato Frith che mi aspettava, bianco in viso e impressionato, con una brutta notizia. Un medico aveva telefonato, da un ospedale di provincia. “Dovete farvi animo” diceva. “Temo di dovervi preparare al peggio…”
E andavo con Frank all’ospedale. Maxim non mi riconosceva… Arzigogolavo l’intera storia mentre ero a tavola: vedevo la folla dei contadini raggruppati al camposanto, al funerale; io m’appoggiavo al braccio di Frank. Tutto era così vero, che appena potei mangiare, e tendevo l’orecchio, se mai trillasse il telefono.
Nel pomeriggio andai a sedermi sotto l’ippocastano in giardino, un libro sulle ginocchia, ma lessi poco o nulla. Quando vidi Roberto venire verso di me, mi dissi:“È il telefono…” e provai un vero malessere fisico. «Un’ambasciata dal circolo, signora. Il signor de Winter è arrivato dieci minuti fa.»
Chiusi il libro. «Grazie, Roberto. Come ha fatto presto!»
«Sì, signora. Ha fatto una bella corsa,» «Ha chiesto di parlare a me, o ha lasciato detto qualcosa di speciale?»
«No, signora. Soltanto che era arrivato bene. Era il portiere che telefonava.» «Va bene, Roberto. Grazie.»
Il sollievo fu immenso. Ogni malessere scomparve. Come quando si sbarca dopo una traversata burrascosa. Cominciavo a sentire una certa fame, e non appena Roberto se ne fu andato sgattaiolai in sala da pranzo, e rubai dei biscotti nella credenza. Sei ne presi; e anche una mela. Non avevo idea di essere così vuota. Andai a mangiare i biscotti nei boschi; qualcuno dei domestici poteva vedermi dalle finestre, e correre a dire al cuoco che, a quanto pareva, la signora non gradiva troppo la cucina di casa, perché si sfamava di frutta e biscotti. Il cuoco si sarebbe offeso, e magari lamentato con la signora Danvers. Ora sapevo che Maxim era giunto sano e salvo a Londra, e avevo mangiato i miei biscotti; e mi sentivo assai bene, e singolarmente felice. Mi invadeva un senso di libertà, come se avessi lasciato cadere ogni responsabilità; come in un pomeriggio di sabato, quando s’era bambini. Niente lezioni, niente compiti. Si fa quel che ci pare e piace; si indossa un gonnellino vecchio, ci si mette un paio di scarpe logore di tela, e si va a giocare a “ladri e guardie” coi bambini dei vicini.
Mai m’ero sentita così, da quando ero a Manderley. Forse perché Maxim era andato a Londra?
Quasi mi scandalizzavo di me stessa. Non mi comprendevo. Con dispiacere l’avevo visto partire. E ora, tutta questa felicità di cuore, questo fanciullesco desiderio di correre per i prati, di rotolar giù per la sponda erbosa. Mi ripulii la bocca delle ultime
briciole di biscotto, e diedi una voce a Jasper. Forse tutta quella contentezza mi veniva semplicemente dalla bella giornata… Per la Valle della Felicità scendemmo alla piccola insenatura. Le azalee erano finite ormai: bruni e avvizziti i petali giacevano sparsi sul muschio. Le campanule non erano ancora sfiorite, e come un tappeto coprivano il suolo dei boschi sovrastanti la valle, dove giovani erbe crescevano verdi e ricciolute. Il muschio mandava un intenso odore, cui s’univa l’effluvio amarognolo delle campanule. Mi coricai lunga distesa in mezzo ai fiori, le mani intrecciate sotto la testa, Jasper accucciato accanto a me, che mi guardava ansante, la saliva che gli gocciolava dalla lingua, l’aria inebetita a forza di beatitudine. S’udiva un frullar d’ali di piccioni tra gli alberi, sopra le nostre teste. Regnava una gran pace. Chissà mai perché, riflettevo, i luoghi sembrano tanto belli quando si è soli… Quanto volgare e stupido mi sarebbe parso, se ora avessi avuto accanto a me un’antica compagna di scuola, la quale mi avrebbe tenuto discorsi su questo genere: “A proposito, l’altro giorno ho incontrato quella povera Hilda. Quella che era tanto brava al tennis. È sposata, con due bambini”. E non avremmo fatto caso alle campanule, né teso l’orecchio ai piccioni su in alto. Non desideravo nessuno vicino a me. Nemmeno Maxim. Se ci fosse stato lui, non avrei saputo rimaner sdraiata così, masticando uno stelo d’erba, a occhi chiusi. Non avrei potuto fare a meno di osservarlo: i suoi occhi, la sua espressione, domandandomi se era contento, o se si annoiava; o che cosa gli passava per la mente… Ora potevo riposarmi; queste cose non erano importanti. Maxim era a Londra. Bello, esser di nuovo soli. No, non era a questo che pensavo… Questi erano pensieri cattivi, sleali. Maxim era la mia vita, il mio mondo. Mi alzai dal letto di campanule, chiamai Jasper; e c’incamminammo verso il mare. La marea era bassa, le acque apparivano calme, remote: la baia era un gran lago placido. Non immaginavo che potesse mai essere in tempesta, più di quanto non ci si immagina l’inverno d’estate. Non c’era vento, e il sole traeva riflessi dalle piccole pozze che l’acqua formava tra gli scogli. Subito Jasper si mise a saltar sugli scogli voltandosi a guardarmi. Un’orecchia ripiegata gli dava una buffa aria sbarazzina.
«Non da quella parte, Jasper» gridai. Ma era come dire all’aria. Disobbediente per proposito, il cane saltava da uno scoglio all’altro. «Che cattivo!» dissi ad alta voce, e m’inerpicai dietro a lui, ragionando tra me che non volevo scendere dall’altra parte. “Ma non posso far diverso. E alla fin fine, Maxim non è con me. E non faccio nulla di male.”
Canterellando guazzavo nelle pozzanghere. A marea bassa l’insenatura aveva tutt’altro aspetto. Meno pauroso. C’era forse un metro d’acqua nella piccola rada: tanto che una barca vi poteva appena galleggiare. La boa era sempre là, dipinta a righe bianche e verdi: non me n’ero accorta prima. Forse perché pioveva, i colori si confondevano. La spiaggia era deserta. Camminando sui sassi feci il giro dell’insenatura, e salii sul basso muricciolo di pietra che limitava la darsena. Come spinto dall’abitudine, Jasper correva avanti. C’era un anello, fisso al muricciolo, e una scaletta di ferro che scendeva fino all’acqua. Là si doveva legare il canotto, pensai; e ci si scendeva con la scaletta. Mi trovavo proprio di fronte alla boa, a una decina di metri. C’era una scritta, su di essa; protendendomi, riuscii a leggere: “Je reviens”.
Che nome bizzarro! Non era un nome da barca. Forse era stato un battello francese: avevo visto in Francia dei battelli da pesca che avevano nomi simili: “Felice Ritorno”
o “Eccomi quà”. “Je reviens”… Sì, dopo tutto era un bel nome per un battello; soltanto, non aveva portato fortuna a quel battello che non era ritornato più… Doveva far freddo, laggiù al largo, oltre il faro sulla punta del promontorio. Entro la baia il mare era calmo, ma, anche oggi che il tempo era sereno, attorno al promontorio piccole onde s’increspavano in bianca spuma. Una imbarcazione leggera doveva danzare al vento, non appena doppiata la punta. E certo il mare schiaffeggiava i fianchi, e lavava la coperta… Chi stava al timone si asciugava gli occhi e la fronte dalla spuma, e dava un’occhiata all’albero ondeggiante. Di che colore; era il battello? Forse bianco e verde, come la boa. Non molto grande, aveva detto Frank, con una piccola cabina. Jasper annusava intorno alla scaletta. «Vieni via!» lo ammonii. «Non ho nessuna voglia di andarti a ripescare!» Costeggiando il muricciolo tornai alla spiaggia. La casetta, là sull’orlo del bosco, non era più sperduta e sinistra come m’era sembrata la prima volta. Al sole, pareva assai diversa; e non c’era più la pioggia che tamburellava sul tetto. Lentamente mi avvicinavo. Era una casetta come tante altre, una casetta deserta. Non aveva proprio nulla di pauroso. Non c’era luogo che non apparisse umido e inospitale, quando era disabitato da tanto tempo. Persino le case nuove. E là un tempo c’erano state merende al chiaro di luna, e divertimenti simili. Al sabato venivano ospiti; si faceva il bagno, e forse un giretto in battello. Ristetti a guardare il giardino negletto, soffocato dalle ortiche. Forse si poteva mandar qualcuno, uno dei giardinieri, a ripulirlo un poco. Che bisogno c’era di lasciarlo in quello stato? Aprii il cancello, e avanzai fino alla porta. Era socchiusa; eppure, ero certa d’averla chiusa, l’ultima volta. Jasper mugolava, annusando sulla soglia.
«Non far così, Jasper!» Ma il cane annusava, annusava, cacciando a forza il muso entro lo spiraglio. Spinsi la porta, guardai dentro. Era molto buio. Come l’altra volta. Nulla di mutato. Le ragnatele fra l’attrezzatura delle piccole navi. Anche la porta che dava al ripostiglio delle barche, in fondo alla stanza, era aperta. Jasper tornò a mugolare; e s’udì, d’un tratto, il rumor d’un oggetto che cade a terra. Abbaiando furiosamente Jasper mi guizzò tra le gambe e si scagliò contro la porta aperta. Col cuore che mi batteva lo seguii, poi a metà della stanza mi arrestai, titubante. Anche il cane s’era fermato, e nel suo latrato c’era una nota inquieta. Intuivo qualcosa, là nel ricovero. Non era un topo. Fosse stato un topo, Jasper si sarebbe slanciato.
«Jasper, Jasper, vieni qui!» Ma egli non obbediva. Lentamente mossi qualche passo verso la porta aperta. «Chi c’è?» chiamai forte.
Nessuna risposta. Mi curvai e presi Jasper per il collare; poi mi affacciai e diedi un’occhiata guardinga. C’era qualcuno seduto in terra in un angolo, contro la parete. Qualcuno che, a vederlo rincantucciato, doveva avere ancora più timore di me. Era Ben, che cercava di nascondersi dietro una vela.
«Che fate lì? Che cosa volete?» dissi. Egli mi guardò, ammiccando con gli occhietti istupiditi, la bocca semiaperta. «Non faccio mica niente» disse. «Buono, Jasper» dissi, mettendogli una mano sul muso; poi mi sfilai la cintura, e glie la infilai nel collare a mo’ di guinzaglio.
«Che cosa cercate qui, Ben?» domandai, un poco più coraggiosa questa volta.
Egli non rispondeva. Mi guardava, con gli occhietti maliziosi.
«Sarà meglio che ve ne andiate» dissi. «Il signor de Winter non vuole che la gente entri qui dentro.» Con un ghignetto furtivo egli si raddrizzò in piedi, asciugandosi il naso col rovescio della mano. L’altra mano la teneva nascosta dietro il dorso.
«Che avete lì, Ben?» domandai. Come un bambino egli obbedì, e schiuse la mano, mostrandola. Cera dentro un amo.
«Non faccio mica niente» egli ripetè. «L’avete preso qui, quell’amo?» dissi. «Eh?» fece Ben.
«Sentite, Ben» dissi «potete prendere quell’amo, per questa volta, ma non lo fate
più. Non sta bene, prendere roba degli altri.»
Senza parlare egli mi guardava ammiccando e storcendosi come un verme.
«Venite qui» dissi, severa. Tornai nell’altra stanza, ed egli mi segui. Jasper aveva smesso di abbaiare e seguiva Ben alle calcagna, annusando. Non volevo trattenermi oltre là dentro; uscii fuori, al sole, seguita da Ben che strascicava i piedi. Chiusi la porta.
«Andate a casa, adesso, Ben» gli dissi. Egli si teneva stretto al petto l’amo, come un tesoro. «Non mi mandate al manicomio, no?» disse. M’avvidi allora che tremava tutto. Non riusciva a tener ferme le mani, e mi fissava Con lo sguardo d’una bestia terrorizzata.
«No, no; state tranquillo» replicai con dolcezza.
«Non ho mica fatto niente» egli ripetè. «Non ho mai detto niente» egli ripeteva. «Non l’ho mai detto a nessuno… Non voglio che mi mettano al manicomio.» E una lagrima gli colava lungo la guancia sudicia. «Non abbiate paura, Ben, nessuno vuol mandarvi via» gli dissi. «Ma non dovete più tornare in quella casa.» Egli mi cercò la mano, mentre mi veniva, dietro. «Qua» disse. «Ci ho qualche cosa per voi.» Sorrise, furbesco, e accennando col dito a un punto della spiaggia mi trasse con sé. Si chinò, tolse una pietra piatta, vicino a uno scoglio. C’era, sotto la pietra, un mucchietto di conchiglie. Egli ne scelse una, e me la porse. «Per voi» disse.
«Oh, com’è bellina! Grazie» dissi. Egli tornò a sorridere, strofinandosi le orecchie. La paura gli era passata. «Avete due occhi d’angelo» disse. Guardavo la conchiglia alquanto sorpresa. Non sapevo che dire.
«Non siete come quell’altra, voi» riprese Ben. «Come sarebbe a dire?» domandai. «Chi è l’altra?» Egli scrollò il capo. Di nuovo la fiammella maliziosa gli brillava negli occhi. Si puntò il dito contro il naso. «Alta e bruna era» disse. «Vi pareva di sentirvi accanto un serpe. L’ho veduta io, con questi occhi. Veniva di notte. L’ho vista io.» Sostò, quasi spiando l’effetto delle sue parole. «Una volta l’ho guardata dai vetri, per veder quel che faceva, ed essa s’è rivoltata, e come! “Non sai chi sono, hai capito?” m’ha detto. “Non mi hai veduta mai, e non mi vedrai mai più, hai capito? Se ti colgo un’altra volta a guardar dai vetri, ti faccio portare al manicomio” ha detto. “Non ti piacerebbe mica, eh? C’è la gente cattiva, al manicomio.” E io: “Non dico niente, madama!” E mi sono tolto il berretto, così…» E si toccava il cappellaccio d’incerata. «Se n’è andata via, ora, non è vero?»
«Non so di che parlate» dissi lentamente. «Nessuno vi vuol portare al manicomio.
Buon giorno, Ben.» Mi volsi per andarmene, tirando Jasper per il guinzaglio improvvisato. Povero diavolo, era un po’ scemo; non sapeva quel che si diceva. Chi mai avrebbe voluto cacciarlo in un manicomio? Maxim, e anche Frank, avevano detto che era innocuo. Una volta, forse, aveva udito i suoi lamentarsi di lui, e la memoria delle loro parole gli era rimasta impressa in mente, come una brutta visione avuta da bambino. E probabilmente aveva anche la mentalità, e le simpatie d’un bambino. Una persona gli andava a genio senza alcuna ragione; un giorno era di buon umore, e il giorno dopo, dispettoso. Come era stato garbato, perché gli avevo detto che tenesse pure l’amo. Domani, rivedendomi, magari non mi avrebbe riconosciuto. Mi voltai a guardar verso l’insenatura. La marea cresceva; il mare ribolliva intorno al muricciolo della darsena. Tra le nere cime degli alberi intravvedevo il camino di pietra, sul tetto della casetta. M’assali un improvviso inesplicabile desiderio di mettermi a correre. Tirandomi dietro Jasper, col fiato grosso affrettavo il passo su per il sentiero scosceso che s’addentrava nel bosco, senza più guardarmi addietro. Per tutto l’oro del mondo non sarei più tornata in quella casa. Mi pareva che in quel giardinetto invaso dalle ortiche ci fosse qualcuno in attesa. In agguato, anzi… Jasper abbaiava, nel correre. Forse credeva che fosse un gioco di nuovo genere. Continuava a cercar di mordere il guinzaglio, a tormentarlo. Non m’ero accorta quanto fossero fitti gli alberi: le radici invadevano il sentiero, come viticci giganteschi, pronti a imprigionare chi passava. Si dovrebbe ripulire un po’ tutto questo, pensavo correndo, ansante; Maxim potrebbe incaricare i giardinieri… Non c’è nessuna bellezza, in questo groviglio di vegetazione. Si dovrebbe liberare un po’ il sentiero da questi cespugli che lo soffocano; avrebbe più luce. Ora era scuro, troppo scuro. Quel nudo eucaliptus oppresso dai rovi tendeva i rami come sbiancate membra ischeletrite: e un ruscello fangoso scorreva silenzioso fin giù al mare, goccia a goccia, quasi oppresso da anni di detriti di piogge. Qui non s’udiva il canto d’uccelli come nella valle. La quiete era d’una natura diversa. E pur mentre correvo senza fiato su per il sentiero, udivo la voce del mare, via via che la marea cresceva. Ora capivo l’avversione di Maxim verso quei luoghi. Non piacevano neppure a me. Che stupida ero stata, a prender da quella parte. Avrei dovuto seguire la spiaggia, e ritornare per la Valle della Felicità.
Quando uscii all’aperto, e vidi la casa, sicura e accogliente tra il nido dei prati, mi parve di essere in un altro mondo. Ora mi sarei fatta portare il tè da Roberto sotto l’ippocastano. Guardai l’orologio; era più presto di quanto avessi creduto, non ancora le quattro. Avrei dovuto aspettare un pochino: a Manderley il tè non si serviva prima delle quattro e mezzo. Ero contenta che Frith avesse il suo pomeriggio di libertà; Roberto non avrebbe sfoggiato tutto quel cerimoniale, per servire il tè in giardino. Mentre attraversavo il prato, il mio occhio colse un baglior metallico tra il verde dei rododendri, alla prima svolta del viale. Facendomi schermo con la mano guardai meglio: pareva un radiatore d’automobile. Forse una visita? Se così fosse stato, la macchina sarebbe arrivata fino al peristilio: non c’era ragione che rimanesse nascosta dietro i cespugli. Mi avvicinai: sì, era un’automobile. Vedevo i parafanghi, ora, e la copertura. Strano. I fornitori, di solito, passavano per l’altra via, che dava alle scuderie e all’autorimessa. E non era nemmeno la Morris di Frank Crawley; questa era una macchina lunga e bassa, una macchina sportiva. Che fare? Se erano ospiti, certamente Roberto li aveva fatti entrare in biblioteca, o nella sala. Non volevo farmi vedere così com’ero vestita. E avrei dovuto offrir loro il tè… Esitai, sull’orlo del prato; e senza alcuna ragione, forse perché un attimo il sole giocava nei vetri, traendone riflessi, alzai lo sguardo alla facciata, e con sorpresa vidi che le persiane d’una finestra all’ala a ponente erano aperte. Qualcuno era affacciato alla finestra. Un uomo. Doveva avermi veduta, perché bruscamente si ritrasse, e una figura dietro di lui avanzò un braccio e richiuse le persiane.
Era il braccio della Danvers. Riconobbi la manica nera. Un minuto pensai che forse era il giorno in cui Manderley era aperto al pubblico, ed ella faceva fare il giro delle stanze. Ma non poteva essere, perché quella mansione spettava a Frith, e Frith era uscito. Inoltre, le stanze dell’ala a ponente non erano aperte al pubblico. Non c’ero mai stata nemmeno io. Forse stavano facendo qualche riparazione. Strano, però, che l’uomo che s’era affacciato si fosse ritratto subito, non appena m’aveva scorto, e anche le persiane fossero state richiuse. E quella macchina, celata dietro i rododendri, in modo che non si vedesse dalla casa… Insomma, tutto questo era affare della signora Danvers. Io non c’entravo, se ella faceva vedere quelle stanze a qualche suo conoscente. Però, non era mai successo prima; ed era strano, che dovesse capitare proprio il giorno che Maxim era assente.
Non troppo sicura di me, mi avviai verso la casa; e intanto pensavo che ancora potevo essere spiata, di dietro alle persiane.
Salii i gradini, entrai nel vestibolo. Nessuna traccia di un cappello o di un bastone forestiero; nessun biglietto di visita sul vassoio d’argento. Evidentemente non si trattava di una visita. Non era cosa che mi riguardasse. Per non salire, andai a lavarmi le mani al lavabo nella stanza dei fiori. Sarei rimasta imbarazzata, se mi fossi imbattuta con qualche sconosciuto su per le scale, o altrove. Poi, rammentai che prima di pranzo avevo lasciato il mio lavoro a maglia nella stanza di soggiorno, e m’avviai per prenderlo, seguita dal fedele Jasper. La porta della stanza era aperta; e m’avvidi che la mia borsa da lavoro era stata rimossa. Io l’avevo lasciata sul divano, ed era stata cacciata dietro un cuscino. E sul divano c’era un’impronta; da poco qualcuno doveva essersi seduto là: la stessa persona, forse, che aveva ricacciato in disparte la borsa. Anche la seggiola davanti allo scrittoio era stata rimossa. Forse la Danvers riceveva là i suoi amici personali, quando Maxim ed io eravamo fuori dai piedi? La cosa non era molto piacevole, e avrei preferito ignorarla. Jasper, alquanto sospettoso, dimenava la coda e annusava in giro. Presi la borsa e uscii. In quel momento la portai che dalla sala grande dava nel corridoio di pietra e alle stanze di servizio si aprì, e udii delle voci. Feci in tempo appena a ritrarmi senz’essere vista; e attesi, intimando silenzio con lo sguardo a Jasper, che sulla soglia mi guardava movendo la coda, la lingua fuori. Quel mascalzoncello avrebbe finito per tradirmi; e io trattenevo financo il fiato per non farmi sentire. Poi, udii la voce della signoraDanvers. «Credo che se ne sia andata in biblioteca. È rientrata presto, chissà perché. Se è in biblioteca, potete passare per il vestibolo senza ch’essa vi veda. Aspettate qui, vado a vedere.» Parlavano di me. Mi sentivo più che mai a disagio. Tutta quella faccenda aveva un che di equivoco. E non mi piaceva cogliere la Danvers in fallo. Tutt’a un tratto, Jasper volse la testa verso la sala, e trotterellando se ne uscì, tutto vispo.
«Ehi, piccolo delinquente» disse una voce maschile. Jasper abbaiava, eccitato. Disperatamente mi guardai in -giro, cercando dove nascondermi. Ma non c’era più speranza, ormai. Udii un passo dietro di me, e l’uomo entrò nella stanza. Non mi vide subito, perché ero dietro alla porta; ma Jasper, abbaiando più lieto che mai, spiccò un salto verso di me.
L’uomo girò sui tacchi, e mi scorse. Mai vidi una faccia più sorpresa. Avrei potuto essere un ladro e lui il padrone di casa.
«Oh, scusatemi» egli fece, e intanto mi guardava da capo a piedi.
Era un tipo alto e sanguigno, un viso abbronzato, d’una bellezza un po’ volgare. E gli occhi azzurri e accesi rivelavano il bevitore, la vita scioperata. I capelli rossicci avevano quasi il colore della pelle. Fra pochi anni quel giovanottone sarebbe stato pingue, e la nuca gli si sarebbe gonfiata a pieghe fuori del colletto. Anche la bocca lo tradiva, una bocca troppo molle, troppo rossa; e di là dove stavo, mi pareva di sentire un fiato greve di whisky.
Egli sorrise, come chi è uso a sorridere a qualsiasi donna.
«Non vi ho spaventata, spero?» disse. Dovevo aver l’aria alquanto sciocca, uscendo da dietro a quella porta. «No, affatto. Ho sentito delle voci, non sapevo chi potesse essere. Non aspettavo visite, oggi.» «Che vergogna, presentarmi così all’improvviso» egli disse. «Mi scuserete, vero? Vi dirò… ero capitato qui per salutare la vecchia Danny; è una mia buona amica.»
«Oh, avete fatto benissimo» replicai. Osservavo Jasper, che faceva le feste al giovane, fuor di sé dalla contentezza.
«Questo bricconcello non mi ha dimenticato, eh? S’è fatto una bella bestiola. Era ancora un cucciolo, quando l’ho visto l’ultima volta.»
«Siamo andati a fare una lunga passeggiata» dissi abbozzando un sorriso.
«Davvero? Bravi…» E intanto, s’era tolto di tasca il portasigarette. «Permettete?» Ne cavò una sigaretta e l’accese, dopo aver fatto il gesto di offrirmene una. Non che io dessi molta importanza a queste cose, ma mi pareva strano che una persona fumasse così, in casa d’altri. Non erano certo modi signorili. E in ogni caso, quell’uomo non mostrava troppo riguardo verso di me. «Come va Max?» domandò, con un tono che mi stupì. Era un tono di familiarità; ma più ancora mi sorprese sentir chiamare mio marito “Max”. Nessuno lo chiamava così…
«Sta bene, grazie. È andato a Londra.» «E ha lasciato sola la sposa? Oh, che cattivo!» E rise, rumorosamente. Non mi piaceva quella risata; aveva un che di offensivo. In quel mentre entrò la signora Danvers. Al sentire quello sguardo fisso su di me, mi venne freddo. Dio, come doveva odiarmi quella donna! «Dunque, Danpy, le nostre precauzioni erano inutili!» disse il giovane. «La padrona di casa era nascosta dietro la porta». E tornò a ridere. La signora Danvers taceva e mi guardava. «Ebbene, non mi presentate?»
egli riprese. «Dopo tutto, si usa far visita alle spose, non è vero?»
«Questo è il signor Favell, signora» disse la signora Danvers, apatica, quasi riluttante. Pareva che non le facesse troppo piacere presentarmi. «Fortunatissima» dissi; e poi; con uno sforzo per mostrarmi garbata: «Non volete trattenervi per il tè?»
«Oh, un invito veramente gentile!» esclamò il giovane. Ma avevo colto a volo un’occhiata della Danvers, come se ella volesse metterlo in guardia. «Veramente, è ora che me ne vada…» egli s’affrettò a soggiungere. La situazione era piti che mai equivoca; non solo, era assurda.
«Vi ringrazio lo stesso, però… Non volete accompagnarmi fuori? Venite almeno a vedere la mia macchina! Una bella macchinetta, sapete? Molto più veloce di quante ne abbia avute quel povero Max…» Quel tono familiare era davvero offensivo. Io non avevo nessuna voglia di uscire a vedere la sua macchina. E intanto, non riuscivo a trovare una scusa. E perché mai la Danvers seguitava a guardarmi con quegli occhi in cui covava una fiamma?
«Dov’è la macchina?» domandai, senza troppo entusiasmo.
«Nel viale, al di là della curva. Non sono arrivato fin davanti alla casa… Avevo paura di disturbare. Pensavo che al pomeriggio riposavate, forse…» Non dissi nulla. Il pretesto era troppo evidente. Uscimmo tutti e tre nel vestibolo. Vidi che il giovane s’era voltato, e oltre le spalle aveva fatto cenno alla signora Danvers, la quale non replicò. Aveva l’aria scura, chiusa in sé. Jasper sgambettava avanti a noi, tutto gioioso per l’improvvisa scoperta di quel signore che, a quanto sembrava, doveva essere una vecchia conoscenza. «Ho lasciato il cappello nell’automobile, mi pare…» egli disse, dandosi d’attorno un’artificiosa occhiata. «Non sono entrato da questa parte… Ero passato di dietro, volevo fare una sorpresa alla buona Danny… Venite fuori anche voi, Danny?»
Guardandomi con la coda dell’occhio, la vecchia esitava. «No» disse. «No, non esco. Arrivederci, signor Jack.»
Egli le prese la mano, glie la serrò con effusione. «Arrivederci, Danny, abbiatevi cura, eh? Avete il mio indirizzo, caso mai… Mi ha fatto bene rivedervi.» Egli uscì sul viale; lentamente lo seguii, più disorientata che mai.
«Caro il mio vecchio Manderley» disse, alzando lo sguardo alla facciata. «Non è affatto mutato. Ci sarà Danny che ci pensa, in quanto a questo. Una donna in gamba, vero?»
«Si, è molto energica» risposi. «E dite un po’, come vi trovate, qui?» «Mi piace molto Manderley» replicai, sostenuta. Eravamo giunti all’automobile. Una poderosa
macchina verde, che aveva una strana analogia col suo proprietario.
«Che ve ne pare?»
«Molto bella» dissi, condiscendente.
Egli seguitava a guardarmi tutta, con una espressione tra ironica e confidenziale in quei suoi insolenti occhi azzurri. Mi pareva di essere una cameriera d’un caffè di terz’ordine. Egli aveva preso il suo berretto, intanto, e un paio di guanti da guidatore.
«Arrivederci» disse dopo aver buttato via la sigaretta, porgendomi la mano. «Son stato ben contento d’avervi conosciuta.» «Buon giorno» risposi.
«A proposito» egli riprese, guardando all’aria, noncurante. «Mi fareste un favore, se non parlaste di questa mia visitina con Max. Ecco, vedete, io non gli sono molto simpatico… non so proprio perché, ma è un fatto… e non vorrei procurar dispiaceri a quella povera donna.»
«Va bene» replicai, imbarazzata. «Non gli dirò nulla.»
«Ecco, brava, così va bene. Allora… arrivederci. Chissà che non torni a trovarvi, un giorno o l’altro. Jasper, vigliacco, giù di lì! Mi gratti tutta la vernice!» Ridendo si tirò il berretto sugli occhi. Era salito al volante, e mise in moto la macchina, che partì di colpo, con una esplosiva, furia prepotente. Jasper gli guardava dietro, le orecchie penzoloni, la coda tra le gambe. «Su, vieni, Jasper! Non far quell’aria idiota.» Adagio m’incamminai verso la casa. La signora Danvers era sparita. Nel vestibolo suonai il campanello. Nessuno veniva; dopo cinque minuti buoni tornai a sonare. Apparve finalmente Alice, con una faccia che esprimeva una certa meraviglia. «Signora?» disse.
«Ah, Alice!» feci. «Roberto non c’è? Avrei voluto farmi portare il tè sotto l’ippocastano.» «Roberto è andato alla posta, e non è ancora tornato, signora. La signora Danvers aveva capito che sareste rientrata piuttosto tardi per il tè. E anche Frith è fuori. Se desiderate il tè adesso, posso prepararvelo io. Non sono ancora le quattro e mezzo…» «Non fa nulla, Alice. Aspetterò finché Roberto sia tornato.»
Non appena Maxim era via, automaticamente le cose andavano come volevano… Così giudicai, almeno. Non era mai accaduto che Frith e Roberto si trovassero fuori contemporaneamente. Frith, è vero, aveva la sua giornata libera. E Roberto era stato mandato alla posta. E io dovevo essere uscita per una lunga passeggiata. Quel signor Favell aveva scelto bene il momento per far visita alla signora Danvers. Quasi troppo bene… C’era qualcosa che non andava, in quella storia, l’avrei giurato. E quella preghiera di non dir nulla a Maxim? L’ultimo pensiero mio, naturalmente, era quello di procurar seccature alla governante, o di provocar qualche scenata. Ma meno ancora avrei voluto dare un dispiacere a Maxim.
Chi poteva essere, quel Favell? Egli chiamava Maxim “Max”. Nessuno lo chiamava così. Lo avevo veduto scritto una sola volta, quel nome, sul frontespizio di un libro, a caratteri alti obliqui, stranamente aguzzi, la coda della M molto decisa, assai lunga. Credevo ci fosse stata una sola persona che lo aveva chiamato Max. E mentre irresoluta ero lì nel vestibolo, la mente tuttora al mio tè, incerta su quel che avrei fatto, l’idea mi sorse all’improvviso che forse la signora Danvers non era una persona per bene, e che tramava qualche losca faccenda alle spalle di Maxim; e tornando oggi prima del tempo avevo scoperto lei e il suo complice, e questi se l’era cavata fingendo di essere un vecchio amico di casa di Maxim. Ma che cosa facevano quei due nell’ala a ponente? Perché avevano chiuso le persiane non appena mi avevano veduta? Mi assaliva una vaga inquietudine. Frith e Roberto assenti… Le cameriere, di solito, erano nelle loro camere, nelle prime ore del pomeriggio… La Danvers poteva dirsi padrona di casa, a quell’ora. E se quell’uomo fosse un ladro, e avesse abbindolato la vecchia? C’erano oggetti di valore, nell’ala a ponente. E m’invadeva una improvvisa paurosa risoluzione di salire di sopra, a quelle stanze, e accertarmi io stessa… Roberto non era ancora ritornato. Avevo giusto il tempo, prima del tè. Esitavo, guardando la galleria. La casa pareva immersa nella quiete e nel silenzio. La servitù era lontana. Jasper lappava rumorosamente l’acqua nella sua tazza, a piè della scala, e l’eco si diffondeva per le alte volte. Mi avviai verso lo scalone. Il cuore mi batteva come per un’emozione strana e insolita.
XIV
Ero in quello stesso corridoio dove già m’ero trovata la prima mattina. Non v’ero più stata, né avevo alcun desiderio di andarci. Il sole, irrompendo a fiotti dalla finestra nell’alcova, tracciava motivi d’oro sui pannelli di quercia brunita.
Nessun rumore. Tosto percepii quel medesimo odor di ambiente chiuso e disabitato che già conoscevo. Rimasi incerta da qual parte dirigermi; la pianta della casa m’era tuttora sconosciuta. Rammentai che, l’altra volta, la signora Danvers era sbucata fuori da una porta alle mie spalle, e mi parve che la stanza che cercavo, le cui finestre guardavano ai prati e al mare, dovesse esser situata press’a poco in quella posizione. Girai la maniglia, entrai. Era buio, essendo chiuse le persiane. A tentoni cercai l’interruttore e feci luce. Mi trovavo in una piccola anticamera, uno spogliatoio, a giudicar dai grandi armadi alle pareti; di faccia a me c’era un’altra porta, aperta, che dava in una stanza più vasta. Vi entrai, girai anche qui l’interruttore. Per poco non indietreggiai sorpresa: la stanza, completamente ammobiliata, dava l’impressione di essere abitata.
M’ero attesa di veder seggiole e tavole imbacuccate nelle fodere di tela, e coperte di tela sul gran letto matrimoniale addossato alla parete. Nulla era ricoperto, invece. Sulla pettiniera v’erano spazzole e pettini, profumi, scatole di cipria. Il letto era rifatto: vedevo un biancor di lino sul capezzale; un orlo di lenzuolo bianco sporgeva di sotto alla trapunta di seta. C’erano dei fiori davanti allo specchio, e sul tavolino accanto al letto; e fiori sul piano del gran caminetto scolpito. Su una poltrona era abbandonata una vestaglia di seta, e a terra c’era un paio di pantofoline. Per un esasperato momento pensai che mi avesse dato di volta il cervello; forse io vedevo il tempo alla rovescia, e la stanza m’appariva come prima ch’ella fosse morta… Fra un momento Rebecca forse sarebbe entrata, si sarebbe seduta davanti allo specchio, a ravviarsi i capelli. Di là dov’ero avrei veduto la sua figura riflessa nello specchio, e anche lei mi avrebbe veduta, appoggiata allo stipite della porta. Nulla si mosse invece. Io rimanevo là, in attesa di qualcosa; qualcosa che doveva manifestarsi. Fu, forse, il ticchettio della pendola alla parete che mi richiamò alla realtà. Le lancette segnavano le quattro e venticinque. Il mio orologio segnava la stessa ora. Quella piccola voce aveva un che di quieto che mi fece rinsavire. Mi richiamava all’ora presente, al tè che fra poco avrebbero preparato per me, laggiù sul prato. Lentamente avanzai fino a mezzo della stanza. No, non era una stanza abitata. Là non viveva nessuno. Nemmeno i fiori riuscivano a sopraffare quell’odor di sfacelo. Le cortine erano tirate, e le persiane chiuse. Rebecca non sarebbe tornata mai più. I fiori che la signora Danvers metteva sui tavolini, le lenzuola che cambiava al letto non avevano il potere di rievocarla. Ella era morta. Da più di un anno era morta. Seppellita nella cripta della chiesa, assieme a tutti gli altri morti dei de Winter. Udivo distintamente la voce del mare. Andai alla finestra, aprii le persiane. Sì, mi trovavo alla medesima finestra, dove, mezz’ora fa, s’erano affacciati quel Favell e la signora Danvers. Il lungo dardo di luce che si proiettò nella stanza faceva apparir falsa e giallognola la luce elettrica. Aprii ancora un poco la persiana. Il sole gettava un riflesso vivido, quasi bianco, sulla coperta; splendeva sulla borsa della camicia da notte, carezzava il guanciale. Giocava sul piano di cristallo della pettiniera, sulle spazzole, sulle boccette dei profumi.
La luce del giorno conferiva a tutta la stanza un aspetto più reale. Con le persiane chiuse e la luce elettrica, m’era apparsa come una stanza allestita su un palcoscenico deserto dagli attori. Già il sipario era calato sull’ultimo atto; e la scena era rimasta tale e quale, in attesa d’uno spettacolo diurno del giorno dopo. Ma col sole, tutto s’era ridestato a vita. Dimenticavo l’odor di chiuso, le tende tirate alle altre finestre. Ero un’ospite; un’ospite che per sbaglio, girovagando nei corridoi, era entrata nella stanza della padrona di casa.
Per la prima volta da che ero lì m’accorsi che mi tremavano le gambe. Le sentivo deboli come fuscelli di paglia. E il cuore non mi batteva più così agitato. Ero diventata d’una pesantezza plumbea. Mi guardavo d’attorno come intontita. Sì, era una stanza veramente bella. La signora Danvers non aveva esagerato, quella prima sera. Era la più bella stanza di tutta la casa. Quel gioiello di caminetto, il soffitto, il letto scolpito e i tendaggi, persino la pendola alla parete e i candelabri sulla pettiniera, erano cose che avrei amato, quasi adorato se fossero state mie. Ma non erano mie, no. Appartenevano a un’altra donna. Tesi la mano, a toccar le spazzole. Una era più consunta della compagna. Spesso accade così; ce n’è sempre una che si adopera di più. A volte ci si dimentica di usar l’altra, e quando si mandano a lavare, ce n’è una ancora pulita… Ma quanto bianca e scarna appariva la mia faccia nello specchio; come pendevano lisci e flosci i miei capelli! Ero sempre così? Di solito, dovevo pur avere un po’ più di colore. Quel viso che mi fissava era un viso insignificante.
Mi alzai dallo sgabello sul quale m’ero lasciata cadere, e sfiorai la vestaglia sulla poltrona. Raccolsi da terra le pantofole e le tenni in mano. Mi assaliva a poco a poco un senso d’orrore, e l’orrore si mutava in disperazione. Toccai la trapunta di raso sul letto, seguii con le dita il monogramma sulla borsa della camicia da notte: R. de W. Le iniziali intrecciate, ricamate a cordoncino sul broccatello d’oro, spiccavano come scolpite. Dentro alla borsa c’era la camicia, d’una seta color albicocca lieve come un soffio. La trassi fuori e la strinsi contro il volto. Era fresca, quasi fredda. Ma esalava, anch’essa, un vago odor di sfacelo. L’odore delle azalee bianche. La ripiegai, la rimisi nella borsa, e con un’angoscia che come una morsa mi serrava il cuore notai le pieghe nella seta: non era stata lavata né toccata da quando era stata portata per l’ultima volta.
Un’improvvisa curiosità mi fece allontanare dal letto e ritornare nella piccola anticamera dove avevo visto gli armadi. Ne aprii uno. Come avevo immaginato, era pieno di abiti. C’erano vesti da sera; il luccichio d’un tessuto d’argento s’intravedeva fuori d’una sacca di tela bianca che lo avvolgeva. C’era un vestito di broccato d’oro; e quello di raso bianco toccava il fondo dell’armadio. Da una carta velina, su un palchetto, faceva capolino un ventaglio di piume di struzzo.
Nel chiuso dell’armadio il profumo d’azalea bianca, fragrante e delicato nell’aria, s’era irrancidito, offuscando l’oro e l’argento dei broccati; e ora mi alitava incontro dagli sportelli aperti, vecchio, flebile, quasi un respiro umano. Richiusi gli sportelli, e tornai nella stanza da letto.
Un passo risonò alle mie spalle. Mi voltai: era la signora Danvers. Mai avrei dimenticato l’avida espressione trionfante di quel viso. L’eccitazione quasi perversa che lo deformava mi sgomentò. «Desiderate qualcosa, signora?» ella disse. Tentai di sorridere, e non potei. Né riuscii a parlare. «Non vi sentite bene?» ella riprese, avvicinandosi, con una voce quasi dolce. Indietreggiai. Credo che se mi si fosse avvicinata ancora, sarei svenuta. Già mi sentivo il suo alito nel viso.
«Grazie, signora Danvers, non ho nulla» dissi, dopo un momento. «Non mi aspettavo di vedervi. Ecco… dal prato guardavo su alle finestre, e ho visto che una era rimasta socchiusa. Sono salita per vedere di chiuderla.» «Ora la chiudo io.» Senza far rumore ella andò alla finestra, e assicurò la persiana. La luce del sole sparì. Al falso riflesso giallastro della lampada elettrica, la stanza era tornata irreale, immersa in un’atmosfera lugubre. La signora Danvers tornava a me, sorridendo; il suo fare, invece d’essere chiuso e compassato come sempre, era diventato singolarmente familiare, insinuante quasi. «Perché dirmi che la persiana era aperta?» disse. «L’avevo chiusa io, prima di uscire di qui. L’avevate aperta voi, non è vero, signora? Volevate vedere la stanza. Ma perché non mi avete mai chiesto di mostrarvela! Io ero pronta a mostrarvela, sempre. Non avevate che a dirmelo.»
Avrei voluto fuggire, ma ero come inchiodata. «Ora che siete qui, lasciate che vi faccia vedere tutto.» Quella voce, melliflua come se volesse ingraziarmisi, sonava falsa, orribile.
«Lo so che desideravate vedere tutto, ma forse non osavate chiedermelo? È una bella stanza, non è vero? È difficile trovarne una più bella…»
Ella m’aveva preso per il braccio, e mi traeva verso il letto. Come resisterle? Ero diventata inerte. Il tocco di quella mano mi fece rabbrividire. E quella voce bassa, ch’io odiavo e paventavo, ora diventava sempre più confidenziale…
«Questo era il letto. Che magnifico letto, non è vero? Ci tengo sempre la trapunta d’oro: era quella che lei preferiva. E qui nella borsa c’è la camicia da notte. L’avete già toccata, no? Era quella che ha portato per l’ultima volta, prima di morire. Volete toccarla ancora?» La tolse dalla borsa, me la porse. «Sentite, com’è soffice, leggera… Non l’ho fatta lavare, da quando lei l’ha messa l’ultima volta. E la metto sempre fuori, così, e anche la vestaglia e le pantofole, come avevo fatto anche l’ultima notte, la notte che non è più tornata, che è annegata.» Ripiegò la camicia, la ripose nella borsa. «Sapete, ero io che facevo tutto per lei» continuò, e presami di nuovo per il braccio, mi conduceva verso la vestaglia e le pantofole. «Abbiamo provato una cameriera dopo l’altra, ma nessuna andava bene. “Tu mi servi meglio di tutti, Danny” mi diceva sempre. “Non voglio altri che te.” Ecco la vestaglia. Essa era molto più alta di voi, lo vedete dalla lunghezza. Mettetevela addosso, vi strascica in terra. Oh, aveva un bellissimo personale. E queste sono le pantofole. “Buttami le mie ciabatte, Danny” mi diceva. Aveva dei piedini così minuti, per la sua statura. Metteteci dentro la mano; sono piccole e strette, vero?»
A forza mi cacciava in mano le pantofole, e non cessava di sorridere, spiando il mio sguardo. «Non si direbbe ch’essa fosse tanto alta, non è vero? Queste sembrano fatte per un piede da bambola. Era tanto sottile… Non ci si accorgeva che fosse tanto alta, fino a che non le si era vicino. Era più alta di me. Eppure, quando stava in letto pareva un cosino da nulla, con tutti quei capelli neri che le facevano una nuvola intorno al viso…» Posò le pantofole in terra, rimise la vestaglia sulla poltrona. «E le spazzole, le avete viste?» E mi traeva alla pettiniera. «Eccole; non son più state toccate, da quando essa non le adoperava più. Ero io che le spazzolavo i capelli, la sera. “Su, vieni qui, Danny, spazzola Vivente!” mi diceva; e mi mettevo in piedi dietro di lei, qui vicino a questo sgabello, e spazzolavo: venti minuti di seguito, a volte. Da qualche anno soltanto li portava corti; ma quando s’era sposata, le cadevano fino alla vita. Allora, glie li spazzolava il signor de Winter. Quante volte sono entrata qui dentro, e lui era in maniche di camicia, con le due spazzole in mano. “Più forte, Max, più forte!” diceva, ridendo, e lui spazzolava con quanta forza aveva. Si vestivano per la cena; la casa era piena d’invitati. “Su, che sarò in ritardo!” diceva il signor de Winter, e rideva anche lui, e mi buttava le due spazzole. Era sempre allegro, e aveva voglia di scherzare, allora.» Ella sostò, la mano sul mio braccio.
«Tutti la disapprovarono, quando si tagliò i capelli» ella proseguì «ma che importava, a lei? “E’ una cosa che riguarda me sola” diceva. Certo, i capelli corti erano molto più comodi, per cavalcare, per andare in mare. Un pittore famoso la dipinse a cavallo, sapete. Il ritratto è stato esposto all’Accademia. Non lo avete mai visto?» Scossi il capo. «No…No.»
«Da quel che ho sentito dire, è stato il quadro che ha fatto più impressione quell’anno, ma al signor de Winter non piaceva, e non lo ha voluto a Manderley. Mi pare d’avergli sentito dire che non l’abbelliva molto… Volete vedere anche i suoi vestiti?» Senza attender risposta mi trasse alla piccola anticamera, e a uno a uno aprì gli armadi.
«Tengo qui anche le pellicce» disse. «Le tarme non ci sono ancora arrivate, e noncredo che le guasteranno mai. Sentite questa martora. È stato un regalo di Natale del signor de Winter; sapevo quanto costava, ma ora non ricordo più. Questa mantellina di cincillà, la portava di sera, di solito. Se la buttava sulle spalle, nelle serate fredde. E questo è l’armadio dei vestiti da sera… oh, l’avevate aperto? Vedo che non è ben chiuso… Al signor de Winter piaceva molto vederla vestita d’argento. Ma poteva portar tutto; non c’era colore che non le donasse. Con questa veste di velluto era uno splendore. Sentitelo un po’ sulla faccia; come è morbido, vero? E il profumo è ancora forte. Quasi si potrebbe credere che se lo sia appena tolto. Io lo sapevo sempre, quand’essa era stata in una stanza. Si lasciava dietro una piccola scia del suo profumo. E qui, in questo cassettone, c’è la sua biancheria. Questa di seta rosa, non l’ha mai messa… Quand’è morta, non aveva indosso che una camicetta e un paio di calzoni alla marinara. E l’acqua le ha strappato tutto di dosso, ancora. Non aveva più nulla, quando l’hanno ritrovata, dopo tante settimane.»
Le dita si rinserravano adunche sul mio braccio. Ella si curvò, la bianca faccia di teschio vicino alla mia, gli occhi scuri fissi nei miei. «Sapete, s’era sbattuta sugli scogli, ed era tutta scarnificata» sussurrò. «Quel viso così bello, era diventato irriconoscibile; e aveva perduto tutte e due le braccia. Il signor de Winter ha dovuto andare a Edgecombe a identificarla. E ci è andato da solo. Era molto malato, in quei giorni, ma ha voluto andarci ugualmente. Nessuno ha potuto impedirglielo. Nemmeno il signor Crawley.»
Ella s’interruppe, poi riprese, sempre guardandomi fisso. «Non me la perdonerò mai» quella disgrazia. È stata colpa mia, perché ero fuori, quella sera. Nel pomeriggio ero andata a Kerrith, e m’ero trattenuta fino a tardi; la signora era a Londra, e non l’aspettavamo che a notte. Per questo non m’affrettai. Quando tornai, erano le nove e mezzo all’incirca, mi dissero che la signora era rientrata poco prima delle sette, s’era fatta servire la cena ed era di nuovo andata via. Alla spiaggia, naturalmente. Mi sentii in pensiero, allora. Soffiava il vento da sud-est. Se ci fossi stata io, non sarebbe mai andata. A me dava sempre ascolto. “Io non andrei fuori stasera, il tempo non è buono” le avrei detto, ed essa m’avrebbe risposto come al solito: “E sta bene, Danny, vecchia brontolona…”. E ci saremmo sedute qui a chiacchierare, e come tante altre volte, essa m’avrebbe raccontato quel che aveva fatto a Londra.»
Avevo il braccio indolenzito e intorpidito, sotto la morsa di quelle dita. Vedevo la pelle tesa su quella faccia dà morto, gli zigomi sporgenti, le macchioline giallognole dietro le orecchie…
«Il signor de Winter aveva cenato col signor Crawley giù alla casa vicino all’ufficio» ella continuò. «Non so bene a che ora fosse rientrato: potevano essere le undici passate. Ma intanto, poco prima della mezzanotte il vento s’era messo a soffiar forte, e la signora non era ancora tornata. Scesi nel vestibolo; ma sotto la porta della biblioteca non si vedeva luce. Risalii di sopra, bussai alla porta dello spogliatoio. Il signor de Winter mi rispose subito: “Chi è? Che cosa c’è?”. Gli dissi che ero in pensiero per la signora che non era ancora tornata. Dopo un momento mi aprì la porta, in vestaglia. “Si sarà trattenuta a dormire giù nella casetta” mi disse. “Al posto vostro me ne andrei a letto. Se continua questo vento, non si metterà certo in strada per venire a dormir qui.” Aveva una faccia stanca, e quasi mi pentivo d’averlo disturbato. Dopo tutto, di notti alla casetta ne aveva passate tante, e in mare c’era stata con tempacci d’ogni sorta. Poteva anche darsi che non si fosse messa in mare, ma volesse soltanto passar la notte alla casetta, tanto per svagarsi, dopo la giornata a Londra. Ma intanto, io non dormivo. Che cosa farà mai? seguitavo a domandarmi…»
Di nuovo ella si fermò. Non volevo più sentire. Avrei voluto fuggire, uscire da quella stanza. Ma già ella riprendeva il racconto.
«E così, alzata a sedere sul letto, rimasi fino alla mattina, poi non resistei più. Mi alzai, mi vestii, mi buttai addosso un soprabito, e andai giù alla spiaggia, attraverso i boschi. Già era giorno fatto, e il vento era caduto, ma veniva giù una pioggerella fine, e c’era un po’ di nebbia. Alla spiaggia vidi subito la boa galleggiante, e il canotto, ma il battello non c’era…» Mi pareva di vedere la piccola baia nella grigia luce mattutina; e sentivo la pioggerella bagnarmi la faccia, e aguzzando gli occhi vedevo attraverso la nebbia, come un’ombra in mezzo all’acqua, una forma vaga e scura: la boa…
La vecchia rallentò la stretta sul mio braccio; la mano le ricadde lungo il fianco. La sua voce perdette ogni calore, fu, di nuovo, l’apatica indifferente voce di tutti i giorni.
«Uno dei salvagente fu gettato sulla spiaggia di Kerrith quel pomeriggio stesso. Un altro lo trovarono il giorno dopo certi pescatori di granchi tra gli scogli, al di là del promontorio. E la marea buttava a riva anche dei pezzi di attrezzatura.» Distogliendosi da me ella richiudeva a uno a uno i cassetti, raddrizzava un quadro alla parete, raccoglieva un batuffolo di piuma sul tappeto. La guardavo, senza saper che fare.
«E adesso, sapete perché il signor de Winter non vuole più abitare queste stanze? Perché non vuole sentire il mare.»
Anche con le finestre e le persiane chiuse, la udivo, la voce del mare; il brontolio sordo, minaccioso delle onde che s’infrangevano sul lido petroso. Presto la marea crescente avrebbe sommerso la spiaggia, quasi arrivando a lambire le mura di pietra della casetta. «Non è più entrato in queste stanze, dalla notte che essa è annegata» diceva la signora Danvers. «Ha fatto portar subito via le sue cose dallo spogliatoio. Gli abbiamo preparato una camera in fondo al corridoio. Ma non credo che dormisse molto, nemmeno là. Passava le notti sulla poltrona. E al mattino, c’era la cenere delle sigarette tutt’intorno. E di giorno, Frith lo sentiva camminare su e giù, in biblioteca. Su e giù, su e giù…» Anch’io vedevo la cenere di sigarette, in terra, tutt’attorno alla poltrona. E udivo i suoi passi. Uno due, uno due, avanti e indietro… Dolcemente la signora Danvers chiuse la porta fra la camera da letto e l’anticamera, e spense la luce. Non vedevo più il letto, né la borsa della camicia da notte sul guanciale; né la pettiniera, né le pantofole davanti alla poltrona. Attraversata l’anticamera, la mano sulla maniglia, la vecchia aspettava ch’io la seguissi. «Vengo sempre io qui a spolverare ogni giorno» disse. «Quando volete tornare, non avete che a dirmelo. Chiamatemi al telefono. Capirò. Non permetto mai alle cameriere di venire quassù. Non ci viene altri all’infuori di me.»
Di nuovo ella assumeva quel tono d’equivoca intimità. E aveva sulle labbra un sorriso artefatto, sforzato. «Qualche volta, quando il signor de Winter è fuori, e vi sentite sola, potrebbe farvi piacere salire e sedervi un poco qui. Non avete che da avvertirmi. Si sta così bene, qui. Non si direbbe che sia tanto tempo che essa non c’è più, eh? Tutto è così in ordine… Si direbbe che essa sia appena uscita, e debba ritornare a sera.» Abbozzai un sorriso, incapace a pronunciar parola. Mi sentivo la gola secca, serrata.
«E non è soltanto in queste stanze. In molte altre della casa. Nella stanza a mattina, nel vestibolo, persino nella cameretta dei fiori. Io la sento dovunque. E non la sentite anche voi, dite?»
Mi guardava in un curioso modo, la vecchia. Abbassò la voce, sino a un soffio. «Certi giorni, quando cammino per il corridoio, la sento dietro di me. Quel passo svelto, leggero. Non potrei scambiarlo per nessun altro. E nella galleria dei menestrelli, sopra al vestibolo! Me la vedo appoggiata là, come certe sere, che guarda giù e chiama i cani. Così me la figuro, ogni tanto. E mi par di sentire il fruscio del suo vestito giù per lo scalone, e vederla scendere per la cena.» Tacque, guardandomi di sottecchi. «Non credete che possa vederci ora, noi due, qui a discorrere?» disse lentamente. «Non credete che i morti ritornino, a veder che cosa fanno i vivi?» Inghiottii la saliva. Serravo le mani tanto che le unghie mi si conficcavano nella carne.
«Non so» dissi. «Non so.» La mia stessa voce mi parve stridula, non naturale. Non era più la mia voce. «Qualche volta…» sussurrava la vecchia. «Qualche volta, chissà se essa non torna a Manderley, a vedere voi e il signor de Winter insieme…»
Ferme sulla soglia, ci fissavamo. Mi sentivo come inchiodata da quegli occhi. Quanto scuri e cupi erano nel viso cereo, quanto malevoli, e pieni d’odio! Poi ella aprì la porta che dava al corridoio. «Roberto è tornato» disse. «È tornato un quarto d’ora fa. Ho dato ordine di portarvi il tè sotto l’ippocastano.» E si scostò, a cedermi il passo. Quasi incespicando uscii; non guardavo dove mettevo i piedi. Senza dire una parola, alla cieca scesi le scale, e spinsi la porta che dava nell’ala a levante. Come fui nella mia stanza, chiusi la porta a doppia mandata, e mi misi la chiave in tasca. Mi buttai sul letto, chiusi gli occhi. Mi sentivo morire.
XV
Maxim telefonò la mattina dopo, per avvertire che sarebbe stato di ritorno verso le sette. Fu Frith che prese la comunicazione; Maxim non chiese nemmeno di parlare a me. Udii il telefono mentre facevo colazione; m’aspettavo che Frith entrasse a dirmi: “Il signore è al telefono, signora”. Già avevo posato il tovagliolo, e m’ero alzata… «Il signore ha già tolto la comunicazione, signora» si sentì in dovere di dirmi Frith, dopo che m’ebbe riferito l’ambasciata. «Ha detto soltanto che sarebbe tornato verso le sette.»
Risedetti, ripresi il tovagliolo, pensando che dovevo aver fatto una ben misera figura, a precipitarmi così. «Grazie, Frith. Sta bene…» E seguitai a mangiar le uova al lardo. Come passare la giornata? Avevo dormito male; forse perché ero sola nella gran camera da letto. Irrequieta, mi destavo ogni tanto, e guardando l’orologio vedevo che le lancette si erano appena mosse. E quando m’assopivo, facevo sogni turbinosi e strani. Andavamo per i boschi, Maxim e io; lui camminava alcuni passi avanti a me. Non riuscivo a tenere il passo con lui, e non potevo vederlo in viso. Non vedevo che le sue spalle… Dovevo anche aver pianto, dormendo, ché al mattino mi trovai il guanciale tutto umido; lo specchio mi rivelò due occhi gonfi. Mi vedevo più incolore e sgraziata che mai. In un infelice tentativo di ravvivarmi un poco il viso mi strofinai un’ombra di rosso al sommo della gota; ma fu peggio. Ora parevo un pagliaccio. Forse ignoravo l’arte di truccarmi. Vidi che Roberto mi guardava attonito, mentre attraversavo il vestibolo per andare in sala da pranzo. Verso le dieci stavo sbriciolando un biscotto per gli uccellini sulla terrazza, quando di nuovo il telefono trillò. Questa volta era per me. Frith venne a dirmi che la signora Lacy desiderava parlarmi. «Buon giorno, Beatrice» dissi, all’apparecchio. «Dunque, cara, come va?» diceva Beatrice con quella voce che aveva sempre al telefono: voce sonora, pratica, un poco maschile. E poi, senza attender risposta: «Pensavo di andare a fare una visitina alla nonna, oggi. Sono a pranzo da certi amici che non stanno molto lontano da voialtri. Vuoi che venga a prenderti? Sarebbe tempo che tu facessi conoscenza con la vecchia signora, no?». «Con molto piacere, Beatrice» risposi. «A meraviglia. Benissimo, dunque, vengo a prenderti alle tre e mezzo circa. Giles ha visto Maxim, al pranzo. Cucina così e così, vini eccellenti. Bene, cara, a più tardi, allora.»
Lo scatto dell’apparecchio; ella se n’era andata. Ritornai in giardino. Quella proposta di far visita alla nonna mi piaceva. Era la prospettiva di qualcosa da fare; avrebbe interrotto la monotonia della giornata. Altrimenti, le ore mi sarebbero parse così lunghe, fino alle sette. Non mi sorrideva l’idea d’andar con Jasper alla Valle della Felicità, e di là alla spiaggia, a gettar sassi nell’acqua. Il senso di libertà era scomparso, e con esso il fanciullesco desiderio di correre per i prati in sandali di tela. Andai a sedermi con un libro e il Times e il lavoro a maglia nel giardino delle rose, casalinga come una giovane matrona, sbadigliando al sole caldo mentre le api ronzavano tra i fiori.
Mi sforzai di concentrarmi sulle colonne di notizie politiche, come in seguito cercai d’interessarmi al vertiginoso intreccio del romanzo che avevo incominciato. Non volevo pensare al pomeriggio del giorno avanti, alla signora Danvers. Volevo dimenticare ch’ella era in casa, e forse mi spiava da una finestra. Ogni tanto, alzando il capo dal libro, davo un’occhiata al giardino; e avevo l’impressione di non esser sola.
C’erano tante finestre, a Manderley; tante stanze che Maxim e io non usavamo, e che ora erano chiuse: silenziose stanze ammantate in teli che proteggevano i mobili dalla polvere, le quali, erano aperte ai tempi del padre, del nonno de Winter, quando c’era un gran andirivieni di invitati, e una servitù numerosa. Facile sarebbe stato, per la signora Danvers, aprire senza rumore una di quelle porte, e richiuderla e in punta di piedi attraversare la stanza avvolta nel silenzio, e spiarmi dietro a uno spiraglio di cortine.
Io non me ne sarei accorta, nemmeno guardando alle finestre, non l’avrei vista. Ricordavo un gioco al quale avevo giocato bambina, un gioco che i miei piccoli vicini chiamavano “Nonna cammina”, e che io avevo battezzato “La vecchia strega”. Ci si metteva in piedi in fondo al giardino, volgendo le spalle ai compagni, i quali a uno a uno avanzavano furtivi, in punta di piedi. Ogni venti o trenta secondi ci si doveva voltare, e se uno veniva colto nell’atto di avanzare doveva tornare al punto di partenza e ricominciare da capo. Ma ce n’era sempre uno più audace degli altri, il quale vi arrivava addosso, ed era impossibile sorprenderlo; e mentre s’era lì ad aspettare, contando fino a dieci secondo le regole, si sapeva, con fatale paurosa certezza si sapeva, che, prima ancora d’aver finito, quel coraggioso giocatore vi sarebbe balzato alle spalle, improvviso, non visto, con un urlo di trionfo. E ora, mi sentivo nell’atmosfera di tensione del gioco. Giocavo alla “Vecchia strega” con la signora Danvers. Con mia gran soddisfazione il pranzo giunse ad interrompere la lunga mattinata. La calma solenne di Frith, e la faccia melensa di Roberto mi aiutarono a distrarmi più di quanto non avessero fatto il libro e il giornale. E alle tre e mezzo udivo, puntuale come un orologio, il rombo della macchina di Beatrice, che svoltava su per il viale e veniva a fermarsi davanti al peristilio. Già vestita, i guanti in mano, le corsi incontro. «Ebbene, cara, eccomi qua. Splendida giornata, eh?» Beatrice sbatté lo sportello, mi salì incontro e mi scoccò un bacio vicino all’orecchio. «Non hai una bella faccia» subito mi disse, squadrandomi da capo a piedi. «Troppo magra davvero, e senza un’ombra di colore. Che cosa c’è?»
«Nulla» dissi umilmente, ché troppo conoscevo le mie manchevolezze. «Non ho mai avuto una faccia troppo colorita, io.»
«Oh, che!» ella ribatté. «Avevi tutt’altra aria, quando ti ho vista la prima volta.»
«Forse il bel color bruno d’Italia se ne sarà andato» risposi, mentre salivo in automobile. «Auff» replicò, breve «tu sei tale e quale Maxim. Non tollerate la più piccola critica sulla vostra salute. Sbatti forte lo sportello, altrimenti non chiude…» A una velocità un tantino esagerata Beatrice scese il viale, prendendo abilmente le curve. «Non stai mica combinando un bambino, per caso?» soggiunse, volgendo su di me quei suoi bruni occhi di sparviero.
«No» risposi, imbarazzata. «Non credo, almeno.» «Niente nausee al mattino, o roba del genere?» «No.»
«Oh, beh, naturalmente ci sono delle eccezioni. Io, per esempio, quando aspettavo Roberto, ho passato quei nove mesi senza quasi accorgemene. Ho giocato al golf il giorno prima che arrivasse… Oh Dio, non c’è niente d’imbarazzante nelle cose della natura. Se hai qualche sospetto farai bene a dirmelo.»
«No davvero, Beatrice» replicai. «Non ho proprio nulla da dirti.»
«Ti confesso che m’aspetto che quanto prima tu metta al mondo un figlio ed erede. Farebbe un bene enorme a Maxim. E spero che tu non faccia nulla per impedirlo.» «Certo che no.» La conversazione mi pareva alquanto fuor dell’ordinario.
«Non ti scandalizzare, via» ella disse. «Non devi badar troppo a quello che dico. Dopo tutto, oggi le spose hanno il diritto di fare un po’ a modo loro. Roba da impazzire, se non appena sposati ci si trova con un bambino per strada, al principio della stagione. Soprattutto se marito e moglie sono tutti e due appassionati per la caccia. Ma nel tuo caso, non importerebbe proprio nulla. I bambini non impediscono di dipingere. Come va la pittura, a proposito?»
«Non me ne occupo molto, purtroppo» risposi. «Davvero? Eppure, con questo bel tempo farebbe piacere, starsene seduti all’aria aperta. Non avete bisogno che di un seggiolino da campo e di una scatola di matite, voialtri artisti, eh? A proposito, quei libri che t’ho mandato andavano bene?» «Oh, sì! Un bellissimo regalo, Beatrice.» Ella apparve lusingata. «Son contenta che ti siano piaciuti.»
La macchina filava. Beatrice teneva in permanenza il piede sull’acceleratore e abbordava tutte le curve in piena velocità. Due automobilisti che sorpassammo, guardarono offesi fuor del finestrino, e un pedone, da un viottolo, ci minacciò con un bastone. Sentivo vergogna per Beatrice, ma ella non pareva farci caso. Mi accoccolai più basso sul mio sedile.
«Roger va su a Oxford, l’anno venturo» ella disse. «Dio solo sa come se la caverà. Una gran perdita di tempo, secondo me, e anche secondo Giles, ma non si sapeva che farne, del ragazzo. Rassomiglia molto a noi due: non pensa ad altro che ai cavalli, lui. Ma che cosa si crede, quell’automobile lì davanti a noi? Ehi, buon uomo, perché non mettete fuori il braccio? Davvero, oggigiorno certa gente si fa ammazzare per forza.» Svoltammo in una strada maestra, schivando per un pelo la macchina che stavamo oltrepassando. «Avete avuto ospiti?» mi domandò Beatrice. «No; abbiamo fatto vita molto quieta» risposi. «Meglio così» ella disse. «Ho sempre trovato che quelle grandi feste sono una seccatura. Se mai verrai giù da noi, non troverai niente di sensazionale. Un gruppetto di persone simpatiche; e ci conosciamo tutti bene, e da un pezzo. Ci scambiamo pranzi, e facciamo le nostre partite a carte, e non ci tiriamo in casa degli estranei. Giochi a bridge, non è vero?»
«Non molto bene, Beatrice» risposi. «Oh, poco importa. Purché tu sappia giocare. Io non ho pazienza con la gente che non ha voglia d’imparare. Che cosa si può mai fare, fra il tè e l’ora di cena, d’inverno, e dopo cena? Non si può mica restar sempre lì a discorrere.»
Perché non si poteva? avrei voluto domandare. Ma trovai che era più semplice tacere.
«Adesso che Roger ha raggiunto l’età della ragione, ci porta i suoi amici, e si passano giornate veramente divertenti» riprese. «Avresti dovuto, essere da noi a Natale! Abbiamo fatto le sciarade. Cara, ce la siamo goduta uri mondo. Giles era nel suo vero elemento. Lui va matto per mascherarsi, e dopo un bicchiere o due di spumante, fa morir dal ridere. Tante volte diciamo che ha mancato la sua vocazione, e che avrebbe dovuto fare l’attore.» Pensavo a Giles, al suo faccione di luna piena con gli occhiali di tartaruga; sicuramente quello spettacolo tutto da ridere dopo un bicchiere o due di spumante m’avrebbe fatto arrossire. «Lui e un vecchio amico nostro, Dickie Marsh, si sono vestiti da donna e hanno cantato un duetto. Che cosa ci avesse a che fare con le parole nella sciarada non s’è capito bene, ma poco importa. Ci siamo smascellati tutti dalle risa.»
Sorrisi, per pura educazione. «Chissà come sarà stato divertente…»
E li vedevo, a dondolarsi tutti da un fianco all’altro, nel salotto di Beatrice, tutte quelle simpatiche persone che si conoscevano da un pezzo. E Roger doveva assomigliare al padre. Beatrice rideva ancora, al ricordo. «Povero Giles, non dimenticherò mai la sua faccia, quando Dick gli ha schizzato il sifone dell’acqua di selz giù per la schiena. Avevamo tutti le lagrime agli occhi.» L’idea di essere invitata a passare il Natale in casa di Beatrice mi riempiva d’una certa apprensione. Ma chissà, forse mi sarebbe venuta l’influenza… «Naturalmente, non abbiamo mai avuto la pretesa di essere dei grandi attori» ella diceva. «Ma così, tanto per fare quattro risate tra noi… A Manderley, là sì che c’è l’ambiente per uno spettacolo veramente bello. Rammento un corteo storico che ci fu alcuni anni fa. Fecero venire delle persone da Londra, per le scene e i costumi. Certo, quelle cose lì hanno bisogno di una grande preparazione.» «Già» dissi.
Per un momento Beatrice guidò senza parlare. «Come va Maxim?» domandò poi.«Benissimo, grazie.» «È di buon umore? Felice?» «Oh, sì. Direi di sì.»
Una stretta viuzza di paese richiedeva ora la sua attenzione. Io pensavo, intanto, se dovevo parlarle della, signora Danvers. E di quel Favell. Non volevo però ch’ella commettesse poi un’indiscrezione, e spiattellasse tutto a Maxim.
«Beatrice» dissi, saltando il fosso «hai mai sentito parlare di un certo Favell? Jack Favell.» «Jack Favell» ella ripetè. «Sì, il nome non mi è nuovo. Aspetta… Jack Favell? Ma certo. Un marrano di prim’ordine. L’ho visto una volta, anni fa.» «Ieri è venuto a Manderley a trovare la Danvers.» «Davvero? Oh, non è poi tanto strano…»
«Perché?»
«Se non mi sbaglio, era cugino di Rebecca.»
Rimasi di stucco. Quell’uomo un parente di Rebecca? Non proprio così mi sarei
figurato un suo cugino. Non un Favell.
«Oh!» feci. «Non sapevo.»
«Una volta, doveva frequentar parecchio Manderley» disse Beatrice. «Non so… Non saprei… Io ci andavo di rado.» Il suo tono, un po’ brusco, mi dava l’impressione che ella non volesse approfondire l’argomento. «Non mi è riuscito molto simpatico» dissi. «Non ti do torto» replicò. E si fermò lì. Ritenni più prudente non dirle che Favell m’aveva pregato di non parlare della sua visita. La cosa avrebbe potuto creare complicazioni. Intanto, eravamo giunti alla nostra meta. Un cancello di legno bianco, e un liscio vialetto inghiaiato. «Non dimenticare che la vecchietta è quasi cieca» disse Beatrice. «E non ha la testa molto a posto. Ho telefonato all’infermiera che venivamo; così, speriamo che tutto vada bene.»
La casa era grande, in mattoni rossi; stile della tarda epoca vittoriana, mi parve. Non una gran bella casa. A prima vista giudicai che fosse il genere di dimora assai ben tenuta da una larga servitù che vi spadroneggiava. E tutto per una vecchia signora cieca. Una camerierina agghindata venne ad aprirci. «Buon giorno, Nora, come va?» disse Beatrice. «Benissimo, signora, grazie. E spero che anche voi stiate bene, signora.»
«Oh, grazie; si va avanti, come vedete. E la nonnetta come si comporta, Nora?»
«Ha i suoi alti e bassi, signora. Un giorno bene, un giorno male. Non che sia cattiva, non dico… Sarà molto contenta di vedervi, ne sono sicura…» E mi guardava
con curiosità.
«Questa è la signora del signor Maxim» disse Beatrice.
«Piacere, signora. Come state?» disse Nora. Per uno stretto vestibolo e una sala ingombra di mobili uscimmo su una veranda che dava su una spianata quadra, tenuta a erba falciata. Sui gradini della veranda c’erano dei bei gerani vividi entro vasi di pietra. In un angolo, su una carrozzella da malati, sorretta da guanciali e avvolta in numerosi scialli, c’era la nonna di Beatrice. Avvicinandomi vidi che aveva una spiccata e alquanto incredibile rassomiglianza con Maxim. L’identico aspetto avrebbe avuto Maxim, se fosse stato decrepito, se fosse stato cieco.
L’infermiera seduta a fianco della carrozzella si alzò, mise un segno nel libro che stava leggendo ad alta voce, e sorrise a Beatrice.
«Come state, signora Lacy?» disse. Beatrice le strinse la mano, poi mi presentò. «La nostra vecchietta ha un’ottima cera» disse. «Non so davvero come fa, a ottantasei anni. Eccoci qui, nonnina» soggiunse, alzando la voce. «Arrivati sani e salvi.» La nonna guardò verso di noi. «Cara Bea! Sei molto buona, a venirci a trovare. Siamo gente tranquilla noi, questa non è una casa fatta per te.»
Beatrice si curvò a baciarla. «Ti ho portato qui la moglie di Maxim. È un pezzo che voleva venirti a far visita, ma lei e Maxim hanno avuto tanto da fare.» Così dicendo, mi diede un colpetto sulla schiena, mormorando: «Baciala». Anch’io mi curvai, e baciai la nonna sulla guancia.
Ella mi sfiorò il viso con le dita. «Cara, come siete gentile! Sono contenta di vedervi. Avreste dovuto portarmi anche Maxim.»
«Maxim è a Londra» dissi. «Non ritorna che stasera.»
«Lo condurrai la prossima volta, spero. Siediti qui, su questa seggiola, cara, che possa vederti. E tu, Bea, vieni da quest’altra parte. Come va Roger? È un cattivaccio, non viene mai a trovarmi.»
«Verrà ad agosto» gridò Beatrice. «Ora lascia Eton, hai capito? Andrà ad Oxford.»
«Oh, povera me, sarà diventato un giovanotto! Non lo conoscerò più.»
«È più alto di Giles, ora» disse Beatrice. E continuò a raccontare di Giles, e di Roger, e dei cavalli. L’infermiera aveva tirato fuori un lavoro a maglia, e sferruzzava, con un ticchettio metallico.
«E come vi trovate a Manderley, signora de Winter?» disse rivolgendosi a me, tutta vispa e gaia. «Oh, benissimo, grazie» risposi.
«È un posto delizioso, non è vero?» ella diceva, e i ferri s’urtavano l’uno con l’altro. «Noi ci andiamo di rado, adesso, essa non se la sente più. Mi rincresce, me la godevo tanto quando passavamo qualche giorno a Manderley.»
«Dovete venirci voi, una volta o l’altra» dissi. «Grazie, con molto piacere. Il signor de Winter sta bene, spero?» «Sì, benissimo.»
«Avete fatto il viaggio di nozze in Italia, non è vero? Abbiamo gradito tanto la cartolina illustrata che ci ha mandato il signor de Winter.»
Mi domandavo se dicendo “noi” ella usava il pluralis majestatis, o se intendeva significare che lei e la nonna erano una persona sola. «Ne ha mandata una? Non rammento.» «Oh, sì, è stato un vero avvenimento. A noi piacciono tutte queste cose. Abbiamo un album, sapete, e ci incolliamo dentro tutto quel che riguarda la famiglia. Le cose piacevoli, s’intende.» «Un pensiero gentile.»
Intanto, coglievo qualche briciolo di quanto diceva Beatrice.
«Abbiamo dovuto finire il vecchio Marksman. Te lo ricordi, eh, nonna? Il miglior cavallo da caccia ch’io abbia mai avuto.»
«Oh povera me, il vecchio Marksman?» replicò la nonna. «No!»
«Sì, povera bestia. Era diventato cieco da tutti e due gli occhi.»
«Povero Marksman» ripetè la vecchia. Pensai che quell’allusione alla cecità non
era molto delicata, e guardai l’infermiera, sempre intenta a sferruzzare. «Andate a caccia, signora de Winter?» ella mi domandò.
«No, purtroppo, no» risposi.
«Forse ci arriverete anche voi. Siamo tutti quanti appassionati della caccia, in questa parte del mondo.» «Già.»
«La signora de Winter si diletta di arte» intervenne Beatrice. «Io le dico sempre che a Manderley ci sono una quantità di vedute che farebbero dei graziosissimi quadretti.»
«Oh, certo» disse l’infermiera, per un momento riposando dalla furia dello sferruzzare. «Che simpatico passatempo. Io avevo un’amica che faceva miracoli con la matita. Un anno siamo andate insieme in Provenza, ed essa ha fatto degli schizzi veramente belli.» «Che bella cosa» dissi io.
«Stavamo parlando di pittura» gridava Beatrice negli orecchi della nonna. «Non lo sapevi che abbiamo un artista in famiglia, eh?»
«Chi è un artista?» disse la vecchia signora. «Io non ne conosco di artisti.»
«La tua nuova nipote» disse Beatrice. «Domandatele un po’ che regalo di nozze le ho fatto io.» Sorridevo, in attesa della domanda. La vecchia signora volse il capo verso di me. «Di che cosa va parlando Bea? Non sapevo che tu fossi un’artista. Non abbiamo mai avuto artisti in famiglia.»
«Beatrice scherzava» dissi; «io non sono affatto un’artista. Disegno così, per passatempo. Ma non ho mai nemmeno preso lezioni di disegno. Beatrice mi ha regalato certi libri.»
«Oh!» ella appariva disorientata. «Beatrice ti ha regalato dei libri, dici? Sarà un po’ come portar carbone a Newcastle, eh? Ce ne sono tanti di libri in biblioteca, a Manderley.» Ella rise di cuore, e noi tutte le facemmo eco. Speravo che l’argomento fosse esaurito, ma Beatrice non la intendeva così. «Non hai capito, nonna» disse. «Non erano libri comuni. Erano volumi d’arte. Sei volumi.»
L’infermiera si protese verso la sua paziente. «La signora Lacy cerca di spiegare che alla signora de Winter piace molto disegnare, come passatempo. E così, le haregalato sei bei volumi, che trattano tutti d’arte. È stato il suo regalo di nozze.» «Che idea comica!» replicò la nonna, «Non mi sembra che i libri siano proprio adatti, come regali di nozze. Nessuno s’è mai sognato di regalarmi dei libri, quando mi sono sposata. E se me li avessero regalati, non li avrei mai nemmeno letti.»
Ella tornò a ridere. Beatrice aveva un po’ l’aria offesa. Per dimostrarle la mia solidarietà sorrisi alla nonna, ma non credo se ne accorgesse. L’infermiera aveva ripreso a sferruzzare.
«Voglio il mio tè» fece la vecchia signora, in tono querulo. «Non sono ancora le quattro e mezzo? Perché Nora non porta il tè?»
«Che? Di nuovo appetito, dopo quel buon pranzetto che abbiamo mangiato?» disse l’infermiera; e sorridendo alla paziente si alzò.
Mi sentivo piuttosto stanca, e, un po’ scandalizzata del mio poco cristiano pensiero, mi domandavo perché mai i vecchi a volte fossero un così gran peso. Peggio dei bambini, o dei cagnolini, perché bisognava dimostrarsi cortesi. E con le mani in grembo me ne stavo lì, pronta o dar ragione a tutti, qualsiasi cosa dicessero. L’infermiera sprimacciava i guanciali e accomodava gli scialli. E la nonna pareva prenderla in sopportazione. Aveva chiuso gli occhi, come se anche lei fosse stanca. E più che mai rassomigliava a Maxim. Indovinavo come doveva esser stata quand’era giovane, alta e bella, e girava per le scuderie a Manderley con lo zucchero in tasca, reggendo il lungo strascico della gonna per non infangarsi. Mi figuravo il busto a balene, il colletto alto; la udivo ordinare la vettura per le due. Finito, passato era ormai per lei tutto ciò. Suo marito era morto da quarant’anni, suo figlio da quindici. E fino a che non giungesse anche per lei il giorno della dipartita, ella era imprigionata assieme a un’infermiera in quella casa vittoriana color rosso mattone. E pensavo quanto poco noi sappiamo della mentalità dei vecchi. I bimbi li comprendiamo, i loro timori, le loro speranze e finzioni. Ieri appena io ero una bimba. Ma la nonna di Maxim, avvolta nello scialle, coi suoi poveri occhi ciechi, quasi sorda, che cosa pensava? Sapeva ella che Beatrice sbadigliava e guardava l’ora di straforo? Immaginava che la nostra era una visita di dovere, un compito che ci eravamo imposte, affinché Beatrice, tornando a casa, potesse dire: «Meno male, adesso per tre mesi ho la coscienza a posto?».
Il suo pensiero andava mai a Manderley? Si rivedeva seduta alla tavola in sala da pranzo, là dove io sedevo ora? Soleva prendere anche lei il tè sotto l’ippocastano? O tutto era obliato, passato, e nulla restava dietro a quel calmo viso pallido, se non piccoli dolori e curiosi piccoli acciacchi, una confusa gratitudine quando splendeva il sole e un brivido quando il vento soffiava freddo? Come avrei voluto imporle le mani sul viso, e levarle via gli anni! E vederla giovane come un tempo, le gote floride, i capelli castani, e sentirla discorrere anche lei, svelta e attiva come ora Beatrice, di caccia, di cavalli e di cani! E non abbandonata così a occhi chiusi, mentre l’infermiera le accomodava i guanciali dietro il capo. «Oggi, sapete, abbiamo una ghiottoneria per il tè: i tramezzini con il crescione» diceva l’infermiera. «A noi piacciono molto, non è vero?»
«È il giorno del crescione, oggi?» domandò la nonna, sollevando il capo dai guanciali e guardando verso la porta. «Non me l’avevate detto. E perché Nora non porta il tè?»
«Non vorrei essere al posto vostro, nemmeno per mille sterline al giorno» diceva Beatrice sottovoce all’infermiera.
«Oh, signora Lacy, ci sono abituata!» sorrise l’infermiera. «Dopo tutto, in questa casa si sta molto bene. Naturalmente, abbiamo le nostre cattive giornate, ma potrebbe essere molto peggio. La signora è molto trattabile; non come certi pazienti. E la servitù è cortese; e questa è la cosa principale. Ecco Nora…» La cameriera arrivava con un tavolinetto a ruote e una candida tovaglia di lino.
«Quanto tempo mi fate aspettare, Nora!» borbottò la vecchia signora.
«La mezza è appena passata, signora» affermò Nora, con un tono di voce particolare, vispo e gaio come l’infermiera. Chissà se la vecchia ava si accorgeva che la gente le parlava su quel tono? Chissà quando lo avevano usato per la prima volta; e se n’era accorta, allora? Forse s’era detta: “Credono ch’io invecchi; che ridicolaggini” e poi, a poco alla volta ci s’era abituata, come se fosse sempre stato così, e il tono era entrato nella consuetudine della vita. Ma la giovane donna dal vitino di vespa e dai capelli castani che portava lo zucchero ai cavalli, dove se n’era andata?
Ci accostammo con le seggiole al tavolino, e cominciammo a mangiare i tramezzini al crescione. L’infermiera ne preparava alcuni speciali per la vecchia signora. «Che buoni, non è vero, che buoni?» diceva intanto. Vidi un lento sorriso passare sul placido viso rugoso. «Mi piace il giorno del crescione» disse. Il tè era fumante, troppo caldo a bersi. L’infermiera trangugiava il suo a piccole sorsate.
«Hanno lasciato bollire l’acqua, oggi» ella disse con un cenno del capo a Beatrice.«È sempre un vero dispiacere! E l’ho detto e ridetto in cucina! Ma non si può ottenere che facciano diverso. Non vogliono dar retta.» «Oh, sono tutti lo stesso» replicò Beatrice. «Io ci ho rinunciato. Troppa fatica.» La vecchia signora rigirava il suo tè col cucchiaino, lo sguardo remoto, assente. Avrei voluto sapere che cosa le passava per la
mente. «E avete avuto bel tempo in Italia?» mi domandò l’infermiera.
«Sì; faceva molto caldo» dissi.
Beatrice si volse alla nonna. «Dice che hanno avuto bel tempo in viaggio di nozze,
in Italia. Maxim si è tutto abbronzato.»
«Perché Maxim non è qui oggi?» domandò la nonna. «Te l’abbiamo detto, nonnina. Maxim ha dovuto andare a Londra.» Beatrice si spazientiva. «Un pranzo ufficiale. C’è
andato anche Giles.»
«Ah… Ho capito. Perché Maxim era andato in Italia, hai detto?»
«È stato in Italia, sì, nonna; in aprile. Ora però sono tornati a Manderley.» Alzando impercettibilmente le spalle, Beatrice guardava l’infermiera, sorridendo.
«Il signor de Winter e la sua signora sono a Manderley, ora» ripetè l’infermiera.
«Il tempo è stato bello, tutto questo mese» dissi io, accostandomi alla nonna. «Adesso le rose sono tutte fiorite. Peccato che non ve ne ho portate.» «Sì, mi piacciono le rose» ella disse, vagamente; e poi, guardandomi con gli incerti occhi cilestri: «State anche voi a Manderley, ora?».
Mandai giù la saliva. Ci fu una lieve pausa, che Beatrice ruppe con la sua voce forte, impaziente. «Nonnina cara, lo sai benissimo perché essa ci sta, ora. Lei e Maxim sono sposati.»
Vidi che l’infermiera aveva posato la tazza e non perdeva d’occhio la vecchia signora, che s’era di nuovo abbandonata sui guanciali, tormentando lo scialle. Ora le tremava la bocca. «Parlate troppo, tra tutti quanti. Io non vi capisco.» Poi guardò me, corrugando la fronte, e si mise a dondolare il capo. «Chi siete voi, mia cara? Non vi ho mai vista. Non conosco la vostra faccia. Non mi ricordo d’avervi vista a Manderley. Bea, chi è quella bambina? E perché Maxim non mi ha portato Rebecca? Io voglio tanto bene a Rebecca. Dov’è la mia cara Rebecca?» Ci fu una lunga pausa, un istante d’angoscia. Sentivo che le gote mi si coprivano di scarlatto. Rapidamente l’infermiera si alzò e si avvicinò alla carrozzella.
«Voglio Rebecca» ripeteva la vecchia ava. «Che cosa ne avete fatto di Rebecca?» Impulsivamente Beatrice si alzò dalla sua seggiola, facendo traballar le tazze e i piattini. Anche lei s’era fatta molto rossa in viso, e le vibravano gli angoli della bocca.
«Credo sia meglio che ve ne andiate, signora Lacy» disse l’infermiera, alquanto confusa. «Mi sembra un po’ stanca, e quando divaga così, a volte dura anche per ore di fila. Ogni tanto succede che s’agita… Una vera sfortuna che sia capitato proprio oggi. Spero capirete, non è vero, signora de Winter?» E mortificata si volgeva a me.«Certo» mi affrettai a dire. «È molto meglio se ce ne andiamo.»
Beatrice e io cercavamo borsette e guanti. L’infermiera s’era di nuovo rivolta alla sua paziente. «Dunque, dunque che cosa c’è? Non lo volete mangiare il bel tramezzino che vi ho preparato?»
«Dov’è Rebecca? Perché non è venuto Maxim e non mi ha portato Rebecca?» replicava la stanca vocetta querula.
Dalla scala, passando per il vestibolo, uscimmo per la porta d’ingresso, sole. Senza una parola Beatrice mise in moto la macchina. Scendemmo il liscio vialetto inghiaiato e ci lasciammo dietro i cancelli bianchi. Io fissavo la strada, diritto avanti a me. Non per me m’importava di quel ch’era successo; non me ne sarei curata se fossi stata sola. Ma me ne doleva per Beatrice. L’incidente era stato così spiacevole e mortificante per la poveretta. Quando fummo fuor del villaggio ella parlò. «Sono così terribilmente spiacente, mia cara, che non so che cosa dire.»
«Oh non dir così, Beatrice» replicai in fretta. «Non è successo proprio nulla. È andato tutto benissimo.» «Non avevo la minima idea che essa avrebbe fatto così. Altrimenti, non mi sarei mai sognata di condurti da lei. Sono così mortificata.»
«Non c’è di che esser mortificata. Per piacere, non ne parliamo più.»
«Non arrivo a capire… Sapeva tutto quanto di te. Io le avevo scritto, parlandole di te, e anche Maxim l’aveva fatto. S’era interessata tanto a quel matrimonio all’estero!»
«Dimentichi gli anni che essa ha» dissi. «Perché dovrebbe ricordare queste cose?
Essa non mi associa con Maxim. Lo associa soltanto con Rebecca.» Andammo avanti in silenzio. Ma era un sollievo, trovarsi di nuovo in automobile. Ora non m’importava più dei sobbalzi bruschi e delle svolte improvvise.
«Avevo dimenticato che era tanto affezionata a Rebecca» riprese a dire Beatrice. «Sono stata una stupida, a non aspettarmi una cosa simile. Ho il sospetto che essa non abbia mai creduto alla disgrazia. Oh mio Dio, che pomeriggio orribile! Che cosa penserai di me?» «Ti prego, Beatrice, non parlare così. Ti dico che non me ne importa nulla!» «Rebecca aveva sempre tante premure per lei. Andava a prenderla, e la conduceva a Manderley. Povera nonnina cara, allora era molto più in gamba. Si sbellicava dalle risa, a quel che diceva Rebecca. Sai, ella sapeva esser sempre divertente, e questo piaceva alla vecchia signora. Avevo il dono stupefacente, Rebecca voglio dire, di attirarsi le simpatie di tutti: uomini, donne, bambini, persino i cani… E credo che la nonna non l’abbia mai dimenticata. Mia cara, non avrai certo di che ringraziarmi per questo pomeriggio!»
«Non fa nulla, non fa nulla» ripetevo macchinalmente. Se soltanto Beatrice avesse lasciato correre; non m’interessava, la cosa in sé. E che importava, dopo tutto? «Giles sarà molto seccato» ricominciò Beatrice. «Dirà che ho fatto male a condurti dalla nonna. “Una vera idiozia, la tua, Bea!” Mi par di sentirlo. E dovrò sentirmene dire di cotte e di crude.»
«Ma perché raccontarlo? Preferirei molto che si mettesse tutto in tacere. Ripetendo la storia non si farà che esagerarla…»
«Giles si accorgerà dalla mia faccia, che c’è qualcosa che non va. Io, già, non sono mai stata capace di nascondergli niente.»
Tacevo. E pensavo che la storia avrebbe fatto il giro della loro cerchia di amici. Immaginavo il gruppetto, a uno dei pranzi domenicali. Gli occhi spalancati, le orecchie tese, gli oh e gli ah…
“Mio Dio, che situazione orribile! E come avete potuto rimediare?” E poi: “E lei, come l’ha presa? Dev’esser stato terribilmente imbarazzante per tutti!”. L’unica cosa che mi stava a cuore era che Maxim non venisse mai a saperne nulla. Un giorno, forse, avrei potuto confidarmi con Frank Crawley; ma non ora, non per un bel pezzo almeno.
Non ci mettemmo molto ad arrivare alla strada maestra, in cima alla collina. In lontananza scorgevo i tetti grigi di Kerrith, mentre a destra, in una conca, si estendevano le grandi foreste di Manderley, e a sfondo il mare. «Hai moltissima fretta di arrivare a casa?» mi domandò Beatrice.
«No. Non mi pare… Perché?» «Diresti che sono una gran maleducata, se ti lasciassi ai cancelli? Se corro, arriverò ancora in tempo a prender Giles al treno di Londra, e gli risparmierò il tassì della stazione.»
«Ma certo» risposi. «Io posso andare a piedi.» «Ti ringrazio infinitamente» disse Beatrice, grata. Sentivo che quel pomeriggio era stato troppo per lei. Ella desiderava esser sola, e preferiva evitare un secondo tè a Manderley.
Scesi ai cancelli, e ci baciammo. «Guarda di coprirti di un po’ di grasso, per la prossima volta che ci vedremo» disse Beatrice. «Sei magra da far pietà. Di’ tante cose a Maxim da parte mia, e perdonami per oggi.» Tosto sparì tra un nugolo di polvere, e io m’avviai su per il viale.
Mi domandavo se era mutato, da quando la nonna di Maxim v’era passata in carrozza e a cavallo; quando, giovane dama, ella sorrideva alla donna della casetta come io le sorridevo ora. E a quei tempi, la moglie del guardiano si sprofondava in una riverenza, spazzando la ghiaia del viottolo con le ampie gonne. La donna che c’era ora mi salutò con un breve cenno, e poi chiamò il suo maschietto, che si trastullava con dei gattini dietro la casa. La nonna di Maxim doveva aver curvato il capo per evitare i fronzuti rami, mentre il suo cavallo trottava per il tortuoso viale ove io passavo ora, e che allora doveva esser più largo, più. civile, e anche meglio tenuto. I boschi, allora, non erano certo tanto invadenti. Non così come ora la pensavo: arrovesciata sui guanciali, imbacuccata nello scialle. Giovane la vedevo, quando Manderley era la sua casa. Ella si aggirava per il giardino con un ragazzino -il padre di Maxim -il quale le galoppava dietro a cavalcioni su un bastone dalla testa di cavallo. Un ragazzino dalla giacchetta corta e dal colletto tondo inamidato. Le merende alla baia erano una vera spedizione, un divertimento che non ci si concedeva spesso. Ci doveva pur essere una fotografia, in un vecchio album: l’intera famiglia seduta compassata e rigida attorno a una tovaglia sulla spiaggia, e nello sfondo i servitori, accanto all’enorme cesto delle provviste. E poi, vedevo la nonna invecchiata, molti anni dopo. Camminava sulla terrazza, appoggiata a una canna. E una figura le camminava accanto, ridente, e la sorreggeva per il braccio. Una figura alta e snella; dal viso bellissimo, una che, come aveva detto Beatrice, possedeva il dono di attirarsi le simpatie di tutti. E alla quale era facile voler bene, immaginavo… Giunta al termine del lungo viale, finalmente, vidi la macchina di Maxim ferma davanti al peristilio. Il cuore mi si sollevò, rapida corsi nel vestibolo. Sulla tavola c’era il suo cappello, i suoi guanti. Andai verso la biblioteca, e avvicinandomi udii un suono di voci, di cui l’una – quella di Maxim – era più elevata e concitata. Davanti alla porta chiusa, esitai ad entrare.
«Potete scrivergli e dirgli da parte mia di tenersi alla larga da Manderley in avvenire, avete capito? Poco importa come l’ho saputo, questo non vi riguarda. Ma io so che la sua macchina era qui ieri nel pomeriggio. Se volete vederlo, incontratevi fuori di questa casa. Non voglio che metta piede dentro ai cancelli, avete capito? E ricordatevelo, è l’ultima volta che vi avverto.» Sgusciai via, verso le scale. Udii aprirsi la porta della biblioteca. A due a due feci i gradini, e mi rifugiai nella galleria; Dalla biblioteca usciva la signora Danvers, chiudendo la porta dietro di sé. Mi addossai alla parete, per non esser vista; ma di sfuggita, intanto, l’avevo veduta in viso. Era un viso livido d’ira, deformato, orribile. Con passo svelto e silenzioso ella salì le scale, e sparì per la porta che dava all’ala a ponente. Aspettai un momento, poi senza fretta scesi, aprii la porta della biblioteca ed entrai. Maxim era in piedi davanti alla finestra, con delle lettere in mano. Poiché mi volgeva il dorso, per un attimo pensai di sgusciar di nuovo via, di riparare nel segreto della mia stanza. Ma già egli mi aveva udito, e bruscamente si voltava. «Chi è, adesso?» chiese. Sorridendo gli tesi la mano. «Evviva!» «Oh, sei tu…»
Alla prima occhiata capii che qualcosa lo aveva fortemente irritato. Aveva la bocca dura, le narici bianche e tese.
«Che cosa hai fatto, sentiamo un po’?» mi disse; e curvandosi a baciarmi mi pose il braccio attorno alle spalle. Mi parve un’eternità, da quando egli mi aveva lasciata. «Sono stata a trovare la tua nonna» dissi. «Mi ci ha portato Beatrice in automobile.» «Come sta la vecchietta?» «Benino.» «E Bea, dov’è?»
«Ha dovuto tornar via per andare incontro a Giles.» Ci sedemmo sulla piccola panca nel vano della finestra. Gli presi la mano. «Ho sentito molto la tua mancanza.
Ero orribilmente sola» dissi. «Davvero?»
Tacemmo per un po’, tenendoci per mano. «Faceva caldo a Londra?»
«Sì; si stava piuttosto male. La città mi riesce sempre odiosa.»
Chissà se mi avrebbe detto ciò che era accaduto poco fa con la Danvers. Ma chi poteva mai averlo avvertito della visita di Favell?
«C’è qualche cosa che non va?» domandai. «Ho avuto una lunga giornata» egli rispose. «Fare quel viaggio due volte in ventiquattr’ore è un massacro per chiunque.»
Si alzò e si allontanò, accendendo una sigaretta. Ora sapevo che non mi avrebbe parlato della Danvers. «Anch’io sono stanca» mi decisi a dire. «È stata una giornata un po’ curiosa.»
XVI
Fu una domenica, ricordo, un pomeriggio in cui avevamo avuto una vera invasione di visite, che per la prima volta venne posta sul tappeto la questione del ballo in costume. Frank Crawley era venuto a pranzo, e tutti e tre ci rallegravamo di un pacifico pomeriggio sotto l’ippocastano, quando udimmo il fatale rombo di un’automobile che svoltava su per il viale. Era troppo tardi ormai per avvertire Frith; già dall’automobile dovevamo esser stati visti sulla terrazza, con giornali e cuscini sottobraccio. Non ci rimase che andar incontro agli inaspettati ospiti, e accoglierli col miglior sorriso. Come poi spesso accade in casi simili, essi non rimasero i soli. Mezz’ora dopo arrivava un’altra automobile, seguita poco dopo da tre persone che erano venute a piedi da Kerrith. La nostra pace se n’era andata ormai; e dovevamo rassegnarci a intrattenere un gruppo dopo l’altro di conoscenze che ci erano perfettamente indifferenti, a far fare loro la passeggiata di prammatica, il giro del giardino delle rose e dei prati, e la formale ispezione della Valle della Felicità. Va da sé che si trattennero tutti per il tè, e invece di rosicchiarci con comodo i nostri pasticcini sotto gli alberi, ci fu la parata di un tè in pompa magna nel salone, che sempre m’era odioso. Frith, naturalmente, si trovava nel suo vero elemento, e dirigeva Roberto con un semplice alzar di sopracciglia; e io sudavo e faticavo con una mostruosa teiera che ancora non avevo imparato a maneggiare. Provavo una certa difficoltà a trovare il giusto momento in cui diventava indispensabile allungare il tè con l’acqua bollente, e più difficoltà ancora a concentrarmi sulle chiacchiere che fervevano a destra e a sinistra. In momenti simili, Frank Crawley era insostituibile. Mi prendeva di mano le tazze e le porgeva alla gente, e quando le mie risposte parevano più vaghe del solito, a causa dell’attenzione che richiedeva la teiera d’argento, tranquillamente, senza farsene accorgere egli recava il suo piccolo obolo alla conversazione, sollevandomi d’una parte delle mie responsabilità. Maxim era sempre all’altro capo della stanza: mostrava un libro a un vecchio barbogio, spiegava lo stile di un quadro, e recitava la parte del perfetto anfitrione come lui solo era capace di fare. La faccenda del tè era una cosa secondaria, che non lo interessava punto. La sua tazza di tè si raffreddava su un tavolino dietro un vaso di fiori; era a me, rossa come un papavero dietro il mio bollitore, e a Frank, il quale armeggiava bravamente con piatti e pasticcini e pan di Spagna, che spettava di soddisfare ai bisogni più materiali della massa.
Lady Crowan, una pettegola appiccicosa comare che abitava a Kerrith, intavolò l’argomento. C’era, nella conversazione, una di quelle pause che disturbano ogni riunione mondana, e già vedevo aleggiare sulle labbra di Frank l’inevitabile e vieta osservazione su “l’angelo che passava sopra le nostre teste”; quando Lady Crowan, reggendo un piattino con una fetta di torta, si rivolse a Maxim, che per caso le era accanto in quel momento. «Oh, signor de Winter, c’è una cosa che volevo domandarvi, da non so quanto tempo. Ditemi un po’, non c’è speranza che rimettiate in onore il ballo in costume a Manderley?» E parlando reclinava il capo, e dardeggiava un biancor di denti troppo prominenti, in ciò che aveva l’intenzione di essere un sorriso. Immediatamente abbassai la testa, e nascondendomi dietro il copriteiera mi affaccendai a risciacquare la mia tazza. Passarono, forse, due secondi prima che Maxim rispondesse, e la sua voce era calmissima, pacata. «Non ci ho ancora pensato, veramente. E non credo che altri ci abbia pensato.»
«Oh, ma io vi accerto che noialtri tutti vi abbiamo pensato, e molto» rispose Lady Crowan. «Era un avvenimento che ci dava da fare per tutta l’estate. Voi non vi figurate che piacere fosse per noi. E non potrei persuadervi a ripensarci?»
«Bah, non so» rispose Maxim, asciutto. «Era sempre una cosa alquanto complicata a organizzarsi. Forse potreste interrogare Frank Crawley, perché sarebbe affar suo.»
«Oh, signor Crawley, vi prego, prestatemi man forte!» insistè la signora, e altri due
o tre dei presenti si unirono a lei. «Sarebbe un gesto assai simpatico, capite? Sentiamo tutti la mancanza dell’allegria di Manderley…» Udii la quieta voce di Frank, vicino a me. «Io non ho nulla in contrario a organizzare il ballo, se Maxim è disposto a darlo. Sono lui e la signora che debbono decidere. Io non c’entro.»
Naturalmente fui subito presa di mira. Lady Crowan spostò la sua seggiola di modo che il copriteiera finì di servirmi da paravento. «Suvvia, signora de Winter, persuadete voi vostro marito. A chi deve dar retta, se non a voi? E poi, sarebbe suo dovere dare il ballo in onore della sposa!».
«Sì, sì, certo» disse qualcun altro: un uomo. «Già non abbiamo avuto il piacere di assistere alle nozze, è una vergogna privarci così di tutti i divertimenti. Chi vuole il ballo in costume a Manderley alzi la mano!… Avete visto, de Winter? Approvato a unanimità!» Ci fu un grande scoppio di risate e battimani. Maxim accese una sigaretta; e oltre la teiera i suoi occhi incontrarono i miei. «Che cosa ne dici?» domandò.
«Non so…» risposi titubante. «Per me, non avrei nulla in contrario.» «Ma è sicuro che essa muore dalla voglia che si dia un ballo in suo onore!» gorgheggiò Lady Crowan. «E qual è la ragazza che farebbe diverso? Come sareste carina, signora de Winter, vestita da pastorella di Dresda, coi capelli nascosti sotto un gran cappello a tricorno!» Pensai alle mie mani goffe, ai miei piedi, alle mie spalle cascanti. Una bella pastorella davvero avrei fatto! Quella donna non aveva sensibilità! Non mi stupii che la sua proposta non trovasse eco, e ancora una volta fui grata a Frank, che diede un altro giro alla conversazione. «Sta di fatto che qualcuno me ne parlava l’altro giorno, Maxim» diss’egli. «E mi domandava se non ci sarebbe stata una specie di festa in onore della sposa. Era Tucker, alla fattoria» fece, rivolto a Lady Crowan. «“Non è vero signor Crawley, che se il signor de Winter desse di nuovo un ballo, sarebbe una gran baldoria per noi tutti?” mi diceva. Gli risposi che non ne sapevo nulla; che il signor de Winter non ne aveva ancora parlato,» «Ecco!» fece Lady Crowan trionfante, rivolgendosi all’accolta in generale. «Che cosa dicevo io? Persino i vostri dipendenti chiedono a gran voce un ballo! Se non avete riguardi per noi, ne avrete almeno per loro.» Maxim mi guardava tuttora dubitoso. Mi passò per la mente ch’egli pensasse che forse la mia gran timidezza -troppo bene egli la conosceva -non mi avrebbe permesso di affrontare quella prova. Ma non dovevo lasciarlo nell’idea che non avrei saputo mostrarmi all’altezza della situazione. «Io penso che ci divertiremo un mondo» conclusi. Maxim si distolse, stringendosi
nelle spalle. «E allora, questo taglia la testa al toro. Frank, vuol dire che dovrai incaricarti tu di provvedere a tutto. Ma sarà meglio che tu ti faccia aiutare dalla signora Danvers. Essa ricorda tutte le disposizioni.»
«Dunque quella straordinaria Danvers è ancora qui da voi?» domandò Lady Crowan.
«Sì» rispose Maxim, breve. «Non prendete un altro pezzo di torta? Oppure avete finito? Andiamo tutti in giardino, allora.»
Passammo sulla terrazza, discutendo del ballo e dell’epoca che sarebbe stata più indicata; e finalmente, con mio gran sollievo, quelli delle automobili decisero che era tempo di mettersi in viaggio; e quelli che erano venuti a piedi, essendo stato loro offerto un posto, li seguirono. Ritornai nella sala e mi versai un’altra tazza di tè, che mi godetti in pace, ora che non avevo più da sopportare il peso delle mie responsabilità. Frank mi raggiunse; radunammo le briciole di un piatto di pasticcini e ce le mangiammo, e ci pareva di essere due cospiratori.
Maxim, sul prato, buttava dei pezzi di legno che Jasper gli riportava. Che fosse uguale in ogni casa, quel senso di esuberanza quando le visite se n’erano andate? Per un po’ non parlammo del ballo; solo quando ebbi finito la tazza di tè e mi fui asciugate le dita sporche di zucchero, dissi a Frank: «Ditemi la verità, ora, che cosa ne pensate di quella mascherata?»
Gettando un’occhiata fuor della finestra a Maxim sul prato, Frank esitò prima di rispondere: «Non saprei, mi è parso che Maxim non avesse nulla da ridire, no? Io credo che abbia preso l’idea per il verso buono.» «E come avrebbe potuto far diverso? Era ben difficile» dissi. «Che donna asfissiante, quella Lady Crowan! Credete davvero che tutta la gente dei dintorni non faccia che discorrere e sognare di un ballo in costume a Manderley?»
«Certamente, una festa qualsiasi procurerebbe loro un grande piacere. E poi, sapete, da queste parti noi siamo molto convenzionali, in cose simili. Io non credo che Lady Crowan esagerasse, quando diceva che si dovrebbe far qualcosa in vostro onore. In fin dei conti, signora de Winter, voi siete una sposa.» Com’erano pompose e al tempo stesso inutili quelle frasi! Se quel povero Frank non fosse stato sempre così terribilmente corretto…
«Non sono una sposa» replicai. «Le mie non sono nemmeno state nozze come si deve. Né abito bianco, né fiori d’arancio, né corteo di damigelle d’onore… E non voglio queste sciocchezze di balli in mio onore.» «Manderley in festa è un bellissimo spettacolo» disse Frank. «E vi piacerà, vedrete. Voi non dovrete far niente di straordinario. Soltanto accogliere gli invitati; e non è poi mica una gran fatica, no? Forse mi concederete un ballo…»
Caro Frank. Mi piaceva quella sua aria solenne di galanteria.
«Avrete quanti balli vorrete» dissi. «Non ballerò con nessuno fuorché con voi e con Maxim.» «Oh no, questo non starebbe affatto bene» replicò gravemente Frank. «La gente si offenderebbe. Dovrete ballare con tutti quelli che vi invitano.» Mi voltai per dissimulare un sorriso. Era un vero divertimento, constatare come egli non s’accorgesse mai quando lo canzonavano.
«Credete che il consiglio di Lady Crowan, di vestirmi da pastorella, sia buono?» dissi, maliziosa. Gravemente egli mi studiò, senza l’ombra di un sorriso. «E perché no? Sono convinto che stareste benissimo.»
Scoppiai a ridere. «Oh, Frank come siete caro!» Egli arrossì, e apparve anche un poco scandalizzato delle mie parole impulsive, e lievemente offeso che io ridessi di lui.
«Non mi sembra d’aver detto niente di ridicolo» osservò sostenuto.
Maxim entrò in quel mentre, con Jasper che gli folleggiava dietro. «Che cos’è tutta quest’allegria?» domandò.
«Frank diventa galante» dissi. «Trova che l’idea di Lady Crowan, di vestirmi da pastorella, non è affatto ridicola.»
«Lady Crowan è una gran seccatrice» disse Maxim. «Se dovesse scrivere lei tutti gli inviti e organizzare l’intera faccenda, i suoi entusiasmi si calmerebbero. Ma è sempre stato così. La gente del paese considera Manderley come un padiglione di danza su di una spiaggia, e si aspetta che noi ci si faccia in quattro per il loro divertimento. Dovremo invitare tutta quanta la contea.» «Ho io le liste in ufficio» disse Frank. «Non sarà davvero quella gran fatica. Appiccicare i francobolli è il lavoro più lungo.»
«E lo affideremo a te» disse Maxim sorridendomi. «Oh, lo faremo in ufficio» disse Frank. «La signora non avrà da preoccuparsi di nulla.» Che cosa avrebbero mai detto, se tutt’a un tratto avessi palesato la mia ferma intenzione di assumermi ogniiniziativa? Avrebbero riso, mi figuro, e poi vòlto il discorso ad altro. È vero ch’io ero ben contenta di esser sollevata da ogni responsabilità, ma la coscienza di non esser nemmeno capace di appiccicare francobolli non faceva che accrescere il mio complesso d’inferiorità. Pensavo allo scrittoio nella stanza a mattina, agli scomparti etichettati da quella calligrafia obliqua e aguzza. «E tu, come ti vestirai?» domandai aMaxim. «Io non mi metto mai in costume. È l’unico vantaggio concesso al padrone dicasa, non è vero, Frank? «È impossibile che io mi vesta da pastorella di porcellana» dissi. «Ma che cosa debbo fare? Che cosa? Io non ho grandi abilità per mascherarmi.» «Mettiti un nastro nei capelli e sarai Alice nel Paese delle Meraviglie» disse Maxim, scherzoso. «Già le assomigli adesso, col ditino in bocca.» «Non essere così dispettoso» dissi. «Lo so che i miei capelli sono lisci, ma non lo sono poi tanto! Ora vi dico che… Tu e Frank avrete la più grande sorpresa della vostra vita: non mi riconoscerete.»
«Purché non ti annerisca la faccia con la scusa di essere una scimmia, fai pure quel che ti pare» replicò Maxim.
«E sta bene. È inteso. Il mio costume resterà un segreto fino all’ultimo momento; non ne saprete nulla. Vieni Jasper, a noi non ce ne importa niente di quel che dicono quei signori, non è vero?» Mentre andavo in giardino udii Maxim ridere e dire a Frank qualcosa che non capii. Avrei voluto non esser trattata sempre come una bambina; una bambina un poco viziata, un poco irresponsabile delle proprie azioni, che si accarezza quando se ne ha voglia, ma che più spesso si dimentica, dopo averle dato una pacca sulle spalle e detto di andarsene a giocare in giardino. Desideravo ardentemente un avvenimento che mi rendesse, nell’aspetto almeno, più savia, più matura. Sarebbe stato sempre così? Lui tanto lontano da me, in preda ai suoi stati d’animo cui io non prendevo parte, alle sue segrete pene ch’io non conoscevo? Non saremmo mai stati uniti, lui un uomo e io una donna, a fianco a fianco, la mano nella mano, e nessun abisso tra noi? Io non volevo essere una bambina. Volevo essere la moglie, la madre di Maxim. Volevo essere vecchia.
Ferma sulla terrazza, mordicchiandomi le unghie, guardavo verso il mare, e mentre ero lì, per la ventesima volta in quella giornata mi domandavo se fosse per volere di Maxim che quelle stanze nell’ala a ponente venivano conservate in ordine, e non toccate. Forse che anche lui, come la signora Danvers, vi entrava, e sfiorava le spazzole sulla pettiniera, e apriva gli armadi e affondava le mani tra le vesti?
«Su, Jasper, corri, corri con me!» gridai. «Su, da bravo!» e correvo tra l’erba, pervasa da un’ira selvaggia, gli occhi gonfi di lagrime amare, mentre Jasper eccitato m’inseguiva abbaiando follemente. La notizia del ballo in costume non tardò a propagarsi. Clarice, la mia piccola cameriera, non parlava d’altro. Da lei seppi che la servitù era al settimo cielo. «Il signor Frith dice che sarà come ai tempi d’una volta» diceva Clarice. «L’ho sentito che parlava con Alice in corridoio, stamane. E voi non vi mascherate, signora?»
«Non lo so, Clarice, non ho nessuna idea.» «La mamma vorrebbe saperlo. Essa ricorda ancora l’ultimo ballo che hanno dato a Manderley, non l’ha mai dimenticato. Forse farete venire un costume da Londra?»
«Ancora non ho deciso nulla, Clarice. Però, quando avrò deciso, lo dirò a te e a nessun altro. Sarà un segreto fra noi due… ma un segreto per davvero.» «Oh, signora, che emozione!» sospirava Clarice. «Io non so come farò ad aspettare fino a quel giorno…» Ero curiosa di sapere come la signora Danvers avrebbe preso la cosa. Da quel certo pomeriggio, temevo persino il suono della sua voce al telefono. Non potevo dimenticare l’espressione della sua faccia, mentre usciva di biblioteca dopo il colloquio con Maxim. E ringraziavo Iddio ch’ella non mi avesse vista rannicchiata nella galleria. Sospettavo anche ch’ella pensasse che fossi stata io a rivelare a Maxim la visita di Favell. In quel caso, più che mai mi avrebbe odiata. Rabbrividivo ora al ricordo della sua mano sul mio braccio; e quell’orribile tono mellifluo e confidenziale mi risonava ancora all’orecchio. Perciò avrei voluto fare a meno di parlarle financo al telefono.
Fervevano i preparativi per il ballo; ma, a quanto pareva, tutto si compiva in ufficio. Maxim e Frank ci si trovavano ogni mattina. Come Frank aveva detto, io non avevo da preoccuparmi di nulla. Non credo d’aver appiccicato nemmeno un francobollo. Intanto, m’arrovellavo il cervello per via del mio costume. Pareva così sciocco, non esser capace di escogitar proprio nulla! Pensavo a tutti coloro che sarebbero venuti, da Kerrith e dai dintorni, la moglie del vescovo che s’era tanto divertita l’ultima volta, Beatrice e Giles, e la noiosa Lady Crowan, e tant’altra gente che non conoscevo e non m’aveva mai veduta; ognuno d’essi avrebbe avuto qualcosa da criticare, tutti sarebbero stati curiosi di vedere quali sforzi di fantasia avevo saputo fare. In ultimo, al colmo della disperazione, mi vennero in mente quei volumi che m’aveva regalato Beatrice; e aggrappandomi a quella speranza, un bel mattino mi sedetti in biblioteca a sfogliarli, passando da un’illustrazione all’altra in una specie di frenesia. Non trovavo nulla di adatto, erano tutti così elaborati e pieni di. pretese, quei ricchi costumi di seta e di velluto, nei quadri di Rubens, di Rembrandt e di tanti altri. Presi un foglio di carta e una matita, e ne copiai qualcuno, ma non mi soddisfacevano, e scoraggiata buttai gli schizzi nel cestino, e non vi pensai più. La sera, mentre in camera da letto mi vestivo per la cena, udii bussare. «Avanti» dissi, credendo che fosse Clarice. La porta si aprì, ed entrò la signora Danvers, invece. Ella aveva in mano un pezzo di carta. «Scusatemi se vi disturbo» disse «ma non ero ben sicura se intendevate buttar via questi disegni. Tutti i cestini della carta mi vengono sempre portati alla fine della giornata, per vedere se per isbaglio non vi si trova nulla di valore; Roberto mi ha detto che questo era stato gettato nel cestino della biblioteca.»
Alla vista della vecchia m’era venuta freddo; lì per lì non ritrovavo nemmeno la mia voce. Intanto, ella mi tendeva il foglio con gli schizzi che avevo tentato al mattino.
«No, signora Danvers» dissi dopo un momento «non fa niente se questa roba va buttata. Era soltanto uno schizzo che avevo fatto stamane. Ma non mi occorre.» «Benissimo» ella replicò. «Ho pensato bene d’informarmi personalmente, per evitare ogni malinteso.» «Sì» risposi. «Sì, giusto.» Mi aspettavo ch’ella se ne andasse, invece continuava a rimanere lì sulla soglia. «Dunque non avete ancora deciso niente per il vostro costume?» ella domandò. C’era un che di canzonatorio nella sua voce, una traccia di singolare soddisfazione. Forse che ella aveva udito dei miei sforzi, per mezzo di Clarice?
«No. Non ho ancora deciso nulla» risposi. La mano sul pomo della porta, ella continuava a guardarmi.
«E perché non copiate uno dei quadri che ci sono nella galleria?» disse, finalmente.
Feci finta di limarmi le unghie. Erano troppo corte e friabili, ma quel gesto mi occupava, in qualche modo, e potevo fare a meno di guardarla. «Già; ci si potrebbe pensare…» In cuor mio stupii che non mi fosse mai venuta quell’idea, fino allora. Era un’ottima e ovvia soluzione alle mie difficoltà. Però, non volendo farmene accorgere, seguitai a lavorare alle mie unghie.
«Tutti i quadri della galleria potrebbero essere dei bellissimi costumi» riprese la vecchia «specie quello della giovane signora, vestita di bianco, con la cappellina in mano. Mi domando perché il signor de Winter non abbia voluto dare un ballo intitolato a un periodo storico, in cui tutti siano vestiti più o meno lo stesso, per essere in carattere. Io ho sempre trovato che non sta bene vedere un pagliaccio ballare con una dama in parrucca incipriata.»
«A certuni piace la varietà» dissi io. «Trovano che è molto più divertente.»
«A me non piace punto.» La vecchia parlava in tono sorprendentemente normale e amabile. Per quale ragione poi era venuta lei in persona a portarmi quegli scarabocchi buttati via? Voleva far la pace con me, finalmente? O s’era resa conto che non ero stata io a dire di Favell a Maxim, ed era, il suo, un modo per ringraziarmi d’aver serbato il silenzio?
«Il signor de Winter non vi ha consigliato nessun costume?» domandò.
«No» risposi, dopo un momento d’incertezza. «No, ho idea di fare una sorpresa a lui e al signor Crawley. Vorrei che non ne sapessero nulla.»
«Non spetta a me dirvi quel che dovrete fare, lo so. ma quando avrete deciso, vi consiglierei di ordinare il vostro costume a Londra. Quaggiù non c’è nessuno che sappia farlo bene, quel genere di cose lì. Voce, in Bond Street, è un’ottima casa.» «Bisogna che me ne ricordi» dissi. «Sì» ella disse, mentre apriva la porta. «E, signora, se io fossi in voi, mi guarderei i quadri della galleria, specie il ritratto che vi ho detto. E non abbiate paura che io vi tradisca. Non dirò una parola a nessuno.» «Grazie, signora Danvers» dissi. Con estrema dolcezza ella chiuse la porta dietro di sé. Seguitai a vestirmi, assai sconcertata dal suo atteggiamento, così diverso da quello del nostro ultimo incontro. Ch’io avessi da ringraziare l’antipatico Favell?
Il cugino di Rebecca. Perché a Maxim doveva essere antipatico il cugino di Rebecca? Beatrice lo aveva qualificato cialtrone. E non aveva parlato molto di lui. E più ripensavo a quell’uomo, più davo ragione a Beatrice. Quegli occhi azzurri accesi, quella bocca molle, quel riso insolente, d’uno che se ne infischia di tutto. Senza dubbio c’era chi lo trovava un bel giovane. Commesse di pasticceria, che ridacchiavano dietro al banco, e quelle ragazze che distribuivano i programmi nei cinematografi. Sapevo come egli le sbirciava, sorridendo, zufolando sottovoce un motivo di canzonetta. Uno sguardo, un fischiettar tra i denti che vi mettevano nell’imbarazzo. Chissà se conosceva molto bene Manderley. Sembrava in casa sua, e Jasper l’aveva riconosciuto, non c’era dubbio, ma che rapporto avevano quei due fatti con le parole di Maxim alla Danvers? E non riuscivo a connettere Favell con l’idea che m’ero fatta di Rebecca. Rebecca, con la sua bellezza, il suo fascino, la sua educazione: come mai aveva un cugino simile? Era assurdo, in contrasto con ogni logica. Finii per concludere ch’egli doveva essere la pecora nera della famiglia; e Rebecca, nella sua generosità, lo aveva invitato ogni tanto a Manderley; quando Maxim era assente, forse, conoscendo la sua antipatia per lui. Ed egli era stato oggetto di discussione, probabilmente, e Rebecca aveva preso le sue difese; e da allora in poi, c’era stato un lieve imbarazzo ogni volta che s’era pronunciato il nome di Jack Favell.
Mentre sedevo al posto solito, in sala da pranzo, con Maxim a capo della tavola, mi figuravo Rebecca seduta lì dov’ero io ora, in atto di prendere la forchetta da pesce; e in quel mentre suonava il campanello, e Frith appariva dicendo: “Il signor Favell al telefono, signora. Desidera parlarvi”. E Rebecca s’alzava con un’occhiata a Maxim, il quale senza dir nulla seguitava a mangiare il pesce. E ritornando, dopo essersi seduta, Rebecca dava un altro indirizzo alla conversazione, con una voce gaia, indifferente, per dissipare la piccola nube sorta tra loro due. Sulle prime Maxim era imbronciato, e rispondeva a monosillabi; ma a poco a poco ella lo rasserenava, raccontandogli qualche episodio della giornata, e prima che servissero un’altra portata egli tornava a ridere, e attraverso la tavola le porgeva la mano. «A che cosa diavolo stai pensando?» mi domandò Maxim.
Trasalii, e il sangue m’affluì al viso: in quei brevi momenti, non più di sessanta secondi, m’ero identificata con Rebecca al punto che la donnina incolore ch’io ero non esisteva affatto, non era mai venuta a Manderley. Col pensiero e con la persona m’ero riportata ai tempi passati.
«Lo sai che invece di mangiare il tuo pesce, stavi recitando una straordinaria commedia?» disse Maxim. «Prima ascoltavi come se sentissi il telefono, poi movevi le labbra, e mi guardavi di sfuggita. E poi hai scosso il capo, e mi hai sorriso, e ti sei stretta nelle spalle. Tutto in pochi secondi. Ti stai esercitando per il tuo ingresso al ballo in costume?» E mi guardava ridendo. Che avrebbe pensato, se mai avesse letto nel mio pensiero e nel mio cuore; e avesse saputo che per un breve momento egli era stato il Maxim di quei tempi passati, e io Rebecca? «Hai l’aria di averne fatta qualcuna. Che cosa c’è?» egli insisteva.
«Non ho fatto nulla» m’affrettai a protestare. «Non vuoi dirmi che cosa pensavi?» «E perché dovrei dirtelo? Tu non mi dici mai quel che pensi.»
«Mi sembra che tu non l’abbia mai nemmeno chiesto, no?»
«Sì, una volta.» «Non rammento.» «Eravamo nella biblioteca.» «Può darsi. E che cosa ti ho risposto?»
«Mi hai detto che ti, stavi domandando chi avevano scelto a giocare per il Surrey contro il Middlesex.»
Maxim tornò a ridere. «Che delusione sarà stata per te. Che cosa speravi che pensassi?» «Qualcosa di molto diverso.» «Di che genere?» «Ma… non lo so.»
«No. Non lo sai. Se ti ho detto che pensavo al Surrey e al Middlesex, vuol dire che pensavo al Surrey e al Middlesex. Gli uomini sono più semplici di quanto non t’immagini, mia dolce bambina. Ma quel che succede nel tortuoso complicato cervello di una donna, quello sì che ingannerebbe chiunque. Lo sai che poco fa tu eri completamente mutata? Avevi un’espressione che non ti conoscevo.»
«Davvero? E di che genere?»
«Non so, non saprei spiegarmi. Sembravi più vecchia, tutto in un momento, ambigua… Non eri affatto simpatica.»
«Non ne avevo intenzione.» «Oh, lo credo.»
Bevvi un po’ d’acqua, osservandolo di sopra l’orlo del bicchiere.
«Non vuoi ch’io abbia l’aria più vecchia?» domandai. «No.»
«Perché non ti starebbe bene.» «Eppure un giorno sarò più vecchia. È inevitabile. Avrò i capelli grigi, e rughe e così via.» «Non è di quello che m’importa.» «E di che cosa t’importa, allora?» «Non voglio che tu abbia l’aria di poco fa. Avevi una piega attorno alla bocca, e un bagliore di esperienza negli occhi. Ma non era un’esperienza buona.» Mi sentivo incuriosita, agitata.
«Che cosa vuoi dire, Maxim? Com’è, un’esperienza che non è buona?»
Egli non rispose subito. Frith era ritornato per cambiare i piatti, Maxim attese ch’egli fosse sparito dietro il paravento, e poi per la porta di servizio.
«Quando ti ho conosciuta, avevi una certa espressione» egli disse, lentamente. «E ancora l’hai serbata. Non starò a definirla, non saprei nemmeno come. Ma è stata quella una delle ragioni per cui ti ho sposata. Un momento fa, mentre eseguivi quella curiosa commediola, l’espressione era svanita, per far posto a qualcos’altro.»
«Ma che cos’era? Spiegami, Maxim» dissi, quasi supplichevole.
Egli mi guardò un momento, zufolando piano, le sopracciglia alzate. «Ascolta, tesoro. Quando eri bambina, ti avranno proibito di legger certi libri? E tuo padre li
teneva sotto chiave?»
«Sì…»
«Ebbene, un marito non è poi così diverso da un padre. Esiste un certo genere d’esperienza, ch’io preferisco non vederti acquistare mai. È meglio tenerla sotto chiave. Ecco come stanno le cose. E adesso mangia le tue pesche, e non farmi più domande, o ti metterò in castigo.» «Vorrei che tu non mi trattassi come se avessi sei anni» protestai.
«Come vuoi essere trattata?» «Come gli altri mariti trattano le loro mogli.» «Darti delle sculacciate, vuoi dire?» «Come sei insopportabile! Perché devi voltar tutto in ridere?»
«Non scherzo. Sono molto serio.» «No, che non lo sei. Lo leggo nei tuoi occhi. Tu non fai che giocare con me, come se fossi una bambinella stupida.»
«Alice nel Paese delle Meraviglie! Quella sì che è stata una buona idea! Di’, hai già comperato la cintura e il nastro per i capelli?»
«Stai attento! Avrai una sorpresa che non t’aspetti, quando mi vedrai in costume.»
«Non ne dubito affatto. Finisci la tua pesca, su, e non parlare a bocca piena. Ho un mucchio di lettere da liquidare, dopo cena.»
Non attese nemmeno ch’io avessi finito, s’alzò da tavola e se ne andò tranquillamente in biblioteca. Imbronciata rimasi a tavola, mangiando più adagio che potevo, nella speranza che, ritardando così il servizio, Maxim si irritasse; ma Frith non fece caso a me e alla mia pesca. Si affrettò a portare il caffè, e Maxim andò a prenderlo solo in biblioteca.
Quand’ebbi finito salii di sopra, nella galleria dei menestrelli, a dare un’occhiata ai quadri. Li conoscevo assai bene, ma non li avevo mai considerati con l’idea di trarne partito per un costume. La signora Danvers aveva ragione. Che sciocca ero stata a non pensarci prima! La fanciulla vestita di bianco con la cappellina in mano m’era sempre piaciuta. Era un Raeburn: il ritratto di Caroline de Winter, una sorella del trisnonno di Maxim. Aveva poi sposato un illustre uomo politico conservatore, ma il ritratto era stato dipinto prima, quando ella era ancora ragazza. L’abito bianco doveva essere facile da copiare: con quelle maniche a sbuffi, le arricciature, la vita corta e stretta. La cappellina era forse un poco difficile; e avrei dovuto portare una parrucca. Coi miei capelli lisci sarebbe stato impossibile fare tutti quei riccioli. Forse quella casa Voce, di Londra, di cui m’aveva parlato la Danvers, si sarebbe incaricata di tutto quanto. Avrei mandato uno schizzo del ritratto, assieme alle mie misure, pregando di copiarlo con precisione. Quale sollievo fu per me l’aver finalmente deciso! M’ero liberata da un gran peso. Quasi, ora aspettavo con gioia il ballo. Forse, dopo tutto, avrei finito per divertirmi, almeno quanto la piccola Clarice.
Scrissi alla casa Voce la mattina seguente, accludendo lo schizzo. Mi giunse tosto una rispettosa risposta, in cui la ditta si proclamava altamente onorata d’aver ricevuto la mia stimata ordinazione, alla quale si sarebbe dato prontamente corso, provvedendo al costume non meno che alla parrucca.
Clarice non stava più nella pelle, e anch’io cominciavo a sentirmi agitata, via via che il gran giorno si approssimava. Giles e Beatrice si sarebbero trattenuti a passare la notte da noi; nessun altro, grazie al cielo, benché avremmo avuto una numerosa compagnia a cena prima della festa. Mi ero figurata che avremmo dovuto ospitar molta gente, ma Maxim aveva deciso di no. «Il ballo è già uno sforzo abbastanza grande» disse» Tanto che finii per domandarmi se per me soltanto avesse rinunciato agli ospiti, o se realmente si seccava ad aver tanta gente per casa. Avevo sentito parlar tanto delle famose feste di Manderley, con gente che dormiva nelle camere da bagno, e accampate financo sui divani. E invece, eccoci soli nella gran dimora, e non c’era da pensare che a Beatrice e a Giles.
La casa cominciava ad assumere un aspetto insolito, un aspetto d’attesa. Vennero degli uomini a disporre il pavimento per ballare nel gran vestibolo, e nella sala una parte dei mobili fu smossa, di modo che lunghi tavoli per i rinfreschi si potessero addossare alle pareti. Sulla terrazza si disposero delle lampadine elettriche, e così pure nel giardino delle rose: dovunque si andava si vedevano tracce di preparativi per il ballo. Dalla fattoria erano venuti dei braccianti per aiutare, e Frank pranzava quasi ogni giorno da noi, Le persone di servizio non parlavano d’altro, e Frith girava impettito come se la fatica dell’intera serata posasse sulle sue spalle. Roberto aveva addirittura perduto la testa, e commetteva una distrazione dopo l’altra, dimenticando ora di mettere i tovaglioli, ora di servire i legumi a tavola. Aveva una faccia spaurita, come se fosse perpetuamente sul punto di perdere il treno. I cani, poi, erano oltremodo infelici. Jasper sgusciava per il vestibolo con la coda tra le gambe, e ringhiava agli operai. Poi correva sulla terrazza, abbaiava senza alcuna ragione, e si precipitava a testa bassa sul prato e mangiava erba, come colto da una specie di furia. La signora Danvers non si faceva mai avanti, ma io sentivo continuamente la sua presenza. Era la sua voce ch’io udivo, in sala, quando venivano a disporre la tavola, era lei che dava gli ordini per collocare il pavimento di là nel vestibolo. Dovunque io sopraggiungessi, sempre ella era sparita un secondo prima; intravvedevo la gonna attraverso lo spiraglio d’una porta, o udivo il suo passo su per le scale. Su quella scena movimentata, io non ero che una comparsa, che non riusciva utile a nessuno. Tutt’al più impacciavo chi aveva da fare. «Scusate, madama…» diceva un uomo dietro di me, e passava con un sorrisetto umile, due poltrone sul dorso, la faccia gocciolante di sudore. «Oh, scusatemi» replicavo traendomi da parte, e poi, tanto per far vedere che facevo qualcosa anch’io: «Posso aiutarvi? Perché non le portiamo in biblioteca, quelle poltrone?» L’uomo appariva disorientato: «La signora Danvers aveva dato ordine che si portassero via le poltrone per far più posto…» E io: «Ah… Oh, già. Non ci pensavo… Fate pure come v’è stato detto.» E mi affrettavo ad andarmene, mormorando qualcosa di carta e matita che andavo cercando, in un vano tentativo di far credere all’uomo che ero anch’io in faccende; ed egli si allontanava un po’ meravigliato, e io sentivo che non ero riuscita a recitar la commedia.
La gran giornata spuntò brumosa e col cielo greve, ma il barometro alto c’indusse a non nutrir soverchi timori. La nebbia, anzi, era buon segno: si dissipò verso le undici, come Maxim aveva predetto, e rivelò una splendida giornata estiva, senza una nube nella gran volta del cielo azzurro. Per tutta la mattina i giardinieri non fecero che portar fiori in casa, gli ultimi lillà bianchi, e alti lupini e delfinii, e rose a centinaia, e gigli d’ogni specie.
La signora Danvers si mostrò pari a se stessa; calma, senza mai alzare la voce diceva ai giardinieri dove mettere i fiori, e con mano svelta e abile li accomodava poi nei vasi. Affascinata osservavo come li disponeva, uno dopo l’altro, e poi dallo stanzino dei fiori li portava nella sala, e nei vari angoli della casa, e li distribuiva secondo la giusta quantità e proporzione, ponendo là una nota di colore dove faceva bene, lasciando le pareti nude là dove ci voleva una maggior severità.
Maxim ed io pranzammo con Frank nel suo appartamentino da scapolo attiguo all’ufficio, per non esser d’ingombro in casa. Eravamo tutti e tre dell’umor gaio e un po’ sforzato di gente che viene da un funerale. Ci scambiavamo barzellette senza alcun sugo, e intanto, la nostra mente volgeva alle prossime ore. Io mi sentivo un po’ come al mattino delle mie nozze: la stessa catastrofica impressione di essere arrivata ormai troppo avanti per ritornare indietro.
Il ballo in costume era ormai inevitabile. Per fortuna, la casa Voce di Londra aveva mandato il mio vestito in tempo. Di tra i fogli di carta velina era emerso perfetto. E la parrucca era riuscita una piccola meraviglia. L’avevo provato dopo colazione, ed ora rimasta stupita dalla metamorfosi: apparivo quasi bella, e certo completamente trasformata. Non ero più io; ero una donna assai più interessante, più brillante, più vivace. E Maxim e Frank seguitavano a stuzzicarmi per via del mio costume. «Non mi riconoscerete, vi dico!» replicavo. «Resterete a bocca aperta…»
«Non ti vestirai mica da pagliaccio, per caso?» diceva Maxim, alquanto meditabondo. «Nessuno sciagurato tentativo di farci ridere, eh?»
«No, per nulla affatto» rispondevo io, conscia d’esser diventata un personaggio importante. «Io vorrei che tu avessi seguito il mio consiglio. Alice nel Paese delle Meraviglie…»
«O Giovanna d’Arco, coi vostri capelli» suggerì Frank, timido.
«Toh! Non ci avevo pensato» dissi, e Frank si fece alquanto rosso.
«Insomma, io sono sicuro che comunque sarete vestita, vi ammireremo tutti molto» egli concluse, nel suo tono più contegnoso e di circostanza.
«Non incoraggiarla, Frank» intervenne Maxim. «Ha già la testa tanto piena del suo prezioso costume, che non c’è più verso di tenerla. Ci penserà Beatrice a metterti a posto: questa, almeno, è una consolazione. Se non le piaci come sei vestita, si farà un dovere a dirtelo subito. Cara la mia vecchia Bea, lei sì che in queste occasioni si acconcia sempre malamente! Una volta si è vestita da Madama Pompadour, e mentre andava a cena inciampò e la parrucca le cascò di traverso. “Auff! Questa roba è insopportabile!” esclamò allora, con quel suo fare spiccio, e buttò la parrucca su una seggiola e per tutta la serata rimase coi suoi capelli corti. Vi potete immaginare che figura faceva, con un guardinfante di raso celeste, o cosa diavolo era. E neanche il povero Giles fu all’altezza, quella volta. Arrivò vestito da cuoco, e se ne rimase tutta la sera rincantucciato nel bar, con un’aria perfettamente infelice. Credo fosse rimasto un po’ male; forse gli pareva che Bea gli avesse fatto fare una cattiva figura.»
«Macché, non era per quello» disse Frank. «Aveva perduto la dentiera provando una cavallina nuova, non vi ricordate? E non osava più aprir bocca…» «Ah, era così? Povero Giles! Di solito, si diverte tanto a mascherarsi.»
«Beatrice dice che gli piace molto il gioco delle sciarade. Pare che ne facciano sempre, a Natale» dissi. «Lo so» disse Maxim. «E questa è la ragione per cui non passo mai il Natale con lei.» «Prendete un altro po’ di asparagi, signora? Un’altra patata?»
«No, Frank, non ho molta fame, grazie.» «Nervi!» Maxim scosse il capo. «Non ci badare, domani a quest’ora sarà tutto finito.» «Lo spero ardentemente» affermò Frank, serio. «Già avevo pensato di dare ordini perché tutte le macchine fossero pronte per le cinque del mattino.» Fui colta da una risatella nervosa che mi fece venir le lagrime agli occhi. «Oh mio Dio!» ridevo. «Se telegrafassimo a tutti quanti di non venire?» «Suvvia, fatti coraggio» disse Maxim. «Affrontiamo la prova, per parecchi anni non avremo più bisogno di dare un altro ballo. Frank, la mia coscienza mi dice che è ora di avviarci verso casa. Che ne pensi?» Frank assentì, e li seguii di mala voglia, riluttante ad abbandonar la saletta da pranzo sovraccarica di chincaglierie e incomoda, tipica dell’appartamentino di scapolo dell’agente, la quale pure Oggi mi sembrava il ricettacolo d’ogni pace e tranquillità. Giunti alla casa, vi trovammo l’orchestra che era giunta allora. I musicanti se ne stavano in piedi nel vestibolo, accaldati, imbarazzati; e Frith, più che mai pieno d’importanza, offriva loro dei rinfreschi. Li avremmo ospitati anche per la notte, e dopo che li ebbimo salutati e scambiato con essi qualche parola scherzosa d’occasione, li facemmo accompagnare nelle loro stanze, dopo di che sarebbe stato offerto loro un giro per i giardini.
Il pomeriggio si trascinava lento, come l’ultima ora prima d’un viaggio, quando i bagagli sono già fatti e non s’aspetta che la partenza; e io giravo da una stanza all’altra, sperduta quasi quanto Jasper, che mi veniva dietro immusonito e depresso.
Non c’era nulla ch’io potessi fare per aiutare; certo la miglior cosa sarebbe stata di tenersi addirittura alla larga dalla casa, e uscire per una bella passeggiata assieme al cane. Ma quando m’ero già quasi decisa era troppo tardi e Maxim e Frank volevano il tè; e avevano appena finito di prenderlo, che già arrivavano Beatrice e Giles. E prima ancora che ce ne accorgessimo s’era fatta sera. «Mi pare d’essere ritornata ai tempi d’una volta» disse Beatrice guardandosi d’attorno. «Mi congratulo con te; si vede che ricordi ancora ogni particolare. I fiori sono squisiti…» E volgendosi a me: «Li hai disposti tu?» «No» risposi, un po’ vergognosa. «La signora Danvers s’è incaricata lei di tutto.»
«Oh! Beh, in fin dei conti…» Beatrice non fini la frase; si volse a Frank che le tendeva un fiammifero, e accesa la sigaretta parve aver dimenticato quanto stava per dire.
«Avete affidato il servizio a Mitchell, come al solito?» domandò Giles.
«Sì» rispose Maxim. «Mi sembra che non sia stato cambiato nulla, eh, Frank? E speriamo di non aver dimenticato nessuno…»
«Che sollievo, però, trovarci soltanto tra di noi!» disse Beatrice. «Rammento una volta che siamo arrivati a quest’ora, e c’erano già venticinque persone, e tutte che si trattenevano anche la notte. E come vi vestite, voialtri? Mi figuro che Maxim si rifiuterà di camuffarsi anche questa volta?»
«Anche questa volta» ribatté Maxim. «Un vero errore, secondo me. Ci sarebbe molta più animazione, se tu ti mostrassi un po’ più di spirito.»
«Hai mai visto un ballo a Manderley in cui non ci fosse animazione?»
«No, fratello caro, perché tutto è troppo bene organizzato. Però, io penso che il padrone di casa dovrebbe dare il buon esempio.»
«E io penso che è già abbastanza se lo sforzo lo fa la padrona di casa. Perché dovrei mettermi addosso della roba che mi farebbe morir dal caldo, e rendermi ridicolo per giunta?»
«Oh, ma è assurdo! Non c’è nessun bisogno che tu ti renda ridicolo! Con la tua figura, caro Maxim, qualsiasi costume ti starebbe bene. Non avresti da preoccuparti dell’estetica come il mio povero Giles.» «Come si veste Giles?» domandai. «O è un segreto?»
«Un segreto proprio no» disse Giles, raggiante. «E dovrete riconoscere che ho fatto grandi sforzi. Il sarto del paese si è dimostrato addirittura geniale. Mi presenterò sotto le vesti di sceicco.» «Buon Dio!» si lasciò sfuggire Maxim. «Non c’è affatto male!» intervenne Beatrice con calore. «Si tingerà la faccia, naturalmente, e si toglierà gli occhiali. Il turbante è autentico. Ce l’ha prestato un amico che è stato in Oriente; il resto, il sarto l’ha copiato da un disegno in una rivista. E Giles sta veramente bene.»
«E voi, signora Lacy?» domandò Frank. «Io? Oh, ho ben paura di non aver fatto molti sforzi di fantasia» rispose Beatrice. «Ho messo insieme una specie di costume orientale, per andar d’accordo con Giles, ma non pretendo che sia autentico. Molte collane di perle di vetro e la faccia coperta con un velo.» «Mi sembra che debba esser molto grazioso» mi sentii in dovere di dire.
«Oh, non c’è male. Sarà abbastanza comodo, e questo è già qualcosa. Se avrò troppo caldo, toglierò il velo. E tu come ti vesti?»
«Non glie lo domandare» disse Maxim. «Non ha voluto rivelarlo a nessuno. Non s’è mai visto un segreto simile!
Credo persino che abbia fatto venir tutto quanto da Londra.»
«Ma cara mia» disse Beatrice, alquanto impressionata. «Non dirci che ci farai scomparire tutti! Il mio costume, sai, è fatto in casa!»
«Non aver paura» replicai ridendo. «È una cosa molto semplice. Ma siccome Maxim non mi dava pace, ho giurato che gli avrei fatto una sorpresa.» «E hai fatto bene» disse Giles. «Maxim vuol fare l’uomo superiore. Ma il fatto è che è geloso. Vorrebbe mascherarsi anche lui come tutti noi, e non vuole ammetterlo.»
«Che Dio mi perdoni, se…» esclamò Maxim. «E voi, Crawley, che cosa farete? Sentiamo un po’» domandò Giles.
Frank apparve confuso. «Eh, purtroppo ho avuto tanto da fare, che ci ho pensato soltanto all’ultimo momento. L’altra sera ho racimolato un paio di vecchi pantaloni e una maglia a righe da giocatore di calcio, e… e con una pezzuola nera su un occhio, penso che potrò passare per un pirata.»
«Ma perché non ci avete scritto? Vi avremmo prestato noi un costume» disse Beatrice. «Ce n’è uno da olandese che aveva Roger l’inverno scorso in Svizzera. Vi sarebbe andato benissimo.»
«Mi rifiuto di lasciar andare in giro il mio agente vestito da olandese!» disse Maxim. «Non riscuoterebbe più fitti da nessuno. Lasciate che faccia il pirata. Così riuscirà forse a spaventar qualcuno.»
«Tutto meno che un pirata» mi mormorò Beatrice all’orecchio.
Feci finta di non sentire. Povero Frank. Beatrice era sempre un po’ dura con lui.
«Quanto tempo ci vorrà per pitturarmi la faccia?» domandò Giles.
«Due ore almeno» gli rispose Beatrice. «Fossi in te, comincerei a pensarci. Quanti saremo a cena?» «Sedici, compresi noi» disse Maxim. «Nessun estraneo, Tutta gente che conosci.»
«Io mi sento un certo formicolio addosso…» disse Beatrice. «Non vedo l’ora di vestirmi… Insomma, ci divertiremo. Maxim, hai fatto bene a deciderti a dar di nuovo un ballo.»
«È lei che devi ringraziare» replicò Maxim, accennando a me.
«Oh, non è vero!» protestai. «La colpa è stata tutta di Lady Crowan.»
«Non le date retta» disse Maxim, sorridendomi, «non lo sapete, ma essa è eccitata come una bambina al suo primo balletto.» «Non è vero.»
«Ho una gran curiosità di vedere il tuo costume» disse Beatrice.
«Non è niente di straordinario, ve lo assicuro» insistei.
«La signora de Winter dice che non la riconosceremo» affermò Frank.
Tutti mi guardarono e sorrisero. Mi sentivo colorita in viso, soddisfatta e quasi felice. M’ero seduta sul tavolo in biblioteca, e dondolavo le gambe, mentre tutti facevano crocchio intorno a me. Avevo un gran desiderio di correre di sopra, provarmi la parrucca davanti alla pettiniera, rigirarmi da tutte le parti di fronte all’alto specchio a muro. Era una novità, quell’improvvisa inattesa situazione di sentirmi importante, di veder Giles e Beatrice e Maxim e Frank discutere del mio costume, tutti quanti incuriositi di come sarei apparsa. Pensavo al soffice abito bianco avvolto nella carta velina: come avrebbe trasformato la mia figura piatta insignificante, dissimulato le mie spalle cadenti! E i riccioli morbidi e lucidi, come avrebbero coperto i miei capelli lisci! «Che ora sarà?» dissi, indifferente, con un lieve sbadiglio. «Chissà, se si cominciasse a incamminarci di sopra…?»
Mentre attraversavamo il grande vestibolo per avviarci alle nostre camere, per la prima volta osservai come la casa si prestava alle grandi occasioni, e quale magnifico aspetto avessero le sale. Persino la sala lunga, fredda e formale per il gusto mio quando eravamo soli, era un’orgia di colori: fiori dovunque, rose rosse in coppe d’argento sul bianco lino della mensa, le alte finestre aperte sulla terrazza, che, non appena buio, si sarebbero illuminate di luci multicolori. L’orchestra aveva già disposto gli strumenti nella galleria dei menestrelli; e nel gran vestibolo regnava una misteriosa atmosfera d’attesa. C’era nell’aria un tepore insolito, che veniva forse dalla notte, così calma e serena, che irradiava dai fiori sotto i quadri, o dal nostro stesso viso, mentre indugiando salivamo l’ampia scalea di marmo.
Sparita era l’antica austerità. Manderley s’era ridestato a vita come non avrei creduto possibile. Non era più il quieto Manderley che conoscevo. Aveva assunto un senso diverso, un’aria spensierata, un’aria trionfante, che era assai gradevole; quasi che la casa ricordasse altri tempi, tempi lontani, quando il vestibolo era la gran sala dei banchetti, le pareti adorne di arazzi e di panoplie, e a una lunga tavola stretta nel mezzo sedevano uomini, il cui riso echeggiava assai più alto del nostro, i quali a gran voce chiedevano vino e carte, e buttavano grossi pezzi di carne ai cani accovacciati sulle pietre del pavimento. Più tardi negli anni la casa era ancora gaia, ma con una certa grazia e dignità, e Caroline de Winter ch’io rappresentavo stasera scendeva in veste bianca le scale di marmo, per danzare il minuetto. Come avrei voluto ritornare addietro nel corso degli anni e vederla! E così pure mi ripugnava degradare la casa con le nostre pazzesche musiche moderne, così fuori di posto, così poco romantiche, che non si addicevano a Manderley. Improvvisamente mi trovai d’accordo con la signora Danvers. Meglio sarebbe stato intonare il ballo a un dato periodo storico, non farne quel guazzabuglio d’umanità che minacciava d’essere, con Giles, poveraccio, pieno di buone intenzioni, il faccione di cuorcontento sopra le spoglie dello sceicco arabo.
Trovai Clarice ad aspettarmi in camera da letto; il suo visetto tondo, acceso dall’agitazione, pareva una mela rossa. Ridemmo assieme come due scolarette. Io le dissi di chiudere la porta a chiave; e poi, ci fu un gran fruscio di carta velina. Parlavamo a bassa voce come due cospiratori; e quel trepestio di piedi nudi sul tappeto, quegli scoppi di furtive risatine, quelle esclamazioni soffocate a mezzo, mi ricordavano le sere di Natale della mia infanzia, quando si andava ad appendere la calza sotto al caminetto. Maxim, a quell’ora, era nel suo spogliatoio, e le porte di comunicazione erano ben chiuse. Clarice era la sola mia alleata, la mia amica fedele. La veste mi andava a perfezione. In piedi davanti allo specchio, a mala pena riuscivo a frenar la mia impazienza, mentre Clarice m’agganciava con le dita malcerte. «Com’è bello, signora» ella ripeteva, scostandosi per ammirarmi. «Un vestito che par fatto per la regina.» «Guarda un po’, sulla spalla sinistra… Si vede la spallina?»
«No, signora, non si vede niente.» «Come va? Come sto?» e senza aspettar risposta mi rigiravo, aggrottavo le ciglia, sorridevo alla mia immagine allo specchio. Già mi sentivo diversa; il mio benedetto complesso d’inferiorità dileguava a poco a poco. Che fossi riuscita finalmente a soffocare la mia personalità incolore?
«La parrucca, ora» dissi, eccitata. «Piano, non schiacciare i riccioli; debbono rimanere morbidi e discosti dal viso.» Dietro le mie spalle, nello specchio vedevo la faccina tonda di Clarice, gli occhi lucidi, la bocca semiaperta. Con le mani tremanti m’impossessai dei serici riccioli dai riflessi dorati.
«Oh, Clarice!» esclamai, ridendo piano. «Che cosa dirà il signor de Winter?»
Cercando di nascondere il mio sorriso di trionfo, ricoprii i miei capelli smorti con
la parrucca inanellata. In quel momento qualcuno bussò forte.
«Chi è?» gridai, colta da un vero panico. «Non si può entrare!»
«Sono io, cara, non aver paura» rispose la voce di Beatrice. «A che punto sei?
Voglio vederti.» «No, no! Non puoi entrare, non sono ancora pronta.» Clarice, fuori di sé, la mano piena di forcine, me le porgeva una dopo l’altra, aiutandomi ad accomodare i riccioli, che nella scatola s’erano un po’ scompigliati. «Scendo non appena sono pronta» gridai. «Andate pure giù, tutti quanti. Non mi aspettate. E di’ a Maxim che non può entrare.»
«Maxim è già dabbasso» disse Beatrice. «È venuto da noi, a dirci che ha tempestato di colpi la porta del gabinetto da bagno, e che tu non hai risposto. Non farti aspettar troppo, cara, siamo tutti molto curiosi. Non hai proprio bisogno d’aiuto?»
«No!» gridai spazientita, perdendo la testa. «Vattene, scendi giù, ti dico!»
Che gusto c’era a venirmi a seccare proprio in quel momento? Beatrice m’aveva confusa, non sapevo più quel che facevo. Una forcina mi s’impuntò contro un ricciolo. Non udii più la voce di Beatrice; ella doveva essersi allontanata lungo il corridoio. Un istante mi domandai se si trovava bene, nei suoi veli da odalisca, e se Giles fosse riuscito a dipingersi la faccia. Ma com’era assurda, tutta quell’agitazione, pensai. Perché facevamo di queste cose, quasi fossimo ancora bambini? Non riconoscevo più il volto che dallo specchio mi fissava. Gli occhi erano più grandi. Più soffice la bocca, più bianca e chiara la pelle. I riccioli mi circondavano la testa come una nube, un’aureola. Osservai quella creatura così diversa da me, e le sorrisi: un sorriso nuovo, studiato…
«Oh, Clarice!» esclamai. «Clarice!» E, presa la gonna con la punta delle dita, le feci una riverenza, e le balze sfiorarono il pavimento. Clarice rideva, rideva, un po’ imbarazzata e confusa, ma senza dubbio assai soddisfatta. Mossi qualche passo ancora davanti allo specchio, osservando la mia immagine.
«Apri la porta» dissi poi. «Ora scendo giù. Corri avanti, a veder se gli altri sono già scesi!» Ridendo ancora Clarice obbedì; sollevando la gonna con ambe le mani la seguii nel corridoio.
Ella si volse a farmi cenno. «Sono scesi» sussurrò. «Il signor de Winter, il maggiore Lacy e la signora. Il signor Crawley è arrivato in questo momento. Sono tutti nel vestibolo.» Attraverso l’arcata guardai a capo dello scalone, e di là al vestibolo. Sì, erano là: Giles, in bianco mantello da Arabo, che rideva forte, mostrando il pugnale infilato nella cintola; Beatrice, imbacuccata in sovrabbondanti vesti verdazzurre, carica di collane che dal collo le scendevano sino alla vita; il povero Frank, impacciato e un po’ sciocco nella maglia a righe, gli alti stivaloni da marinaio; e Maxim, l’unico normale del piccolo gruppo, in abito da sera.
«Non so davvero che cosa faccia» egli stava dicendo. «È un’ora che è chiusa in camera da letto. Che ore sono, Frank? Gli invitati a cena saranno qui prima che ce ne accorgiamo.»
L’orchestra, già vestita, era a posto sulla galleria. Uno dei musicanti accordava il suo violino. Fece una scala, poi pizzicò una corda. La luce d’una lampada illuminava in pieno il ritratto di Caroline de Winter. Sì, la veste era stata copiata sin nei suoi più minuti particolari dallo schizzo che avevo inviato. Le maniche a sbuffi, la cintura col fiocco, il largo cappello dalla tesa ondeggiante che tenevo in mano. E i miei riccioli erano i suoi; come nel ritratto mi facevano un’aureola attorno al viso. Mai in vita mia avevo provato quell’emozione, quell’ebbrezza d’orgoglio e di felicità. Feci un cenno all’uomo del violino, e mi posi un dito sulle labbra, a intimargli silenzio. Egli mi sorrise, inchinandosi, e si avvicinò.
«Dite al timpano di annunciarmi» gli dissi. «Con un rullo, lo sapete come si fa? E poi, che annunci Miss Caroline de Winter. Voglio fare una sorpresa a quei signori di sotto.» Il cuore mi batteva in modo assurdo, e mi ardevano le guance. Ma come mi divertivo! Folle, ridicolo, fanciullesco divertimento! Sorrisi a Clarice, rannicchiata in corridoio, e raccolsi l’ampia gonna. Poi il rullo del timpano, benché lo avessi atteso e sapessi che doveva venire, risvegliando gli echi nella sala per un attimo mi fece trasalire. E vidi quelli in fondo allo scalone guardar verso l’alto, sorpresi, interdetti.
«Miss Caroline de Winter» annunciò la voce stentorea del musicante.
Avanzai fino a capo dello scalone e mi fermai, sorridente, la cappellina in mano, come la fanciulla del ritratto; in attesa dei battimani e delle risa, mentre lentamente m’accingevo a scendere. Ma nessuno batté le mani, nessuno si mosse.
Mi fissavano tutti, muti, come impietriti. Beatrice gettò un gridolino, recandosi la mano alla bocca. Sempre sorridendo, mi appoggiai con una mano alla balaustra. «Buona sera, signor de Winter» dissi. Maxim non s’era mosso. Un bicchiere in mano, mi fissava. Non c’era più una goccia di sangue su quel viso. Era diventato d’un biancor cinerognolo. Vidi Frank accostargli come per parlargli, ma egli lo scostò con un gesto. Il piede già sul primo scalino, esitai. C’era qualcosa che non andava; non avevano dunque capito? Perché Maxim guardava così? E perché gli altri se ne stavano lì come tanti pupazzi, come ipnotizzati? Poi Maxim mosse due passi verso lo scalone, senza mai staccar gli occhi dal mio viso.
«Che razza di scherzo è questo?» gridò. Gli occhi gli si accesero d’ira. E sempre quel pallor di cenere… Incapace a muovermi ero rimasta là, la mano sulla balaustra.
«È il ritratto» balbettai, terrorizzata da quegli occhi, da quella voce. «Il ritratto… quello che c’è nella galleria.»
Seguì un lungo silenzio. Immobili ci guardavamo tutti. «Che cosa c’è?» dissi, con un groppo alla gola. «Che cosa ho fatto?»
Se soltanto non m’avessero fissata così, con quei visi muti, impietriti. Se qualcuno avesse parlato… Quando finalmente Maxim parlò, non riconobbi la sua voce. Era una voce gelida, mortalmente calma, una voce che non conoscevo.
«Vai a cambiarti» disse. «Non importa quel che ti metti. Un vestito da sera qualunque, qualsiasi cosa.» Volli parlare, e non potei, affascinata dai suoi occhi, l’unica cosa viva nella bianca maschera del viso. «Perché te ne stai lì?» egli disse. E la sua voce suonava singolarmente aspra. «Non hai sentito quel che ho detto?»
Allora mi voltai, e correndo, alla cieca infilai l’arcata, e poi il corridoio. Come in sogno vidi la faccia stupita del musicante che mi aveva annunciata. Lo sfiorai, incespicando, senza guardar dove mettevo i piedi. Le lagrime m’accecavano. Non sapevo più quel che facevo. Clarice era scomparsa. Il corridoio era deserto. Mi guardai intorno, sbalordita, stravolta. Mi avvidi che la porta che dava all’ala a ponente era aperta; sulla soglia c’era qualcuno.
Era la signora Danvers. Mai dimenticherò l’espressione d’odio e di trionfo che deformava quella faccia. La faccia di un demonio esultante. E mi sorrideva. E io fuggii, fuggii, per il lungo corridoio stretto, fino alla mia stanza, barcollando, inciampando nella balza della veste.
XVII
Clarice mi aspettava in camera da letto, pallida e sgomenta. Non appena mi scorse scoppiò in lagrime. Senza dire una parola cominciai a sganciarmi il vestito, strappando la seta. Ma anche così non vi riuscivo, e Clarice mi venne in aiuto, sempre piangendo rumorosamente. «Stai calma, Clarice, non è mica colpa tua» le dissi; ma ella scosse il capo, e le lagrime le rigavano le guance.
«Il vostro bel vestito, signora, il vostro bel vestito bianco…»
«Non fa niente. Non riesci a trovare i ganci? Eccoli qui, nel dorso… E ce n’è un altro qua, non so dove…» Ella pasticciava coi ganci, le mani tremanti, e non riusciva ad aprirli, non più di quanto vi riuscissi io; e dietro di me udivo il suo respiro ansante. «Che cosa vi mettete ora, signora?» ella domandò. «Non lo so. Non lo so.» Finalmente i ganci s’erano aperti, e mi liberai del vestito. «Preferirei rimanere sola, Clarice» dissi. «Non vorresti farmi il piacere di lasciarmi? Non ti preoccupare, non mi sento male. Non pensare più a quel che è successo. Anzi, voglio che tu ti diverta, questa sera.»
«Non volete che vi stiri un vestito, signora?» Ella mi guardava, con occhi gonfi, tuttora lagrimosi. «Non ci metto un minuto…»
«No» risposi. «Lascia stare; vai pure. E… Clarice?» «Sì, signora?»
«Non… Non dire nulla di quel che è successo poco fa.»
«No, signora.» E giù un altro torrente di lagrime. «Non farti vedere così dagli altri» dissi. «Vai nella tua stanza, a rinfrescarti un poco la faccia. Non c’è ragione di piangere, proprio non ce n’è.» Bussarono, Clarice mi gettò un’occhiata spaventata. «Chi è?» domandai. La porta si aprì; entrò Beatrice, e subito mi venne vicino, figura strana, piuttosto incongrua con tutti quei drappeggi orientali e quel tintinnio di conterie ai polsi.
«Cara» ella disse; «cara…» E mi tese le mani. Clarice se ne sgusciò via. Mi sentii stanca, tutt’a un tratto, incapace a sopportar la tensione. Mi’ lasciai cadere a sedere sul letto, e mi tolsi la parrucca inanellata. Beatrice mi guardava, meditabonda. «Ti senti bene? Sei molto pallida.»
«È la luce» dissi. «Alla luce artificiale si è sempre pallidi.»
«Riposati un momento e starai meglio. Aspetta, vado a prenderti un bicchier d’acqua,» Andò nel gabinetto da bagno, i bracciali tintinnanti a ogni mossa, e ne tornò con un bicchier d’acqua.
Bevvi, tanto per farle piacere, benché non avessi punto sete. L’acqua era tepida: Beatrice non l’aveva lasciata scorrere abbastanza.
«Naturalmente, io l’ho capito subito che è stato un terribile equivoco» ella diceva, intanto. «Tu non potevi sapere; e come avresti potuto?» «Sapere che cosa?» domandai.
«Come? Il vestito, povera piccola, il ritratto della giovinetta che hai copiato, che è nella galleria. Così s’era vestita Rebecca, all’ultimo ballo in costume. Identico. Lo stesso quadro, lo stesso vestito. Quando t’ho vista là sullo scalone, per un momento, uno spaventoso momento, ho pensato che…» Non finì la frase, e mi batté affettuosamente sulla spalla.
«Povera piccola, che sciagura, che equivoco; ma come potevi sapere?»
«Avrei dovuto sapere» replicai, fissandola istupidita, la mente troppo stanca per capire. «Avrei dovuto sapere.»
«Ma è assurdo! Come potevi sapere? A chi poteva venire in mente una cosa simile? Soltanto, vedi, è stato un colpo un po’ brusco. Nessuno di noi se l’aspettava, e Maxim…»
«Ebbene? Maxim…?»
«Maxim, vedi, pensa che tu l’abbia fatto apposta. C’era una specie di sfida tra voidue, no? Che tu gli avresti fatto una sorpresa. È stato un colpo terribile per lui. Io gli ho detto subito che non potevi aver avute cattive intenzioni, che per un caso straordinario hai scelto a modello proprio quel ritratto.»
«Avrei dovuto sapere» ripetevo. «È colpa mia, avrei dovuto indovinare. Avrei dovuto sapere…» «No, no, non ti angustiare; con un po’ di calma gli spiegherò che tu non ne puoi nulla. E tutto si accomoderà.
Iprimi invitati stavano appunto arrivando mentre salivo su. Ora stanno prendendo l’aperitivo. Ma tutto è a posto. Ho detto a Giles e a Frank di spargere una storiella
qualunque, che il tuo costume non andava bene, e che tu t’eri molto inquietata.»
Non replicai. Rimasi seduta sul letto, le mani in grembo.
«Che cosa potresti metterti, invece del costume?» Beatrice s’era avvicinata all’armadio, e aveva aperto gli sportelli. «Questo qui azzurro… ecco, mi sembra un amore. Mettiti questo. Che cosa vuoi che importi alla gente? Su, svelta, ti aiuto io.» «No» dissi. «No. Non vengo giù.»
Il vestito azzurro sul braccio, Beatrice mi guardava. «Ma cara, devi venir giù!» disse, al colmo della disperazione. «Non è possibile che tu non ti faccia vedere!»
«No, Beatrice, non insistere. Non potrei farmi vedere, dopo quel che è accaduto.»
«Ma nessuno ne saprà nulla, del costume! Frank e Giles non diranno una parola. Abbiamo già fabbricato la storiella. La sartoria ha mandato un costume che non ti andava bene, e allora hai preferito mettere un vestito da sera. Tutti troveranno che è naturalissimo. E la serata andrà avanti come se niente fosse.» «Non capisci» ribattei. «Non è per via del costume. Ma è… tutto l’insieme, è quel che ho fatto. Non posso scendere, Beatrice, non posso!» «Ma, bella mia, Frank e Giles hanno capito perfettamente che c’era un equivoco. E ti compiangono, te lo accerto. E anche Maxim capirà. Non è stata che la prima impressione… Cercherò di pescarlo un momento da solo, e gli dirò che tu eri ignara…» «No! No!» ripetei.
Beatrice posò il vestito azzurro accanto a me, sul letto. «La gente starà arrivando, ora» diss’ella, scura in viso, grave. «Sembrerà strano, che tu non scenda giù. Non si può mica ricorrere alla solita scusa dell’emicrania improvvisa.»
«Perché no?» dissi, stanca. «Che importa? Trova una scusa qualunque. Tanto, è tutta gente che non mi conosce.»
«Suvvia, cara.» E Beatrice mi carezzava la mano. «Cerca di fare un piccolo sforzo.
Mettiti questo bel vestito azzurro. Pensa a Maxim. Per amor suo almeno devi scendere.»
«È appunto a Maxim che penso…» «Ebbene? E allora?»
«No» dissi, cullandomi avanti e indietro e mordicchiandomi le unghie. «Non posso. Non posso.» Qualcun altro bussava alla porta, intanto. «Ah, mio Dio, chi sarà mai, adesso?» disse Beatrice, avvicinandosi alla porta. «Chi è?»
Ella aprì. Sulla soglia apparve Giles. «Sono arrivati tutti. Maxim mi ha mandato su a vedere che cosa succede.»
«Dice che non vuol scendere» replicò Beatrice. «E che cosa dobbiamo dire, che cosa?»
Vidi che, attraverso la porta aperta, Giles mi guardava incuriosito.
«Oh Signore Iddio, che bel pasticcio» egli mormorò; e imbarazzato si distolse, accorgendosi che io lo avevo scorto. «Che cosa debbo dire a Maxim? Beatrice, sono già le otto e cinque.»
«Digli che si è un po’ impressionata, ma cercherà di farsi coraggio e di scendere più tardi. Che non aspettino a mettersi a tavola, intanto. Io scendo subito; sto accomodando tutto per il meglio…» «Sì, va bene.» Egli tornò a guardare verso di me, benevolo, ma un po’ incuriosito. Si domandava forse che cosa facevo, seduta lì sul letto; e parlava a voce bassa, come si fa dopo un accidente, quando si aspetta il dottore. «C’è niente che io possa fare?» egli domandò. «No» gli rispose Beatrice. «Vai pure giù. Io scendo fra un minuto.»
Egli obbedì e se ne andò, impacciato nel suo costume arabo. Questo è il momento, io pensavo, del quale fra qualche anno riderò, dicendo: “Vi ricordate che figura faceva Giles vestito da Arabo, e Beatrice con quel suo velo sulla faccia, e tutti quei bracciali di vetro che le battevano sui polsi?” E il tempo avrebbe mitigato le tinte un po’ forti, avremmo potuto riderne. Ma ora non c’era niente di buffo, e io non ridevo affatto. Questo non era l’avvenire, era il presente. Era troppo vivo, troppo reale. -Seduta sul letto, cincischiavo il piumino, e mi divertivo, a tirar fuori una piuma da un buchetto in un angolo. «Vuoi un po’ di cognac?» disse Beatrice, facendo un ultimo sforzo. «So che è il rimedio della disperazione, ma qualche volta fa miracoli.» «No. Non voglio nulla.»
«Adesso bisognerà che io scenda. Giles dice che stanno per mettersi a tavola. Sei sicura che posso lasciarti sola?»
«Sì, sì. E grazie di tutto, Beatrice.» «Oh, cara, non c’è di che. Davvero vorrei poter fare qualcosa.» Svelta si curvò davanti al mio specchio è si diede un po’ di cipria sul viso. «Dio mio, che figura faccio» mormorò. «Questo maledetto velo è storto, lo so. Ma non si può accomodarlo diverso.» Con un frusciar di seta uscì, e richiuse la porta. Sentivo che col mio rifiuto di scendere a cena m’ero giocata la simpatia ch’ella aveva per me. M’ero dimostrata vile. Ed ella non aveva capito. Ella apparteneva a un’altra razza d’uomini e donne; erano coraggiose, le donne della sua razza. Non erano come me. Se Beatrice fosse stata al posto mio, si sarebbe infilata il vestito da sera, bravamente, e sarebbe scesa ad accogliere i suoi ospiti. A fianco di Giles, il sorriso sulle labbra, ella avrebbe stretto loro la mano. Io non ne ero capace. Mi mancava l’orgoglio, mi mancava il coraggio. Ero stata educata male.
E intanto, continuavo a vedere gli occhi di Maxim, accesi nel viso bianco, e dietro di lui Giles e Beatrice e Frank che mi fissavano attoniti.
Mi alzai, andai alla finestra. Due giardinieri si aggiravano per il giardino delle rose, a verificare i lumi, per vedere se funzionassero. In un cielo pallido, poche nuvole vespertine d’un rosa acceso correvano verso oriente. Non appena buio, tutto il giardino si sarebbe illuminato. E c’erano tavolini e seggiole, disposte per coloro che preferivano stare all’aperto. Fino alla mia finestra saliva l’effluvio potente delle rose. Gli uomini parlavano e ridevano fra di loro. «Eccone una che è già bell’e andata» diceva una voce. «Bill, cercami un’altra lampadina. Una di quelle turchine.» Mentre accomodavano il guasto, uno fischiettava una melodia in voga, e io pensavo che forse, questa sera, l’orchestra avrebbe suonato quella stessa canzonetta, nella galleria dei menestrelli, sopra al gran salone. «Ecco fatto» diceva l’uomo, accendendo e spegnendo la lampadina. «Ora sono tutte a posto. Andiamo un po’ a dare un’occhiata a quelle sulla terrazza…» E sempre fischiettando, seguito dal compagno, l’uomo spariva oltre l’angolo della casa. Come avrei voluto essere nei suoi panni! Più tardi nella serata, le mani in tasca, il berretto sulle ventitré, egli se ne sarebbe stato sull’orlo del viale assieme all’amico, a veder arrivare le automobili, e poi avrebbero bevuto il sidro, alla lunga tavola disposta per loro in un angolo della terrazza. «Come ai tempi di una volta, eh?» avrebbe detto.
E l’amico, scuotendo il capo, la pipa tra i denti: «Questa qui, la nuova, non è come la nostra signora de Winter, è diversa, questa.» E una donna seduta poco lungi, e altri ancora fra la folla avrebbero approvato e annuito.
«Giusto, giusto.»
«Dove s’è cacciata, stanotte? Neppure una volta è uscita sulla terrazza.»
«E chi lo sa? Io non l’ho vista.» «La signora de Winter, quella era sempre in cielo e in terra e in ogni luogo.» «Giusto!»
E la donna si volgeva ai vicini, con aria di mistero. «Dicono che stasera non si farà vedere per niente.» «Ma va!»
«È la verità. Domandate a Mary, laggiù.» «È vero: una delle cameriere mi ha detto che la signora è rimasta chiusa tutta la sera nella sua stanza.» «Che cos’ha la sposa? Non si sente bene?» «No, credo faccia il broncio. Dicono che il costume non le andava a genio.»
Un coro di risate, un mormorio fra la piccola folla. «E chi ha mai sentito una cosa simile? Far fare una simile figuraccia al signor de Winter!» «Io non lo sopporterei. Da una donnetta come quella.»
Forse non sarà vero.» «È verissimo. A casa tutti lo sanno, ormai.» E la voce corre dall’uno all’altro. Un sorriso, un ammiccar d’occhi, una scrollata di spalle. Da un gruppo all’altro. E così la voce si propaga tra gli ospiti che passeggiano sulla terrazza e sui prati.
Mi par di vedere la coppia che fra un paio d’ore se ne starà seduta sotto le mie finestre, in mezzo alle rose. «Ma sarà vero quel che ho sentito dire?» «Che cosa hai sentito?»
«Ma non è vero affatto che si sente male. Hanno litigato come due gatti, e lei non vuol farsi vedere.» «Ma via!» Un’alzata di sopracciglia, un’esclamazione soffocata.
«Eh, eh! La cosa è un po’ strana, no? Ecco, io vorrei sapere se è mai possibile che vengano dei violenti mali di testa così all’improvviso, senza una ragione… Vuoi che te lo dica? Per me la faccenda puzza…» «Mi era ben parso che lui avesse un’aria un po’ truce.» «E anche a me.»
«L’avevo già sentito dire, del resto, che quel matrimonio non è proprio riuscito brillantemente.» «Che! Davvero?»
«Hm… Sono in parecchi a dirlo. Sembra che lui abbia cominciato ad accorgersi di aver commesso un grosso errore. Lei non è certo una bellezza rara.»
«No. E ho anche sentito che non è una cima. Chi era?»
«Oh, una illustre ignota. Una piccola istitutrice o qualcosa del genere. Lui l’ha conosciuta sulla Riviera francese.»
«Oh Signore!»
«Già! E se si pensa a Rebecca…» Il mio sguardo era rimasto fisso alle seggiole vuote. Il cielo rosa era trascolorato in grigio. In alto davanti a me brillava Venere. Nei boschi oltre il giardino s’udiva l’ultimo sommesso cinguettio d’uccelli, il loro frusciar d’ali prima del cader della notte. Un gabbiano solitario saettava attraverso il cielo. Mi staccai dalla finestra, tornai al letto. Raccolsi l’abito bianco che avevo lasciato cadere a terra e lo rimisi nella sua scatola, avvolto nella carta velina. Anche la parrucca rimisi nella scatola. Poi, in uno dei miei armadi cercai il piccolo ferro da stiro portatile, che a Monte Carlo mi serviva per i vestiti della signora Van Hopper. Lo trovai in fondo a una scansia, con certe camicette di maglia che da gran tempo non avevo più messo. Il ferro da stiro era uno di quelli a voltaggio universale, e lo attaccai alla spina nello spogliatoio. Lentamente, con metodo, cominciai a stirare il vestito azzurro che Beatrice aveva tolto dall’armadio: così come solevo stirare i vestiti della signora Van Hopper a Monte Carlo.
Quando ebbi finito posi il vestito sul letto. Poi mi ripulii il viso del rossetto che m’ero messo per il costume.
Mi ravviai i capelli, mi lavai le mani. Indossai la veste azzurra, cercai un paio di scarpe che vi si accompagnassero. Avrei potuto essere quella d’una volta, in procinto di scendere nel salone dell’albergo dietro alla signora Van Hopper. Aprii la porta, mi avviai su per il corridoio. Tutto era silenzio. Come se non ci fosse una festa. La porta all’ala a ponente era chiusa. Solo quando fui all’arcata udii un mormorio, un brusio di voci che saliva dalla sala da pranzo. Erano ancora a tavola. Il gran vestibolo era deserto. E così la galleria: anche l’orchestra doveva essere a cena.
Di là dov’ero, proprio di fronte a me nella galleria, vedevo il ritratto di Caroline de Winter. Vedevo l’aureola di riccioli attorno al volto, e il sorriso che increspava le labbra. Rammentai, quello che mi aveva detto la moglie del vescovo quel giorno che ero stata a farle visita. «La vedo ancora, la sera del ballo… con quella nuvola di capelli neri… e quel costume, tutto bianco…» Avrei dovuto ricordare quelle parole, avrei dovuto sapere. Che strana figura facevano sulla galleria gli strumenti, il piccolo podio per l’orchestra, il grosso timpano… E su una seggiola c’era un fazzoletto, dimenticato lì da uno dei musicanti. Mi appoggiai alla balaustra, guardai giù. Presto il gran salone sarebbe stato gremito di gente, come aveva detto la moglie del vescovo, e Maxim, ai piedi dello scalone, sarebbe stato là ad accogliere coloro che entravano.
Il suono delle voci risvegliava gli echi del soffitto; e poi l’orchestra incominciava a suonare, e l’uomo dal violino seguiva col capo il ritmo della musica, sorridendo. Finito il gran silenzio. Un’asse del pavimento scricchiolò, sulla galleria. Eppure non c’era nessuno. Una corrente d’aria -forse qualcuno aveva lasciato una finestra aperta, in qualche andito -mi alitò in viso. Dalla sala da pranzo continuava a salire il brusio di voci. Come mai quello scricchiolio, se la galleria era deserta? Il caldo della notte, forse, una fessura nel legno vecchio? La corrente soffiava ancora, più viva che mai. Da uno dei leggii un foglio di musica volò a terra. Mi volsi all’arcata; l’aria veniva di là. Tornai indietro; e quando ebbi fatto qualche passo nel lungo corridoio sentii che la porta all’ala a ponente era stata spalancata. Il corridoio che terminava da quella parte appariva buio: nessuna luce era stata accesa. Sentivo il vento soffiarmi in viso, da una finestra aperta. A tentoni cercai un interruttore, sulla parete, e non ne trovai. Vedevo la finestra, in un angolo del corridoio; la cortina si gonfiava, si muoveva dolcemente, avanti e indietro. La grigia luce crepuscolare gettava strane ombre sul pavimento. Dalla finestra aperta udivo la voce del mare, il sibilo lieve del risucchio sulla spiaggia.
Non andai a chiudere la finestra. Un momento ristetti là, rabbrividendo nella veste leggera, tendendo l’orecchio al sospiro del mare che si ritraeva dalla spiaggia. Poi rapidamente mi voltai, chiusi la porta dietro di me, e ritornai verso il salone.
Il brusio di voci era più forte, ora, la porta della sala da pranzo era aperta. La comitiva s’era alzata da tavola. Vedevo Roberto presso la porta; e s’udiva un rumor di seggiole smosse, un chiacchiericcio animato da risate. Lentamente scesi lo scalone, e mossi incontro agli ospiti.
Riandando con la mente al mio primo ballo a Manderley -il mio primo e ultimo rammento piccoli particolari, che spiccano isolati nel quadro della serata simile a un vasto affresco. Lo sfondo è un mare nebuloso di visi dai contorni vaghi, dei quali nessuno m’è noto; e la musica seguita a marcare il ronzio lento di un valzer che non ha fine mai, che sembra prolungarsi per ore e ore. Le stesse coppie passano e ripassano girando, il volto fisso nello stesso sorriso; in piedi accanto a Maxim presso lo scalone, per accogliere qualche ritardatario, vedo quelle coppie danzanti rotear come marionette appese a un filo mosso da una mano invisibile. C’era una donna… Non seppi mai il suo nome, e non l’ho mai più rivista; ricordo solo che aveva una specie di crinolina color rosa salmone, vago omaggio a non so quale secolo, dal sedicesimo al diciottesimo; ella mi passava regolarmente davanti a una certa battuta di valzer al cui ritmo saltellava, ondeggiava; e ogni volta sorrideva verso di me. Finì per diventare una cosa automatica, un’abitudine: come quelle persone che sul ponte di passeggiata di un piroscafo s’incontrano sempre allo stesso punto. La rivedo ancora, i denti sporgenti, la macchia del rossetto alta sugli zigomi; e il sorriso ebete, beato, immagine d’un godimento assoluto. La rividi più tardi vicino alla tavola dei rinfreschi: i suoi occhi cercavano, valutavano avidi le vivande, e, riempitosi un piatto di aragosta alla maionese, se ne andò a mangiarselo in un angolo.
E c’era anche Lady Crowan, mostruosa in un travestimento purpureo, che impersonava chissà quale romantica figura del passato, Maria Antonietta o Nell Gwynne, o una strana esotica fusione di ambedue; e con un’eccitata voce stridula, con un tono un po’ più alto del consueto che tradiva lo spumante, ella seguitava a esclamare: «È a me che dovete dir grazie per tutta questa baldoria! E non ai de Winter!»
Rivedo Roberto che lascia cadere un vassoio di gelati, e la faccia di Frith, all’accorgersi che il colpevole è Roberto e non uno dei tirapiedi presi a nolo per l’occasione. Avrei voluto avvicinarmi a Roberto, battergli sulla spalla e dirgli: “Consolati. Ti capisco. Io ho fatto ben peggio di te, questa sera…” Ancora risento il sorriso artificioso, raggelato sulle mie labbra, che male s’accordava con l’angoscia dei miei occhi. Rivedo Beatrice, cara Bea, buona e pur senza tatto, che ballando mi guardava, mi faceva cenni col capo per incoraggiarmi, i bracciali tintinnanti ai polsi, il velo che di continuo le scivolava indietro dalla fronte accaldata. E mi raffiguro trascinata nel folle turbinar d’una danza dai disperati sforzi di Giles, il quale con commovente solidarietà e buon cuore non voleva sentir proteste, ma s’ostinava a pilotarmi tra la calca rumorosa come avrebbe portato uno dei suoi cavalli al traguardo. «Grazioso davvero, quel tuo vestito» lo sento dire. «Accanto a te, abbiamo tutti quanti un’aria maledettamente ridicola.» E lo benedico in cuor mio per quel suo gesto semplice e commovente, pieno di comprensione e sincerità. Pensava, povero Giles, che davvero io fossi rimasta delusa per via del mio costume, che mi preoccupassi del mio aspetto, di non essermi fatta abbastanza bella…
Fu Frank a portarmi un piatto di pollo freddo e prosciutto che non potei mangiare; Frank che mi porse un calice di spumante che non volli bere. «Bevete, via» egli mi diceva sottovoce. «Credo ne abbiate bisogno.» E ne mandai giù tre sorsi per fargli piacere. La benda nera sull’occhio lo impallidiva singolarmente, lo invecchiava, lo trasformava. Pareva che avesse sul viso rughe che non gli avevo visto mai. Egli si aggirava tra gli invitati come se fosse in casa sua, badava che non mancassero mai i vini, né i cibi e le sigarette; e ballava persino, accompagnando la sua dama in giro per la sala, compassato, grave e diligente come se compisse un dovere. Non sapeva portare il travestimento con disinvoltura, e le basette finte cacciate sotto il fazzoletto scarlatto che gli legava la testa, avevano un che di tragicomico. Lo vedevo davanti allo specchio, nella sua nuda cameretta di scapolo, a cercar di ravviarle con le dita… Povero Frank. Caro Frank. Non ho mai osato domandargli, e così non ho mai saputo, quanto egli abbia odiato l’ultimo ballo in costume dato a Manderley… L’orchestra suonava, suonava, e le coppie ballonzolavano come marionette, avanti e indietro, a destra, sinistra, attraverso il gran salone, mi ripassavano davanti, e non ero io che le guardavo, non una creatura dolorante di carne e sangue, ma un manichino che aveva le mie sembianze, una comparsa dal sorriso incollato sulla faccia. E accanto a me avevo una figura legnosa, sul viso una maschera dal sorriso a me ignoto. Quegli occhi non erano gli occhi dell’uomo che conoscevo, dell’uomo che amavo. Al di là di me, attraverso la mia persona, freddi e assenti guardavano a recessi di dolore e di torture ai quali m’era precluso l’ingresso, a un loro inferno interiore e segreto ch’io non potevo condividere. Per tutta la sera non mi disse una parola. Non mi toccò. Eravamo lì, l’uno vicino all’altra, il padrone e la padrona di casa; e un abisso ci divideva. Osservavo la sua cortesia verso gli ospiti. Gettava una parola a questo, un frizzo a quello, sorrideva a un terzo, si volgeva a chiamare per nome un quarto, e nessuno all’infuori di me poteva sapere che ogni parola profferita, ogni gesto suo era automatico, assente. Eravamo come due attori in una commedia, i quali recitassero tuttavia indipendentemente l’uno dall’altro. Soli dovevamo sopportare e portare avanti quel miserabile spettacolo, quella finzione, per amor di tutta quella gente che non conoscevo e che non avevo alcun desiderio di rivedere. «Ho sentito che il costume di vostra moglie non è arrivato in tempo» diceva un tale con una faccia piena di sbruffoli e un cappellino alla marinara. «Una vergogna! Io darei querela alla sartoria per truffa. Una volta è capitata la stessa cosa alla cugina di mia moglie.» «Sì, è stato un imprevisto spiacevole» rispondeva Maxim.
«Vi do un consiglio» e il marinaio si volgeva a me «dovreste dire che siete un non-ti-scordar-di-me. Sono azzurri, eh, quei fiorellini gai che si chiamano così. Non ho ragione, de Winter? Di’ anche tu a tua moglie che deve fare il non-ti-scordar-di-me.» E se ne andò, ridendo rumorosamente, la sua ballerina al braccio. «Che bella idea, eh? Un non-ti-scordar-di-me…» Frank era di nuovo dietro le mie spalle con un bicchiere in mano: limonata, questa volta. «No, Frank, non ho sete.»
«Perché non ballate? O non volete venire un momento a sedervi? C’è un angolo quieto sulla terrazza.» «No, sto meglio in piedi. Non ho bisogno di sedermi.»
«Che cosa posso portarvi? Una tartina? Una pesca?» Ecco di nuovo la dama color rosa salmone. Questa volta dimenticava di sorridermi. Era rossa in viso, dopo la cena. Alzava lo sguardo in viso al suo ballerino, che era molto alto e magro, con un mento a pesce. Il “Valzer del Destino”, il “Danubio Blu”, la “Vedova Allegra”: un-due-tre, un-due-tre, un giro a destra; un-due-tre, un-due-tre, un giro a sinistra. La dama color salmone, una dama verde, Beatrice col velo di traverso sulla testa, Giles, il viso grondante di sudore, e ancora il marinaio, che veniva a fermarsi proprio davanti a me con la sua ballerina, un’altra questa volta: una signori che non m’era neppure stata presentata, vestita da Maria Stuarda, in velluto nero e una gorgiera attorno al collo.
«E così, quand’è che venite a trovarci?» ella m’interpellò, quasi fossimo i più vecchi amici del mondo; e io, pronta, stupita che la bugia non mi costasse nessuno sforzo: «Oh, prestissimo, appunto ne discorrevamo l’altro giorno.» «Una festa veramente riuscita, mi congratulo con voi» disse ancora la dama; e io: «Ci si diverte, non è vero?»
«Ho sentito che vi hanno mandato un costume che non era quello che avevate ordinato.»
«Sicuro! Assurdo, non è vero?»
«Queste sartorie, sono tutte uguali. Non c’è da fidarsi. Però, avete l’aria così fresca, con quel vostro abitino celeste. Squisito, davvero. E molto più comodo di questo velluto pesante. Non dimenticate, eh? Presto dovete venire a cena da noi a palazzo.»
«Con molto piacere.»
Che intendeva? Dove? Quale palazzo? Forse che avevamo l’onore di ospitare una coppia reale? Agli accenni del “Danubio Blu” ella volò via fra le braccia del
marinaio, la gonna di velluto che strusciava sul pavimento come se volesse spazzarlo; e solo molto tempo dopo, nel mezzo d’una notte insonne, mi venne alla mente che la Maria Stuarda era la moglie del vescovo che si dilettava di escursioni a piedi nei Pennini.
Che ora era? Lo ignoravo. La serata si trascinava in lungo; le stesse facce, la stessa melodia. Ogni tanto i giocatori di bridge sbucavano fuori dalla biblioteca, come eremiti che uscissero dalle loro celle, stavano un poco a guardare i ballerini, poi tornavano a ritirarsi. «Perché non ti siedi un momento? Sembri una morta.» mi sussurrava all’orecchio Beatrice, raccogliendo i suoi drappeggi.
«Sto benissimo.»
Giles, il trucco che gli colava lungo la faccia, povera vittima, sudato sotto il mantello d’Arabo, venne a cercarmi: «Vieni a vedere i fuochi d’artificio sulla terrazza.»
Mi rivedo in piedi sulla terrazza, a guardare quel giochetto dei razzi che salivano alti, scoppiavano e ricadevano. In un angolo c’era la piccola Clarice, con un contadinotto della fattoria; e sorrideva beata, cacciando uno strilletto allorché un petardo si sparpagliò in uno spruzzo di faville ai suoi piedi.
«Attenti, questo è uno grosso.» E Giles volgeva il faccione all’insù, la bocca aperta. «Eccolo, eccolo che arriva. Bravo! Ben riuscito.»
Il lento sibilar del razzo nell’ascesa, il crepitio dell’esplosione, la pioggia di stelline color smeraldo. Un mormorio di approvazione tra la folla, grida di gioia, battimani.
La dama color salmone è in prima fila, l’ansia dipinta in viso, un commento per ogni stella che cade. «Oh, che bellezza… guarda guarda quella, ora, com’è carina… Oh, questa non è scoppiata… attenzione, che ora ci casca addosso… che cosa fanno quegli uomini laggiù…» Persino gli eremiti erano usciti dal loro covo e s’erano uniti ai ballerini sulla terrazza. I prati erano neri di gente. La pioggia di stelle illuminava i loro visi rivolti verso il cielo.
E i fuochi d’artificio continuavano a salir alti, come frecce, e il cielo era tutto un bagliore rosso e oro, tra il quale Manderley spiccava come un castello fiabesco, le finestre incendiate, le grige mura colorate dal riflesso di stelle cadenti. Una dimora incantata, che pareva nata dal mistero delle cupe foreste. E col morir dell’ultimo razzo e dei clamori, la notte che s’era ammantata di tanta bellezza, per contrasto apparve subitamente greve, smorta, e il cielo una coltre funerea. I piccoli gruppi sui prati e sul viale si disperdevano. Subentrava, improvvisamente, la depressione, la stanchezza. Ci guardavamo con visi vuoti. Una mano mi porse un calice di spumante. Udivo il rombo delle macchine che avanzavano su per il viale.
“Cominciano ad andarsene” pensavo. “Grazie a Dio, cominciano ad andarsene”. La dama in rosa salmone approfittava della confusione per un ultimo cenino. Ma ci sarebbe voluto tempo, prima che il salone si sfollasse. Vidi che Frank faceva un segnale all’orchestra. M’ero inceppata sotto l’arco d’una porta, vicino a un signore che
non conoscevo.
«È stata davvero una bella festa» egli disse. «Sì» replicai.
«Non mi sono mai divertito tanto.» «Mi fa piacere.»
«Molly era arrabbiatissima di non poter venire.» «Davvero? Che peccato!» L’orchestra attaccava Auld Lang Syne. Il mio vicino mi prese la mano, e cominciò a dondolarla avanti e indietro. «Qua, venite qua» diceva agli altri. Un’altra mano si aggrappò alla mia rimasta libera; tutti si prendevano per mano, e presto formammo un gran girotondo, cantando a gola spiegata. Il signore che non s’era mai divertito tanto e aveva detto che Molly era arrabbiatissima per non aver potuto venire, era vestito da mandarino cinese; le lunghe unghie finte s’impigliavano spesso nelle mie maniche, mentre ballonzolavamo, ed egli si smascellava dalle risa. E tutti quanti ci smascellavamo dalle risa. Quell’ondata d’ilarità si spense rapidamente con le ultime battute, dopo di che il timpano rullò, nell’inevitabile preludio all’inno nazionale. Come se una spugna vi fosse passata sopra, i sorrisi sparirono dai nostri visi. Il mandarin s’era messo sull’attenti, le mani lungo i fianchi. Forse era un vecchio ufficiale, mi dissi; in ogni modo mi sembrava assai ridicolo, col lungo viso cavallino e i baffi finti cascanti alla cinese. Colsi gli occhi della donna color salmone. L’inno al Re l’aveva assalita di sorpresa, con un piatto di pollo in gelatina; ed ella lo teneva rigido avanti a sé, come un vassoio per la questua in chiesa. Appariva spenta; solo allorché l’inno finì si ridestò, e con una sorta di frenesia si rimise a divorare il pollo, e intanto chiacchierava coi suo vicino.
Qualcuno mi prese la mano, serrandomela forte. «Non scordatevi che cenate da noi il quattordici del mese venturo…»
«Ah, sì?» Attonita fissai il mio interlocutore.
«Sì; e anche vostra cognata ci ha promesso che verrà.» «Ah… Ah, ci divertiremo.»
«Alle otto e mezza. Abito da sera. Speriamo di vedervi, dunque.» «Sì. Grazie, sì.»
La gente cominciava a far la coda, per congedarsi. Maxim era dall’altra parte della sala. Rinfrescai il mio sorriso, che dopo il girotondo s’era alquanto appassito. «La più bella serata che ho passato, da non so quanto tempo.»
«Mi fa piacere.»
«Grazie infinite per questa festa, veramente grandiosa.»
«Mi fa piacere.»
«Eccoci qui, vedete? E non ci rassegniamo ad andarcene.»
«Mi fa piacere.»
Non c’era dunque altra frase, nella lingua inglese? Come un automa mi inchinavo e sorridevo, e intanto i miei occhi cercavano Maxim, oltre il mare di teste. Era rimasto preso in un gorgo di gente, sulla porta della biblioteca. Anche Beatrice era rimasta incagliata. Giles aveva condotto un gruppetto di ritardatari al tavolo dei rinfreschi. Frank, sul viale, sorvegliava il traffico delle macchine. Ancora una volta mi trovai racchiusa in un crocchio. «Arrivederci, e grazie infinite per la magnifica serata.» «Mi fa piacere.»
Il gran salone s’andava vuotando. Già aveva preso quell’aria sperduta, di trapasso tra la serata che sta per finire e l’alba d’un giorno stanco. Dalle alte finestre, nel lucor grigio che si diffondeva nell’aria, intravvedevo le nude strutture dei fuochi artificiali stagliarsi sui prati. «Arrivederci; una festa stupenda.» «Mi fa piacere.»
Maxim era uscito fuori ad aiutare Frank. Beatrice mi venne vicino, strappandosi i braccialetti. «Auff! Non posso più sopportar questa roba, nemmeno un minuto. Dio mio, sono sfinita. Credo di non aver mancato un ballo. Però, è stato un successo completo.» «Davvero?» dissi.
«Mia cara, non faresti meglio ad andare a letto? Mi sembri più sfinita di me. T’ho vista quasi tutta la serata in piedi. Dove sono i nostri uomini?» «Fuori, sul viale.»
«Io prenderei volentieri un po’ di caffè e latte, e delle uova con prosciutto. E tu?» «No, Beatrice, io non prendo nulla.» «Eri proprio graziosa, così in azzurro. Tutti l’hanno detto. E nessuno ha avuto il minimo sospetto di… di quell’incidente. Non darti pensiero, dunque.» «No.»
«Al posto tuo, mi farei una bella dormita, fino a tardi. Non tentar neppure di alzarti. Fatti portare la colazione a letto.»
«Sì, forse è meglio…»
«Vuoi che dica io a Maxim che sei salita di sopra?» «Per piacere, sì, Beatrice.»
«Bene, cara. Dormi bene.» Di sfuggita ella mi baciò, accarezzandomi al tempo stesso la spalla, poi se ne andò in cerca di Giles. Lentamente, un gradino alla volta, mi avviai su per lo scalone. Sulla galleria s’erano spente le luci; e i musicanti erano andati a rifocillarsi con un po’ di colazione. Sul pavimento giacevano sparsi fogli di musica. C’era una seggiola rovesciata, e un piattino pieno di mozziconi di sigarette. La fine della festa. Andai alla mia stanza. Rapidamente il. giorno nasceva: era quasi chiaro, e già gli uccelli si ridestavano. Non ebbi neppur bisogno di accender la luce per spogliarmi. Dalla finestra aperta entrava un brivido di vento. Faceva piuttosto fresco.
Tirai le cortine, per fare un po’ di buio; ma la grigia luce del giorno penetrava attraverso gli spiragli ai lati. Mi coricai, le gambe indolenzite, un dolore sordo lungo la spina dorsale. Mi distesi, chiusi gli occhi, godendomi la bianca frescura delle lenzuola di bucato. Avrei voluto riposare il mio cervello al pari del corpo, rilassarmi, e assopirmi. Ah, poter scacciare quel ronzio, quell’insistente ritmo di musica, quel molesto ondeggiar di facce. Mi premevo le mani sugli occhi, ma inutilmente. Quanto tardava Maxim! Il letto accanto a me m’appariva duro, gelido. Presto non ci sarebbero state più ombre nella stanza, e col mattino trionfante, pareti e soffitto e pavimento sarebbero apparsi bianchi. E il canto degli uccelli avrebbe risonato forte, lieto, meno sommesso. E il sole avrebbe tracciato motivi gialli sulle cortine. La mia piccola pendola sul tavolino da notte ticchettava i minuti, a uno a uno. La lancetta si spostava. Coricata sul fianco, la seguivo con lo sguardo. Compiva il giro del quadrante, a ogni ora, e da capo ricominciava il suo viaggio. E Maxim non veniva.
XVIII
Debbo essermi addormentata dopo le sette. Certo era giorno chiaro, e le cortine chiuse non riuscivano più a nascondere il sole. Dalla finestra aperta entrava a fiotti, rigando d’oro le pareti. Dal giardino mi giungevano rumori di seggiole e tavolini che venivano trasportati via, e le voci degli uomini che toglievano l’impianto delle magiche luci. Il letto di Maxim era tuttora vuoto. Mi distesi attraverso il letto, le braccia sugli occhi: una posizione bizzarra e tutto men che comoda e adatta a conciliare il sonno; ma, sospesa com’ero ai confini dell’incoscienza, finii per scivolare di nuovo nell’assopimento. Quando mi ridestai per la seconda volta erano le undici passate; Clarice doveva essere entrata a portarmi il tè senza ch’io la udissi: sul tavolino c’era un vassoio con una teiera ormai fredda gelata. Le mie vesti erano state rassettate, e riposta nell’armadio la veste azzurra.
Ancora intontita del breve sonno pesante, bevvi il tè freddo, fissando la parete avanti a me. Con una strana punta al cuore la vista del letto vuoto accanto al mio mi richiamò alla realtà, e di colpo mi riassalì l’angoscia della scorsa notte. Egli non era venuto affatto a letto. Sulla risvolta arrovesciata del lenzuolo il pigiama giaceva ripiegato, non toccato. Che cosa doveva aver pensato Clarice, entrando a portarmi il tè? Certo lo aveva raccontato agli altri della servitù, e chissà quali commenti, mentre facevano colazione. Ma che cosa me ne importava, dopo tutto? Perché l’idea dei commenti in cucina aveva da causarmi tanta disperazione? Dovevo avere una mentalità ben meschina, una paura convenzionale e vile delle chiacchiere altrui. Ecco la ragione per cui la sera avanti avevo messo quel vestitino azzurro, e non ero rimasta rintanata nella mia stanza. Non c’era nulla di coraggioso e di bello nel mio gesto, non era che uno sciagurato tributo alle convenzioni. Non per amor di Maxim né del ballo ero scesa, non per far piacere a Beatrice, ma perché non volevo che gli invitati credessero ch’io avevo litigato con Maxim. Non volevo che, tornando a casa loro, dicessero: «Naturalmente, si sa che non vanno d’accordo. Pare che lui non sia affatto felice». Ero dunque scesa per amor mio, per il mio povero amor proprio. E sorseggiando il tè freddo, con uno stanco amaro senso di scoraggiamento riflettevo che mi sarei dichiarata soddisfatta di vivere isolata in un angolo di Manderley, separata da Maxim, purché il mondo non venisse mai a sapere nulla. Se anche egli non m’avesse più dimostrato alcuna tenerezza, se non mi avesse mai più baciata, mai più rivolto la parola se non in casi di estrema necessità, credo l’avrei tollerato, purché fossi stata certa che nessuno lo sapeva all’infuori di noi due. Sentivo che sarei arrivata al punto di corrompere i domestici perché non parlassero; di recitar la commedia davanti a Beatrice. E poi, quando fossimo soli, ci saremmo ritirati ciascuno alle nostre stanze, saremmo andati ciascuno per i fatti nostri.
Mi pareva ora, mentre fissavo il letto vuoto di Maxim, che non ci fosse nulla di tanto vergognoso, di tanto degradante quanto un matrimonio non riuscito, mancato dopo tre mesi, come il mio. Poiché ormai non avevo più illusioni, non facevo più alcuno sforzo per fingere. La sera avanti ne avevo avuta una prova troppo evidente. Il mio matrimonio era un fallimento. Tutte le cose che la gente avrebbe detto, se avesse saputo, erano vere. Noi non andavamo d’accordo. Non eravamo compagni veri. Non eravamo fatti l’uno per l’altra. Io ero troppo giovane per Maxim, troppo inesperta, e, ciò che più contava, non appartenevo al suo mondo. Il fatto ch’io lo amassi disperatamente, morbosamente, contava poco o nulla. Non era quello l’amore di cui egli aveva bisogno. Egli aveva bisogno di qualcosa che aveva avuto prima, e ch’io non potevo più dargli.
Ricordavo ora l’emozione, la fierezza giovanile, esagerata con cui ero entrata nel matrimonio, immaginando di donare la felicità a Maxim, che di felicità ne aveva conosciuta una ben più grande. Persino la signora Van Hopper, con le sue ristrette vedute e la sua volgare mentalità, aveva capito ch’io commettevo un errore. “Penso che commettete un grosso errore… e lo rimpiangerete amaramente” mi aveva detto.
Non avevo voluto ascoltarla; m’era parsa dura e crudele. Eppure aveva ragione. In tutto e per tutto. E quella frecciata scoccata all’ultimo momento: “Non vi sarete mica illusa ch’egli sia innamorato di voi, per caso? Non se la sente più di vivere tutto solo in quella gran casa deserta”. Era stata, quella, la constatazione più vera e di buon senso ch’ella avesse mai fatta in vita sua. Maxim non era innamorato di me, non mi aveva mai amata. La nostra luna di miele in Italia, la nostra convivenza a Manderley non avevano mai avuto senso per lui. Ciò ch’io avevo creduto amore, amore per la mia persona, non era amore. Egli era un uomo, dopo tutto, e io ero sua moglie ed ero giovane, ed egli sentiva la solitudine. Per il resto, egli non apparteneva a me; apparteneva a Rebecca. Il pensiero andava ancora tutto a Rebecca. Egli non m’avrebbe mai amata, perché c’era Rebecca. Come aveva detto la Danvers, ella era nell’ala a ponente, nella biblioteca, nella stanza a mattina, nella galleria dei menestrelli. Persino nella cameretta dei fiori, dov’era ancora appeso il suo impermeabile. E nel giardino, e nei boschi, e nella casetta di pietra sulla spiaggia. I suoi passi risonavano per i corridoi, il suo profumo impregnava l’aria. La servitù obbediva ai suoi ordini ancora, i cibi che mangiavamo erano i cibi suoi preferiti. I suoi fiori prediletti ornavano le stanze. Negli armadi erano appesi i suoi vestiti, sulla pettiniera c’erano le sue spazzole; e le sue pantofole erano ai piedi della poltrona, e la sua camicia da notte stava pronta sul letto. Rebecca era ancora padrona di Manderley. La signora de Winter era ancora Rebecca. Qui io ero un’intrusa. Come una povera di spirito che avesse messo -piede su un terreno proibito. «Dov’è Rebecca?» aveva pianto la nonna di Maxim. «Voglio Rebecca. Che cosa» ne avete fatto di Rebecca?» Ella non mi conosceva, non mi voleva bene. Perché avrebbe dovuto volermi bene? Io ero un’estranea per lei. Non avevo nulla a che fare con Maxim, né con Manderley. E Beatrice, la prima volta che c’eravamo incontrate, m’aveva squadrata, franca, esplicita. «Sei così diversa da Rebecca.» E lo stesso Frank sempre così riservato, imbarazzato di fronte a quella gragnuola di domande che gli erano odiose come erano odiose a me, non aveva potuto fare a meno di rispondere a quell’ultima, mentre ci avviavamo verso casa: «Sì, era la più bella creatura ch’io abbia mai vista». Rebecca, sempre Rebecca. Dovunque mettevo piede a Manderley, dovunque mi sedevo, persino nei miei sogni, incontravo Rebecca. Sapevo com’era, ora, conoscevo le sue lunghe snelle gambe, i suoi piedini sottili. Le sue spalle, più larghe delle mie, le mani svelte e abili. Mani capaci di tenere un timone, di guidare un cavallo. Mani che disponevano fiori nei vasi, costruivano modelli di navi, e scrivevano “a Max Rebecca” sul frontespizio d’un libro. E anche il suo viso conoscevo, quel suo visino ovale, dalla carnagione bianchissima, circondato da una nube di capelli neri. Persino il suo sorriso, il suo riso. L’avessi udita fra mille, avrei saputo riconoscere la sua voce. Rebecca, sempre Rebecca. Mai mi sarei liberata di Rebecca.
Forse io la ossessionavo come lei ossessionava me: dall’alto della galleria guardava giù a me, come aveva detto la Danvers, e mi sedeva accanto, quand’io scrivevo le mie lettere al suo scrittoio. Quell’impermeabile che avevo indossato, quel fazzoletto che avevo cincischiato, erano suoi. Forse ella m’aveva vista, mentre m’impossessavo delle cose sue; Jasper ch’era stato il suo cane, ora correva dietro a me. Le rose erano sue, e io le tagliavo. Nutriva ella per me il medesimo odio e timore ch’io nutrivo per lei? Voleva che Maxim tornasse ad esser solo nella sua casa? Ahimè, io avrei potuto lottar contro una viva, ma non potevo lottar contro una morta. Ci fosse stata a Londra una donna che Maxim amava, una donna alla quale egli scriveva, faceva visite, con la quale cenava e andava a letto: in qualche modo, io avrei potuto lottare contro di lei. C’era un terreno sul quale ci si poteva incontrare. Non avrei mai avuto di lei quella gran paura; e ira e gelosia erano sentimenti che si potevano dominare. Un giorno o l’altro poi la donna avrebbe finito per stancarsi, o invecchiare, o andarsene, e Maxim non l’avrebbe amata più. Ma Rebecca non sarebbe invecchiata mai. Rebecca non sarebbe mai mutata. E io non potevo lottare con lei. Era troppo forte per me.
Mi alzai dal letto, aprii le cortine. Il sole inondò la stanza. Gli uomini avevano quasi finito di ripulire il giardino. Mentre guardavo in giro, gli occhi mi caddero su un foglio che sporgeva di sotto la porta. Subito andai a raccoglierlo. Benché il biglietto fosse scarabocchiato a lapis, riconobbi i caratteri quadrati di Beatrice. “Ho bussato alla tua porta dopo colazione, e non avendo avuto risposta penso che tu abbia seguito il mio consiglio e ti sia addormentata dopo le fatiche di questa notte. Giles vuole tornare a casa un po’ presto, perché gli hanno telefonato di là che sono venuti a cercarlo per sostituire qualcuno a una partita di cricket, che comincia alle due. Come farà a vedere le palle dopo tutto quel che ha bevuto, Dio solo lo sa! Io mi sento le gambe un po’ fiacche, ma ho dormito come una marmotta. Frith dice che Maxim è sceso assai presto per la colazione, ma io non riesco più a trovarlo. Ti prego, digli dunque tante cose da parte nostra e grazie infinite a tutti e due per la serata; ci siamo divertiti un mondo. Non pensare più al costume.” (Quest’ultima frase era fortemente sottolineata). “Affettuosamente, Bea.” E c’era un poscritto: “Venite presto a trovarci.”
A capo del biglietto era scritto “ore 9,30”, ed erano quasi le undici e mezza. Se n’erano andati da due ore ormai. A quest’ora erano a casa loro; Beatrice, senza neppur disfare la sua valigia, faceva un giro in giardino, e riprendeva la vita quotidiana; e Giles si preparava per la sfida, passando in rivista le sue mazze da cricket. Nel pomeriggio Beatrice avrebbe messo un abito leggero e un ampio cappello di paglia, e assistito alla partita. E dopo avrebbero preso il tè sotto una tenda, Giles rosso e accaldato in viso, Beatrice allegra e animata. «Si, stanotte siamo stati al ballo a Manderley» ella avrebbe raccontato agli amici «e ci siamo divertiti un mondo.» E sorridendo a Giles, picchiandogli sulla spalla: «Mi meraviglio che tu sia riuscito a stare in piedi!» Entrambi si avviavano verso l’età matura, ed erano la negazione del romanticismo. Sposati da vent’anni, avevano un figlio giovanotto che stava per entrare a Oxford. Erano perfettamente felici. Il loro matrimonio aveva fatto ottima riuscita. Non un fallimento dopo tre mesi, come era stato del mio. Non potevo starmene eternamente rinchiusa in camera da letto. Fra poco sarebbe venuta la cameriera, impaziente di rifare la stanza. Nella speranza che Clarice non si fosse accorta che il letto di Maxim era rimasto intatto, sprimacciai i guanciali, spiegazzai le coperte, per far credere ch’egli ci avesse dormito. Se Clarice non aveva detto nulla, meglio che le cameriere non sapessero. Feci il bagno, mi vestii, e scesi. Il pavimento di legno era già stato rimosso dal vestibolo, i fiori portati via, scomparsi i leggii dalla galleria. L’orchestra doveva essersene ripartita con uno dei primi treni del mattino. Sul prato e sul viale i giardinieri scopavano gli ultimi rimasugli dei fuochi artificiali spenti. Presto a Manderley non ci sarebbe più stata traccia del gran ballo in costume. Quanto lunghi erano sembrati i preparativi; e quanto poco ci si metteva ora a rifar ordine e pulizia! Ora certi particolari della festa mi sembravano accaduti in un tempo lontanissimo, oppure cose che avevo immaginato. Roberto, intento a lucidare la tavola in sala da pranzo, era tornato in sé: con la sua faccia imbambolata e un po’ scema, non era più la creatura fittizia e spaurita degli scorsi giorni. «Buon giorno, Roberto» dissi. «Buon giorno, signora.» «Avete veduto il signor de Winter, per caso?» «È uscito subito dopo aver fatto colazione, signora, prima ancora che scendessero il maggiore e la signora Lacy. E non è più ritornato.» «Non sapete dove sia andato?» «No, signora, non saprei davvero.» Ritornai nel vestibolo, e passando per la sala andai nella stanza di soggiorno. Jasper mi saltò addosso, mi leccò le mani in un impeto gioioso, come se fossi stata assente per chissà quanti giorni. Non mi vedeva dall’ora del tè del giorno avanti, e aveva trascorsa la notte sul letto di Clarice. Forse a lui le ore erano sembrate lunghe quanto a me.
Presi il telefono, e chiesi il numero dell’ufficio. Forse Maxim era da Frank. Sentivo che dovevo parlargli, non fosse che per due minuti; spiegargli che la sera avanti non avevo avuto alcuna intenzione di offenderlo. Dovesse essere l’ultima volta che gli parlavo… Mi rispose l’impiegato dell’ufficio; Maxim non c’era, mi disse. «C’è però il signor Crawley, signora. Volete parlare con lui?» Avrei rifiutato, ma egli non me ne lasciò il tempo, e prima che potessi togliere la comunicazione udivo la voce di Frank.
«È successo qualcosa?» Un curioso modo d’iniziare una conversazione, mi passò per la mente. Egli non mi diceva buon giorno, non domandava se avevo dormito bene. Perché voleva sapere se era successo qualcosa? «Frank, sono io» dissi. «Dov’è Maxim?» «Non lo so, non l’ho veduto. Qui non è venuto, questa mattina.»
«Non è stato in ufficio?» «No.»
«Ah! Bene, non importa.» «Lo avete visto a colazione?» domandò Frank. «No, non ero alzata.» «Come ha dormito?»
Esitai. Frank era l’unica persona con la quale non esitavo a confidarci.
«Non è venuto affatto a letto, la notte scorsa.»
Ci fu un silenzio, all’altro capo del filo, quasi che Frank riflettesse prima di
rispondere.
«Ah… Ah, ho capito» disse finalmente, assai lento. «Avevo ben paura che sarebbe successo qualcosa di simile.» «Frank» esclamai, disperata. «Che cosa ha detto stanotte, dopo che tutti se ne sono andati? Che cosa avete fatto?»
«Io ho mangiato qualcosa assieme a Giles e alla signora Lacy» rispose Frank.«Maxim non è venuto con noi. È andato in biblioteca, con non so che scusa. E poi, io sono tornato a casa quasi subito. Forse la signora Lacy saprà…»
«E già andata via. Sono partiti subito dopo colazione. Essa m’ha lasciato un biglietto. E dice che non ha visto affatto Maxim.»
«Ah!» fece Frank. Non mi piacque il tono di quell’esclamazione. Era troppo netta, e pessimista. «Dove credete che possa essere andato?» domandai. «Non saprei. Forse a fare una passeggiata» rispose Frank. E la sua era la voce che usano i dottori coi
parenti degli ammalati, quando vengono a chiedere notizie alla clinica.
«Frank, io debbo vederlo» dissi. «Ho bisogno di spiegargli com’è stato, iersera…»
Frank non rispose. Immaginavo il suo volto ansioso, la fronte corrugata.
«Maxim crede che io l’abbia fatto apposta» dissi, e mio malgrado la voce mi si spezzava, e le lagrime che m’avevano accecato la notte scorsa e che non avevo versato, ora scorrevano liberamente, sedici ore troppo tardi. «Maxim crede ch’io abbia voluto fargli uno scherzo, un infame lugubre scherzo!» «No» replicò Frank. «No.»
«Lo crede, vi dico di sì. Voi non avete visto i suoi occhi come li ho veduti io. Non siete stato vicino a lui tutta la sera, a osservarlo, come ho fatto io. Non mi ha detto una parola in tutta la sera, Frank. Non mi ha mai guardata. Tutta la sera siamo rimasti così, come due estranei…»
«Non avete avuto modo di spiegarvi. Con tanta gente… Ho veduto, certo; non credete che conosca bene Maxim, in quanto a questo? Ascoltatemi…» «Non gli do torto» lo interruppi. «Se egli è convinto ch’io gli abbia giocato quel tiro così macabro, e di cattivo gusto, ha diritto di pensare di me quel che vuole, di non parlarmi mai più, di non guardarmi mai più in faccia.»
«Non dovete dire di queste cose. Non sapete quel che dite. Lasciate che venga su da voi. Forse posso mettere le cose a posto.»
A che pro lasciar venire su Frank? E starcene a discorrere nella stanza di soggiorno? Frank, con tatto, con bontà, avrebbe cercato di rabbonirmi. Ma io non volevo nessuno. Era troppo tardi, ormai.
«No» dissi. «No, non voglio rimuginare da capo l’intera storia. Ormai il male è fatto, e non si può più tornare indietro. Forse è stato un bene, almeno ho capito qualcosa che avrei dovuto vedere prima… che avrei dovuto sospettare quando ho sposato Maxim.» «Che volete dire?» La voce di Frank aveva una singolare asprezza. Che cosa poteva importargliene, se Maxim non mi amava?
«Avrei dovuto sapere… di lui e di Rebecca» ripresi; e sulle mie labbra quel nome aveva un sapore nuovo e amaro come un frutto proibito; non era più un sollievo, non un piacere; un qualcosa di vergognoso e bruciante come un peccato confessato.
Frank attese un momento prima di replicare. Udivo tuttavia ch’egli respirava forte.
«Che volete dire?» riprese, più breve, più aspro ancora di prima. «Che volete dire?»
«Egli non mi ama; ama Rebecca» dissi. «Non l’ha mai dimenticata, ancora pensa alei, notte giorno. Egli non mi ha mai amata, Frank. È sempre Rebecca, Rebecca, Rebecca.»
Udii che Frank s’era lasciato sfuggire un grido tosto soffocato, ma che m’importava ora se lo urtavo? «Adesso sapete perché soffro» dissi. «Ora capite.» «Ascoltatemi»replicò Frank. «Bisogna che venga da voi. È necessario, mi sentite? È d’importanza vitale, e non posso parlarvi al telefono. Signora?… Signora?» Bruscamente sbattei il ricevitore, e mi alzai dallo scrittoio. Non avevo alcun desiderio di rivedere Frank. Egli non poteva aiutarmi. Dove potevo trovare aiuto, se non in me stessa? Avevo un viso tutto rosso e gonfio di pianto, Mordendo l’angolo del mio fazzoletto, strappandone l’orlo camminavo su e giù. Sentivo nascere in me, a poco a poco» l’impressione che non avrei mai più rivisto Maxim. Era come una certezza, nata da non so qual strano istinto. Egli se n’era andato, e non sarebbe ritornato. In fondo al cuore mio sapevo che Frank ne era certo anche lui, ma non aveva voluto ammetterlo al telefono. Non aveva voluto spaventarmi. Se ora avessi chiamato di nuovo l’ufficio, l’impiegato mi avrebbe detto che il signor Crawley era uscito or ora: e mi pareva di vedere Frank saltare sulla sua piccola antidiluviana Morris, senza nemmeno prendere il cappello, e partire alla ricerca di Maxim.
Mi accostai alla finestra, a guardare alla piccola radura dove il satiro suonava la sua zampogna. I rododendri erano finiti ormai; e non avrebbero più messo fiori fino all’anno venturo. Spogli d’ogni colore, gli alti arbusti apparivano scuri, tetri. Dal mare saliva la nebbia; già non vedevo più i boschi oltre il declivio. C’era un’afa che opprimeva. Immaginavo i nostri ospiti della scorsa notte osservare: “Meno male che questa nebbia ha aspettato fino a oggi, altrimenti non avremmo potuto vedere i fuochi d’artifizio”.
Uscii sulla terrazza. Il sole era sparito dietro un baluardo di nebbia. Pareva che un improvviso telone fosse caduto; su Manderley, togliendoci addirittura il cielo e la luce del giorno.
Passò uno dei giardinieri, con una carretta piena di cartaccia e bucce di frutta sparse dagli invitati fin sui prati, la notte scorsa. «Buon giorno» dissi. «Buon giorno, madama.»
«Il ballo di ieri notte vi ha dato un sacco di lavoro, non è vero?»
«Non è niente, madama» replicò l’uomo. «Tutti quanti se la sono goduta, intanto, e questa era la cosa principale, eh?» «Sì, certo.»
Egli guardò oltre i prati, alle radure nei boschi dove la valle digradava verso il mare. I tronchi neri s’intravvedevano come ischeletriti e vaghi. «Vien su fitta»
diss’egli. «Già» replicai.
«Un bene che non abbia fatto così ieri.» «Già.»
Dopo aver indugiato un momento, l’uomo si toccò il berretto e se ne andò, spingendo la sua carretta. Uscii all’aperto, mi avventurai fino all’orlo dei boschi. Dagli alberi la nebbia stillava in umidità che mi ricadeva sulla testa nuda, come una pioggerella fine. Jasper ai miei piedi aveva l’aria mogia, la coda bassa, la lingua rosea penzolante dalle fauci. La giornata afosa lo rendeva irrequieto e triste. Di là dov’ero udivo il mare che con un brontolio lento s’infrangeva contro gli scogli. La bianca nebbia passava a ondate sopra di me, andando verso la casa, recando un odor salmastro d’alghe marine. Posai la mano sul pelo di Jasper. Era tutto bagnato. Voltandomi a guardare alla casa, non vedevo più i contorni delle mura né i camini, ma solo una sagoma indecisa, nella quale spiccavano le finestre dell’ala a ponente e i vasi di fiori sulla terrazza. Le persiane erano aperte, alla finestra della camera da letto nell’ala a ponente; una figura affacciata guardava i prati. Confusa, incerta com’era, per un attimo mi diede la penosa impressione di vedere Maxim. Poi si mosse; vidi un braccio allungarsi e ripiegar le persiane, e subito capii che era la signora Danvers. Ella mi aveva spiata, mentre ero lì sull’orlo del bosco, avvolta nel bianco mare di nebbia. Mi aveva vista avviarmi lentamente dalla terrazza ai prati. Poteva anche aver intercettata la mia conversazione al telefono con Frank, dal filo diretto che aveva nella sua stanza. E ora sapeva che Maxim non aveva trascorso la notte con me. Aveva udito la mia voce, il mio pianto. Conosceva la parte che io avevo recitato per lunghe ore, in piedi a fianco di Maxim, nel mio vestito azzurro; sapeva ch’egli non mi aveva mai guardata, né rivolto la parola. Sapeva, perché tutto aveva fatto affinché le cose andassero così. Era il suo trionfo, suo e di Rebecca.
La notte scorsa ella era là a guardarmi, dalla porta aperta dell’ala a ponente. Ripensando a quel diabolico sorriso sul bianco volto emaciato, ricordavo ch’ella era una donna viva come me, fatta di carne e sangue. Non era una morta, come Rebecca. Se non potevo parlare a Rebecca, potevo parlare a lei.
Spinta da un improvviso impulso andai verso casa. Attraversai il vestibolo, salii lo scalone, svoltai sotto l’arcata presso la galleria, e lungo il buio corridoio silente giunsi alla stanza di Rebecca, decisamente entrai. La signora Danvers era tuttora lì presso la finestra; le persiane erano chiuse, ora.
«Signora Danvers!» chiamai. «Signora Danvers!» Ella si voltò; vidi che aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto non meno dei miei; ombre livide segnavano il bianco volto.
«Che cosa c’è?» La sua voce era bassa e rauca per il gran piangere, non meno della mia. Non mi ero attesa di trovarla in quello stato. Me l’ero figurata sorridente come la scorsa notte, crudele, malvagia. Ora, ella non era nulla di tutto ciò; era una vecchia malata e stanca.
Esitai, la mano ancora sul pomo della porta; tutt’a un tratto non sapevo più che dirle, né quale contegno tenere. Ella mi fissava con quegli occhi rossi e gonfi, e io non trovavo parole.
«Ho lasciato la lista del pranzo sullo scrittoio come al solito» ella disse, finalmente. «Desiderate cambiare qualcosa?»
Le sue parole mi diedero coraggio, e avanzai fino a mezzo della stanza. «Signora Danvers» dissi «non sono venuta per parlar del pranzo. E lo sapete benissimo, no?» Ella non mi rispose. Muoveva la sinistra, lungo il fianco come se impastasse.
«Avete ottenuto quel che volevate, no?» proseguii. «Perché era tutto architettato prima, dite la verità! Siete soddisfatta, ora, siete contenta?»
Ella distolse il capo, e guardò fuori della finestra, come avanti ch’io entrassi.
«Perché siete venuta qui?» disse. «Nessuno vi voleva, qui a Manderley. Si stava tutti benissimo, fino a che siete arrivata voi. Perché non siete rimasta là dov’eravate, in Francia?» «A quanto pare, dimenticate che io amo mio marito.» «Se lo aveste amato, non lo avreste mai sposato.» Rimasi interdetta. La situazione era paradossale, irreale. «Ho creduto di odiarvi, ma non so…» ella seguitò con quella sua voce afona, attutita, il capo sempre distolto da me. «Sembra che si sia consumata dentro di me, tutta l’acredine che avevo.»
«E perché dovreste odiarmi?» domandai. «Che cosa ho mai fatto, perché dobbiate odiarmi?» «Avete tentato di prendere il posto della signora de Winter» ella disse, sempre senza guardarmi in viso. «Ho forse voluto cambiar qualcosa a Manderley?» replicai. «Tutto è andato avanti come sempre. Non ho mai alzato la voce, ho lasciato far tutto a voi. Per poco che me ne aveste dato modo, sarei stata amica vostra, ma voi vi siete messa contro di me fin dal primo giorno. Ve l’ho letto sulla faccia, al momento in cui vi ho stretta la mano.»
Ella non rispose; la sua mano sinistra seguitava a impastare contro la gonna nera.
«Tanta gente si sposa due volte, uomini e donne» continuai. «Ce ne sono ogni giorno a migliaia, di seconde nozze. Voi parlate come se sposando il signor de Winter io avessi commesso un delitto, un sacrilegio contro una morta. Non abbiamo diritto di essere felici quanto qualunque altra coppia?»
«Il signor de Winter non è felice» ella disse, guardandomi finalmente. «Anche un bambino lo vedrebbe. Non avete che da guardarlo negli occhi. Egli vive in un inferno; ha avuto sempre quegli occhi lì, fin da quando lei è morta.»
«Non è vero» protestai. «Non è vero. Quando eravamo in Francia, egli era felice, era ringiovanito e allegro, sempre pronto a ridere.»
«Oh, beh, alla fin fine è un uomo, no?» ella disse. «E non c’è uomo che non si dimostri tale, quand’è in luna di miele. E il signor de Winter non ha ancora
quarantasei anni.»
Ella rise sprezzante, con una scrollata di spalle.
«Come osate parlarmi così? Come osate?» dissi.
Ella non m’incuteva alcuna paura. Mi avvicinai, la presi per il braccio. «Voi, voi m’avete indotto a mettermi quel costume, ieri sera. L’avete fatto perché volevate vederlo soffrire. Non ha già sofferto abbastanza, senza che voi gli giocaste quel tiro abbietto, vile? Credete forse che la sua angoscia, la sua sofferenza valgano a risuscitare la signora de Winter?»
Ella si liberò dalla mia stretta, e un color iroso ravvivò lo smorto viso bianco. «E che m’importa se lui soffre?» ella disse. «Forse che si è mai curato delle mie sofferenze, lui? Credete che fosse proprio un piacere per me, vedervi al posto che era di lei, metter piede dove lei camminava, toccare le cose ch’erano sue? Come credete che mi sentissi, a sapere che eravate seduta là a scrivere al suo scrittoio nella stanza di soggiorno con la penna ch’era sua? E sentirvi parlare al telefono interno, come soleva parlarmi lei tutte le mattine da quando era venuta a Manderley? Che effetto credete che mi facesse, a sentire Frith e Roberto e gli altri domestici dire “La signora è uscita a far quattro passi”; e “La signora ha ordinato la macchina per oggi alle tre”; e “La signora non tornerà per il tè che alle cinque”… e intanto la mia signora, con quel sorriso su quel visino così bello, coi suoi modi franchi e coraggiosi, la mia vera signora, se ne sta morta e fredda dimenticata nella cripta della chiesa… Se lui soffre, merita di soffrire. Aver sposato una ragazza giovane, che non son passati ancora dieci mesi? Ebbene, vuol dire che ora la paga, no? Oh, l’ho vista la sua faccia, e i suoi occhi! Il suo inferno se lo è fatto da sé, e se lo merita! E lo sa, che essa lo vede, che di notte viene qui per vederlo! E non viene mica con le buone, la mia signora! Non è mai stata fatta per lasciarsi mettere il piede sul collo. “Avrà da pagarla cara, Danny, chi si prova a mettermi il piede sul collo!” mi diceva sempre. E io le rispondevo: “Avete ragione, mia cara. Non vi lasciate mettere il piede sul collo da nessuno. Voi siete venuta al mondo per prendere tutto quel che c’era da prendere”. È sapeva prendere a piene mani, in quanto a questo. Aveva tutto il coraggio e lo spirito di un ragazzo, la mia signora. E io glie lo dicevo spesso, che avrebbe dovuto nascere maschio. Sono io che l’ho allevata, da bambina, lo sapevate, non è vero?».
«No!» dissi. «No… Ma, signora Danvers, a che servono questi discorsi? Io non voglio sentire, non voglio sapere nulla. Credete che non abbia un cuore, e dei sentimenti, tanto quanto voi? Non capite che cosa significa per me, sentirla nominare, e stare a sentire tutto quel che mi raccontate di lei?»
Ma ella non mi ascoltava, e seguitava a farneticare come una pazzoide, una fanatica, mentre le dita adunche tormentavano e cincischiavano la lana nera della gonna. «Era bella, allora» ella diceva. «Bella come un quadro; ancora non aveva dodici anni, e già gli uomini si voltavano a guardarla quando passava. E lo sapeva, quella demonietta, e mi taceva l’occhietto: “Diventerò una bellezza, non è vero Danny?” E io: “Ci penseremo, in quanto a questo, ci penseremo, amorino mio”. Aveva tutto il giudizio d’una persona grande, ed era capace di tenere discorsi con uomini e donne, piena di furberia e di malizia, vi dico, da dar dei punti a una ragazza di diciott’anni. Il padre se lo rigirava attorno al dito mignolo, e lo stesso avrebbe fatto con la madre se fosse stata viva. In quanto a coraggio, nessuno la batteva, la mia signora. Il giorno che compiva quattordici anni guidò un tiro a quattro, e suo cugino, il signor Jack, fece in tempo a saltare a cassetta accanto a lei e cercò di strapparle le redini di mano. E lottarono per tre minuti buoni, come due gatti selvatici, e intanto i cavalli galoppavano come il vento. E finì per vincere lei, la mia signora, sicuro! Fece schioccare la frusta sulla testa di lui e lo mandò a gambe levate in un fosso, che non sapeva più se ridere o bestemmiare. Erano una coppia, vi dico, lei e il signor Jack! Lui lo mandarono poi in marina, ma non voleva sopportare la disciplina, e non gli ho mai dato torto. Aveva troppo spirito per tollerare che lo si comandasse: come la mia signora.» La guardavo, affascinata, inorridita: uno strano sorriso estatico la invecchiava, e al tempo stesso faceva risaltare il macabro carattere di quella maschera. «Nessuno è mai venuto a capo di lei, mai» diceva. «Essa ha fatto sempre a suo talento, ha vissuto come le piaceva. E aveva anche la forza di una piccola leonessa. Ricordo che a sedici anni pigliò uno dei cavalli del padre, un grosso animale ombroso, che, le aveva detto il palafreniere, era troppo difficile per lei. Ebbene, essa non se ne dette per inteso. La vedo ancora, i capelli che le volavano dietro le spalle, lo scudiscio in mano, che lo frustava a sangue e gli piantava lo sperone nei fianchi; quando poi saltò giù, il cavallo tremava tutto, e colava sangue e schiuma. “Così imparerà, eh, Danny?” essa mi disse, e se ne andò a lavarsi le mani, fresca come una rosa. E così prendeva la vita, via via che cresceva. Non le importava di nulla e di nessuno. E alla fine è stata vinta. Ma non da un uomo, né da una donna. Il mare l’ha vinta. Il mare era troppo forte per lei. E ha finito per vincere, all’ultimo…» S’interruppe, e la bocca le si contorse agli angoli in una curiosa smorfia. Cominciò a piangere, rumorosamente, con una voce rauca, la bocca aperta e gli occhi asciutti. «Signora Danvers» feci. «Signora Danvers…» Ero lì di fronte a lei, senza sapere che fare. Non ne avevo più timore, non m’ispirava più alcuna diffidenza; eppure, lo spettacolo di quella creatura che singhiozzava a occhi asciutti mi faceva rabbrividire, mi esasperava. «Signora Danvers… voi non vi sentite bene; dovreste mettervi a letto! Perché non andate in camera vostra, a riposare un poco? Perché non vi coricate?»
Ella si rivoltò come una belva stuzzicata. «Lasciatemi stare! Che cosa v’importa se non so nascondere il mio dolore? Non me ne vergogno io, non mi rinchiudo in camera mia, se voglio piangere. Non cammino su e giù, su e giù dietro la porta chiusa a chiave, come il signor de Winter.»
«Che dite? il signor de Winter non fa di queste cose!» esclamai.
«Sì che faceva così, dopo che essa è morta. Su e giù, su e giù, in biblioteca. L’ho sentito. E l’ho anche veduto, più d’una volta, attraverso il buco della serratura. Avanti e indietro, come una bestia in gabbia.» «Non voglio sentire!» gridai. «Non voglio sapere!» «E poi, voi dite che era felice con voi, in viaggio di nozze!» ella disse. «Felice con voi, una ragazzina semplice, che potreste essere sua figlia…»
«Fareste meglio a tacere, signora Danvers» dissi. «Fareste meglio ad andarvene in camera vostra.» «Ah, sì? La padrona di casa mi manda in camera mia! E poi, correrete dal signor de Winter, a dirgli che io sono stata sgarbata con voi. Difilato glie lo andrete a dire, come avete fatto quella volta che il signor Jack è venuto a trovarmi.»
«Non gli ho mai detto nulla!» protestai. «E chi altro può averglielo detto, se non voi? Frith e Roberto erano fuori, e nessun altro della servitù ha visto. E perché ilsignor Jack non dovrebbe venire a vedermi qui a Manderley? È l’unica persona che ancora mi lega alla mia signora: e lui, invece: “Non voglio vederlo qui!” m’ha gridato. “È l’ultima volta che vi avverto!” Ah, non ha mica dimenticato come si fa a esser gelosi, eh?» Ricordai quel giorno che ero là, rannicchiata sulla galleria; e la porta della biblioteca che s’apriva. Riudivo la voce di Maxim che in tono stridulo, alto, profferiva le parole che ripeteva la signora Danvers. Geloso, Maxim geloso…
«Era geloso quando essa era viva, ed è geloso ora che è morta. E proibisce al signor Jack di metter piede in casa, ora come ora. E questo vi prova che non l’ha dimentica. Certo che era geloso! E non lo ero forse io? Non lo erano tutti quelli che la conoscevano? Ma lei… Lei ci rideva sopra. “Io vivo come mi pare e piace, Danny” mi diceva “e il mondo intero non mi fermerà”. Bastava che un uomo la vedesse una volta, che subito diventava matto per lei. Ne ho visti, che venivano qui: signori che essa aveva conosciuto a Londra e che portava qui a passare la domenica. Li conduceva in mare col battello a fare il bagno; e poi cenavano alla casetta sulla spiaggia. Naturale, che fossero tutti cotti di lei, no? Ed essa ci si faceva una risata sopra; e poi mi raccontava quel che avevano detto, e quel che avevano fatto. Per lei, era tutto un gioco… E chi non sarebbe stato geloso? Gelosi, pazzi per lei lo erano tutti. Il signor de Winter, il signor Jack, il signor Crawley, tutti quelli che la conoscevano, tutti quelli che venivano a Manderley.» «Non voglio sapere!» gridavo.«Non voglio sapere!» La vecchia mi stava addosso, la faccia vicinissima alla mia. «È inutile» disse. «Non ne verrete mai a capo di lei. Anche se è morta, essa è ancora la padrona, qui…» Indietreggiai verso la finestra, l’antico timore e orrore si ridestavano in me. Ella mi aveva preso il braccio, e lo stringeva come in una morsa.
«Egli non può dimenticarla» sussurrava. «Vuole essere solo in casa con lei com’era prima. Siete voi che dovreste essere là nella cripta, non la mia signora… Voi che dovreste essere morta…»
Ella mi spingeva contro il davanzale. Vedevo la terra là, sotto di me. Grigia eincerta tra il biancor della nebbia. «Guardate giù…» diceva la vecchia. «È facile, no? Perché non saltate? Non farebbe male, morire così; si fa presto… Meglio che annegare… Perché non provate?» Umida, vischiosa la nebbia entrava a fiotti dalla finestra, mi empiva gli occhi, le nari. Con le mani mi aggrappai al davanzale.
«Non abbiate timore» disse la signora Danvers. «Non vi spingo giù. Non sarò io ad aiutarvi. Potete saltare da voi, se volete. Tanto, che cosa fate qui a Manderley? Voi non siete felice. Il signor de Winter non vi ama. E allora, che cosa vi offre la vita? Perché non saltate, non la fate finita? Almeno, avrete finito di soffrire.» Vedevo i vasi dei fiori sulla terrazza, le compatte masse azzurrine delle idrangee. Le pietre grige del lastrico erano lisce, non accidentate o frastagliate. Forse era la nebbia che le faceva apparire così lontane. In realtà non era così; la finestra non era affatto alta. «Perché non saltate?» sussurrava la Danvers. «Perché non provate?»
Un’ondata di nebbia più fitta mi nascose la terrazza. Ora non vedevo più né i vasi dei fiori né le lisce pietre del lastrico. Nulla, fuorché la bianca nebbia, odorosa di alghe salmastre, umida e fredda. Unica realtà era la pietra del davanzale sotto le mie mani, e la stretta della signora Danvers sul braccio sinistro. Se saltavo, non avrei visto le pietre venirmi incontro; la nebbia le avrebbe celate. Il dolore sarebbe stato improvviso, acuto; nella caduta mi sarei spezzato l’osso del collo. Sarebbe stata una morte rapida, meno lenta che l’annegare. E Maxim non mi amava. Maxim voleva essere solo con Rebecca… Chiusi gli occhi. Avevo le vertigini a forza di fissare giù, in quel vuoto; e le dita strette al davanzale mi si erano rattrappite. La nebbia che m’entrava nelle nari aveva un odor acre, e mi soffocava come un bavaglio, come un anestetico. Già la mia infelicità, e l’amore per Maxim cominciavano ad apparirmi cose lontane. Pochi minuti, e non avrei più avuto alcun bisogno di pensare a Rebecca. Mentre, rallentando la stretta delle dita sul davanzale, sospiravo, la bianca nebbia e il silenzio che ne faceva parte furono tutt’a un tratto squarciati, smossi da una violenta esplosione che scosse fino i vetri della finestra, ove ci trovavamo, che vibrarono nella cornice. Aprii gli occhi, guardai la signora Danvers come se la vedessi per la prima volta. Allo scoppio ne seguì un altro, poi un terzo, e un quarto ancora. Il rombo dell’esplosione si propagava lontano per l’aria, uccelli invisibili si alzavano a volo tutt’attorno alla casa, e il loro clamore empiva il cielo come un’eco.
«Che cosa c’è?» dissi intontita. «Che cosa è successo?» La signora Danvers abbandonò il mio braccio. Aguzzando gli occhi guardò entro la nebbia. «Sono i petardi» disse. «Ci dev’essere una nave in pericolo, nella baia.» Tendemmo ancora l’orecchio, scrutando nel gran biancore. E poi, senza vedere, udimmo un suon di passi precipitosi sulla terrazza sottostante.
XIX
Era Maxim. Non lo vedevo, ma udivo la sua voce. Chiamava a gran voce Frith, correndo. Udii Frith rispondere dal vestibolo, e poi uscire sulla terrazza. Vagamente le loro figure s’intravvedevano nella nebbia. «Si sono incagliati bene» diceva Maxim. «Li stavo guardando da terra, quando li ho visti entrar nella baia, e andar diritto alla scogliera. Non si disincaglieranno mai più, con questa marea. Devono aver scambiato la baia per la rada di Kerrith. C’è una vera muraglia di nebbia. Dite in cucina che tengano pronta della roba per quella gente; avranno certo bisogno di ristorarsi. E telefonate al signor Crawley in ufficio, e ditegli quel che è successo. Io torno giù alla spiaggia, a vedere se posso dar loro una mano. Portatemi delle sigarette, intanto.» «Sarà bene scendere» disse la signora Danvers. «Frith mi cercherà perché lo aiuti. Forse il signor de Winter condurrà qui gli uomini… Attenzione alle vostre mani, che chiudo la finestra.» Ancora intontita, trasognata mi ritrassi; la vecchia, io stessa eravamo figure irreali. Ella chiuse la persiana e poi i vetri, e tirò le cortine. «Un bene che il mare non sia grosso» disse. «Altrimenti, non se la caverebbero più. Ma con una giornata così, non c’è pericolo. Però, c’è il caso che il bastimento si perda, se si è incagliato come dice il signor de Winter.» Si guardò d’attorno, per accertarsi che tutto fosse a posto, nella stanza. Raddrizzò la trapunta sul gran letto nuziale; poi aprì la porta, e si scostò per cedermi il passo. «Avvertirò in cucina che servano pure la colazione fredda per voi, in sala da pranzo. Non importa a che ora vorrete accomodarvi. Se il signor de Winter troverà da fare giù alla spiaggia, può darsi che non si affretti a tornare.» Io la guardavo assente. Rigida come un manichino di legno uscii.
«Se vedete il signor de Winter, signora, volete dirgli che terremo pronto un pranzo caldo per la gente del battello, a qualunque ora vengano?» «Sì… Sì, signora Danvers» risposi. Ella si volse, e si avviò dalla parte opposta, verso la scala di servizio. Con la sua ampia gonna nera alla moda di trent’anni fa, che toccava giusto terra, ella pareva un’alta, ossuta fata malefica. La vidi scomparire oltre l’angolo. Poi, lentamente mossi verso l’arcata, la mente ancora confusa come se mi fossi destata allora da un lungo sonno. Scesi le scale, senza alcuna idea di ciò che avrei fatto. Frith stava attraversando il vestibolo, e andava verso la sala da pranzo; al vedermi si fermò, e attese fino a che non fui al basso delle scale.
«Il signor de Winter era qui un momento fa, signora» disse. «Ha preso delle sigarette, e poi è ritornato subito alla spiaggia. Pare che si sia incagliato un bastimento.»
«Già» dissi.
«Avete sentito i petardi, signora?» «Sì, li ho sentiti.»
«Ero in dispensa con Roberto, e lì per lì abbiamo creduto che i giardinieri avessero dato fuoco a qualche razzo dimenticato nella notte scorsa. Ho anche detto a Roberto: “Che idea, con questo tempo! Perché non conservarli piuttosto per i ragazzini, al sabato sera?” E poi è partito il secondo, e il terzo. “Ma questi non sono fuochi artificiali!” ha detto allora Roberto. “Questa è una nave in pericolo”. Ho pensato che
poteva aver ragione, sono corso fuori nel vestibolo, e già c’era il signor de Winter che mi chiamava dalla terrazza.» «Davvero?» feci io.
«Come dicevo appunto a Roberto, non c’è da stupirsi, con questa nebbia. È difficile trovar la via giusta a terra, figuriamoci in mare.» «Sicuro…»
«Se volete raggiungere il signor de Winter, signora, è andato dritto attraverso il prato, pochi minuti fa.» «Grazie, Frith.»
Uscii sulla terrazza. Al di là dei prati si andavano delineando gli alberi. La foschia si diradava, sollevandosi in nuvolette che salivano al cielo. Istintivamente alzai il capo a guardare le finestre, in alto. Ermeticamente chiuse, vetri e persiane, si sarebbe detto che mai fossero state aperte, mai spalancate, da tempo immemorabile. E non erano trascorsi cinque minuti ch’io ero là, alla vasta finestra centrale. Quanto alta mi pareva, quanto lontana, inaccessibile! E le pietre del lastricato erano dure, solide sotto i miei piedi. Abbassai lo sguardo a terra, tornai ad alzarlo alla finestra, e solo allora m’accorsi che mi girava la testa e che avevo un gran caldo. Un rivoletto di sudore mi corse lungo il corpo. Innumerevoli puntini neri mi danzavano davanti agli occhi. Tornai nel vestibolo, mi sedetti sulla prima seggiola che mi capitò, rimasi immobile, serrandomi le ginocchia con le palme già madide di sudore.
«Frith!» chiamai. «Frith… siete in sala da pranzo?» «Sì, signora.» Subito egli uscì e venne da me. «Non giudicatemi troppo strana, Frith, ma… mi sembra che berrei volentieri un bicchierino di cognac.» «Subito, signora.»
Seguitavo a reggermi le ginocchia, spasmodicamente, fino a che Frith tornò con un bicchierino di liquore su una guantiera d’argento.
«Non vi sentite molto bene, signora?» egli disse. «Volete che chiami Clarice?»
«No, Frith, mi passerà subito» replicai. «Mi sentivo un po’ accaldata; non è niente.» «È una mattinata molto calda, signora. Davvero molto calda. Opprimente, direi quasi.» «Sì, Frith, opprimente.»
Bevvi il liquore, e posai il bicchierino sulla guantiera. «Forse quei petardi vi hannoun po’ spaventata, signora» disse Frith. «È stato uno scoppio così improvviso.» «Sì, proprio improvviso.»
«E tra il caldo, e l’esser stata in piedi tutta la notte scorsa, forse vi sarete un po’ indebolita, signora.» «Infatti, è così, Frith.»
«Non vorreste sdraiarvi un poco, una mezz’ora? In biblioteca fa fresco.»
«No… No, anzi, fra un minuto uscirò. Non vi preoccupate, Frith.»
«Come volete signora.» Egli se ne andò e mi lasciò sola, nella fresca quiete del salone. Ogni traccia di festa era sparita, come se mai ci fosse stata una festa. Il vestibolo era tornato grigio e silente e austero com’era stato sempre, coi ritratti e le panoplie alle pareti. Quasi mi pareva impossibile ch’io fossi stata là, a piè dello scalone, vestita d’azzurro, a salutar cinquecento persone che mi passavan dinanzi. Impossibile mi pareva, che ci fossero stati dei leggii sulla galleria dei menestrelli, e un’orchestra che suonava, un uomo con un violino, un uomo con un timpano…
Mi alzai, tornai a uscire sulla terrazza. La nebbia era già alta, oltre le cime degli alberi. I boschi in fondo ai prati s’erano schiariti. Sopra il mio capo, un pallido sole tentava di squarciare il cielo greve. Faceva più caldo che mai. Una giornata pesante, come aveva detto Frith. Un’ape passò ronzando, in cerca di polline, noiosa, rumorosa; insinuatasi nel calice d’un fiore, a un tratto tacque. Sul prato, il giardiniere aveva messo in moto la falciatrice meccanica. Un fanello spaventato fuggì dalle lame roteanti, volando verso il giardino delle rose. Il giardiniere, curvo sulla maniglia della macchina, lentamente la dirigeva lungo il declivio, sparpagliando l’erba tagliata, picchiettata delle rosee corolle di margheritine. L’aria mi recò l’effluvio dolce dell’erba tepida; e all’improvviso, fuor dalla bianca nebbia il sole m’investì, caldo e robusto. Con un fischio chiamai Jasper, ma non venne. Forse era corso dietro a Maxim, alla spiaggia. Diedi un’occhiata all’orologio: le dodici e mezza passate, anzi, mancavano quasi venti minuti all’una. Ieri a quell’ora Maxim e io eravamo con Frank nel giardinetto di fronte all’ufficio, e aspettavamo che la sua domestica ci chiamasse a pranzo. Ventiquattr’ore fa. I due uomini mi stuzzicavano, scherzando sul mio costume. “Avrete la più grande sorpresa della vostra vita, tutti e due. Vedrete” avevo detto. Mi sentivo morir di vergogna, al ricordo delle mie parole. D’un tratto, per la prima volta mi resi conto che Maxim non era andato via, come avevo temuto. La voce che avevo udito sulla terrazza era calma, pacata. La voce nota, non quella della notte scorsa, là ai piedi dello scalone. Maxim non se n’era andato. Si trovava laggiù, sulla spiaggia. Era un uomo padrone di sé, normale, ragionevole. Era andato a fare una passeggiata: proprio così come aveva detto Frank. S’era spinto fino al promontorio, e di là aveva visto il bastimento in pericolo. Tutte le mie paure erano infondate. Nulla gli era accaduto; potevo vivere tranquilla. Ciò non voleva dire ch’io non fossi passata attraverso un’esperienza umiliante e orribile e ossessionante, attraverso qualcosa che neppure ora capivo pienamente, che non avevo alcun desiderio di ricordare, che avrei voluto seppellire per sempre e profondamente nell’imo della mia coscienza assieme ai vecchi obliati terrori dell’infanzia. Ma tutto ciò non importava, dal momento che Maxim non era scomparso. E anch’io m’incamminai per il sentiero serpeggiante tra i boschi, fin giù alla spiaggia.
Il cielo era tornato quasi sereno, e quando arrivai all’insenatura scorsi subito il piccolo bastimento, che a due miglia circa da riva se ne stava tutto reclinato, la prua puntata verso gli scogli. Camminai lungo il muricciolo, e là dove finiva mi ci appoggiai. Sulla scogliera c’era una piccola folla, che doveva essere venuta da Kerrith, lungo il sentiero dei guardacoste. La scogliera e il promontorio facevano parte della nostra proprietà, ma c’era un diritto di passaggio lungo gli scogli. Alcuni di quegli spettatori erano scesi giù per gli scogli, per veder più da vicino la nave incagliata. La poppa elevata descriveva un angolo pericoloso; e già c’era una flottiglia di barche che le brulicavano d’attorno. Il battello di salvataggio stava arrivando. Vidi qualcuno alzarsi in piedi a bordo, e gridare in un megafono qualcosa che non capii. C’era ancora un po’ di foschia nella baia, e l’orizzonte era velato. Anfanando apparve una lancia a motore, d’un color grigio cupo; a bordo c’era un gruppo di uomini, tra i quali alcuni in uniforme: doveva esserci il capitano del porto di Kerrith, e con lui l’agente del Lloyd. Seguì un altro motoscafo, certo una comitiva di villeggianti di Kerrith. Girarono parecchie volte intorno al bastimento incagliato; s’udiva il loro chiacchiericcio animato. L’acqua mi portava l’eco attutita delle voci.
Dall’insenatura mi arrampicai sul sentiero che seguiva la scogliera, e arrivai fin là dov’era la gente. Non vedevo Maxim, ma c’era Frank, che parlava con uno dei guardacoste. Colta da un inesplicabile imbarazzo mi ritrassi per non farmi vedere. Un’ora era trascorsa da quando egli m’aveva udita piangere, al telefono; e non avrei saputo come contenermi con lui. Ma già egli mi aveva vista, e mi faceva cenno. Non mi rimase che andare incontro a lui e al guardacoste.
«Venite a vedere lo spettacolo, signora de Winter?» disse questi, che mi conosceva. «Ho paura che sarà un osso duro. Può darsi che i rimorchiatori arrivino a sollevarlo, ma ne dubito.» «E che cosa faranno?» domandai. «Ora si manderà giù un palombaro, a vedere se c’è qualche avaria alla carena. Lo vedete laggiù? Quello col berrettino rosso. Volete guardare col mio cannocchiale?» Presi il cannocchiale, e individuai la nave. A poppa c’erano parecchi uomini; uno di essi indicava qualcosa col dito. L’uomo del battello di salvataggio gridava ancora nel megafono. Il capitano del porto era salito a bordo del bastimento incagliato. Il palombaro col berrettino rosso era nella lancia del capitano. Il motoscafo seguitava a girare attorno al bastimento; una signora, ritta in piedi, stava prendendo una fotografia. Uno stormo di gabbiani s’era posato sull’acqua; e tutti insieme levavano un urlio rauco e insulso di bestie affamate. Restituii il cannocchiale al guardacoste. «Non mi pare che succeda nulla» dissi.
«Adesso il palombaro scenderà giù» egli replicò. «Prima faranno un po’ di ostruzionismo, sicuramente, come tutti i forestieri. Ecco che arrivano i rimorchiatori.» «Non ci riusciranno mai» commentò Frank. «Guardate a che angolo s’è inclinato! E là, il fondo è molto più basso di quanto non credevo.»
«Quello scoglio è piuttosto sporgente» disse il guardacoste. «Di solito, passando per quel tratto di mare con una piccola imbarcazione, non lo si nota. Ma una nave, che pesca più profondo, si capisce che debba toccarlo.» «Ero nella prima insenatura, là dove finisce la valle, quando ho sentito i petardi» disse Frank. «Non ci vedevo a tre passi di fronte a me. E tutt’a un tratto, ecco che ti vedo quelle fiamme nella nebbia.» Gli uomini sono tutti uguali, in un momento di comune interesse, riflettei. Frank si comportava tale e quale come Frith: voleva darci la sua versione della storia, come se fosse importante, come se ci interessasse. Sapevo che era sceso alla spiaggia in cerca di Maxim; egli s’era impressionato non meno di me. E ora, tutto era già dimenticato, sepolto: i discorsi al telefono, l’ansia comune, la sua insistenza a volermi vedere. Tutto perché una nave s’era incagliata a causa della nebbia.
Un ragazzetto ci venne incontro correndo. «I marinai s’annegheranno?» domandò.
«Macché, stanno benone, quelli, figliolo» gli disse il guardacoste. «Il mare è liscio come un olio. E questa volta, non succederà niente a nessuno.» «Se fosse successo ieri notte, non avremmo sentito nulla» disse Frank. «Alla nostra festa avranno acceso una cinquantina di fuochi artificiali, senza contare i razzi più piccoli.»
«Oh, li avremmo sentiti noi, in quanto a questo» affermò il guardacoste. «Avremmo visto il bagliore, e capito subito da che parte era il pericolo. Ecco il palombaro, signora de Winter. Lo vedete che si mette il casco?» «Voglio vedere il palombaro» piagnucolò il ragazzetto. «Eccolo là» disse Frank, curvandosi a indicarglielo. «Quel signore che si sta mettendo un elmetto. Adesso lo caleranno giù in acqua.» «E non s’annegherà?» domandò il bimbo. «I palombari non annegano»
disse il guardacoste. «Gli pompano giù l’aria, per mezzo di un tubo. Guarda bene, ora lo vedi sparire.»
Un momento la superficie dell’acqua si mosse, poi tornò calma. «È sparito»constatò il bimbo. «Dov’è Maxim?» domandai a Frank. «È andato ad accompagnare a Kerrith un uomo dell’equipaggio» egli rispose. «Un poveraccio che ha perduto la testa, e con l’idea di salvarsi si è buttato in mare. Lo abbiamo trovato aggrappato a una roccia, qui sotto gli scogli. Era bagnato fradicio e tremava come un pezzo di gelatina. E non capiva una parola d’inglese. Maxim è sceso giù fino a lui, e ha visto che s’era ferito e perdeva sangue come un vitello scannato. Gli ha parlato in tedesco; poi ha chiamato uno di quei fuoribordo di Kerrith, che gironzolava come un pescecane affamato, e ha condotto via l’uomo, per farlo medicare da un dottore. Se gli va bene, capiterà giusto in tempo a pigliare il vecchio Phillips mentre si mette a tavola.»
«Quando è andato via?» domandai. «Proprio prima che arrivaste voi» disse Frank. «Saranno cinque minuti fa. Un caso, che non abbiate visto il fuoribordo. Maxim era seduto a poppa con quel Tedesco.»
«Dev’essere andato via mentre io salivo sugli scogli» dissi.
«Maxim è sempre generoso, in questi casi» disse Frank. «Quando può dare una mano, non si tira indietro. Vedrete che vorrà invitare tutto quanto l’equipaggio a Manderley, dar loro da mangiare, e magari offrirà loro anche dei letti per riposarsi.»
«Giusto» disse il guardacoste. «È un uomo che si toglierebbe fin la giacca che ha indosso, quando si tratta della sua gente. Eh, ce ne vorrebbe altri come lui, nella contea.»
«Eh, ne avremmo bisogno sì» approvò Frank. Seguitammo a guardare il bastimento. I rimorchiatori non erano ancora arrivati; il battello di salvataggio, invece, aveva virato di bordo e ritornava verso Kerrith. «Niente da fare per loro, oggi» disse il guardacoste. «No» disse Frank «e nemmeno per i rimorchiatori, mipare. È la gru che farà quattrini, stavolta.»
I gabbiani roteavano sulle nostre teste, miagolando come gatti affamati; alcuni s’erano appollaiati in cima agli scogli, mentre altri, più audaci, sfioravano le onde lungo i fianchi del bastimento.
Il guardacoste si tolse il berretto, si asciugò la fronte «Non si respira, oggi, eh?» disse.
«Già» feci io.
Il fuoribordo con i gitanti e la signora dell’apparecchio fotografico riprendeva brontolando la via di Kerrith. «Si sono stufati» osservò il guardacoste. «E non hanno torto» disse Frank. «Io credo che ci vorranno ore prima che si veda qualche cosa. Il palombaro, intanto, dovrà fare il suo rapporto prima che si tenti di raddrizzare il bastimento.» «Giusto» approvò il guardacoste. «Mi sembra che non ci sia sugo, a starcene qui. Tanto non possiamo fare nulla. E io andrei volentieri a mangiare» disse Frank.
Io tacevo. Frank titubava; e sentivo il suo sguardo fisso su di me.
«Che cosa volete fare, signora de Winter?» mi domandò.
«Credo che mi tratterrò un po’ qui» risposi. «Posso mangiare a qualsiasi ora; tanto, abbiamo una colazione fredda. Voglio vedere che cosa farà il palombaro.» In quel momento, non sopportavo troppo bene la compagnia di Frank. Preferivo essere sola,
o con una persona indifferente come il guardacoste. «Non vedrete niente» insisteva Frank. «Non ci sarà niente da vedere. Perché non tornate indietro, e non venite a mangiare un boccone con me?» «No. No davvero…» protestai. «Bene, allora… Vuol dire che sapete dove trovarmi, in caso aveste bisogno di me. Sarò in ufficio per tutto il pomeriggio.» «Va bene.» Egli salutò con una mano il guardacoste, e s’incamminò verso l’insenatura. Forse lo avevo offeso… Ma che cosa dovevo fare? Tutta questa situazione si sarebbe chiarita, un giorno o l’altro. Ma mi pareva che tante cose fossero accadute, da quando gli avevo parlato al telefono; e non volevo affaticare oltre il mio povero cervello. Non desideravo altro che starmene un po’ seduta lì sugli scogli, a guardare il bastimento
incagliato. «Un brav’uomo, il signor Crawley» disse il guardacoste;
«Oh, sì» replicai.
«E andrebbe nel fuoco per il signor de Winter.» «Certamente.»
Il ragazzino saltellava ancora tra l’erba, davanti a noi. «Quando torna su il
palombaro?» domandò.
«Ci vorrà un po’ di tempo» disse il guardacoste. Una donna con un abitino di cotone rosa a righe, i capelli stretti in una rete, veniva verso di noi. «Carletto!
Carletto! Dove sei?» chiamava.
«Ecco la mamma, che ora viene a darti il fatto tuo» disse il guardacoste.
«Mamma, ho visto il palombaro» disse il ragazzino. La donna ci salutò con un sorriso. Era una villeggiante di Kerrith, e non mi conosceva. «Pare che sia già finito tutto, eh?» disse. «Giù alla spiaggia dicono che ormai il bastimento resterà lì per qualche giorno.» «Aspettano il rapporto del palombaro» disse il guardacoste.
«Io non capisco davvero come ci sia della gente che abbia il coraggio di andare così in fondo al mare» disse la donna. «Dovrebbero pagarli bene.» «Infatti, li pagano bene» disse il guardacoste. «Mamma, io voglio fare il palombaro» disse il ragazzino.
«Prima devi domandare il permesso a papà, tesoro» disse la donna, e rise, guardandoci. «Un bel posticino, quassù, no?» E si rivolgeva a me. «Ci eravamo portati dietro la merenda, mai più pensando che sarebbe venuta la nebbia, e che avremmo avuto un naufragio, per render le cose più interessanti. Appunto stavamo pensando di ritornare a Kerrith, quand’ecco che abbiamo sentito i petardi. Pareva che fossero scoppiati proprio sotto al nostro naso. M’han fatto fare uno di questi salti… “Che succede?” ho detto a mio marito. “È un segnale di pericolo” ha risposto lui. “Fermiamoci, che forse ci sarà qualche cosa di bello da vedere.” E non c’è stato verso di tirarlo via, è peggio del nostro ragazzino. Io per me, non ci vedo niente di bello.»
«No, per ora non c’è proprio niente di bello da vedere» confermò il guardacoste. «Ci sono dei bei boschi, laggiù. Mi figuro che saranno proprietà privata» riprese la donna. Il guardacoste tossicchiò imbarazzato, gettandomi un’occhiata. Mordicchiando
uno stelo d’erba, io guardavo altrove.
«Sì, è tutta proprietà privata, qua intorno», disse l’uomo.
«Mio marito dice che fra qualche anno tutte queste grandi proprietà andranno divise in tanti lotti, e ci costruiranno delle casette. A me non spiacerebbe mica, una bella villetta qui, con la vista sul mare. Però, non so se mi piacerebbe poi molto, stare da queste parti d’inverno.» «Oh, qui d’inverno è molto tranquillo» disse il guardacoste.
Seguitai a mordicchiare il mio stelo d’erba. Il ragazzino non la smetteva di correre in tondo. «Beh, è ora che me ne vada» disse il guardacoste. «Buon giorno…» E si volse a me, con un saluto quasi militaresco, poi prese per il sentiero, in direzione di Kerrith. «Su, Carletto, vieni che andiamo in cerca di papà» disse la donna. Mi salutò come una vecchia conoscenza, e se ne andò, a passettini cauti lungo l’orlo della scogliera. Il ragazzino le corse dietro. A breve distanza, un ometto magro in calzoni corti color kaki, con una maglietta a righe, agitava le braccia verso di loro. Sedettero tutti tre vicino a un gruppo di ciuffi d’erica, e la donna cominciò ad aprire dei cartocci.
Avrei voluto perdere la mia identità, e unirmi a loro. Mangiare uova sode e panini imbottiti di carne in scatola, associarmi ai loro discorsi e alle loro numerose risate, e poi, dopo lo spuntino, tornare pian piano con loro a Kerrith, andare in sandolino, fare le corse sulle dune sabbiose, e seguirli all’alloggetto che avevano preso in affitto, e là, sorbire il tè coi gamberetti fritti. E invece, fra poco avrei dovuto ritornare a Manderley per la via dei boschi, e aspettare Maxim. E non sapevo che cosa ci saremmo detti, come egli mi avrebbe guardata, quale sarebbe stata la sua voce. E rimanevo seduta lì, intanto. Non avevo fame, non pensavo al pranzo. Altra gènte veniva, e guardava al bastimento. Tutto ben sommato, rappresentava una distrazione per quel pomeriggio. Non c’era nessuno che conoscessi; erano tutti villeggianti di Kerrith. Il mare era diventato d’una calma vitrea. I gabbiani non svolazzavano più; s’erano posati sull’acqua, a breve distanza dal bastimento. Altre barche apparivano. Doveva essere una giornata campale per i barcaiuoli di Kerrith. Il palombaro venne a galla, poi tornò a tuffarsi. Uno dei rimorchiatori si allontanava, tra sbuffate di fumo; gli altri erano rimasti. Il capitano del porto se ne andò nella sua lancia grigia; aveva a bordo alcuni uomini e il palombaro, il quale era venuto su per la seconda volta. I marinai del bastimento incagliato, appoggiati al parapetto, buttavano avanzi di cibo ai gabbiani, e guardavano alle barche dei curiosi che seguitavano a girare loro lentamente d’attorno. Non accadeva proprio nulla d’interessante. La marea era al punto più basso, ora, e si vedevano le eliche della nave, scoperte dalla parte che sporgeva verso l’alto. A oriente, in cielo si andavano formando piccoli baluardi di nuvole bianche; il sole impallidiva. Ancora faceva molto caldo. La donna vestita di cotonina rossa a righe s’era alzata, e s’avviava verso Kerrith col suo bambino; l’uomo in calzoni corti seguiva col cestino della merenda.
Guardai l’ora. Erano le tre passate. Mi alzai, scesi giù fino all’insenatura. Era quieta e deserta come sempre. Nella piccola baia, l’acqua era lucida e liscia come uno specchio. Sotto i miei piedi, i ciottoli facevano un curioso rumore stridente, mentre attraversavo la spiaggia. Ora il banco di nuvole bianche copriva tutto il cielo sopra di me, e il sole ne era nascosto. Dall’altra parte dell’insenatura trovai Ben, il quale, inginocchiato davanti a una piccola pozza d’acqua, radunava telline entro le mani. La mia ombra cadde sull’acqua, mentre passavo; ed egli alzò il capo e mi vide.
«Buon giorno» disse, mostrando i denti in un sorriso. «Buon giorno.»
Arrancando egli si rizzò in piedi e aprì un fazzoletto sudicio che aveva empito di telline. «Le mangiate le telline?» disse. «Oh grazie,» dissi, non volendo offenderlo. Egli me ne versò in mano una dozzina. Mi riempii le due tasche della gonna.
«Sono buone col pane e burro» egli riprese; «ma prima dovete farle bollire.» «Sì, lo so» risposi.
Egli seguitava a guardarmi, sorridente. «L’avete visto, il bastimento?» domandò. «Sì; s’è incagliato, non è vero?» replicai. «Eh?» «È andato contro uno scoglio» spiegai. «Certo avrà un buco nel fondo.»
«Già già» egli fece, e subito mostrò una faccia da scimunito. «S’è accomodato per bene. E non verrà più su.» «Forse i rimorchiatori lo disincaglieranno, quando ci sarà la marea alta» dissi.
Egli non mi rispose. Non staccava gli occhi dal bastimento incagliato. Di là, dove mi trovavo, lo vedevo di fianco; la parte della carena che sporgeva dall’acqua spiccava contro il nero dei parapetti; e l’unica ciminiera s’inclinava fin quasi a toccar gli scogli. Gli uomini dell’equipaggio erano ancora là, a buttar avanzi ai gabbiani e a guardar l’acqua. Le barche a remi riprendevano la via di Kerrith, a una a una.
«È un bastimento olandese, no?» disse Ben. «Non lo so. Tedesco o olandese» risposi. «Andrà alla malora là dov’è.» «Ho ben paura che sarà così.»
Egli tornò a sorridere, e si asciugò il naso col rovescio della mano. «Andrà a pezzi un po’ alla volta, non colerà a fondo come quello piccolo.» E ridacchiò tra sé, pizzicandosi il naso. Non replicai nulla. «A quest’ora, i pesci se lo saranno mangiato,
dico?» egli soggiunse. «Chi?» domandai.
Col pollice egli indicò verso il mare, «Quello là» disse. «L’altro.»
«I pesci non mangiano le barche, Ben» dissi.
«Eh?» egli mi fissava, attonito, l’aria più scema che mai.
«È ora che vada a casa, adesso. Arrivederci» dissi. M’incamminai su per il sentiero, senza guardare alla casetta, che pure sentivo là a destra, grigia e quieta. Tosto mi trovai nel folto del bosco. A mezza strada sostai; fra i tronchi vedevo tuttora il bastimento, reclinato verso la riva. Il mare appariva deserto, ora; anche gli uomini dell’equipaggiò erano spariti. Le nuvole bianche avevano invaso tutto il cielo. Una brezzolina fresca, venuta da chissà dove, mi alitò in viso. Da un albero, una foglia mi cadde sulla mano. Senza una ragione rabbrividii. E poi, la brezza morì, e tornò a regnar l’afa di prima. La nave infortunata, con la coperta deserta, la sottile ciminiera nera puntata verso terra, faceva pena a vedersi. Tanto calmo era il mare che le onde, infrangendosi sui ciottoli dell’insenatura, facevano come un sussurrio, un sospiro appena. A malincuore ripresi il sentiero, ripido fra gli alberi, le gambe riluttanti, la testa pesante, e in cuore uno strano presentimento di cose tristi. La casa era immersa in una grande quiete, quando, uscendo dal bosco, attraversai i prati. Mi parve un rifugio di pace, e mi parve di non averla mai vista così bella. E mentre ero lì a guardarla sul declivio erboso, per la prima volta forse, con un senso nuovo d’orgoglio che quasi mi faceva ridere, mi resi conto che era la mia casa: e che io appartenevo a Manderley come Manderley apparteneva a me. Gli alberi, e l’erba, i fiori sulla terrazza si riflettevano nei vetri delle finestre. Da un comignolo, una tenue colonna di fumo si elevava e si disperdeva nell’aria. L’erba falciata di fresco aveva un odor di fieno. Un merlo cantava, tra le fronde dell’ippocastano. Una farfalla gialla folleggiava davanti a me, sulla terrazza. Andai subito alla sala da pranzo. Il mio posto era ancora preparato, ma quello di Maxim era già stato tolto. Sulla credenza erano disposti dei piatti di carne fredda, delle insalate. Esitai, poi suonai; subito Roberto spuntò didietro al paravento. «Il signore è stato qui?» domandai. «Sì, signora. È venuto che erano appena passate le due, ha mangiato in fretta, poi è di nuovo uscito. Ha chiesto della signora, e Frith gli ha detto che dovevate essere andata giù a vedere il bastimento.» «Ha lasciato detto quando sarebbe tornato?» «No, signora.»
«Forse sarà sceso alla spiaggia per un’altra strada, e non ci siamo incontrati.» «Forse è così, signora.»
Guardai la carne fredda, l’insalata. Mi sentivo lo stomaco vuoto, ma non avevo fame. Tanto meno di carne fredda.
«La signora prende qualche cosa?» domandò Roberto. «No» risposi. «No… però, potreste portarmi un po’ di tè in biblioteca, Roberto. Niente pasticcini, né panini. Soltanto del tè e del pane e burro.» «Sì, signora.»
Andai a sedermi nel vano della finestra. Sentivo la mancanza di Jasper; doveva esser corso dietro a Roberto. La vecchia cagna sonnecchiava, nella cesta. Presi il Times, sfogliai qualche pagina senza leggere. Strana, questa impressione di dover far passare il tempo come nell’anticamera di un dentista. Sentivo che mai avrei avuto la pazienza di sedermi tranquillamente a sferruzzare, oppure con un libro: no, ero in attesa di un avvenimento, di qualcosa d’imprevisto. La mattinata orribile, la nave incagliata, il fatto stesso d’aver saltato il pranzo, tutto combinava a favorire un’agitazione latente nel mio intimo, e che non afferravo ancora. Mi pareva di essere sulle soglie d’una nuova fase della mia vita, in cui tutto sarebbe mutato e diverso. La fanciulla che la sera avanti s’era vestita per il ballo in costume, io l’avevo lasciata dietro di me; erano avvenimenti ormai lontanissimi. La creatura seduta lì nel vano della finestra era nuova e assai diversa…
Venne Roberto con il tè, e avidamente mangiai il pane e burro. Aveva anche portato dei pasticcini, e dei panini imbottiti, e una torta. Doveva aver trovato che servire del pane e burro solo era umiliante, contrario agli usi di Manderley. Ricordandomi che avevo appena bevuto un po’ di tè freddo alle undici e mezza, accolsi con gioia i pasticcini e la torta. Avevo appunto finito la terza tazza di tè che Roberto rientrò.
«Il signore non è mica tornato, non è vero, signora?» egli domandò.
«No» risposi. «Perché? C’è qualcuno che lo desidera?»
«Sì, signora. C’è il capitano Searle, il capitano del porto di Kerrith, al telefono. Vorrebbe sapere se può venire su e parlare personalmente col signor de Winter.» «Non so proprio che dire» risposi. «Chissà quando ritornerà… Ditegli che provi a telefonare di nuovo alle cinque.»
Roberto uscì, e ritornò dopo pochi minuti. «Signora, il capitano Searle dice che se non vi disturba, vorrebbe vedervi. Dice che si tratta di una cosa urgente. Ha cercato di parlare col signor Crawley, ma non era in ufficio.»
«Se è urgente, lo vedrò io, allora» dissi. «Ditegli che venga pure subito. Ha la sua
macchina?»
«Sì. Credo di sì, signora.»
Roberto uscì. Che cosa avrei dovuto dire al capitano Searle? Certo egli veniva per qualcosa che riguardava il bastimento incagliato. Ma non capivo come potesse entrarci Maxim. Se l’incidente fosse successo nell’insenatura, la cosa era ben diversa. Era terreno che apparteneva a Manderley, e poteva darsi che dovessero chiedere il permesso di Maxim, per far saltare qualche roccia, o quel che occorresse per smuovere una nave incagliata. Ma la baia grande, e la scogliera sott’acqua non appartenevano a Maxim. E il capitano Searle perdeva forse il suo tempo, a parlarmi di cose di cui non m’intendevo.
Egli doveva essersi messo in macchina subito dopo aver parlato con Roberto, perché non era trascorso un quarto d’ora, che già mi veniva annunciato. Era ancora in uniforme, come lo avevo visto col cannocchiale, nelle prime ore del pomeriggio. «Mi rincresce che mio marito non sia ancora tornato» dissi, alzandomi e andandogliincontro. «Dev’essere ritornato giù al mare, e prima era andato a Kerrith. È tutto il giorno che non lo vedo.»
«Sì, ho sentito che era stato a Kerrith, ma non ci siamo veduti. Io credo che sia tornato a piedi verso gli scogli mentre io ero nella mia lancia. E non ho potuto nemmeno trovare il signor Crawley.»
«Questo incidente ci ha messi tutti sossopra» dissi. «Io sono andata giù al mare e sono rimasta senza pranzo. E so che il signor Crawley è venuto via prima di me… Ma ditemi, che ne sarà del bestimento? I rimorchiatori potranno tirarlo via?»
Il capitano Searle tracciò un gran cerchio con le mani. «Ha un buco molto profondo nella carena» disse «e io direi che non rivedrà mai più Amburgo. Ma non si tratta della nave. L’armatore e l’agente del Lloyd se la vedranno tra di loro. No, signora de Winter, non è per via del bastimento che sono qui. Indirettamente, certo, è la ragione… Il fatto è che avrei una notizia per il signor de Winter, e non so davvero come dargliela…» E mi guardava fisso, con due occhi azzurri vivaci. «Che notizia, capitano?»
Egli trasse di tasca un gran fazzoletto bianco e si soffiò il naso. «Ecco, signora, neanche a voi mi riesce molto facile comunicarla. Procurare dolori o inconvenienti a voi e a vostro marito è l’ultima cosa che vorrei. Noi tutti di Kerrith siamo molto affezionati al signor de Winter; la famiglia ha sempre fatto tanto bene nel paese. È brutto per lui, e anche per voi, che non si possa lasciar dormire il passato. Ma non vedo che sia possibile, date le circostanze…» S’interruppe, e si rimise il fazzoletto in tasca. Benché fossimo soli nella stanza, abbassò la voce. «Abbiamo mandato il palombaro a ispezionare il fondo della nave, e mentre era giù ha scoperto qualcosa… Una volta trovata la falla, sembra che abbia voluto accertarsi se anche dalla parte opposta non vi fossero danni; ed è incappato nella scafo di un piccolo panfilio. È un uomo del paese, e naturalmente ha riconosciuto subito il panfilio. Era quello della povera signora de Winter.» “Ringraziamo Iddio che Maxim non sia qui a sentire…” fu il mio primo pensiero. Quel nuovo colpo che subitaneamente veniva ad aggiungersi a quello della mia mascherata della notte scorsa era un’ironia della sorte, e alquanto macabra, per giunta.
«Peccato…» dissi lentamente. «È certo una cosa che nessuno si aspettava. Ma è proprio necessario dirlo a mio marito? Non si può lasciar lì il panfilio, così com’è? Mi sembra che non faccia del male a nessuno, no?» «Si potrebbe lasciarlo lì, in condizioni normali. Io sono l’ultima persona che vorrebbe risvegliare un vespaio. Come ho detto, darei non so che al mondo per risparmiare il signor de Winter. Ma non è ancora tutto, cara signora. Il nostro uomo, giunto attorno al panfilio, ha fatto un’altra constatazione, ben più importante. La porta della cabina era ermeticamente chiusa, non soltanto accostata; e chiusi erano anche i boccaporti. Egli ne ha rotto uno con un sasso, e ha dato un’occhiata dentro alla cabina. Era piena d’acqua, che dev’essere penetrata da qualche fessura, perché non c’erano altre avarie visibili. E poi, signora, e poi ha preso un bello spavento…» Il capitano Searle fece una pausa, guardandosi dietro le spalle, come per timore che qualcuno dei domestici potesse udirlo. «In terra, sul pavimento della cabina, c’era un corpo umano. Era in dissoluzione, si capisce, non aveva più carne. Ma era un corpo umano, con la testa e le membra intatte… L’uomo è risalito subito alla superficie, ed è venuto a farmi il suo rapporto. E ora, signora, ora capirete perché abbia bisogno di vedere vostro marito.»
Ero rimasta disorientata dapprima, poi allibita. Ora mi sentivo stringere alla gola da una specie di nausea. «Non s’era creduto sempre che fosse sola?» sussurrai. «Allora, vuol dire che c’era qualcun altro con lei, e nessuno lo sapeva?»
«A quanto pare, era così» disse il capitano. «Ma chi poteva essere? Se fosse venuta a mancare un’altra persona, sicuramente i parenti se ne sarebbero accorti. I giornali ne hanno tanto parlato, allora… E come mai c’era una persona chiusa nella cabina, e la signora de Winter, invece, è stata ritrovata tanto lontano, e molti mesi dopo?»
Il capitano Searle scosse la testa. «Io non ne so più di voi, signora. Tutto quanto sappiamo per ora è che si è trovato un cadavere, e bisogna farne rapporto alleautorità. Ho paura che ci sarà un po’ di chiasso; non vedo come potremmo evitarlo. È duro per voi e per vostro marito. Eravate tutti due tranquilli, non chiedendo che d’essere felici, e proprio questo aveva da capitare…» Ora sapevo la ragione di quel mio presagio di tristezze. Non la nave infortunata era sinistra, non il gridio dei gabbiani, non la sottile ciminiera scura puntata verso gli scogli. Era il silenzio delle acque nere, e le cose ignote che ricopriva. Era il palombaro che scendeva a quelle fredde quiete profondità, e incappava nel panfilio di Rebecca, e nel cadavere del compagno di Rebecca. Mentre io ero là, seduta ignara su uno scoglio, egli toccava lo scafo, e frugava con lo sguardo entro la cabina.
«Se soltanto si potesse fare a meno di dirglielo» mormoravo. «Se soltanto gli si potesse nascondere tutto…» «Voi sapete che se fosse possibile lo farei» replicò il capitano. «Ma in un caso come questo, bisogna ch’io lasci da parte ogni delicatezza personale. Io devo fare il mio dovere. Devo dichiarare che è stato ritrovato quel cadavere…»
Bruscamente s’interruppe. La porta si apriva, e Maxim entrava in quel momento.
«Ebbene, che succede?» egli esclamò. «Non sapevo che foste qui, capitano. Ci sono delle novità?» Incapace a dominarmi, da quell’animuccia vile ch’io ero me ne uscii, chiudendo la porta dietro di me. Non avevo neppure guardato in faccia Maxim; avevo solo la vaga impressione d’averlo visto senza cappello, stanco, trasandato.
Arrivai fino al gran portale, nel vestibolo. Jasper lappava rumorosamente dalla sua ciottola. Senza lasciar di bere, al vedermi dimenò la coda. Quando si fu dissetato mi fu addosso, con le zampe mi carezzò la veste. Lo baciai sulla testa, poi uscii e andai a sedermi sulla terrazza. Il momento della crisi era giunto, e dovevo affrontarlo. I miei antichi timori, la mia diffidenza, la mia timidezza, il mio irrimediabile complesso d’inferiorità… erano cose che bisognava vincere, e buttar da parte. Se non vi riuscivo ora, non vi sarei riuscita mai più. Questa era la prova suprema. Ciecamente, disperatamente, cacciandomi le unghie nelle palme, pregai Iddio che mi desse coraggio. Non so da quanto tempo fissavo i prati verdi, e i fiori sulla terrazza, quando udii il rombo d’una macchina che si allontanava giù per il viale. Doveva essere il capitano Searle. Egli aveva dato la notizia a Maxim, ed era ripartito. Mi alzai; un passo dopo l’altro tornai nella biblioteca. E intanto, rigiravo entro le tasche le telline che m’aveva dato Ben, e le serravo forte nelle mani.
Maxim era in piedi davanti alla finestra, e mi volgeva le spalle. Mi fermai sulla soglia. Ma egli non si voltò.
Tolsi le mani di tasca, mi avvicinai a lui. Gli presi la mano, me la recai alla guancia. Immobile egli rimaneva.
«Sono così addolorata» mormorai. «Tanto, oh tanto addolorata!» Egli non mi diede risposta. La sua mano era fredda gelata. Ne baciai il dorso, e poi le dita, a una a una. «Non voglio che tu sopporti… questo da solo» ripresi. «Voglio essere vicina a te. Sono cresciuta, Maxim, in ventiquattr’ore. Ho finito di essere una bambina.»
Egli mi cinse col braccio e mi attirò a sé, stringendomi forte. Ogni mio riserbo era infranto, sparita la mia timidezza. «Mi hai perdonato, non è vero?» dissi, il viso contro la sua spalla.
Finalmente egli parlò. «Perdonarti? Che cosa ho da perdonarti?»
«Ieri sera…» dissi. «Tu avrai creduto ch’io l’abbia fatto apposta.»
«Ah… quello. Avevo dimenticato. Ero in collera con te, mi pare.» «Sì.»
Di nuovo egli tacque, sempre stringendomi contro la sua spalla.
«Maxim» dissi io «non possiamo ricominciare da capo? Cominciare da oggi, e affrontar tutto assieme? Io non ti chiedo di amarmi, non pretendo cose impossibili. Sarò il tuo amico, il tuo compagno, come se fossi un ragazzo. Non desidero nemmeno altro.» Egli mi prese il viso fra le mani e mi guardò. Per la prima volta vidi quanto egli era smagrito; un viso tutto scavato e pieno di rughe. E c’erano grandi ombre livide sotto i suoi occhi.
«Fino a che punto mi ami?» domandò. Non seppi rispondere. Non seppi che corrispondere allo sguardo di quegli scuri
occhi torturati nel pallido volto scavato.
«È troppo tardi, mio amore, troppo tardi» diss’egli. «Abbiamo perduto la nostra piccola speranza di felicità.»
«No, Maxim. No» replicai.
«Sì. È tutto finito. Quel che doveva accadere… è accaduto.»
«Che cosa?» domandai.
«Quello che avevo previsto sempre. La cosa che avevo visto in sogno, ogni giorno,
ogni notte. Tu ed io non siamo fatti per essere felici!» Egli sedette nel vano della finestra, e m’inginocchiai dinanzi a lui, le mani sulle sue spalle.
«Che cosa mi stai dicendo?»
Egli pose le sue mani sulle mie e mi guardò in viso. «Rebecca ha vinto» disse.
Lo fissai, uno strano tumulto in cuore, le mani subitamente fredde sotto le sue.
«La sua ombra era tra noi, sempre, sempre» egli diceva. «Maledetta ombra, che ci divideva. Come potevo stringerti così, mio tesoro, mio piccolo amore, mentre nel mio cuore c’era la paura che questo avesse a succedere? Ricordavo i suoi occhi, come mi guardavano, prima che morisse. Ricordavo quel suo sorriso vago e traditore. Già allora sapeva, essa, che sarebbe andata così. Sapeva che avrebbe vinto, in ultimo.» «Maxim» sussurrai «che cosa dici? Che cosa vuoi dirmi?»
«Il suo battello. L’hanno trovato. Il palombaro l’ha trovato, oggi.»
«Lo so» dissi. «Il capitano Searle me lo ha detto, quando è venuto. Tu pensi a quel cadavere, non è vero? Quel cadavere che il palombaro ha veduto nella cabina?» «Sì».
«Ebbene, vuol dire che essa non era sola. C’era qualcuno sul battello, con Rebecca. E tu dovrai scoprire chi era. Non è così, Maxim?» «No. Tu non capisci.» «Voglio esserti vicina, caro. Voglio aiutarti.» «Non c’era nessuno con Rebecca. Essa era sola.» Non staccavo lo sguardo da quel viso, da quegli occhi. «Quel corpo che è là in terra, nella cabina, è il corpo di Rebecca» disse Maxim. «No…» feci. «No…»
«La donna sepolta nella cripta non è Rebecca. È il cadavere d’una sconosciuta, che nessuno ha reclamato, che non è di nessuno. Non è stata una disgrazia. Rebecca non è annegata. Io l’ho uccisa. Ho sparato su di lei, nella casetta sulla spiaggia. Ho trasportato il suo corpo nella cabina, ho portato il panfilio in mare, quella notte, e l’ho affondato là dove è stato trovato oggi. È Rebecca che giace morta in terra, nella cabina. E ora, puoi guardarmi negli occhi e dirmi che mi ami?»
XX
Una gran pace regnava nella biblioteca. S’udiva solo il rumore che faceva Jasper, leccandosi la zampa. Doveva essersi presa una spina tra le unghie, perché non la smetteva di mordersi e succhiarsi. Ora sentivo anche, vicinissimo al mio orecchio, il ticchettio dell’orologio a polso di Maxim. I piccoli rumori consueti della vita quotidiana. E senza ch’io sapessi il perché, mi sorgeva alla mente il troppo noto proverbio dei miei tempi di scuola: “Tempo e marea non aspettan nessuno”. Mentalmente tornavo a ripetermi, sempre da capo, quelle parole: “Tempo e marea non aspettan nessuno”. Chi patisce un grave colpo -la morte di qualcuno, la perdita di un braccio o di una gamba – non lo sente, lì per lì: almeno, così credo debba essere. Per qualche minuto non ci si accorge di aver perduto la mano: ancora si sentono le dita, si continua a serrarle e a disserrarle, a una a una, e invece non c’è più nulla, né mano, né dita. Inginocchiata accanto a Maxim, il mio corpo contro il suo, le mie mani sulle sue spalle, non sentivo nulla, non pena né paura, e non c’era alcun orrore in fondo al cuor mio. Pensavo che avrei dovuto togliere quella spina dalla zampa di Jasper; e mi domandavo quando Roberto sarebbe venuto a portar via la roba del tè. Mi pareva assai strano ch’io pensassi a cose simili, la zampa del cane, l’orologio di Maxim, Roberto e le tazze da tè; mi urtava quella mancanza di emozione, quella curiosa e fredda assenza di ogni disperazione. A poco a poco la mia sensibilità si ridesterà, mi dicevo, a poco a poco capirò. Ciò ch’egli mi ha detto, e tutto ciò che è successo, un po’ alla volta si riunirà, come i pezzi d’un gioco di pazienza, e comporrà il disegno. In questo momento io non so nulla, non ho cuore, né spirito, né sensi, non sono che un pezzo di legno fra le braccia di Maxim.
Subitamente egli cominciò a baciarmi. Non mi aveva mai baciato così, fino allora. Gli misi le mani dietro il capo, e chiusi gli occhi.
«Ti amo tanto» egli mormorò. «Tanto…» Questo avevo desiderato sentirgli dire, giorno e notte l’avevo desiderato, ed ecco, finalmente egli lo dice. Queste sono le parole che avevo immaginato a Monte Carlo, in Italia, e qui a Manderley. Egli le dice, ora. Aprii gli occhi, vidi, sopra il suo capo, un pezzetto di tendaggio. Ed egli continuava a baciarmi, come affamato di baci, disperatamente, mormorando il mio nome. E io tenevo gli occhi fissi a quel pezzetto di tenda; vedevo un punto dove il sole l’aveva sbiadita, ed era più chiara del resto. “Come sono calma” pensavo, “fredda… Maxim mi bacia, e io guardo quel pezzetto di tenda. E per la prima volta egli mi dice che mi ama”.
D’un tratto si fermò, mi scostò da sé e si alzò in piedi. «Vedi, avevo ragione» disse.«È troppo tardi. Tu non mi ami più, ormai. E perché dovresti amarmi?» Si avvicinò al caminetto. «Dimentichiamo quel che ho detto… Non succederà più.»
Bruscamente mi trovai di fronte alla realtà; m’invase il panico, e il cuore mi balzò. «Non è troppo tardi!» protestai, alzandomi da terra; e avvicinatami a Maxim, gli buttai le braccia al collo. «Non devi parlare così; non hai capito. Io ti amo più di ogni cosa al mondo! Ma quando mi hai baciata, poco fa, sono rimasta scossa, intontita. Non sentivo più nulla; ero come istupidita. Come se fossi incapace di esprimermi.»
«Tu non mi ami» disse Maxim. «Ecco perché non sai esprimerti. Lo so. Ti capisco. Tutto ciò è venuto troppo tardi per te.» «No!» ribattei.
«Tutto ciò avrebbe dovuto essere sei mesi fa. Avrei dovuto sapere… Voi altre donne non siete mica come noi uomini.»
«Voglio che tu mi baci di nuovo» dissi. «Ti prego, Maxim…»
«No. È inutile, ormai.»
«Ma noi non dobbiamo perderci!» gridai. «Dobbiamo rimanere uniti, sempre. Tra di noi non ci debbono essere né segreti, né ombre. Ti supplico, amore, ti supplico!»
«Troppo tardi, ormai. Forse non ci resteranno che poche ore… pochi giorni, tutt’al più. E come possiamo restare uniti, dopo quel che è accaduto? Ti ho detto ben che hanno trovato il panfilio. Hanno trovato Rebecca.» Lo guardavo, trasognata. Non capivo. «E che cosa faranno?» domandai.
«Identificheranno il cadavere» disse Maxim. «E c’è modo di riconoscerlo, da tutto quel che si trova nella cabina. Gli abiti che essa aveva indosso, le scarpe, gli anelli alle mani… E quando avranno identificato quello, ricorderanno l’altro cadavere… la donna che è sepolta nella cripta.»
«E tu… che cosa farai tu?» mormorai. «Non lo so» rispose Maxim. «Non lo so.» L’inquietudine tornava a riafferrarmi, poco per volta. Le mie mani non erano più gelate; bollivano, e avevo le palme sudate. Sentii un’ondata di sangue colorirmi il viso, la gola. Le guance mi scottavano. Con la fantasia vedevo il capitano Searle, il palombaro, l’agente del Lloyd, e i marinai della nave incagliata che guardavano giù nell’acqua: vedevo i bottegai di Kerrith, e i ragazzetti che zufolavano per le strade, e il parroco che usciva di chiesa, e Lady Crowan che coglieva rose nel suo giardino; e la donna vestita di rosa, incontrata sugli scogli col suo maschietto.. Presto, fra qualche ora, tutti avrebbero saputo. Domattina presto, all’ora di colazione. “Hanno ritrovato il panfilio della signora de Winter, e pare che nella cabina ci sia un corpo umano”. Un corpo umano nella cabina. Rebecca distesa in terra. Rebecca non era nella cripta. Colei che avevano seppellito là era un’altra. Rebecca non era affatto annegata. L’aveva uccisa Maxim, Rebecca. Con un colpo di rivoltella, nella casina sull’orlo del bosco. Quella casina grigia e silenziosa, ove la pioggia tamburellava sul tetto. Ora i pezzi del gioco di pazienza arrivavano saltellando a me, m’invadevano. E come un lampo, immagini slegate attraversavano la mia mente, a una a una. Maxim, seduto accanto a me in automobile, laggiù in Francia. “Un anno fa, è accaduto qualcosa che ha mutato il corso della mia vita intera… Io debbo ricominciare a vivere…” Il silenzio di Maxim, il suo umor tetro. Il modo come evitava di parlar di Rebecca. Quella costante cura di non pronunciar mai il suo nome. La sua avversione per la casetta di pietra, per quel punto della spiaggia. “Se tu avessi i miei ricordi, non avresti voglia di andare laggiù…” Lo vedevo che saliva frettolosamente il sentiero nel bosco, senza guardarsi addietro. Su e giù per il sentiero, su e giù… “Sono venuto via piuttosto in fretta” aveva detto alla signora Van Hopper; e una ruga sottile gli si scavava tra le sopracciglia, intanto. “Dicono ch’egli non riesca a superar quel dolore per la morte della moglie…” E poi, la notte scorsa, il ballo in costume; e io che scendevo dall’alto dello scalone, vestita come Rebecca. “Io ho ucciso Rebecca” aveva detto Maxim. “Le ho sparato una rivoltellata, là nella casetta…” E il palombaro l’aveva trovata distesa in
terra, nella cabina del battello. «Che cosa faremo, adesso?» dissi. «Che cosa diremo?»
Maxim non rispose. In piedi davanti al caminetto, fissava avanti a sé con due occhi dilatati che nulla vedevano.
«C’è qualcuno che sa?» domandai. «Non c’è nessuno che…»
Egli scosse il capo. «Nessuno.» «Nessuno, all’infuori di te e di me?» domandai. «Nessuno, all’infuori di noi due.» «Frank!» esclamai, colta da un’idea improvvisa. «Sei ben certo che Frank non sappia?» «E come potrebbe sapere? Io ero solo. Era una notte scura…» Si fermò. Sedette su una seggiola ch’era lì vicina, si strinse la fronte fra le mani. M’inginocchiai accanto a lui. Egli taceva, non si muoveva. A forza gli tolsi le mani dal viso, lo guardai negli occhi. «Ti amo» sussurrai. «Ti amo. Mi crederai, ora?» Egli mi baciò il viso e le mani, le tenne strette a sé come un fanciullo che a poco a poco acquistasse fiducia. «Ho creduto d’impazzire» disse. «Giornate e giornate, l’una dopo l’altra, in attesa che succedesse qualcosa. E dover rispondere a quelle atroci lettere di condoglianza! E i giornali, e le interviste… tutti gli strascichi d’una tragedia. E dover mangiare e bere, fare uno sforzo continuo per essere un uomo normale, per non apparire un pazzo. Frith, i domestici, la signora Danvers… la Danvers, che non ho avuto il coraggio di metter fuori di casa, perché, amica com’era di Rebecca, avrebbe potuto sospettare, indovinare… E Frank, sempre vicino a me, discreto, pietoso… “Perché non te ne vai via?” mi diceva sempre. “Io qui posso far benissimo da solo. Ma tu dovresti andartene via”. E Giles, e Bea, povera cara Bea, così priva di tatto. “M’hai l’aria di non reggerti in piedi, non potresti farti vedere da un medico?” E bisognava sopportarli, tutti quanti, sapendo che ogni parola che m’usciva di bocca era una bugia!» Strinsi forte le sue mani. Mi accostai tutta a lui. «Una volta, sono stato lì lì per dirti…» egli continuò. «Quel giorno che Jasper era scappato giù all’insenatura, e tu sei entrata nella casetta a cercare un pezzo di spago. Eravamo seduti qui, come ora, e poi entrarono Frith e Roberto a portare il tè.»
«Sì, ricordo» dissi. «Perché non hai parlato allora? Tutto questo tempo che abbiamo sciupato, e avremmo potuto essere insieme. Tanti giorni, tante settimane…» «Tu eri così lontana. Te ne andavi in giro per il giardino con Jasper, stavi sempre per conto tuo. Non sei mai venuta da me così come oggi…» «Perché tu non parlavi?» sussurrai. «Perché non parlavi?»
«Pensavo che tu fossi infelice, che t’annoiassi a morte. Io sono tanto più vecchio di te. Mi sembrava che tu ti trovassi meglio con Frank, che non con me. Con me eri così strana: scontrosa, timida…» «Come potevo andar verso di te, sapendo che tu pensavi sempre a Rebecca?» dissi. «Come potevo chiederti di amarmi, quando ero sicura che tu amavi ancora Rebecca?»
Egli mi attirò a sé, mi guardò profondo negli occhi. «Ma che cosa vai dicendo? Che intendi?» domandò. Mi raddrizzai sulle ginocchia. «Pensavo che ogni volta che tu mi toccavi, dovevi confrontarmi con Rebecca. Sentivo che quando mi parlavi o mi guardavi, camminavi con me in giardino, sedevi davanti a me a tavola e ti dicevi: “Così facevo con Rebecca… e così… e così…”.» Maxim mi fissava interdetto, come se non capisse. «Non è forse vero? Non è così?» dissi. «Oh, mio Dio!» egli esclamò. Mi scostò da sé, si alzò e si mise a caminare su e giù, torcendosi le mani. «Che cosa c’è?
Che hai?» domandai. Bruscamente egli girò sui tacchi e mi guardò accoccolata lì in terra. «Tu credevi che io amassi Rebecca?» domandò. «E credi che l’abbia uccisa per amore? Ma io l’ho odiata, ti dico; il nostro matrimonio è stato una farsa, sin dai primi tempi. Rebecca era una sciagurata, una viziosa, guasta fino in fondo. Non ci siamo mai amati, non abbiamo mai avuto un momento solo di vera felicità. Rebecca era incapace d’amore, di tenerezza, di pudore… Non era nemmeno una donna normale.» Muta, accoccolata lì in terra, lo guardavo. «Una donna intelligente, questo sì» egli riprese. «Maledettamente intelligente. Chiunque la conoscesse non avrebbe mai immaginato ch’essa non fosse la persona più buona, più generosa, più profonda che esistesse al mondo… Essa sapeva sempre quel che doveva dire a tutti; era capace d’intonarsi a ogni diverso carattere. Se mai tu l’avessi conosciuta, subito ti avrebbe presa a braccetto e sareste andate assieme a spasso per il giardino, chiamando Jasper, discorrendo di fiori, di musica, di pittura… di quella ch’essa sapeva o supponeva fosse la tua occupazione preferita; e tu saresti rimasta incantata, come tutti quanti. Le saresti caduta ai piedi, l’avresti adorata.»
E parlando, Maxim camminava su e giù, su e giù…
«Quando l’ho sposata, passavo per l’uomo più fortunato del mondo. Essa era così bella, così divertente; era la perfezione umana, in tutto e per tutto. Persino la nonna, che a quei tempi era una donna di gusti difficili, l’ha adorata dal primo momento. “Essa ha le tre qualità più importanti per una moglie” mi disse: “razza, cervello e bellezza”. E io le ho creduto, o almeno, mi son forzato a crederle. Ma intanto c’era un’ombra di dubbio che mi rodeva, in fondo al cuor mio. C’era un non so che, in quegli occhi…»
Pezzo per pezzo il giuoco di pazienza si completava, e la vera Rebecca assumeva forma e sostanza davanti a me, e usciva dal suo mondo fittizio, come una figura che balzasse da un quadro per vivere di vita vera. Rebecca che scudisciava il suo cavallo; Rebecca che con ambe le mani afferrava la vita; Rebecca che trionfante, il sorriso sulle labbra, si sporgeva dall’alto della galleria dei menestrelli…
Mi rividi sulla spiaggia, davanti a quel povero innocente di Ben. “Voi siete buona” egli diceva. “Non come quell’altra. Non mi caccerete al manicomio, voi?” C’era qualcuno che a notte camminava tra i boschi, una figura alta e sottile. E mi pareva di vedere una serpe… Maxim parlava, parlava, camminando su e giù. «La smascherai subito» diceva «cinque giorni dopo che eravamo sposati. Ricordi quella volta che salimmo in automobile, tra le colline sopra Monte Carlo? Avevo voluto ritornare lassù, frugare nel passato. Rebecca era seduta accanto a me, ridente, i capelli neri al vento; mi parlava di lei, mi diceva cose che non ripeterò mai ad anima viva. Capii, allora, che cosa avevo fatto, a chi m’ero legato. Bellezza, cervello, razza… Oh, mio Dio!» Bruscamente egli tacque. Si avvicinò alla finestra, diede un’occhiata ai prati. Tutt’a un tratto cominciò a ridere, a ridere, d’un riso ch’io non sopportavo, che mi sgomentava, mi esasperava. «Maxim!» gridai. «Maxim!»
Egli accese una sigaretta, e per un po’ rimase lì alla finestra, a fumare, in silenzio. Poi si volse di nuovo, e riprese a camminare per la stanza. «C’è mancato poco che non la uccidessi allora» disse. «Sarebbe stato tanto facile! Un passo falso, un movimento brusco… Ricordi quel precipizio? Ti ho fatto paura, quel giorno? Avrai creduto ch’io non fossi in me. Non lo ero, forse. E ancora non lo so. A vivere col diavolo, sai, si perde l’uso della ragione.»
«Lassù, sull’orlo di quel precipizio» egli riprese, dopo una pausa in cui come affascinata seguivo i suoi passi «stringemmo un patto. “Io terrò la tua casa” mi disse Rebecca. “Te lo custodirò il tuo prezioso Manderley, ne farò il luogo più famoso in tutta la contea, un luogo che la gente verrà a vedere da lontano. E avremo una folla di amici, che ci invidieranno, e diranno che siamo la coppia più bella e felice e contenta di tutta l’Inghilterra. Che burla, Max, che burla! Che vittoria su tutti quegli imbecilli!” E s’era seduta sull’orlo dello strapiombo, e rideva, strappando un fiore tra le dita…» Maxim buttò la sigaretta a metà fumata nel caminetto spento.
«Non la uccisi» disse. «Rimasi lì a guardarla; la lasciai ridere. Poi, risalimmo in automobile e ripartimmo. E lei sapeva che avrei accettato il patto; che saremmo venuti a stabilirci qui, avremmo aperto la casa a mezzo mondo, e dato ricevimenti e feste, e che del nostro matrimonio si sarebbe parlato come d’uno dei più grandi successi mondani del secolo. Essa era certa che io avrei sacrificato orgoglio, onore, amor proprio e qualsiasi altro dannato sentimento personale, piuttosto che trovarmi di fronte al nostro piccolo mondo dopo una settimana di matrimonio, e lasciar che trapelassero le cose ch’essa mi aveva detto di sé. Sapeva che io non avrei mai tollerato una causa di divorzio, in cui avrei dovuto dar la verità in pasto all’opinione pubblica, per cui avrei visto tutte le dita puntate verso di noi, e permesso che i giornali ci coprissero di fango, e tutte le conoscenze dei dintorni avrebbero bisbigliato ogni volta che si faceva il mio nome, e tutti gli scalzacani di Kerrith che fossero passati davanti ai cancelli avrebbero fatto capolino dicendo: “Ecco dove abita, laggiù. Questo è Manderley. Quella è la villa di quel tizio, che adesso sta divorziando. Ti ricordi quel che abbiamo letto nel giornale… che cosa ha detto il giudice, di sua moglie…?”.»
Si fermò davanti a me, mi tese le mani. «Mi disprezzi, non è vero? Non puoi capire la mia vergogna, il mio obbrobrio, il disgusto?»
Non dissi nulla. Tenni le sue mani contro il mio cuore. Che m’importava della sua vergogna? Di nessuna delle cose che m’aveva detto m’importava veramente. A una sola mi aggrappavo, e la ripetevo infinite volte entro di me. Maxim non ama Rebecca. Non l’ha amata mai, mai. Non hanno mai avuto un solo momento di felicità, quand’erano insieme. Maxim parlava, e io lo ascoltavo, ma le sue parole significavano poco o nulla per me, non mi toccavano a fondo. «Avevo sempre pensato troppo a Manderley» egli diceva. «Avevo messo Manderley in primo luogo, avanti a tutto. E quel genere d’amore lì non alligna. Non è amore di cui si predica in chiesa. Cristo non ha mai parlato di pietre e mattoni e muri, dell’amore che un uomo può nutrire per il suo pezzetto di suolo, per il suo piccolo regno su questa terra. Nel credo cristiano, ch’io mi sappia, non si parla di queste cose.»
«Mio tesoro» dissi, per tutta risposta «mio Maxim, mio amore.» Premetti le sue mani contro il mio viso, vi impressi le labbra. «Capisci?» diss’egli. «Di’, capisci?» «Sì» risposi. «Mia dolcezza, mio amore.» Tuttavia, distolsi il capo, perché Maxim non mi vedesse in viso. Che importava, se lo capivo o no? Il mio cuore era leggero come una piuma. Egli non aveva mai amato Rebecca… «Mi ripugna guardare addietro, a quegli anni» disse lentamente Maxim. «Non vorrei nemmeno parlartene. La vergogna, l’avvilimento, la menzogna che vivevano assieme, lei ed io. L’abbietta, la sordida farsa che recitavamo di comune accordo. Davanti agli amici, ai parenti, persino davanti alla servitù, a creature affezionate e in buona fede come il vecchio Frith. E qui, tutti credevano a lei, tutti l’ammiravano; e non hanno mai saputo che essa rideva alle loro spalle, si burlava di loro, li scherniva… Mi tornano alla mente certe giornate, quando avevamo la casa piena di gente, per un ricevimento o una festa in giardino o altro, e lei girava al mio braccio con un sorriso angelico sul viso, e distribuiva doni a un gruppo di bimbi in costume; e poi il giorno dopo, all’alba era già in macchina, e filava all’impazzata verso Londra e andava a rintanarsi in quel suo quartierino sulla riva del Tamigi come una bestia nel suo covo, e dopo cinque giorni d’infamie, alla fine della settimana, se ne tornava qui. Oh, il patto l’ho mantenuto, per conto mio! Non l’ho tradita. Col suo gusto -all’inferno il suo gusto -essa ha fatto di Manderley la meraviglia che è oggi. I giardini, i cespugli, persino le azalee – credi che esistessero, quando era in vita mio padre? Buon Dio, era un luogo selvatico, bellissimo, sì, selvatico e solitario, bello d’una bellezza tutta sua, ma che chiedeva a gran voce una cura costante, e delle migliorie, e denaro, denaro che mio padre non avrebbe mai pensato a profondervi -e nemmeno io, in seguito, se non fosse stato per Rebecca. La metà dei mobili che vedi qui nelle stanze non c’era, in origine. La sala com’è oggi, la stanza di soggiorno -tutto ciò è di Rebecca. Quelle seggiole che Frith fa rilevare al pubblico con tanto orgoglio, nei giorni di visita -ancora Rebecca. Oh, alcuni pezzi erano in casa, certamente, ben chiusi nei magazzini; mio padre non ne capiva niente di mobili, né di pittura; ma in gran parte, mobili e quadri furono comperati da Rebecca. La bellezza di Manderley come lo vedi oggi, quel Manderley di cui tutti parlano e che si vede in fotografia e financo in pittura, è tutto opera sua, di Rebecca.» Lo tenevo stretto a me; non osavo aprir bocca, volevo ch’egli continuasse a parlare, affinché la sua amarezza si disciogliesse e venisse via, recando con sé tutto l’odio e il disgusto e le brutture che per quegli anni perduti egli aveva tenuti chiusi entro di sé.
«E così abbiamo vissuto, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro. Io accettavo tutto: per amore di Manderley. La vita che Rebecca menava a Londra non mi toccava; perché non toccava Manderley. E in quei primi anni essa fu prudente: non ci fu mai una parola, mai la minima voce sul conto suo. Poi, un poco alla volta, essa diventò negligente. Lo sai come succede, quando un uomo si dà ai bere? Prima ci va adagio, un po’ alla volta, una sbornia sul serio ogni quattro cinque mesi. E poi, le pause tra una sbornia e l’altra cominciano a 1 accorciarsi. E presto si ubbriaca una volta al mese, una volta ogni quindici giorni, e poi tutte le settimane… Non c’è più ritegno, e tutte le precauzioni segrete se ne vanno a monte. Così accadde a Rebecca. Ora essa invitava quaggiù i suoi amici personali: magari un paio alla volta, assieme alle nostre conoscenze solite, di modo che io non ero ben sicuro, non avrei potuto giurare… Ogni tanto organizzava delle merende alla casetta. Una volta che ero stato a caccia in Scozia ritornai, e la trovai là con una mezza dozzina d’uomini e donne, gente che non avevo mai visto in vita mia. L’avvertii, ma essa scrollò le spalle. “Al diavolo! Che cosa te ne importa?” mi disse. Replicai che i suoi amici li poteva vedere a Londra, ma che a Manderley ero padrone io. Ed essa aveva il dovere di rispettare il patto. Per tutta risposta, sorrise. E poi, cominciò con Frank, povero Frank, così affezionato, così timido. Un giorno egli venne da me, mi annunciò che aveva deciso di andarsene da Manderley, di cambiare occupazione. Discutemmo per due ore, qui in biblioteca, e alla fine capii. Non ne poteva più, e mi disse tutto. Rebecca non lo lasciava in pace; era sempre giù a casa sua, cercava di farlo venire alla casetta. Disgraziato Frank, che non aveva mai visto niente, che ci credeva la coppia felice e normale che fingevamo d’essere! «Quando accusai Rebecca, essa saltò su, me ne disse di tutti i colori, tutte le più sudice parole del suo vocabolario. Fu una scena disgustosa, odiosa. Dopo di che essa se ne partì per Londra e ci rimase un mese. Quando ritornò, i primi tempi rimase tranquilla, e credevo avesse messo giudizio. Bea e Giles vennero in fine di settimana da noi, e m’avvidi allora di quel che avevo sospettato già altre volte, e cioè, che Bea non aveva simpatia per Rebecca. Col suo carattere brusco, tutto d’un pezzo, doveva averla capita, doveva immaginare che c’era qualcosa che non andava, nel nostro matrimonio. Furono due giornate burrascose, piene di sorprese. Giles e Rebecca se ne andarono fuori in barca, mentre mia sorella e io c’impigrivamo sul prato. E quando tornarono, dai modi gioviali e un po’ rumorosi di Giles, da una certa fiammella negli occhi di Rebecca avrei giurato che essa ci si era provata anche con lui, come con Frank. Vidi che a cena Bea non perdeva d’occhio suo marito, che rideva più forte del solito, e parlava un po’ troppo. E intanto Rebecca, seduta là a capotavola, pareva un angelo…»
Andavano a posto, i pezzi del gioco di pazienza. Le strane forme ch’io avevo tentato di riunire assieme con le mie dita malcerte, e che non s’incastravano mai. Il fare curioso di Frank, ogni volta che nominavo Rebecca. Beatrice, e il suo atteggiamento negativo, alquanto diffidente. Quel silenzio ch’io avevo scambiato sempre per compianto e rimpianto, era fatto invece di vergogna e d’imbarazzo. Mi pareva incredibile, ora, ch’io non avessi mai compreso. Quanta gente al mondo soffre, e continua a soffrire, perché non riesce a spezzare il tessuto di riserbo e timidezza che ha ordito con le proprie mani; e nella propria cecità e follia si costruisce un gran muro storto, per nascondere la verità. Questo io avevo fatto. Nella mia mente avevo costruito immagini deformate, e m’ero torturata a contemplarle. Mai avevo avuto il coraggio di esigere la verità. Avessi mosso un sol passo fuor della mia timidezza, già quattro, cinque mesi prima, Maxim mi avrebbe detto quelle medesime cose. «Fu l’ultima domenica che Bea e Giles passarono a Manderley» diceva Maxim. «E non li ho mai più invitati soli. Vennero ai balli, alle feste in giardino, ufficialmente. Bea non mi disse mai una parola su quella giornata, né io a lei. Ma ero convinto che essa sapeva ora, e immaginava la mia esistenza. E così pure Frank. Rebecca, intanto, era tornata a essere prudente. La sua condotta, esteriormente, era impeccabile. Ma se mi accadeva di assentarmi, e di lasciarla sola a Manderley, non ero mai ben sicuro di quel che poteva succedere. C’era stata la storia di Frank, e poi quella di Giles. Era capace di buttarsi su di uno dei nostri braccianti della fattoria, su di un tale qualsiasi di Kerrith… E allora, la bomba sarebbe scoppiata. Le chiacchiere, lo scandalo che paventavo.» Mi pareva di essere là, nella casetta sull’orlo del bosco; udivo il clopclop della pioggia sul tetto. Vedevo la polvere sui modellini di navi, e la stoffa del divano rósa dai topi. Vedevo Ben, coi suoi poveri occhi imbambolati d’idiota. “Non mi caccerete mica al manicomio, eh?” E pensavo all’oscuro e ripido sentiero fra i boschi, e sentivo una veste da sera frusciare in mezzo ai tronchi, alla lieve brezza notturna.
«Essa aveva un cugino» riprese Maxim, come riluttante «un individuo che era stato parecchi anni all’estero, e poi era tornato a vivere in Inghilterra. Prese l’abitudine di venire qui ogni volta che io ero fuori. Frank lo aveva visto diverse volte. Un certoJack Favell.» «Lo conosco» dissi. «È venuto qui quel giorno che tu andasti a Londra per il pranzo…» «Lo hai visto anche tu? E perché non me l’hai detto? Io l’ho saputo da Frank, che ha visto la sua automobile svoltare e uscire dai cancelli.»
«Non mi piaceva parlartene» dissi. «Pensavo che ti avrebbe ricordato Rebecca…»
«Ricordarmi…? Oh, santo Dio, come se avessi avuto bisogno che mi si rinfrescasse la memoria!». Ora che s’era interrotto, e vagava lontano con lo sguardo, mi domandavo se anche lui, come me, pensava a quella cabina sommersa, là nella baia… «Quel Favell, essa lo faceva venire giù alla casetta» ricominciò a dire Maxim; «avvertiva la servitù che andava via col panfilio, e non sarebbe ritornata che al mattino dopo. E invece, passava là la notte con lui. Una volta ancora l’avvertii; le dissi che se mai lo avessi trovato a Manderley, dovunque fosse, lo avrei freddato con un colpo di rivoltella. Favell aveva un passato oscuro, equivoco… Alla sola idea ch’egli girasse per i boschi a Manderley, in posti come la Valle della Felicità, vedevo rosso. Ripetei a Rebecca che non l’avrei tollerato. Essa alzò soltanto le spalle. Dimenticò persino di bestemmiare. M’accorsi, quel giorno, che era più pallida del solito, nervosa, lo sguardo alterato. Mi domandai dove sarebbe andata a finire quella donna, quando avesse cominciato a sfiorire, quando si fosse sentita vecchia. E così si andò avanti per un pezzo ancora. Senza nessun avvenimento particolare. Poi, un bel giorno, essa andò a Londra. Ritornò in giornata, cosa che di regola non faceva mai. Io non l’aspettavo, infatti. Quella sera, siccome avevamo avuto parecchio lavoro in
ufficio, cenavo da Frank, a casa sua.»
Ora Maxim parlava a frasi brevi, staccate. Strinsi più forte le sue mani fra le mie.
«Ritornai quassù dopo cena, verso le dieci e mezza. E vidi la sciarpa e i guanti di Rebecca su una poltrona nel vestibolo. Per quale ragione sarà tornata? mi domandai. Entrai nella stanza di soggiorno ma essa non c’era. Subito pensai che fosse andata giù alla casetta. E tutt’a un tratto, ebbi l’impressione che non avrei più sopportato, nemmeno un minuto di più, quella vita di menzogna e di sudiciume e d’inganni. Bisognava mettere a posto le cose, in un modo o nell’altro. Mi venne l’idea di prendermi dietro una rivoltella, per mettere un po’ di paura in corpo a quell’individuo -ero sicuro che ve lo avrei trovato -anzi, a tutti e due. Andai difilato alla spiaggia. In casa, nessuno s’era accorto del mio ritorno. Uscii in giardino, e presi la via dei boschi. Vidi che c’era luce alla finestra della casetta, e senza fermarmi entrai. Con mia gran sorpresa, Rebecca era sola. Sdraiata sul divano, accanto a sé un piattino pieno di mozziconi di sigaretta. Aveva una faccia malata, da spiritata. «Subito le dissi quel che pensavo di Favell; essa m’ascoltò senza replicare una parola. “Abbiamo vissuto abbastanza a lungo questa vita di vergogna, tu ed io” dissi. “E questa volta è la fine, mi capisci? Quel che tu fai a Londra non mi riguarda. Puoi vivere col tuo Favell, o con chi ti pare e piace. Ma non qui a Manderley”. «Per un momento essa non disse nulla. Mi fissava, e sorrideva. E poi: “E se a me facesse comodo di vivere qui, eh? E allora?”.
«“Sai le condizioni” ribattei. “Io non ho forse mantenuto la mia parte del tuo sporco obbrobrioso patto? Ma tu m’hai ingannato. Tu credi di poter fare in casa mia, sulla mia proprietà quel che fai nel tuo postribolo a Londra. Ho sopportato fin che ho potuto, ma perdio, Rebecca, questa è l’ultima volta che ti parlo così”. «Ricordo come se fosse ora che essa schiacciò la sigaretta nel piattino, poi si alzò, e stirò le braccia sopra al capo. “Hai ragione, Max” disse. “Stavolta è tempo d’incominciare una pagina nuova”.
«La vedevo così pallida, così sottile. Camminava su e giù, le mani nelle tasche dei pantaloni da marinaio. Vestita a quel modo pareva un ragazzo, un ragazzo col viso di un angelo di Botticelli.
«“Hai mai pensato” essa diceva, camminando “che ti riuscirebbe maledettamente difficile farmi delle accuse? In tribunale, voglio dire. In caso tu volessi il divorzio. Ti rendi conto che non hai mai avuto uno straccio di prova contro di me, mai, fin dai primi tempi? Tutti i tuoi amici, persino i tuoi domestici credono che il nostro matrimonio sia l’apice della perfezione”. «“Già! E Frank? E Beatrice?” replicai io. «Essa gettò il capo all’indietro e scoppiò a ridere. “E che argomenti avrebbe da opporre Frank ai miei? Si vede che non mi conosci abbastanza bene, allora! In quanto a Beatrice, farebbe una bella figura, sul banco dei testimoni! La solita moglie gelosa: il marito ha perso la testa, per una volta tanto, e s’è coperto di ridicolo! Oh, no, Max, ci perderesti il tuo tempo, a voler radunare prove contro di me!” E mi guardava, dondolandosi sui tacchi, le mani in tasca, e quel sorriso sulle labbra. “E non credi che potrei indurre Danny, la mia cameriera personale, a giurare quel che voglio io, in tribunale? E che il resto della servitù, per cecità, per ignoranza o paura, seguirebbe il suo esempio e giurerebbe quel che ha giurato lei? Non c’è a Manderley chi non creda che noi viviamo come marito e moglie, no? E così tutti quanti nel nostro piccolo mondo, parenti, amici. E come vorresti provare che non è così?” E s’era seduta sull’orlo del tavolo, e dondolava le gambe, e mi guardava di sottecchi.
«“Non l’abbiamo recitata anche troppo bene, la parte di marito e moglie innamorati?” disse. Ricordo che guardavo quel piede nel sandalo a strisce ballare avanti e indietro; e sentivo che una strana fiamma m’invadeva gli occhi, e dagli occhi mi passava al cervello. «“Tra me e Danny, saremmo capaci di farti fare una bella figura” essa disse, dolcemente quasi. “Una figura così bella, che nessuno crederebbe alle tue parole, Max, nessuno”. E quel piede che ballava avanti e indietro, quel maledetto piede nel sandalo a strisce bianche e turchine…
«All’improvviso essa si lasciò scivolar giù dal tavolo e si mise in piedi davanti a me, sempre sorridente, le mani in tasca. “Se io avessi un figlio, Max” disse “né tu né altri al mondo potrebbe mai provare che non sia tuo. Crescerebbe qui a Manderley, porterebbe il tuo nome. E che cosa potresti farci tu? E alla tua morte, Manderley sarebbe suo. E che cosa potresti farci, tu? La proprietà è inalienabile, e passa di padre in figlio. Non ti piacerebbe un erede, di’, un erede per il tuo amato Manderley? Te la godresti, di’ la verità, a veder mio figlio nella sua carrozzella sotto all’ippocastano, e poi a giocare a saltamartino sul prato, e a dar la caccia alle farfalle nella Valle della Felicità? Non avresti la più grande emozione della tua vita, Max, a veder mio figlio crescere giorno per giorno, e sapere che alla tua morte tutto questo sarebbe suo?”
«Un momento ancora essa si dondolò sui tacchi, poi accese una sigaretta e andò alla finestra. Si mise a ridere. Rideva, rideva; credevo non avrebbe smesso mai. “Dio mio, com’è buffo!” diceva. “Supremamente, meravigliosamente buffo! Ebbene, non hai sentito quel che ho detto, che era tempo d’incominciare una pagina nuova? Ora ne sai la ragione. Oh, saranno felici e contenti, tutti questi poveri provinciali, e tutti i tuoi fedeli vassalli, che il diavolo se li porti! ‘Ecco quel che abbiamo sempre sperato tanto, signora de Winter!’ diranno. E dopo esser stata la moglie perfetta, Max, sarò la perfetta madre. E nessuno sospetterà mai, nessuno saprà mai…” «Girò sui tacchi e mi guardò sorridendo, una mano in tasca, tenendo la sigaretta nell’altra. Quando la uccisi, sorrideva ancora. La colpii al cuore. La palla la trapassò in pieno. Non è caduta subito, però. Per un momento ha seguitato a guardarmi così, quel lento sorriso sulle labbra, gli occhi spalancati…»
Maxim aveva abbassato la voce a un sussurro, quasi. La mano tra le mie era gelata. Non lo guardavo. Guardavo a Jasper, che s’era addormentato sul tappeto accanto a me, e ogni tanto in sogno batteva la coda. «Avevo dimenticato…» E la voce di Maxim era stanca, ora, indifferente, senza espressione «avevo dimenticato che una persona colpita a morte perde tanto sangue.» C’era un buco sul tappeto, vicino alla coda di Jasper. La bruciatura di una sigaretta. Chissà da quanto tempo era lì. Certa gente pretende che la cenere fa bene ai tappeti.
«Ho dovuto andare a prendere dell’acqua fuori» diceva Maxim. «Ho dovuto far chissà quanti viaggi avanti e indietro, dalla casa all’insenatura. Persino davanti al caminetto, che pure era lontano, c’era una macchia di sangue. E tutt’intorno, sul pavimento, là dove essa era caduta. E s’era anche alzato il vento. Le imposte non erano fermate, e sbattevano, mentre io lavoravo, a ginocchi in terra, con un asciugamano, e il secchio pieno d’acqua.»
E la pioggia sul tetto, pensavo io, non ricorda più la pioggia sul tetto. Cadeva sottile e leggera e rapida. «L’ho portata fuori, sul panfilio» diceva Maxim. «Dovevano essere le undici e mezza passate, quasi mezzanotte. Era buio pesto. Non c’era luna. Il vento era impetuoso, e veniva da ponente. L’ho portata fin nella cabina, e l’ho lasciata là. E poi, ho dovuto portare il panfilio fuor della piccola rada, contro la marea, col canotto a poppa. Avevo il vento buono, ma veniva a raffiche, e io mi trovavo sottovento, al di qua del promontorio. Ricordo che s’era impigliata la vela di maestra a mezza via su per l’albero. Era da tanto tempo che non navigavo più. E non andavo mai in mare con Rebecca. «Pensavo che presto la marea avrebbe invaso la piccola insenatura. E quel vento, che dal promontorio soffiava come da una gola di camino! Non so come riuscii a uscir fuori, nella baia, a portarmi oltre la punta; e poi, bisognava passar oltre la scogliera… C’era il fiocco che sbatteva, e da solo non potevo ripiegarlo. Una folata di vento me lo strappò di mano, lo avvoltolò attorno all’albero. Crepitava, con un rumor di fucilate; e poi, schioccava sopra alla mia testa come una frusta. E io non ricordavo più che cosa si doveva fare; non ricordavo più. Cercavo disperatamente di afferrar quella vela, che volava per aria. Venne un’altra raffica, che ci spinse alla deriva, tutto da una parte e più vicino agli scogli. Ed era buio, un buio fitto in cui non riuscivo a veder nulla, sul ponte nero e scivoloso. Non so come, a tentoni entrai nella cabina, con un grosso chiodo. Se non agivo ora, fra poco sarebbe stato troppo tardi. Ci avvicinavamo paurosamente agli scogli, e fra sei o sette minuti, col vento che ci spingeva, saremmo andati verso il largo. Apersi le valvole di scarico; l’acqua cominciò a entrare. Poi, conficcai il chiodo entro una tavola del piancito, che per poco non si spaccò in due. Estrassi il chiodo, e feci un altro buco, più in là. Già avevo i piedi nell’acqua. Lasciai Rebecca lì in terra, dopo aver inchiodato i due boccaporti, e chiuso la porta dietro di me. Quando tornai sul ponte, vidi che eravamo a meno di venti metri dagli scogli. Buttai in mare un po’ di zavorra, qualcosa che trovai lì per lì -un salvagente, un paio di remi, un rotolo di corda; e scesi nel canotto. Diedi qualche colpo di remi, poi mi fermai a guardare. Il panfilio andava alla deriva, e affondava, ora. Affondava; già la prua era tutta sommersa. Il fiocco seguitava a sbattere, a schioccare come una frusta. Se ci fosse stato qualcuno sulla scogliera, o qualche pescatore di Kerrith che si fosse attardato nella baia, e di cui non avessi visto la barca… certamente avrebbe sentito quel rumore. Il panfilio rimpiccioliva, non era più che un’ombra più nera sul nero delle acque. Poi, l’albero cominciò a scricchiolare, e si schiantò; e mentre si spezzava in due, giusto in metà, il panfilio sbandò e virò verso destra, e non lo vidi più. Il salvagente e i remi fluttuavano sulle onde. E io fissavo, fissavo quel punto dove prima c’era il panfilio… Poi a forza di remi tornai nell’insenatura. Cominciava a piovere.»
Maxim tacque, lo sguardo a terra. Poi, lentamente si volse a guardarmi. «E questo è tutto» disse. «Non c’è altro.
Lasciai il canotto amarrato alla boa, come avrebbe fatto Rebecca. Tornai nella casetta, a darvi un’occhiata. Il pavimento era ancora umido d’acqua di mare. Ma poteva esser stata lei… Per il sentiero del bosco me ne venni qui a casa, entrai, salii subito al mio spogliatoio. Macchinalmente mi tolsi di dosso gli abiti. Il vento fischiava, e pioveva forte. M’ero seduto sul letto, quando la signora Danvers bussò. Andai ad aprire, in vestaglia. Essa non era tranquilla per via di Rebecca. Le dissi di ritornare a letto, e chiusi la porta. Andai a sedermi vicino alla finestra; guardavo piovere, tendevo l’orecchio al mare che infuriava laggiù nell’insenatura…»
Tacemmo a lungo. Io stringevo sempre quelle mani gelate. Chissà perché Roberto non veniva a portar via la roba del tè…
«È affondato troppo vicino a riva» disse Maxim. «La mia idea, veramente, era diportarlo al largo, nella baia. Là, non lo avrebbero mai ritrovato. È affondato troppo vicino a riva.»
«È stato per via di quel bastimento» dissi; «se non fosse stato per quello, non sarebbe accaduto. Nessuno ne avrebbe mai saputo nulla.» «È affondato troppo vicino» ripetè Maxim. Di nuovo cadde il silenzio. Cominciavo a sentirmi mortalmente stanca.
«Lo sapevo, che un giorno sarebbe successo» disse Maxim. «Anche allora, quando sono andato a Edgecombe a identificar quel cadavere che doveva essere il suo, ho capito subito che non voleva dir niente. Non era che questione di tempo. Rebecca avrebbe vinto, alla fine. E anche l’aver trovato te… Che cosa poteva significare, che io ti amassi o no? Rebecca sapeva che in ultimo avrebbe vinto lei. Ho vistò il suo sorriso, quando moriva.» «Rebecca è morta» dissi. «È questo che importa. Rebecca è morta. Essa non può parlare, non può testimoniare nulla. Non può più farti del male.»«Ma quello è il suo corpo! Il palombaro lo ha visto. È là sul pavimento, nella cabina.»
«Bisognerà trovare una spiegazione. Dovremo trovar qualcosa da dire, una ragione qualsiasi. Sarà il corpo di qualcuno che tu non avevi mai visto, di cui ignoravi resistenza…»
«Ma ci saranno le sue cose» replicò Maxim. «Gli anelli alle dita. E se anche gli abiti fossero marciti nell’acqua, resterà pur sempre un indizio qualsiasi che li rivelerà. Non è la stessa cosa che un corpo perduto in mare, dilaniato dagli scogli. La cabina era ben chiusa; anche se vi è penetrata l’acqua, il corpo è rimasto là, sul pavimento; e il panfilio, in tanti mesi, non s’è mai mosso dal punto dov’è affondato. E nessuno ha potuto toccarvi nulla.»
«Un cadavere si dissolve nell’acqua, dimmi…?» sussurrai. «Anche se rimane lì, il mare lo corrode, non è vero?»
«Non lo so» rispose Maxim. «Non lo so.» «Come potrai scoprire, sapere?» domandai. «Il palombaro scenderà in mare domani mattina alle cinque e mezza» rispose Maxim. «Searle ha già preso tutti gli accordi necessari. Tenteranno di tirar su il panfilio. Non ci sarà nessuno presente. Ma io vado con loro. Searle manderà la sua lancia a prendermi all’insenatura. Domattina, alle cinque e mezza.» «E poi? Quando lo avranno tirato su… e dopo?» «Searle farà ancorare là il suo pontone grande, dove l’acqua comincia a diventar profonda. Se il legno del panfilio non è marcito completamente, se ancora regge insieme, l’argano potrà sollevarlo a galla. E allora, lo si potrà trasportare a Kerrith. Searle dice che farà amarrare l’alleggio alla bocca di quel fiumicello che c’è a mezza via dalla rada di Kerrith. Ci si arriva facilmente. Lì, l’acqua è bassa, e il fondo fangoso, e siccome le barche non ci si possono avventurare, non si sarà disturbati. Potremo lavorare in pace. Mi ha spiegato che faranno colar via tutta l’acqua dal panfilio, di modo che la cabina resti all’asciutto. E ci sarà una perizia medica.» «Un medico!» esclamai. «E che cosa farà…?» «Non lo so» rispose Maxim.
«Se constateranno che è Rebecca, tu devi dire che ti sei sbagliato, quando hai identificato l’altro corpo, quello che ora è nella cripta. È stato un errore, uno spaventoso errore. Dirai che quando sei andato a Edgecombe eri malato, che nonsapevi quel che ti facevi. Che non eri ben sicuro, che hai dubitato… È stato un errore, uno spaventoso errore. Dirai così, non è vero?» «Sì» rispose Maxim. «Sì…»
«Crederanno che il panfilio si sia rovesciato e sia colato a picco mentre lei era nella cabina. Essa poteva esser scesa giù per prendere una gomena, o che so io, e mentre era chiusa là dentro è venuta una furia di vento dal promontorio, e il battello ha sbandato, e lei era chiusa in trappola… Tutto questo può essere accaduto, non è vero?» «Non lo so» rispose Maxim. «Non lo so…» All’improvviso c’interruppe il trillo del telefono, dallo stanzino dietro la biblioteca.
XXI
Maxim, entrato nello stanzino del telefono, aveva chiuso la porta. Subito dopo venne Roberto a portar via i vassoi del tè. Mi alzai, andai alla finestra, volgendogli le spalle perché non mi vedesse in viso. Chissà quando si sarebbe cominciato a sapere: nelle stanze della servitù, alla fattoria, a Kerrith… Quanto tempo ci voleva prima che una notizia simile trapelasse? Lo ignoravo. Dallo stanzino mi giungeva la voce attutita di Maxim. L’ansia mi dava una specie di contrazione alla bocca dello stomaco. Quel trillo di telefono sembrava avesse scosso tutti i nervi del mio corpo. Seduta in terra accanto a Maxim, come in sogno, la sua mano nella mia, avevo ascoltato la sua storia, e una parte di me aveva seguito le sue orme come un’ombra. Anch’io avevo ucciso Rebecca, anch’io avevo colato a fondo il panfilio nella baia. Accanto a lui avevo teso l’orecchio alle voci del vento e del mare. Avevo atteso che la signora Danvers bussasse alla porta. Tutto ciò io avevo sofferto con lui, tutto ciò, e altro ancora. Ma un’altra parte di me era seduta lì sul tappeto, distaccata e impassibile, e non pensava, e non sentiva che una cosa sola, e all’infinito ripeteva una frase: «Egli non amava Rebecca, egli non amava Rebecca». Ora, al trillo acuto del telefono, quelle due parti si fondevano e tornavano a essere una: quella ch’io ero stata sempre, e che non era per nulla mutata. Eppure, mi sentivo pervasa da un sentimento nuovo, finora non provato mai. Il mio cuore, nonostante le ansie e i dubbi, era leggero, libero. Sapevo, ora, che non avevo più paura di Rebecca. Non la odiavo più. Proprio ora che sapevo quanto ella fosse stata malvagia e viziosa e corrotta, non la odiavo più. Ella non poteva più farmi male. Senza tema avrei potuto andare nella stanza di soggiorno, e sedermi al suo scrittoio e toccare la sua penna e guardare le etichette scritte da lei sugli scomparti. Avrei potuto andare nella sua stanza, nell’ala a ponente, e affacciarmi alla finestra, come già avevo fatto stamane, e nessun terrore m’avrebbe assalita. Come la nebbia d’oggi, ogni potere di Rebecca s’era dissolto nell’aria. Mai più Rebecca m’avrebbe perseguitata come un fantasma. Mai più l’avrei sentita dietro di me sulle scale, e seduta accanto a me in sala da pranzo; mai più ella si sarebbe affacciata dall’alto della galleria a spiarmi, mentr’ero giù nel vestibolo. Maxim non l’aveva mai amata. E io non la odiavo più. Il suo cadavere era ritornato, era stato ritrovato il suo panfilio, dal bizzarro e profetico nome, Je reviens, ma io m’ero liberata per sempre di lei. Ero libera ormai di vivere con Maxim, di accarezzarlo, di serrarlo a me, e d’amarlo. Non sarei mai più. stata una bambina. Non avrei più detto “io”, “io”, sempre e soltanto “io”; ma “noi”, e “tu ed io”. Avremmo vissuto uniti. Insieme, lui ed io, avremmo affrontato la tragedia. Il capitano Searle, il palombaro, Frank, la signora Danvers, e Beatrice, e gli abitanti di Kerrith che leggevano i giornali… né questi, né altri potevano dividerci. La nostra felicità non era giunta troppo tardi. Io non ero più una giovinetta inesperta. Non avevo paura. Avrei lottato per Maxim. Avrei giurato e spergiurato e mentito, bestemmiato e pregato. Rebecca non aveva vinto. Rebecca aveva perduto.
Roberto aveva portato via piatti e tazze, e Maxim rientrava.
«Era il colonnello Julyan» disse; «ha parlato poco fa con Searle, che gli ha detto tutto. Domani verrà con noi a vedere il battello.» «Chi è. il colonnello Julyan?»
domandai. «È il giudice conciliatore di Kerrith. Deve essere presente.»
«E che cosa ha detto?»
«Mi ha domandato se avevo una lontana idea di chi potesse essere quel cadavere.»
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho risposto che non avevo alcuna idea. Che avevamo creduto sempre che Rebecca fosse sola. Che ignoravo se si potesse trattare di una persona amica.» «E lui
ha detto altro ancora, dopo di questo?» «Sì.»
«Che cosa?»
«Ha detto se credevo possibile di essermi sbagliato, quando sono andato a Edgecombe.» «Ha detto così? Ha già detto così?» «Sì.» «E tu…?»
«Ho detto che era possibile. Che non sapevo.» «Verrà con te domani, quando andrete a vedere il battello? Lui, il capitano Searle, e un medico…» «E anche l’ispettore Welch.» «L’ispettore Welch?» «Sì.»
«Perché? Perché l’ispettore Welch?» «È l’uso, quando è stato rinvenuto un cadavere.» Non dissi nulla. Ci guardammo muti. Sentivo ritornarmi il dolore alla bocca dello stomaco. «Potrebbe darsi che non si riesca a tirare a galla il battello»
dissi. «Già» replicò Maxim.
«E in quel caso, che cosa potrebbero fare per il cadavere? Nulla, non è vero?»
«Non lo so.» Egli guardò fuor della finestra. Il cielo era carico. Tutto nuvoloni
bianchi, come quando ero venuta via dagli scogli. Ma non c’era affatto vento. L’aria era immota.
«Avrei detto che si sarebbe alzato il vento di sud-ovest, un’ora fa, invece è di nuovo caduto» disse Maxim. «Già» risposi.
«Domani il palombaro avrà un bel mare calmo.»
Il telefono suonò di nuovo, dallo stanzino. Quell’invito stridulo urgente del campanello mi dava ai nervi. Maxim e io ci guardammo. Poi, egli andò a rispondere; e anche stavolta chiuse la porta dietro di sé. Quel dolore alla bocca dello stomaco non mi lasciava, intanto. E mi riportava addietro, ai giorni della mia infanzia. Era lo spasimo che avevo provato quando ero piccola, e udivo la campana dei pompieri risonare per le vie di Londra, e rabbrividendo, senza capire mi rannicchiavo dietro una piccola credenza in un sottoscala. Era la stessa impressione, lo stesso dolore.
Maxim ritornava. «Ci siamo» disse, lentamente. «Che vuoi dire? Che cosa succede?» scattai, coperta da un improvviso sudor diaccio.
«Era un giornalista. Uno della Cronaca della Contea. Voleva sapere se è vero che è stato ritrovato il panfilio della defunta signora de Winter.» «E tu…?»
«Gli ho detto che è stato ritrovato un piccolo battello, ma che per ora è tutto quanto sappiamo. Potrebbe anche essere un altro.»
«E ha domandato… questo soltanto?» «No. Mi ha domandato se potevo confermare la voce, che nella cabina era stato trovato un cadavere.» «No!»
«Sì. Qualcuno avrà parlato. Non Searle, ne sono certo. Ma il palombaro, o un amico suo. Non si può chiuder la bocca a questa gente. Forse domani mattina, la storia avrà già fatto il giro di Kerrith.» «E che cosa hai risposto, del cadavere?» «Ho detto che non ne sapevo nulla. Che non avevo da far nessuna dichiarazione. E che gli sarei stato molto riconoscente se non mi avesse più telefonato.» «Li irriterai. Li avrai tutti contro di te.» «E come far diverso? Io non faccio dichiarazioni ai giornali. E non voglio che quella gente mi secchi con telefonate e domande indiscrete.» «Potrebbe darsi che avessimo bisogno di loro…» dissi. «Se la lotta ci sarà, lotterò da solo» disse Maxim. «Non ho bisogno d’esser spalleggiato da un giornale.» «Quel giornalista telefonerà a qualcun altro. Si attaccherà al colonnello Julyan, o al capitano Searle.» «Non caverà da loro gran che.»
«Se soltanto potessimo far qualcosa!» esclamai. «Tutte queste ore di attesa! E doversele star seduti qui a far niente, fino a domani mattina.» «Bisogna aver pazienza» disse Maxim. Rimanemmo in biblioteca. Maxim aveva preso un libro, ma sentivo che non leggeva. Ogni tanto lo vedevo alzar la testa e restare in ascolto, come se sentisse ancora il telefono. Ma nessuno ci disturbò più. Ci vestimmo per la cena, come al solito. Mi parve incredibile che a quella stessa ora, la sera avanti, io avessi indossato la veste di seta bianca e, seduta davanti allo specchio, mi fossi accomodata in testa la parrucca inanellata. Quelle reminiscenze mi facevano l’effetto di un vecchio incubo da tempo obliato, qualcosa che si rammenta molti mesi dopo, tra dubbio e incredulità. Dopo cena ritornammo nella biblioteca. Parlammo poco. Io sedevo ai piedi di Maxim, la testa sulle sue ginocchia. Egli mi passava le dita tra i capelli; ma non più con l’antico gesto astratto, non più come se carezzasse Jasper. Sentivo le punte delle sue dita sfiorarmi la cute. Talvolta si curvava a baciarmi. Talvolta mi diceva qualche parola. Non c’era un’ombra tra noi, e quando tacevamo, era perché preferivamo il silenzio. Mi stupivo di poter essere tanto felice, quando il piccolo mondo attorno a noi era così nero. Strana sorta di felicità, la nostra, non certo quella che avevo sognato, o che m’ero attesa; non quella che avevo immaginato nelle mie ore solitarie. Era, questa, una felicità che non aveva nulla di febbrile, né di emozionante. Una felicità quieta. Le finestre erano spalancate, e quando non ci parlavamo e non ci accarezzavamo, guardavamo fuori, al cielo plumbeo e pesante. Certo piovve nella notte, poiché quando al mattino dopo mi svegliai e mi alzai, poco dopo le sette, vidi che le rose in giardino erano curve sugli steli, e i declivi erbosi che davano al bosco, umidi, scintillavano come argento. C’era nell’aria un effluvio di nebbia e di terra bagnata, l’odore che viene d’autunno, al primo cader delle foglie. Che l’autunno giungesse precoce, due mesi prima del tempo? Maxim non mi aveva svegliata, quando s’era alzato, alle cinque. Senza rumore doveva esser sceso dal letto, per andare in camera da bagno e di là nello spogliatoio. A quest’ora era nella baia, con il colonnello Julyan, il capitano Searle, e gli uomini del porto. C’era anche il pontone, l’argano e le catene, e a poco a poco il battello di Rebecca saliva alla superficie. Con calma, freddamente, senza animosità vedevo la scena. Mi figuravo tutta quella gente nella baia, e il piccolo scafo annerito che lentamente saliva, saliva a fior d’acqua, gonfio, gocciolante, incrostato tutto di conchiglie e di alghe verdastre. Quando l’argano lo sollevava, rendeva al mare cascatelle d’acqua. Il legno appariva molle, grigiastro, marcio in certi punti; e nell’aria si diffondeva un odor di fanghiglia e di ruggine, e di quelle certe alghe nerastre che si abbarbicano attorno a scogli che il mare non scopre mai.
Forse l’insegna col nome era rimasta attaccata, a poppa, i chiodi rugginosi, le lettere verdi sbiadite. Je reviens. E Rebecca era là, distesa sul pavimento della cabina… Mi alzai, feci il bagno, mi vestii e scesi a colazione alle nove: tutto come al solito. C’era un mucchio di lettere, sul vassoio al mio posto. Persone che ci ringraziavano per il ballo. Le scorsi, senza leggerle tutte. Frith voleva sapere se doveva tenere la colazione in caldo per Maxim. Gli risposi che aveva dovuto uscire molto per tempo, e non sapevo quando sarebbe stato di ritorno. Frith non replicò nulla. Aveva un’aria molto solenne, molto grave. E mi domandai se anche lui non sapesse già…
Finito di far colazione, portai le mie lettere nella stanza di soggiorno. C’era odor di rinchiuso, le finestre non erano state aperte. Le spalancai, lasciando entrare l’aria fresca e viva. I fiori sui mobili languivano, molti erano appassiti. Sul pavimento c’erano dei petali caduti. Suonai il campanello; e si presentò Maud, la seconda cameriera di casa.
«Questa stanza non è stata toccata, stamattina» dissi «persino le finestre erano chiuse. I fiori sono appassiti. Per piacere, portateli via.»
Maud apparve nervosa e mortificata. «Mi dispiace, signora» disse. E subito prese i vasi ch’erano sul caminetto. «State attenta a che non succeda più» dissi. «No, signora.» La ragazza uscì, portandosi dietro i fiori. Non avevo creduto che fosse così facile essere severi. Chissà perché mai prima mi riusciva così male? Sullo scrittoio c’era la lista del pranzo. Salmone freddo con salsa alla maionese, costolette in gelatina, galantina di pollo, sformato. Riconobbi tutti i piatti rimasti dalla sera del ballo. Ancora vivevamo di resti: era evidente. E questa doveva anche essere la colazione fredda che era stata servita ieri e che io non avevo toccato. In cucina si prendevano le cose con calma, a quanto pareva. Con un tratto di matita cancellai la lista e suonai per Roberto. «Dite alla signora Danvers che ordini qualche cosa di caldo» gli dissi. «Se è rimasta ancora molta roba fredda, preferiamo non ci venga servita in sala da pranzo.» «Benissimo, signora» egli rispose. Andai allo stanzino dei fiori a cercare un paio di forbici, poi uscii in giardino, per tagliare qualche bocciolo. Il fresco era già dileguato, e la giornata prometteva d’esser calda e afosa come il giorno avanti. Chissà se gli uomini erano ancora nella baia, o se erano tornati al porto di Kerrith? Fra poco l’avrei saputo; Maxim sarebbe tornato a dirmelo. Qualsiasi cosa accadesse, dovevo esser calma e tranquilla. Non dovevo spaventarmi. Tagliai le rose e le portai nella stanza di soggiorno. Il tappeto era stato battuto, e scopati via i petali caduti. Cominciai ad accomodare i fiori nei vasi che Roberto aveva riempito d’acqua; avevo quasi finito, quando bussarono alla porta. «Avanti» dissi.
Era la signora Danvers. Aveva in mano la lista del pranzo. Appariva pallida e affaticata, con gli occhi cerchiati di scuro.
«Buon giorno, signora Danvers» dissi. «Non capisco» cominciò a dire «perché mi abbiate mandato la lista del pranzo per mezzo di Roberto. Perché?…»
Una rosa in mano, la interruppi. «Quelle costolette e quel salmone ci sono già stati mandati su ieri. Oggi preferirei qualcosa di caldo. Se non vogliono mangiare la roba fredda in cucina, buttatela via. C’è già tanto spreco in questa casa, che un po’ più, un po’ meno non farà una gran differenza.»
La vecchia mi fissava, muta. Misi la rosa nel vaso insieme alle altre.
«Non mi dite che non sapete che cosa darci» proseguii. «Dovete avere un’infinità di ricette, per tutte le occasioni, in camera vostra.»
«Non sono abituata a ricevere ordini per mezzo di Roberto» disse la signora Danvers. «Quando la signora de Winter desiderava qualche cambiamento, mi chiamava personalmente al telefono.»
«Ho paura che m’interessi ben poco quel che faceva la signora de Winter» ribattei. «La signora de Winter sono io, se non vi dispiace. E se preferisco mandarvi a dire qualche cosa per mezzo di Roberto, non c’è niente che m’impedisca di farlo.»
In quel momento entrò Roberto. «La Cronaca della Contea è al telefono, signora» disse.
«Dite che non sono in casa» replicai. E alla signora Danvers, non appena Roberto fu uscito: «Dunque, signora, se non avete altro da dire, sarà meglio che andiate a dare gli ordini per il pranzo caldo. Io ho da fare, come vedete».
«Che cosa avrà voluto da voi, la Cronaca della Contea?» ella domandò, finalmente.
«Cara signora Danvers, non ne ho la più lontana idea.» «È vero» ella disse, titubante «la storia che Frith ha portato ieri sera da Kerrith, che è stato ritrovato il battello della signora de Winter?» «Si dice questo? Mi dispiace, ma non ne so niente.» «Il capitano Searle è ben venuto qui ieri… L’ho saputo da Roberto… E quel che ha detto Frith, che il palombaro, scendendo giù per via del bastimento incagliato, aveva trovato il battello…»
«Sarà vero. Però, sarebbe meglio che chiedeste tutte queste cose al signor de Winter, quando ritornerà.» «Dicono poi che nella cabina del battello abbiano ritrovato un cadavere. Così mi ha raccontato Frith» ella proseguì, imperterrita. «Ma perché, uncadavere? La signora de Winter andava sempre via sola,» «È inutile domandare a me, signora Danvers. Io ne so quanto voi» dissi.
«Davvero?» Ella non si muoveva. Andai a posare il vaso sul tavolino davanti alla finestra. «Vado a dare gli ordini per il pranzo» ella concluse finalmente, e uscì. “Non mi metti più paura”, pensavo. “Con Rebecca, anche tu hai perso ogni tuo potere. Qualsiasi cosa tu dica o faccia, non mi tocchi più, né mi fai più male. So che mi sei nemica; ma che me ne importa?”
Ma se la vecchia fosse venuta a sapere la verità sul cadavere nella cabina, e se anche lei si fosse messa contro a Maxim… che sarebbe stato allora? Posai le forbici sul tavolino, e mi sedetti. Non avevo voglia di continuare ad accomodare le rose. Che cosa faceva Maxim? E perché la Cronaca della Contea aveva di nuovo telefonato? Ecco che tornava ad assalirmi il dolore alla bocca dello stomaco… Andai ad affacciarmi alla finestra. Faceva molto caldo; e c’era in aria un lontano rombo di tuono. I giardinieri s’erano messi di nuovo a tagliar l’erba: in cima al declivio vedevo la falciatrice andare avanti e indietro. Non potevo stare eternamente rinchiusa in quella stanza; lasciai forbici e rose e uscii sulla terrazza, tanto per muovermi un poco. Jasper mi correva fra le gambe; forse avrebbe voluto che lo portassi a fare una passeggiata. Erano le undici e mezza circa, quando Frith uscì dal vestibolo. «C’è il signor de Winter al telefono, signora» mi disse.
Mi affrettai nello stanzino dietro la biblioteca. Mi tremavano le mani quando presi il ricevitore. «Sei tu?» disse una voce. «Sono Maxim. Parlo dall’ufficio. Sono con Frank.» «Ebbene?» replicai.
Ci fu una pausa. «Porto Frank e il colonnello Julyan a pranzo. Arriveremo per
l’una» disse Maxim. «Sì…» Tacqui, in attesa ch’egli proseguisse.
«Hanno potuto tirare su il battello. Sono tornato ora dal mare.» «Sì…»
«C’era Searle, e il colonnello Julyan, e Frank, e gli altri…» Pensai che forse Frank
era vicino a lui, al telefono, e questa era la ragione per cui egli era così freddo e lontano.
«Dunque, aspettaci per l’una.»
Posai il ricevitore. Maxim non mi aveva detto nulla. Ancora non sapevo ciò che era accaduto. Ritornai sulla terrazza, dopo aver detto a Frith che saremmo stati in quattro a pranzo, invece di due.
Un’ora si trascinò, lenta, interminabile. Salii, e indossai un vestito più leggero, poi ridiscesi e mi sedetti nella sala, ad aspettare. All’una e cinque udii la ghiaia del viale strider sotto le ruote d’una macchina, e subito dopo un brusio di voci nel vestibolo. Mi ravviai in fretta i capelli, davanti allo specchio. Mi vidi bianca in viso, tanto che mi diedi qualche buffetto alle guance per farvi fluire un po’ di colore, e in piedi attesi gli ospiti. Entrò prima Maxim, poi Frank, e il colonnello Julyan. Rammentai d’aver visto quest’ultimo vestito da Cromwell, al ballo. Ora lo trovavo diverso, striminzito, più piccolo in complesso.
«Come state?» egli mi disse. Aveva un tono pacato, grave, come un dottore.
«Di’ a Frith di portare lo sherry» mi disse Maxim. «Io vado a lavarmi le mani.»
«Ne avrei bisogno anch’io» disse Frank. Prima ancora ch’io avessi suonato il campanello entrò Frith con lo sherry. Il colonnello Julyan non ne volle; io presi uno dei bicchieri, tanto per aver qualcosa da reggere in mano.
«Questo è un seguito di cose davvero spiacevoli, signora» disse il colonnello Julyan con gentilezza, venendomi vicino nel vano della finestra. «Credetemi, provo una gran pena per voi, e per vostro marito.» «Grazie» risposi. A piccoli sorsi vuotai il bicchiere, e lo posai sul tavolino. Temevo che il colonnello si accorgesse del tremito della mia mano.
«Ciò che ci creerà delle difficoltà è il fatto che vostro marito ha identificato quel corpo, circa un anno fa» egli disse.
«Non capisco bene…» replicai.
«Non avete dunque sentito, che cosa abbiamo trovato questa mattina?»
«Sapevo che c’era un cadavere. Il palombaro aveva trovato un cadavere.»
«Già» replicò il colonnello. E poi, con una esitante occhiata verso il vestibolo; «Ho paura che sia… quello di lei, anzi, non ne dubito» disse, abbassando la voce. «Non posso entrare in particolari con voi, ma a vostro marito e al dottor Phillips è bastato vederlo, per identificarlo.»
Bruscamente tacque, scostandosi da me. Maxim e Frank rientravano.
«Il pranzo è pronto. Se vogliamo andare…» disse Maxim.
Mi avviai per la prima, il cuore greve e freddo come una pietra. Sedemmo, il colonnello alla mia destra, Frank alla mia sinistra. Evitai di guardare Maxim. Frith e Roberto servivano la prima portata, mentre si parlava del tempo.
«Ho visto dai giornali che ieri a Londra il termometro è andato sopra ai trenta» disse il colonnello Julyan. «Davvero?» feci io.
«Già. Dev’essere spaventoso per quei poveri diavoli che non possono andarsene via.» «Sì, spaventoso» dissi.
«A Parigi può far molto più caldo che a Londra» disse Frank. «Ricordo d’essermi trovato una volta a Parigi alla metà d’agosto, ed era impossibile dormire. Non c’era un filo d’aria in tutta la città. Avevamo più di quaranta gradi.»
«E i francesi, si capisce, dormono sempre con le finestre chiuse?» disse il colonnello.
«Non lo so» rispose Frank. «Io stavo in un albergo dove erano quasi tutti
americani.»
«Voi conoscete bene la Francia, non è vero, signora de Winter?»
«Non troppo bene» risposi. «Ah! Credevo aveste vissuto là per molti anni.» «Mia moglie si trovava a Monte Carlo quando l’ho conosciuta. Mi figuro che non chiamerete mica Monte Carlo la Francia, no?» intervenne Maxim. «No, certamente no» disse il colonnello. «Dev’essere un luogo alquanto cosmopolita. Ma quel tratto della costa è bello, non è vero?» «Molto bello» risposi io.
«Non è così accidentata come la nostra, eh? Però, non so quale preferisco. Quando si trattasse di viverci, sceglierei ancora e sempre l’Inghilterra. Qui, almeno, si sa con chi si ha da fare.»
«Forse i francesi pensano lo stesso della Francia» disse Maxim.
«Oh, non ne dubito» disse il colonnello. Per un po’ mangiammo in silenzio. Frith era in piedi dietro la mia seggiola. Eravamo tutti dominati dal medesimo pensiero, ma per via del maggiordomo continuavamo a recitare la nostra piccola commedia. Forse pensava anche lui alle stesse cose; e io riflettevo quanto più semplice sarebbe stato, se avessimo buttato all’aria le convenienze e avessimo sentito anche il suo parere, posto ch’egli ne avesse uno. Roberto servì il vino, poi ci cambiò i piatti. Venne la seconda portata.
La signora Danvers aveva rispettato il mio desiderio di un pranzo caldo. Presi un po’ di uno stufato coperto con salsa di funghi.
«Ci siamo divertiti tutti un mondo alla vostra bellissima festa, l’altra sera» disse il colonnello Julyan. «Mi fa piacere.»
«Quelle cose lì sono un gran bene, per il paese» egli osservò.
«Senza dubbio» replicai.
«Dev’essere un istinto universale della specie umana, questo desiderio di
mascherarsi in qualche modo» disse Frank.
«Io direi che è anche piuttosto inumano» disse Maxim. «E io suppongo che sia naturale» disse il colonnello Julyan. «Tutti quanti noi desideriamo di apparire diversi da quello che siamo. In certo modo, siamo tutti bambini.»
Mi domandai quale soddisfazione egli avesse provato a travestirsi da Cromwell. Lo avevo visto poco, al ballo; se n’era stato quasi sempre nel salotto di soggiorno, a
giocare a bridge.
«Giocate al golf, signora de Winter?» mi domandò il colonnello.
«No, purtroppo no.»
«Dovreste mettervici. La prima delle mie figliole è molto brava, e si lamenta sempre che non trova gioventù per giocare. Per la sua festa le ho regalato una piccola macchina, ed essa va quasi tutti i giorni alla costa settentrionale. Così almeno ha qualcosa da fare.» «Che bella cosa» dissi.
«Avrebbe dovuto nascer maschio, quella. Il mio figliolo è tutto diverso. Non è affatto sportivo. Sempre a scribacchiar versi. Speriamo che gli passi, col tempo.» «Oh, gli passerà» disse Frank. «Anch’io facevo versi, quando avevo la sua età. Un mucchio di fandonie. Adesso, mi guarderei bene dallo scriver roba simile.» «Buon Dio, speriamo che non ti capiti!» disse Maxim. «Non so davvero da chi abbia preso quella mania, mio figlio» continuò il colonnello. «Non certo da sua madre, né da me.»
Ci fu un altro lungo silenzio. Il colonnello Julyan si servì una seconda volta lo stufato. «La signora Lacy stava molto bene, l’altra sera» disse. «Sì» dissi io.
«Col vestito di traverso, come al solito» disse Maxim. «Quei costumi orientali devono essere piuttosto complicati ad indossarsi» disse il colonnello. «Eppure, dicono che siano molto più comodi, e anche più freschi a portarsi degli abiti delle nostre signore inglesi.» «Davvero?» feci io.
«Già, così ho sentito. Sembra che tutti quei panneggiamenti tengano lontano il calore dei raggi del sole.» «Curioso!» osservò Frank. «Si direbbe che debba far l’effetto contrario.»
«E invece non è così.»
«Conoscete l’Oriente, colonnello?» domandò Frank. «Conosco l’Estremo Oriente» rispose Julyan. «Sono stato in Cina per cinque anni. E poi a Singapore.» «Non è il paese dove si mangia il curry?» domandai. «Sì, a Singapore ci davano del curry che era proprio eccellente.»
«A me piace molto il curry» disse Frank. «Ah, ma in Inghilterra non è curry, è un guazzabuglio!» disse il colonnello.
Roberto ci cambiò di nuovo i piatti. Venne servito uno sformato dolce, con dell’insalata di frutta. «Mi figuro che i vostri lamponi saranno ormai alla fine, non è vero, signora?» Il colonnello Julyan si rivolgeva a me. «Ma è stata una stagione magnifica per i lamponi; noi abbiamo messo via dei barattoli di marmellata a dozzine.»
«Io trovo che la marmellata di lamponi ha i suoi svantaggi» opinò Frank. «Tutti quei granelli…» «Venite un giorno ad assaggiare la nostra» disse il colonnello. «Non mi sembra davvero che ci siano troppi granelli.»
«Quest’anno avremo un subisso di mele a Manderley» disse Frank. «Appunto dicevo a Maxim, pochi giorni fa, che batteremo il primato. E ne manderemo un bel po’ a Londra.»
«Trovate che ne vale la pena?» disse il colonnello. «Quando avete pagato gli uomini per il lavoro in soprappiù, e poi l’imballaggio, e il trasporto, ne ricavate ancora un guadagno?» «Oh, Signore! Sicuro» disse Frank. «Interessante. Bisognerà che lo dica a mia moglie.» Non ci volle molto per finire il dolce e la macedonia di frutta. Roberto comparve col formaggio, e pochi minuti dopo, Frith serviva il caffè e le sigarette. Poi, entrambi uscirono, chiudendo la porta. In silenzio sorbimmo il caffè.
Io non staccavo gli occhi dal piattino.
«Dicevo a vostra moglie prima di pranzo, de Winter…»
Il colonnello aveva ripreso il pacato tono confidenziale di prima. «Dicevo, che la parte più imbarazzante di tutta questa critica faccenda è il fatto che voi abbiate identificato quel primo cadavere.» «Sì, avete ragione» disse Maxim. «L’errore era più che naturale, date le circostanze» intervenne Frank, pronto. «Quando le autorità scrissero a Maxim invitandolo ad andare a Edgecombe, prima ancora che arrivasse presupponevano l’identità del cadavere. E Maxim stava tutt’altro che bene, a quell’epoca. Io volevo accompagnarlo, ma lui ha insistito per andarci solo. Non era davvero in condizioni di sopportare una cosa simile.»
«Assurdo» protestò Maxim. «Stavo benissimo.» «Insomma, ormai è inutile tornarci sopra» disse il colonnello Julyan. «Quella prima identificazione c’è stata, e l’unica cosa che vi resta è di ammettere l’errore. E questa volta sembra che non vi sia dubbio.» «No» disse Maxim.
«Vorrei potervi risparmiare le formalità, e la pubblicità dell’inchiesta» disse il colonnello Julyan «ma ho paura che sarà impossibile.» «È naturale» disse Maxim.
«Però non credo che sarà una faccenda lunga» disse il colonnello Julyan. «Non si tratterà che di riconfermare l’identificazione, e poi quel Tabb, che a quanto dice aveva trasformato il battello dopo che vostra moglie lo aveva comperato in Francia, testimonierà che esso era in buono stato e in ordine, l’ultima volta che uscì dal suo cantiere. Sono tutte formalità, capite, ma non se ne può fare a meno. No, quel che mi preoccupa è che, sfortunatamente, ci sarà molta pubblicità. Una cosa triste e spiacevole per voi e per vostra moglie.»
«Oh, è certo che sarà così» disse Maxim. «Ma noi comprendiamo.»
«Una vera sciagura, che quel bastimento sia venuto a incagliarsi proprio qui» disse il colonnello Julyan. «Se non fosse stato per quello, l’intera faccenda avrebbe riposato in pace.» «Già» disse Maxim.
«L’unica consolazione che ci resta è sapere che la morte della povera signora de Winter dev’essere stata rapida, quasi improvvisa, non quell’orribile fine laboriosa e lenta come tutti abbiamo creduto. E non avrà nemmeno avuto la possibilità di tentar di salvarsi buttandosi a nuoto.» «No» disse Maxim.
«Essa deve essere scesa a prendere qualche cosa, e la porta ha sbattuto, si è chiusa, e una raffica ha investito il battello senza che ci fosse qualcuno al timone» disse il colonnello. «Una cosa orribile… ma mi sembra che non ci sia altra versione. Che ne dite, Crawley?» Il colonnello si volse a Frank.
«Oh, non c’è dubbio» disse Frank. Alzai gli occhi, e vidi che Frank guardava Maxim. Immediatamente distolse lo sguardo, ma non prima ch’io potessi cogliere l’espressione dei suoi occhi, e capire. Frank sapeva. E Maxim non sapeva ch’egli sapesse. Seguitavo a rigirare il cucchiaino nel caffè. Mi sentivo la mano calda, sudata.
«A tutti quanti accade di sbagliarci, una volta o l’altra, e poi dobbiamo sopportarne le conseguenze.» Il tono del colonnello era grave. «La signora de Winter doveva pur sapere che in quella baia il vento soffia come se venisse giù da una cappa di camino, e sapeva anche, mi figuro, che non è mai prudente abbandonare il timone di un battello così piccolo. Sarà passata chissà quante volte da sola per quel tratto di mare. E poi, è venuto quel momento che essa è stata un po’ troppo rischiosa… e ci harimesso la vita. È una lezione per tutti noi.» «Gli incidenti succedono così presto» disse Frank «anche a gente che ha esperienza. Pensate a quante persone muoiono ogni anno durante le cacce.» «Oh, lo so. Ma generalmente è il cavallo che cade, e vi trascina con sé. Se la signora de Winter non avesse abbandonato il timone, la disgrazia non sarebbe mai successa. Straordinario davvero, che essa l’abbia fatto. L’ho osservata non so quante volte nelle regate del sabato a Kerrith, e non le ho mai visto commettere un errore così elementare. Quella era una cosa che avrebbe potuto fare un novellino! E proprio in quel punto, vicino allo scoglio.»
«Quella notte il vento era molto cattivo» disse Frank «può darsi che sia successo qualche cosa con l’attrezzatura. Qualche gomena che si sia impigliata… Ed essa sarà scesa a cercare un coltello.»
«Certo. Certo. Bah, non sapremo mai… e intanto, anche se sapessimo non credo ci aiuterebbe molto. Come ho detto, vorrei poter impedire l’inchiesta, ma non si può. Sto appunto cercando di disporre perché tutto quanto sia liquidato. martedì mattina, nel modo più breve possibile. Nient’altro che una formalità. Ma ho ben paura che non potremo chiuder la porta in faccia ai giornalisti.» Ci fu un altro silenzio. Giudicai fosse venuto il momento di alzarmi da tavola. «Vogliamo andare in giardino?» dissi.
Ci alzammo tutti, e io mi avviai per prima verso la terrazza. Il colonnello Julyan accarezzò Jasper. «S’è fatto un bel cane» disse. «Sì» dissi io. «Sono così affettuosi.» «Sì» dissi io.
Rimanemmo lì un momento ancora, indecisi. Poi il colonnello guardò il suo orologio. «Grazie per il vostro pranzo, davvero squisito» disse. «Ma ho davanti a me un pomeriggio piuttosto laborioso, e spero mi scuserete se scappo.»
«Oh, certamente» dissi.
«Sono veramente addolorato di quanto è accaduto. Vi accerto che avete tutte le mie simpatie, signora. E mi pare che debba essere ancora più spiacevole per voi che per vostro marito. In ogni modo, una volta passata l’inchiesta dovete cercar di dimenticare ogni cosa, tutti e due.» «Sì, sì, è quel che cercheremo di fare.» «La macchina è rimasta là sul viale. Chissà se Crawley vorrebbe approfittare… Crawley? Posso lasciarvi all’ufficio, se vi fa comodo.»
«Grazie, colonnello,» disse Frank. E si avvicinò a stringermi la mano. «Ci vediamo presto.» «Sì» replicai, senza guardarlo. Temevo che avrebbe letto troppo nei miei occhi. Non volevo ch’egli capisse ch’io sapevo.
Maxim accompagnò i due all’automobile, e quando furono partiti ritornò da me, sulla terrazza. Mi prese per il braccio, e insieme restammo lì a guardare i prati verdi che scendevano al mare, e la punta sul promontorio. «Vedrai che tutto andrà bene» disse Maxim. «Io sono calmo, e pieno di fiducia. Hai visto com’era Julyan a colazione, e anche Frank? Non ci sarà alcuna difficoltà, all’inchiesta. Andrà tutto bene.» Non replicai nulla. Stringevo forte il suo braccio. «Nessuno ha pensato, neppure per un momento, che quel corpo potesse essere quello di una sconosciuta» egli disse. «Ciò che si poteva vedere sarebbe bastato per identificarlo al dottor Phillips, anche senza di me. Era una cosa semplice, categorica. E non c’era traccia di quel che avevo fatto io. La pallottola non aveva toccato l’osso.» Una farfalla svolazzò accanto a noi sulla terrazza, fantasiosa e inconseguente.
«Hai sentito quel che hanno detto» seguitò Maxim. «Suppongono che essa sia stata colta in trappola nella cabina. E i giurati crederanno la stessa cosa, all’inchiesta. Il dottore dirà loro che è stato così.» Egli tacque. E io tacevo con lui.
«È per te soltanto che mi tormento» egli riprese. «Non rimpiango nulla di ciò che ho fatto, altrimenti. Se dovessi ricominciar da capo, non farei diverso. Non ho rimorso di aver ucciso Rebecca, non ne avrò mai, in quanto a questo, mai, mai. Ma tu… non dimenticherò mai quel che hai sofferto. Ti guardavo, non pensavo ad altro, atavola. È sparita per sempre, quella tua buffa aria sperduta, quell’aria di bambina che mi piaceva tanto. E non ritornerà mai più. Anche quello ho ucciso, quando ti ho detto di Rebecca… Sparito, in ventiquattr’ore. Sei tanto invecchiata…»
XXII
Quella sera, quando Frith portò il giornale locale, e lo posò sulla tavola, subito mi colpirono i titoli a grandi caratteri in prima pagina. Maxim non c’era, era salito di sopra per vestirsi un po’ più presto del solito. Frith indugiò un momento, quasi attendesse ch’io dicessi qualcosa, e mi parve sciocco e anche umiliante passar sopra a eventi che tanto significavano per tutti quelli che erano di casa.
«Questa è davvero una cosa dolorosa, Frith» dissi. «Sì, signora, giù in cucina siamo tutti molto impressionati» replicò il vecchio.
«È così triste che il signor de Winter debba passar di nuovo per tutte queste formalità.» «Sì, signora. Molto triste. Chissà che emozione sarà per lui, dover identificare il secondo cadavere dopo aver già visto il primo. E io credo che ormai non ci saranno più dubbi, che il corpo trovato nel battello sia proprio quello della povera signora de Winter?» «Purtroppo sì, Frith. Non c’è più dubbio.» «A tutti noi è sembrato un po’ strano che essa si sia lasciata cogliere così in trappola nella cabina. Era una signora che aveva tanta esperienza delle cose del mare.» «Già, Frith. Tutti noi abbiamo pensato lo stesso. Ma a volte succedono appunto delle disgrazie… e come sia stato, nessuno io saprà mai.»
«Eh, no, signora, ma è stata una brutta sorpresa in ogni modo. Siamo rimasti tutti veramente male. E così all’improvviso, proprio dopo la festa! Sembra quasi che non sia giusto, non è vero, signora?» «No, Frith.»
«Si dice che ci sarà un’inchiesta; è vero, signora?» «Sì. Oh, sapete, una formalità.» «Certo, certo signora. E… ci sarà il caso che qualcuno di noi sia chiamato a prestare testimonianza?» «Credo di no.»
«Io sarei felicissimo di far qualcosa che potesse aiutare i miei signori. Il signor de Winter lo sa.» «Sì, sì. Sicuramente lo sa.»
«Ho detto in cucina che non parlassero troppo della cosa, ma è molto difficile tenerli d’occhio, specialmente le ragazze. Di Roberto posso rispondere io, naturalmente. Ho ben paura che per la signora Danvers la notizia sia stata un gran colpo…»
«Sì, Frith. Me l’aspettavo anch’io.» «Essa è salita in camera sua subito dopo aver mangiato, e non è più scesa. Alice le ha portato su una tazza dì tè e il giornale, poco fa. Dice che la povera vecchia aveva l’aria tutta scombussolata.»
«Sarà meglio che essa rimanga là» dissi. «È inutile che si alzi e badi alla casa, se non si sente bene. Forse manderemo Alice a dirglielo… Io posso dare benissimo gli ordini. ‘Parlerò direttamente al cuoco.» «Sì, signora. Ma io non credo che stia veramente male; è soltanto l’emozione di sapere che è stata ritrovata la signora de Winter. Essa era molto affezionata alla sua signora.»
«Sì» dissi. «Sì, lo so.»
Frith uscì e io affrettai a dare un’occhiata al giornale prima che scendesse Maxim. C’era un lungo articolo, che teneva quasi tutta la prima pagina, con un’orribile fotografia confusa di Maxim che doveva esser stata presa almeno quindici anni
prima. Mi fece una brutta impressione, vedermelo lì su un giornale. E le poche linee in fondo che mi riguardavano: là signorina che Maxim aveva sposato in seconde nozze, e come appunto la sera avanti avessimo dato il ballo in costume a Manderley… Nei caratteri scuri del giornale, quelle parole avevano un che di crudele, di cinico. Rebecca, che era descritta come bellissima, e molto intelligente, e adorata da tutti coloro che la conoscevano, e che era miseramente perita in mare un anno avanti; e poi Maxim che riprendeva moglie nella primavera seguente, e portava la sposa dritto filato a Manderley, e dava il gran ballo in costume in onor suo; e al mattino dopo si ritrova il cadavere della prima moglie, chiusa in trappola nella cabina del suo panfilio, in fondo alla baia…
Era tutto vero, naturalmente, sebbene condito di piccoli tratti di colore che accrescevano il valore della storia, e appagavano la curiosità di centinaia di lettori i quali volevano essere compensati dei pochi centesimi che costava loro il giornale.
Maxim ne veniva fuori come un carattere vile, una specie di satiro, il quale portava a Manderley la “giovane sposa”, come io ero descritta, e dava il ballo come se volesse ostentarla davanti al mondo.
Nascosi il giornale sotto un cuscino della poltrona, perché Maxim non lo vedesse. Ma non potei nascondergli l’edizione del mattino.
E la storia c’era anche nei giornali di Londra ai quali eravamo abbonati. C’era una fotografia di Manderley, con abbondanza di particolari. Manderley era una curiosità, e così Maxim. Lo chiamavano Max de Winter: ciò aveva un orribile carattere di pettegolezzo mondano. Tutti i giornali facevano un gran caso del fatto che il corpo di Rebecca era stato trovato il giorno dopo la festa in costume, quasi vi fosse in ciò un che di fatidico. Due giornali usavano la medesima espressione, “ironia del destino”. Sì, era davvero un’ironia del destino. Ed era una storia interessante. Vedevo Maxim, davanti alla sua tazza di tè, diventar pallido e sempre più pallido, mentre scorreva i giornali, uno dopo l’altro. Non fece commenti. Solo mi guardò, e io gli tesi la mano. «Maledetti» mormorò, «maledetti, maledetti…»
Pensavo a tutto ciò che avrebbero potuto raccontare, se avessero saputo intera la verità. Non una colonna, ma cinque o sei. E a Londra i giornali avrebbero affisso le strisce ai chioschi, e venditori avrebbero gridato per le strade, e fuor delle stazioni della ferrovia sotterranea. Quella spaventosa parola di dieci lettere, enorme e nera in mezzo all’affisso.
Dopo colazione venne Frank, pallido e stanco come se non avesse dormito. «Ho detto alla signorina del telefono di Kerrith che faccia passare tutte le comunicazioni per Manderley attraverso il mio ufficio» disse a Maxim. «Non importa chi sia. Se ci sono dei giornalisti me la sbrigherò io con loro. E anche con chiunque altro. Non voglio che voi due abbiate delle preoccupazioni. Ci sono già state parecchie telefonate, da persone del paese. Ho dato a tutti la stessa risposta. Il signor de Winter e la signora sono molto grati per il cortese interesse, e sperano che gli amici comprendano che per qualche giorno non riceveranno visite. La signora Lacy ha telefonato verso le otto e mezza. Voleva venire qui subito.»
«Oh, mio Dio…» cominciò Maxim. «Calma, ci ho già pensato io. Le ho detto, in tutta sincerità, che non mi pareva opportuno che venisse qui, dato che non c’era nulla da fare, e tu non desideravi vedere altri che la tua signora. Essa voleva sapere quando ci sarebbe stata l’inchiesta, ma le ho risposto che ancora non era stato deciso. Non so se potremo impedirle di venirci, se saprà l’ora e il giorno dai giornali.» «Quegli schifosi di giornalisti…» disse Maxim. «Lo so» disse Frank. «Vorremmo torcer loro ilcollo, a tutti quanti, però dobbiamo anche metterci dal loro punto di vista. È il loro mestiere, e bisogna che lo facciano fino in fondo. Se non trovassero qualche storiella ogni tanto, il direttore li caccerebbe via. Se il direttore non è in grado di fare un giornale che si vende, il proprietario caccerà via lui. E se il giornale non si vende il proprietario perde i suoi quattrini. Ma tu non dovrai vedere nessuno, Maxim: me la sbrigherò io con tutti. Tu non devi far altro che pensar bene alle dichiarazioni che dovrai formulare all’inchiesta.» «So già quel che devo dire» disse Maxim. «Ne sonoconvinto, ma non dimenticare che il giudice istruttore è il vecchio Horridge. È un pignolo, si perde in particolari irrilevanti, soltanto per far vedere ai giurati che lui è un uomo di coscienza. Non devi permettere che faccia troppo la voce grossa.» «E perché diavolo dovrebbe fare la voce grossa? Non ne vedo la ragione.»
«Naturalmente no. Ma ho assistito già a inchieste di questo genere, ed è così facile diventar nervosi e irritabili. E non vorrai mica indisporre i giurati contro di te.» «Frank ha ragione» dissi io. «Ho capito quel che vuol dire. Più rapide e lisce andranno le cose e meglio sarà per tutti quanti. E poi, una volta che questo sciagurato episodio sarà finito non ci penseremo più, e anche gli altri lo dimenticheranno, non è vero, Frank?» «Oh, questo è certo» egli replicò. Ancora evitavo il suo sguardo, ma ero più che mai convinta ch’egli sapeva la verità. L’aveva sempre saputa. Fin da principio. Ricordavo la prima volta che lo avevo visto, quel giorno dopo il mio arrivo, quando lui e Beatrice e Giles erano venuti a pranzo, e Beatrice aveva dimostrato così poco tatto, parlando della salute di Maxim. Ricordavo come Frank, col suo fare tranquillo, avesse cambiato discorso, venendo in aiuto di Maxim, come se il tema fosse scottante. E quella sua strana riluttanza a parlar di Rebecca, quel suo irrigidirsi, che aveva persin del buffo, ogni volta che i nostri discorsi si avviavano verso una maggior intimità… Oh, come capivo tutto questo! Frank sapeva, ma Maxim non sapeva ch’egli sapesse. E Frank non voleva che Maxim sapesse ch’egli sapeva. Ed eravamo tutti lì a guardarci l’un l’altro, dietro quelle piccole barriere che ci separavano. Ora che le comunicazioni passavano attraverso l’ufficio, non fummo più seccati dal telefono. Ormai, non si trattava che di aspettare. Aspettare fino al martedì seguente. Né vidi più la signora Danvers. La lista del pranzo mi veniva mandata tutte le mattine come al solito, e io la lasciavo invariata. Chiesi notizie della vecchia a Clarice, la quale mi disse che essa badava alle sue mansioni come al solito, ma che non parlava con nessuno, e si faceva portare i pasti in camera sua.
Clarice aveva gli occhi grandi di curiosità, ma non mi faceva domande, e io mi sarei guardata bene dal darle soddisfazione. Non c’era dubbio che non si doveva parlar d’altro, in cucina, e alla fattoria, e nelle campagne, e fin nella casetta del guardiano. Tutta Kerrith doveva essere un brusio di voci. Noi non uscivamo più da Manderley, anzi, dai giardini vicini alla casa. Non arrivavamo nemmeno fino a boschi.
Il tempo, intanto, rimaneva invariabilmente afoso e opprimente. C’era in aria un presagio di temporale, il cielo bianco e opaco, era gravido di pioggia, la quale tuttavia non cadeva. Sentivo fin l’odore di tutta quell’acqua ammassata dietro ai nuvoloni.
L’inchiesta doveva aver luogo al martedì, alle due del pomeriggio. Pranzammo all’una meno un quarto. Frank era venuto da noi. Grazie al cielo, Beatrice aveva telefonato di essere trattenuta a casa: Roger; il ragazzo, era arrivato con la rosolia, ed erano tutti in quarantena. Non potei fare a meno di benedire la rosolia. Maxim non avrebbe tollerato la presenza di Beatrice, sincera, ansiosa, affezionata, ma indiscreta sempre e piena di domande. Domande a ogni piè sospinto.
Pranzammo in fretta, tra un generale nervosismo, e senza discorrere molto. Avevo il solito spasimo alla bocca dello stomaco, che m’impediva di mangiare, di mandar giù i bocconi. Fu un sollievo, quando quel pranzo da commedia fu alla fine, e udii Maxim che fuori, sul viale, metteva in moto la macchina. Il rombo del motore mi diede coraggio; significava che era venuta l’ora di andare, di agire. Frank ci doveva seguire con là sua piccola macchina. Per tutto il tempo del viaggio tenni la mano sul ginocchio di Maxim. Egli appariva calmissimo, affatto nervoso. Mi pareva di accompagnare a una clinica qualcuno che dovesse subire un’operazione; e non si sapeva che cosa sarebbe successo, quale esito avrebbe avuto l’operazione. Le mie mani erano gelide. Il cuore mi batteva, a tratti, disordinatamente. E quel piccolo spasimo inquietante non cessava.
L’inchiesta doveva aver luogo a Lanyon, una piccola città che era il capoluogo del circondario, e che si trovava a sei miglia dall’altra parte di Kerrith. Lasciammo la macchina sul gran piazzale lastricato presso il Mercato. C’era, già quella del dottor Phillips, e anche quella di Julyan. E c’erano anche altre macchine. Vidi un passante guardar Maxim, incuriosito, e poi dar di gomito a una donna che aveva con sé.
«Io preferisco rimanere qui» dissi. «Dopo tutto, sarà forse meglio che non entri con voialtri.» «Io avrei preferito che tu non venissi affatto» disse Maxim. «Fin da principio. Avresti fatto molto meglio a rimanere a Manderley.»
«No» dissi. «Starò benissimo qui, seduta nella macchina.»
Frank s’era avvicinato, e metteva il capo entro il finestrino. «La signora de Winter non scende?» domandò. «No» rispose Maxim. «Essa vuol rimanere qui, dentro la macchina.»
«Fa bene» replicò Frank. «Non c’è nessuna ragione al mondo per cui debba essere
presente. E ce la caveremo presto, spero.»
«Non vi preoccupate per me» dissi.
«Vi farò riservare una seggiola, in ogni modo. Nel caso cambiaste idea» disse Frank, mentre se ne andavano, lasciandomi seduta nella macchina. I negozi, che quel pomeriggio chiudevano a mezzogiorno, apparivano tetri, poveri. C’era poca gente per le strade. Lanyon, troppo lontano nell’interno del paese, non era un centro di villeggiatura. I minuti passavano, mentre guardavo le botteghe, che parevano addormentate. Chissà che cosa facevano, che cosa dicevano, il giudice istruttore, Frank, Maxim, il colonnello Julyan… A un certo punto scesi dalla macchina, per fare qualche passo su e giù. Vidi una guardia di città, che mi guardava come se volesse tenermi d’occhio; e per evitarla svoltai in una viuzza laterale.
Non so come, senza volerlo mi trovai avviata verso l’edificio dove si teneva l’inchiesta. Nessun giornale aveva precisato l’ora, e perciò forse non c’era folla, come avevo creduto e paventato. Il luogo pareva deserto. Salii i pochi gradini, e mi trovai in un ingresso. «Desiderate?» mi domandò un agente, sbucato fuori come per incanto. «Nulla» dissi. «Nulla…» «Qui non si può restare.»
«Me ne vado.» E mi volsi, per ridiscendere i gradini. «Scusate, signora» riprese l’uomo «ma non sareste la signora de Winter?» «Sì» risposi.
«Allora la cosa è diversa. Potete aspettar qui, se vi fa comodo. Volete accomodarvi da questa parte?» «Grazie.»
L’agente mi accompagnò in una stanzetta nuda, che aveva tutta l’aria d’una sala d’aspetto di una piccola stazione. Là mi sedetti, le mani in grembo. Trascorsero forse cinque minuti, tra un silenzio assoluto. Era peggio che esser fuori, nella macchina… Mi alzai, andai nell’ingresso. L’uomo era sempre là.
«Quanto tempo ci metteranno?» domandai.
«Vado a informarmi, se vi fa piacere.» Egli spari nel corridoio, e tornò dopo un momento. «Non credo che staranno molto ancora» disse. «Il signor de Winter ha finito ora di deporre. Anche il capitano Searle, e il palombaro, e il dottor Phillips hanno già deposto. Non ne resta che uno: il signor Tabb, il carpentiere di Kerrith.»
«Allora sono quasi alla fine» dissi. «Credo di sì, signora.» E poi, come colto da un improvviso pensiero, egli soggiunse: «Gradireste sentire quest’ultima deposizione, forse? C’è un posto lì, proprio vicino alla porta. Se entrate piano piano, nessuno s’accorgerà di voi.»
«Sì….» risposi. «Sì. Entro un momento…» Era quasi finito. Maxim aveva ormai deposto. Era lui che avevo paura di sentire; il resto non m’impressionava. Era Maxim che non volevo vedere; ecco perché non ero entrata subito con lui e con Frank. Ma ora che la parte sua era finita, non me ne importava più nulla. Seguii la guardia, che aprì una porta in fondo al corridoio. Sgusciai dentro, e sedetti, dietro la porta. Sulle prime tenevo la testa bassa così potevo evitar di guardare in viso chicchessia. La sala era più piccola di quanto non avrei immaginato. Faceva piuttosto caldo, e si respirava male. Maxim e Frank erano seduti in fondo. Il giudice era un uomo smilzo, anziano, con le lenti a stringinaso. Guardando a poco a poco, con la coda dell’occhio, vidi gente che non conoscevo. Il cuore mi balzò, quando, seduta a destra, un po’ indietro, riconobbi la signora Danvers, e accanto a lei Jack Favell, il cugino di Rebecca. Questi era proteso in avanti, il mento fra le mani, gli occhi fissi al signor Horridge, il giudice. Non m’aspettavo davvero di trovarlo lì. Chissà se Maxim lo aveva visto… In quel momento James Tabb, il calafato, si alzava in piedi, e rispondeva a una domanda del giudice. «Sì, fui io a trasformare il battello della signora de Winter. In origine, era un battello da pesca francese; la signora Io aveva comperato in Bretagna per un pezzo di pane, e lo aveva mandato qui. Mi diede poi l’incarico di trasformarglielo in un piccolo panfilio.»
«C’era stato altre volte il pericolo che il battello si capovolgesse?» domandò il giudice.
«No; se mai se ne fosse parlato, l’avrei certo saputo dalla signora de Winter. Ma essa ne era soddisfatta in tutto e per tutto… almeno, così aveva detto a me.» «La manovra del battello richiedeva molta cura, m’immagino?»
«Beh… quando si va in mare è sempre bene aver la testa sul collo, questo non lo nego. Ma il panfilio della signora de Winter non era uno di quei piccoli gusci capricciosi, che non si possono lasciare per un momento, come se ne vedono a Kerrith. Era un’imbarcazione robusta, che teneva bene il mare, e sopportava anche il vento. La signora de Winter era partita con tempi peggiori che non quella notte. Che!Quella volta, c’era appena un po’ di brezza che soffiava a sbalzi… È quel che ho detto sempre io, non ho mai potuto capire che il panfilio si fosse perduto con una notte simile.»
«Ma se la signora de Winter, come si è congetturato, era scesa a cercare un mantello per coprirsi, e una folata di vento improvviso venne dal promontorio, può essere bastata per rovesciare il panfilio?»
James Tabb scosse il capo. «No, signor giudice» affermò, cocciuto. «Non mi sembra che possa essere così.» «Eppure ho paura che sia proprio stato così» disse il giudice. «Non voglio dire che la signora de Winter, o qualcuno di noi abbia mai insinuato che qualche trascuranza nel vostro lavoro abbia potuto causare la disgrazia. Voi avete allestito il battello in principio di stagione, voi avete dichiarato che era in buono stato, e questo è quanto volevo sapere. Sfortunatamente la povera signora de Winter ha avuto un momento di distrazione, e ciò è bastato perché il battello colasse a fondo, ed essa ci ha rimesso la vita. Di accidenti simili se ne son visti altre volte. E ripeto che voi non ci avete colpa, in nessun modo.» «Scusate, signor giudice, ma c’è qualcosa di più» disse il calafato. «Se mi permettete, vorrei fare un’altra dichiarazione.» «Bene; dite pure.»
«Ecco, si tratta di questo. L’anno scorso, dopo l’accidente, ebbi un sacco di noie per parte di gente che trovava a ridire sui miei lavori. Ci fu persino chi disse che avevo lasciato cominciar la stagione alla signora de Winter con un battello avariato, che faceva acqua… E ci rimisi anche due o tre ordinazioni. Non era una cosa giusta, ma intanto, il battello era colato a fondo, e che potevo dire per discolparmi? E poi ci fu il naufragio di quel bastimento, che tutti sappiamo, e fu ritrovato e riportato a galla il battello della signora de Winter. Ieri, il capitano Searle mi diede il permesso di andare a darci un’occhiata, e così ho fatto. Volevo vedere e toccar con mano che sul mio lavoro non c’era niente da ridire, anche se il battello era stato sott’acqua per dodici mesi e più.»
«Il vostro desiderio era più che naturale» disse il giudice. «E spero siate rimasto soddisfatto.» «Sì, sono rimasto soddisfatto. Per quel che riguardava l’opera mia, tutto era in ordine. L’ho esaminato da cima a fondo, sul pontone dove l’aveva fatto sollevare il capitano Searle. S’era fermato su un fondo sabbioso; lo domandai al palombaro, che me lo confermò. Non aveva toccato affatto lo scoglio, che era a un paio di metri distante almeno. Era coricato sulla sabbia, senz’ombra di un’avaria…»
Egli tacque. Il giudice lo guardava interdetto. «Ebbene? E questo sarebbe quanto avete da dirci?» «No, signor giudice» ribatté l’uomo, infervorato. «Non è tutto. Chi ha fatto quei buchi nelle tavole? Non certo la roccia. Quando vi dico che lo scoglio più vicino era a un due metri di distanza… E poi, non erano segni lasciati da uno scoglio.
Erano buchi. Fatti con uno strumento a punta.»
Non guardavo l’uomo. Guardavo a terra. Il pavimento era ricoperto di un’incerata verde. Perché il giudice istruttore non diceva nulla? Perché la pausa durava tanto? Quando finalmente il giudice parlò, la sua voce aveva un suono lontanissimo. «Che volete dire? Che specie di buchi erano?» «Ce n’erano tre in tutto» rispose il calafato. «Uno a destra, verso prua, sul pavimento della cabina. Gli altri due erano accosto l’uno all’altro, piuttosto verso il centro. Anche la zavorra era stata toccata. E non è tutto ancora… Le valvole erano state aperte.» «Le valvole? Quali valvole?» domandò il giudice. «Le valvole che chiudono la conduttura che viene da un lavabo o da una latrina, signor giudice. Sul battello c’era anche un piccolo gabinetto, con tutte le comodità. E a prua c’era un lavandino, per i piatti di cucina. Tanto le condutture del gabinetto che quelle del lavandino avevano una valvola, che era sempre chiusa, altrimenti sarebbe entrata l’acqua a bordo. E ieri, esaminando il battello, ho scoperto che tutt’e due le valvole erano state aperte.»
Faceva caldo, troppo caldo. Perché non si apriva una finestra? Eravamo in tanta gente, in quel poco spazio, troppa gente, e tutti respiravamo la stessa aria, e avremmo finito per soffocare…
«Con quei buchi nelle tavole, signor giudice, e le valvole aperte, non ci sarà voluto molto per colare a fondo, a quelle quattro assi… Non più di dieci minuti, a parer mio. E quei buchi non c’erano, quando il battello è uscito dal mio cantiere! Avevo fatto un lavoro del quale potevo andar fiero, e a buon diritto. Se volete la mia opinione, signor giudice, ebbene, secondo me, quel battello lì non s’è mai capovolto. È stato colato a fondo di deliberato proposito.»
Uscire, uscire, a ogni costo. Via di lì, nella saletta d’aspetto. Non c’era aria là dentro; e il mio vicino mi stava addosso, mi schiacciava… Davanti a me qualcuno s’era alzato in piedi, e parlava, parlava assieme ad altri. Non capivo più che cosa succedesse. Non vedevo più nulla. Non sentivo altro che caldo, quel gran caldo. Ora il giudice intimava silenzio, silenzio a tutti. E udivo pronunciare il nome “signor de Winter”. Il cappello della donna seduta davanti a me m’impediva di vedere. Maxim s’era alzato in piedi. Ma meglio era ch’io non lo vedessi… M’ero sentita così un’altra volta. Quando? Non rammentavo… ah sì: con la signora Danvers. Quella volta che con la signora Danvers ero alla finestra. Anche lei si trovava qui, ora, e ascoltava quel che diceva il giudice. Mi pareva che il caldo salisse su dal pavimento, in ondate lente che invadevano le mie mani, umide e attaccaticce, e mi salivano alla nuca, al mento, alla faccia… E Maxim s’era alzato in piedi.
«Signor de Winter» diceva il giudice «avete sentito le dichiarazioni di James Tabb, che aveva rimesso in ordine il battello della vostra defunta moglie? Ne sapevate qualche cosa di quei buchi, praticati, a quanto sembra, nelle tavole?»
«Non ne sapevo nulla.»
«C’era, secondo voi, una ragione per cui potessero esser stati praticati?»
«No; non vedo che ci potesse essere una ragione.» «È la prima volta che ne sentite parlare?»
«Sì.»
«Ed è una sorpresa per voi, naturalmente?» «È stata già una sorpresa sapere che ho commesso un errore nell’identificazione dodici mesi fa… Ora sento che mia moglie non era soltanto annegata nella cabina del suo panfilio, ma che erano stati praticati dei buchi nell’imbarcazione, col deliberato proposito di farla colare a fondo. Trovate strano ch’io resti sorpreso?» No, Maxim, no. Non così. Te lo indisporrai. Non ricordi quel che diceva Frank? Non devi indisponi il giudice. Non quella voce. Non quella voce irosa, Maxim. Quell’uomo non capirà. Ti prego, amore, ti prego… Oh, mio Dio, fa’ che Maxim non perda la calma! Che non perda la calma…
«Signor de Winter, vi prego di credere che tutti quanti sentiamo la vostra sventura. Senza dubbio avete avuto una sorpresa, e una sorpresa oltremodo sgradevole, quando avete saputo che vostra moglie era annegata dentro la cabina, e non in mare come s’era supposto in primo luogo. Ed è per il bene vostro che devo investigare il caso fino in fondo. Per il bene vostro desidero precisare esattamente come e perché essa è morta. Non è per mio divertimento che conduco quest’inchiesta.» «Non ne dubito, signor giudice.» «Speriamolo. Già James Tabb ci ha appunto detto di aver constatato che nel battello che conteneva il cadavere della signora de Winter ha riscontrato la presenza di tre buchi praticati con uno strumento aguzzo. E che le valvole delle condutture erano aperte. Dubitate di queste sue dichiarazioni?»
«Affatto. Il signor Tabb è un uomo del mestiere, e saprà quel che si dice.»
«Chi aveva cura del panfilio della signora de Winter?» «Nessuno; ci badava lei stessa.» «Essa non aveva uomini di bordo?» «No, nessuno, ripeto.»
«Il panfilio era amarrato nella rada privata, che appartiene alla proprietà di Manderley?» «Sì.»
«Un estraneo, il quale avesse tentato di provocar qualche danno al panfilio, sarebbe stato visto? C’è un accesso alla rada dal sentiero pubblico lungo gli scogli?» «No, non
c’è accesso.»
«La rada è un luogo tranquillo, non è vero, e circondato da alberi?» «Sì.»
«Potrebbe darsi che un trasgressore qualsiasi si avvicinasse senza esser visto?» «Sì, potrebbe darsi…»
«Eppure il signor Tabb ci ha detto, e non abbiamo ragione di non credergli, che un battello con quei buchi e con le valvole aperte non potrebbe rimanere a galla per più di dieci, al massimo quindici, minuti.» «Giusto.»
«Possiamo quindi dimettere l’idea che il panfilio sia stato danneggiato ad arte prima che la signora de Winter si mettesse in mare, quella sera. Se così fosse stato, sarebbe colato a fondo mentre era amarrato.» «Senza dubbio.»
«Dobbiamo quindi ammettere che la persona stessa la quale condusse il panfilio in mare quella notte abbia praticato i buchi nelle tavole e aperto le valvole.» «Dev’essere stato così.»
«Il palombaro ci ha detto che la porta della cabina era chiusa, chiusi i boccaporti, e che il cadavere di vostra moglie era sul pavimento. Così dicevano anche le vostre dichiarazioni, e anche quelle del dottor Phillips e del capitano Searle?» «Sì.»
«E ora, un’altra persona asserisce che sono stati praticati dei buchi, e aperte le valvole. Signor de Winter, ciò non vi sembra alquanto strano?» «Non lo nego.»
«Non avete alcuna idea in proposito?» «No, nessuna.»
«Signor de Winter, per quanto penoso mi riesca, è mio dovere porvi una domanda di carattere personale.» «Dite.»
«I rapporti tra voi e la defunta signora de Winter erano perfettamente felici?»
Me le aspettavo, quelle macchioline nere davanti agli occhi, che danzavano, tremolavano, punteggiavano l’aria nebulosa; e faceva caldo, tanto caldo, con tutta quella gente, tutte quelle facce, e non una finestra aperta; e la porta che m’era parsa così vicina, tutt’a un tratto era tanto lontana; e il pavimento si alzava, saliva verso di me…
E poi, dalla strana nebbia che mi fasciava tutt’intorno usciva, chiara e forte, la voce di Maxim: «Qualcuno vuole avere la cortesia di condurre fuori mia moglie? Sta per svenire».
XXIII
Mi ritrovai seduta nella stanza che aveva l’aria d’una sala d’aspetto in una stazioncina. L’agente, curvo su di me, mi porgeva un bicchier d’acqua; e una mano posava sul mio braccio, la mano di Frank. E mentre ero lì immobile, a poco a poco il pavimento, le pareti, le figure di Frank e dell’agente assumevano una forma reale. «Come mi dispiace» dissi. «Sono stata una sciocca, davvero… ma faceva caldo, là dentro, un caldo insopportabile.»
«Ci si respira male» disse l’agente; «già in parecchi si sono lamentati, ma non si fa mai nulla. Succede ogni tanto che prende male a qualche signora.» «Vi sentite meglio, signora de Winter?» disse Frank. «Sì. Sì, molto meglio. Ora mi rimetto. Non state qui con me.»
«Ora vi riconduco io a Manderley.» «No.»
«Sì. Maxim mi ha pregato di farlo.» «No. Dovete restare con lui.»
«Maxim mi ha detto di ricondurvi a Manderley.» Sostenendomi per il braccio Frank mi aiutò ad alzarmi in piedi. «Potete camminare fino all’automobile o volete che la faccia venire qui?»
«Posso camminare. Ma preferirei rimanere. Vorrei aspettare Maxim.»
«Può darsi che Maxim si debba trattenere a lungo.» Perché Frank diceva così? Che cosa intendeva? Perché evitava di guardarmi? Mi prese per il braccio e mi guidò lungo il corridoio, fino alla porta, e poi giù per i gradini, in strada. Poteva darsi che Maxim si dovesse trattenere, a lungo…
Senza parlare giungemmo alla piccola Morris di Frank che aprì lo sportello, mi aiutò a salire, poi a sua volta salì e mise in moto la macchina. Tosto ci allontanammo dal selciato della piazza, e attraversando la cittadina quasi deserta fummo sulla strada di Kerrith. «Perché dovrà trattenersi a lungo? Che cosa faranno?» «Potrebbe darsi che si dovesse rivedere la sua deposizione.» Frank non allontanava lo sguardo dalla bianca strada diritta.
«Ma la deposizione è finita, ormai» dissi. «Non vedo che cosa ci sia d’altro da dire.»
«Non si sa mai» replicò Frank; «può darsi che il giudice istruttore voglia ripetere l’interrogatorio sotto un’altra forma. La deposizione di Tabb ha mutato tutto il corso dell’istruttoria. Il giudice dovrà ricominciare, considerando le cose sotto un aspetto diverso.» «Quale aspetto? Che volete dire?» «Avete sentito la deposizione? Avete sentito quel che Tabb ha detto del battello? Ora si crede che non sia stato un accidente.»
«È assurdo, Frank, è ridicolo. Non dovrebbero dar retta a quel Tabb. Come può dire, dopo tanti mesi, in che modo siano stati praticati dei buchi in un battello; e che cosa vogliono scoprire, in ogni modo?» «Non lo so.»
«Quel giudice seguiterà a punzecchiare Maxim, lo farà uscire dai gangheri, e gli caverà fuori cose che non ha intenzione di dire. Lo assedierà di domande, Frank, e Maxim non resisterà, lo so che non resisterà.» Frank non rispose. Accelerava sempre più la corsa. Per la prima volta da quando lo conoscevo non sapeva trovare nemmeno le solite frasi convenzionali. Ciò significava che egli era preoccupato. E di solito egli era un guidatore calmo e prudente, che rallentava a tutti i crocevia, guardava a destra e a sinistra, e suonava la sirena a ogni curva.
«C’era anche quell’uomo» ripresi «quell’uomo che è venuto una volta a Manderley a trovare la signora Danvers.»
«Favell, volete dire?» disse Frank. «Sì, l’ho visto.» «Era seduto accanto alla signora Danvers.» «Sì, lo so.»
«Perché era lì? Che diritto aveva di assistere all’inchiesta?»
«Era il cugino di Rebecca.»
«Non m’è piaciuto che lui e la signora Danvers fossero lì. Non mi fido di loro, Frank.»
«Già.»
«Potrebbero architettare qualcosa; creare delle difficoltà.»
Di nuovo Frank tacque. Compresi che la sua solidarietà verso Maxim era tale da impedirgli di entrare in discussione, fosse pure con me. Egli non sapeva quanto io sapessi. Né io potevo dire per certo fino a che punto sapesse lui. Eravamo alleati, camminavamo per la stessa via, ma non osavamo guardarci in viso. Nessuno di noi due si sarebbe avventurato a una confessione. Ora eravamo ai cancelli; infilavamo il lungo viale stretto e tortuoso che conduceva alla casa. Per la prima volta m’accorsi che le idrangee erano già in fiore; le teste azzurre facevano capolino di tra il fogliame verde. Malgrado la loro bellezza avevano un che di cupo, di funereo; simili a certe rigide corone artificiali che si vedono sotto vetro, nei cimiteri di Francia. E sembravano inseguirci per tutta la via lungo il viale, azzurre, monotone: spettatori schierati lì per vederci passare.
Fummo finalmente alla casa, e girammo sulla gran curva, per fermarci a piè dei gradini. «Non vi sentirete più male, ora?» disse Frank. «Vi coricherete un poco, non è vero?»
«Sì» dissi «sì, forse.»
«Io ritorno a Lanyon. Maxim può aver bisogno di me.»
Senza aggiungere altro, rapidamente Frank risalì in macchina e ripartì. Maxim poteva aver bisogno di lui. Perché aveva detto così? Forse il giudice istruttore doveva interrogare anche Frank. Lo avrebbe interrogato su quella sera, più di un anno fa, quando Maxim aveva cenato con lui. Avrebbe voluto sapere a che ora esattamente Maxim aveva lasciato la casa di Frank. Se i domestici sapevano ch’egli si trovava là, se c’era qualcuno, il quale potesse provare che Maxim era andato subito a letto. Forse anche la signora Danvers sarebbe stata interrogata. E Maxim cominciava a sbiancarsi in viso, a perdere la calma…
Dal vestibolo salii alla mia stanza, e, obbediente all’esortazione di Frank, mi sdraiai sul letto. Mi coprii gli occhi con le mani; gli occhi che continuavano a vedere quella sala e tutti quei visi. La faccia solcata di rughe del giudice, sulla quale sembrava si andasse addensando un temporale, gli occhiali d’oro sul suo naso.
“Non è per mio divertimento che conduco questa inchiesta”. La sua mentalità lenta, puntigliosa, facile a offendersi… Che cosa dicevano in questo momento? Che cosa stava accadendo? E se fra poco Frank fosse tornato a Manderley solo?
Non sapevo quel che succedeva. Ricordavo fotografie d’uomini che uscivano dalle aule dei tribunali in mezzo alle guardie, viste sui giornali. Se Maxim fosse uscito così, condotto via dalle guardie? Non mi avrebbero lasciato andare da lui. Non me lo avrebbero più lasciato vedere. Sarei rimasta sola a Manderley, giorni e notti in attesa, così come attendevo ora. E la gente, persone come il colonnello Julyan, avrebbe avuto parole buone per me. “Non dovete essere così sola… venite a trovarci…” Il telefono, i giornali, ancora il telefono. “No, la signora de Winter non riceve nessuno. La signora de Winter non ha niente d’interessante da dire alla Cronaca della Contea.” E un altro giorno, e un altro ancora, settimane che passavano confuse, come se il tempo non avesse più consistenza; e un bel giorno, finalmente, Frank mi conduceva da Maxim. Maxim appariva magro, alterato, come i malati all’ospedale…
Altre donne avevano percorso quel calvario. Donne di cui avevo letto sui giornali. Mandavano lettere al Ministero degli Interni. Lettere che non servivano a nulla. Invariabilmente il Ministero rispondeva che la giustizia doveva seguire il suo corso. Anche gli amici mandavano petizioni con molte firme, ma il Ministero non poteva mai fare nulla. E la gente che leggeva i giornali si domandava perché poi quel tale avrebbe dovuto cavarsela. Dopo tutto aveva ucciso la moglie… E quella povera donna assassinata, allora? Quella sentimentale inclinazione a voler abolire la pena di morte non era altro che un incoraggiamento alla delinquenza. E quel tale avrebbe dovuto pensarci, prima di commettere un delitto. Ora era troppo tardi e sarebbe stato impiccato, come qualsiasi altro assassino. E gli sarebbe stato bene. Una buona lezione per gli altri.
Rammentavo una figura veduta una volta su un giornale illustrato: i cancelli di una prigione, di notte, un poliziotto che attaccava fuori un affisso, sul quale era scritto qualcosa di una sentenza di morte eseguita quel giorno stesso, alle nove del mattino, alla presenza del Governatore, del medico delle carceri e dello sceriffo della contea. L’impiccagione era un procedimento rapido, non doloroso. Vi si spezzava subito l’osso del collo. No, non subito. C’era chi affermava che non sempre riusciva. Uno che aveva conosciuto il Governatore d’una prigione me lo aveva detto. Vi mettono in piedi sulla piccola piattaforma, con quel sacchetto sulla testa, e poi, il piancito cede sotto di voi. Dalla cella al momento dell’esecuzione passano esattamente tre minuti. No, cinquanta secondi, aveva detto qualcuno. Ma no, è assurdo: non può essere, mezzo minuto… C’è una piccola rampa di gradini, che scendono dalla forca alla tossa. Il medico scende a constatare la morte. Il condannato muore istantaneamente. No, non istantaneamente. Non sempre la colonna vertebrale si spezza, e il corpo continua a sussultare. Sì, ma il condannato non sente più alcun dolore. Altri invece dice che non è così. Un tale che aveva un fratello il quale era medico delle carceri affermava che non lo si dice, perché potrebbe suscitar scandalo, ma che i condannati non muoiono subito. Hanno gli occhi spalancati, e così rimangono a lungo…
Mio Dio, via questi pensieri. Pensiamo ad altro. Alla signora Van Hopper in America, per esempio. Ora doveva essere con la figlia, in quella casa a Long Island dove trascorrevano l’estate. Dovevano giocar molto al bridge; e poi andavano alle corse, la signora Van Hopper era appassionata per le corse. Chissà se portava ancora quel cappellino giallo. Troppo piccolo per lei. Troppo piccolo per quel suo faccione. Vedevo la signora Van Hopper seduta nel giardino di quella casa a Long Island, con tanti libri, e riviste, e giornali in grembo, l’occhialino in mano. La signora Van Hopper chiamava la figlia: “Guarda un po’ che cosa dice il giornale, Elena. Pare che Max de Winter l’abbia uccisa lui, la prima moglie. Io ho sempre pensato che quell’uomo aveva qualche cosa di anormale, avevo avvertito quella sciocchina che commetteva un errore. Ma non ha voluto darmi ascolto. Beh, vuol dire che è colpa sua… Mi figuro che adesso le faranno delle offerte per il cinema”. Mi sentii toccare la mano. Era Jasper, che me la sfiorava col naso freddo e umido. Mi era venuto dietro, dal vestibolo. Perché i cani ci commuovono fino alle lagrime? La loro simpatia verso di noi ha qualcosa di così tranquillo, di rassegnato. Jasper, come spesso i cani, sapeva che c’era qualcosa che non andava, in casa, come quando si fanno le valige, e le macchine sono ferme davanti alla porta; e i cani se ne stanno lì a coda bassa, gli occhi pieni di malinconia, e quando il rombo della macchina muore lontano, se ne tornano a cuccia nel loro cestino… Dovevo essermi assopita, perché mi destai all’improvviso, di sobbalzo, a un primo colpo di tuono che scuoteva l’aria. Mi drizzai a sedere, la pendola segnava le cinque. Scesi dal letto, andai alla finestra. Non spirava un alito di vento. Sugli alberi le foglie pendevano inerti, come in attesa. Il cielo era d’un grigio di ardesia. Un gran lampo frastagliato attraversò il cielo; seguì, lontano, un altro brontolio di tuono. Ma la pioggia non cadeva. Uscii in corridoio, stetti in ascolto. Tutto taceva. Arrivai fino a capo dello scalone. Non anima viva. Il vestibolo appariva scuro, per la minaccia di temporale. Scesi e uscii sulla terrazza. Ci fu un altro scoppio di tuono. Una goccia d’acqua mi cadde sulla mano, una goccia sola, e poi non più. Faceva quasi buio. Oltre la valle vedevo il mare: pareva un lago nero. Un’altra goccia mi cadde sulla mano, e seguì un rombo di tuono. Su, al primo piano, una cameriera andava chiudendo le finestre. Dietro di me, Roberto chiudeva le porte-finestre della sala.
«I signori non sono ancora tornati, non è Vero, Roberto?» domandai.
«No, signora, non ancora. Credevo fossero con voi, signora.»
«No. No, io sono rientrata già da un po’ di tempo.» «La signora prende il tè?» «No, aspetterò.»
«Sembra che finalmente il tempo voglia cedere, signora.»
«Già.»
Non pioveva. Nulla, fuorché quelle due gocce sulla mia mano. Rientrai, sedetti in
biblioteca. Erano le cinque e mezza, quando Roberto ritornò. «La macchina è arrivata adesso, signora» egli disse. «Quale macchina?»
«La macchina del signor de Winter, signora.»
«Il signore guida lui?» «Sì, signora.»
Tentai di alzarmi, ma le mie gambe erano come due fuscelli di paglia, e non mi reggevano. Mi appoggiai al divano. Avevo la gola secca. Un minuto dopo Maxim entrava nella stanza, e si fermava sulla soglia. Appariva infinitamente stanco, invecchiato. Agli angoli della bocca aveva due pieghe che non gli avevo mai vistoprima. «È finito tutto» disse. Attesi. Ancora non ero capace di dire una parola, di muovere un passo.
«Suicidio» diss’egli; «senza prove sufficienti per dimostrare lo stato mentale della defunta. C’è stata una gran confusione, naturalmente; nessuno sapeva quel che si faceva.»
Mi lasciai cadere sul divano. «Suicidio» ripetei. «Ma il motivo? Il motivo?»
«Dio solo lo sa» rispose Maxim. «A quanto sembra, non hanno trovato che fosse necessario un motivo. Il vecchio Horridge seguitava a guardarmi, e voleva sapere se Rebecca avesse delle difficoltà finanziarie. Difficoltà finanziarie! Santo cielo…»
Andò alla finestra, guardò lontano, verso i prati. «Pioverà» disse. «Pioverà, finalmente.» «Ma come è stato?» domandai. «Che cosa ha detto il giudice? E perché sei stato fuori tanto a lungo?» «Il giudice ritornava sempre da capo sulle stesse cose. Piccoli particolari sul battello, che non avevano nessuna importanza. Le valvole erano difficili ad aprirsi? E dove si trovava esattamente il primo buco, in rapporto al secondo? E di che cosa si componeva la zavorra? E quali effetti sulla stabilità del battello aveva la zavorra? Una donna poteva gettarla via senza, aiuto? E la porta della cabina chiudeva bene? Quale pressione d’acqua era necessaria per sfondare la porta? Ho creduto d’impazzire. Però sono rimasto padrone di me. A vederti lì presso la porta, mi sono ricordato come dovevo comportarmi. Se tu non fossi svenuta così, non visarei mai riuscito. È stato come uno schiaffo, che mi ha richiamato a me stesso. Dopo di che, ho saputo esattamente quel che dovevo dire. Ho guardato sempre Horridge in faccia, non ho mai distolto gli occhi da quel suo visuccio magro e pettegolo, da quegli occhi dietro gli occhiali d’oro. Lo ricorderò finché vivo, quel viso… Sono stanco, tesoro… Tanto stanco che non vedo e non sento più nulla.» Sedette nel vano della finestra, e si protese in avanti, il capo fra le mani. Sedetti accanto a lui. Pochi minuti dopo Frith entrava, seguito da Roberto che portava il tavolino del tè. Il rito solenne si svolse come sempre; fu dispiegato il tavolino, distesa la tovaglia candida, venne disposta la teiera d’argento, e il bollitore sopra il treppiedi con la piccola fiammella. Pasticcini, panini, tre qualità diverse di torte. Jasper s’era accucciato vicino alla tavola, e ogni tanto batteva la coda in terra, gli occhi pieni di attesa fissi su me. È buffo, pensavo, come la vita quotidiana procede, sempre la stessa; qualsiasi cosa accada, noi facciamo le stesse cose, continuiamo le piccole bisogne di mangiare, dormire, lavarci. Nessuna crisi riesce a rompere la crosta dell’abitudine. Versai una tazza di tè per Maxim, glie la portai, gli diedi un pasticcino, imburrai una fetta di pane tostato per me. «Dov’è Frank?» domandai.
«È andato a parlare al parroco. Ci sarei andato anch’io, ma ho voluto ritornare subito da te. Non potevo fare a meno di pensare a te, che aspettavi qui, tutta sola, senza sapere quel che succedeva.» «Perché il parroco?» domandai. «Ci sarà una piccola cerimonia, questa sera» diss’egli. «Una cerimonia in chiesa.»
Lo guardai, senza capire. Poi capii. Avrebbero seppellito Rebecca. Avrebbero portato le sue spoglie dalla camera mortuaria alla cappella funebre. «È fissata per le sei e mezza» disse Maxim. «Non lo sa nessuno fuorché Frank, il colonnello Julyan, il parroco e io. Non ci saranno curiosi. Abbiamo già disposto tutto fin da ieri, il verdetto non c’entra, in questo.» «A che ora devi andare?»
«Ho appuntamento con gli altri in chiesa alle sei e venticinque.»
Non dissi nulla. Seguitai a bere il mio tè. Maxim posò un panino che non aveva toccato. «Fa ancora molto caldo, non è vero?» disse.
«È il temporale» replicai. «Non riesce a scoppiare. Qualche piccolo tuono qua e là. E intanto rimane in aria.»
«Tuonava quando ho lasciato Lanyon. Il cielo pareva inchiostro. Ma perché non piove, in nome di Dio?» Gli uccelli tacevano, fra gli alberi. Era buio come se facesse notte.
«Peccato, che tu debba uscire di nuovo» dissi. Maxim non rispose. Appariva così stanco, mortalmente stanco.
«Parleremo di tante cose questa sera, quando ritornerò» egli disse poi. «Abbiamo tanto da fare insieme, non è vero? Dobbiamo ricominciar tutto da capo. Sono stato per te il peggiore dei mariti, finora.» «No!» esclamai. «No!»
«Una volta che tutto questo orrore sarà dietro di noi, ricominceremo da capo. Siamo capaci di farlo, tu ed io insieme. Non è come essere soli. Il passato non può farci del male, se siamo uniti. E tu avrai dei bambini.» Dopo un momento diede un’occhiata all’orologio. «Sono le sei e dieci» disse. «E bisogna che vada. Non ci metteremo molto, non più di una mezz’ora. Dovremo scendere giù nella cripta.»
Gli presi la mano. «Vengo con te. Non mi farà impressione. Lasciami venire con te.»
«No» egli disse. «No, non voglio che tu venga.» E uscì. Udii il rombo della macchina, forte dapprima, morire a poco a poco giù per il viale. Maxim se n’era andato.
Roberto venne a portar via i vassoi del tè. Come tutti gli altri giorni. La vita quotidiana andava avanti immutata. Chissà se così sarebbe stato, se Maxim non fosse ritornato da Lanyon? Se avrei visto Roberto lì, con quell’espressione imperturbabile sulla giovane faccia da pecora, a scuoter via le briciole dalla tovaglia bianca, a portar via il tavolino dalla stanza…
Un gran silenzio regnò nella biblioteca, dopo ch’egli se ne fu andato. Pensavo a quegli uomini in chiesa; li seguivo attraverso la navata, e giù per la scaletta, fino alla cripta. Non c’ero mai stata; avevo visto soltanto la porta. Com’era, una cripta? Ci dovevano essere molte bare. Quelle dei genitori di Maxim. E che cosa ne avrebbero fatto della bara di quell’altra donna, che era stata sepolta lì per errore? Chi poteva mai essere, quella sciagurata che nessuno aveva reclamato, rigettata a terra dal vento e dalla marea? Ora nella cripta ci sarebbe stata un’altra bara. Rebecca avrebbe riposato nella cripta. A quest’ora il parroco leggeva l’ufficio funebre, con Maxim e Frank e il colonnello Julyan in piedi accanto a lui. Polvere e cenere… Mi pareva che Rebecca non avesse più alcuna consistenza. Ella era andata in polvere dal momento che l’avevano ritrovata distesa sul pavimento della cabina. Non era Rebecca che giaceva in quella bara nella cripta; non era che un po’ di polvere. Poco dopo le sette incominciò a piovere. Dolcemente dapprima, un picchiettar leggero sulle foglie; e la pioggia era tanto sottile che non si vedeva. Poi si mise a piovere più forte, più presto,
e tosto fu un torrente che di sghembo cadeva dal cielo, irrefrenabile, come acqua da una cateratta. Lasciai aperte le finestre. In piedi, davanti a una finestra, respiravo l’aria fredda e pura. La pioggia mi frustava il viso e le mani. Tanto rapida e fitta era, che non vedevo al di là dei prati. Udivo l’acqua gorgogliar nelle grondaie sopra la finestra, e schiaffeggiar le pietre della terrazza. Non tuonava più. La pioggia odorava di muschio e di terra, e di nera corteccia d’alberi. Non avevo sentito Frith entrare nella stanza; intenta a guardar la pioggia, non m’accorsi di lui fino a che non mi fu vicino.
«Scusatemi, signora» egli disse «ma credete che il signore tarderà ancora molto?» «No, non credo che tarderà molto» risposi. «Ci sarebbe un signore che desidera vederlo» riprese Frith, dopo aver esitato un attimo. «Non sapevo bene cosa dirgli. Insiste tanto per vedere il signor de Winter…»
«Chi è?» domandai. «Qualcuno che conoscete?» Frith apparve imbarazzato. «Sì,signora» rispose. «È un signore che una volta veniva spesso qui, quando… quando eraancora viva la signora de Winter. È un certo signor Favell.»
M’inginocchiai sul sedile, e chiusi la finestra. La pioggia bagnava i cuscini. Poi, con calma mi volsi a Frith. «Credo sarà meglio che parli io col signor Favell» dissi.
«Benissimo, signora»
Mi avvicinai al caminetto, là dove c’era il gran tappeto. Forse avrei potuto liberarmi di Favell prima che Maxim ritornasse. Non sapevo affatto che cosa gli avrei detto, ma non mi sentivo punto intimorita. Un momento dopo Frith faceva entrare Favell. Era tale e quale l’avevo visto l’altra volta; un poco più rozzo, un poco più trasandato, se mai. Apparteneva a quella razza d’uomini che invariabilmente vanno in giro senza cappello; il sole degli scorsi giorni gli aveva schiarito i capelli, ed era fortemente abbronzato in viso. Gli occhi iniettati di sangue tradivano anche questa volta il bevitore.
«Mi dispiace che Maxim non sia in casa» dissi. «Non sarebbe meglio se prendeste un appuntamento per vederlo domani mattina in ufficio?» «Oh, non mi fa nulla aspettare» replicò Favell. «E del resto, mi pare che non dovrò aspettare molto a lungo… Ho dato un’occhiata in sala da pranzo, nel passare, e ho visto che il posto perMaxim era preparato.» «Sì, ma non sappiamo nulla di preciso» dissi. «È ben possibile che questa sera Maxim non ritorni affatto a casa.»
«Che! Si è dato alla macchia?» esclamò Favell, con un mezzo sorriso che non mi piacque. «Ma non dite mica sul serio… Certo, certo, date le circostanze è la miglior cosa che possa fare. Non tutti gradiscono sentirsi fischiar le orecchie, eh? Ed è più facile evitare le chiacchiere, non è vero?»
«Non capisco che cosa volete dire» replicai, fredda. «Davvero? Oh, questo poi non me lo fate credere… Ma ditemi, vi sentite meglio?» Egli mutava tono «Un vero peccato, che siate svenuta a quel modo, oggi all’inchiesta… Avrei voluto correre in aiuto vostro, ma ho visto che avevate già altri cavalieri…» «Per quale ragione desideravate vedere Maxim?» lo interruppi.
Senza rispondere alla mia domanda Favell si avvicinò al tavolino e prese una sigaretta. «Permettete che fumi?» Non stette ad aspettare la mia risposta; e mi guardava, al disopra dell’accenditore. «Non so cosa sia, ma mi sembrate cresciuta, dall’ultima volta che vi ho veduta…» E soffiò una boccata di fumo in aria. «Dite, vi rincrescerebbe pregare il vecchio Frith di portarmi un whisky e soda?»
Senza una parola suonai il campanello. Favell s’era seduto sul bracciolo del divano, dondolando le lunghe gambe, sempre con quel sorrisetto sulle labbra. «Un whisky e soda per il signor Favell» dissi a Roberto che s’era presentato.
«Beh, Roberto, è un pezzo che non ci vediamo!» disse Favell. «Sempre rubacuori?»
Al colmo dell’imbarazzo, Roberto mi sbirciava, arrossendo. Si affrettò a uscire, e ritornò col vassoio e la bibita, che versò con mano malsicura, mentre Favell seguitava a guardarlo sorridendo.
Girando attorno uno sguardo curioso e irrequieto, guardandomi ogni tanto di sottecchi, Favell beveva. «Bah… dopo tutto, non me ne importa poi molto, anche se Max non rientrerà per l’ora di pranzo» disse finalmente. «Che ne dite? Credete che sciuperemo quel posto a tavola?»
Ero rimasta in piedi davanti al caminetto, le mani giunte dietro il dorso. «Signor Favell» dissi, risoluta «non vorrei essere sgarbata, ma vi confesso che mi sento molto stanca. Ho avuto una giornata lunga e piena di emozioni che mi hanno veramente esaurita. Se non potete dirmi la ragione per cui desiderate vedere mio marito, non servirà a molto che ve ne stiate seduto qui. Sarebbe molto meglio che faceste come vi ho consigliato, e che passiate in ufficio domani mattina.»
Favell si lasciò scivolar giù dal bracciolo del divano e venne vicino a me, il bicchiere in mano. «No, no, non siate cattiva, via… Anch’io ho avuto una giornata penosa. Non mi scappate, non mi piantate qui solo. Sono un individuo innocuo, ve lo assicuro. Chissà che favole vi avrà raccontato Max su di me…» E siccome non gli davo risposta: «Voi mi crederete la pecora nera della famiglia, non è vero? Ma ve lo giuro, sono un agnellino che non fa male a nessuno! E se volete sapere la mia opinione… voi siete stata magnifica, in tutta questa faccenda, magnifica! E io vi faccio tanto di cappello, senza scherzi!» Durante le ultime parole, la lingua gli si andava sempre più ingarbugliando. Rimpiangevo d’aver detto a Frith di farlo passare.
«Voi ve ne venite quaggiù a Manderley» riprendeva Favell, tracciando vaghi gesti in aria «v’installate qui da padrona, ricevete centinaia di persone che non avete mai visto in vita vostra, sopportate Max e le sue ubbie, e con tutto ciò, ve ne infischiate di tutti, e andate avanti per la vostra strada. Se questo non si chiama essere una donna in gamba… E son pronto a dirlo ai quattro venti. Una donna in gamba.» Barcollò, ma si rimise in sesto e posò sul tavolino il bicchiere vuoto. «Tutta questa faccenda è stata un colpo per me. Un maledetto, schifoso colpo. Rebecca era mia cugina. E io le volevo bene, accidenti se glie ne volevo.» «Sì» dissi. «E vi compiango, sinceramente.» «Siamo cresciuti insieme» egli seguitò. «E siamo stati sempre amici per la pelle. Avevamo gli stessi gusti, ci piacevano le stesse persone. Ridevamo degli stessi scherzi. Credo non ci fosse un’altra persona al mondo, alla quale volessi bene come a Rebecca. E lei voleva bene a me. Ed è stato un fiero colpo, accidenti.» «Sì» dissi. «Sì, vi capisco.»
«E adesso che cosa farà Max? Ecco quel che vorrei un po’ sapere. Adesso che quell’inchiesta da burla è finita, crede di potersene star seduto qui tranquillo come un papa? Ditemi un po’… eh?» Non sorrideva più. E mi stava quasi addosso. «Ma io, io ci penserò a che giustizia venga fatta a Rebecca!» E alzava la voce. «Suicidio… Dio Onnipotente, quel vecchio barbagianni d’un giudice istruttore ha indotto la giuria a dichiarar ch’era stato un suicidio. Ma voi e io lo sappiamo, che non è stato un suicidio, eh?» E mi stava sempre più addosso. «Lo sappiamo, eh?» ripetè, lentamente. La porta si aprì, ed entrò Maxim, seguito da Frank. Sulla soglia ancora Maxim si fermò di botto, e fissò Favell. «Che cosa diavolo fai qui?» domandò. Favell si voltò, le mani in tasca. Esitò un attimo, poi sorrise. «Se vuoi sapere la verità, Max, caro il mio Max, son venuto a congratularmi con te per il risultato dell’inchiesta d’oggi.»
«Vorresti farmi il favore di uscire di qui?» disse Max. «O vuoi che Crawley e io ti cacciamo fuori?» «Piano… un momento, un momento» replicò Favell. Accese un’altra sigaretta, e tornò a sedersi sul bracciolo del divano.
«Non vorrai mica che Frith senta quel che sto per dire, eh?» disse. «E sentirà, se non chiudi quella porta.» Max non s’era mosso. Vidi Frank richiudere piano piano la porta.
«Ora, Max, sentimi un po’» cominciò Favell. «Da questo affare tu ne sei uscito pel rotto della cuffia, non è vero? Più pulito di quanto non te lo saresti mai aspettato. Oh, sì, ero in tribunale, oggi, e se non sbaglio, m’hai anche visto. Dal principio alla fine ci son stato. Ho visto tua moglie svenire, a un momento un po’ critico, e l’ho anche capita. L’inchiesta camminava su un fil di rasoio, non è vero, Max? Una fortuna per te, che sia andata per quel verso…»
Maxim mosse un passo verso Favell, ma questi lo arrestò con un cenno della mano.
«Un momento, un momento! Non ho ancora finito. Caro Max, tu ti renderai ben conto, che se volessi, potrei metterti in una brutta situazione? Non solo brutta, ma pericolosa, direi?»
M’ero seduta sulla poltrona a fianco del caminetto, e stringevo forte i braccioli. Frank s’era avvicinato a me, dietro la poltrona. Maxim non s’era ancora mosso, ma i suoi occhi non abbandonavano Favell. «Ah, sì?» disse. «E in che modo potresti mettermi in una situazione pericolosa?» «Senti, Max» disse Favell «mi figuro che non ci saranno segreti fra te e tua moglie, e, a occhio e croce, nemmeno con Crawley. Posso dunque parlar fuori dai denti. Tu sai come stavano le cose fra me e Rebecca. Io non ho mai negato quali fossero i nostri rapporti… hm… Dunque: finora ho creduto sempre, come tutti gli altri imbecilli, che Rebecca si fosse annegata nella baia, e cheil suo cadavere fosse stato ritrovato tante settimane dopo a Edgecombe. È stato un dispiacere per me, un grosso dispiacere. Ma, ho finito per dirmi, era proprio quella la fine che Rebecca avrebbe scelto, se ne sarebbe andata in piena battaglia, come aveva vissuto sempre.» S’interruppe, e ci guardò tutti in viso, uno dopo l’altro. «E poi, poche sere fa, mi capita di leggere il giornale della sera, e ti vedo che un palombaro ha ritrovato il panfilio di Rebecca, e che rinchiuso nella cabina c’era un cadavere. Non capivo. E chi diavolo Rebecca poteva mai essersi preso per compagno? Pareva impossibile… Venni qui, e m’installai in un alberghetto, appena fuor di Kerrith, e subito cercai della signora Danvers. Essa mi disse che il corpo trovato nella cabina era quello di Rebecca. E come tutti quanti ho pensato che la prima identificazione era stata uno sbaglio, e che Rebecca s’era colta in trappola nella cabina, scendendo a prender qualche cosa. Insomma, oggi ho voluto assistere all’inchiesta, come saprete ormai… E tutto è andato liscio, fino alla deposizione di quel Tabb. Ma… e poi? Dunque, caro Max, che cosa hai da dire di quei buchi nelle tavole, e di quelle valvole aperte?»
«E tu credi che dopo aver sprecato tanto fiato oggi, voglia ritornar da capo su tutto quanto? Hai sentito la mia deposizione, e hai sentito il verdetto. Se è soddisfatto il giudice, devi essere soddisfatto anche tu.» Maxim aveva parlato con calma.
«Ah! Suicidio, eh?» rimbeccò Favell. «Rebecca si sarebbe uccisa. Proprio lei, eh, avrebbe fatto una cosa simile? Senti, ma tu non lo sai che io ho ricevuto questo biglietto! L’ho tenuto, perché era l’ultima cosa che essa ha scritto. Ora te lo leggerò. E credo t’interesserà…» Intanto, s’era tolto di tasca un foglio di carta da lettere. Riconobbi la calligrafia sottile, aguzza, inclinata. “Ho cercato di telefonarti da casa mia, ma non ho avuto risposta” leggeva Favell. “Parto adesso per Manderley. Mi troverò stasera alla casetta, e se ricevi questo biglietto in tempo, prendi la macchina e vieni giti. Passerò là la notte, e troverai la porta aperta. Ho qualcosa da dirti; ho bisogno di vederti al più presto. Rebecca”
Egli si rimise in tasca il foglio. «Vi sembra un biglietto che uno scrive quando ha intenzione di uccidersi?» disse. «Lo trovai a casa mia, rincasando, verso le quattro del mattino. Non avevo idea che Rebecca fosse a Londra, quel giorno, altrimenti avrei cercato di vederla. Per un vilissimo scherzo della sorte, s’era dato che quella sera fossi andato fuori con certi amici. Quando poi trovai il biglietto, alle quattro del mattino, mi parve troppo tardi ormai per mettermi in viaggio per Manderley. Sei ore di macchina. Decisi che avrei telefonato, in giornata, e andai a letto. Telefonai, infatti. Verso mezzogiorno. E mi dissero che Rebecca s’era annegata!» Tacque, guardando Maxim. Nessuno di noi parlò. «Supponiamo che oggi il giudice avesse letto quel biglietto, non ti sembra che gli avrebbe messo una pulce nell’orecchio, eh, Max?»
«Ebbene?» replicò Maxim. «Perché non ti sei fatto avanti a darglielo?»
«Piano, ragazzo mio, piano. Non c’è bisogno che tu prenda fuoco. Non voglio mica rovinarti, Max. Dio sa che non mi hai veduto mai troppo di buon occhio, tu, però io non te ne serbo rancore. I mariti delle belle mogli son sempre gelosi… Ora, Max, ho messo tutte le mie carte in tavola. Perché non possiamo metterci d’accordo? Io non sono un uomo ricco. Mi piace troppo il gioco, per questo. Ma quel che mi rovina, è non aver mai un po’ di denaro su cui poter contare. Ora, se avessi una piccola rendita di un due o tremila sterline l’anno; potrei tirare avanti con comodo. E non ti disturberei mai più. Te lo giuro davanti a Dio, in quanto a questo!» «Ti ho già pregato una volta di uscire da questa casa» disse Maxim. «E non ti pregherò più, ormai. La porta l’hai dietro di te. E puoi aprirtela da solo.» «Piano, Maxim, piano» intervenne Frank. «Le cose non sono così semplici…» E si volse a Favell. «Vedo a che cosa mirate. Si dà il caso, molto disgraziato, che, come avete detto, potreste cambiar le carte in tavola e render le cose difficili a Maxim. Forse lui vede la cosa da un altro punto di vista, meno chiaro… Quale sarebbe, precisamente, la somma che Maxim dovrebbe intestarvi?»
Vidi Maxim sbiancarsi in viso; una piccola vena gli si gonfiò sulla fronte. «Non t’immischiare in questa faccenda, Frank» disse. «È un affare che riguarda me solo. E non cederò davanti a un ricatto.» «Suppongo che tua moglie non gradisca esser segnata a dito come la moglie di un assassino…» disse Favell. «Se tu credi di mettermi paura, Favell, ti sbagli» disse Maxim. «Non ho paura di quel che tu possa fare. In quello stanzino, qui dietro, c’è il telefono. Vuoi che chiami il colonnello Julyan e gli dica di venire qui? È il giudice conciliatore… La tua storiella lo interesserà.» Favell lo guardò un momento, poi rise. «Ben giocato» disse. «Ma non attacca. Tu non oseresti chiamare il vecchio Julyan. Ho prove abbastanza forti per mandarti alla forca, caro Max…» Lentamente Maxim s’era avviato allo stanzino del telefono. Udii il “clic” dell’apparecchio.
«Fermatelo!» gridai a Frank. «Per amor di Dio, fermatelo!»
Rapidamente Frank si avviava alla porta. Ma intanto, udivo la voce di Maxim, fredda, pacata. «Datemi Kerrith 17…» e poi, a Frank: «Lasciami stare…» Passarono due minuti. «Parlo col colonnello Julyan? Sono de Winter. Sì… Sì, lo so… Se potestefarmi il favore di venire qui, subito… Si, a Manderley. È piuttosto urgente. Non posso spiegarvi al telefono di che si tratta, ma saprete tutto, non appena sarete qui… Mi spiace infinitamente di disturbarvi… Sì… Grazie, grazie… Arrivederci.»
Egli ritornò da noi. «Julyan viene immediatamente» disse. Poi andò alla finestra e la spalancò. Pioveva sempre ancora a dirotto. Egli rimase lì, voltandoci il dorso, a respirar l’aria fredda.
«Maxim» disse Frank, piano. «Maxim…» Maxim non diede risposta. Favell rise, e si prese un’altra sigaretta. «Se vuoi rovinarti, per me è tutt’uno» disse. S’impadronì di un giornale che c’era sul tavolino, si buttò sul divano, accavallò le gambe, e cominciò a voltar le pagine. Frank esitava, guardando da me a Maxim. Poi mi venne vicino.
«Non potete far qualcosa?» sussurrai. «Andate incontro al colonnello Julyan, impeditegli di entrare, ditegli che è stato un equivoco…»
Maxim parlò dalla finestra, senza voltarsi. «Frank non uscirà da questa stanza. Me la sbrigherò io da solo. Il colonnello Julyan sarà qui fra… esattamente fra dieci minuti.»
Nessuno di noi parlò più. Favell seguitò a leggere il giornale. Non s’udiva altro rumore fuorché la pioggia, che cadeva costante, ininterrotta, monotona e dritta. Mi sentivo stremata; non avevo più un briciolo di forza. Che cosa potevo mai fare? In un libro, o in un dramma giallo io avrei trovato una rivoltella, e avremmo sparato su Favell, e nascosto poi il suo corpo in un armadio. Ma qui non c’erano rivoltelle. E nemmeno armadi. Noi eravamo gente comune; e cose simili non succedevano in casa nostra. E non potevo andar da Maxim, e supplicarlo a ginocchi di dare quel denaro a Favell. Non mi restava che starmene seduta lì, le mani in grembo, a veder piovere, a guardare Maxim in piedi presso la finestra, il dorso rivolto a noi.
Il rumor della pioggia, tanto forte da sovrastare tutti gli altri, ci impedì di udire il rombo della macchina che si avvicinava; e non seppimo così che il colonnello Julyan era giunto, fino a quando non si aprì la porta, e Frith lo fece entrare.
Subitamente Maxim si volse, dalla finestra. «Buona sera» disse. «Eccoci di nuovo qui… Avete fatto presto.»
«Sì» replicò il colonnello. «Avevate detto che era urgente, e sono venuto subito. Per fortuna, il mio autista non aveva ancora portato la macchina in rimessa. Ma che sera!»
Gettò a Favell uno sguardo incerto, poi venne a salutarmi. «Un bene che sia venuta l’acqua, però. Il tempo era troppo pesante. Spero vi sarete rimessa, signora…» Mormorai qualche cosa che non rammento più, e il colonnello rimase lì, a guardar dall’uno all’altro, strofinandosi le mani.
«Credo avrete capito» disse Maxim «che non vi ho pregato di uscire con una serata simile per far quattro chiacchiere dopo cena. Permettete che vi presenti Jack Favell, cugino in primo grado della mia defunta moglie. Non so se vi siete già incontrati…» Il colonnello annuì. «Infatti, non m’è un viso nuovo. Dobbiamo esserci incontrati qui, in altri tempi.» «Sta bene. E allora, parla tu, Favell» disse Max. Favell s’era alzato in piedi, buttando il giornale sul divano. In quella decina di minuti, egli pareva rinsavito. Era fermo sulle gambe. E non sorrideva più. Ebbi l’impressione che non fosse interamente soddisfatto della piega che prendevano gli avvenimenti, e oltre a ciò, mal preparato ad affrontare il colonnello Julyan. In ogni modo, alzava un po’ troppo la voce; il suo tono era alquanto tracotante. «Sentite, colonnello; è inutile menar il can per l’aia. La ragione per cui mi trovo qui è che il verdetto di oggi all’inchiesta non mi
ha interamente soddisfatto.»
«Oh! Ma questo tocca a dirlo a de Winter, e non a voi!» disse Julyan.
«Non proprio così» replicò Favell. «Io ho diritto di protestare, nella mia qualità di
cugino di Rebecca, non solo… ma anche di suo futuro marito, se essa fosse vissuta,»
Il colonnello apparve sorpreso. «Oh, allora… È vero, de Winter?»
Maxim si strinse nelle spalle. «Veramente, è la prima volta che sento una simile cosa.»
Dubitoso, il colonnello guardava dall’uno all’altro. «Beh, dite un po’, Favell, che cos’è che non vi va?»
Favell lo guardò un momento, interdetto. Vedevo che nella sua mente andava escogitando qualcosa, ma non aveva le idee abbastanza chiare per formulare il suo progetto. Lentamente si mise la mano in tasca, e ne cavò il biglietto di Rebecca. «Questo biglietto è stato scritto poche ore prima che Rebecca si mettesse in mare, coi suoi propositi suicidi. Eccolo qui. Leggetelo, e ditemi se vi pare che una donna che scrive così abbia in animo di togliersi la vita.»
Il colonnello Julyan tolse da una custodia che aveva in tasca un paio di occhiali, se li mise sul naso e lesse il biglietto. Poi lo restituì a Favell. «No» disse «così a occhio e croce, direi di no. Ma non so a che cosa si riferiscano queste righe. Forse lo sapete voi? O voi, de Winter?»
Maxim non rispose. Favell rigirava il foglio tra le dita, e intanto non cessava di guardare il colonnello. «Mia cugina mi dava un appuntamento, con questo biglietto, è chiaro, no?» disse. «Mi chiedeva di venire a Manderley quella notte ancora, perché aveva qualche cosa da dirmi. Di che cosa si trattasse non lo sapremo mai, suppongo, ma questo non ha importanza. L’appuntamento c’era, ed essa avrebbe passato la notte
alla casetta sulla spiaggia, appunto perché voleva vedermi da solo. Il fatto che essa si sia messa in mare non mi ha mai sorpreso. Era una cosa che essa faceva di solito, dopo una lunga giornata in città… Ma far dei buchi nel pavimento della cabina e lasciarsi colare a fondo, un gesto impulsivo, un capriccio isterico di ragazza nevropatica… oh, no, colonnello, per Cristo, no!» Il colore gli era tornato in viso, ed egli aveva quasi gridato le ultime parole. Andava perdendo le staffe, e dalle labbra strette del colonnello Julyan vedevo che Favell non gli aveva fatto buona impressione.
«Mio caro signore» disse il colonnello «non serve affatto che vi mettiate in collera con me. Io non sono il giudice che ha diretto l’inchiesta, e nemmeno un membro della giuria che ha pronunciato il verdetto. Io sono soltanto il giudice conciliatore del distretto. Naturalmente desidero aiutarvi per quanto posso, voi come de Winter. Voi dite che vi rifiutate di credere a un suicidio di vostra cugina. Dall’altro canto avete sentito, come tutti noi, la testimonianza del signor Tabb. Le valvole erano aperte, i buchi esistevano. Benissimo: arriviamo al punto, dunque. Che cosa dovrebbe essere successo in realtà?»
Favell volse il capo, lentamente, e guardò Maxim. Rigirava sempre ancora il foglio tra le dita. «Rebecca non ha mai aperto quelle valvole, né forato quelle tavole. Rebecca non si è mai uccisa. Avete chiesto la mia opinione, e perdio, l’avrete. Rebecca è stata assassinata. E se volete sapere chi è l’assassino, eccolo là, davanti a quella finestra, con quel suo maledettissimo sorriso di superuomo. Non poteva nemmeno aspettare che fosse finito l’anno, lui, per sposarsi la prima ragazza sulla quale ha messo gli occhi! Eccolo là, ecco l’assassino, se volete vederlo: il signor Maximilian de Winter. Guardatevelo bene. Farà una bella figura, penzoloni alla forca, non vi pare?»
E Favell scoppiò in una risata, una risata da ubbriaco, stridula, sforzata e sciocca, e intanto rigirava tra le dita il biglietto di Rebecca.
XXIV
V’era davvero di che ringraziare il cielo, per quella risata di Favell. E per quel suo dito puntato, e la sua faccia arrossata, e gli occhi iniettati di sangue… C’era di che ringraziare il cielo, per tutto quel suo atteggiamento malfermo e barcollante. Perché ridestò l’antagonismo del colonnello Julyan, il quale si schierò decisamente dalla nostra parte. Gli lessi in viso il disgusto; vidi un rapido moto delle sue labbra. Egli non credeva a Favell. Egli era dalla parte nostra.
«Quell’uomo è ubbriaco» egli disse, senza alzar la voce. «Non sa quel che si dice.»
«Ubbriaco, io?» sbraitava Favell. «Eh, no, caro il mio signore! Voi sarete un giudice e un colonnello per soprammercato, ma questo non attacca, con me. Io ho la legge dalla parte mia, e me ne servirò. Ci sono altri giudici oltre a voi, in questa sporca contea. Gente che ha cervello, che sa interpretare la legge. Non soldati, ufficiali che son stati silurati tant’anni fa, e se ne vanno in giro con una fila di medaglie di bandone sul petto! Il signor Max de Winter ha ucciso sua moglie, e io ne ho le prove!»
«Aspettate un momento, signor Favell» disse il colonnello con calma «voi eravate presente all’inchiesta, oggi, non è vero? Ora ricordo d’avervi visto, fra il pubblico. Se l’ingiustizia del verdetto vi ha così profondamente colpito, perché non avete rivolto le vostre proteste alla giuria, allo stesso giudice istruttore? Perché non avete mostrato quella lettera in tribunale?» Favell lo guardò di traverso, poi rise. «Perché?… Perché non mi andava, ecco! Ho preferito venir qui, e… e provocare il signor de Winter in persona.» «Ecco la ragione per cui vi ho telefonato» disse Maxim, scostandosi dalla finestra. «Avete già sentito le accuse di Favell. Io gli ho fatto la stessa domanda. Perché non aveva comunicato i suoi sospetti al giudice? Ma lui mi ha risposto che non era un uomo ricco, e che se io avessi acconsentito a passargli una piccola rendita di due o tremila sterline l’anno, non mi avrebbe mai più dato fastidio. Frank erapresente, e anche mia moglie. Hanno sentito tutti e due. Domandate a loro…» «È verissimo, colonnello» disse Frank. «Un ricatto, puro e semplice.»
«Sicuro» replicò il colonnello «senonché il guaio è che il ricatto non è una cosa molto pura, né particolarmente semplice. Può portare a molti inconvenienti per parecchia gente, anche se il ricattatore, in ultimo, finisce per trovarsi in carcere. Accade a volte che anche persone innocenti si trovino in carcere… È quel che vorremmo evitare, in questo caso. Non so se siete sufficientemente in voi, signor Favell, per rispondere alle mie domande; e se lascerete da parte certe questioni personali che sono irrilevanti, ce la sbrigheremo tanto più presto. Voi avete mosso al signor de Winter una grave accusa. Avete delle prove che possano sostenerla?» «Prove?» replicò Favell. «E che diavolo volete, come prove? Quei buchi nelle tavole non sono forse prove sufficienti?»
«Per nulla affatto» rispose il colonnello «a meno che non siate in grado di portare un testimone che li abbia veduti praticare. Dov’è il vostro testimone?» «E dagliela col testimone!» esclamò Favell. «Ma è stato de Winter, naturalmente! E chi altri avrebbe ucciso Rebecca?»
«Kerrith ha una popolazione abbastanza numerosa» disse il colonnello. «Perché non ve ne andate da una casa all’altra, a fare indagini? Il colpevole potrei essere io, per esempio. Mi sembra che non abbiate prove contro de Winter, più di quanto non ne avreste contro di me.» «Oh, capisco… Voi siete dalla parte sua. E lo difenderete. Non volete lasciarlo nei guai, perché avete pranzato in casa sua, e lui ha pranzato in casa vostra! Già, lui ha un gran nome da queste parti. Il padrone di Manderley…»
«State attento, Favell, state attento…» «Voi vi credete di poter fare la voce grossa, eh? Credete che questo non sia un caso da portare in tribunale… Ma io ne ho di prove! Vi dico che de Winter ha ucciso Rebecca perché era geloso di me. Egli era geloso, pazzamente geloso, sicuro! Quella sera, lui sapeva che essa era là alla casetta ad aspettarmi, ed è andato giù e l’ha uccisa, E poi, ha portato il suo corpo a bordo del panfilio, e lo ha affondato.»
«Una storia architettata bene, nel suo genere, Favell; però, torno a ripetervi che voi non avete prove. Portate un testimone che abbia assistito a quel che dite voi, e allora, forse, comincerò a prendervi sul serio. Conosco quella casetta sulla spiaggia. Un luogo piuttosto isolato, non è vero, dove la signora de Winter teneva gli arnesi da pesca e quanto le occorreva per la navigazione? Servirebbe alla vostra storia, se poteste trasformarlo in un villino con cinquanta altri villini lungo la spiaggia… Allora si potrebbe dare il caso che qualcuno degli abitanti avesse assistito al dramma che descrivete.» «Un momento…» disse Favell. «C’è una probabilità che de Winter sia stato visto, quella sera. È un’ottima probabilità… Vale la pena di tentare. Che ne direste, se vi portassi un testimone?»
Il colonnello Julyan si strinse nelle spalle. Vidi Frank gettare un’occhiata indagatrice a Maxim, il quale non aveva detto nulla, e osservava Favell. Compresi tutt’a un tratto che cosa intendesse questi. E in un lampo di paura è di orrore seppi ch’egli aveva ragione. C’era stato un testimone, quella notte. Piccole frasi mi ritornavano alla mente. Parole che non avevo capito, idee che credevo uscite dalcervello d’un povero idiota. “È andata sul mare, eh? E non tornerà…” “Io non ho mica detto niente…”
Ben sapeva. Ben aveva visto. Ben, con la sua mente primitiva e malata, era stato testimone… Egli errava nei boschi, quella notte. Aveva visto Maxim sciogliere il panfilio dagli ormeggi; e poi lo aveva visto ritornar solo nel canotto. Sentii che sul mio viso non c’era più una goccia di sangue; e senza forze mi appoggiai allo schienale della poltrona.
«C’è un povero scemo, qui del luogo, che si trova quasi sempre sulla riva del mare» diceva Favell. «Quando io andavo a trovare Rebecca, lui era sempre lì, attorno alla casetta. L’ho visto spesso. Dormiva nei boschi, o, quando le notti erano calde, anche sulla spiaggia. Non ha la testa a posto, e non si sarebbe mai fatto avanti di sua iniziativa. Ma per poco che abbia visto quella notte, io saprei ben farlo parlare. E separlasse?» «Chi è costui? È vero tutto questo?» domandò il colonnello.
«Deve voler dire Ben» affermò Frank, con un’altra occhiata a Maxim. «È il figlio d’uno dei nostri fittavoli. Ma è idiota fin dalla nascita; un poveretto che non sa quel che si dice né quel che si fa.» «E che cosa importa, accidenti?» gridò Favell. «Gli occhi li ha, no? E saprà che cosa ha visto. Non ha che da rispondere si o no. Ora vi
prende la fifa, no? Cominciate a perdere la vostra baldanza?» «Non si potrebbe trovare quell’individuo e interrogarlo?» domandò il colonnello.
«Sicuro» disse Maxim. «Frank, di’ a Roberto che faccia una corsa alla casa della madre di Ben, e che se c’è, lo conduca qui.»
Frank esitava. Vidi che mi guardava, con la coda dell’occhio.
«Su, vai, per carità!» insistè Maxim. «Bisogna ben metter fine a questa faccenda, no?» Frank uscì. Sentii il solito spasimo stringermi alla bocca dello stomaco…
In pochi minuti Frank era di ritorno. «Roberto ha preso la mia macchina» disse. «Se Ben è a casa, fra dieci minuti lo avremo qui.»
«La pioggia lo avrà fatto star dentro casa» disse Favell. «E vedrete che saprò sciogliergli io la lingua!» E rise, guardando a Maxim. Era più rosso che mai in viso. L’agitazione lo faceva sudare; aveva la fronte ricoperta di goccioline. Osservai la nuca rigonfia entro il colletto, e le orecchie attaccate basse alla testa. Tutta quella floridezza non avrebbe durato a lungo. Già egli era un uomo sciupato, e tendeva alla pinguedine.
«Mi sembra che qui a Manderley abbiate formato una piccola associazione a delinquere!» egli saltò su dopo un silenzio, prendendosi l’ennesima sigaretta. «Siete tutti solidali l’uno con l’altro. Persino il giudice conciliatore fa parte della congrega…Non dico della sposa. È giusto che una moglie difenda il proprio marito. Crawley è fuori causa, naturalmente. Sa che, se dicesse la verità, ci rimetterebbe il posto. Però, però, credo che in fondo all’anima mi serbi anche un zinzino di rancore. Non avete avuto molto successo con Rebecca, eh, Crawley? Questa volta vi sarà più facile, andate là… La sposa avrà piacere di trovare un braccio fraterno, ogni volta che sviene…»
Accadde in un batter d’occhi. Tanto rapido fu il gesto, che non vidi come Maxim avesse potuto farlo; vidi solo Favell barcollare e cadere contro il bracciolo del divano, e poi rotolare a terra. E Maxim era lì in piedi davanti a lui. Mi sentii nauseata. C’era un che di degradante, nel fatto che Maxim avesse colpito Favell. Avrei preferito ignorarlo… Avrei preferito non vedere. Il colonnello Julyan non aveva pronunciato parola, ma appariva accigliato. Voltò il dorso agli altri due, e mi venne vicino.
«Credo sia più opportuno che andiate di sopra, signora» mi disse, senza alzar la voce. Scossi il capo. «No» sussurrai. «No.» «Quell’individuo è in uno stato tale da dir qualsiasi enormità. Quel che avete visto non era molto bello, purtroppo. Vostro marito non poteva far diverso, ma è male che voi abbiate visto.»
Non risposi, intenta a guardare Favell che lentamente si rimetteva in piedi. Pesantemente si lasciò cadere sul divano, e si asciugò il viso col fazzoletto. «Datemi da bere» disse. «Qualcosa da bere.» Maxim guardò Frank, il quale uscì, fra un silenzio che durava tuttora quando ritornò col vassoio del whisky e soda. Riempì un bicchiere e lo porse a Favell. Egli bevve, avidamente, come una bestia. C’era qualcosa di orribile, di sensuale, nel modo come accostava la bocca al bicchiere. Le sue labbra si rinserravano in strano modo sull’orlo, come a ventosa… C’era una macchia rossa sulla sua guancia, là dove Maxim lo aveva colpito. Maxim gli aveva voltato le spalle, ed era ritornato presso la finestra. Guardai il colonnello Julyan, e m’avvidi che non perdeva d’occhio Maxim. Il suo sguardo era curioso, concentrato. Il cuore cominciò a battermi forte. Perché il colonnello fissava Maxim in quel modo? Forse che egli cominciava a dubitare, a sospettare? Maxim non si accorgeva di nulla. Guardava la pioggia, che cadeva ancora sempre dritta e continua. Lo scroscio dell’acqua grondante empiva la stanza intera. Favell, finito il suo whisky e soda, posò il bicchiere sul tavolino dinanzi al divano. Egli respirava pesantemente. Assorto, guardava avanti a sé, a terra.
Con una nota stridula, discordante, il trillo del telefono interruppe il silenzio. Frankandò a rispondere; subito tornò e si rivolse al colonnello Julyan. «È vostra figlia. Vorrebbero sapere se debbono tardare ancora a cenare.»
Il colonnello agitò una mano impaziente. «Dite che si mettano pure a tavola. Che non so quando sarò di ritorno.» Guardò l’ora di sfuggita. «Che idea di telefonare!» borbottò. «E un bel momento da scegliere.»
Frank ritornò nello stanzino per dare la risposta. Pensavo alla figlia del colonnello, all’altro capo del filo. Chissà se era la giocatrice di golf? E la immaginavo, che diceva alla sorella: “Papà dice che ci mettiamo a tavola. Ma per l’amor di Dio, che cosa starà facendo? Le bistecche diventeranno di cuoio”. Tutta la piccola casa disorganizzata per colpa nostra. Tutte queste assurde inconseguenti fila si annodavano l’una all’altra, perché Maxim aveva ucciso Rebecca. Guardai Frank. Aveva un viso pallido, alterato.
«Ho sentito la macchina ritornare…» disse. «La finestra dello stanzino dà sul viale.» Egli uscì nel vestibolo. Favell aveva alzato il capo, alle sue parole. Con uno sforzo si rizzò in piedi, guardando alla porta, un brutto sorriso maligno sulle labbra. La porta si aprì; entrò Frank, il quale si volse a parlare a qualcuno che ancora era fuori.
«Coraggio, Ben» diss’egli, bonario. «Il signor de Winter vuole regalarti un po’ di sigarette. Non c’è di che aver paura.»
Impacciato Ben si fece avanti, il cappellaccio in mano, senza il quale appariva stranamente nudo. Per la prima volta vidi che aveva una testa rapata, liscia come una palla da bigliardo. Era diverso; mi sembrava assai più brutto.
Abbacinato dalla luce viva, girava attorno ammiccando gli occhietti sbalorditi. D’un tratto mi scorse, e io gli sorrisi, fiaccamente. Non so se mi riconobbe. Ammiccava, incerto. Favell gli andava incontro, intanto; e tutt’a un tratto gli fu dinanzi.
«Ehi, amico!» gli fece. «Come te la sei passata, da quando ci siamo perduti di vista?» Ben lo fissava. Nulla indicava che lo avesse riconosciuto; e rimase muto.
«Beh, dico! Lo sai chi sono, no?» riprese Favell. Ben cincischiava il cappello. «Eh?» fece. «Prendi una sigaretta» disse Favell, porgendogli la scatola. Ben guardò verso Maxim e Frank. «Prendine pure quante vuoi» gli disse Maxim.
Ben ne prese quattro, e se le infilò a due a due dietro ogni orecchio. Poi, riprese a tormentare il cappello. «Lo sai chi sono, no?» ripetè Favell. Neanche questa volta Ben reagì. Il colonnello Julyan gli si accostò. «Ora ti rimandiamo subito a casa tua, Ben. Nessuno ti farà del male. Vogliamo soltanto farti due o tre domande. Tu conosci il signor Favell, non è vero?»
Questa volta Ben scosse il capo. «L’ho mai visto» disse.
«Non fare lo scemo» disse Favell, brusco; «lo sai che m’hai sempre visto. Mi vedevi entrare nella casetta sulla spiaggia, la casetta della signora de Winter. Di’ che m’hai visto là!»
«No» rispose Ben. «Ho mai visto nessuno!» «Maledetto imbecille d’un bugiardo!» esclamò Favell. «Hai il coraggio di dire che non m’hai veduto mai, l’anno scorso, quando giravo pei boschi con la signora de Winter? Non m’hai visto mai entrare nella
casetta?» «Eh?» ripetè Ben.
«Un teste davvero convincente» osservò il colonnello Julyan, sarcastico.
Favell si voltò come se lo avesse punto una vespa. «È tutto un trucco montato! C’è chi se lo è lavorato, quell’idiota, e gli avrà anche dato una buona mancia. Vi dico che mi ha visto, non so quante volte mi ha visto. Qua, questo ti rinfrescherà la memoria…» Si mise la mano nella tasca dei calzoni, e ne trasse un portafogli; e sventolò davanti a Ben un biglietto di banca. «Mi riconosci, adesso?»
Ben scuoteva il capo. «L’ho mai visto» disse; e poi si aggrappò al braccio di Frank. «Che è venuto qui per portarmi al manicomio?» «No» disse Frank. «No, Ben, stai tranquillo.» «Non voglio andare al manicomio!» insistè Ben. «C’è la gente cattiva, là dentro. Voglio restare a casa. Non ho fatto niente, io.»
«Non aver paura, Ben» disse il colonnello. «Nessuno ti porterà al manicomio. Ma sei proprio sicuro che non hai mai visto questo signore?»
«No. Mai visto, io.»
«Ma la signora de Winter te la ricordi, non è vero?» Dubitoso, Ben guardò verso di me. «No» disse il colonnello «non quella signora lì. L’altra, quella che andava alla casetta…» «Eh?» fece Ben.
«Non ti ricordi più la signora che era la padrona del battello?»
Ben ammiccò, furbesco. «È andata via» disse. «Sì, lo sappiamo» replicò il colonnello. «Andava via col battello, non è vero? E tu eri sulla spiaggia, quando è andata via l’ultima volta. Una sera, forse un anno fa. E dopo d’allora, non è tornata più…» Ben tormentava il cappello. Guardò a Frank, poi a Maxim. «Eh?» fece.
«Tu eri là!» disse Favell, protendendosi verso Ben. «Hai visto la signora de Winterarrivare, ed entrare nella casetta, e poi, hai visto anche il signor de Winter. È entrato, dopo di lei… Che cosa è successo dopo? Avanti! Che cosa è successo?»
Ben si ritrasse contro la parete. «Io non ho mica visto niente!» disse. «Voglio tornare a casa. Non voglio andare al manicomio. Io non v’ho mai visto. Mai. Mai
visto lei e voi nei boschi.» E si mise a frignare come un bambino.
«Piccolo topo schifoso…» mugolava Favell, sottovoce. «Piccolo topo schifoso…»
Ben si asciugava gli occhi col rovescio della manica. «Mi sembra che il vostro testimone non vi abbia aiutato gran che» disse il colonnello. «E questa commedia non ha servito che a farci perdere un po’ di tempo. Volete domandargli altro ancora?»
«È una congiura!» gridò Favell. «Una congiura contro di me, che avete architettato tra tutti voi. Qualcuno ha pagato questo scemo, ve lo dico io. Lo ha pagato, perché ci snocciolasse le sue sporche bugie.» «Mi sembra che si potrebbe rimandare a casa Ben, ormai» disse il colonnello.
«Va bene così, Ben» disse Maxim. «Ora Roberto ti ricondurrà a casa tua. E nessuno ti porterà al manicomio, non aver paura. Di’ a Roberto che gli faccia dare qualche cosa in cucina» aggiunse, rivolgendosi a Frank. «Un po’ di carne fredda, o quel che vorrà.» Frank condusse via Ben. «Quel poveraccio m’aveva l’aria d’esser spaurito» disse il colonnello a Maxim. «Tremava come una foglia. Lo osservavo… Non è mai stato maltrattato, per caso?»
«No» rispose Maxim. «È perfettamente innocuo, e io gli ho sempre permesso di andarsene in giro per i boschi.»
«Eppure, una volta o l’altra qualcuno deve averlo spaventato» insistè il colonnello. «Mostrava il bianco degli occhi, come un cane quando si sta per frustarlo.» «E perché non lo avete fatto?» disse Favell. «Mi avrebbe riconosciuto, e come, se avesse assaggiato la frusta. E invece, stasera si buscherà ancora una buona cenetta, per le sue prodezze.»
«Dunque, siccome Ben non vi ha molto aiutato» lo interruppe il colonnello Julyan, grave «eccoci ancora al punto di prima. Voi non siete in grado di produrre la minima testimonianza contro de Winter, e lo sapete. Quanto al motivo che avete addotto, non regge. In tribunale, caro Favell, voi non avreste nemmeno un appiglio sul quale sostenervi. Voi ci lasciate intendere che avevate una relazione con la defunta signora de Winter, e che c’erano dei convegni clandestini fra voi due, in quella casetta in riva al mare. Ma persino il povero idiota che era qui poco fa ha affermato di non avervi mai visto. E allora, come volete provare quel che ci raccontate?» «Ah, non posso?» ribatté Favell. Egli sorrise; e avvicinatosi al caminetto, suonò il campanello. «Che cosa fate?» domandò il colonnello. «Aspettate un momento e vedrete.» Frith si
presentò sulla soglia della porta che dava al vestibolo.
«Dite alla signora Danvers che venga qui subito» gli ordinò Favell.
Frith diede uno sguardo a Maxim, che annuì, brevemente. Il maggiordomo uscì.
«La signora Danvers non è la governante di casa?» domandò il colonnello.
«Era anche la migliore amica, la confidente di Rebecca» disse Favell. «Era con lei prima che si sposasse, anzi, si può dire che l’ha allevata. Oh, fra poco vedrete un testimonio ben diverso da Ben!» Frank era rientrato in quel momento. «Ora verrà qui la signora Danvers» gli disse il colonnello. «Favell crede che da lei potrà cavar qualcosa di utile, a quanto pare.»
Frank diede una rapida occhiata a Maxim, non tanto rapida che il colonnello non potesse coglierla. Di nuovo vidi le sue labbra serrarsi, e ciò non mi piacque. No, non mi piacque.
Cominciai a rosicchiarmi le unghie… Ancora aspettammo, gli occhi fissi alla porta. Finalmente, la signora Danvers entrò. Non so se fosse perché l’avevo vista quasi sempre da sola, e in confronto a me mi era parsa sempre alta e ossuta; ma ora la vedevo rimpicciolita, risecchita: davanti a Favell, a Frank e a Maxim ella era costretta ad alzare il capo per guardare a loro. Si fermò sulla porta, le mani giunte sul petto; i suoi occhi andavano dall’uno all’altro di noi tutti. «Buona sera, signora Danvers» disse Julyan. «Buona sera, signore» ella replicò, con quella voce spenta, meccanica che tante volte avevo udito. «Prima di tutto, signora Danvers, desidero farvi una domanda» disse il colonnello. «Ecco. Voi eravate al corrente dei rapporti tra la defunta signora de Winter e suo cugino, che vedete qui?» «Erano cugini di primo grado» replicò la signora Danvers, evasiva.
«Non alludo a rapporti di parentela. Intendevo qualcosa di più intimo.»
«Non vi capisco, signore… proprio non vi capisco» rispose la vecchia.
«Suvvia, Danny, sapete benissimo a che cosa vuol alludere il colonnello» intervenne Favell. «Già glie l’ho accennato, ma, a quanto pare, non mi crede. Rebecca è stata sempre innamorata di me…»
Con mia gran sorpresa, la Danvers lo squadrò un momento con una silenziosa freddezza non lontana dal disprezzo. «Non è vero» disse poi. «Sentite un po’, vecchia pazza…» cominciò Favell, ma la Danvers tagliò corto alle sue parole. «Non era innamorata di voi, non più che del signor de Winter. Non era innamorata di nessuno. Disprezzava tutti gli uomini. Era superiore a queste cose.» Un rossore iroso salì alla fronte di Favell. «Ma sentite… Allora, perché avrebbe dovuto acconsentire a quegli appuntamenti nel bosco? E non mi aspettava forse alla casetta, di notte? E non passavamo la domenica insieme, a Londra?»
«Ebbene?» ribatté la Danvers, con improvviso fervore. «E con ciò? Essa aveva pure diritto di divertirsi, no? L’amore era un gioco per lei, niente altro che un gioco. Me lo ha detto tante volte. Ci si appassionava, perché la faceva ridere. La faceva ridere, vi dico. E rideva di voi, come di tutti gli altri. A volte, l’ho vista ritornare da Londra, e sedersi sul letto, di sopra in camera sua, e torcersi dal ridere alle spalle di tutti quanti.» C’era qualcosa di, orribile in quell’improvviso torrente di parole; qualcosa di orribile e di inatteso. Malgrado sapessi, mi rivoltava. Maxim era diventato molto pallido. Favell guardava fisso la Danvers, come se non capisse. Il colonnello Julyan si stiracchiava i baffetti. Per qualche minuto, nessuno pronunciò parola. Non s’udiva altro fuorché quella pioggia, che cadeva costante. Poi, la signora Danvers si mise a piangere forte. Piangeva come quel mattino nella stanza di Rebecca; e non avevo cuore di guardarla. Fui costretta a voltarmi altrove, per non vederla. E nessuno parlò. Non s’udivano che quelle due voci, la pioggia che cadeva e il pianto della signora Danvers. Avrei voluto gridare. Fuggir via di corsa, e gridare e gridare…
Nessuno mosse verso di lei, nessuno ebbe l’impulso di aiutarla, né con una parola, né con un gesto. Ed ella continuava a piangere. Finalmente, parve fosse passata un’eternità, ella si riprese. A poco a poco il pianto cessò; ella si calmò, il viso tuttora contratto da una smorfia, le dita aggrappate alla stoffa nera della veste. Quando tacque del tutto, parlò il colonnello Julyan, lentamente, con calma.
«Signora Danvers, non potete immaginare una ragione, per quanto remota, che abbia indotto la signora de Winter a togliersi la vita?»
La signora Danvers trangugiò come se avesse un nodo in gola. Continuava a tormentarsi la veste. «No» disse, scrollando il capo. «No.»
«Ecco, vedete?» intervenne Favell. «È impossibile! Essa ne è convinta quanto me. Ve l’avevo già detto io.»
«Tacete, per favore» disse il colonnello. «Lasciate alla signora Danvers il tempo di riflettere. Tutti quanti noi ammettiamo che così, a prima vista, l’idea è assurda, e fuori causa. Io non discuto la verità, né l’autenticità di quel vostro biglietto. Essa lo ha scritto a un dato momento della giornata che ha passato a Londra. C’era qualche cosa,che le premeva di farvi sapere. È possibile che, se noi sapessimo di che cosa si trattava, avremmo una risposta a tutto questo mistero. Fate leggere il biglietto alla signora Danvers. Chissà che essa non riesca a fare un po’ di luce…» Favell scrollò le spalle; tuttavia si cacciò la mano in tasca, e ne trasse il foglio che buttò ai piedi della signora Danvers. Ella si curvò a raccattarlo.
Osservammo le sue labbra muoversi mentre leggeva: e lesse due volte. Poi scrollò il capo. «Inutile» disse. «Non so che cosa volesse dire. Se avesse avuto qualcosa d’importante da raccontare al signor Jack, lo avrebbe detto prima a me.» «Voi non l’avevate più veduta, quella sera?» incalzò il colonnello.
«No, ero fuori. Avevo passato il pomeriggio e la serata a Kerrith. Non me lo perdonerò mai. Mai, finché vivo.»
«Dunque, non sapete che essa avesse qualcosa in animo? Non siete in grado di suggerirci una soluzione? Quelle parole “Ho qualcosa da dirti” non significano proprio nulla per voi?»
«No, signore. No, non significano nulla.» «Non c’è nessuno che sappia come essa abbia trascorso quella giornata a Londra?»
Nessuno rispose. Maxim fece segno di no. Favell bestemmiava, sottovoce.
«Sentite» disse poi quest’ultimo «ha lasciato la lettera alle tre del pomeriggio a casa mia. Il portiere l’ha veduta. Dopo di che, deve esser partita direttamente per Manderley, e deve aver filato come il vento.» «La signora de Winter aveva un appuntamento dal parrucchiere, dalle dodici all’una e mezza» disse la signora Danvers. «Questo lo ricordo, perché ho telefonato a Londra io in principio della settimana, per fissar l’ora. Sì, mi ricordo… Dalle dodici all’una e mezza. E quand’era stata dal parrucchiere, essa pranzava sempre al suo circolo, per poter tenere le forcine nei capelli. Così, son quasi certa che anche quel giorno avrà pranzato là…» «Diciamo che ci abbia messo una mezz’ora, per pranzare; che cosa avrà fatto poi dalle due alletre? È quel che dovremmo stabilire» disse il colonnello. «Oh, per Cristo Gesù, chi se ne frega di quel che essa avrà fatto?» gridò Favell. «Che essa non si sia uccisa, questa è l’unica cosa che importa, no?» «Ho il suo libretto degli appuntamenti, in camera mia» disse la signora Danvers. «Ho tenuto io tutte quelle piccole cose. Il signor de Winter non me le ha mai chieste. Essa può aver notato gli appuntamenti per quel giorno. In queste cose era molto precisa; scriveva tutto, e segnava quel che era fatto con una crocetta. Se credete che possa servire, vado a prendere il libretto.» «Ebbene, de Winter?» domandò il colonnello. «Che ne dite? Non avete nulla in contrario a che lo vediamo?»
«Nulla» replicò Maxim. «Che cosa dovrei avere in contrario?»
Di nuovo vidi il colonnello Julyan guardare Maxim di sfuggita, in quel curioso modo. E questa volta se ne accorse anche Frank. Vidi Frank guardare a Maxim, e poi a me. Questa volta fui io che mi alzai e andai alla finestra. Mi parve che non piovesse
più così forte. La furia, almeno, era passata. La pioggia cadeva ora con una nota più quieta, più sommessa. La grigia luce del crepuscolo aveva invaso il cielo. I prati, molli di pioggia, apparivano quasi neri, e gli alberi avevano misteriosi aspetti ingobbiti. Udivo, al piano di sopra, la cameriera che andava in giro a tirar le cortine per la notte, a chiudere le finestre rimaste aperte. Le piccole abitudini quotidiane seguivano il loro corso, inevitabilmente, come sempre si faceva. Tirare le cortine, portar via le scarpe da pulire, disporre gli asciugamani di spugna nel gabinetto da bagno, riempire la vasca per la signora. Scostare i risvolti delle lenzuola, disporre le pantofole a piè della poltrona. E noi eravamo qui, nella biblioteca, e nessuno di noi parlava, e sapevamo tutti, in cuor nostro, che per Maxim era questione di vita o di morte. Mi voltai, udendo la porta richiudersi piano. La signora Danvers era tornata, con un taccuino in mano. «Avevo ragione» ella disse. «Aveva segnato gli appuntamenti, come ho detto io. Eccoli qui, il giorno che essa; è morta.»
Aperse il diario degli appuntamenti, un libriccino rilegato in pelle rossa, e lo porse al colonnello. Questi tornò a mettersi gli occhiali. Vi fu una lunga pausa, mentre egli esaminava la paginetta. Sentivo tutta l’ansia del momento, che non era un momento come gli altri, mentre egli scrutava quella pagina e noi eravamo lì in attesa; e mi parve, quel momento, più terribile di tutto ciò che già avevo sopportato in quella serata. Mi cacciai le unghie entro le palme, incapace di guardare Maxim. Certamente il colonnello sentiva il battito disordinato del mio cuore nel petto… «Ah!» egli esclamò. Teneva il dito a metà della pagina. Ora accade qualcosa, pensavo, qualcosa di spaventoso. «Sì… sì, ecco qui. Parrucchiere: ore dodici, come ha detto la signora Danvers. E accanto c’è una croce. Ha liquidato l’appuntamento, dunque. Pranzo al circolo: e anche qui c’è una croce. Poi, che cosa c’è qui? Baker: ore due. Chi era Baker?» Egli guardò Maxim, che scosse il capo; e poi la signora Danvers. «Baker?» ripetè la signora Danvers. «Essa non conosceva nessuno che si chiamasse così, ch’io mi sappia. Non ho mai sentito quel nome…»
«Eppure, eccolo qui» replicò il colonnello, porgendole il libriccino. «Vedetelo voi. Baker. E ci ha anche messo vicino una gran croce, che pareva volesse rompere la matita. Chiunque fosse, è evidente che questo Baker deve averlo veduto.»
La signora Danvers fissava il nome scritto sulla pagina, e la croce tracciata accanto. «Baker…» ripeteva. «Baker…»
«Se riusciamo a scoprire chi era questo Baker, possiamo dire d’essere a cavallo» disse il colonnello Julyan. «La signora de Winter non era mica in mano di… strozzini, per caso?»
La signora Danvers lo guardò sdegnata. «Strozzini!» esclamò.
«Beh… ricattatori, forse?» disse il colonnello, con un’occhiata a Favell.
La signora Danvers scosse il capo. «Baker…» ripeteva ancora.
«Non aveva nemici, nessuno che l’abbia mai minacciata, nessuno di cui avesse paura?»
«Paura… la signora de Winter?» disse la Danvers. «Essa non aveva paura di nulla e di nessuno! C’era una sola cosa che la preoccupava, ed era l’idea d’invecchiare, di ammalarsi, di morire nel proprio letto. Tante volte mi ha detto “Quando me ne andrò,
Danny, voglio che sia in un batter d’occhi, come una candela che si spegne con un soffio“. Ed è l’unica cosa che m’ha sempre consolata, dopo la sua morte. Dicono che quelli che annegano non soffrono, è vero?»
E guardava intenta il colonnello, che non le diede risposta. Egli esitava, tormentandosi i baffi. Vidi che di nuovo guardava Maxim, di sfuggita.
«Insomma, qui stiamo menando il can per l’aia» disse Favell, facendosi avanti. «E intanto, ci allontaniamo sempre più da questa dannata faccenda. Chi se ne frega di questo Baker? Che cosa ci ha a che fare con quel che c’interessa? Sarà stato qualche ciurmadore che vendeva calze di seta, o crema per la faccia. Se fosse stato una persona d’una certa importanza, Danny lo avrebbe saputo. Rebecca non aveva segreti per Danny.» Ma io, intanto, osservavo la Danvers, la quale sfogliava il diario. D’un tratto ella diede in un’esclamazione. «Ecco qui! In fondo al libretto, tra i numeri telefonici. Baker! E accanto c’è un numero: 0488. Ma non c’è la centrale…» 1
1 A Londra, come in altre grandi città, i numeri telefonici sono suddivisi per centrali, le quali recano nomi diversi di quartieri o strade. (N.d.T.)
Oh geniale Danny!» esclamò Favell. «Alla vostra tarda età, rischiate di diventare uno Sherlock Holmes! Ma arrivate un anno in ritardo. Se aveste fatto questa scoperta dodici mesi fa, forse avrebbe servito a qualche cosa.»
«Il numero è questo, non c’è dubbio» disse il colonnello. «0488, e vicino, Baker. Ma perché non avrà segnato la centrale?»
«Provate tutte le centrali di Londra!» motteggiò Favell. «Ci metteremo tutta la notte, ma che cosa importa? E che cosa importa a Max, se il conto del telefono salirà magari a cento sterline, eh, Max? Tu stai cercando di guadagnare tempo, e così farei io, se fossi nei tuoi panni.»
«C’è un segno vicino al numero, ma chissà cosa può voler dire…» osservò il colonnello. «Guardate un po’ voi, signora Danvers. Potrebbe essere una M?» La signora Danvers aveva ripreso in mano il libretto. «Potrebbe essere» disse, dubitosa. «Non è la sua M solita, ma forse l’ha scritta in fretta. Sì, potrebbe ben essere M.»
«Mayfair 0488» disse Favell. «Oh che mente, che cervello!»
«Ebbene?» disse Maxim, accendendo la prima sigaretta in tutta la serata. «Tanto vale provare, no? Frank? Vai al telefono e chiedi Mayfair 0488.» Il dolore alla bocca dello stomaco diventava quasi insopportabile. Ero rimasta come impietrita, le mani lungo i fianchi. E Maxim non mi aveva neppur guardata.
«Avanti, Frank» insistè. «Che cosa aspetti?» Frank andò nello stanzino, e ritornò dopo un momento. «Mi chiameranno» disse. Il colonnello Julyan s’era messo a camminare su e giù per la stanza, le mani dietro il dorso. Nessuno parlava. Passarono quattro, cinque minuti; poi si udì lo squillo stridulo, insistente: la nota irritante, monotona del telefono interurbano. Frank andò a rispondere. «Parlo con Mayfair 0488?» lo udimmo dire. «Sapreste dirmi se abita lì una persona che si chiama Baker?… Oh, ho capito. Scusate. Sì, devo aver sbagliato numero. Grazie infinite.» Il piccolo “clic” dell’apparecchio. «Il numero appartiene a una certa Lady Eastleigh»disse Frank, ritornando. «È un indirizzo in Grosvenor Street. Non conoscono nessun Baker.»
Favell scoppiò in una risataccia sguaiata. «Avanti, Sherlock Holmes! Qual è la prossima centrale, sulla lista?» «Provate Museum» disse la signora Danvers. «Avanti Frank» disse Maxim a questi, che lo aveva guardato. E l’atroce commedia si ripetè, punto per punto. Il colonnello riprese la sua passeggiata. Altri cinque minuti; e di nuovo l’interurbano squillò, e Frank andò a rispondere. Questa volta aveva lasciato la porta aperta, e lo vedevo, appoggiato al tavolino sul quale stava l’apparecchio, e curvo sul microfono. «Pronto! Museum 0488? Sapreste dirmi se in questa casa abita una persona che si chiama Baker? Oh… chi è che parla? Il portiere di notte?… Ho capito, sì. Non sono uffici… No, no, certo. E potreste darmi l’indirizzo? Sì, è importante.» Frank s’interruppe. «Questa volta ci siamo, credo…» disse volgendosi a noi, sottovoce. Oh, mio Dio, fa che non sia vero. Fa che questo Baker non si trovi. Signore Iddio, fa che Baker sia morto. Io lo sapevo, chi era Baker. L’avevo saputo fin da principio. Guardai Frank nello stanzino, lo vidi stendere improvvisamente la mano verso una matita e un blocchetto di carta. «Pronto?… Sì. Volete ripetere, per piacere? Grazie. Grazie infinite. Buona sera.» Egli ritornò da noi, in mano un pezzo di carta. Frank, che voleva bene a Maxim, non sapeva che il pezzo di carta che teneva in mano era l’unico sottil filo che reggesse, che servisse a qualcosa, in tutto l’incubo di quella serata, e che rivelandolo egli poteva rovinare Maxim, né più né meno che se avesse avuto un pugnale in mano e glie lo avesse piantato nella schiena.
«Ho parlato col portiere di notte di una casa in Bloomsbury» egli diceva. «Non ci sono inquilini. Gli appartamenti sono affittati tutti come gabinetti di consultazione a medici e specialisti. A quanto pare, questo dottor Baker non esercita più, e ha lasciato il gabinetto un sei mesi fa. Però, possiamo ancora trovarlo. Il portiere mi ha dato il suo indirizzo. L’ho scritto qui, su questo pezzo di carta.»
XXV
Allora soltanto Maxim mi aveva guardata; e mi guardava per la prima volta in quella serata. Lessi, nei suoi occhi, un messaggio d’addio. Come se egli stesse appoggiato al parapetto d’una nave, e io giù, sulla banchina. C’erano altri che lo toccavano sulla spalla, che toccavano la mia spalla, ma noi non ce ne avvedevamo. E nemmeno ci parlavamo e ci chiamavamo, ché il vento e la distanza si sarebbero portati via le nostre voci. Ma avrei visto i suoi occhi, e lui avrebbe visto i miei, prima che la nave sempre più si allontanasse dalla banchina. Favell, la Danvers, il colonnello Julyan, Frank col pezzetto di carta in mano… tutti avevamo dimenticato, in quel momento. Era nostro, inviolato, una frazione di tempo sospesa tra due secondi.
Poi, Maxim si volse a Frank, tendendo la mano. «Bravo» gli disse. «Com’è l’indirizzo?» «Nei pressi di Barnet, non so dove… una località a nord di Londra. Ma non c’è telefono; non potremo telefonare.»
«Avete fatto un buon lavoro, Crawley» disse il colonnello «e anche voi, signora Danvers. E adesso, sarete in grado di gettar luce sul nostro caso?» La vecchia scosse il capo. «Non so quando la signora de Winter abbia avuto bisogno d’un dottore. Rideva di loro, come tutte le persone molto sane. Una volta soltanto, quella volta che essa si era slogato un polso, è venuto il dottor Phillips da Kerrith. Ma non l’ho mai sentita parlare di questo dottor Baker, non lo ha mai nominato davanti a me.»
«Ve lo dico io, che si tratta di un mercante di cosmetici» disse Favell. «Che cosa diavolo c’importa, chi fosse? Se avesse avuto una qualche importanza, Danny lo saprebbe. Scommetto che era un ciarlatano che aveva scoperto un nuovo trattamento per la pelle o i capelli, e Rebecca avrà avuto il suo indirizzo quella mattina dal parrucchiere, e dopo colazione sarà andata a fargli una visitina per pura curiosità.»
«No» replicò Frank. «Qui voi sbagliate. Baker non era un ciarlatano. Il portiere di notte di Museum 0488 mi ha precisato che si trattava di un ginecologo molto noto.»
Il colonnello Julyan si stiracchiava i baffi. «Hm… Sempre più mi convinco che la signora deve aver avuto qualche cosa da nascondere. Mi pare molto strano che di tutto questo essa non abbia fatto parola con nessuno, nemmeno con voi, signora Danvers.» «Rebecca era troppo magra» disse Favell. «Io glie lo avevo detto, ma essa ci rideva sopra. Pretendeva che le stava bene. Sarà andata da quel Baker per farsi ordinare un regime.»
«Credete che sia possibile, signora Danvers?» domandò il colonnello.
Lentamente la signora Danvers fece segno di no. Sembrava che l’improvvisa apparizione di quel Baker l’avesse sorpresa, disorientata. «Non arrivo a capire» disse. «Non so che cosa ci sia, qui sotto. Baker. Un dottor Baker. Perché non mi ha detto nulla? Perché nascondermelo? Essa mi confidava tutto.» «Forse non avrà voluto darvi un dispiacere» disse il colonnello. «Ma non c’è dubbio che ha preso un appuntamento con lui, e ci è andata; e chissà se quella sera, al ritorno, non vi avrebbe detto tutto…» «E quel biglietto al signor Jack!» disse improvvisamente la Danvers. «“Ho qualcosa da dirti; ho bisogno di vederti”… Forse che voleva dirlo anche a lui?» «È vero; dimenticavamo il biglietto…» disse Favell. Ancora una volta lo trasse di tasca, e ad alta voce lesse: «“Ho qualche cosa da dirti; ho bisogno di vederti al più presto. Rebecca”.»
«Sicuro; non c’è dubbio» disse il colonnello, rivolgendosi a Maxim. «Io stesso non esiterei a scommetterci un migliaio di sterline, che essa avrebbe riferito a Favell il risultato della visita a quel dottor Baker.» «Comincio a credere che abbiate ragione» disse Favell. «Il biglietto, l’appuntamento… Ci dev’essere sotto qualcosa. Ma che cosa diavolo era? Ecco quel che vorrei sapere. Ma che male poteva avere Rebecca?» La verità urlava loro in volto, ed essi non la vedevano. Erano lì, a guardarsi l’un l’altro, e non capivano. Non osavo guardarli. Non osavo muovermi, per timor di tradirmi, di dare a vedere che sapevo. Maxim taceva. Era tornato alla finestra, e guardava fuori, al giardino che ora, immerso nell’oscurità, era pieno di pace. Aveva cessato di piovere, finalmente, ma le fronde, e la grondaia sopra la finestra, ancora gocciolavano. «Non dovrebbe esser difficile constatarlo» disse Frank. «Abbiamo qui l’indirizzo attuale del dottore. Si potrebbe scrivergli e domandargli se ricorda d’aver visitato l’anno scorso la signora de Winter…» «Non so se vi darebbe soddisfazione» replicò il colonnello; «in queste cose, sapete, i medici sono molto rigorosi. Hanno il loro segreto professionale. L’unico modo per cavarne qualcosa sarebbe che de Winter andasse da lui, in via privata, e gli spiegasse le circostanze… Che cosa ne dite, de Winter?»
Maxim si distolse dalla finestra. «Io sono pronto a fare tutto quel che mi consigliate» disse, tranquillamente! «Guadagnar tempo, eh?» disse Favell. «Quante cose non si possono fare in ventiquattr’ore! Prendere treni, piroscafi, aerei…»
Vidi gli occhi della Danvers andar vigili da Favell a Maxim; e per la prima volta mi resi conto che ella aveva ignorato fino a quel momento l’accusa di Favell. Finalmente ella cominciava a capire! Glie lo leggevo in viso. Dapprima vi apparve il dubbio, poi sorpresa frammista a odio, poi la certezza. Ancora quelle sue lunghe dita adunche si rinserrarono convulse sulla stoffa della gonna; ella si passò la lingua sulle labbra. Ora non distoglieva più gli occhi da Maxim. Troppo tardi, pensavo. Ormai, non puoi più farci nulla; il male è già fatto. Poco importa ora quel che ci dirai, quel che ci farai. Il male è fatto. Tu non puoi nuocerci.
Maxim non s’era accorto di lei; o, se se n’era accorto, non lo dava a vedere. «Che cosa mi consigliate?» domandava al colonnello. «Andar su domani mattina, e presentarmi subito a lui? Posso mandargli un telegramma, a questo indirizzo di Barnet, che mi aspetti…» «Sì, ma non andrà mica solo!» Favell ebbe una breve risata. «Credo d’avere il diritto di insistere su questo. Mandatelo su con l’ispettore Welch, e non avrò nulla in contrario.»
Se soltanto la signora Danvers avesse distolto gli occhi da Maxim… Anche Frank se n’era accorto, ora, e sorvegliava la vecchia, sconcertato, ansioso. Vidi che dava un’occhiata ancora al pezzo di carta che teneva in mano; poi guardò anche lui a Maxim. Forse un vago barlume della verità cominciò a farsi strada nella sua coscienza, poiché egli impallidì, e posò il pezzo di carta sul tavolo. «Non mi sembra che ci sia alcun bisogno di mettere l’ispettore Welch al corrente di quest’affare, per ora» disse Julyan. La sua voce era mutata: più dura. E non mi piacque punto quel “per ora”. Che bisogno c’era che dicesse così? No, non mi piaceva… «Se vado io con de Winter» egli riprese «e non lo abbandonerò un momento, e ritornerò qui con lui, sarete soddisfatto?»
Gli occhi di Favell andarono da Maxim al colonnello Julyan. Occhi d’azzurro chiarissimo, avevano in quel momento un’espressione più brutta ancora del solito, un’espressione di calcolo, al quale si aggiunse una specie di gioia maligna. «Sì…» egli disse, esitando ancora. «Sì… Ma vi rincrescerebbe se per precauzione venissi anch’io?» «No» replicò il colonnello. «Disgraziatamente, avete il diritto di pretenderlo. Però, se venite, a mia volta io ho diritto di insistere perché restiate in pieno possesso delle vostre facoltà…»
«Oh, non abbiate paura, in quanto a questo!» E Favell abbozzava già un sorriso. «Non berrò più. Avrò la testa a posto. Sono convinto che questo dottor Baker ci fornirà la prova definitiva.»
Guardò in giro, e si mise a ridere. Forse ha capito, finalmente, il significato della visita di Rebecca al dottor Baker, pensavo…
«Dunque, a che ora si parte, domattina?» domandò Favell.
Il colonnello Julyan si volse a Maxim. «A che ora potrete esser pronto?» «All’ora che volete voi.» «Alle nove, diciamo?»
«E come possiamo esser sicuri che non tenti di battersela stanotte?» disse Favell, accennando a Maxim. «Non ha che da arrivare fino alla rimessa, e saltare sul macchina…»
«Vi basta la mia parola?» disse Maxim, rivolgendosi al colonnello Julyan. Per la prima volta questi apparve incerto. Vidi che il suo sguardo andava a Frank. E Maxim arrossiva, e vidi la piccola arteria pulsare sulla sua fronte. «Signora Danvers» egli disse lentamente «quando io e la signora ci saremo ritirati in camera nostra, stasera, volete salire e chiudere a chiave la porta che dà al corridoio? Ci chiamerete poi domani mattina alle sette; verrete voi stessa.»
«Sì, signore.» La vecchia lo guardava intensamente, le dita sempre strette alle pieghe della veste. «Sta bene così, allora» concluse il colonnello, alquanto brusco. «E mi sembra che per questa sera non ci sia altro da discutere. Io mi troverò qui
domattina alle nove in punto. Avete posto per me nella vostra macchina, de Winter?»
«Sì» rispose Maxim. «E Favell ci seguirà con la sua?»
«Fino in capo al mondo, caro amico mio, fino in capo al mondo» disse Favell.
Il colonnello Julyan si avvicinava a me, porgendomi la mano. «Buona sera, signora. Inutile ch’io vi dica quanto sono spiacente per voi… Persuadete vostro marito a coricarsi presto; domani sarà una giornata lunga.» Un minuto trattenne la mia mano nella sua, poi si distolse. Mi colpì il fatto ch’egli avesse evitato i miei occhi. Guardava al mio mento, mentre parlava. Frank lo accompagnò alla porta.
Curvo sul tavolo, Favell si riempiva il portasigarette, dalla scatola che era là. «Immagino che non sarò invitato a cena» bofonchiava intanto. «Il che vuol dire una pacifica serata in quella gargotta. E la cameriera è guercia… Allegria, allegria! Bah, pensiamo a domani. Buona notte, Danny, vecchia fata, e non dimenticate di chiudere la porta a doppia mandata, eh?»
Mi venne vicino, e mi tese la mano. Come una bambina spaurita ritrassi la mia dietro la schiena. Egli rise, s’inchinò. «Che peccato, eh? Ha da venire un tipaccio come me, a guastarvi le uova nel paniere!» Con studiata disinvoltura si avviò verso la porta, e intanto con un cenno salutò Maxim presso la finestra. «Salute vecchio amico! Non fate cattivi sogni, e… buona notte a porte chiuse!» E ancora si voltava a ridere verso di me, nell’uscire. La signora Danvers lo seguì. Maxim ed io eravamo soli. Egli non si muoveva dalla finestra. Non mi veniva vicino. Jasper arrivò trotterellando dal vestibolo. Tutta la serata era rimasto chiuso fuori; e ora veniva a farmi le feste, e mi mordicchiava l’orlo della gonna. «Vengo con te, domani mattina» dissi a Maxim. «Vengo a Londra con te in automobile.» Egli non rispose subito. Spaziava con lo sguardo nel buio, fuor della finestra. «Sì» disse finalmente, con una voce senza espressione. «Sì, dobbiamo continuare a rimanere uniti.»
Frank ritornava. Si fermò a mezzo fuor della porta, la mano lungo lo stipite. «Se ne sono andati» disse. «Favell e il colonnello…» «Sta bene, Frank» disse Maxim.
«Posso fare qualche cosa per voi? Posso aiutarvi? Se dovete telefonare, o sbrigar qualche cosa… Starò su anche tutta la notte, se è necessario. E intanto, per prima cosa spedirò il telegramma a quel Baker.» «Non ti dar pensiero» disse Maxim. «Non c’è niente da fare, per ora. Ne avrai fin che vuoi, del lavoro, dopo domani. Ma ci penseremo, quando sarà tempo. Questa sera, vogliamo solo restare insieme. Capisci, non è vero?»
«Sì» rispose Frank. «Sì; è giusto.» Indugiò un momento, lì sulla soglia. «Buona notte.» «Buona notte» replicò Maxim.
Non appena egli fu uscito, Maxim venne da me, presso il caminetto. Gli tesi le braccia, ed egli vi si rifugiò come un fanciullo. Rinserrai le braccia, e lo tenni stretto a me. Tacemmo a lungo.
«Staremo seduti vicini, in automobile» disse Maxim. «Sì» risposi io. «A Julyan poco importerà.» «No.»
«E avremo ancora domani sera, per stare insieme. Non interverranno subito… forse non prima di ventiquattr’ore.» «No.»
«Non sono più così rigorosi, oggigiorno. Lasciano veder gente. E poi, le cose vanno sempre per le lunghe… Se posso, cercherò di avere il vecchio Hastings. E il migliore. Hastings o Birkett. Hastings era amico di mio padre.» «Sì.»
«Dovrò dirgli la verità. La verità facilita sempre le cose, agli avvocati. Almeno, sanno come regolarsi.» «Sì.»
La porta si aprì. Entrò Frith. Scostai da me Maxim, mi irrigidii, dandomi un contegno e ravviandomi i capelli con le dita.
«La signora desidera cambiarsi per la cena, o posso servire subito?»
«No, Frith, non ci cambiamo, per questa sera» dissi. «Benissimo, signora.» Egli lasciò la porta aperta, nell’uscire; e venne Roberto, a tirare le tende, a raddrizzare i cuscini, e riordinare i libri e i giornali sul tavolo. Portò via il bicchiere del whisky, e il posacenere. Gli avevo visto compiere le stesse cose, con gli stessi gesti, come se fosse un rito, ogni sera o quasi da quando ero a Manderley, eppure mi pareva che questa sera assumessero un significato speciale, come se il ricordo d’essi dovesse aleggiare a lungo nella mia memoria, come se molto tempo dopo io dovessi dire “Ricordo quella sera che…” Poi, Frith entrò a dire che la cena era servita. Ogni particolare di quella sera ricordo. Il brodo ristretto gelato nelle tazze, e i filetti di sogliola, e la spalla di agnello arrosto. E il timballo allo zucchero bruciato che seguì, con la crema amarognola.
C’erano delle candele nuove nei candelabri, a tavola; e mai m’erano parse così bianche e sottili e alte. Anche in sala da pranzo le cortine tirate chiudevano fuori la grigia serata fosca. Era una strana impressione, non vedere i prati dalle finestre. Come se già principiasse l’autunno.
Stavamo prendendo il caffè in biblioteca, quando suonò il telefono. Questa voltaandai io a rispondere. «Sei tu?» Era la voce di Beatrice. «È tutta la sera che cerco di telefonarvi. Due volte già era occupato.» «Oh, mi dispiace» dissi. «Mi dispiace…» «Abbiamo visto i giornali della sera, un paio d’ore fa, e il verdetto è stato una brutta sorpresa, per me e Giles. Che cosa ne dice Maxim?»
«Credo sia stata una brutta sorpresa per tutti» replicai.
«Ma mia cara, è una cosa assurda! Per quale ragione al mondo Rebecca avrebbe dovuto togliersi la vita? L’ultima persona che avrebbe mai fatto un gesto simile! La giustizia deve aver preso un grosso granchio.» «Non so…» dissi.
«E Maxim, che cosa dice? Dov’è, intanto?» «Abbiamo avuto gente fino a poco fa. Il colonnello Julyan, e altri… Maxim è molto stanco. Domani mattina andiamo a Londra.» «E per che cosa?» «È per via del verdetto. Non posso spiegarti, ora.»«Dovreste farlo annullare. È ridicolo, assolutamente ridicolo. E tutta questa orribile pubblicità è un gran male per Maxim. Gli farà del danno.» «Sì…»
«Ma il colonnello Julyan potrà ben fare qualche cosa, no? È un giudice. E che cosa ci stanno a fare i giudici? Horridge, quel povero vecchio… deve aver perduto la testa. E a quali motivi hanno attribuito il suicidio? Non ho mai sentito una cosa più idiota in vita mia! E bisognerebbe che parlaste con quel Tabb! Come può dire se quei buchi nelle tavole sono stati fatti a bella posta o no? Giles dice che devono esser stati gliscogli. È così chiaro!»
«Sembra che non sia stato così.» «Se soltanto avessi potuto esserci io! Avrei insistito per dire le mie ragioni… A quanto pare, nessuno di voi ha fatto grandi sforzi di fantasia. E Maxim, è molto impressionato?»
«È stanco. Più che altro, è stanco.» «Vorrei tanto potervi accompagnare a Londra! Ma non credo che mi sarà possibile. Roger ha temperatura alta, povero ragazzo, e l’infermiera che abbiamo è una cretina, e lui non la può vedere. Non posso lasciarlo così!»
«No, no. Non ci pensare nemmeno.» «Dove vi fermerete, a Londra?» «Non lo so. Ancora non c’è nulla di deciso…» «Di’ a Maxim che deve darsi d’attorno, e tentare difar modificare il verdetto. È un gran male per la famiglia! vado dicendo a tutti che è perfettamente assurdo. Rebecca non era donna da fare un gesto simile, non era il tipo. Ho una mezza voglia di scrivere io al giudice istruttore.»
«È troppo tardi, ormai. Meglio lasciar le cose come sono. Tanto, non servirebbe a nulla.»
«Una stupidaggine simile! Una cosa che passa tutti i limiti. Giles e io pensiamo che se quei buchi non sono stati fatti dagli scogli, è molto più probabile che siano stati praticati con cattive intenzioni da qualche vagabondo, o gente del genere. Un bolscevico, forse. Ce ne sono tanti che girano… Ed è proprio la cosa che farebbe un bolscevico.»
Dalla biblioteca, Max mi chiamava. «Non puoi liberartene? Che cosa diamine ha da chiacchierar tanto?» «Beatrice» dissi, disperatamente «se posso, ti telefonerò da Londra…»
«Credi sia utile ch’io parli con Dick Godolphin?» insisteva Beatrice. «È il nostro Consigliere Provinciale. Io lo conosco molto bene, molto più di Maxim. Era a Oxford con Giles. Domanda a Maxim se vuole che telefoni a Dick, e veda se può far qualcosa perché sia annullato il verdetto? E senti, domanda anche a Maxim che cosa ne pensa di quell’idea del bolscevico…» «Ma è inutile!» replicai. «Ti dico che non serve a nulla. Ti prego Beatrice, non intraprendere niente, per ora. Non faresti che peggio, molto peggio! Rebecca può aver avuto qualche motivo che noi ignoriamo. E io non credo ai bolscevichi che vanno in giro a far dei buchi nei panfili. Con che scopo, poi? Per piacere, Beatrice, lascia stare le cose come sono.»
C’era da ringraziare il cielo che almeno non l’avevamo avuta con noi oggi. Grazie al cielo… Dal telefono giungeva un ronzio confuso, in mezzo al quale la voce di Beatrice gridava: «Pronto, pronto, signorina, non togliete la comunicazione…» Poi ci fu un “clic”, cui seguì il silenzio.
Sfinita, affranta ritornai nella biblioteca. Pochi minuti passarono, il telefono riprese a trillare. Questa volta lasciai che suonasse. Mi inginocchiai ai piedi di Maxim, e non mi mossi più. Seguitava a suonare. E io non mi muovevo. Finalmente cessò, di colpo, come se una mano esasperata avesse tolto la comunicazione. La pendola del caminetto batté le dieci. Maxim mi cinse con le sue braccia e mi sollevò a sé. Febbrilmente, disperatamente cominciammo a baciarci, come amanti colpevoli che si baciassero per la prima volta.
XXVI
Quando mi svegliai, l’indomani -erano appena passate le sei -mi alzai e corsi subito alla finestra. Sull’erba c’era una rugiada biancastra. Nell’aria c’era un brivido di gelo, e una brezzolina fresca; e già si sentiva l’odor freddo e quieto dell’autunno.
M’inginocchiai sul sedile nel vano, a guardar giù nel giardino delle rose: i fiori pesavano sullo stelo, i petali, dopo la pioggia della scorsa notte, erano sfatti e ingialliti. E le vicende del giorno avanti mi sembravano lontanissime, irreali. Qui, a Manderley, un nuovo giorno era nato, e la vita del giardino proseguiva indifferente ai nostri crucci. A brevi corsettine rapide un merlo attraversò il giardino fino al prato, sostando ogni tanto per beccare la terra col becco giallo. C’era anche un tordo che andava per i fatti suoi, e due coditremole che s’inseguivano, e un piccolo crocchio di passeri cinguettanti. Un gabbiano si librò alto a volo, silente e solitario, poi allargò le ali, e spari oltre i prati, verso i boschi e la Valle della Felicità. Quel fervor di vita continuava, né i nostri guai, le nostre ansie avevano il potere di sospenderlo. Presto sarebbero venuti i giardinieri, a spazzar le prime foglie cadute sui prati e suoi viottoli, a rastrellar la ghiaia nel viale. Dalla corte dietro la casa si sarebbe udito un acciottolio di secchi, e la servetta di cucina si sarebbe affacciata sulla porta aperta, a scambiar due parole coi braccianti che andavano al lavoro. Presto si sarebbe sentito l’odor caldo e sapido del lardo che friggeva. Le cameriere si sarebbero accinte a far le pulizie di casa, tirando le cortine, spalancando ampiamente le finestre…
I cani sarebbero saltati fuori dalle loro ceste, avviandosi, dopo aver sbadigliato ed essersi stirati, alla terrazza, guardando attoniti ai primi bagliori del pallido sole che si faceva strada fra la nebbia. E Roberto avrebbe preparato la tavola per la colazione, portando i piatti di pasticcini caldi, le uova, i vasetti del miele e delle marmellate, le fruttiere colme di pesche e di grappoli violacei vellutati, appena colti nelle serre.
Cameriere che scopavano la stanza di soggiorno, la sala, aria fresca e profumata che entrava a fiotti dalle alte finestre aperte. Fumo che si alzava a spire dai camini; e a poco a poco la nebbia autunnale dileguava, e alberi e sponde erbose e boschi assumevano forma, e col primo sole il mare luccicava oltre la valle, e il faro svettava alto e dritto in cima al promontorio.
La pace di Manderley. La quiete, la bellezza. Chiunque vivesse fra le sue mura, vi fossero pur dolori e contrasti, non importa quali lagrime si versassero, quali pene si nutrissero, la pace di Manderley non poteva esser turbata, né distrutta la sua bellezza. I fiori che morivano rifiorivano nella stagione seguente, gli stessi uccelli facevano il loro nido, gli stessi alberi germogliavano ancora. L’antico odor di muschio aleggiava nell’aria, e volavano le api, e cantavano i grilli. Le farfalle danzavano il loro folle girotondo sui prati, e i ragni tessevano tele che la rugiada ingemmava, e piccoli conigli timorosi che troppo tardi s’erano accorti d’esser su terreno proibito cacciavano il musetto di tra il fitto dei cespugli. E fioriva il lillà, e il caprifoglio, e i bianchi bocciuoli della magnolia si aprivano lentamente, come a malincuore sotto le finestre della sala da pranzo. Chi mai avrebbe osato far del male a Manderley? Come una gemma incantata avrebbe continuato a vivere nella corona della sua valle, custodito dai boschi, al sicuro, mentre il mare s’infrangeva e si ritraeva e tornava a infrangersi sul lido della piccola baia…
Maxim dormiva, e io non lo svegliai. La giornata che avevamo davanti a noi prometteva di essere già lunga e snervante abbastanza. Faticoso, monotono il lungo viaggio a Londra, rallentato dal traffico delle strade maestre, tra lo sfilar incessante dei pali telegrafici. E non sapevamo quel che avremmo trovato, alla fine del viaggio. L’avvenire era l’ignoto. In qualche parte a nord di Londra viveva quel tale Baker, che mai aveva sentito parlare di noi, ma che teneva fra le sue mani il nostro avvenire. Fra poco anche lui si sarebbe svegliato, e stirato con uno sbadiglio, e alzato, e avviato alla sua giornata. Andai in camera da bagno, e aprii il rubinetto per riempire la vasca. Quegli atti, li consideravo così come, la sera avanti, avevo osservato Roberto che faceva ordine e pulizia nella biblioteca. Erano atti che avevo compiuto sempre macchinalmente, ma ora mi rendevo conto di prendere l’asciugamano dal radiatore riscaldato per allargarlo sulla seggiola, di tuffare la spugna nell’acqua, di abbandonarmi nella vasca e lasciar scorrere l’acqua sul mio corpo. Ogni istante era una cosa preziosa, che aveva in sé l’essenza della fine. Quando ritornai in camera da letto e cominciai a vestirmi udii un passo soffice avanzare in corridoio e sostare fuor della porta; e subito dopo, la chiave girò piano nella serratura. Ci fu un momento di silenzio, poi i passi si allontanarono. Era la signora Danvers.
Ella non ci aveva dimenticati. La sera avanti, dopo che eravamo saliti a coricarci, avevo udito gli stessi passi. Ella non aveva bussato alla porta, non s’era fatta sentire in alcun modo; null’altro che un suon di passi, una chiave che girava nella serratura. E questo era un altro richiamo alla realtà, che m’invitava a far fronte a ciò che l’immediato avvenire ci avrebbe recato.
Finii di vestirmi, poi andai a riaprire il rubinetto, a riempire la vasca per Maxim. Entrò Clarice a portarci il tè. Svegliai Maxim. Egli mi fissò dapprima come un fanciullo sorpreso, poi tese la mano a prendere la tazza. Bevemmo il tè. Egli si alzò e andò a fare il bagno; e macchinalmente mi misi a preparare la mia valigetta. Poteva darsi il caso che dovessimo trattenerci a Londra. Misi dentro le spazzole che mi aveva regalato Maxim, una camicia da notte, la vestaglia e le pantofole; e vi aggiunsi un altro vestito, e un paio di scarpe. Quella valigetta, tirata fuori dal fondo di un armadio, m’aveva l’aria di un oggetto estraneo. Mi pareva fosse trascorsa un’eternità da quando me n’ero servita l’ultima volta, ed erano appena quattro mesi. C’erano ancora i segni che col gesso vi avevano tracciato i doganieri a Calais… In una delle borse c’era il biglietto d’un concerto al Casino di Monte Carlo. Lo strappai, lo buttai nel cestino della carta. Roba che apparteneva ad altri tempi, a un altro mondo. La stanza assumeva già l’aspetto di tutte le stanze quando si è di partenza. La pettiniera, senza le spazzole, appariva nuda. C’era della carta velina, in terra, e una vecchia etichetta. E i letti in cui avevamo dormito avevano l’aria vuota, triste. Gli asciugamani di spugna erano abbandonati in un mucchio, sul pavimento della camera da bagno. Gli sportelli dell’armadio sbadigliavano, semiaperti. Per non aver da risalire ancora mi misi il cappello, presi guanti, borsetta e valigia, e mi guardai d’attorno per vedere se non avevo dimenticato nulla. La nebbia si andava diradando, e il sole che a forza si faceva strada screziava di luce il tappeto sul pavimento. Ero già a metà del corridoio, quando mi assalì lo strano, inesplicabile impulso di ritornare indietro a guardare ancora nella mia stanza. Senza che vi fosse ragione obbedii all’impulso, e ristetti un momento, a guardare all’armadio socchiuso, ai letti vuoti, al vassoio del tè sul tavolino. Fissai quelle“ cose, come a imprimerle per sempre nella mente. Perché mai avevano il potere di commuovermi, di rattristarmi, quasi fossero dei figli che non volevano lasciarmi partire?
Mi distolsi finalmente, e scesi a colazione. Faceva freddo in sala da pranzo, dove il sole non aveva raggiunto ancora le finestre, e il caffè amaro e bollente e il lardo sostanzioso mi riconfortarono. Maxim e io mangiammo in silenzio. Ogni tanto egli dava un’occhiata all’orologio. Udii Roberto, che nel vestibolo posava a terra le valige con la coperta da viaggio, e tosto s’udì anche il rombo della macchina che si fermava davanti al peristilio. Uscii fuori, sulla terrazza. La pioggia aveva rischiarato l’aria; effluvii dolci e freschi giungevano dall’erba. Quando il sole fosse alto, sarebbe stata una bella giornata. Pensavo come avremmo potuto passeggiare fino alla valle prima di pranzo, e poi sederci sotto l’ippocastano, con libri e giornali. Un istante chiusi gli occhi, e assaporai il tepor del sole sul viso e sulle mani. Maxim mi chiamava, di dentro. Rientrai, e Frith mi aiutò a indossare il soprabito. Giungeva un’altra macchina, intanto. Era Frank.
«Il colonnello Julyan si è fatto accompagnare fin giù ai cancelli, e vi aspetta là» disse. «Ho pensato che non valeva la pena facesse la strada fin quassù.»
«Già» disse Maxim.
«Io mi troverò in ufficio tutto il giorno, e aspetterò che mi telefoniate» disse Frank. «Potrebbe darsi che dopo aver visto Baker, aveste bisogno di me.» «Sì, può darsi» rispose Maxim.
«Sono le nove adesso; siete giusto in orario» disse Frank.. «E sarà anche una bella giornata. Scommetto che farete una buona gita.»
«Sì.»
«Spero non vi stancherete troppo, signora de Winter» disse, rivolgendosi a me. «La giornata sarà lunga…» «Oh, starò benissimo» replicai. Guardai a Jasper, che era lì ai miei piedi, le orecchie basse, i tristi occhi pieni di rimprovero.
«Prendetelo con voi in ufficio» dissi a Frank. «Ha l’aria così infelice, povera bestia!» «Sì, lo porto con me.»
«È ora di partire» disse Maxim. «Il vecchio Julyan si spazientirà. A presto, Frank.»
Salii accanto a Maxim. Frank ci chiuse lo sportello. «Telefonerete, non è vero?» «Sì, certo» disse Maxim.
Mi volsi alla casa. Frith era là, a sommo dei gradini, e Roberto dietro di lui. Senza ragione alcuna gli occhi mi si riempirono di lagrime. Mi distolsi, e mi curvai ad accomodare la mia valigetta, perché nessuno vedesse. Maxim mise in moto la macchina, e in breve fummo lungi, sul viale, e non vedemmo più la casa. Ai cancelli ci fermammo per far salire il colonnello Julyan. Mi guardò con aria dubbiosa, mentre si sedeva sul sedile posteriore. «Sarà una giornata faticosa» disse. «Io non sarei venuto, al posto vostro. A vostro marito avrei fatto buona compagnia io, intanto.» «Ma io volevo venire» replicai.
Egli non insistè. «Intanto, avremo bel tempo» disse, mentre si accomodava nell’angolo. «Sì» disse Maxim.
«Quel Favell ha detto che lo avremmo incontrato al crocevia. Se non c’è, io non aspetterei nemmeno. Faremo tanto bene a meno di lui. Speriamo che sia rimasto addormentato, quell’odioso individuo!» Ma quando fummo in vista del crocevia, subito scorsi la lunga sagoma della macchina verde, e mi cadde il cuore. Avevo sperato anch’io che non facesse in tempo… Invece era là, al volante, senza cappello, una sigaretta in bocca. Al vederci sorrise, salutandoci con la mano.. E mi accomodai sul sedile, appoggiandomi bene, per il lungo viaggio che avevo dinanzi a me, una mano sulle ginocchia di Maxim. Passavano le ore, e ci lasciavamo dietro le miglia. Come in una sorta di stupore fissavo la strada avanti a me. Dietro di noi il colonnello Julyan si appisolava, ogni tanto; voltandomi vedevo la sua testa dondolar sui cuscini, a bocca aperta. La macchina verde seguiva la nostra stessa via. Qualche volta ci sorpassava per un tratto, qualche volta restava indietro. Ma non la perdevamo mai. All’una ci fermammo a pranzare, in uno dei soliti vecchi alberghi di provincia che si trovano nella via principale di tutti i capoluoghi di contea. Il colonnello Julyan si sorbì coscienziosamente l’intera lista, dalla minestra al pesce, giù fino al rosbiffe e al budino dolce; Maxim e io prendemmo del prosciutto freddo e una tazza di caffè. M’aspettavo di veder Favell entrare in sala da pranzo e sedersi al nostro tavolo; e invece, quando uscimmo di nuovo vidi la sua macchina ferma davanti a un piccolo caffè dall’altra parte della strada. Dovette averci visto dalla vetrina, perché tre minuti dopo che eravamo partiti lo avevamo già di nuovo alle calcagna.
Verso le tre eravamo ai sobborghi di Londra. Fu allora che, tutt’a un tratto, la stanchezza mi assalì; i rumori della città mi risonavano nel cervello con l’insistenza d’un ronzio greve. Anche qui faceva caldo. Le vie avevano l’aspetto sciatto e polveroso che è proprio dell’agosto, e le foglie pendevano inerti dagli alberi senza vita. Gli autobus passavano lenti, pesanti, i tassì ingombravano il traffico. Il cattivo tempo che avevamo avuto da noi doveva esser stato locale; qui non aveva piovuto. Le donne andavano in giro vestite d’abiti leggeri, gli uomini erano senza cappello. C’era in aria un odor di carta straccia, di bucce d’arancio, di sudore umano e di erba riarsa. Mi pareva che la veste e il soprabito mi si appiccicassero addosso, e le calze mi davano il prurito alle gambe. «Non ha piovuto, qui» constatò il colonnello Julyan, drizzandosi e sporgendo il capo fuor dal finestrino. «No» disse Maxim. «E si direbbe che ne abbiano bisogno.» «Già.»
Le vie dei quartieri popolari, dove c’erano molti negozi, erano addirittura congestionate. Donne affaticate, con carrozzelle entro cui piangevano dei lattanti, erano ferme davanti alle vetrine; venditori ambulanti gridavano, ragazzini si attaccavano dietro ai carri. C’era troppa gente, troppo rumore. L’atmosfera era irritata e senza ossigeno, e stancava. Pareva non dovessimo finir mai di attraversare Londra, e quando finalmente ne fummo fuori, e ci lasciammo dietro anche Hampstead, avevo nella testa l’eco fastidiosa d’un rullar di tamburi, e mi bruciavano gli occhi.
Pensai quanto dovesse essere stanco Maxim. Era pallido, e aveva gli occhi cerchiati, ma non diceva nulla. Dietro di noi, il colonnello Julyan seguitava a sbadigliare. Apriva la bocca larga, sbadigliava forte, e dopo sospirava rumorosamente. E così ogni due minuti. M’aveva assalito una sciocca insensata esasperazione; non so come mi tenessi dal voltarmi per gridargli ad alta voce che la smettesse.
Non appena fummo fuori di Hampstead egli tirò fuori di tasca una carta stradale, e cominciò a dare a Maxim le indicazioni necessarie per arrivare a Barnet. La strada non era difficile, e c’erano i cartelli stradali a indicarcela, ma il colonnello non ristava dal rilevare ogni svolta, e alla minima esitazione da parte di Maxim si protendeva al finestrino e interpellava un passante. Quando poi fummo a Barnet, faceva fermare Maxim ogni pochi minuti.
«Sapreste dirci dove c’è una casa che si chiama Roselands? Ci sta un certo dottor Baker, che si è ritirato, e da poco è venuto ad abitare qua.» Il passante corrugava un momento la fronte, evidentemente non ne sapeva nulla, e l’ignoranza gli appariva scritta in faccia. «Dottor Baker? Non lo conosco. C’è una casa, vicino alla chiesa, che si chiama… mi pare… Rose Cottage si chiama. Però ci abita una signora Wilson.» «No, è Roselands che cerchiamo, la casa del dottor Baker…» diceva il colonnello; e andavamo avanti, per fermarci nuovamente davanti a una balia che spingeva una carrozzella. «Sapreste dirci dove si trova una casa che si chiama Roselands?» «Non saprei. Sono nuova di questi parti.» «Non conoscete un dottor Baker?» «Il dottor Davidson… Io conosco il dottor Davidson.» «No, è il dottor Baker che cerchiamo.» Diedi un’occhiata a Maxim. Appariva oltremodo stanco, la bocca serrata. La macchina verde, dietro di noi, era tutta coperta di polvere.
Finalmente un portalettere c’indicò la casa. Era un villino quadrato, ammantato di edera, senza nome al cancello, davanti al quale eravamo passati già due volte. Macchinalmente aprii la borsetta, e mi lisciai la faccia col piumino della cipria. Maxim fermò davanti al marciapiede, senza entrare nel breve viale. Per alcuni minuti sedemmo in silenzio.
«Sicché, eccoci qui» disse il colonnello Julyan. «Sono esattamente le cinque edodici minuti. Disturberemo la famiglia proprio mentre sta prendendo il tè. È meglio che aspettiamo un po’.»
Maxim accese la sigaretta, poi mi tese la mano, senza parlare. Udii frusciare la carta stradale, che il colonnello andava ripiegando.
«Avremmo potuto venir direttamente qui senza toccare Londra» egli disse. «E si sarebbero risparmiati una quarantina di minuti almeno. Siamo andati bene per leprime duecento miglia. È da Chiswick in poi che ci abbiamo rimesso del tempo.»
Passò un garzone in bicicletta, fischiettando. Un torpedone si fermò all’angolo, per far scendere due donne. L’orologio d’un campanile invisibile batté il quarto delle cinque. Favell, nella sua macchina dietro di noi, fumava una sigaretta. Mi parve d’esser diventata insensibile. Seduta lì, osservavo quelle piccole cose senza importanza.
Le due donne s’erano incamminate lentamente. Il garzone in bicicletta disparve oltre la cantonata. In mezzo alla strada un passero saltellava bezzicando nella polvere. «Questo Baker non s’intende molto di giardinaggio» sentenziò il colonnello. «Guardate quegli arbusti contro il muro, come crescono male. Quella roba lì andrebbe potata per tempo.» Aveva ripiegata la carta stradale, e se la rimetteva in tasca. «Curioso posto da scegliere, per ritirarsi. Proprio sulla strada maestra, soffocato in mezzo alle altre case. Io non ci starei per tutto l’oro del mondo. M’immagino che questo sarà stato un bel posticino una volta, prima che cominciassero a costruire. Forse ci sarà un bel campo di golf a portata di mano, però.» Tacque, per un po’, quindi aprì lo sportello e scese in mezzo alla strada. «Beh, de Winter, che facciamo?» disse.
«Io sono pronto» replicò Maxim. Scendemmo anche noi. Favell ci venne incontro, e borbottò qualche spiritosaggine a cui nessuno di noi rispose. E così, strano incongruo piccolo corteo, ci avviammo su per il vialetto. Intravidi un campo di tennis dietro la casa; s’udivano rimbalzar delle palle. «Quaranta a quindici, e non trenta!» gridò una voce di ragazzo. «Non hai fatto attenzione, somarello!»
«Debbono aver finito di prendere il tè» disse Julyan. Esitò un momento, guardando Maxim. Poi suonò il campanello.
Al gesto rispose uno squillo argentino, da qualche parte della casa. Seguì una lunga pausa. Venne finalmente ad aprirci una camerierina giovane, che apparve spaventata, alla vista di tanta gente. «Il dottor Baker?» domandò il colonnello. «Sì, signore. Volete accomodarvi?» Entrammo; la ragazza aprì una porta a destra, nell’anticamera, e ci fece segno di passare da quella parte. Doveva essere il salotto, e non era molto usato d’estate. Mi colpì subito, alla parete, il ritratto a olio di una signora bruna, insignificante. Forse la signora Baker? La tela stampata del divano e delle poltrone era nuova e lucida. Sul marmo del caminetto c’erano le fotografie di due collegiali, dalle tonde faccette sorridenti. Nell’angolo vicino alla finestra c’era un imponente apparecchio radiofonico, dal quale pendevano cordoni di varia specie, e fili di antenna. Favell esaminava il ritratto della signora. Il colonnello s’era fermato in piedi davanti al caminetto. Maxim e io guardavamo fuor della finestra. Vedevo una seggiola a sdraio sotto un albero, e la nuca d’una donna. Il tennis doveva essere oltre l’angolo. S’udivano grida di ragazzi. Un vecchio terrier scozzese si grattava, nel mezzo d’un viottolo. Così aspettammo forse cinque minuti. Avevo l’impressione di vivere la vita di un’altra persona; ero una signora venuta in quella casa per una sottoscrizione di beneficenza… Mi trovavo in uno stato d’animo che finora non avevo mai provato. E mi sentivo leggera, assente.
Poi, la porta si aprì, ed entrò un uomo, un uomo né alto né basso, dal volto ovale, il mento volitivo. I capelli biondastri erano fortemente brizzolati. Portava pantaloni di flanella chiara, e una maglia turchino cupo. «Scusatemi se vi ho fatto aspettare» disse; e, come la cameriera, apparve sorpreso, vedendoci in tanti. «Ho dovuto correr di sopra a darmi una lavatina alle mani. Stavo giocando a tennis… Volete accomodarvi?» S’era rivolto a me. Sedetti sulla poltrona che mi trovai più vicina, e attesi.
«Troverete che questa è un’invasione poco… poco ortodossa, dottor Baker» cominciò il colonnello Julyan «e vi prego di perdonarci se vi disturbiamo così. Il mio nome è Julyan. Questo è il signor de Winter… la signora de Winter… e il signor Favell. Avrete forse visto il nome del signor de Winter nei giornali, recentemente.» «Oh… Sì, veramente, sì, l’ho visto» rispose il dottore. «Si trattava di un’inchiesta, o qualcosa di simile? Mia moglie ha seguito tutto…»
«La giuria ha pronunciato un verdetto di suicidio» disse Favell, facendosi avanti «e io dico che… La signora de Winter era mia cugina. E noi vorremmo sapere per quale ragione è venuta da voi il giorno stesso che…» «Se lasciaste spiegar queste cose al colonnello Julyan e a me?» lo interruppe Maxim. «Il dottor Baker non ha la più lontana idea di quel che volete.» Egli si volse al dottore, il quale, in mezzo a loro due, a poco a poco andava aggrottando le ciglia; e il primo cortese sorriso gli si era raggelato sulle labbra. «Ecco: il cugino della mia defunta moglie non è rimasto soddisfatto del verdetto che la giuria ha pronunciato, e noi siamo venuti a vedervi perché abbiamo trovato il vostro nome, e il numero telefonico del vostro antico gabinetto, in un taccuino in cui mia moglie segnava i suoi appuntamenti. Sembra che essa avesse preso un appuntamento con voi, e lo avesse anche mantenuto, alle due dell’ultima giornata… l’ultima della sua vita, che essa ha trascorso a Londra. Sarebbe possibile verificare se ciò corrisponde alla verità?»
Il dottore ascoltava con evidente interesse, ma quando Maxim tacque egli scosse il capo. «Mi rincresce infinitamente» disse «ma temo che ci sia un errore. Sicuramente avrei ricordato il nome di de Winter! Non credo d’aver mai curato una signora de Winter, in tutta la mia carriera.»
Il colonnello Julyan aveva tolto dal suo portafogli la paginetta strappata dal taccuino di Rebecca. «Ecco, è scritto qui» disse al dottore. «Baker, ore due. E accanto c’è una grossa croce, che significa che l’appuntamento è stato mantenuto. E nello stesso taccuino abbiamo trovato il numero del telefono. Museum 0488.» Il dottor Baker fissava il pezzetto di carta. «Molto strano, molto strano davvero. Sì, il numeroche dite è giusto.» «È possibile che essa sia venuta da voi sotto un falso nome?» domandò il colonnello.
«Oh, sì, è possibilissimo. Può darsi. Una cosa un po’ insolita, però. Io non ho mai incoraggiato espedienti simili. Non è bene, nella nostra professione, che i clienti credano di poterci trattare così.» «Non avreste un resoconto della visita, nei vostri schedari?» disse il colonnello. «Lo so che la richiesta non è legale, ma si tratta di circostanze che escono dall’ordinario. Noi abbiamo la convinzione che la visita che voi le avreste fatto debba aver avuto una certa importanza per la signora de Winter, e una certa influenza nella sua… decisione.»
Il dottor Baker alzò le sopracciglia; il suo sguardo andò a Maxim. «Non avevo idea che fossero in gioco… interessi simili» disse, senza perdere punto la sua calma. «Capisco, naturalmente, e farò tutto quello che posso per aiutarvi. Se volete permettermi un minuto… vado a vedere i miei schedari. Ci dovrebbe essere notizia di tutte le visite fatte, e la descrizione del caso. Prendete delle sigarette, prego. Sarà un po’ presto per offrirvi dello sherry…» Il colonnello e Maxim scossero il capo. Favell stava per dire qualcosa, ma già il dottore era uscito prima ch’egli potesse aprir bocca.
«Mi sembra una persona per bene» disse il colonnello. «Avrebbe anche potuto offrirci un whisky e soda» bofonchiò Favell. «Dev’essere uno di quei tipi che tengono i liquori chiusi a chiave. Già l’avevo capito che razza d’uomo era. Non credo che ci aiuterà molto.» Maxim non disse nulla. Dal giardino s’udivano rimbalzare la palla da tennis. Il terrier abbaiava. Una voce di donna gli intimò silenzio. Vacanze d’estate. Il dottor Baker giocava coi suoi ragazzi. E noi avevamo interrotto il tran-tran della loro vita quotidiana. Sul marmo del caminetto, sotto una campana di vetro una pendola d’oro ticchettava rapida, con una vocetta argentina. Appoggiata alla campana c’era una cartolina del lago di Ginevra.
I Baker avevano degli amici in Svizzera.
Il dottore ritornò, con un grosso quaderno rilegato e uno schedario, che posò su di un tavolino. «Ecco, questi sono i resoconti dell’anno scorso. Non li ho più guardati da quando siamo venuti ad abitare qui. Sono appena sei mesi che non esercito più.» E, aperto il quaderno, cominciò a sfogliarlo. Io seguivo ogni suo gesto, affascinata. Avrebbe trovato, sicuramente. Ormai non era più che questione di momenti, di secondi. «Il sette, l’otto, il dieci…» egli mormorava. «Non c’è niente, qui. Il dodici, avete detto? Alle due?… Ah!»
Nessuno di noi perdeva di vista il dottore. «Alle due del giorno dodici ho visitato una signora Danvers» egli disse.
«Danvers? E per che diamine…» cominciò Favell, ma un gesto di Maxim lo fece tacere. «Un falso nome, naturalmente» diss’egli. «Questo era evidente fin dal principio. Ricordate ora la visita, dottore?»
Ma il dottor Baker scorreva già lo schedario. Vidi le sue dita fermarsi a una copertina segnata con un D. Quasi subito trovò quel che cercava; e rapidamente
scorse la propria calligrafia. «Sì» disse. «Sì. Signora Danvers… Mi ricordo, ora.»
«Alta, sottile… una bella signora?» diceva il colonnello Julyan.
«Sì» rispose il dottore. «Sì.»
Finì di leggere, poi ripose il foglio entro lo schedario. «Naturalmente» disse, rivolgendosi a Maxim «saprete che questo non è regolare? Noi abbiamo l’obbligo del segreto professionale, coi nostri pazienti. Ma vostra moglie è morta, e capisco che si tratta di circostanze eccezionali. Voi, in sostanza, vorreste sapere se io sono in grado di suggerire un qualche motivo per cui la signora avrebbe potuto togliersi la vita? Ebbene, credo di sì. La signora che mi si presentò sotto il nome di Danvers era seriamente ammalata.»
Egli s’interruppe, e ci guardò tutti, a uno a uno. «La rammento perfettamente» continuò, e di nuovo prese in mano lo schedario. «Era venuta da me una prima volta una settimana avanti la data che dite voi. Accusava certi sintomi, e le feci una radiografia. La seconda visita aveva appunto lo scopo di constatare il risultato di questa radiografia. Non ho qui le lastre, però ho scritto il referto. Me la ricordo, che era là in piedi, nel mio gabinetto, e tendeva la mano per prendere le lastre. “Voglio la verità” mi disse “non desidero belle parole né palliativi. Se è una cosa definitiva, potete dirmelo anche subito.”»
Ancora egli guardò nello schedario. Io aspettavo. Da quanto tempo aspettavo? Perché quell’uomo non poteva farla finita una buona volta, e lasciarci andare? Perché ci teneva tutti seduti lì, a pender dalle sue labbra?
«Ebbene, ha voluto sapere la verità, e io non glie l’ho nascosta. Certi pazienti preferiscono così. E con loro non servono i sotterfugi. Questa signora Danvers, o de Winter, piuttosto, non era tipo da accettare una bugia. E questo lo sapete, senza che ve lo dica io. Del resto, il colpo lo ha sopportato magnificamente, e senza batter ciglio. Disse che da qualche tempo aveva avuto dei sospetti… E poi, pagò l’onorario, se ne andò, e non l’ho mai più veduta.»
Chiuse di scatto lo schedario, e il quaderno. «Il dolore non era molto acuto, ma il male era già profondamente radicato» disse. «Tre o quattro mesi ancora, ed essa avrebbe dovuto ricorrere alla morfina. Un’operazione sarebbe stata completamente inutile. La cosa era ormai troppo avanzata. E in casi simili non resta altro che la morfina, e aspettare…»
Nessuno diceva una parola. La piccola pendola andava, andava, sul caminetto; i ragazzi giocavano al tennis, in giardino. Fuori, un aeroplano ronzava alto nel cielo. «A vederla così aveva certamente l’apparenza di una donna perfettamente sana» diceva il dottore. «Un po’ troppo magra, se ben ricordo, piuttosto pallida, ma è la moda… purtroppo, direi. E non bisogna mai fidarsi delle apparenze, specie quando si tratta di una diagnosi… No; il dolore sarebbe aumentato, di settimana in settimana, e, ripeto, in men di quattro o cinque mesi non ci sarebbe stata che la morfina. La radiografia rivelava una certa deformazione dell’utero, che significava ch’essa non avrebbe mai potuto avere figli, ma questa era un’altra cosa, e non aveva nulla a che vedere con la malattia…» Ricordo vagamente le frasi di ringraziamento che il colonnello Julyan disse al dottore. «Sappiamo ormai tutto quanto ci premeva constatare» egli concluse. «Se potessimo avere una copia del vostro referto… forse ci sarebbe molto utile.»
«Ma certo» replicò il dottor Baker. «Certo!» Tutti si alzavano. Anch’io mi alzai dalla poltrona; e come gli altri, anch’io strinsi la mano al dottor Baker. Egli ci precedette fuori, nell’anticamera. Una signora sporse il capo da una porta alla parete opposta e, vedendoci, subito si ritrasse. Al piano di sopra scorreva acqua in una vasca da bagno, rumorosamente. Dal giardino arrivò correndo il terrier, e venne ad annusarmi le scarpe. «Devo mandare il referto al vostro indirizzo, o al signor de Winter?» domandava il dottore al colonnello. «Potrebbe anche darsi che non ne avessimo affatto bisogno» disse il colonnello. «Anzi, ho speranza che non ci sia necessario. In ogni modo, o io o de Winter vi faremo sapere qualche cosa. Ecco il mio biglietto…» «Sono molto lieto d’aver potuto riuscirvi utile» disse il dottor Baker. «Non mi sarebbe mai passato per il capo, neppure un momento, che la signora deWinter e la signora Danvers potessero essere la stessa persona.» «È naturale» fece il colonnello. «Ritornate a Londra, immagino?» «Sì, credo di sì.»
«Allora, vi conviene di più svoltar subito a sinistra, là dove c’è quella cassetta delle lettere; e poi prendete a destra, dove c’è la chiesa. Dopo di che, troverete la strada diritta.»
«Grazie. Grazie infinite.»
Eravamo sul vialetto, e ci avviammo verso le nostre automobili. Il dottor Baker tirava il cane per il collare, dentro casa. Udii la porta richiudersi, con un tonfo. In fondo alla strada, c’era un uomo con una gamba sola, e un organetto che suonava “Rose di Piccardia”.
XXVII
Eravamo fermi vicini alla macchina, in silenzio, e così restammo per alcuni minuti. Il colonnello Julyan offrì le sigarette. Favell era color della cenere, e visibilmente scosso. La mano che teneva il fiammifero tremava. L’uomo dall’organetto smise di suonare e venne verso di noi zoppicando, il berretto in mano. Maxim gli diede due scellini; ed egli ritornò all’organetto e cominciò un’altra melodia. L’orologio della chiesa batté le sei. Favell parlò. Si studiava di darsi un tono noncurante, ma tradiva una certa diffidenza, ed era più grigio che mai.
A testa bassa, distogliendo gli occhi da noi seguitava a guardar la sua sigaretta, rigirandola fra le dita. «Questa faccenda del cancro… io non ne ho mai avuto la più lontana idea. Essa l’aveva nascosto a tutti, persino a Danny. Che cosa schifosa, eh? Che sorpresa! Mai e poi mai uno avrebbe immaginato una cosa simile, di Rebecca. Dite un po’, non c’è nessuno di voi che berrebbe volentieri un bicchiere di qualche cosa? Io mi sento tutto sossopra, e non mi vergogno di ammetterlo. Cancro! Santo Iddio!»
S’era appoggiato alla nostra macchina, e si faceva ombra agli occhi con la mano. «Non si potrebbe mandare al diavolo quell’organetto della malora?» disse. «Quella lagna mi è insopportabile.»
«Non sarebbe più semplice se andassi a dirglielo tu?» ribatté Maxim. «Te la senti di guidare? O vuoi che Julyan venga con te?»
«Un minuto, un minuto» mormorò il giovane. «Ora mi riprendo… Ma tu non capisci. Quella notizia è stata una scossa per me, e m’ha fatto uscir di sentimento.» «Per carità, giovanotto, fatevi coraggio» disse Julyan. «Se avete bisogno d’un cordiale, tornate indietro e chiedetelo a Baker. Saprà lui che cosa farvi. Ma non date uno spettacolo simile qui, in strada.» «Oh, avete un bel dire voialtri!» fece Favell, raddrizzandosi e guardando Julyan e Maxim. «Voi vi siete tolto il pensiero, ormai. Max ha ottenuto quel che voleva, e all’occasione, Baker gli fornirà anche la prova gratis, nero sul bianco. E il colonnello potrà cenare una volta la settimana a Manderley, per il bel lavoro fatto, e se ne vanterà…»
«Non vi pare che potremmo salire in automobile?» disse il colonnello a Max. «Potremo parlare strada facendo.»
Maxim aprì lo sportello per farlo salire; io sedetti al mio posto di prima. Favell era ancora là, appoggiato alla nostra macchina, e non si muoveva. «Vi consiglierei di andarvene dritto filato a casa e di mettervi a letto» gli disse il colonnello. «E andate piano, altrimenti correte anche il rischio di trovarvi in prigione per omicidio colposo.
E… dato che probabilmente non ci rivedremo, tanto vale vi avverta anche che come giudice conciliatore io ho certi poteri, che potrei esercitare, se mai vi faceste vedere di nuovo dalle parti di Kerrith e distretto. Il ricatto non è una professione molto proficua, alla lunga, signor Favell. E per quanto incredibile possa sembrarvi, da queste parti sappiamo come si trattano i ricattatori.» Favell spiava Maxim. Andava perdendo a poco a poco il color cinerognolo, e sulle labbra tornava a formarglisi l’antico impudente sorriso. «Già… puoi dire d’aver avuto fortuna, eh, Max?» disse, lentamente. «Ormai, pensi di poter dormire i tuoi sonni tranquilli. Però, però… ricordati che ride bene chi ride l’ultimo… ciascuno a suo modo…»
Maxim stava già mettendo in moto la macchina. «Hai altro da dirmi?» domandò. «Perché se così è, tanto vale che tu lo dica ora.»
«No» rispose Favell. «No, non ti trattengo. Vai pure.» E si ritrasse sul marciapiede, sempre sorridendo. La macchina partì. Alla svolta, presso la cassetta delle lettere, mi voltai, vidi che era ancora là a guardarci dietro, e agitava la mano e rideva.
Per un po’ andammo avanti in silenzio. «Non potrà fare niente» disse finalmente il colonnello Julyan. «Quel sorriso e quel saluto con la mano facevano parte del suo bluff. Tutti lo stesso, quei tipi lì. Ma ormai, non ha più nulla da dire. La testimonianza di Baker basta a chiudergli la bocca.»
Maxim non rispose. Lo guardai di sottecchi, ma il suo viso non mi disse nulla. «Ho sempre avuto l’idea che la soluzione ce la poteva dare soltanto Baker» proseguì il colonnello. «Tutto il mistero da cui era circondato quell’appuntamento, e l’averlo nascosto financo alla signora Danvers… Essa aveva dei sospetti, come vedete; sapeva che c’era qualcosa che non andava. Una vera tragedia, certo… Una tragedia. Abbastanza da far perdere la testa a una donna ancora giovane e bella.» Sul rettilineo che pareva interminabile, pali telegrafici, torpedoni, macchine aperte, villette dai giardini nuovi passavano in un lampo, e imprimevano nella mia mente impressioni incancellabili.
«Voi, de Winter, non avete avuto mai il minimo sospetto di questa cosa?» domandò Julyan. «No» rispose Maxim. «No.»
«Certa gente ha una paura addirittura morbosa di… di quella roba lì. Specialmente le donne. Dev’esser stato il caso di vostra moglie. Essa avrebbe avuto coraggio per tutto al mondo, meno che per una malattia. Non se la sentiva di affrontare il dolore fisico. Bah, quello almeno le è stato risparmiato.» «Già…»
«Credo che non sarebbe male se, senza troppo rumore, io facessi sapere a Kerrith e nella contea che un medico di Londra ci ha fornito un motivo… Nel caso che ci fossero delle chiacchiere; non si può mai sapere. La gente ha idee curiose, a volte. E se si sapesse la verità o press’a poco, vi sentireste anche più sollevato.» «Sì» disseMaxim. «Sì, capisco.» «È un fatto curioso, e anche seccante, come si propagano le storie, in provincia. E quanto durano! Io non ho mai capito il perché, ma il fatto è così, sfortunatamente. Non che nel vostro caso io preveda delle… delle noie, ma, sapete, è sempre meglio metter le mani avanti. E la gente è capace di tirar fuori le voci più fantastiche, per poco che se ne dia occasione.» «Sì…»
«Voi e Crawley, s’intende, potrete far tacere qualsiasi diceria che circolasse per Manderley, e io posso far lo stesso a Kerrith. Dirò anche una parolina alla mia figliola. Essa vede molta gioventù, che spesse volte è proprio quella che più chiacchiera a vanvera. Suppongo che i giornalisti non vi daranno più fastidio, ormai, e questo è un pensiero di meno. Oh, vedrete che in men d’un giorno o due lasceranno cadere tutto quanto.» «Sì…» diceva Maxim. Attraversammo i sobborghi a nord di Londra, e presto fummo di nuovo a Finchley e a Hampstead.
«Le sei e mezza…» disse il colonnello. «Che intenzioni avete? Io ho mia sorella che abita a St. John’s Wood, e quasi quasi andrei a farle una sorpresa e a chiederle da cena. Arriverò ancora a prendere poi l’ultimo treno da Paddington. So che essa e ancora in città per tutta questa settimana. Son certo che sarebbe felicissima di vedere anche voi due…»
Maxim esitava, e mi diede un’occhiata. «Siete molto gentile» disse «ma credo sia meglio se non ci impegniamo. Io devo telefonare a Frank, e abbiamo tante cosette… Ceneremo tranquillamente in un posticino qualunque, e ripartiremo poi subito, e magari passeremo la notte per strada, dovunque sia. Sì, credo che faremo così.» «Fatebenissimo» disse il colonnello. «Potreste lasciarmi da mia sorella? È in una di queste vie laterali, sull’Avenue Road.»
Quando fummo alla casa, Maxim si fermò a qualche passo dal cancello. «So che non è possibile ringraziarvi per tutto quel che avete fatto oggi» disse al colonnello. «Ma sapete quanto vi sono riconoscente, anche senza che ve lo dica.»
«Caro amico, il piacere è stato tutto mio» replicò il colonnello. «Se soltanto avessimo saputo prima quel che sapeva Baker, non ci sarebbe stata tutta questa gazzarra. In ogni modo, non ve ne date pensiero. Dovreste dimenticare tutto quanto, come si dimentica un episodio oltremodo spiacevole e disgraziato. Sono più che sicuro che da Favell non avrete altre noie. Se mai succedesse spero che mi avvertirete immediatamente. E so io come trattarlo, in quel caso.» Egli scese, raccogliendo il soprabito e la carta stradale. «Fossi in voi» soggiunse, senza guardarci in viso «me ne andrei via per un po’ di tempo. Prendetevi una piccola vacanza. All’estero, magari…» Non replicammo, né io né Maxim. «La Svizzera, in questa stagione, è deliziosa» seguitava il colonnello, ficcandosi la carta in tasca. «Ricordo che ci andai una volta, per portarci le ragazze in vacanza, e ce la siamo goduta un mondo. Ci sono delle gite meravigliose.» Titubò, schiarendosi la gola. «C’è una lontana… dico una lontana possibilità che qualcuno sollevi delle difficoltà; non dico Favell, ma altri nella provincia. Non sappiamo, per esempio, che cosa sia andato dicendo in giro quel Tabb…
È assurdo, naturalmente… Ma conoscete il vecchio detto? Lontano dagli occhi, lontano dalla memoria. Se non c’è chi è oggetto dei pettegolezzi, questi muoiono di per sé. Così va il mondo.»
Ristette un momento, a contar le sue cose. «Ho preso tutto? Carta, occhiali, bastone, soprabito… Non mi manca nulla. Dunque, addio, cari amici. Non vi stancate troppo. Questa si che è stata una giornata!» Si volse al cancello, salì i gradini. Vidi una signora affacciarsi alla finestra, e salutare con la mano, sorridente. A un angolo della strada svoltammo. Mi appoggiai allo schienale, chiudendo gli occhi. Ora che eravamo di nuovo soli, e che lo sforzo era compiuto, passato, la prima impressione era di indicibile sollievo. Come dopo che si è aperto un ascesso… Maxim taceva. Ma sentii la sua mano libera sulla mia. Passavamo per vie rumorose, piene di traffico, e io nulla vedevo. Udivo lo sferragliar degli autobus, le trombe dei tassì, tutto l’inevitabile incessante ronzio di Londra, ma non ne facevo parte. Ero lontana; mi riposavo in un luogo quieto e fresco e silenzioso. Nulla poteva toccarci più. La crisi era passata. Riaprii gli occhi e mi drizzai a sedere; Maxim aveva fermato. Ci trovammo davanti a uno dei tanti piccoli ristoranti in Soho, in una via stretta. Mi guardai d’attorno, intontita.
«Tu sei stanca» diceva Maxim, breve. «Stanca, e hai lo stomaco vuoto, e non ne puoi più. Ti sentirai più sollevata quando avrai mangiato qualche cosa. E anch’io. Adesso scendiamo qui, e ordiniamo subito da cena. E intanto io potrò anche telefonare a Frank.» Scendemmo. Il ristorante era deserto, a quell’ora. Non c’era che il direttore, un cameriere e una ragazza alla cassa. La sala era fresca, buia. Ci sedemmo a un tavolino in un angolo. Maxim ordinò. «Aveva ragione Favell, che voleva da bere» disse. «Anch’io ne ho bisogno, e anche tu. Adesso ti farò portare del cognac.»
Il direttore, un grassone sorridente, ci mise sul tavolino dei panini lunghi sottili, avvolti nella carta. Erano duri, croccanti. Avidamente ne divorai uno. Il cognac con la soda era buono; mi riscaldò e mi riconfortò in modo singolare.
«Quando avremo cenato andremo pianino, tranquillamente. E farà anche fresco, di sera» disse Maxim. «E troveremo un alberghetto, per strada, dove potremo passar la notte. E domani mattina proseguiremo per Manderley.» «Sì.»
«Non avresti mica preferito cenare dalla sorella di Julyan, e ripartire poi con l’ultimo treno, non è vero?» «No.»
Maxim finì di bere. I suoi occhi, cerchiati, parevano più grandi del solito, e spiccavano neri contro il pallor del viso.
«Quanto credi che Julyan sospettasse della verità?» domandai.
«Sapeva» rispose lentamente Maxim. «Sapeva, naturalmente.»
«Se così, è, non dirà mai nulla. Mai, mai…» «No.»
Maxim si fece portare dell’altro cognac. Silenziosi sedevamo in pace, nel nostro angolino buio. «Io credo che Rebecca mi abbia mentito ad arte» disse Maxim. «L’ultima, suprema beffa. Voleva che io la uccidessi. Aveva calcolato, preveduto tutto. Ecco perché rideva. Ecco perché rideva anche quando l’ho uccisa.» In silenzio continuai a sorseggiare il cognac. Tutto era ormai finito, liquidato. Non c’era bisogno che Maxim avesse quell’aria affannata, quella faccia pallida. «È stata l’ultima sua beffa» egli ripetè. «E la migliore. E non son sicuro ch’essa non abbia vinto… nemmeno ora non son sicuro.».
«Che vuoi dire? E come potrebbe aver vinto?» «Non lo so» egli rispose. «Non lo so.» E mandò giù d’un fiato il cognac. Poi si alzò. «Vado a telefonare a Frank.»
Mi rannicchiai nell’angolo, e tosto il cameriere mi portò il pesce. Era aragosta. Calda, eccellente. E presi anch’io un altro cognac con soda. Un gran benessere m’invadeva tutta, a esser lì, e mi pareva di non aver pensieri. Pensieri gravi, almeno. Sorrisi al cameriere. E senza sapere il perché chiesi dell’altro pane in francese. L’atmosfera del piccolo ristorante era quieta, simpatica. Maxim ed io eravamo uniti. La bufera era passata. Tutto a posto. Rebecca non era più. Rebecca non poteva più farci alcun male. Come aveva detto Maxim, ella aveva giocato la sua ultima beffa. E non ne avrebbe fatto altre. Maxim tornò dopo una diecina di minuti. «Dunque» domandai, e la mia stessa voce mi pareva lontana «come sta Frank?»
«Frank sta bene» rispose Maxim. «Era in ufficio. Dalle quattro aspettava la mia telefonata. Gli ho detto come erano andate le cose. E m’è parso che fosse anche lui contento e sollevato.» «Sì» dissi.
«Però, è successa una cosa strana» riprese Maxim, una ruga tra le sopracciglia.«Frank crede che la Danvers se ne sia andata per sempre. È partita, scomparsa. Non ha detto niente a nessuno, ma era evidente che tutto il giorno ha fatto bagagli, ha portato via ogni cosa dalla sua stanza, e verso le quattro è venuto il facchino della stazione a prendere le sue valige. Frith lo ha telefonato subito in ufficio a Frank, e Frank ha detto di avvertire la vecchia che venisse subito da lui; ha aspettato, ma essa non s’è fatta vedere. Un quarto d’ora prima che telefonassi io, Frith ha telefonato per la seconda volta a Frank, e gli ha detto che la signora Danvers era stata chiamata al telefono da fuori, e lui le aveva passato la comunicazione alla sua stanza, e poi non ne aveva più saputo nulla. Questo deve esser stato alle sei e dieci, più o meno. Alle sette meno un quarto lui è andato a bussare alla porta della Danvers, e ha trovato le sue stanze vuote. Salottino e camera da letto. Hanno cercato dappertutto, ma non l’hanno potuta trovare. Pensano che se ne sia andata via. Dev’essere uscita di casa senza farsi vedere, e poi ha preso per i boschi. Dal cancello non è passata sicuramente.»
«E non è meglio così?» dissi. «Pensa quante noie ci risparmierà! L’avremmo dovuta mandar via in tutti i modi. Io credo che anche lei sospettasse… Ci pensavo stamane, mentre venivamo su. Quella sua faccia, iersera…» «Sì, ma tutto questo non mi piace» diceva Maxim. «Non mi piace…»
«Che male può farci?» insistei. «Se se n’è andata, tanto meglio. Dev’esser stato Favell che telefonava, è chiaro. Le avrà raccontato di Baker, e le avrà anche riferito quel che ha detto il colonnello Julyan, in ultimo. E a noi, Julyan non ha forse detto che se ci fosse stato il minimo tentativo di ricatto, avvertissimo lui? Ma non
oseranno, mai e poi mai! Non possono. È un rischio troppo grave.»
«Non è a un ricatto che penso» diceva Maxim, meditabondo.
«Ma che cosa vuoi che facciano?» ripetei io. «Aveva ragione il colonnello Julyan,quando ci diceva che non dobbiamo pensarci più. È tutto finito, amore, è una cosa ormai lontana. E non ci resta che ringraziare Iddio in ginocchio che sia finita.»
Maxim non replicò nulla. Fissava nel vuoto, avanti a sé. «La tua aragosta diventa fredda» dissi. «Mangia, amore. Ti farà bene, anche tu hai bisogno di metterti qualcosa nello stomaco. Sei molto stanco.» Usavo, quasi, le sue stesse parole. Mi sentivo rinfrancata. Ed ero io, ora, ad aver cura di lui. Egli era affaticato, pallido. Io avevo superato debolezza e stanchezza; era lui, invece, che sentiva ora la reazione. Ma soprattutto perché era stanco, e aveva lo stomaco vuoto. Che ragione c’era di preoccuparsi, altrimenti? La signora Danvers se n’era andata. Grazie a Dio se n’era andata! E anche questo era un pensiero di meno.
«Mangia l’aragosta, caro» dissi.
Quanto diverso si presentava l’avvenire per noi! Non sarei più stata nervosa e timida con le persone di servizio. Sparita la Danvers, a poco a poco avrei imparato a tener le redini del governo di casa. Sarei andata in cucina a parlamentare col cuoco, per prima cosa. E quella gente avrebbe imparato a volermi bene, a rispettarmi. E ben presto, il regno della Danvers non sarebbe stato per tutti che un lontano ricordo. Anche dell’andamento della proprietà avevo desiderio di impratichirmi. Avrei pregato Frank di spiegarmi tante cose. Frank mi voleva bene; ne ero certa. E anch’io gli volevo bene. Avrei approfondito i misteri dell’amministrazione. Sapere come andava avanti la fattoria; come si suddivideva il lavoro nelle campagne. Chissà che non mi fossi anche data al giardinaggio… C’erano alcune cose che desideravo cambiare, col tempo. Quel piccolo piazzale davanti alla stanza di soggiorno, con la statua del satiro, per esempio, non mi piaceva. Il satiro lo avrei tolto di mezzo. E così, c’erano tante altre cose da fare, piano piano… Le visite, poi, non mi avrebbero dato più fastidio. Anzi, avrei avuto piacere, ad avere ospiti. Mi sarei divertita a pensare alle loro stanze, a renderle più piacevoli, con fiori e libri. E c’erano i pranzi da combinare. E avremmo avuto dei bambini. Nessun dubbio che avremmo avuto dei bambini. «Hai finito?» disse subitamente Maxim. «Io non prendo altro. Il caffè soltanto. Caffè nero, molto forte; e il conto, prego» disse, rivolgendosi al direttore. Che bisogno di scappar così presto? mi domandai. Si stava così bene, in quel piccolo ristorante, e non c’era nulla che ci spingesse ad andarcene. Mi piaceva starmene seduta lì, la testa appoggiata allo schienale del divano, a immaginate l’avvenire, in una nebulosità che abbelliva le cose. E volentieri sarei rimasta così a lungo. Strascicando il passo, sbadigliando seguii Maxim fuori. «Senti» disse egli, quando fummo sul marciapiede; «credi che potresti dormire in automobile… se ti avviluppassi ben bene nella coperta, sul sedile in fondo? C’è anche il cuscino, e il mio soprabito.»
«Ma credevo che ci fermassimo in qualche posto, per la notte» dissi, sorpresa. «Uno di quegli alberghi che abbiamo visto passando…»
«Lo so; ma ho l’impressione di dover ritornare stanotte ancora. Credi proprio che non dormirai bene lo stesso, in automobile?»
«Sì» dissi, dubbiosa. «Sì, dopo tutto…» «Se partiamo ora… sono le otto meno un quarto» egli m’interruppe «potremmo arrivare verso le due e mezza. Non ci sarà molto traffico sulle strade.»
«Ma tu sarai così stanco» obbiettai. «Orribilmente stanco.»
«No.» Ed egli scosse il capo. «Io sto benissimo. Voglio andare a casa. C’è qualche cosa che non va. Lo sento. E voglio andare a casa.»
Aveva uno strano viso ansioso… Aprì lo sportello, e accomodò le coperte e il cuscino in fondo alla macchina. «Ma che cosa vuoi che ci sia?» dicevo io. «Mi sembra strano che tu ti preoccupi ora che tutto è finito. Non ti capisco.»
Ma egli non mi ascoltava. Salii, e mi sdraiai sul sedile, le gambe rannicchiate, e Maxim mi coprì. Si stava benissimo, assai meglio di quanto non avrei immaginato. Mi accomodai il cuscino sotto la testa. «Sei a posto?» egli domandò. «E non te ne importa, proprio?»
«No» risposi, sorridendo. «Sto a meraviglia. Ora mi addormenterò. No, non honessuna voglia di fermarmi per strada. È molto meglio fare così, e arrivare a casa. Saremo a Manderley prima che spunti il sole.» Maxim salì davanti, e sentii sotto il mio corpo il dondolio lieve delle molle. Affondai il viso nel cuscino. Il movimento della macchina, ritmico e costante, andava all’unisono con la mia fantasia. Non appena chiusi gli occhi, centinaia d’immagini mi si erano affacciate alla memoria: cose viste, cose note, e cose obliate. Si sovrapponevano le une alle altre, formando un
motivo privo di senso. La piuma che ornava il cappellino della signora Van Hopper, le seggiole dure, dallo schienale dritto, nella saletta da pranzo di Frank Crawley, la larga finestra nell’ala a ponente a Manderley, la veste color salmone della signora dal perpetuo sorriso, al ballo in costume; una contadinella su una strada nei pressi di Monte Carlo… Ora vedevo Jasper che dava la caccia alle farfalle sul prato; ora era il terrier scozzese del dottor Baker che si grattava un’orecchia dietro a una seggiola a sdraio. Poi, veniva il postino che oggi ci aveva indicato la casa; e la madre di Clarice ripuliva una scranna per me, nel suo tinello. Ben mi sorrideva, tendendomi la mano piena di telline; la moglie del vescovo m’invitava a trattenermi per il tè.
Sentivo la frescura delle lenzuola del mio letto, a casa, e lo strider dei ciottoli sulla spiaggia, sotto i piedi… Odoravo la madreselva nei boschi, il muschio umido, i morti petali d’azalea. Piombai in uno strano sonno interrotto, dal quale ogni tanto mi ridestavo alla realtà dell’incomoda posizione rannicchiata, e alla visione del dorso di Maxim davanti a me. Il crepuscolo s’era mutato in oscurità completa. Ogni tanto mi abbagliava la luce dei fari d’una macchina che ci veniva incontro, ci oltrepassava e si allontanava. Ci lasciavamo alle spalle villaggi, con luci tremule dietro alle tendine chiuse. E mi scuotevo, a fatica mi voltavo, e riprendevo sonno. Vedevo lo scalone a Manderley. La signora Danvers, vestita di nero, era là in cima, e aspettava ch’io salissi. Via via che m’avvicinavo essa indietreggiava sotto l’arcata, e spariva. La cercavo, e non la trovavo più. Poi, la sua faccia faceva capolino da una porta semiaperta; io gridavo, ma già ella era di nuovo sparita. «Che ore sono?» domandai, ad alta voce. «Che ore sono?»
Maxim si voltò; nel buio della macchina il suo viso bianco mi apparve spettrale. «Sono le undici e mezza» rispose. «Siamo già più che a mezza strada. Cerca di dormire…»
«Ho sete» dissi.
Al primo borgo egli si fermò. L’uomo di servizio all’autorimessa ci disse che sua moglie non era ancora andata a letto, e ci avrebbe fatto del tè. Scendemmo, entrammo nella rimessa. Pestavo i piedi, su e giù, per riscaldarmi. Avevo le mani e i piedi gelati. Maxim fumava una sigaretta. Faceva freddo. Il vento soffiava dalla porta aperta, e scrollava il tetto di lamiera. Rabbrividivo; e mi abbottonai il soprabito.
«Eh sì, fa freddino stasera» disse l’uomo, mentre srotolava il tubo della pompa perla benzina. «Oggi dopo pranzo, pareva che il tempo si volesse guastare. È l’ultima delle ondate di caldo, per quest’anno. Presto si dovrà pensare ad accendere il fuoco.» «A Londra non si respirava» dissi. «Davvero? Beh, là si esagera sempre… Ma qui il cattivo tempo capiterà prima. Non arriveremo a stamane, e sentirete che vento, sulla costa.»
Sua moglie portò il tè. Aveva un sapor di legna amara, ma era caldo; e bevvi con voluttà, grata per il ristoro che mi dava. Già Maxim guardava l’ora. «È tempo che ce ne andiamo» disse. «Mancano dieci minuti a mezzanotte.»
A malincuore uscii da quel rifugio. Il cielo sfavillava di stelle. E c’erano anche brandelli di nuvole. «Sì» disse l’uomo. «all’estate possiamo dire addio, per quest’anno.»
Risalimmo. Tornai a rannicchiarmi sotto la coperta. La macchina riprese la sua corsa. Chiusi gli occhi. L’uomo dalla gamba di legno girava l’organetto, e la melodia di “Rose di Piccardia” si confondeva coi sobbalzi della macchina, nella mia mente. Frith e Roberto portavano il tè nella biblioteca. La donna ai cancelli mi faceva cenno col capo, arcigna, e chiamava il maschietto dentro casa. Vedevo i modellini di vascelli, ricoperti d’una lanugine di polvere. Vedevo le ragnatele tra le attrezzature. Udivo la pioggia tamburellar sul tetto, e la voce del mare. Volevo arrivare alla Valle della Felicità, e non la trovavo più. Non c’erano che boschi, tutt’intorno. Alberi scuri, e il giovine verde della madreselva. Le civette urlavano. La luna si rifletteva nelle finestre di Manderley. Nel giardino c’erano delle ortiche, alte, tanto alte che mi arrivavano alla vita, alle spalle… «Maxim!» gridai. «Maxim!» «Calma!» egli rispose. «Sono qui.» «Ho fatto un sogno. Un sogno…» «Che cosa hai sognato?» «Non lo so. Non lo so.»
Giù, di nuovo, entro le irrequiete mobili profondità. Scrivevo lettere, nella stanza a mattina. Erano biglietti d’invito. Li spedivo tutti io, scrivevo l’indirizzo con un grosso pennino nero. Ma quando guardavo che cosa avevo scritto non era più la mia calligrafia un po’ quadrata, era alta, obliqua, con certe curiose angolosità. Allontanavo i biglietti dalla cartella, li nascondevo. Poi mi alzavo a guardarmi allo specchio. La faccia che mi fissava non era la mia. Era un viso femminile pallidissimo, bellissimo, incorniciato da una nuvola di capelli neri. Socchiudendo gli occhi mi sorrideva. Le labbra si aprivano. E tutto il viso riflesso nello specchio rideva, guardandomi. E poi, vedevo la stessa donna seduta davanti alla pettiniera in camera da letto, e Maxim le spazzolava i capelli. Li teneva in mano, e mentre li spazzolava li andava torcendo in un lungo cordone nero, che gli sgusciava di tra le dita come un serpe. Con tutte e due le mani egli lo teneva stretto, e sorridendo a Rebecca se lo metteva attorno al collo.
«No!» gridavo io. «No, no. Dobbiamo partire per la Svizzera. Il colonnello Julyan ha detto che dobbiamo andare in Svizzera.»
Sentii la mano di Maxim accarezzarmi il viso. «Che cosa c’è? Che cosa succede?»
Mi drizzai a sedere, scostai i capelli dal viso. «Non posso dormire» dissi. «È inutile.»
«Ma hai dormito. Hai dormito per due ore almeno. Adesso sono le due e un quarto. Siamo a quattro miglia da Lanyon.»
Passai sul sedile a fianco di Maxim, e aguzzai gli occhi avanti a me, oltre il vetro. Gli misi la mano sul ginocchio. Battevo i denti. «Hai freddo» egli mi disse. «Sì.»
La strada saliva davanti a noi, su per la collina, poi scese, poi tornò a salire. Era notte fitta. Le stelle erano scomparse.
«Che ore sono, hai detto?» «Adesso sono le due e venti.»
«È strano» dissi. «Quasi sembra che spunti l’alba, laggiù, dietro a quelle colline. Ma non può essere, è troppo presto.»
«Non è da quella parte che spunta il sole. Tu guardi a ponente.»
«Lo so. Ma è strano, non è vero?»
Maxim non replicò nulla, e io seguitai a guardare il cielo.
Pareva schiarirsi sempre più, mentre guardavo. Come i primi bagliori del sole nascente. E a poco a poco, il rossore si diffondeva nel cielo.
«È d’inverno che si vede l’aurora boreale, non è vero?» dissi. «Non è mica d’estate.»
«Ma quella non è l’aurora boreale» disse Maxim. «Là c’è Manderley.»
Lo guardai, e vidi il suo volto. E gli lessi negli occhi. «Maxim! Maxim, che cos’è?»
Egli accelerava, accelerava la corsa. Fummo sull’alto della collina, e ai piedi, nella valle, vedemmo Lanyon. Là, alla nostra sinistra, c’era il nastro argenteo del fiume, che a sei miglia circa si allargava nell’estuario di Kerrith. E davanti a noi si stendeva la strada per Manderley. Non c’era luna. Il cielo sopra le nostre teste era d’un nero d’inchiostro. Ma il cielo all’orizzonte non era affatto scuro. Era soffuso d’un rosso intenso, quasi uno spruzzo sanguigno. E il vento salmastro che veniva dal mare ci soffiava le ceneri sul viso.