salire in alto. Tuttavia non sono in grado di controllare l’ubicazione di tali colonne, e la loro massima capacità di trasporto è strettamente proporzionale alla loro apertura alare. Addomesticando il fuoco, gli umani acquisirono il controllo di una forza totalmente gestibile e potenzialmente illimitata. A differenza delle aquile, gli umani potevano decidere quando e dove accendere la fiamma, ed erano in grado di sfruttare il fuoco per soddisfare le esigenze più diverse. Cosa più importante di tutte, la potenza del fuoco non era condizionata dalla forma, dalla struttura o dalla forza del corpo umano. Bastavano una pietra focaia o un bastoncino da rigirare fra le mani e anche una donna, da sola, poteva appiccare un incendio che avrebbe arso un’intera foresta nel giro di poche ore. L’addomesticamento del fuoco fu un presagio delle cose a venire. I custodi dei nostri fratelli Nonostante i benefici del fuoco, gli umani di 150.000 anni fa erano ancora creature marginali. Ora potevano scacciare i leoni, riscaldarsi durante le notti fredde e se necessario incendiare una foresta. Eppure, calcolando tutte le specie insieme, non erano forse più di un milione gli umani che vivevano tra l’arcipelago indonesiano e la penisola iberica: solo un debole bip del radar ecologico. Mappa 1. Homo sapiens conquista il globo. La nostra specie, Homo sapiens, era già presente sulla scena mondiale, ma per il momento si limitava a badare ai fatti propri stando in un angolo dell’Africa. Non sappiamo esattamente dove e quando gli animali che possiamo classificare come Homo sapiens si siano evoluti rispetto a un precedente tipo di umani. Secondo la maggioranza degli scienziati, 150.000 anni fa l’Africa orientale era popolata da Sapiens che ci somigliavano molto. Se in un obitorio moderno giacesse uno di loro, il patologo non noterebbe nulla di speciale. Grazie alla risorsa rappresentata dal fuoco, essi avevano sviluppato denti e mandibole più piccoli rispetto a quelli dei loro antenati, mentre avevano cervelli massicci, del tutto comparabili, per volume, ai nostri. Gli scienziati concordano anche sul fatto che circa 70.000 anni fa i Sapiens si siano diffusi dall’Africa orientale nella penisola araba e, da lì, si siano distribuiti velocemente nelle più diverse regioni euroasiatiche. Quando Homo sapiens approdò in Arabia, numerose parti dell’Eurasia contavano già insediamenti di altri umani. Che cosa ne fu di loro? Esistono due teorie contrapposte. La teoria dell’ibridazione parla di attrazione, sesso e mescolanza. Propagandosi per il mondo, gli immigrati provenienti dall’Africa si accoppiarono con altre popolazioni umane, e ciò che siamo oggi è il risultato di questa fusione. 3. Ricostruzione ipotetica di un giovane Neanderthal. Le prove genetiche indicano che almeno alcuni Neanderthal forse avevano pelle e capelli chiari. Per esempio, quando i Sapiens arrivarono in Medio Oriente e in Europa, incontrarono i Neanderthal. Questi umani erano più muscolosi dei Sapiens, avevano un cervello più sviluppato ed erano meglio adattati ai climi freddi. Usavano utensili e il fuoco, erano buoni cacciatori e a quanto pare si prendevano cura dei malati e degli infermi (alcuni archeologi hanno scoperto ossa di Neanderthal vissuti per molti anni con severi handicap fisici, e questo dimostra come essi fossero accuditi dai propri parenti). I Neanderthal vengono spesso rappresentati in modo caricaturale, come archetipi del rozzo e stupido “popolo delle caverne”, ma scoperte recenti hanno mutato l’immagine che si dava di loro. Secondo la teoria dell’ibridazione, quando i Sapiens si diffusero nelle terre dei Neanderthal, si mescolarono con loro finché le due popolazioni si fusero completamente. Se le cose sono andate in questo modo, allora vuol dire che gli euroasiatici non sono puri Sapiens. Sono una mescolanza di Sapiens e Neanderthal. Allo stesso modo, quando i Sapiens raggiunsero l’Asia orientale si incrociarono con i locali Erectus, per cui i cinesi e i coreani sono una mescolanza di Sapiens e di Erectus. All’opposto la teoria del rimpiazzamento racconta una storia molto diversa, fatta di incompatibilità, di repulsione, forse persino di genocidio. Secondo questa teoria, i Sapiens e altri umani possedevano anatomie differenti, e molto probabilmente differenti consuetudini di accoppiamento e persino differenti odori corporali. Avrebbero avuto scarso interesse sessuale gli uni verso gli altri. E anche se un Romeo Neanderthal e una Giulietta Sapiens si fossero innamorati, non avrebbero avuto figli fertili, perché il divario genetico che separava le due popolazioni era già incolmabile. Le due popolazioni rimasero completamente distinte, e quando i Neanderthal si estinsero, o furono eliminati, i loro geni morirono con loro. Secondo questa concezione, i Sapiens rimpiazzarono tutte le precedenti popolazioni umane senza fondersi con esse. Se le cose sono andate così, la discendenza di tutti gli umani contemporanei può esser fatta risalire, in modo esclusivo, all’Africa orientale di 70.000 anni fa. Siamo tutti dei “puri Sapiens”. Tale diversità di vedute ha molte conseguenze. Da un punto di vista evoluzionistico, 70.000 anni sono un intervallo di tempo relativamente breve. Se è valida la teoria del rimpiazzamento, tutti gli esseri umani posseggono grosso modo lo stesso bagaglio genetico, e le distinzioni razziali fra di essi sono trascurabili. Ma se è valida la teoria dell’ibridazione, possono esserci senz’altro differenze genetiche tra africani, europei e asiatici, risalenti a centinaia di migliaia di anni fa. Dal punto di vista politico, questa è dinamite, e potrebbe essere usata per sostenere teorie razziali esplosive. Negli scorsi decenni, a dettare legge nel campo è stata la teoria del rimpiazzamento. Possedeva una più solida base archeologica, ed era più politicamente corretta (gli scienziati non avevano voglia di scoperchiare il vaso di Pandora del razzismo affermando la significativa diversità genetica tra le moderne popolazioni umane). Ma ciò ebbe termine nel 2010, quando furono pubblicati i risultati di una ricerca quadriennale che mirava a mappare il genoma dei Neanderthal. I genetisti riuscirono a raccogliere dai fossili DNA neanderthaliano intatto in quantità sufficiente per compararlo, con un raffronto di massima, al DNA degli umani contemporanei. Vedendo i risultati, la comunità scientifica rimase stupefatta. Risultò che, nel DNA unico condiviso dalle moderne popolazioni del Medio Oriente e dell’Europa, una porzione variabile fra l’1 e il 4% era costituita da DNA neanderthaliano. Non è una quantità enorme, ma è pur sempre rilevante. Un secondo shock arrivò alcuni mesi più tardi, quando venne mappato il DNA ricavato dal dito fossilizzato proveniente da Denisova. I risultati dimostrarono che fino al 6% del DNA umano dei moderni malesi e aborigeni australiani è DNA denisovano. Se questi risultati sono validi – non si dimentichi che sono in corso ulteriori ricerche che possono corroborare o modificare tali conclusioni – i sostenitori della teoria dell’ibridazione hanno ragione almeno in parte. Questo non significa peraltro che la teoria del rimpiazzamento sia completamente sbagliata. Poiché i Neanderthal e i Denisova hanno contribuito solo con una piccola quota di DNA al nostro genoma attuale, è impossibile parlare di una “fusione” tra i Sapiens e le altre specie umane. Sebbene le loro differenze non fossero tanto grandi da impedire del tutto accoppiamenti fertili, lo furono a sufficienza per rendere questo tipo di unioni molto rare. Come dovremmo quindi intendere le relazioni biologiche tra Sapiens, Neanderthal e Denisova? Chiaramente non erano specie totalmente differenti tra loro come lo sono i cavalli e gli asini. D’altro canto non erano neppure popolazioni differenti della stessa specie, come i bulldog e gli spaniel. Non c’è bianco e nero nella realtà biologica. Ci sono anche importanti aree grigie. Tutte le specie che si sono evolute da un progenitore comune – come i cavalli e gli asini – sono state, un tempo, semplicemente popolazioni diverse della stessa specie – come i bulldog e gli spaniel. Dev’esserci stato un momento in cui le due popolazioni erano diventate già molto differenti tra loro, ma erano ancora capaci, in rare occasioni, di avere rapporti sessuali e di generare una prole fertile. In seguito, un’altra mutazione ha reciso questo ultimo filo di connessione, e le due specie hanno intrapreso percorsi evoluzionistici separati. Pare che intorno a 50.000 anni fa, i Sapiens, i Neanderthal e i Denisova si siano ritrovati proprio a quel punto di svolta. Costituivano specie quasi separate, sebbene ancora non del tutto. Come vedremo nel prossimo capitolo, i Sapiens erano già molto diversi dai Neanderthal e dai Denisova non solo per quanto riguarda il codice genetico e i tratti fisici, ma anche per le capacità cognitive e sociali; e tuttavia pare che, in rare occasioni, fosse ancora possibile per un Sapiens e un Neanderthal generare prole fertile. Le popolazioni dunque non si fusero, ma furono solo pochi fortunati geni neanderthaliani a salire a bordo del Sapiens Express. È piuttosto sconcertante – e forse anche eccitante – pensare che noi Sapiens potevamo un tempo fare sesso con un animale di una specie diversa, e avere figli da questo rapporto. Ma se i Neanderthal, i Denisova e altre specie umane non si fusero con i Sapiens, perché scomparvero? Una possibilità è che a portarli all’estinzione sia stato Homo sapiens. Immaginate l’arrivo di un gruppo di Sapiens in una vallata dei Balcani dove per centinaia di migliaia di anni erano vissuti dei Neanderthal. I nuovi venuti cominciarono a cacciare i cervi e a raccogliere noci e bacche, che erano un tradizionale alimento dei Neanderthal. Come vedremo nel prossimo capitolo, i Sapiens erano più efficienti come cacciatori e raccoglitori – grazie alle migliori competenze tecnologiche e alle più spiccate abilità sociali – e conseguentemente ebbero modo di moltiplicarsi e diffondersi. Per gli svantaggiati Neanderthal iniziò a diventare sempre più difficile procurarsi del cibo. La loro popolazione scemò e un po’ alla volta si spense, eccetto forse per uno o due componenti che si unirono ai vicini Sapiens. Un’altra possibilità è che la competizione per usufruire delle risorse disponibili sia deflagrata in una serie di violenze e genocidi. La tolleranza non è una caratteristica dei Sapiens. In tempi moderni, una piccola differenza circa il colore della pelle, il dialetto o la religione è bastata per convincere un gruppo di Sapiens a sterminarne un altro. Forse gli antichi Sapiens sarebbero stati più tolleranti nei confronti di una specie umana totalmente differente? Ci sono buone ragioni per credere che l’incontro fra i Sapiens e i Neanderthal si sia risolto nella prima e più drastica campagna di pulizia etnica della storia. Comunque sia andata, i Neanderthal (e le altre specie umane) costituiscono uno dei grandi “se” della storia. Immaginiamo quale piega avrebbero preso le cose se i Neanderthal e i Denisova fossero sopravvissuti accanto a Homo sapiens. Che tipo di culture, di società e di strutture politiche sarebbero venute fuori da un mondo in cui fossero coesistite più specie umane differenti tra loro? Come si sarebbero sviluppate, per esempio, le fedi religiose? Il libro della Genesi avrebbe forse dichiarato che i Neanderthal discendono da Adamo ed Eva, Gesù sarebbe forse morto per i peccati dei Denisova e il Corano avrebbe forse riservato posti in cielo a tutti gli uomini giusti, a prescindere dalla loro specie? Sarebbero stati in grado, i Neanderthal, di servire nelle legioni romane o nella sterminata burocrazia della Cina imperiale? La Dichiarazione d’indipendenza americana avrebbe forse annoverato fra le “verità per se stesse evidenti” che tutti i membri del genere Homo sono creati uguali? Karl Marx avrebbe forse sollecitato a unirsi i lavoratori di tutte le specie? Negli ultimi 10.000 anni Homo sapiens si è talmente abituato a essere l’unica specie umana da rendere difficile, per noi, concepire altre possibilità. L’assenza di “fratelli e sorelle” ci induce facilmente a immaginare di essere il compendio della creazione, e che un abisso ci separi dal resto del regno animale. Quando Charles Darwin dichiarò che Homo sapiens era solo un altro tipo di animale, la gente s’infuriò. Ancora oggi molti si rifiutano di crederci. Se i Neanderthal fossero sopravvissuti, continueremmo a pensare di essere creature a parte? Forse questo è esattamente il motivo per cui i nostri antenati hanno eliminato i Neanderthal. Erano troppo familiari per poterli ignorare, ma troppo diversi per poterli tollerare. Fossero o no colpevoli, non appena i Sapiens arrivavano in un nuovo territorio, la popolazione nativa dopo un po’ si estingueva. Gli ultimi resti di Homo soloensis sono databili a circa 50.000 anni fa. Homo denisova scomparve poco tempo dopo. I Neanderthal uscirono di scena approssimativamente 30.000 anni fa. Gli ultimi umani simili a gnomi dell’isola di Flores scomparvero circa 12.000 anni fa. Si lasciarono dietro alcune ossa, qualche utensile, pochi geni appartenenti anche al nostro DNA e una quantità enorme di domande senza risposta. E lasciarono dietro di sé anche Homo sapiens, l’ultima specie umana: la nostra. Quale fu il segreto del successo dei Sapiens? Come potemmo insediarci così rapidamente in così tanti habitat, distanti ed ecologicamente differenti? Come riuscimmo a relegare nell’oblio tutte le altre specie umane? Perché neppure i forti, intelligenti e temprati Neanderthal riuscirono a sopravvivere al nostro furioso assalto? Il dibattito in merito continua a essere molto acceso. La risposta più probabile è proprio quella che rende possibile il dibattito: Homo sapiens conquistò il mondo soprattutto grazie al suo linguaggio unico.
2. L’albero della conoscenza Nel capitolo precedente abbiamo visto che, sebbene avessero già popolato l’Africa orientale 150.000 anni fa, i Sapiens cominciarono a penetrare in tutte le altre parti del pianeta – causando l’estinzione delle altre specie umane – soltanto 70.000 anni fa circa. Nei millenni intercorsi tra le due epoche, quei Sapiens arcaici, che pure ci somigliavano in tutto e per tutto e avevano cervelli grandi quanto i nostri, non godettero di alcun significativo vantaggio sulle altre specie umane, non produssero utensili particolarmente sofisticati e non compirono alcuna prodezza. In realtà, nel primo incontro di cui si sappia tra i Sapiens e i Neanderthal, i Neanderthal vinsero. Circa 100.000 anni fa alcuni gruppi Sapiens migrarono verso il Levante, che era territorio Neanderthal, ma non riuscirono a porre solide basi. Forse fu dovuto al cattivo carattere dei nativi, al clima inclemente o ai parassiti locali cui non erano abituati. Quale sia stata la ragione, i Sapiens alla fine si ritirarono, lasciando i Neanderthal padroni del Medio Oriente. Questo magro bilancio di conquiste ha spinto gli studiosi a ipotizzare che la struttura interna dei cervelli di questi Sapiens fosse probabilmente differente dalla nostra. Nell’aspetto erano simili a noi, ma le loro capacità cognitive per imparare, ricordare e comunicare erano probabilmente assai più limitate. Insegnare a questi antichi Sapiens l’inglese, persuaderli della verità del dogma cristiano o far loro capire la teoria dell’evoluzione sarebbero state, probabilmente, imprese senza speranza. 4. Una figurina d’avorio che rappresenta un “leone-uomo” (o una “leonessadonna”) proveniente dalla grotta di Stadel in Germania (circa 32.000 anni fa). Il corpo è umano, ma la testa è leonina. È uno dei primi indiscutibili esempi di arte, e probabilmente di religione, oltre che della capacità della mente umana di immaginare cose che non esistono nella realtà. E, per converso, noi avremmo avuto un bel daffare a imparare il loro linguaggio e intendere il loro modo di pensare. Ma poi, a partire da circa 70.000 anni fa, Homo sapiens cominciò a fare cose davvero speciali. Intorno a quella data, gruppi di Sapiens lasciarono l’Africa per una seconda volta. E in questo caso non si limitarono a cacciare i Neanderthal e gli umani di tutte le altre specie dal Medio Oriente, ma li cancellarono dalla faccia della Terra. In un arco di tempo straordinariamente breve, i Sapiens raggiunsero l’Europa e l’Asia orientale. Circa 45.000 anni fa riuscirono ad attraversare l’oceano e approdarono in Australia – un continente fino a quel momento mai raggiunto dagli umani. Il periodo che va da 70.000 fino a circa 30.000 anni fa vide l’invenzione delle imbarcazioni, delle lampade a olio, degli archi e delle frecce e degli aghi (essenziali per cucire gli indumenti che riparavano dal freddo). I primi oggetti che possono sicuramente essere chiamati oggetti d’arte e di gioielleria risalgono a quell’epoca, così come la prima incontrovertibile testimonianza che esistevano la religione, il commercio e la stratificazione sociale. La maggioranza dei ricercatori sostiene che tali realizzazioni senza precedenti siano state il prodotto di una rivoluzione avvenuta nelle capacità cognitive dei Sapiens. E che le genti che portarono i Neanderthal all’estinzione, colonizzarono l’Australia e scolpirono l’uomo-leone di Stadel fossero intelligenti, creative e sensibili tanto quanto noi. Se potessimo incontrare gli artisti della grotta di Stadel, riusciremmo a impararne il linguaggio e loro imparerebbero il nostro. Riusciremmo a spiegare loro tutto quello che sappiamo – dalle avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie ai paradossi della fisica quantistica – e loro potrebbero insegnarci come il proprio popolo concepisce il mondo. La comparsa di nuovi modi di pensare e di comunicare, nel periodo che va da 70.000 a 30.000 anni fa, costituisce la Rivoluzione cognitiva. Da che cosa fu determinata? Non lo sappiamo con precisione. La teoria più diffusa sostiene che accidentali mutazioni genetiche modificarono le connessioni neuronali del cervello dei Sapiens, consentendogli di pensare in forme prima inesistenti e di comunicare usando nuovi tipi di linguaggio. Potremmo chiamare tale processo una mutazione dell’albero della conoscenza. Come mai questo accadde nel DNA dei Sapiens e non in quello dei Neanderthal? Per quanto possiamo dire, si trattò di un puro caso. Ma capire le conseguenze di tale mutazione è più importante che ricostruirne le cause. Che cosa avvenne di tanto speciale nel linguaggio di noi Sapiens da metterci in condizione di conquistare il mondo?* Del resto non si trattava del primo sistema di comunicazione esistente. Ogni animale sa come comunicare. Tutti gli insetti, come le api e le formiche, sanno come comunicare tra loro e lo fanno in modi sofisticati, informandosi reciprocamente sui posti dove si può trovare cibo. Né era il primo sistema di comunicazione vocale. Numerosi animali, comprese tutte le scimmie antropomorfe e non, usano segnali vocali. Per esempio, il cercopiteco gialloverde usa richiami di vario tipo per lanciare allarmi. Gli zoologi ne hanno identificato uno che significa “Attenzione! Aquila!” Un richiamo leggermente differente avvisa “Attenzione! Un leone!” Quando i ricercatori facevano ascoltare a un gruppo di queste scimmiette la registrazione del primo richiamo, tutte interrompevano le proprie occupazioni e guardavano verso l’alto impaurite; le stesse scimmie, udendo il secondo richiamo (l’allarme leone), correvano a rifugiarsi su un albero. I Sapiens sanno riprodurre molti più suoni distinti rispetto ai cercopitechi gialloverdi, ma balene ed elefanti posseggono capacità comunicative ugualmente impressionanti. Un pappagallo può dire tutte le cose che poteva dire Albert Einstein, e in più può mimare il suono del telefono che squilla, quello di una porta che sbatte o quello delle sirene. Quale che fosse il vantaggio di Einstein su un pappagallo, non stava certo in una maggiore capacità vocale. Che cosa c’è quindi di così speciale nel nostro linguaggio? La risposta più comune è che esso è straordinariamente duttile. Possiamo connettere un numero limitato di suoni e segnali per produrre una quantità infinita di frasi, ciascuna avente un distinto significato. Così siamo in grado di introiettare, immagazzinare e comunicare una prodigiosa quantità di informazioni riguardo al mondo che ci circonda. Un cercopiteco gialloverde può gridare ai suoi compagni “Attenzione! Un leone!” Ma un umano moderno può dire ai suoi amici che questa mattina, vicino all’ansa del fiume, ha visto un leone che stava puntando un branco di bisonti. Ed è anche in grado di descriverne l’ubicazione esatta, compresi i differenti percorsi per arrivare nella zona. Con questa informazione, i membri del suo gruppo possono consultarsi e discutere sull’opportunità o meno di avvicinarsi al fiume per mettere in fuga il leone e dare la caccia a un bisonte. Una seconda teoria conviene sul fatto che il nostro linguaggio, unico nel suo genere, si sia sviluppato come mezzo per condividere informazioni sul mondo. Ma sostiene che le informazioni più importanti che occorreva trasmettere riguardassero gli umani, non i leoni o i bisonti. Il nostro linguaggio si sarebbe evoluto come un modo per fare pettegolezzi. Secondo questa teoria, Homo sapiens è innanzitutto un animale sociale. La cooperazione sociale è la nostra chiave per la sopravvivenza e la riproduzione. Agli individui, uomini o donne che siano, non basta sapere dove ci sono i leoni o i bisonti. Molto più importante per loro è sapere, riguardo al proprio gruppo, chi odia chi, chi dorme con chi, chi è onesto e chi è un imbroglione. La quantità di informazioni che un individuo deve ottenere e immagazzinare per rimanere aggiornato sui rapporti in continuo mutamento che intercorrono tra le poche decine di membri del suo gruppo è sbalorditiva. (In un gruppo di 50 individui, si possono contare 1225 rapporti biunivoci, e innumerevoli altre combinazioni sociali complesse.) Tutti i primati mostrano uno spiccato interesse per questo tipo di informazione sociale, ma non riescono a spettegolare in maniera davvero efficace. Probabilmente anche i Neanderthal e i Sapiens arcaici trovavano difficile sparlare gli uni alle spalle degli altri – una capacità che gode di cattiva fama ma che di fatto è essenziale per cooperare nelle comunità più numerose. Le nuove abilità linguistiche che i Sapiens acquisirono circa 70.000 anni fa consentirono loro di chiacchierare per ore senza interruzione. Il fatto di avere informazioni attendibili riguardo agli individui di cui ci si poteva fidare diede l’opportunità di ampliare i ranghi del gruppo, e i Sapiens poterono sviluppare più stretti e più sofisticati tipi di cooperazione.2 Questa teoria incentrata sul pettegolezzo potrebbe anche sembrare uno scherzo, eppure è stata supportata da numerosi studi. Ancora oggi, gran parte della comunicazione umana – nella forma delle e-mail, delle conversazioni telefoniche o delle rubriche sui giornali – è, di fatto, un pettegolezzo. Chiacchierare ci viene così naturale da farci pensare che il nostro linguaggio si sia sviluppato proprio per questo scopo. Pensate forse che i professori di storia, quando s’incontrano a pranzo, stiano a discutere delle ragioni per cui è scoppiata la prima guerra mondiale, o che i fisici nucleari, alle conferenze scientifiche, passino il tempo della pausa caffè a parlare dei quark? Qualche volta, sì. Ma più spesso chiacchierano della professoressa che ha sorpreso il marito a tradirla, o della disputa tra il capo di dipartimento e il preside, o delle voci che corrono sul fatto che un collega ha usato i suoi fondi destinati alla ricerca per comprarsi una Lexus. Di solito, infatti, il gossip s’incentra sulle malefatte. Il vero quarto stato sono le malelingue e i cronisti, che tengono informata la società e così la proteggono dagli imbroglioni e dai parassiti. È assai probabile, comunque, che siano valide entrambe le teorie, quella del gossip e quella del c’è-un-leone-vicino-al-fiume. Tuttavia la caratteristica davvero unica del nostro linguaggio non è la capacità di trasmettere informazioni su uomini e leoni. È piuttosto la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto. Per quanto ne sappiamo, solo i Sapiens sono in grado di parlare di intere categorie di cose che non hanno mai visto, toccato o odorato. Leggende, miti, dèi e religioni comparvero per la prima volta con la Rivoluzione cognitiva. In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: “Attento! Un leone!” Grazie alla Rivoluzione cognitiva, Homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù.” Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio sapiens. È relativamente facile concordare sul fatto che solo Homo sapiens può parlare di cose che non esistono veramente e mettersi in testa storie impossibili appena sveglio. Non riuscirete mai a convincere una scimmietta a darvi una banana promettendole che nel paradiso delle scimmiette, dopo morta, avrà tutte le banane che vorrà. Ma come mai è così importante? Dopotutto la finzione può essere ingannevole o pericolosa. Chi vaga per la foresta alla ricerca di fate e unicorni avrà certo meno chance di sopravvivenza rispetto a chi ci va per trovare funghi e cervi. E chi passa ore a pregare inesistenti spiriti guardiani, non spreca tempo prezioso che sarebbe meglio dedicare a cercare cibo, a combattere o a fornicare? Il punto è che la finzione ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente. Possiamo intessere miti condivisi come quelli della storia biblica della creazione, quelli sul Tempo del Sogno elaborati dagli aborigeni australiani e quelli nazionalisti degli stati moderni. Questi miti conferiscono ai Sapiens la capacità senza precedenti di cooperare in maniera flessibile e in comunità formate da moltissimi individui. Anche formiche e api possono lavorare insieme in comunità numerose, ma lo fanno in forme estremamente rigide e solo all’interno di strette parentele. I lupi e gli scimpanzé cooperano in maniera molto più flessibile rispetto alle formiche, ma lo possono fare solo con gruppi ristretti di altri individui che conoscono intimamente. I Sapiens sono in grado di cooperare in modi estremamente flessibili con un numero indefinito di estranei. Ecco perché governano il mondo, mentre le formiche mangiano i nostri avanzi e gli scimpanzé sono rinchiusi negli zoo o nei laboratori di ricerca. La leggenda della Peugeot I nostri cugini scimpanzé vivono di solito in piccole comunità composte da alcune decine di individui. Stringono strette amicizie, cacciano insieme e combattono fianco a fianco contro i babbuini, i cercopitechi e gli scimpanzé nemici. La loro struttura sociale tende a essere gerarchica. Il membro dominante, che quasi sempre è un maschio, viene definito “maschio alfa”. Tutti gli altri, maschi e femmine, fanno mostra di sottomissione al maschio alfa chinandosi davanti a lui ed emettendo piccoli grugniti, non diversamente dai soggetti umani che si prostrano davanti al re. Il maschio alfa si adopera a mantenere l’armonia sociale in seno al gruppo. Se due individui si azzuffano, interviene a far cessare la violenza. Con minore benevolenza, può monopolizzare cibi molto ambiti e impedire che maschi di rango inferiore possano accoppiarsi con le femmine. Quando due maschi contestano la posizione di alfa, di solito lo fanno formando ampie coalizioni di sostenitori, sia maschi sia femmine, appartenenti al gruppo. I legami tra i membri della coalizione si basano su un contatto fisico quotidiano – abbracci, carezze affettuose, baci, grooming e favori reciproci. Proprio come durante una campagna elettorale i politici vanno in giro a stringere mani e baciare bambini, così gli scimpanzé che aspirano alla posizione dominante nel proprio gruppo passano molto tempo ad abbracciare, a dare colpetti sulla schiena e a baciare i cuccioli. Di solito il maschio alfa ottiene la propria posizione non perché sia fisicamente più forte, ma perché guida un’ampia e stabile coalizione. Tali coalizioni hanno un ruolo centrale non soltanto durante le lotte per conquistare la guida del branco, ma in quasi tutte le attività che si svolgono quotidianamente. I membri di una coalizione trascorrono più tempo insieme, condividono il cibo e si aiutano l’un l’altro nei momenti di difficoltà. Esistono quindi evidenti limiti all’ampiezza del gruppo che può essere formato e mantenuto in una forma siffatta. Perché funzioni, tutti i membri devono conoscersi intimamente. Due scimpanzé che non si sono mai incontrati, che non hanno mai fatto la lotta insieme e non si sono mai spulciati a vicenda non sapranno mai se possono fidarsi l’uno dell’altro, se varrebbe la pena di aiutarsi reciprocamente, e quale di loro due sia di rango più alto. In condizioni naturali, un branco tipico di scimpanzé è composto di venti-cinquanta individui. Via via che aumenta il numero degli scimpanzé di un branco, l’ordine sociale si destabilizza, portando infine alla rottura e alla formazione di un nuovo branco da parte di qualcuno degli animali. Solo in una manciata di casi gli zoologi hanno osservato gruppi con più di cento componenti. Di rado i gruppi che si sono separati cooperano, piuttosto tendono a competere per il territorio e per il cibo. I ricercatori hanno documentato prolungati stati di guerra tra gruppi e anche un caso di attività “genocida”, in cui un branco ha massacrato sistematicamente quasi tutti i membri di un gruppo confinante.3 Modelli simili dominarono probabilmente la vita sociale dei primi umani, compreso l’Homo sapiens arcaico. Gli umani, al pari degli scimpanzé, posseggono istinti sociali che hanno consentito ai nostri antenati di formare amicizie e gerarchie e di cacciare e combattere insieme. Tuttavia, proprio come gli scimpanzé, anche gli istinti sociali degli umani erano adatti solo a piccoli gruppi. Quando il gruppo diventava troppo allargato, l’ordine sociale si incrinava e il gruppo finiva per spaccarsi. Anche se una vallata particolarmente fertile poteva dar da mangiare a cinquecento Sapiens arcaici, non c’era modo che un numero così grande di estranei riuscisse a convivere. Come potevano mettersi d’accordo su chi doveva comandare, chi doveva combattere e dove o chi doveva accoppiarsi con chi? Sulla scia della Rivoluzione cognitiva, il pettegolezzo aiutò Homo sapiens a formare comunità più grandi e più stabili. Solo che anche il gossip ha i suoi limiti. La ricerca sociologica ha dimostrato che la grandezza “naturale” massima di un gruppo unito da questa pratica è di circa centocinquanta individui. La maggior parte delle persone, infatti, non può conoscere intimamente più di centocinquanta esseri umani né chiacchierare su di loro con qualche effetto. Persino oggi, una soglia critica delle organizzazioni umane cade intorno a questo numero magico. Al di sotto di tale soglia, comunità, gruppi di lavoro, social network e unità militari possono essere basati principalmente sulla conoscenza intima e sui pettegolezzi. Affinché si mantenga l’ordine, non c’è bisogno di ranghi formali, di titoli o di trattati di giurisprudenza.4 Un plotone di trenta soldati o persino una compagnia di cento soldati possono funzionare sulla base delle relazioni intime, con un minimo di disciplina formale. Un sergente rispettato può diventare il “re della compagnia” ed esercitare un’autorità anche maggiore di quella degli ufficiali. Una piccola azienda di famiglia può sopravvivere e prosperare senza un consiglio d’amministrazione, un amministratore delegato o un ufficio di contabilità. Ma una volta scavalcata la soglia di centocinquanta individui, le cose non funzionano più nella stessa maniera. Non si può comandare una divisione con migliaia di soldati nello stesso modo in cui si comanda un plotone. Le aziende di famiglia si trovano di solito in crisi quando diventano più grandi e assumono altro personale. Se non riescono a reinventarsi, falliscono. Come ha fatto Homo sapiens ad attraversare questa soglia critica, arrivando a fondare città con decine di migliaia di abitanti e poi imperi che governavano centinaia di milioni di persone? Il segreto sta probabilmente nella comparsa della finzione. Grandi numeri di estranei riescono a cooperare con successo se credono in miti comuni. Qualsiasi cooperazione umana su vasta scala – si tratti di uno stato moderno, di una chiesa medievale, di una città antica o di una tribù arcaica – è radicata in miti comuni che esistono solo nell’immaginazione collettiva. Le chiese sono radicate in miti religiosi comuni. Due cattolici che non si siano mai incontrati prima possono ugualmente partire insieme per una crociata o raccogliere fondi per costruire un ospedale, perché entrambi credono che Dio si sia fatto carne e sangue e si sia sacrificato sulla croce per redimere i nostri peccati. Gli stati si fondano su miti nazionali condivisi. Due serbi che non si siano mai visti prima possono rischiare la propria vita l’uno per l’altro perché credono entrambi nell’esistenza di una nazione serba, nella madrepatria serba e nella bandiera serba. I sistemi giudiziari sono radicati in miti legali comuni. Due avvocati che non si siano mai incontrati prima possono, nonostante questo, concertare i propri sforzi per difendere un perfetto estraneo, perché hanno fede nell’esistenza delle leggi, della giustizia e dei diritti umani – e nel denaro pagato per le loro parcelle. Eppure nessuna di queste cose esiste al di fuori delle storie che le persone si inventano e si raccontano vicendevolmente. Nell’universo non esistono dèi, non esistono nazioni né denaro né diritti umani né leggi, e non esiste alcuna giustizia che non sia nell’immaginazione comune degli esseri umani. Non si fa fatica a riconoscere che i “primitivi” cementano il proprio ordine sociale attraverso la credenza in fantasmi e spiriti, raccogliendosi a danzare intorno al fuoco nelle notti di luna piena. Quello che stentiamo a capire è che le nostre moderne istituzioni funzionano esattamente sugli stessi presupposti. Si consideri per esempio il mondo delle grandi società finanziarie. I moderni uomini d’affari e avvocati sono, in realtà, potenti stregoni contemporanei. La differenza principale tra loro e gli sciamani tribali è che gli avvocati moderni raccontano storie assai più bizzarre. La leggenda della Peugeot fornisce un buon esempio. Un’icona che assomiglia in qualche modo al leone-uomo di Stadel compare oggi su automobili, camion e motociclette, a Parigi come a Sydney. È lo stemma che adorna i veicoli costruiti dalla Peugeot, una delle più antiche e più grandi fabbriche automobilistiche d’Europa. La Peugeot ha cominciato come una piccola azienda familiare nel villaggio di Valentigney, che si trova ad appena 300 chilometri dalla grotta di Stadel. Nel 2011 la società aveva circa 200.000 dipendenti sparsi nel mondo, che nella stragrande maggioranza sono totali estranei tra loro. Questi sconosciuti cooperano così efficacemente che nel 2008 la Peugeot ha prodotto oltre un milione e mezzo di automobili, con introiti di circa 55 miliardi di euro. 5. Il leone della Peugeot. In che senso possiamo affermare che la Peugeot SA (la denominazione ufficiale dell’azienda) esiste? Ci sono molti veicoli Peugeot, ma questi ovviamente non sono la stessa cosa dell’azienda. Anche se ogni Peugeot nel mondo fosse fatta a pezzi e venduta come rottame di ferro, la Peugeot SA non scomparirebbe. Continuerebbe a fabbricare nuove auto e a emettere i suoi rapporti annuali. La società in questione possiede fabbriche, macchinari e showroom, e impiega meccanici, contabili e segretarie, ma tutti questi insieme non costituiscono la Peugeot. Un disastro potrebbe uccidere ogni singolo impiegato della Peugeot, e persino distruggere tutte le catene di montaggio e tutti gli uffici direzionali. Anche allora la società potrebbe ottenere finanziamenti, assumere nuovi impiegati, costruire nuovi stabilimenti e comprare nuovi macchinari. La Peugeot ha manager e azionisti, ma né gli uni né gli altri costituiscono di per sé la compagnia. Tutti i manager potrebbero essere liquidati e tutte le azioni potrebbero essere vendute, ma la società di per sé resterebbe intatta. Questo non significa che la Peugeot SA sia invulnerabile o immortale. Se un giudice dichiarasse lo scioglimento della società, le sue fabbriche resterebbero in piedi, e i suoi operai, contabili, manager e azionisti continuerebbero a esistere – mentre la Peugeot SA svanirebbe immediatamente. In breve, la Peugeot SA pare non avere alcuna connessione essenziale con il mondo fisico. Possiamo dire che esiste veramente? La Peugeot è un’invenzione della nostra immaginazione collettiva. Gli uomini di legge chiamano questo fenomeno “finzione giuridica”. Non può essere additata; non è un oggetto fisico. Esiste come entità giuridica. Al pari di te e di me, è vincolata alle leggi dei paesi in cui opera. Può aprire un conto in banca e avere delle proprietà. Paga le tasse e può essere citata in giudizio e anche perseguita separatamente da coloro che la posseggono o che vi lavorano. La Peugeot appartiene a un particolare genere di finzioni giuridiche chiamate “società a responsabilità limitata”. Il concetto che sta dietro queste società è tra le più ingegnose invenzioni dell’umanità. Homo sapiens è vissuto per innumerevoli millenni senza che se ne sentisse il bisogno. Durante la maggior parte della storia, la proprietà poteva dirsi attribuibile solo a chi era di carne e sangue umani, erto su due gambe e con un grosso cervello. Nella Francia del XIII secolo, Jean avviò un laboratorio in cui costruire carri: era la sua specialità. Se un carro da lui fabbricato si rompeva una settimana dopo che era stato comprato, l’acquirente insoddisfatto poteva citare in giudizio Jean personalmente. Se Jean si era fatto prestare mille monete d’oro per avviare il laboratorio e l’attività falliva, egli avrebbe ripagato il prestito ottenuto vendendo le sue proprietà private – la sua casa, la sua mucca, la sua terra. Forse sarebbe stato costretto a vendere anche i suoi figli mettendoli a servitù. Se non ce la faceva a coprire tutto il debito, poteva essere imprigionato dalle autorità statali o divenire schiavo dei suoi creditori. Era pienamente responsabile, senza limiti, di tutte le obbligazioni e gli impegni contratti dal suo laboratorio. Se foste vissuti a quel tempo, probabilmente ci avreste pensato due volte prima di avviare un’impresa per vostro conto. E infatti questa situazione giuridica scoraggiava l’imprenditorialità. La gente aveva paura di avviare un’attività e di assumere i rischi economici che ciò comportava. Ne valeva la pena, visto che la propria famiglia avrebbe potuto piombare nella miseria più nera? Ecco perché si cominciò a immaginare la formazione di società a responsabilità limitata. Tali aziende erano giuridicamente indipendenti dalle persone che le avevano avviate, che vi avevano investito soldi o che le gestivano. Nel corso degli ultimi secoli, le società di questo tipo sono diventate le principali protagoniste dell’arena economica, e il fatto che ci siano ormai tanto familiari ci porta a dimenticare che esistono solo nella nostra immaginazione. Negli Stati Uniti il termine tecnico per una società a responsabilità limitata è corporation, termine quanto mai ironico, visto che deriva dal latino corpus – e che il corpo fisico è proprio ciò che manca a queste corporations. Benché non abbiano un vero corpo, il sistema giuridico americano tratta le corporations come persone giuridiche, come se fossero esseri umani in carne e ossa. E così fece il sistema giuridico francese nel 1896, quando Armand Peugeot, che aveva ereditato dai genitori un’officina meccanica che produceva molle, seghe e biciclette, decise di entrare nel campo delle automobili. Con tale obiettivo fondò una società a responsabilità limitata. La battezzò con il proprio nome, ma essa era qualcosa di indipendente dalla sua persona. Se una macchina si rompeva, l’acquirente poteva far causa alla Peugeot, non ad Armand Peugeot. Se la società si faceva prestare milioni di franchi e poi andava in rovina, Armand Peugeot non doveva dare un singolo franco ai creditori dell’azienda. Quel finanziamento, dopotutto, era stato dato alla Peugeot, l’azienda, e non ad Armand Peugeot, l’Homo sapiens. Armand Peugeot morì nel 1915. La Peugeot SA è tuttora viva e vegeta. Come fece Armand Peugeot, la persona, a creare Peugeot, la società? In un modo molto simile a quello in cui i sacerdoti e gli stregoni avevano creato dèi e demoni nel corso della storia, e in cui migliaia di curati francesi ancora creavano il corpo di Cristo ogni domenica nelle chiese parrocchiali. Tutto ruotava intorno al fatto di raccontare storie e di convincere gli altri a crederci. Nel caso dei curati francesi, la storia cruciale era quella della vita e morte di Cristo così come viene trasmessa dalla Chiesa cattolica. Secondo questa narrazione, se un prete cattolico, vestito dei paramenti sacri, pronunciava le parole giuste nel momento giusto, del comunissimo pane e del comunissimo vino si trasformavano nel corpo e sangue di Dio. Il prete esclamava “Hoc est corpus meum!” cioè questo è il mio corpo e, hocus pocus, il pane diventava la carne di Cristo. Constatando che il prete aveva osservato tutte le procedure, milioni di devoti cattolici francesi agivano come se Dio fosse esistito realmente nel pane e nel vino consacrati. Nel caso della Peugeot SA, il punto focale stava nel codice francese, quale era stato scritto dal parlamento nazionale. Secondo i legislatori francesi, se un legale abilitato seguiva la debita liturgia e procedura, scriveva tutte le formule e proposizioni richieste su un pezzo di carta meravigliosamente decorato e apponeva la propria firma svolazzante in calce a tale documento, allora, hocus pocus, nasceva una nuova società. Quando nel 1896 Armand Peugeot volle creare una società, pagò un avvocato affinché espletasse tutte queste sacre procedure. Dopo che il legale ebbe eseguito tutti i rituali necessari e pronunciato tutte le debite formule, milioni di onesti francesi si comportarono come se la società Peugeot esistesse veramente. Costruire narrazioni che funzionino non è facile. La difficoltà non risiede tanto nel raccontare una storia, quanto nel convincere tutti gli altri a crederla vera. Gran parte della Storia (quella con la S maiuscola) gira intorno a questa domanda: come convincere milioni di persone a credere a narrazioni specifiche circa gli dèi, le nazioni o le società a responsabilità limitata? E tuttavia, quando ci si riesce, ciò conferisce ai Sapiens un immenso potere, poiché fa sì che milioni di estranei cooperino e agiscano in direzione di obiettivi comuni. Provate solo a immaginare quanto sarebbe stato difficile creare stati, chiese o sistemi giuridici se avessimo potuto parlare soltanto delle cose che esistono veramente, come i fiumi, gli alberi e i leoni. Nel corso del tempo abbiamo intessuto una rete di storie incredibilmente complessa. In seno a questa rete, finzioni come quella della Peugeot non solo esistono, ma accumulano un immenso potere. I tipi di cose che la gente crea attraverso questa rete di storie vengono chiamati, nei circoli accademici, “costrutti sociali” o “realtà immaginate”. Una realtà immaginata non è una bugia. Io mento se dico che c’è un leone vicino al fiume pur sapendo perfettamente che lì non ce n’è nessuno. Le bugie non sono qualcosa di speciale. Sanno mentire anche gli scimpanzé e i cercopitechi gialloverdi. Si è visto, per esempio, un cercopiteco verde lanciare il grido “Attenzione! Un leone!” senza che nei dintorni ci fosse alcun leone. Questo allarme ha messo in fuga un altro esemplare del branco, che aveva appena trovato una banana, così il bugiardo ha potuto restare a godersi da solo il bottino. A differenza della menzogna, la realtà immaginata è qualcosa in cui tutti credono; e, fintantoché questa credenza comune persiste, esercita un’influenza sul mondo. È possibile che lo scultore della grotta di Stadel credesse sinceramente nell’esistenza di un uomo-leone come spirito guardiano. Alcuni stregoni sono ciarlatani, ma in gran parte credono davvero nell’esistenza di dèi e demoni. Molti milionari credono sinceramente nell’esistenza del denaro e delle società a responsabilità limitata. Molti attivisti credono sinceramente nell’esistenza dei diritti umani. Nessuno mentiva quando, nel 2011, le Nazioni Unite richiesero che il governo libico rispettasse i diritti umani dei suoi cittadini, anche se le Nazioni Unite, la Libia e i diritti umani sono invenzioni della nostra fertile immaginazione. Dall’inizio della Rivoluzione cognitiva Homo sapiens ha dunque vissuto una realtà duale. Da un lato, la realtà oggettiva di fiumi, alberi e leoni; dall’altra, la realtà immaginata di dèi, nazioni e società per azioni. Col passare del tempo, la realtà immaginata è diventata via via sempre più potente, di modo che oggi la sopravvivenza stessa di fiumi, alberi e leoni dipende dalla benevolenza di entità quali gli dèi, le nazioni e le società per azioni. Bypassare il genoma La capacità di creare una realtà immaginata partendo dalle parole ha consentito che grandi numeri di estranei cooperassero efficacemente tra di loro. Ma ha fatto anche qualcosa di più. Poiché la cooperazione umana su vasta scala si basa su miti, il modo in cui gli individui cooperano può venire alterato attraverso un avvicendamento dei miti – cioè raccontando storie differenti. In circostanze favorevoli i miti possono cambiare rapidamente. Nel 1789 la popolazione francese passò, praticamente dalla sera alla mattina, dalla credenza nel mito del diritto divino dei re alla credenza nel mito della sovranità del popolo. Dunque con la Rivoluzione cognitiva Homo sapiens imparò a rivedere il suo comportamento con rapidità, conformandosi al mutare delle necessità. Ciò aprì una corsia di sorpasso per l’evoluzione culturale, che bypassava gli ingorghi dell’evoluzione genetica. Percorrendo questa corsia veloce, Homo sapiens presto distanziò sempre più marcatamente tutte le altre specie umane e animali, per quanto riguarda la capacità di cooperare. Il comportamento degli altri animali sociali è determinato in grande misura dai loro geni. Ma il DNA non è un autocrate: il comportamento animale è anche influenzato da fattori ambientali e dall’estro individuale. Ciò nonostante, in un dato ambiente, gli animali della stessa specie tendono a comportarsi in modo simile. In generale non è possibile che avvengano cambiamenti significativi nel comportamento sociale senza che vi sia qualche mutazione genetica. Per esempio gli scimpanzé comuni hanno una tendenza genetica a vivere in gruppi gerarchizzati con a capo un maschio alfa. I bonobo, specie strettamente imparentata con gli scimpanzé, vivono di solito in gruppi egalitari dominati da un’alleanza tra le femmine. Le femmine degli scimpanzé comuni non possono prendere lezione dalle loro parenti bonobo e inscenare una rivoluzione femminista. Gli scimpanzé maschi non possono riunirsi in un’assemblea costituzionale per abolire la carica di maschio alfa e dichiarare che da quel momento in avanti tutti gli scimpanzé devono essere considerati uguali. Cambiamenti tanto radicali del comportamento avverrebbero solo se cambiasse qualcosa nel loro DNA. Per ragioni analoghe, gli umani arcaici non dettero il via ad alcuna rivoluzione. Per quanto se ne sa, i cambiamenti nei modelli sociali, l’invenzione di nuove tecnologie e l’insediamento in habitat sconosciuti furono l’esito non tanto di iniziative culturali, ma di mutazioni genetiche e di esigenze ambientali. Ecco perché agli umani furono necessarie centinaia di migliaia di anni per compiere questi passi. Due milioni di anni fa le mutazioni genetiche provocarono la comparsa di una nuova specie umana, detta Homo erectus. Questo evento fu accompagnato dallo sviluppo di una nuova tecnologia negli utensili di pietra, ora riconosciuta come caratteristica distintiva di questa specie. Finché Homo erectus non subì ulteriori mutazioni genetiche, i suoi utensili di pietra restarono praticamente gli stessi – per quasi due milioni di anni! Per contrasto, a partire dalla Rivoluzione cognitiva i Sapiens sono stati capaci di trasformare il loro comportamento molto velocemente, trasmettendo ogni volta i nuovi comportamenti alle generazioni successive senza alcun bisogno di mutamenti genetici o ambientali. Come esempio fondamentale, si consideri la ripetuta comparsa di élite senza progenie, come il clero cattolico, gli ordini monastici buddhisti e il sistema burocratico cinese degli eunuchi. L’esistenza di simili élite va contro i più fondamentali principi della selezione naturale, poiché questi membri dominanti della società rinunciano volontariamente alla procreazione. Laddove i maschi alfa degli scimpanzé usano il loro potere per avere rapporti sessuali con quante più femmine possibile – e conseguentemente generare una cospicua quota di nuove leve all’interno del branco – il maschio alfa cattolico si astiene completamente dal rapporto sessuale e dalla cura della prole. Tale astinenza non deriva da particolari condizioni ambientali, come una grave carenza di cibo o la mancanza di potenziali compagne di accoppiamento. E non è neppure il risultato di una qualche bizzarra mutazione genetica. La Chiesa cattolica è sopravvissuta per secoli, non trasmettendo un “gene del celibato” da un papa all’altro, ma trasmettendo le storie del Nuovo Testamento e della Legge canonica. In altre parole, mentre i modelli di comportamento degli umani arcaici rimasero fissi per decine e decine di migliaia di anni, i Sapiens poterono trasformare le loro strutture sociali, la natura dei loro rapporti interpersonali, le attività economiche e una miriade di altri comportamenti nel giro di 10-20.000 anni. Immaginiamo un abitante di Berlino, nato nel 1900 e vissuto fino alla cospicua età di cent’anni. Avrà trascorso l’infanzia nell’impero Hohenzollern di Guglielmo II; l’età adulta nella Repubblica di Weimar, nel Terzo Reich nazista e poi nella Germania dell’Est comunista; sarà morto da cittadino di una Germania democratica e riunificata. Sarà riuscito a far parte di cinque sistemi sociopolitici molto differenti, anche se il suo DNA è rimasto esattamente lo stesso. Questa è stata la chiave del successo dei Sapiens. In una rissa uno contro uno, un Neanderthal avrebbe probabilmente battuto un Sapiens. Ma in un conflitto tra centinaia di individui, i Neanderthal non avrebbero avuto alcuna chance. I Neanderthal riuscivano a condividere informazioni sulla posizione dei leoni, ma probabilmente non sapevano raccontare – e modificare – storie sugli spiriti tribali. Non essendo capaci di comporre narrazioni che prescindevano dalla realtà, i Neanderthal non potevano cooperare efficacemente all’interno di comunità numerose, né potevano adattare il proprio comportamento sociale a situazioni che cambiavano continuamente. Se ci è impossibile entrare nella mente dei Neanderthal per capire il loro modo di pensare, abbiamo però una prova indiretta dei limiti che le loro capacità cognitive avevano se confrontate con quelle dei loro rivali Sapiens. Scavando i siti Sapiens di 30.000 anni fa nel cuore dell’Europa, gli archeologi vi trovano occasionalmente conchiglie delle coste mediterranee e atlantiche. Con tutta probabilità, queste conchiglie arrivarono nell’interno del continente attraverso gli scambi a lunga distanza tra differenti comunità di Sapiens. Nei siti Neanderthal non ci sono evidenze di commerci di questo genere. Ciascun gruppo fabbricava i propri utensili con i materiali locali.5 Un altro esempio viene dal Pacifico del Sud. Gruppi di Sapiens che vivevano sull’isola di Nuova Irlanda, a nord della Nuova Guinea, usavano un vetro vulcanico chiamato ossidiana per fabbricare utensili particolarmente resistenti e taglienti. Solo che la Nuova Irlanda non ha alcun giacimento di ossidiana. I test di laboratorio hanno rivelato che l’ossidiana da essi lavorata proveniva da giacimenti della Nuova Britannia, un’isola a 400 chilometri di distanza. Alcuni degli abitanti di queste isole devono dunque essere stati provetti navigatori, che commerciavano di isola in isola percorrendo lunghe distanze.6 Quella degli scambi potrebbe sembrare un’attività molto pragmatica, che non ha bisogno di una premessa finzionale. Sta di fatto che nessun animale, se non il Sapiens, si impegna nel commercio, e tutte le reti commerciali Sapiens si basavano su finzioni. Non può esistere commercio senza fiducia, ed è molto difficile fidarsi degli estranei. La rete commerciale globale di oggi si basa su entità fittizie come le valute, le banche e le aziende. Quando nelle società tribali due estranei vogliono attuare scambi tra loro, stabiliscono una base di fiducia facendo appello a un dio comune, a progenitori mitici o a un animale-totem. Nelle società moderne, sulle banconote di solito campeggiano simboli religiosi, venerabili antenati e totem aziendali. Se i Sapiens arcaici che credevano in simili costrutti narrativi commerciavano conchiglie e ossidiana, è ragionevole pensare che abbiano anche scambiato informazioni, creando in tal modo una rete di nozioni più fitta e più ampia di quella che serviva ai Neanderthal e agli altri umani arcaici. Le tecniche di caccia forniscono un’ulteriore dimostrazione di queste differenze. I Neanderthal di solito cacciavano singolarmente o in piccoli gruppi. I Sapiens, invece, svilupparono tecniche che avevano come presupposto la cooperazione tra molte decine di individui, e forse anche tra gruppi differenti. Un metodo particolarmente efficace era quello di circondare un intero branco di animali, per esempio cavalli selvatici, per poi spingerli in una stretta gola dove era facile ucciderli in massa. Se tutto andava secondo i piani, quei gruppi di umani potevano ricavare tonnellate di carne, di grasso e di pelli animali in un unico pomeriggio di sforzo collettivo, e consumare queste ricchezze in un gigantesco banchetto cerimoniale, oppure essiccarle, affumicarle e (nelle zone artiche) congelarle per usufruirne in seguito. Gli archeologi hanno scoperto siti in cui interi branchi venivano macellati annualmente in questo modo. Esistono anche siti nei quali erano state erette recinzioni e barriere allo scopo di creare trappole e luoghi per la macellazione. Si può presumere che i Neanderthal non siano rimasti molto contenti nel vedere che i loro tradizionali terreni di caccia diventavano macelli a uso dei Sapiens. Tuttavia, se fra le due specie esplodeva la violenza, i Neanderthal non erano molto più abili dei cavalli selvaggi. Cinquanta Neanderthal che cooperavano secondo modelli statici tradizionali non potevano certo competere con cinquecento Sapiens versatili e innovativi. E anche se i Sapiens avessero perso il primo round, presto avrebbero inventato nuovi stratagemmi grazie ai quali vincere la volta successiva. Che cosa accadde nella Rivoluzione cognitiva? Nuove capacità Conseguenze Trasmettere maggiori quantità di informazione circa il mondo che stava intorno a Homo sapiens. Pianificazione ed esecuzione di azioni complesse, come sfuggire ai leoni e cacciare i bisonti. Trasmettere maggiori quantità di informazione circa le relazioni sociali tra i Sapiens. Formazione di gruppi più ampi e coesi, fino a 150 individui. Trasmettere informazioni su cose che non esistono nella realtà, quali spiriti tribali, nazioni, società a responsabilità limitata, diritti umani. a. Cooperazione tra numeri molto alti di estranei. b. Rapida innovazione del comportamento sociale. Storia e biologia L’immensa varietà delle realtà immaginate che inventarono i Sapiens e la conseguente varietà dei modelli comportamentali sono le principali componenti di quelle che chiamiamo “culture”. Una volta avviate, le culture non cessarono mai di mutare e svilupparsi, e le loro alterazioni inarrestabili costituiscono ciò che noi chiamiamo “storia”. La Rivoluzione cognitiva, di conseguenza, segna un punto di svolta: quello in cui la storia dichiarò la propria indipendenza dalla biologia. Fino alla Rivoluzione cognitiva, le azioni delle specie umane appartenevano al regno della biologia o, se preferite, alla preistoria (tendo a evitare il termine “preistoria”, perché implica erroneamente che anche prima della Rivoluzione cognitiva gli umani costituissero una categoria a sé). Dalla Rivoluzione cognitiva in avanti, le narrazioni storiche sostituiscono le teorie biologiche come nostro mezzo primario per spiegare lo sviluppo di Homo sapiens. Per comprendere la nascita del cristianesimo o la Rivoluzione francese, non è sufficiente capire quali siano le interazioni tra geni, ormoni e organismi. È necessario prendere in considerazione anche l’interazione fra idee, immagini e fantasie. Questo non significa che Homo sapiens e la cultura umana diventino esenti dalle leggi biologiche. Siamo sempre animali, e le nostre capacità fisiche, emotive e cognitive sono sempre modellate dal nostro DNA. Le nostre società umane sono costruite partendo dagli stessi mattoni su cui si erano edificate le società dei Neanderthal e degli scimpanzé, e più esaminiamo questi mattoni – sensazioni, emozioni, legami familiari – meno differenze riscontriamo tra noi e le altre scimmie. Sarebbe tuttavia uno sbaglio cercare le differenze a livello individuale o familiare. Considerati uno rispetto all’altro, o anche a gruppi di dieci, noi siamo simili agli scimpanzé in misura imbarazzante. Le differenze significative cominciano a presentarsi solo quando superiamo la soglia dei centocinquanta individui; e quando arriviamo a mille-duemila individui tali differenze si fanno sorprendenti. Se si cercasse di riunire migliaia di scimpanzé in piazza Tienanmen, nella basilica di San Pietro o nella sede delle Nazioni Unite, il risultato sarebbe un pandemonio. I Sapiens, invece, si radunano regolarmente a migliaia in questi posti. Insieme, essi creano modelli ordinati – quali reti commerciali, celebrazioni di massa e istituzioni politiche – che non avrebbero mai potuto creare in una situazione di isolamento. La vera differenza tra noi e gli scimpanzé è il collante dei miti, che lega insieme grandi numeri di individui, di famiglie e di gruppi. Questo collante ci ha resi i padroni del creato. Naturalmente ci occorreva possedere anche altre abilità, come la capacità di creare e usare utensili. La manifattura di utensili, tuttavia, è di per sé poco significativa se non è accompagnata dalla capacità di cooperare con molti altri individui. Com’è possibile che noi oggi disponiamo di missili intercontinentali dotati di testate nucleari mentre 30.000 anni fa avevamo solo bastoni con punte di selce? Dal punto di vista della fisiologia non c’è stato, da 30.000 anni a questa parte, alcun miglioramento significativo nella nostra capacità di fabbricare utensili. Albert Einstein aveva un’abilità manuale molto meno sviluppata di quella di un antico cacciatore-raccoglitore. Però la nostra capacità di cooperare con grandi numeri di estranei è migliorata straordinariamente. La punta di lancia fatta con la selce veniva fabbricata in qualche minuto da una singola persona, che contava sul consiglio e sull’aiuto di pochi amici intimi. La produzione di una testata nucleare moderna richiede la cooperazione di milioni di persone che non si conoscono e vivono in luoghi diversi del pianeta – dagli operai che estraggono il minerale d’uranio nelle profondità della Terra ai fisici teorici che scrivono lunghe formule matematiche per descrivere le interazioni delle particelle subatomiche. Per sintetizzare il rapporto che c’è tra biologia e storia così come si è posto dopo la Rivoluzione cognitiva: a) La biologia stabilisce i parametri basilari per il comportamento e per le capacità di Homo sapiens. Tutta la storia si svolge entro i confini di questa arena biologica. b) Tale arena, tuttavia, è straordinariamente ampia, e consente ai Sapiens di giocare una sorprendente varietà di mosse. Grazie alla loro capacità di creare finzioni, i Sapiens sviluppano giochi sempre più complessi, che ogni generazione sviluppa ed elabora ulteriormente. c) Di conseguenza, per capire come si comportano i Sapiens, dobbiamo descrivere l’evoluzione storica delle loro azioni. Facendo riferimento soltanto ai nostri vincoli biologici, ci comporteremmo come un radiocronista che commentando i campionati mondiali offrisse ai suoi ascoltatori una dettagliata descrizione del campo di gioco invece di raccontare che cosa stanno facendo i giocatori. Che giochi facevano i nostri antenati dell’Età della pietra nell’arena della storia? Per quanto ne sappiamo, gli uomini che scolpirono l’uomo-leone della grotta di Stadel circa 32.000 anni fa possedevano le stesse capacità fisiche, emotive e intellettuali che abbiamo noi oggi. Che cosa facevano quando si svegliavano? Che cosa mangiavano per colazione e a pranzo? Com’erano le loro società? Avevano rapporti monogami e famiglie nucleari? Svolgevano cerimonie, osservavano codici morali e rituali religiosi, facevano gare sportive? Combattevano guerre? Il prossimo capitolo getterà uno sguardo oltre la cortina del tempo, cercando di esaminare come si viveva nei millenni che vanno dalla Rivoluzione cognitiva alla Rivoluzione agricola.
3.
Una giornata nella vita di Adamo ed Eva
Per comprendere la nostra natura, storia e psicologia, dobbiamo metterci dentro la testa dei nostri antenati cacciatori e raccoglitori. Per quasi tutta la storia della nostra specie, i Sapiens si procurarono da vivere in questo modo. Gli ultimi duecento anni, durante i quali un numero sempre crescente di Sapiens ha guadagnato il proprio pane quotidiano lavorando nei centri urbani e negli uffici, e i precedenti 10.000 anni, durante i quali la maggior parte dei Sapiens ha vissuto in comunità di agricoltori e pastori, non sono che un battito di ciglia se confrontati con le decine di migliaia di anni durante i quali i nostri antenati si limitarono a cacciare e a raccogliere prodotti spontanei.
La psicologia evoluzionistica, che è un ambito in piena espansione, sostiene che molte caratteristiche sociali e psicologiche del nostro tempo si siano modellate nel corso di questa lunga era preagricola. Ancora oggi, dicono gli studiosi, i nostri cervelli e le nostre menti sono adattate a una vita di caccia e di raccolta. Tanto le nostre abitudini alimentari quanto i nostri conflitti e la nostra sessualità derivano dal modo in cui le nostre menti da cacciatori-raccoglitori interagiscono con il nostro attuale ambiente post-industriale, con megalopoli, aeroplani, telefoni e computer. Tale ambiente ci offre maggiori risorse materiali e vite molto più lunghe rispetto a tutte le generazioni che ci hanno preceduto, ma spesso ci fa sentire alienati, depressi e sotto pressione. Per capirne i motivi, sostengono ancora gli psicologi evoluzionisti, è necessario che investighiamo il mondo dei cacciatori-raccoglitori che ci ha formato: il mondo che, nel subcosciente, ancora abitiamo.
Ad esempio, come mai ci si ingozza di cibo ipercalorico, che non giova certo ai nostri corpi? Nelle moderne società opulente l’obesità è ormai un flagello, che sta rapidamente diffondendosi anche nei paesi in via di sviluppo. È difficile capire perché ci abbuffiamo dei cibi più dolci e più grassi che possiamo trovare, a meno che non prendiamo in considerazione le abitudini alimentari dei nostri antenati cacciatori e raccoglitori. Nelle savane e nelle foreste in cui abitavano, le prelibatezze ipercaloriche erano estremamente rare e di cibo in generale ce n’era poco. Un Sapiens di 30.000 anni fa conosceva un solo tipo di cibo dolce: la frutta matura. Se una donna dell’Età della pietra s’imbatteva in un albero carico di fichi, la cosa per lei più ragionevole da farsi era mangiarne quanti più poteva, lì sul posto, prima che un branco di babbuini spogliasse l’albero di tutti i suoi frutti. L’istinto di ingozzarsi di cibo ipercalorico si è così radicato nei nostri geni. Oggi possiamo anche vivere nell’appartamento di un grattacielo e avere il frigorifero stracolmo, ma il nostro DNA pensa ancora che siamo nella savana. È questo che ci induce a mandar giù un’intera vaschetta di gelato trovata nel freezer, annaffiandola poi con una bottiglia di Coca-Cola.
Tale teoria del “gene dell’ingozzamento” è ampiamente accettata. Altre teorie sono più controverse. Per esempio alcuni psicologi evoluzionisti sostengono che le antiche bande di cacciatori-raccoglitori non erano composte da famiglie nucleari incentrate su coppie monogame. Al contrario, i cacciatori-raccoglitori sarebbero vissuti in comuni, nelle quali la proprietà privata, le relazioni monogame e anche il principio di paternità erano sconosciuti. In un gruppo di questo tipo una donna poteva fare sesso e formare legami intimi con diversi uomini (e donne) simultaneamente, e tutti gli adulti del gruppo cooperavano nel fare da genitori ai figli che nascevano. Poiché nessun uomo sapeva con sicurezza quali figli fossero i suoi, gli uomini mostravano un’eguale sollecitudine verso tutti i piccoli.
Una tale struttura sociale non è un’utopia hippy. È ben documentata tra alcuni animali, in particolar modo tra i nostri parenti più vicini, gli scimpanzé e i bonobo. Esistono anche alcune culture umane del tempo presente in cui viene praticata la paternità collettiva, per esempio quella degli indiani Barí. Secondo le credenze di queste società, un bambino non nasce dallo sperma di un singolo uomo, ma dall’accumulazione di sperma nel grembo della donna. Una brava mamma considererà doveroso fare sesso con uomini diversi, specie quando è incinta, in modo che il suo bambino possa godere delle qualità (e delle cure paterne) non solo del miglior cacciatore, ma anche del miglior narratore di storie, del guerriero più forte e dell’amante più premuroso. Se ciò sembra sciocco, si tenga in mente che, prima dello sviluppo dei moderni studi embriologici, non si aveva una prova concreta che i bambini sono sempre generati da un singolo padre, e non invece da padri plurimi.
Quelli che sposano questa teoria dell’“antica comune” sostengono che le frequenti infedeltà che caratterizzano i matrimoni moderni e gli alti tassi di divorzio – per non parlare della congerie di complessi psicologici di cui soffrono sia i ragazzi sia gli adulti – deriverebbero dall’aver costretto gli umani a vivere in famiglie nucleari e in relazioni monogame che sono incompatibili con il nostro software biologico.7
Non pochi studiosi respingono vigorosamente questa teoria, insistendo sul fatto che sia la monogamia sia la formazione della famiglia nucleare sono al centro del comportamento umano. Benché le antiche società di cacciatori-raccoglitori tendessero a essere più comunitarie ed egalitarie rispetto alle società moderne, dicono i ricercatori in questione, nondimeno esse erano costituite da cellule separate, ciascuna contenente una coppia gelosa e figli allevati insieme. Ecco perché oggi le relazioni monogame e le famiglie nucleari sono la norma nella grande maggioranza delle culture; ecco perché uomini e donne tendono a essere molto possessivi nei confronti dei propri partner e dei propri figli; ed ecco perché anche in stati moderni come la Corea del Nord e la Siria l’autorità politica passa di padre in figlio.
Allo scopo di risolvere tale controversia e di comprendere la nostra sessualità, la nostra società e la nostra politica, occorre che impariamo qualcosa circa le condizioni di vita dei nostri antenati, e che esaminiamo le circostanze in cui Homo sapiens è vissuto nel periodo che va dalla Rivoluzione cognitiva di 70.000 anni fa all’inizio della Rivoluzione agricola, circa 12.000 anni fa.
Sfortunatamente, riguardo ai nostri antenati raccoglitori e cacciatori abbiamo poche certezze. Il dibattito tra le scuole dell’“antica comune” e della “monogamia eterna” si basa su prove poco convincenti. Ovviamente non disponiamo di testimonianze scritte risalenti a quel tempo, e l’archeologia offre solo ossa fossilizzate e utensili di pietra. I manufatti prodotti con materiali più deperibili – come il legno, il bambù e il cuoio – sopravvivono solo in circostanze molto particolari. Contrariamente a quanto si immagina di solito, il mondo degli uomini vissuti in epoca preagricola non era fatto solo di pietra: si tratta di una “distorsione archeologica”. L’Età della pietra sarebbe più corretto chiamarla Età del legno, perché la maggior parte degli utensili usati dagli antichi cacciatori-raccoglitori era fatta di questo materiale.
Ogni ricostruzione della vita degli antichi cacciatori-raccoglitori condotta partendo dai manufatti sopravvissuti è estremamente problematica. Una delle differenze più vistose tra gli antichi Sapiens e i loro discendenti agricoli e industriali è che i primi, tanto per cominciare, disponevano di pochissimi manufatti, che peraltro giocavano un ruolo relativamente modesto nella loro esistenza. Oggi invece, durante il corso della sua vita, qualsiasi individuo appartenente a una società opulenta disporrà di diversi milioni di manufatti – dalle automobili alle case, dai pannolini ai cartoni del latte. Non c’è praticamente attività, credenza o persino emozione che non sia mediata dagli oggetti a nostra disposizione. Le nostre abitudini alimentari sono mediate da una quantità sbalorditiva di simili entità: dai cucchiai e dai bicchieri fino ai laboratori di ingegneria genetica e alle grandi navi d’altura. Nel gioco usiamo una miriade di strumenti e di mezzi, dalle carte di plastica agli stadi da centomila posti a sedere. I nostri rapporti romantici e sessuali prevedono un equipaggiamento di anelli, letti, bei vestiti, biancheria sexy, preservativi, saloni per il banchetto nuziale e servizi di catering. Le religioni introducono il sacro nelle nostre esistenze attraverso le chiese gotiche, le moschee musulmane, gli ashram induisti, i rotoli della Torah, le ruote tibetane della preghiera, le tonache ecclesiali, le candele, gli incensi, gli alberi di Natale, le lapidi funerarie, le icone.
Quasi non ci accorgiamo di tutta la roba che si accumula intorno alla nostra vita finché, magari, ci trasferiamo in una casa nuova. I cacciatori-raccoglitori traslocavano ogni mese, ogni settimana, talvolta anche da un giorno all’altro, caricandosi sulle spalle tutto quello che avevano. Non c’erano ditte di traslochi, camion e neppure animali da soma su cui contare per spartire i pesi. Di conseguenza dovevano farsi bastare poche cose essenziali. Si può dunque ragionevolmente presumere che la parte maggiore della loro vita mentale, religiosa ed emozionale venisse condotta senza l’aiuto di manufatti. Un archeologo che fra 100.000 anni facesse una ricerca sul credo e sulla pratica dei musulmani potrebbe ricostruirne un quadro ragionevole dopo aver studiato la miriade di oggetti dissotterrati dalle rovine di una moschea. Ma noi restiamo veramente disarmati quando cerchiamo di comprendere quali fossero le convinzioni e i riti degli antichi cacciatori-raccoglitori. È più o meno lo stesso dilemma che un futuro storico si troverebbe ad affrontare se dovesse descrivere il mondo sociale dei teenager europei del XXI secolo basandosi soltanto sulla loro posta (cartacea) sopravvissuta – dato che non resterà traccia delle loro conversazioni telefoniche, delle e-mail, dei blog e degli SMS.
Affidarsi solamente ai manufatti (o alla loro mancanza), dunque, inficerebbe la nostra ricostruzione della vita condotta dagli antichi cacciatori-raccoglitori. Un escamotage consiste nell’osservare le attuali società di questo tipo, oggetto di studio da parte degli antropologi. Ma ci sono anche valide ragioni per procedere con una buona dose di cautela quando cerchiamo di capire le società arcaiche attraverso quelle attuali.
In primo luogo, tutte le società di cacciatori-raccoglitori che sono sopravvissute fino nell’epoca moderna hanno subito influenze da parte delle società agricole e industriali a loro più prossime. Di conseguenza è rischioso supporre che quanto per tali società è oggi valido lo fosse anche per le società di decine di migliaia di anni fa.
In secondo luogo, le attuali società di cacciatori-raccoglitori sono sopravvissute principalmente in regioni in cui prevalgono difficili condizioni climatiche e terreni inospitali, poco favorevoli allo sviluppo dell’agricoltura. Società che si sono adattate alle condizioni estreme di luoghi come il deserto del Kalahari nell’Africa meridionale fornirebbero un modello fuorviante al fine di comprendere società antiche di aree fertili come la valle dello Yangtze. In particolare, la densità della popolazione in un’area come il deserto del Kalahari è assai più bassa di quella sviluppatasi un tempo intorno allo Yangtze, e ciò ha implicazioni di vasta portata riguardo alle dimensioni e alla struttura dei vari gruppi umani e ai rapporti che intercorrevano tra loro.
In terzo luogo, il tratto più caratteristico delle società di cacciatori-raccoglitori risiede proprio nella loro reciproca differenza. Esse differiscono non soltanto da una parte all’altra del mondo, ma anche all’interno di una stessa regione. Un esempio significativo è l’eccezionale varietà riscontrata fra i popoli aborigeni dell’Australia dai primi europei che colonizzarono quel continente. Prima della conquista britannica, i cacciatori-raccoglitori australiani erano fra i trecento e i settecentomila, e vivevano divisi in tribù (il cui numero si calcola potesse aggirarsi fra le duecento e le seicento), ciascuna delle quali era ulteriormente suddivisa in diversi gruppi.8 Ogni tribù aveva un linguaggio, una religione, oltre a norme e costumi propri. Nei dintorni di quella che è oggi Adelaide, nell’Australia meridionale, vivevano diversi clan patrilineari, che stabilivano cioè la discendenza lungo la linea paterna. Questi clan erano collegati tra loro e formavano tribù su base strettamente territoriale. Al contrario, alcune tribù dell’Australia settentrionale assegnavano maggiore importanza alla discendenza materna, e l’identità tribale dell’individuo dipendeva dal suo totem più che dal suo territorio.
È difficile pensare che fra gli antichi cacciatori-raccoglitori la varietà etnica e culturale non sia stata altrettanto forte, e che i 5-8 milioni di Sapiens che popolavano il mondo alla vigilia della Rivoluzione agricola non fossero suddivisi in migliaia di tribù con migliaia di differenti lingue e culture.9 Questa, dopotutto, era una delle principali eredità lasciate dalla Rivoluzione cognitiva. Grazie alla comparsa della finzione, anche individui della medesima costituzione genetica che vivevano in condizioni ecologiche simili furono in grado di elaborare realtà immaginate assai differenti, che si manifestavano secondo norme e valori pure differenti.
Per esempio, abbiamo tutte le ragioni per immaginare che un gruppo di cacciatori-raccoglitori che viveva 30.000 anni fa dove ora c’è l’Università di Oxford parlasse un linguaggio diverso da quello di un gruppo che occupava – poniamo – il territorio di Cambridge. I primi avrebbero potuto essere bellicosi e gli altri pacifici. Forse il gruppo di Cambridge si gestiva in forma comunitaria, e quello di Oxford, magari, era organizzato sulla base di nuclei familiari. Forse gli uni dedicavano molte ore a scolpire statuette lignee dei loro spiriti protettori, mentre gli altri esprimevano il culto attraverso la danza. I primi magari credevano nella reincarnazione, mentre i secondi pensavano che si trattasse di un’assurdità. Magari in una delle due società le relazioni omosessuali erano accettate, mentre nell’altra erano considerate un tabù.
In altre parole, se l’osservazione antropologica dei cacciatori-raccoglitori moderni può esserci utile per capire certe caratteristiche presenti nei loro progenitori, un tempo l’orizzonte di possibilità era assai più ampio, e la maggior parte di esso rimane nascosto ai nostri occhi.* L’acceso dibattito sul “modo di vita naturale” di Homo sapiens non riesce a cogliere quello che è il punto principale. Fin dalla Rivoluzione cognitiva, non c’è stato per i Sapiens un unico modo di vita naturale. Ci sono state soltanto scelte culturali, emerse da uno sbalorditivo ventaglio di possibilità.
La società opulenta delle origini
E tuttavia, quali generalizzazioni possiamo fare su quella che è stata probabilmente la vita nel mondo preagricolo? Pare lecito affermare che, per la stragrande maggioranza, la popolazione viveva in gruppi piuttosto ristretti, composti da alcune decine di individui fino a un massimo di qualche centinaio, e che tutti costoro erano esseri umani. È importante sottolineare quest’ultimo punto, perché è tutt’altro che ovvio. Le società agricole e industriali sono costituite in massima parte da animali addomesticati – che certo non vanno equiparati ai loro padroni, ma devono ugualmente essere considerati “membri del gruppo”. Oggi la società che si chiama Nuova Zelanda è composta da quattro milioni e mezzo di Sapiens e da cinquanta milioni di pecore.
C’era una sola eccezione a questa regola: il cane. Il cane è stato il primo animale addomesticato da Homo sapiens, e ciò accadde prima della Rivoluzione agricola. Non c’è accordo fra gli esperti circa la data precisa, ma disponiamo di prove incontrovertibili del fatto che ci fossero già cani addomesticati circa 15.000 anni fa. Può darsi, però, che questi animali si siano uniti ai gruppi umani migliaia di anni prima.
I cani venivano usati per la caccia e il combattimento, e anche come sistema d’allarme contro le bestie feroci e gli umani intrusi. Nel corso delle generazioni, le due specie svilupparono una buona comunicazione reciproca. I cani più attenti alle necessità e ai modi di sentire dei loro compagni umani ottenevano una maggiore considerazione e più cibo, per cui avevano più probabilità di sopravvivere. Allo stesso tempo, i cani impararono a manipolare gli umani in funzione delle proprie esigenze. Un legame che dura da 15.000 anni ha prodotto tra gli umani e i cani una comprensione e un affetto molto più profondo di quello che può esistere tra gli umani e qualsiasi altro animale.10 In alcuni casi, alla loro morte i cani venivano persino sepolti in maniera cerimoniale, quasi fossero degli umani.
All’interno di un gruppo, tutti i membri si conoscevano l’un l’altro intimamente, e per tutta la vita avevano intorno amici e parenti. La solitudine e la riservatezza erano rare. Gruppi vicini probabilmente rivaleggiavano per l’accaparramento delle risorse, potevano anche combattersi reciprocamente, ma avevano anche contatti amichevoli. Alcuni individui potevano passare da un gruppo all’altro; i gruppi cacciavano insieme, commerciavano rari beni di lusso, univano le forze contro gli stranieri e celebravano feste religiose. Tale cooperazione fu uno dei tratti distintivi di Homo sapiens, e gli conferì un vantaggio cruciale sulle altre specie. Qualche volta i rapporti con i vicini diventavano solidi al punto che due gruppi arrivavano a costituire un’unica tribù e a condividere gli stessi linguaggi, miti, norme e valori.
Non dovremmo però sopravvalutare l’intensità di queste relazioni con l’esterno. Anche se in tempi di crisi alcune tribù potevano agire in modo unitario, e anche se occasionalmente le tribù si univano per cacciare o banchettare insieme, la maggior parte delle persone vivevano la maggior parte del tempo in un piccolo gruppo. Il commercio era limitato più che altro allo scambio di oggetti di lusso, come conchiglie, ambra e pigmenti. Non esiste prova che si barattassero prodotti alimentari come frutta e carne, o che un gruppo, per sopravvivere, dovesse importare i prodotti di un altro. Anche i rapporti sociopolitici tendevano a essere sporadici. La tribù non prendeva l’aspetto di una struttura politica permanente e, se anche venivano organizzate occasioni d’incontro stagionali, non esistevano centri o istituzioni permanenti. Un individuo comune poteva vivere molti mesi senza vedere o sentire qualcuno che non appartenesse al suo gruppo, e nel corso della sua vita non incontrava che poche migliaia di altri umani. La popolazione dei Sapiens era spalmata su un territorio vastissimo. Prima della Rivoluzione agricola, la popolazione umana dell’intero pianeta era inferiore a quella del Cairo di oggi.
Per lo più, i gruppi di Sapiens vivevano stando in viaggio, spostandosi da un posto all’altro in cerca di cibo. I loro spostamenti erano influenzati dal corso delle stagioni, dalle migrazioni annuali degli animali e dai cicli di crescita delle piante. Di solito si percorreva avanti e indietro uno stesso territorio familiare, che copriva una superficie variabile tra decine e centinaia di chilometri quadrati.
Ogni tanto questi gruppi uscivano dai territori normalmente battuti ed esploravano nuove terre, e ciò come conseguenza di calamità naturali, conflitti violenti e pressioni demografiche, o per iniziativa di un capo carismatico. Tali peregrinazioni furono il motore dell’espansione umana nel mondo. Se un gruppo di cacciatori-raccoglitori ogni quarant’anni si divideva, e chi se ne andava migrava in un nuovo territorio cento chilometri più a oriente, la distanza dall’Africa orientale alla Cina sarebbe stata coperta in circa 10.000 anni.
In alcuni casi eccezionali, quando le risorse di cibo erano particolarmente abbondanti, i gruppi crearono accampamenti stagionali o addirittura permanenti. Le tecniche per l’essiccazione, l’affumicamento e (nelle zone artiche) la congelazione del cibo resero possibile fermarsi in un territorio per periodi via via sempre più lunghi. Cosa più importante ancora, lungo le coste marine e le rive dei fiumi, dove c’era ampia possibilità di prendere pesci e uccelli acquatici, gli umani impiantarono villaggi stabili. Quelli dei pescatori furono i primi insediamenti stabili della storia, e anticiparono di molto la Rivoluzione agricola. Simili villaggi potrebbero essere comparsi sulle coste delle isole indonesiane già 45.000 anni fa. Forse costituirono anche la base da cui Homo sapiens lanciò la sua prima impresa transoceanica: l’invasione dell’Australia.
Nella maggior parte degli habitat, i gruppi di Sapiens si alimentavano secondo modalità elastiche e opportunistiche. Scovavano termiti, raccoglievano bacche, scavavano per estrarre radici, facevano la posta ai conigli, cacciavano i bisonti e i mammut. Anche se l’immagine popolare del Sapiens è quella del “cacciatore”, la sua principale attività era quella del raccoglitore, ed era proprio la raccolta a fornirgli la maggior parte delle calorie per il sostentamento, oltre ai materiali grezzi come la selce, il legno e il bambù.
I Sapiens non limitavano però la loro ricerca al cibo e ai materiali. Andavano a caccia anche di conoscenze. Per sopravvivere avevano bisogno di una mappa mentale piuttosto dettagliata del loro territorio. Per massimizzare l’efficienza della ricerca quotidiana di cibo, dovevano sapere qual era il modello di crescita di ciascuna pianta e quali erano le abitudini di ciascun animale. Dovevano conoscere le qualità nutritive dei vari cibi, sapere quali erano tossici e quali invece potevano essere utilizzati come farmaci. Dovevano sapere qual era l’alternanza delle stagioni, quale segno d’allarme precedeva il tuono e quale facesse capire che ci sarebbe stato bel tempo. Nel loro vicinato studiavano ogni corso d’acqua, ogni albero di noce, ogni tana d’orso, ogni giacimento di selce. Ogni individuo doveva capire come costruire un coltello di selce, come riparare una pelliccia strappata, come preparare una trappola per i conigli e come affrontare valanghe, morsi di serpente e leoni affamati. La padronanza di ciascuna di queste numerose abilità richiedeva anni di apprendistato e di pratica. Il cacciatore-raccoglitore medio di quel tempo poteva ricavare una punta di freccia da una selce nel giro di pochi minuti. Nella maggioranza dei casi, noi non abbiamo una competenza approfondita riguardo alle proprietà di sfaldamento della selce e del basalto, né conosciamo i gesti esperti che servono per lavorare tali materiali con precisione.
In altre parole il cacciatore-raccoglitore medio, rispetto alla maggior parte dei suoi discendenti moderni, possedeva conoscenze più ampie, più profonde e più variegate di tutto ciò che gli stava nelle immediate vicinanze. Nelle moderne società industriali la maggior parte delle persone non ha bisogno di conoscere granché del mondo naturale per sopravvivere. A un tecnico di computer, a un agente delle assicurazioni, a un insegnante di storia o a un operaio industriale, quali conoscenze servono per cavarsela? Ciascuno di noi deve conoscere molto bene lo specifico e ristretto ambito di cui si occupa; ma per la stragrande maggioranza delle necessità della vita ci si affida ciecamente all’aiuto di altri esperti, le cui conoscenze costituiscono a loro volta un ambito altrettanto circoscritto. Collettivamente gli umani oggi sanno di più di quanto sapessero i membri di un antico gruppo di Sapiens. Ma, a livello della singola persona, gli antichi cacciatori-raccoglitori sono stati gli individui più intelligenti e abili di tutti i tempi.
Alcune evidenze dimostrano come le dimensioni medie del cervello umano siano effettivamente diminuite dopo l’era dei cacciatori-raccoglitori.11 Allora, per sopravvivere, occorreva che tutti possedessero eccellenti qualità mentali. Quando arrivò il tempo dell’agricoltura e dell’industria, l’individuo poté contare sempre di più sulle capacità di altri, e si aprirono nuove “nicchie d’imbecillità”. Si poteva sopravvivere e trasmettere i propri modesti geni alla generazione successiva lavorando come portatore d’acqua o operaio alla catena di montaggio.
I cacciatori-raccoglitori padroneggiavano non solo il mondo intorno a loro, gli animali, le piante, gli oggetti, ma anche il mondo interiore dei propri corpi e dei sensi. Sentendo anche solo un minimo fruscio tra l’erba capivano se lì si stesse appostando un serpente. Osservavano attentamente il fogliame degli alberi per scoprire frutti, alveari, nidi d’uccello. Si muovevano facendo il minimo sforzo e rumore, e sapevano come stare seduti, camminare e correre nel modo più agile ed efficiente. Il fatto che usassero il corpo costantemente e in tante azioni diverse li rendeva maratoneti perfetti. Possedevano una destrezza fisica che oggi nessuna persona riuscirebbe a conquistare neppure dopo anni di yoga o di tai chi.
Il tipo di vita del cacciatore-raccoglitore differiva notevolmente da una regione all’altra e da stagione a stagione, ma nel complesso pare che questi Sapiens abbiano potuto trascorrere un’esistenza più confortevole e gratificante di quella vissuta dalla maggior parte dei contadini, pastori, operai e impiegati che sono venuti dopo di loro.
Mentre nelle attuali società opulente una persona lavora in media quaranta-quarantacinque ore la settimana e nei paesi in via di sviluppo lavora tra le sessanta e le ottanta ore la settimana, i cacciatori-raccoglitori che oggi vivono negli habitat più inospitali – come il deserto del Kalahari – lavorano in media tra le trentacinque e le quarantacinque ore settimanali. Si occupano della caccia solo un giorno su tre, e la raccolta comporta giornalmente un lavoro fra le tre e le sei ore. In tempi normali questo è sufficiente perché il gruppo provveda al cibo. È molto probabile che gli antichi cacciatori-raccoglitori situati in zone più fertili del Kalahari spendessero meno tempo per procurarsi alimenti e materiali grezzi. Per giunta, è chiaro che i cacciatori-raccoglitori avevano un carico molto più leggero di incombenze domestiche. Piatti da lavare non ce n’erano, né tappeti da passare con l’aspirapolvere, né pavimenti da pulire, né tovaglioli da cambiare o bollette da pagare.
L’economia dei cacciatori-raccoglitori consentiva in generale esistenze più interessanti di quelle offerte dalla società agricola o industriale. Ai giorni nostri l’operaia di una fabbrica cinese esce di casa alle sette del mattino, percorre strade inquinate per arrivare alla sua azienda sfruttatrice, lì lavora stando alla stessa macchina facendo sempre la stessa cosa, giorno dopo giorno, per dieci lunghe ore che ottenebrano la mente, e poi ritorna a casa intorno alle sette di sera a lavare i piatti e fare il bucato. Invece 30.000 anni fa una cacciatrice-raccoglitrice cinese poteva lasciare l’accampamento con i suoi compagni, poniamo, alle otto del mattino. Tutti insieme, costoro girovagavano per i boschi e i prati vicini, raccoglievano funghi, dissotterravano radici commestibili, acchiappavano rane e, all’occorrenza, scappavano dalle tigri a gambe levate. Nel primo pomeriggio erano di nuovo nel loro accampamento a mangiare. Questo lasciava loro il tempo per chiacchierare, raccontare storie, giocare con i bambini o semplicemente oziare. Naturalmente le tigri a volte avevano la meglio o un serpente li mordeva; ma non era necessario fare i conti con gli incidenti stradali o con l’inquinamento industriale.
Quasi ovunque, e quasi sempre, la modalità di caccia e raccolta fornì l’alimentazione ideale. Ciò è tutt’altro che sorprendente: il corpo umano si era adattato bene a quella che era stata la dieta per centinaia di migliaia di anni. Dagli scheletri fossilizzati abbiamo le prove che gli antichi cacciatori-raccoglitori erano meno esposti al rischio di soffrire di fame o di malnutrizione, e che erano generalmente più alti e più sani dei loro discendenti agrari. A quanto pare l’aspettativa media di vita era fra i trenta e i quarant’anni, ma ciò era dovuto in gran parte all’alto tasso di mortalità infantile. I bambini che ce la facevano a superare i primi, pericolosi anni di vita avevano buone probabilità di raggiungere i sessant’anni, e alcuni raggiungevano anche gli ottanta. Tra i cacciatori-raccoglitori moderni, le donne di quarantacinque anni hanno un’aspettativa di vita di altri vent’anni, e il 5-8% della popolazione complessiva è oltre la sessantina.12
Il segreto del loro successo, ciò che li protesse dall’inedia e dalla malnutrizione, fu la loro dieta diversificata. Gli agricoltori tendono ad avere una dieta limitata e poco bilanciata. Specialmente in epoca premoderna, le calorie che nutrivano la popolazione agricola provenivano da una singola coltura – come il frumento, le patate o il riso – incapace di apportare tutte le vitamine, i minerali e le sostanze nutritive di cui gli umani hanno bisogno. Il tipico contadino della Cina tradizionale mangiava riso a colazione, riso a pranzo e riso a cena. Se era fortunato, poteva aspettarsi di mangiare la stessa cosa il giorno dopo. Gli antichi cacciatori-raccoglitori, invece, mangiavano regolarmente decine di cibi differenti. Il bisavolo cacciatore del contadino in questione poteva mangiare bacche e funghi per colazione; frutta, lumache e tartaruga per pranzo; bistecca di coniglio con cipolla selvatica per cena. L’indomani, il suo menu poteva essere totalmente differente. Tale varietà garantiva che gli antichi cacciatori-raccoglitori assumessero tutte le sostanze nutritive necessarie.
Inoltre, non dovendo dipendere da un unico tipo di cibo, era meno probabile che dovessero subire gravi conseguenza quando una particolare fonte di sostentamento veniva a mancare. Le società regolate sull’agricoltura vengono devastate dalla carestia quando un’inondazione, un incendio o un terremoto distruggono il raccolto annuale di riso o di patate. Le società di cacciatori-raccoglitori non erano certo immuni dai disastri naturali e potevano patire periodi di bisogno e di fame, ma di solito erano in grado di superare più facilmente simili calamità. Se perdevano un po’ dei loro prodotti alimentari principali, avevano sempre la possibilità di raccogliere o di cacciare altre specie, oppure di trasferirsi in una zona meno colpita.
Gli antichi cacciatori-raccoglitori, inoltre, erano meno esposti alle malattie infettive. Quasi tutte le malattie infettive che afflissero le società agricole e industriali (come il vaiolo, il morbillo e la tubercolosi) si originarono negli animali domestici e si trasferirono agli umani solo dopo la Rivoluzione agricola. Gli antichi cacciatori-raccoglitori, che avevano addomesticato soltanto il cane, non conobbero questi flagelli. Occorre anche considerare che, sia nella società agricola sia in quella industriale, la popolazione era concentrata in insediamenti permanenti antigienici, focolai ideali per le malattie. I cacciatori-raccoglitori vagavano invece in piccoli gruppi nei quali non avrebbero potuto svilupparsi epidemie.
In virtù della loro dieta sana e diversificata, della settimana lavorativa relativamente breve e della rarità delle malattie infettive, molti esperti hanno definito le società dei cacciatori-raccoglitori come le “società opulente primordiali”. Sarebbe un errore, tuttavia, idealizzare la vita di questi uomini. Benché vivessero un’esistenza migliore di quella di molta gente nelle società agricole e industriali, il loro mondo era comunque duro e spietato. I periodi di carestia e di difficoltà non erano rari, la mortalità infantile era alta e un qualsiasi accidente che oggi sarebbe di poco conto poteva diventare una condanna a morte. Per molti individui, probabilmente, era gratificante la stretta intimità che si stabiliva nel gruppo girovagante, ma per quei pochi sventurati che erano oggetto dell’ostilità o della derisione degli altri membri del gruppo la situazione era forse di enorme sofferenza. I cacciatori-raccoglitori moderni, a volte, arrivano ad abbandonare o anche a uccidere o storpiare quelli che non stanno al passo con il gruppo. Neonati e figli non voluti possono anche essere trucidati, ed esistono pure casi di sacrifici umani di ispirazione religiosa.
L’esempio degli Aché, un popolo di cacciatori-raccoglitori che viveva nelle giungle del Paraguay fino agli anni sessanta, ci consente di gettare uno sguardo sul lato più cupo di queste società. Quando moriva un membro valoroso del gruppo, gli Aché erano soliti uccidere una bambina e seppellire i due corpi insieme. Gli antropologi che riuscirono a interrogare gli Aché registrarono un caso in cui un gruppo lasciò al suo destino un uomo di mezza età malato e incapace di stare al passo con gli altri. Fu abbandonato sotto un albero. Gli avvoltoi si appollaiarono sui rami sopra di lui, aspettando il momento di pranzare. Ma l’uomo riprese forza e, camminando alacremente, riuscì a ricongiungersi con il gruppo. Il suo corpo era ricoperto da escrementi di uccelli, perciò da quel momento fu soprannominato “Cacca d’avvoltoio”.
Sempre tra gli Aché, quando una donna anziana cominciava a costituire un peso per il resto del gruppo, un giovane uomo strisciava alle sue spalle e la uccideva con un colpo d’accetta in testa. Un Aché raccontò agli antropologi curiosi storie sui suoi anni eroici nella giungla. “Uccidevo, secondo costume, le vecchie donne. Le mie zie, sempre... Le donne avevano paura di me... Ora, stando qui con i bianchi, sono diventato debole.” I bambini che nascevano senza capelli, considerati esseri non del tutto sviluppati, venivano immediatamente soppressi. Una donna rievocò il fatto che la sua prima figlia fu uccisa perché gli uomini del gruppo non volevano che ci fosse un’altra femmina. In una diversa circostanza un uomo uccise un bambino perché “era di cattivo umore, e poi il piccolo piangeva”. Un altro bambino venne sepolto vivo perché “era una cosa divertente a vedersi e gli altri bambini ridevano molto”.13
Dovremmo stare attenti, a ogni modo, a non giudicare gli Aché troppo alla svelta. Gli antropologi rimasti in contatto con loro per anni hanno riferito che tra gli adulti la violenza era molto rara. Sia le donne sia gli uomini erano liberi di cambiare partner a piacimento. Sorridevano e ridevano in ogni momento, non avevano una gerarchia di comando e in generale scansavano chi aveva tendenze dominatrici. Erano estremamente generosi riguardo alle poche cose che possedevano e non avevano alcuna ossessione riguardo al successo e alla ricchezza. Ciò che più apprezzavano nella vita erano buone interazioni sociali e amicizie profonde.14 Consideravano l’uccisione dei bambini, dei malati e dei vecchi come oggi molta gente vede l’aborto e l’eutanasia. Si deve anche tenere conto del fatto che gli Aché furono braccati e uccisi senza pietà dai coltivatori paraguayani. La necessità di sfuggire ai propri nemici fece sì, probabilmente, che gli Aché adottassero modi eccezionalmente duri nei confronti di chiunque potesse diventare un peso per il gruppo.
La verità è che la società Aché, al pari di ogni altra società umana, era molto complessa. Dovremmo guardarci dal demonizzarla o dall’idealizzarla sulla base di una conoscenza superficiale. Gli Aché non erano né angeli né demoni – erano umani. Proprio come lo erano gli antichi cacciatori-raccoglitori.
Spiriti parlanti
Che cosa siamo in grado di dire della vita spirituale e mentale degli antichi cacciatori-raccoglitori? I fondamenti della loro economia sono ricostruibili con una certa sicurezza basandoci su elementi quantificabili e oggettivi. Per esempio possiamo calcolare di quante calorie un individuo avesse bisogno quotidianamente per sopravvivere, quante se ne ottenessero da un chilogrammo di noci e quante noci fosse possibile raccogliere in un chilometro quadrato di foresta. In base a questi dati, è lecito avanzare un’ipotesi sulla relativa importanza delle noci nella loro dieta.
Ma le noci, come le consideravano? Una squisitezza o un cibo banale e monotono? Ritenevano che l’albero di noce fosse abitato dagli spiriti? Trovavano graziose le sue foglie? Se un giovane cacciatore voleva portare una ragazza in un posto romantico, le fronde di un noce avrebbero fatto al caso loro? Il mondo delle idee, delle credenze e dei sentimenti è per definizione più difficile da decifrare.
Quasi tutti gli studiosi concordano sul fatto che fra gli antichi cacciatori-raccoglitori fossero comuni le credenze animiste. L’animismo è il credo secondo cui quasi ogni luogo, animale, pianta e fenomeno naturale possiede consapevolezza e sentimento, e può comunicare direttamente con gli umani. Gli animisti, insomma, possono credere che la grossa roccia che sta in cima alla collina abbia desideri e necessità. La roccia potrebbe essere arrabbiata per qualcosa che la gente ha fatto, o contenta per qualche altro evento. La roccia potrebbe ammonire le persone o chiedere favori. Gli umani, dal canto loro, potrebbero rivolgersi alla roccia per ammansirla o minacciarla. Non solo la roccia, ma anche la quercia che si erge all’inizio del pendio è un essere animato, e così è anche il torrente che scorre a valle della collina, e la sorgente che sgorga nella radura del bosco; lo stesso vale per gli arbusti che crescono intorno a essa, il sentiero che conduce alla radura, il topo campagnolo, la volpe e il corvo che vanno ad abbeverarvisi. Nel mondo animista, gli oggetti e le cose viventi non sono gli unici esseri animati. Esistono anche entità immateriali, sul tipo di quelli che noi oggi chiamiamo demoni, spiriti, angeli.
Gli animisti credono che non esista alcuna barriera tra gli umani e gli altri esseri. Possono tutti comunicare tra loro direttamente, attraverso il discorso, la canzone, la danza e la cerimonia. Un cacciatore può rivolgersi a un branco di cervi e chiedere che uno di loro si sacrifichi per lui. Se la caccia ha successo, il cacciatore può chiedere all’animale morto di perdonarlo. Quando qualcuno si ammala, lo sciamano si mette in contatto con lo spirito che ha causato la malattia e cerca di pacificarlo o di cacciarlo via. Se il caso lo richiede, lo sciamano può chiedere aiuto a un altro spirito. Ciò che caratterizza tutti questi atti di comunicazione è che le entità cui ci si rivolge sono degli esseri locali. Non sono dèi universali, sono piuttosto un particolare cervo, un particolare albero, un particolare torrente, un particolare spirito.
Così come non esistono barriere tra gli umani e gli altri esseri, non vi è neppure una stretta gerarchia che regoli la comunicazione. Le entità non-umane non esistono soltanto per provvedere ai bisogni dell’uomo. Né sono divinità onnipotenti che gestiscono il mondo a proprio piacimento. Il mondo non gira intorno agli umani né intorno ad alcun altro gruppo di esseri.
L’animismo non è una religione specifica. Si usa questo nome generico per migliaia di religioni, culti e credenze molto differenti tra loro. Ciò che li rende tutti credi “animisti” è il comune approccio al mondo e al posto dell’uomo al suo interno. Dire che gli antichi cacciatori-raccoglitori erano probabilmente animisti è come dire che i membri delle società agricole premoderne erano principalmente teisti. Il teismo (da theos, “dio” in greco) è la concezione secondo cui l’ordine universale si basa su un rapporto gerarchico tra gli umani e un ristretto numero di entità eteree chiamate dèi. Certo, quando si afferma che le società agricole premoderne tendevano a essere teiste, si dice la verità, ma una verità che non spiega molto. La generica voce “teisti” copre i rabbini ebraici della Polonia del XVIII secolo, i puritani del Massachusetts seicentesco che mandavano le streghe al rogo, i sacerdoti aztechi nel Messico del XV secolo, i mistici sufi dell’Iran del XII secolo, i guerrieri vichinghi del X secolo, i legionari romani del II secolo e i burocrati cinesi del I secolo. Ciascuno di questi gruppi concepiva le credenze e le pratiche altrui come strambe ed eretiche. Le differenze tra le credenze e le pratiche dei gruppi di cacciatori-raccoglitori “animisti” erano probabilmente altrettanto consistenti. Può darsi che la loro esperienza religiosa sia stata turbolenta e piena di controversie, riforme e rivoluzioni.
Per noi, però, non è lecito spingerci oltre queste caute generalizzazioni. Ogni tentativo di descrivere le particolarità specifiche del mondo spirituale arcaico resta sostanzialmente speculativo, poiché non esiste alcuna prova a cui rifarci, e le poche testimonianze che abbiamo – una manciata di manufatti e di pitture rupestri – possono essere interpretate in una miriade di modi diversi. Le teorie degli studiosi che affermano di sapere che cosa pensassero i cacciatori-raccoglitori gettano più luce sui pregiudizi dei loro autori che sulle religioni dell’Età della pietra.
Invece di costruire montagne di teorie sul poco o nulla offerto dalle reliquie tombali, dai dipinti parietali delle grotte e dalle statuette di osso, è meglio forse essere franchi e ammettere che disponiamo solo di nozioni vaghissime circa le religioni degli antichi cacciatori-raccoglitori. Noi presumiamo che fossero animisti, ma questo non dice niente di più. Non sappiamo quali spiriti pregassero, quali feste celebrassero o quali tabù osservassero. E, cosa ancora più importante, non sappiamo quali storie raccontassero. Questa è una delle più gravi lacune nella nostra comprensione della storia umana.
Anche riguardo al mondo sociopolitico dei cacciatori-raccoglitori sappiamo pochissimo. Come detto più sopra, gli studiosi non si trovano d’accordo neppure sulle sue caratteristiche fondamentali, come l’esistenza o meno della proprietà privata, delle famiglie nucleari e delle relazioni monogame. È probabile che i differenti gruppi avessero differenti strutture: alcune più gerarchiche e rigide, come quelle degli scimpanzé, altre magari più rilassate, pacifiche e dedite al piacere, come quelle dei bonobo.
A Sungir, in Russia, nel 1955 gli archeologi scoprirono un sito sepolcrale di 30.000 anni fa appartenente a una cultura di cacciatori di mammut. In una tomba trovarono lo scheletro di un uomo di una cinquantina d’anni ricoperto di collane di perline (circa 3000) in avorio di mammut. Sulla testa l’uomo portava un copricapo decorato con denti di volpe, mentre ai polsi aveva venticinque braccialetti di avorio. Altre tombe dello stesso sito rivelarono sepolture molto più modeste. Gli studiosi dedussero che i cacciatori di mammut di Sungir avessero costituito una società di tipo gerarchico e che il defunto doveva essere stato forse il capo di un gruppo o di un’intera tribù che comprendeva più gruppi. È improbabile che poche decine di membri di un singolo gruppo fossero state in grado di produrre da sole una tale quantità di beni sepolcrali.
Gli archeologi scoprirono poi una tomba ancora più interessante. Conteneva due scheletri, sepolti testa contro testa. Uno apparteneva a un ragazzo di dodici o tredici anni, e l’altro a una ragazza di nove o dieci anni. Il ragazzo era ricoperto di 5000 perline d’avorio. Aveva un copricapo pure decorato con denti di volpe e una cintura con 250 denti di volpe (per ottenerne un numero simile, bisognava strappare i denti ad almeno sessanta volpi). La ragazza era adornata da collane composte complessivamente da 5250 perline d’avorio. Intorno a entrambi i giovani c’erano statuette e vari oggetti di avorio. Un artigiano o un’artigiana di grande perizia impiegava probabilmente quaranta minuti per realizzare una singola perlina d’avorio. In altre parole, solo per realizzare le 10.000 perline d’avorio presenti in quella tomba – per non parlare degli altri oggetti – occorsero circa 7500 ore di lavoro minuzioso: oltre tre anni di applicazione da parte di un artigiano esperto.
È altamente improbabile che in così giovane età i due ragazzi di Sungir fossero dei leader o dei cacciatori di mammut. Solo specifiche credenze proprie della loro cultura d’appartenenza possono spiegare come mai essi abbiano avuto sepolture tanto eccezionali. Secondo una teoria, fu per il rango dei loro genitori. Forse erano i figli del grande capo, e appartenevano a una cultura che credeva nel carisma della famiglia oppure in rigide regole di successione. Secondo un’altra teoria, nei due ragazzi, alla loro nascita, si era vista l’incarnazione di spiriti da tempo defunti. Una terza teoria sostiene che la sepoltura dei due ragazzi riflette le modalità della loro morte e non il loro status sociale quand’erano in vita. Erano stati sacrificati ritualmente – forse durante la cerimonia di sepoltura del capo – e poi sepolti in pompa magna.15
Quale che sia la risposta corretta, i ragazzi di Sungir costituiscono una delle migliori dimostrazioni che i Sapiens di 30.000 anni fa potevano elaborare codici sociopolitici che andavano ben oltre i dettati del nostro DNA e dei modelli di comportamento di altre specie umane e animali.
Pace o guerra?
Da ultimo c’è la spinosa questione del ruolo ricoperto dalla guerra nelle società dei cacciatori-raccoglitori. Alcuni studiosi si sono fatti l’idea che tali società fossero paradisi di pace e sostengono che la guerra e la violenza cominciarono solo con l’avvento della Rivoluzione agricola, quando gli individui iniziarono ad accumulare la proprietà privata. Altri studiosi ritengono che il mondo degli antichi cacciatori-raccoglitori fosse straordinariamente crudele e violento. Entrambe queste scuole di pensiero sono castelli in aria, ancorati al terreno solo dai fili sottili dei pochi resti archeologici e dalle osservazioni antropologiche condotte sui cacciatori-raccoglitori del tempo presente.
La dimostrazione di tipo antropologico è piuttosto avvincente ma resta assai problematica. Oggi i cacciatori-raccoglitori vivono principalmente in zone isolate e inospitali come l’Artico o il Kalahari, dove la densità della popolazione è molto bassa e le opportunità di confrontarsi con altre genti sono limitate. Inoltre, in tempi recenti, i gruppi di cacciatori-raccoglitori sono stati sempre più oggetto d’attenzione da parte delle autorità degli stati moderni, e questo ha impedito che fra tali gruppi scoppiassero conflitti su larga scala. Gli studiosi europei hanno avuto solo due occasioni per osservare popolazioni di cacciatori-raccoglitori indipendenti vaste e relativamente dense: nel XIX secolo, nella parte nord-occidentale del Nord America; e nell’Australia settentrionale, nel XIX e all’inizio del XX secolo. Sia le culture degli Amerindi sia quelle degli Aborigeni australiani assistettero a frequenti conflitti armati. Tuttavia, che ciò rappresenti una condizione “sempre esistita”, o dipenda piuttosto dall’impatto con l’imperialismo europeo, è materia di dibattito.
I ritrovamenti archeologici sono scarsi e poco chiari. Quali indizi eloquenti potrebbero mai restare di una guerra avvenuta decine di migliaia di anni fa? Allora non esistevano fortificazioni e mura, né proiettili d’artiglieria, e neppure spade e scudi. Una punta di lancia avrebbe certo potuto essere usata in guerra, ma anche per la caccia. Le ossa umane fossilizzate non sono di più facile interpretazione. Una frattura può indicare una ferita in guerra o un incidente. E l’assenza di fratture e tagli su uno scheletro non può costituire una prova inoppugnabile che l’individuo cui apparteneva non sia morto di morte violenta. Il suo decesso potrebbe essere stato causato da un trauma ai tessuti molli che non lascia segno sulle ossa. Cosa più importante ancora, nelle guerre combattute in era preindustriale oltre il 90% delle vittime moriva non tanto per le armi, ma per la fame, per il freddo e per le malattie. Immaginiamo che 30.000 anni fa una tribù abbia sconfitto la tribù sua vicina scacciandola da un terreno di caccia aspramente conteso. E che nella battaglia decisiva siano rimasti uccisi dieci membri della tribù sconfitta, mentre l’anno dopo altri cento membri della tribù allo sbando siano morti di fame, di freddo e di malattia. Gli archeologi che incappano in questi centodieci scheletri potrebbero concludere, ragionando in maniera superficiale, che per la maggior parte si tratti di vittime di qualche disastro naturale. Come potremmo appurare che furono tutte vittime di una guerra spietata?
Debitamente avvertiti, passiamo ai ritrovamenti archeologici. In Portogallo è stata condotta un’indagine su quattrocento scheletri risalenti a un periodo immediatamente precedente alla Rivoluzione agricola. Solo due di essi mostravano chiari segni di violenza. Uno studio analogo fatto in Israele su quattrocento scheletri dello stesso periodo ha rivelato su un unico teschio un’unica spaccatura che si poteva attribuire alla violenza umana. In una terza indagine su quattrocento scheletri provenienti da vari siti preagricoli della valle del Danubio si è trovata una prova di violenza in diciotto scheletri. Diciotto su quattrocento potrebbero non sembrare una calamità, ma sono comunque una percentuale piuttosto alta. Se tutti e diciotto sono morti effettivamente di morte violenta, significa che nell’antica valle del Danubio il 4,5% circa dei decessi era imputabile alla violenza umana. Oggi, a livello globale, la percentuale è solo dell’1,5%, mettendo insieme guerra e crimine. Durante il XX secolo, solo il 5% delle morti umane fu il risultato di violenza da parte dell’uomo – e si tenga conto che il Novecento ha visto le guerre più sanguinarie e i genocidi più enormi della storia. Se il risultato di quest’ultima indagine è rappresentativo, la società dell’antica valle del Danubio era altrettanto violenta di quella del XX secolo.*
Gli sconfortanti ritrovamenti della valle del Danubio trovano conferma in una serie di scoperte di tenore molto simile ma relative ad altre aree. A Jabl Sahaba, in Sudan, è stato scoperto un cimitero di 12.000 anni fa contenente cinquantanove scheletri. Punte di freccia e di lancia furono trovate in corrispondenza, o addirittura all’interno, di ben ventiquattro scheletri – cioè del 40% degli individui lì inumati. Lo scheletro di una donna presentava dodici ferite. Nella grotta di Ofnet, in Baviera, gli archeologi hanno rinvenuto i resti di trentotto cacciatori, in gran parte donne e ragazzi, gettati dentro due fosse sepolcrali. Metà degli scheletri, compresi quelli dei ragazzi e dei bambini, mostrava chiari segni di offesa perpetrata con armi umane come mazze e pugnali. I pochi scheletri appartenenti a uomini adulti presentavano i segni di violenza più impressionanti. Con ogni probabilità, a Ofnet fu massacrato un intero gruppo di cacciatori-raccoglitori.
Che cosa rappresenta con più verosimiglianza il mondo degli antichi Sapiens: i quieti cimiteri trovati in Israele e in Portogallo o i mattatoi di Jabl Sahaba e di Ofnet? La risposta è: né gli uni né gli altri. Così come i cacciatori-raccoglitori si riconoscevano in un ampio ventaglio di religioni e di strutture sociali, probabilmente si distinguevano tra loro anche per un tasso di violenza molto variabile. Mentre in alcune aree e in certi periodi può esserci stata una certa pace e tranquillità, in altri contesti ed epoche si ebbero probabilmente conflitti feroci.16
La cortina del silenzio
Se già è difficile ricostruire un quadro più ampio della vita degli antichi cacciatori-raccoglitori, gli eventi specifici restano sostanzialmente irrecuperabili. Ogni qual volta un gruppo di Sapiens penetrò per la prima volta in una valle abitata dai Neanderthal si svolse, di sicuro, un dramma storico avvincente. Ma purtroppo nulla, o quasi, poté sopravvivere a tali incontri, fatta eccezione, nel migliore dei casi, per qualche osso fossilizzato o per una manciata di utensili di pietra che restano muti anche di fronte alla più approfondita indagine accademica. Da essi possiamo estrarre in qualche modo informazioni sull’anatomia umana, sulla tecnologia umana, sulla dieta umana e forse anche sulla struttura sociale umana. Ma non ci rivelano nulla sull’alleanza politica creata tra vicini gruppi di Sapiens, sugli spiriti dei morti che sigillavano tale alleanza o sulle collane di avorio offerte segretamente allo stregone locale per assicurarsi il benvolere degli spiriti.
Questa cortina del silenzio si stende su decine di migliaia d’anni di storia. È possibile che questi lunghi millenni abbiano assistito a guerre e rivoluzioni, alla nascita di movimenti religiosi estatici, all’elaborazione di profonde teorie filosofiche e di incomparabili capolavori artistici. Forse, chissà, i cacciatori-raccoglitori hanno avuto i loro Napoleone conquistatori che governavano imperi grandi come metà del Lussemburgo; forse hanno avuto dei Beethoven cui mancavano certo grandi orchestre sinfoniche, ma che commuovevano alle lacrime la gente con il suono dei loro flauti di bambù; o profeti che rivelavano non le parole di un dio creatore dell’universo, ma quelle che uscivano dall’anima di una quercia locale. Tutte queste sono però solo ipotesi. La cortina del silenzio è così fitta che non possiamo neppure essere sicuri che simili cose siano accadute – e tanto meno descriverle in dettaglio.
Gli studiosi hanno la tendenza a porre solo quelle domande cui presumono in qualche modo di saper rispondere. Finché non disporremo di strumenti di ricerca diversi, probabilmente non sapremo mai in che cosa gli antichi cacciatori-raccoglitori credessero e quali drammi politici abbiano vissuto. Tuttavia è vitale che ci poniamo ugualmente domande per le quali ancora non esistono risposte; altrimenti potremmo essere tentati di liquidare 60.000 dei 70.000 anni della storia umana con la scusa che “la gente che viveva a quei tempi non combinò niente d’importante”.
La verità è che quella gente fece un sacco di cose importanti. In particolare modellò il mondo che ci sta intorno in misura molto maggiore di quanto i più si rendano conto. I trekker che visitano la tundra siberiana, i deserti dell’Australia centrale e le foreste pluviali dell’Amazzonia ritengono di essere entrati in paesaggi primigeni, praticamente mai toccati da mano umana. Ma è un’illusione. I cacciatori-raccoglitori erano lì prima di noi, e hanno determinato mutamenti radicali persino nelle giungle più fitte e nelle lande più selvagge e desolate. Il prossimo capitolo spiega in che modo i cacciatori-raccoglitori rimodellarono completamente l’ecologia del nostro pianeta molto tempo prima che fosse costruito il primo villaggio agricolo. I gruppi itineranti dei Sapiens narratori di storie costituirono la forza più importante e più distruttiva che il regno animale avesse mai prodotto.
* Per “orizzonte di possibilità” intendiamo l’intero spettro di credenze, pratiche ed esperienze che si rendono disponibili a una particolare società, tenuto conto dei suoi limiti ecologici, tecnologici e culturali. Ciascuna società, così come ciascun individuo, esplora di solito solo una minuscola frazione del proprio orizzonte di possibilità. (N.d.A.)
* Si potrebbe sostenere che non tutti i diciotto antichi danubiani morirono effettivamente per atti di violenza i cui segni fossero riscontrabili nei loro resti. Alcuni erano soltanto feriti. Tuttavia, questo è probabilmente bilanciato dalle morti per trauma subito dai tessuti molli e per le invisibili privazioni che accompagnano la guerra. (N.d.A.)
4.
L’inondazione
Prima della Rivoluzione cognitiva, gli umani di tutte le specie vivevano esclusivamente nella terra emersa afroasiatica. Certo, si erano insediati anche in qualche isola, dove erano arrivati attraversando brevi tratti di mare a nuoto o con zattere improvvisate. Flores, per esempio, venne colonizzata già 850.000 anni fa. In mare aperto, comunque, era impossibile avventurarsi, e nessuno raggiunse l’America, l’Australia o remote isole come il Madagascar, la Nuova Zelanda e le Hawaii.
La barriera del mare impedì non solo agli umani ma anche a molti altri animali afroasiatici e a molte piante di raggiungere questo “mondo esterno”. Il risultato fu che molti organismi di terre distanti come l’Australia e il Madagascar si evolsero in maniera indipendente per milioni e milioni di anni, assumendo forme e qualità molto diverse da quelle dei loro distanti parenti afroasiatici. Il pianeta Terra rimase suddiviso in diversi e distinti ecosistemi, ciascuno composto da un insieme unico di animali e piante. Ci avrebbe pensato Homo sapiens a porre fine a questa esuberanza biologica.
In seguito alla Rivoluzione cognitiva, i Sapiens acquisirono la tecnologia, le capacità organizzative e forse anche l’immaginazione necessaria per evadere dalle terre afroasiatiche e insediarsi nel mondo esterno. Il loro primo traguardo fu la colonizzazione dell’Australia, circa 45.000 anni fa. Non è facile per gli esperti dare una spiegazione a questa impresa. Allo scopo di raggiungere l’Australia, gli umani dovettero attraversare un certo numero di bracci di mare, alcuni dei quali lunghi oltre 100 chilometri, e una volta giunti alla meta dovettero adattarsi, praticamente dalla sera alla mattina, a un ecosistema completamente nuovo.
La teoria più convincente suggerisce che, circa 45.000 anni fa, i Sapiens che vivevano nell’arcipelago indonesiano (un gruppo di isole al largo dell’Asia e separate tra loro da stretti più o meno brevi) avessero sviluppato le prime società marinare. Impararono a costruire e a manovrare imbarcazioni capaci di solcare l’oceano e diventarono pescatori d’alto mare, mercanti ed esploratori. Questo avrebbe portato a una trasformazione senza precedenti nelle capacità e nei modi di vita dell’uomo. Ogni altro mammifero che aveva a che fare col mare – le foche, i trichechi, i delfini – aveva dovuto evolversi attraverso ere lunghissime per sviluppare organi specializzati e corpi idrodinamici. I Sapiens dell’Indonesia, discendenti dalle scimmie antropomorfe che vivevano nella savana africana, diventarono i navigatori del Pacifico senza far crescere pinne sul loro corpo e senza dover aspettare che i propri nasi si spostassero in cima alla testa, come avevano fatto le balene. Costruirono invece delle barche e impararono a governarle. E queste capacità consentirono loro di raggiungere l’Australia e di stabilirvisi.
Certo, gli archeologi non hanno ancora trovato resti di zattere, remi e villaggi di pescatori risalenti a 45.000 anni fa (sarebbe ben difficile fare ritrovamenti del genere, dato anche che i livelli marini si sono alzati e hanno sepolto, per un centinaio di metri sott’acqua, le antiche linee costiere indonesiane). Tuttavia, a sostegno di questa teoria esistono prove molto circostanziate, e in particolare il fatto che nelle migliaia di anni seguiti all’insediamento in Australia, i Sapiens hanno colonizzato un gran numero di isole piccole e remote a nord del continente. Alcune, come Buka e Manus, erano separate dalla terraferma più vicina da 200 chilometri di mare aperto. È difficile credere che qualcuno avesse potuto raggiungere e colonizzare Manus senza disporre di imbarcazioni sofisticate e senza conoscere le tecniche della navigazione. Come menzionato in precedenza, è altresì provato che vi fosse un regolare commercio marittimo tra alcune di queste isole, per esempio Nuova Irlanda e Nuova Britannia.17
Il viaggio dei primi umani in Australia rappresenta uno degli eventi più importanti della storia, importante almeno quanto quello di Colombo in America o della spedizione dell’Apollo 11 sulla Luna. Fu la prima volta in assoluto in cui gli umani riuscirono a lasciare l’ecosistema afroasiatico – e anche la prima volta che un qualsiasi grande mammifero terrestre riuscì a passare dal blocco afroasiatico all’Australia. Ma ancora di maggiore importanza fu ciò che i pionieri umani fecero in questo nuovo mondo. Il momento in cui il primo cacciatore-raccoglitore mise piede sulla spiaggia australiana fu anche quello in cui Homo sapiens salì sul gradino più alto della catena alimentare in un dato ecosistema, diventando così la specie più micidiale mai comparsa in 4 miliardi di storia di vita sul pianeta Terra.
Fino ad allora gli umani avevano manifestato alcuni adattamenti e comportamenti innovativi, ma l’effetto che questi avevano avuto sull’ambiente era stato irrilevante. Avevano dimostrato notevoli capacità di migrare e ambientarsi negli habitat più diversi, ma questo avveniva senza che essi modificassero drasticamente quegli habitat. Coloro che si insediarono in Australia, o meglio che la conquistarono, non si limitarono ad adattarsi. Piuttosto, trasformarono l’ecosistema australiano rendendolo irriconoscibile.
Sulla sabbia della spiaggia australiana, la prima impronta umana venne subito cancellata dalle onde della risacca. Ma, avanzando verso l’interno, la nuova impronta lasciata dagli invasori non sarebbe stata più eliminata. Spingendosi nell’entroterra, costoro incontrarono uno strano universo di creature sconosciute, tra cui canguri alti due metri e pesanti duecento chili, e leoni marsupiali, massicci come una moderna tigre, che erano i più grossi predatori del continente. Koala davvero troppo grossi per essere teneri e carini frusciavano fra i rami degli alberi; e uccelli incapaci di volare, grandi il doppio degli struzzi, scattavano correndo sulle pianure. Lucertole simili a draghi e serpenti lunghi cinque metri strisciavano nel sottobosco. Il gigantesco diprotodonte, un vombato di due tonnellate e mezzo, scorrazzava nelle foreste. Fatta eccezione per gli uccelli e per i rettili, tutti questi animali erano marsupiali: al pari dei canguri, mettevano al mondo minuscoli esseri quasi fetali che poi allattavano in sacche addominali. I mammiferi marsupiali erano quasi del tutto sconosciuti in Africa e in Asia, mentre in Australia regnavano supremi.
Nel giro di poche migliaia d’anni, praticamente tutti questi giganti scomparvero. Delle ventiquattro specie australiane di animali oltre i cinquanta chili di peso, ventitré si estinsero.18 Scomparvero anche numerose specie di taglia minore. Nell’intero ecosistema australiano, le catene alimentari furono spezzate e ristrutturate. Fu la più importante trasformazione avvenuta da milioni di anni. Fu tutta colpa di Homo sapiens?
Sul banco degli imputati
Alcuni studiosi si sforzano di esonerare la nostra specie, dando la colpa ai capricci del clima (il solito capro espiatorio, in simili casi). Tuttavia, è difficile pensare che Homo sapiens sia stato del tutto innocente. Tre tipi di prove inficiano l’alibi del clima e fanno capire che alla base dell’estinzione della megafauna australiana ci furono proprio i nostri antenati.
In primo luogo, anche se intorno a 45.000 anni fa il clima in Australia cambiò, non si trattò di uno sconvolgimento straordinario. Difficile credere che, da soli, nuovi modelli climatici possano aver causato un’estinzione tanto massiccia. Oggi è di moda spiegare ogni cosa come effetto dei mutamenti climatici, ma la verità è che il clima della Terra non è mai stabile. Il suo è un flusso continuo. Ogni evento storico è accaduto sullo sfondo di qualche cambiamento climatico.
In particolare il nostro pianeta ha attraversato numerosi cicli di raffreddamento e di riscaldamento. Durante l’ultimo milione di anni c’è stata un’era glaciale ogni 100.000 anni. L’ultima si verificò approssimativamente fra 75.000 e 15.000 anni fa. Non fu particolarmente severa, ma ebbe due picchi, uno circa 70.000 anni fa e il secondo circa 20.000 anni fa. Il gigantesco diprotodonte comparve in Australia oltre un milione e mezzo di anni fa e attraversò almeno dieci precedenti glaciazioni. Era sopravvissuto anche al primo picco dell’ultima glaciazione, intorno a 70.000 anni fa. Perché dunque scomparve 45.000 anni fa? Naturalmente, se il diprotodonte fosse stato l’unico grosso animale a scomparire in quel tempo, si sarebbe trattato solo di una coincidenza. Il fatto è che, a sparire dalla scena insieme al diprotodonte, fu oltre il 90% della megafauna australiana. Le prove sono circostanziate, ed è difficile immaginare che i Sapiens siano arrivati per caso in Australia nel preciso momento in cui tutti questi animali stavano morendo di freddo.19
In secondo luogo, in presenza di un cambiamento climatico avvengono estinzioni di massa, e le creature marine di solito vengono colpite quanto quelle terrestri. Niente dimostra che vi sia stata alcuna scomparsa significativa nella fauna oceanica 45.000 anni fa. Un coinvolgimento umano può invece spiegare facilmente come mai l’ondata di estinzioni abbia annullato la megafauna terrestre dell’Australia, risparmiando però quella dell’oceano limitrofo. Nonostante le sue crescenti abilità marinare, Homo sapiens rappresentava soprattutto una minaccia terrestre.
In terzo luogo, estinzioni di massa simili a quella australiana ricorsero diverse volte nei millenni successivi, ogni volta che si verificavano nuovi insediamenti in terre precedentemente mai abitate da umani. In questi casi la colpa dei Sapiens è fuori discussione. Per esempio, la megafauna della Nuova Zelanda – che aveva superato il presunto “cambiamento climatico” di 45.000 anni fa circa senza fare una piega – subì colpi devastanti subito dopo che i primi umani posero piede in queste isole. I Maori, primi colonizzatori Sapiens della Nuova Zelanda, vi arrivarono circa 800 anni fa. Nel giro di due secoli la maggior parte della megafauna locale si estinse, insieme al 60% di tutte le specie di volatili.
Simile destino colpì la popolazione di mammut dell’isola di Wrangel nell’oceano Artico (200 chilometri a nord della costa siberiana). I mammut avevano prosperato per milioni di anni su gran parte dell’emisfero settentrionale ma, con il diffondersi di Homo sapiens – dapprima in Eurasia e poi in Nord America –, retrocedettero. Intorno a 10.000 anni fa non se ne poteva trovare più uno nel mondo intero, eccetto che in qualche remota isola artica, in particolar modo a Wrangel. I mammut di Wrangel continuarono a sopravvivere senza problemi per qualche altro millennio, poi scomparvero improvvisamente circa 4000 anni fa, proprio quando i primi umani arrivarono sull’isola.
Se l’estinzione australiana fosse un evento isolato, potremmo forse accordare agli umani il beneficio del dubbio. Ma la testimonianza storica fa comparire Homo sapiens come un serial killer ecologico.
Tutto quello che i coloni dell’Australia avevano a disposizione era una tecnologia dell’Età della pietra. Come poterono causare un disastro ecologico? Ci sono tre spiegazioni, compatibili tra loro.
Gli animali di grossa taglia – le vittime principali dell’estinzione australiana – si riproducono lentamente. La gestazione ha tempi lunghi, la prole per ogni gravidanza è di numero limitato e fra una gravidanza e l’altra può trascorrere molto tempo. Di conseguenza, se gli umani avessero abbattuto, poniamo, anche solo un diprotodonte ogni due o tre mesi, questo sarebbe bastato a far sì che le morti di questa specie fossero superiori alle nascite. Nel giro di qualche migliaio di anni, l’ultimo diprotodonte sarebbe passato all’altro mondo, e con lui l’intera specie.20
Malgrado la mole, i diprotodonti e gli altri giganti australiani probabilmente non furono prede di difficile cattura, perché vennero colti di sorpresa dagli assalitori bipedi. Da due milioni di anni, varie specie umane si erano sparse attraverso l’Africa e l’Asia, evolvendosi gradualmente. Poco alla volta avevano affinato le loro tecniche di caccia, e intorno a 400.000 anni fa cominciarono a insidiare gli animali di grossa taglia. In Africa e in Asia questi ultimi avevano imparato a evitare gli umani: per cui, quando sulla scena afroasiatica comparve il nuovo predatore – Homo sapiens – i grossi animali sapevano già che bisognava tenere una certa distanza da quelle creature. I giganti australiani invece non ebbero il tempo d’imparare a scappare. Gli umani non hanno un aspetto particolarmente pericoloso. Non posseggono lunghi denti affilati né corpi flessuosi con muscoli scattanti. Così quando un diprotodonte – il più grande marsupiale che abbia mai camminato sulla Terra – posò lo sguardo per la prima volta su questa scimmia dall’aspetto fragile, le diede un’occhiata e poi tornò a masticare foglie. Questi animali avevano bisogno di sviluppare un timore per il genere umano, ma prima di poterlo fare furono spacciati.
La seconda spiegazione è che, quando arrivarono in Australia, i Sapiens già impiegavano il fuoco in agricoltura. Trovandosi di fronte ad ambienti nuovi e minacciosi, incendiavano vaste aree coperte da fitte macchie e dense foreste per creare praterie aperte, che attiravano selvaggina di più facile cattura ed erano più adatte alle loro necessità. Nel giro di pochi millenni essi produssero quindi un mutamento decisivo nell’ecologia di vasti territori dell’Australia.
Una prova sufficiente a sostegno di questa concezione è il repertorio delle piante fossili. L’eucalipto, 45.000 anni fa, era raro in Australia. Ma l’arrivo di Homo sapiens inaugurò un’età dell’oro per questa pianta. Poiché gli eucalipti ricrescono particolarmente bene dopo i danni provocati da un incendio, essi poterono propagarsi ampiamente, mentre altri alberi scomparvero.
Tali cambiamenti nel mondo vegetale influenzarono gli animali che mangiavano le piante e i carnivori che mangiavano gli animali vegetariani. I koala, che si nutrono esclusivamente di foglie di eucalipto, furono contenti di andare a masticare le loro foglie nei nuovi territori. Ma quasi tutti gli altri animali australiani soffrirono grandemente. Molte catene alimentari collassarono, portando all’estinzione gli anelli più deboli.21
Una terza spiegazione concorda sul fatto che la caccia e gli incendi abbiano effettivamente giocato un ruolo significativo nell’estinzione della fauna, ma mette in evidenza che non si può ignorare completamente il ruolo avuto dal clima. I cambiamenti climatici che colpirono l’Australia circa 45.000 anni fa destabilizzarono l’ecosistema e lo resero particolarmente vulnerabile. In circostanze normali tale sistema si sarebbe probabilmente riequilibrato, come era accaduto tante volte in precedenza. Però comparvero sulla scena gli umani, e proprio in questa congiuntura spinsero il fragile ecosistema nell’abisso. La combinazione del cambiamento climatico con la caccia operata dagli umani si rivelò devastante per gli animali di grossa taglia, attaccati su due fronti. Era difficile trovare una strategia di sopravvivenza che funzionasse simultaneamente contro minacce multiple.
Senza ulteriori prove, non c’è modo di decidere quale sia lo scenario giusto. Ma vi sono buone ragioni per credere che, se Homo sapiens non fosse mai andato laggiù, l’Australia sarebbe ancora la patria dei leoni marsupiali, dei diprotodonti e dei canguri giganti.
La fine del bradipo
L’estinzione della megafauna australiana costituì probabilmente il primo marchio significativo lasciato da Homo sapiens sul nostro pianeta. Fu seguita da un disastro ecologico ancora più grande, questa volta in America. Homo sapiens fu la prima e unica specie umana ad arrivare nel continente: successe circa 16.000 anni fa, vale a dire intorno al 14000 a.C. I primi americani arrivarono a piedi, cosa che poterono fare perché, al tempo, il livello dei mari era sufficientemente basso da consentire un collegamento via terra tra la Siberia nord-orientale e l’Alaska nord-occidentale. Non che fosse facile: si trattava di un viaggio assai arduo, forse più duro del passaggio via mare che portò Homo sapiens in Australia. Per fare questo percorso, i Sapiens dovettero abituarsi a sopportare le condizioni artiche estreme della Siberia settentrionale, un’area in cui il sole d’inverno non splende mai e dove le temperature possono scendere a -50 °C.
In precedenza nessuna specie umana era riuscita a penetrare in posti come la Siberia settentrionale. Persino i Neanderthal, che ben si adattavano al freddo, si mantennero all’interno di regioni relativamente temperate più meridionali. Ma Homo sapiens, il cui corpo era più adatto a vivere nella savana africana che non su terre ricoperte di neve e di ghiaccio, ideò soluzioni ingegnose. Quando gruppi di Sapiens cacciatori-raccoglitori migrarono in climi più freddi, impararono a fabbricarsi calosce da neve ed efficaci indumenti termici composti di strati di pellicce e di pelli, cuciti strettamente servendosi di aghi. Svilupparono nuove armi e sofisticate tecniche di caccia che consentirono loro d’inseguire e uccidere i mammut e altre grosse prede delle regioni fredde. E a mano a mano che si spingevano sempre più a nord, i loro indumenti, le strategie di caccia e le capacità utili alla sopravvivenza continuarono a migliorare.
Ma perché si davano tanta pena? Perché mai scegliere di esiliarsi in Siberia? Forse alcuni gruppi furono indotti a spingersi a nord a causa di guerre, pressioni demografiche o disastri naturali. C’erano però anche ragioni positive per farlo. Una riguardava le proteine animali. Le terre artiche erano piene di grandi animali interessanti da questo punto di vista, come le renne e i mammut. Un mammut poteva fornire una quantità enorme di carne (che, date le gelide temperature, poteva essere congelata per un uso successivo), di gustoso grasso, di pelliccia calda e di prezioso avorio. Come testimoniano i ritrovamenti di Sungir, nel gelido nord i cacciatori di mammut non solo riuscirono a sopravvivere, ma prosperarono. Col passare del tempo, i gruppi si diffusero e si ingrandirono spingendosi lontano, sulle tracce di mammut, mastodonti, rinoceronti e renne. Intorno al 14000 a.C. la caccia condusse alcuni gruppi ad attraversare il ponte di terra che andava dalla Siberia all’Alaska. Naturalmente non sapevano che stavano scoprendo un nuovo mondo. Sia per il mammut sia per l’uomo, l’Alaska era una semplice estensione della Siberia.
Dapprima i ghiacciai bloccarono la strada dall’Alaska al resto dell’America, però alcuni pionieri riuscirono a superare questi ostacoli grazie alla navigazione lungo costa. Intorno al 12000 a.C., il riscaldamento terrestre sciolse i ghiacci e aprì un passaggio via terra più agevole. Utilizzando questo nuovo, stretto corridoio, la gente scese a sud in massa, diffondendosi per l’intero continente. Anche se si erano abituati a cacciare la grande selvaggina dell’Artico, i nuovi venuti si adattarono presto a una sorprendente varietà di climi e di ecosistemi. I discendenti dei siberiani si insediarono nelle fitte foreste degli Stati Uniti orientali, nelle paludi del delta del Mississippi, nei deserti del Messico e nelle umide giungle dell’America centrale. Alcuni stabilirono la loro casa nel mondo fluviale costituito dal bacino del Rio delle Amazzoni, altri misero radici nelle vallate andine o nelle pampas dell’Argentina. E tutto questo accadde nel giro di un solo millennio, o al massimo di un paio! Nel 10000 a.C. gli umani abitavano già la maggior parte delle propaggini meridionali dell’America, compresa l’isola della Terra del Fuoco all’estremo sud del continente. Tale fulminea invasione testimonia l’incomparabile ingegnosità e le straordinarie capacità di adattamento di Homo sapiens. Nessun altro animale si era mai trasferito in tante e così diverse situazioni ambientali e con tanta sveltezza, dovunque contando praticamente sul medesimo patrimonio genetico.22
La colonizzazione dell’America da parte dei Sapiens fu tutt’altro che incruenta, e si lasciò dietro una lunga scia di vittime. La fauna americana di 14.000 anni fa era assai più ricca di quanto non lo sia oggi. Quando i primi americani scesero dall’Alaska nelle pianure del Canada e negli Stati Uniti occidentali, incontrarono mammut e mastodonti, roditori della taglia di un orso, mandrie di cavalli e cammelli, leoni enormi e decine di specie possenti, di tipo oggi completamente sconosciuto, tra cui gli spaventosi felini dai denti a sciabola e i giganteschi bradipi terrestri che arrivavano a pesare otto tonnellate e raggiungevano un’altezza di sei metri. L’America del Sud ospitava una congerie ancora più esotica di grossi animali, rettili e uccelli. Le Americhe furono un grande laboratorio di sperimentazione evoluzionistica, un posto dove animali e piante sconosciuti in Africa e in Asia si erano sviluppati e avevano prosperato magnificamente.
Ma poi tutto questo finì. Nel giro di 2000 anni dall’arrivo dei Sapiens, moltissime di queste specie uniche si estinsero. Secondo le stime correnti, in quell’intervallo di tempo relativamente breve, il Nord America perse trentaquattro dei suoi quarantasette generi di grandi mammiferi. Il Sud America ne perse cinquanta su sessanta. I felini dai denti a sciabola, dopo aver vissuto indisturbati per trenta milioni di anni, scomparvero; e così i giganteschi bradipi terrestri, i leoni giganti, i cavalli e i cammelli nativi americani, gli enormi roditori e i mammut. E si estinsero pure migliaia di specie di mammiferi di taglia minore, di rettili, di uccelli e anche di insetti e parassiti (morti i mammut, tutte le specie di acari e zecche che li infestavano seguirono la loro sorte).
Per decenni paleontologi e zooarcheologi – studiosi che ricercano e studiano i resti animali – hanno setacciato le pianure e le montagne delle Americhe alla ricerca delle ossa fossilizzate di antichi cammelli e delle feci pietrificate dei bradipi giganti terrestri. Ogni volta che trovano qualcosa di interessante, lo impacchettano e lo mandano in laboratorio, dove ogni osso e ogni coprolito (il termine tecnico delle feci fossilizzate) viene meticolosamente studiato e catalogato. Molto spesso, tali analisi producono gli stessi risultati: i mucchi di sterco e le ossa di cammello più recenti risalgono al periodo in cui gli umani inondarono l’America, cioè, approssimativamente, tra il 12000 e il 9000 a.C. Soltanto in una zona gli studiosi hanno scoperto coproliti più vicini a noi: in diverse isole caraibiche, in particolare a Cuba e Hispaniola, hanno trovato le deiezioni di un bradipo terrestre risalenti al 5000 a.C. circa. Fu esattamente il momento in cui i primi umani riuscirono ad attraversare il mar dei Caraibi e a insediarsi in queste due isole.
Di nuovo, alcuni studiosi cercano di esonerare da ogni responsabilità Homo sapiens e incolpano il cambiamento climatico (il che richiede di ipotizzare che, per qualche misteriosa ragione, il clima delle isole caraibiche sia rimasto uguale per 7000 anni, mentre il resto dell’emisfero occidentale si riscaldava). Ma in America la prova dei coproliti è schiacciante. Siamo noi i responsabili. Non c’è modo di aggirare tale realtà. Anche se il cambiamento climatico ci ha dato una mano, il nostro contributo è stato senz’altro decisivo.23
L’arca di Noè
Se mettiamo insieme le estinzioni di massa avvenute in Australia e in America, aggiungiamo le estinzioni in scala minore (come quelle di altre specie umane) che ebbero luogo con la propagazione di Homo sapiens sulle terre afroasiatiche e quelle che intervennero quando gli antichi cacciatori-raccoglitori si insediarono in isole remote quali Cuba, la conclusione inevitabile è che la prima ondata della colonizzazione dei Sapiens fu uno dei più grandi e più rapidi disastri ecologici che siano capitati al regno animale. A essere colpite più duramente furono le creature da pelliccia di grossa taglia. Al tempo della Rivoluzione cognitiva, sul nostro pianeta abitavano circa duecento generi di grandi mammiferi terrestri che pesavano oltre cinquanta chili. Al tempo della Rivoluzione agricola, ne restavano solo un centinaio. Homo sapiens portò all’estinzione circa la metà delle grosse bestie del pianeta molto tempo prima che fossero inventati la ruota, la scrittura o gli utensili di ferro.
In proporzioni molto più piccole, questa tragedia ecologica fu rimessa in scena innumerevoli volte dopo l’avvento della Rivoluzione agricola. Le testimonianze archeologiche raccolte isola dopo isola raccontano la stessa triste storia. La tragedia si apre con una scena che mostra una ricca e variata popolazione di animali di grande taglia, senza traccia di umani in giro. Nella seconda scena, compare Homo sapiens, rappresentato da un osso, da una punta di freccia o magari da un frammento di vaso. Segue velocemente la terza scena, in cui uomini e donne vengono a occupare il centro del palcoscenico, mentre non si vedono più i grandi animali, e anche molti di quelli più piccoli.
La grande isola del Madagascar, 400 chilometri a est dal continente africano, offre un celebre esempio di questa situazione. Qui, durante milioni di anni di isolamento, si sviluppò una collezione unica di animali. Fra essi c’erano l’uccello elefante, una creatura inabile al volo, alta tre metri e che pesava quasi mezza tonnellata – il più grande uccello al mondo –, e i lemuri giganti, i più grandi primati del globo. Gli uccelli elefante e i lemuri giganti, insieme a tanti altri animali di grossa taglia, scomparvero improvvisamente circa 1500 anni fa, quando posero piede sull’isola i primi umani.
Nell’oceano Pacifico, la principale ondata di estinzione ebbe inizio intorno al 1500 a.C., quando gli agricoltori polinesiani colonizzarono le isole Salomone, le Fiji e la Nuova Caledonia. Essi fecero fuori, direttamente o indirettamente, centinaia di specie di uccelli, insetti, lumache e altri residenti del luogo. Da lì l’ondata di estinzione si spostò gradualmente a est, a sud e a nord, nel cuore dell’oceano Pacifico, cancellando la singolare fauna di Samoa e di Tonga (1200 a.C.), delle isole Marchesi (1 d.C.), dell’isola di Pasqua, delle isole Cook e delle Hawaii (500 d.C.) e infine della Nuova Zelanda (1200 d.C.).
Simili disastri ecologici avvennero in quasi ognuna delle migliaia di isole che costellano l’oceano Atlantico, l’oceano Indiano, l’oceano Artico e il mar Mediterraneo. Gli archeologi, persino nelle isole più minuscole, hanno trovato prova dell’esistenza di uccelli, insetti e chiocciole che vivevano lì da innumerevoli generazioni e scomparvero quando arrivarono i primi umani dediti all’agricoltura. Soltanto rare isole estremamente remote sono sfuggite fino a tempi recenti all’attenzione dell’uomo, mantenendo intatta la loro fauna. Le isole Galapagos, per fare un esempio molto noto, sono rimaste disabitate dagli umani fino al XIX secolo, conservando così il loro serraglio unico – comprese le loro tartarughe giganti che, al pari degli antichi diprotodonti, non mostrano nessuna paura degli umani.
La prima ondata d’estinzione, che accompagnò l’espansione dei cacciatori-raccoglitori, fu seguita da una seconda ondata, che accompagnò l’espansione degli agricoltori e che ci fornisce un’interessante visuale sulla terza ondata che l’attività industriale sta determinando oggi. Non credete agli ecologisti che abbracciano gli alberi, secondo i quali i nostri antenati vivevano in armonia con la natura. Molto tempo prima della Rivoluzione industriale, Homo sapiens conquistò il record, fra tutti gli organismi, di chi portò all’estinzione la maggior parte delle specie vegetali e animali. A noi spetta il triste primato di essere la specie più ferale che esista negli annali della biologia.
Forse, se più persone si rendessero conto di cosa accadde nella prima ondata d’estinzione e poi nella seconda, ora sarebbero meno disinvolte circa la terza ondata, cui partecipano. Se noi ci rendessimo conto di quante specie abbiamo già sradicato, potremmo essere più motivati a proteggere quelle che ancora sopravvivono. Questo vale in particolar modo per i grandi animali degli oceani. A differenza delle loro controparti terrestri, i grandi animali marini hanno sofferto relativamente poco con la Rivoluzione cognitiva e con quella agricola. Ma molti di loro sono ora sull’orlo dell’estinzione per effetto dell’inquinamento industriale e dello sfruttamento eccessivo delle risorse oceaniche. Se le cose continuano al passo attuale, è probabile che balene, squali, tonni e delfini seguiranno la sorte di diprotodonti, bradipi terrestri e mammut. Fra tutte le grandi creature che ci sono al mondo, i soli sopravvissuti all’inondazione umana saranno gli umani stessi e gli animali da cortile che servono da schiavi rematori nell’arca di Noè.
PARTE SECONDA
LA RIVOLUZIONE AGRICOLA
5.
La più grande impostura della storia
Per due milioni e mezzo di anni gli umani si sono nutriti raccogliendo piante e cacciando animali che vivevano e crescevano senza il loro intervento. Homo erectus, Homo ergaster e i Neanderthal coglievano i fichi selvatici e davano la caccia alle pecore selvatiche senza stare a pensare dove mettevano le radici gli alberi di fico, in quali prati brucasse il gregge, quale caprone inseminasse la capra. Homo sapiens si propagò dall’Africa orientale al Medio Oriente, all’Europa, all’Asia e infine all’Australia e all’America – ma dovunque migrasse, continuò a vivere raccogliendo le piante che trovava in natura e cacciando gli animali selvaggi. Perché mai fare altro, quando il tuo modo di vivere ti nutre abbondantemente e sostiene un ricco mondo di strutture sociali, di credenze religiose e di dinamiche politiche?
Tutto questo cambiò circa 10.000 anni fa, quando i Sapiens cominciarono a dedicare quasi tutto il loro tempo e le loro energie a manipolare l’esistenza di poche specie di animali e di piante. Dall’alba al tramonto cominciarono a piantare semi, a dare acqua alle piante, a strappare erbacce dal terreno e a portare le pecore in buoni pascoli. Questo lavoro, pensavano, avrebbe fornito loro più frutti, più frumento, più carne. Fu una rivoluzione nel modo di vivere degli umani: la Rivoluzione agricola.
Il passaggio all’agricoltura ebbe inizio in un periodo compreso fra il 9500 e l’8500 a.C. in una regione collinosa che sta tra la Turchia sud-orientale, l’Iran occidentale e il Vicino Oriente. Prese il via lentamente e in un’area geografica piuttosto ristretta. Il frumento e le capre furono domesticati approssimativamente intorno al 9000 a.C.; piselli e lenticchie intorno all’8000 a.C.; gli ulivi nel 5000 a.C.; i cavalli nel 4000 a.C.; e la vite nel 3500 a.C. Certi animali e certe piante, come i cammelli e le noci di acagiù, furono domesticati ancora più tardi, ma nel 3500 a.C. si può dire che la principale ondata di domesticazione fosse compiuta. Ancora oggi, con tutte le nostre tecnologie avanzate, oltre il 90% delle calorie che nutrono l’umanità proviene da una manciata di piante che i nostri antenati hanno domesticato tra il 9500 e il 3500 a.C.: frumento, riso, mais, patate, miglio e orzo. Negli ultimi due millenni nessuna specie animale o vegetale è stata domesticata. Se le nostre menti sono quelle dei cacciatori-raccoglitori, la nostra cucina è quella degli antichi agricoltori.
Un tempo gli studiosi ritenevano che l’agricoltura si fosse propagata da un unico punto d’origine nel Medio Oriente, arrivando ai quattro angoli del mondo. Oggi invece sostengono che l’agricoltura si sia affermata in varie zone del pianeta e non per opera di agricoltori mediorientali che avevano esportato la loro rivoluzione, ma in modo del tutto indipendente. In America centrale gli umani domesticarono il mais e i fagioli senza sapere niente della coltivazione del frumento e dei piselli che veniva fatta nel Vicino Oriente. I sudamericani impararono a coltivare le patate e ad allevare i lama senza essere a conoscenza di quanto accadeva altrove. I primi rivoluzionari agrari della Cina domesticarono il riso, il miglio e i maiali. I primi ortolani del Nord America furono quelli che, stanchi di setacciare il sottobosco per cercare cucurbitacee commestibili, decisero di coltivare zucche. Gli abitanti della Nuova Guinea domesticarono la canna da zucchero e i banani, mentre i primi agricoltori dell’Africa occidentale resero confacente alle loro necessità il miglio africano, il riso africano, il sorgo e il frumento. Da questi punti focali l’agricoltura si diffuse ovunque. Nel I secolo d.C. la stragrande maggioranza delle genti in quasi tutto il mondo era dedita all’agricoltura.
Mappa 2. Ubicazioni e date delle rivoluzioni agricole. Questi dati sono oggetto di dibattito, e la mappa viene costantemente ridisegnata per incorporare volta a volta le più recenti scoperte archeologiche.24
Mappa 2. Ubicazioni e date delle rivoluzioni agricole. Questi dati sono oggetto di dibattito, e la mappa viene costantemente ridisegnata per incorporare volta a volta le più recenti scoperte archeologiche.24
Come mai le rivoluzioni agricole eruppero nel Medio Oriente, in Cina e nell’America centrale, e non in Australia, in Alaska e in Sudafrica? La ragione è semplice: la maggior parte delle specie vegetali e animali non può essere domesticata. I Sapiens potevano tirar fuori della terra deliziosi tartufi e abbattere lanosi mammut, ma domesticare l’una o l’altra di queste specie era assolutamente impossibile. I funghi erano organismi misteriosi e incomprensibili, le bestie gigantesche erano troppo feroci. Delle migliaia di specie che i nostri antenati cacciavano e raccoglievano, solo poche si prestavano alla coltura e all’allevamento. Quelle poche vivevano in posti particolari, che diventarono la sede delle rivoluzioni agricole.
Un tempo gli studiosi sostenevano che la Rivoluzione agricola avesse rappresentato un grande balzo in avanti per l’umanità. Raccontavano una storia di progressi alimentati dalle capacità del cervello umano. L’evoluzione aveva gradualmente prodotto individui sempre più intelligenti. Tanto che alla fine gli uomini erano divenuti così svegli da riuscire a decifrare i segreti della natura, cosa che permise loro di domesticare le pecore e di coltivare il frumento. Appena avvenuto questo, avevano gioiosamente abbandonato la dura, pericolosa e spesso spartana vita del cacciatore-raccoglitore, creando insediamenti stabili per godere l’esistenza piacevole e soddisfacente dell’agricoltore.
Pura fantasia. Non c’è alcuna prova del fatto che le persone siano diventate più intelligenti col passare del tempo. I cacciatori-raccoglitori conoscevano i segreti della natura molto prima che arrivasse la Rivoluzione agricola, poiché la loro sopravvivenza dipendeva da una conoscenza approfondita degli animali che cacciavano e delle piante che raccoglievano. Invece di annunciare una nuova era di agi, la Rivoluzione agricola fece sì che gli agricoltori avessero un’esistenza generalmente più difficile e meno soddisfacente di quella dei cacciatori-raccoglitori. Questi ultimi passavano il loro tempo in modi più stimolanti e variati, e correvano meno rischi di patire la fame e le malattie. La Rivoluzione agricola certamente accrebbe la quantità totale di cibo a disposizione dell’umanità: ma questa nuova abbondanza non si tradusse in una dieta migliore o in una vita più comoda. Piuttosto, si tradusse in esplosioni demografiche e nella creazione di élite viziate. L’agricoltore medio lavorava più duramente del cacciatore-raccoglitore medio, e inoltre aveva una dieta peggiore. La Rivoluzione agricola fu la più grande impostura della storia.
Chi ne fu responsabile? Né re, né sacerdoti, né mercanti. I colpevoli furono una manciata di specie vegetali, fra cui il frumento, il riso e le patate. Furono queste piante a domesticare Homo sapiens, non viceversa.
Pensiamo per un momento alla Rivoluzione agricola dal punto di vista del frumento. Circa 10.000 anni fa il frumento era un’erba spontanea, non diversa da tante altre e confinata in una zona piuttosto limitata del Medio Oriente. Appena qualche millennio più tardi cresceva in tutto il mondo. Secondo i princìpi evoluzionistici basilari di sopravvivenza e di riproduzione, il frumento è diventato una delle piante di maggior successo nella storia della Terra. In regioni quali le grandi pianure del Nord America, dove 10.000 anni fa non cresceva una sola spiga di questa pianta, oggi possiamo camminare per centinaia e centinaia di chilometri senza imbatterci in alcuna altra pianta. A livello mondiale, le piantagioni di frumento coprono circa 2,25 milioni di chilometri quadrati della superficie terrestre, quasi dieci volte l’estensione della Gran Bretagna. Come fu che quest’erba divenne ubiqua, da insignificante che era?
Il frumento ci riuscì manipolando Homo sapiens a proprio vantaggio. Questa scimmia, 10.000 anni fa, stava vivendo una vita tutto sommato confortevole, cacciando e raccogliendo; ma poi cominciò a investire sempre più impegno a coltivare il frumento. Nel giro di un paio di millenni, gli umani di molte regioni del mondo non facevano più molto altro, dall’alba al tramonto, se non prendersi cura delle piante di frumento. Non era una cosa facile. Il frumento richiedeva che fossero in tanti a occuparsene. Il frumento non amava i sassi e il pietrisco: così i Sapiens si spezzarono la schiena a ripulire campi. Il frumento non amava condividere con altre piante lo spazio, l’acqua e le sostanze nutritive, così gli uomini e le donne passavano lunghe giornate sarchiando il suolo sotto il sole bruciante. Il frumento poteva guastarsi, e quindi i Sapiens dovevano stare attenti a tener lontane larve ed epidemie. Il frumento era indifeso nei confronti degli altri organismi che amavano mangiarlo, dai conigli agli sciami di locuste: quindi gli agricoltori dovevano tenerlo sotto osservazione e proteggerlo. Il frumento aveva sete: così gli umani fecero scorrere l’acqua dalle fonti e dai ruscelli per abbeverarlo. La sua fame costrinse inoltre i Sapiens a raccogliere le feci animali per nutrire il terreno in cui esso cresceva.
Il corpo di Homo sapiens dovette evolversi in funzione di questi compiti. Si era adattato a salire sugli alberi di melo e a correre dietro alle gazzelle, non a raschiare i sassi dal terreno e a trasportare secchi d’acqua. Ne pagarono il prezzo la spina dorsale, le ginocchia, il collo, le arcate dei piedi. Gli studi condotti sugli antichi scheletri indicano che il passaggio all’agricoltura produsse una quantità non indifferente di malanni, come l’ernia del disco, le artriti e le ernie inguinali. Inoltre le nuove incombenze imposte dall’agricoltura richiedevano così tanto tempo da costringere la gente a stabilirsi in maniera permanente vicino ai propri campi di frumento. Questo trasformò completamente i modi di vita. Non fummo noi a domesticare il frumento. Fu lui che domesticò noi. Il termine “domesticare” viene dal latino domus, cioè “casa”. E chi vive nella casa? Non il frumento, ma il Sapiens.
Ma in che modo il frumento convinse Homo sapiens a cambiare un tipo di vita piuttosto buono con un’esistenza più miserabile? Che cosa gli offrì in cambio? Una dieta migliore, no di certo. Gli umani, va ricordato, sono scimmie onnivore, a proprio agio con un’ampia varietà di cibi. Prima della Rivoluzione agricola, le granaglie provvedevano solo a una piccola frazione della dieta umana. Una dieta basata sui cereali è povera di sali minerali e di vitamine, comporta una difficile digestione ed è deleteria per i denti e per le gengive.
Il frumento non offrì sicurezza economica alla gente. La vita dei contadini è meno sicura di quella dei cacciatori-raccoglitori. Questi ultimi, per sopravvivere, potevano contare su decine di specie e superare quindi gli anni difficili anche senza scorte di cibo. Se si riduceva la disponibilità di una data specie, potevano raccogliere e cacciare qualcos’altro. Fino a tempi molto recenti, le società agricole facevano invece affidamento su una varietà assai modesta di piante domesticate per la maggior parte delle calorie da assumere. In molte zone potevano contare su un singolo prodotto, come il frumento, le patate o il riso. Se non cadevano le piogge, se arrivava uno sciame di locuste o se un fungo infettava il raccolto, i contadini morivano a migliaia o a milioni.
Il frumento non servì neanche a ridurre i conflitti. I primi agricoltori furono altrettanto violenti dei loro antenati cacciatori-raccoglitori, se non di più. Gli agricoltori dovevano possedere più cose e avevano bisogno di terra. Perdere anche un solo terreno da pascolo a causa delle razzie dei vicini poteva significare morire di fame: ragion per cui non c’era molto spazio per il compromesso. Quando un gruppo di cacciatori-raccoglitori subiva dure pressioni da parte di un gruppo rivale più forte, di solito andava via. Era una cosa difficile e pericolosa, ma era fattibile. Ma se un nemico temibile minacciava un insediamento agricolo, andarsene significava rinunciare a campi, abitazioni e granai. In molti casi ciò condannava i profughi alla fame. Gli agricoltori, quindi, cercavano a tutti i costi di resistere e di combattere fino all’ultimo.
Molti studi antropologici e archeologici dimostrano che nelle società agricole più semplici, prive di strutture politiche al di là del villaggio e della tribù, la violenza umana causava circa il 15% dei decessi, e circa il 25% di quelli degli individui maschi. Oggi, in Nuova Guinea, si imputano ad atti di violenza il 30 e il 35% dei decessi maschili che avvengono, rispettivamente, nelle società agricole tribali dei Dani e degli Enga. In Ecuador, forse il 50% dei Waorani adulti va incontro a morte violenta per mano di un altro umano!25 Col tempo, la violenza umana venne posta sotto controllo attraverso lo sviluppo di strutture sociali più ampie: le città, i regni, gli stati. Ma ci vollero migliaia di anni per creare tali enormi ed efficienti strutture politiche.
Certamente la vita di villaggio portò ai primi agricoltori alcuni benefici immediati, come una migliore protezione contro gli animali selvaggi, la pioggia e il freddo. Ma per l’individuo medio gli svantaggi probabilmente superavano i vantaggi. Chi vive nelle società prospere di oggi fatica a comprenderlo. Dato che noi godiamo di opulenza e di sicurezza, e che queste ultime sono costruite sulle fondamenta gettate dalla Rivoluzione agricola, tendiamo a presumere che tale rivoluzione abbia costituito un miglioramento meraviglioso. Tuttavia è sbagliato giudicare migliaia di anni di storia dalla prospettiva di oggi. Un punto di vista più rappresentativo sarebbe quello di una bambina di tre anni morta di malnutrizione nella Cina del I secolo d.C. per un raccolto andato perduto. Direbbe forse: “Sto morendo di malnutrizione, ma fra 2000 anni la gente avrà un sacco di roba da mangiare e vivrà in grandi case con l’aria condizionata, ragion per cui le mie sofferenze sono un sacrificio che vale la pena fare”?
Che cosa offrì dunque il frumento agli agricoltori, compresa la nostra bambina cinese malnutrita? Non offrì nulla ai singoli individui, ma assegnò qualcosa a Homo sapiens in quanto specie. La coltivazione del frumento permise di disporre di più cibo per unità di territorio, e quindi consentì a Homo sapiens di moltiplicarsi in misura esponenziale. Intorno al 13000 a.C., quando gli umani si cibavano raccogliendo piante spontanee e cacciando animali selvaggi, l’area intorno all’oasi di Gerico, in Palestina, poteva ospitare, al massimo, un gruppo itinerante di circa cento persone, tutte relativamente sane e ben nutrite. Intorno all’8500 a.C., quando le piante spontanee avevano ceduto il passo ai campi di grano, l’oasi ospitava un ampio ma affollato villaggio di mille persone, che dovevano fare i conti con malattie e malnutrizione.
L’evoluzione non bada né alla fame né alla sofferenza, ma solo a quante eliche di DNA riesce a replicare. Proprio come il successo economico di un’azienda viene misurato solo dalla quantità di denaro sul suo conto corrente e non dalla felicità dei suoi impiegati, così il successo evoluzionistico di una specie si misura in termini di copie di DNA. Una specie del cui DNA non rimangano più copie è dichiarata estinta, proprio come un’azienda senza più fondi finisce in bancarotta. Se invece essa può vantare molte repliche del proprio DNA, ha successo e prospera. Guardando la cosa da questa prospettiva, mille copie del DNA sono meglio di cento copie. Sta qui l’essenza della Rivoluzione agricola: la capacità di mantenere in vita più gente in condizioni peggiori.
Ma perché gli individui dovrebbero badare a questi calcoli sul meccanismo dell’evoluzione? Perché mai una persona sana di mente vorrebbe abbassare la propria qualità di vita giusto per moltiplicare il numero di copie del genoma di Homo sapiens? Nessuno sottoscrisse questo patto: la Rivoluzione agricola fu una trappola.
La trappola del lusso
L’affermazione dell’agricoltura fu un fenomeno molto graduale che si svolse nell’arco di alcuni millenni. Nessun gruppo di Sapiens che di solito raccoglieva funghi e noci e cacciava il cervo e il coniglio decise all’improvviso di stanziarsi in un villaggio permanente per arare campi, seminare frumento e trasportare acqua attinta al fiume. Il cambiamento procedette per stadi, ciascuno dei quali produsse solo un piccolo aggiustamento nelle consuetudini quotidiane.
Homo sapiens arrivò in Medio Oriente circa 70.000 anni fa. Per i successivi 50.000 anni i nostri antenati andarono avanti benissimo senza agricoltura. Le risorse naturali della regione erano sufficienti per sostentare la popolazione umana di quel territorio. In tempi di abbondanza nasceva qualche figlio in più, e in tempi di carestia qualcuno in meno. Gli umani, come molti mammiferi, posseggono meccanismi ormonali e genetici che contribuiscono al controllo della procreazione. Nei periodi favorevoli le femmine raggiungono la pubertà prima e le loro probabilità di avere figli sono più alte. Nei periodi più grami la pubertà tende a ritardare e la fertilità diminuisce.
A questi meccanismi di controllo naturali se ne aggiunsero altri di tipo culturale. I lattanti e i bambini piccoli, che si muovono lentamente e richiedono molta attenzione, costituivano un fardello per i cacciatori-raccoglitori nomadi. Per cui si cercava di distanziare le nascite dei figli, così che fra una e l’altra passassero tre o quattro anni. Le donne, dunque, badavano ai propri figli tutto il giorno e li allattavano il più a lungo possibile (l’allattamento prolungato, infatti, riduce significativamente le possibilità di rimanere incinta). Altri metodi prevedevano la piena o parziale astinenza sessuale (sostenuta probabilmente da prescrizioni di tipo culturale), l’aborto e, occasionalmente, l’infanticidio.26
Durante questi lunghi millenni, poteva succedere a volte che la gente si cibasse di frumento, che comunque restava ai margini della loro dieta. Circa 18.000 anni fa, l’ultima glaciazione lasciò il passo a un periodo di riscaldamento del pianeta. Con la crescita della temperatura, aumentarono anche le piogge. Il nuovo clima era ideale per il frumento e per altri cereali del Medio Oriente, che si moltiplicarono e si diffusero. La gente cominciò a mangiare più frumento e in cambio favorì involontariamente la sua espansione. Poiché era impossibile mangiare i cereali spontanei senza prima togliere la pula, macinarli e cuocerli, la gente li raccoglieva e li portava ai propri accampamenti temporanei per lavorarli. In questo tragitto, inevitabilmente, alcuni dei chicchi presenti nelle spighe cadevano e andavano perduti. Così, con il passare del tempo, sempre più frumento iniziò a crescere lungo le piste più battute dai nostri antenati e nei pressi dei loro insediamenti.
A favorire la diffusione dei cereali furono anche gli incendi delle foreste e delle macchie provocati dagli umani. Il fuoco spazzava via alberi e cespugli, consentendo al frumento e ad altre erbe di monopolizzare la luce del sole, l’acqua e le sostanze nutrienti di cui avevano bisogno. Nelle zone in cui il frumento diventava particolarmente abbondante, e dove c’era anche una buona quantità di selvaggina e di altre fonti alimentari, i gruppi umani potevano sentirsi indotti ad abbandonare gradualmente la vita nomade e a sistemarsi in accampamenti stagionali e persino permanenti.
Magari, la prima volta si accampavano per quattro settimane durante il tempo del raccolto. Passata una generazione, dato che le piante di grano si moltiplicavano e si propagavano, l’accampamento del raccolto poteva durare forse una settimana in più; successivamente le settimane diventavano sei, finché a un certo punto si costituiva un villaggio permanente. Testimonianze di questi insediamenti sono state trovate in tutto il Medio Oriente, particolarmente nel Levante dove, tra il 12500 e il 9500 a.C., fiorì la cultura natufiana. I Natufiani erano cacciatori-raccoglitori che si sostentavano con una dozzina di specie selvatiche, ma vivevano in villaggi permanenti e dedicavano molto del loro tempo alla raccolta intensiva e alla lavorazione di cereali selvatici. Costruirono case di pietra e granai. Immagazzinavano grano per quando ve ne fosse stato bisogno. Inventarono nuovi utensili come la falce di selce per mietere il grano selvatico, oltre a pestelli e mortai di pietra per macinarlo.
Negli anni che seguirono al 9500 a.C. i discendenti dei Natufiani continuarono a raccogliere cereali e lavorarli, e presero anche a coltivarli in modi sempre più elaborati. Raccogliendo i cereali selvatici, fecero attenzione a mettere da parte un po’ del raccolto ottenuto per seminare i campi nella stagione successiva. Scoprirono che potevano ottenere risultati molto migliori se seminavano i chicchi più a fondo nel terreno invece di spargerli a caso in superficie. Iniziarono così a zappare e ad arare. Gradualmente, cominciarono anche a ripulire dalle erbacce i campi, a difenderli dai parassiti, ad annaffiarli e fertilizzarli. Dedicando più sforzi alla coltivazione cerealicola, c’era meno tempo per la raccolta e la caccia di specie selvatiche. I cacciatori-raccoglitori diventarono agricoltori.
Naturalmente, non fu un unico passo a separare il momento in cui le donne – soprattutto loro – raccoglievano il frumento selvatico da quello in cui coltivavano il frumento domesticato: per cui è difficile dire con esattezza quando ebbe luogo la transizione decisiva verso l’agricoltura. Comunque nell’8500 a.C. il Medio Oriente era disseminato di villaggi stanziali come Gerico, i cui abitanti impiegavano la maggior parte del proprio tempo a coltivare poche specie domesticate.
Con la transizione alla forma del villaggio permanente e con l’incremento delle provviste di cibo, cominciò a crescere la popolazione. Avendo abbandonato lo stile di vita nomade, le donne potevano avere un bambino ogni anno. I piccoli venivano svezzati piuttosto presto con pappe di cereali. Tutte le mani in più erano estremamente necessarie nei campi. Solo che le bocche in più da sfamare esaurivano in fretta le scorte di cibo, così occorreva coltivare altri campi. Poiché la gente cominciava a vivere in insediamenti infestati dalle malattie, dal momento che la dieta dei figli si basava più sui cereali che sul latte delle madri e ogni bambino doveva competere con i fratelli per avere la sua pappa, la mortalità infantile crebbe. Nella maggior parte delle società dedite all’agricoltura, almeno un figlio su tre moriva prima di aver raggiunto i vent’anni.27 Tuttavia l’incremento delle nascite restava ancora superiore all’incremento dei decessi; gli umani non smisero di generare molti figli.
Col tempo, l’economia del frumento diventò sempre più onerosa. I bambini morivano in gran numero e gli adulti si guadagnavano il pane col sudore della fronte. Nella Gerico dell’8500 a.C. l’individuo medio conduceva un’esistenza più dura di quella vissuta dall’individuo medio nella Gerico del 9500 o del 13000 a.C. Ma nessuno capiva cosa stesse accadendo. Ogni generazione viveva come la precedente, introducendo qua e là solo piccoli cambiamenti nel modo di fare le cose. Paradossalmente tutta una serie di “miglioramenti”, ciascuno dei quali avrebbe dovuto rendere la vita più facile, finì per trasformarsi in una sorta di enorme fardello posto intorno al collo di questi agricoltori.
Come mai si fecero calcoli così perniciosi? Per la stessa ragione per cui la gente ha sempre sbagliato i calcoli nel corso della storia. Gli umani erano incapaci di prevedere tutte le conseguenze delle proprie decisioni. Ogni volta che stabilivano di fare un po’ di lavoro in più – poniamo, zappare i campi invece di spargere i semi in superficie – pensavano: “Sì, dobbiamo lavorare più duramente. Il raccolto, però, sarà così abbondante! Non avremo più da preoccuparci degli anni di magra. I nostri figli non andranno mai a letto affamati.” La cosa aveva senso. Se lavoravi duro, avevi una vita migliore. Questa era la linea da seguire.
La prima fase del programma filò liscia. Effettivamente si lavorava più sodo. Ma la gente non aveva previsto che il numero dei figli sarebbe cresciuto e che, di conseguenza, il frumento extra prodotto avrebbe dovuto essere spartito tra un numero maggiore di bocche da sfamare. Questi primi agricoltori, poi, non capirono che nutrire i figli con più pappe e meno latte materno voleva dire indebolirne il sistema immunitario, e che gli insediamenti permanenti avrebbero costituito un focolaio di malattie infettive. Non capirono che, accrescendo la dipendenza da una singola fonte di cibo, in realtà si esponevano ancor più alle eventuali devastazioni causate dalla siccità. Né previdero che, nelle annate buone, i loro granai pieni avrebbero suscitato le attenzioni di ladri e nemici, costringendoli così a costruire mura e a fare la guardia.
Perché dunque gli umani non abbandonarono la coltivazione, visto che il progetto iniziale si rivelò controproducente? In parte perché ci vollero intere generazioni per attuare i piccoli cambiamenti atti a incrementare e trasformare la società: e a quel punto nessuno ricordava di essere mai vissuto in un modo diverso. E in parte perché, con la crescita demografica, l’umanità si bruciò i ponti alle spalle. Se l’adozione dell’aratura incrementava la popolazione di un villaggio da cento a centodieci unità, quali sarebbero stati i dieci individui a tirare la cinghia volontariamente in modo che gli altri potessero prosperare come ai vecchi tempi? Non si poteva tornare indietro. La trappola era scattata.
Il perseguimento di una vita più facile aveva portato a difficoltà maggiori, e non sarebbe stata l’ultima volta. Accade a noi anche oggi. Quanti giovani laureati abbracciano lavori impegnativi in aziende molto importanti, ripromettendosi di lavorare sodo per guadagnare presto tanti soldi così da potersi ritirare a trentacinque anni e dedicarsi alle cose che davvero li appassionano? Solo che, al momento in cui raggiungono quell’età, hanno pesanti mutui da pagare, i figli che vanno a scuola, una casa nei sobborghi residenziali che costringe la famiglia ad avere almeno due automobili e la sensazione che la vita non valga la pena di essere vissuta senza un buon vino a tavola e costose vacanze all’estero. Che cosa faranno giunti a questo punto? Torneranno forse a dissotterrare radici commestibili? No, raddoppieranno i loro sforzi e continueranno a lavorare come schiavi.
Una delle poche ferree leggi della storia è che i lussi tendono a diventare necessità e a produrre nuovi obblighi. Una volta che ci si abitua a un certo lusso, lo si dà per scontato. Si comincia col farvi affidamento e si arriva al punto da non poter vivere senza di esso. Durante gli ultimi decenni ci siamo inventati innumerevoli arnesi che fanno risparmiare tempo e ai quali si attribuisce la capacità di farci vivere più rilassati: lavatrici, aspirapolvere, lavastoviglie, telefoni, cellulari, computer, posta elettronica. Prima ci voleva un po’ di tempo per scrivere una lettera, apporre l’indirizzo, affrancare una busta e portarla fino alla buca della posta. E ci volevano giorni o settimane, magari anche mesi, per ricevere una risposta. Oggi, posso buttare giù una e-mail, inviarla dall’altra parte del globo e (se il mio destinatario è online) ricevere una risposta un minuto dopo. Ho risparmiato tutto quel traffico e quel tempo, ma davvero faccio una vita più rilassata?
Purtroppo no. Quando c’era la posta normale, la gente di solito scriveva lettere se aveva qualcosa d’importante da comunicare. Invece di scrivere la prima cosa che veniva in testa, considerava accuratamente ciò che voleva dire e in quale forma esprimerlo. Si aspettava, poi, di ricevere una risposta parimenti meditata. Le persone, per la maggior parte, scrivevano e ricevevano non più di una manciata di lettere al mese, e di rado si sentivano tenute a rispondere immediatamente. Oggi io ricevo decine di e-mail ogni giorno, tutte da persone che si aspettano una pronta risposta. Pensavamo che questo volesse dire risparmiare tempo; invece, abbiamo accelerato di dieci volte la ruota che macina la nostra vita, e reso i nostri giorni più ansiosi e agitati.
Qua e là c’è chi, con spirito luddista, si rifiuta di aprire un account di posta elettronica, come se migliaia di anni fa alcuni gruppi di umani si fossero rifiutati di fare gli agricoltori sfuggendo così alla trappola del lusso. Ma la Rivoluzione agricola non aveva bisogno che in ogni data regione ci fosse l’adesione di tutti i gruppi umani. Bastava solo aspettare. Una volta che un gruppo si installava in un posto e cominciava a lavorare la terra, fosse in Medio Oriente o nell’America centrale, la coltivazione agricola si mostrava irrinunciabile. Poiché la vita agricola creava le condizioni favorevoli a una veloce crescita demografica, gli agricoltori di solito non avevano difficoltà a soverchiare i cacciatori-raccoglitori attraverso il semplice peso dei numeri. I nomadi potevano sempre andarsene via, abbandonando i loro territori di caccia che sarebbero così diventati campi e pascoli, oppure attaccarsi all’aratro anche loro. Nell’un caso e nell’altro, il vecchio stile di vita era destinato a scomparire.
La storia della trappola del lusso porta con sé una lezione importante. La ricerca che l’umanità ha sempre condotto per avere una vita più facile ha liberato forze di cambiamento immense che hanno trasformato il mondo in un modo che nessuno aveva immaginato o voluto. Nessuno ha progettato la Rivoluzione agricola o cercato la dipendenza dalla coltivazione dei cereali. Una serie di decisioni banali e contingenti, indirizzate principalmente a riempire un po’ di pance vuote e a guadagnare un po’ di sicurezza, ebbero l’effetto cumulativo di condannare gli antichi cacciatori-raccoglitori a trascorrere le loro giornate trasportando secchi d’acqua sotto il sole cocente.
L’intervento divino
Lo scenario appena descritto parla dunque della Rivoluzione agricola come di un calcolo mal concepito. È molto plausibile. La storia è piena di calcoli fatti male. Ma c’è un’altra possibilità. Forse non fu la ricerca di una vita più semplice a produrre tale trasformazione. Forse i Sapiens avevano altre aspirazioni, e per raggiungerle scelsero con consapevolezza di complicarsi l’esistenza.
10. A sinistra: resti di una struttura monumentale scoperta a Göbekli Tepe. A destra: uno dei pilastri di pietra decorati (alto circa 5 metri).
10. A sinistra: resti di una struttura monumentale scoperta a Göbekli Tepe. A destra: uno dei pilastri di pietra decorati (alto circa 5 metri).
Di solito gli studiosi cercano di attribuire gli sviluppi storici a meri fattori economici e demografici. È una cosa che si adatta meglio ai loro metodi razionali e matematici. Ma nel caso della storia moderna, essi non possono trascurare fattori non-materiali come l’ideologia e la cultura. Sono le testimonianze a obbligarli a prendere questa direzione. Possediamo sufficienti documenti, lettere e memoriali per dimostrare che la seconda guerra mondiale non fu causata da carenze alimentari o pressioni demografiche. Non abbiamo invece alcun documento proveniente dalla cultura natufiana: ragion per cui, quando si parla epoche antiche, regna suprema la scuola materialista. È difficile dimostrare che popoli non ancora alfabetizzati potessero essere motivati da una fede invece che da una necessità economica.
Tuttavia, in alcuni rari casi, siamo sufficientemente fortunati da trovare indizi eloquenti. Nel 1995 alcuni archeologi cominciarono a scavare un sito nella Turchia sud-orientale chiamato Göbekli Tepe. Nello strato più antico non scoprirono alcun segno di insediamenti, case e attività quotidiane. Trovarono però strutture sostenute da pilastri e decorate con incisioni spettacolari. Ciascun pilastro di pietra pesava fino a sette tonnellate e raggiungeva l’altezza di cinque metri. In una cava vicina rinvennero un pilastro scolpito per metà e del peso di cinquanta tonnellate. Complessivamente, scoprirono oltre dieci strutture monumentali, la più ampia delle quali era larga quasi 30 metri.
Gli archeologi hanno familiarità con simili strutture monumentali, che si ritrovano in siti di tutto il mondo – l’esempio più noto è Stonehenge in Gran Bretagna. Quando però studiarono Göbekli Tepe fecero una scoperta sorprendente. Stonehenge risale al 2500 a.C. e fu costruito da una società agricola già piuttosto evoluta. Le strutture di Göbekli Tepe sono databili al 9500 a.C. circa, e tutte le prove lì riscontrabili indicano che furono erette da cacciatori-raccoglitori. Inizialmente la comunità archeologica ebbe difficoltà ad accettare questi risultati, ma diversi test confermarono sia la data remota delle strutture sia il fatto che a costruirle fossero stati i membri di una società preagricola. Dunque, le capacità degli antichi nomadi e la complessità delle loro culture erano da considerarsi molto più notevoli di quanto non si fosse immaginato in precedenza.
Perché mai una società di cacciatori-raccoglitori avrebbe dovuto erigere simili strutture? Esse non avevano alcun ovvio scopo utilitaristico. Non erano né luoghi di macellazione dei mammut né edifici in cui ripararsi dalla pioggia o nascondersi dai leoni. Rimane dunque in piedi la teoria secondo cui sarebbero state costruite per qualche misterioso scopo culturale che gli archeologi non riescono ancora completamente a decifrare. Quale che fosse questo scopo, i cacciatori-raccoglitori pensarono che valesse la pena impiegare tempo e fatica per edificarle. Göbekli Tepe può essere stata costruita in un unico modo: migliaia di nomadi appartenenti a differenti gruppi devono aver cooperato per un periodo di tempo piuttosto esteso. E solo un sofisticato sistema religioso o ideologico avrebbe potuto sostenere una simile impresa.
Göbekli Tepe conservava un altro sensazionale segreto. Per molti anni i genetisti hanno cercato di rintracciare le origini del frumento domesticato. Recenti scoperte indicano che almeno una variante domesticata – il farro piccolo – è originaria dei monti Karaçadag, a una trentina di chilometri da Göbekli Tepe.28
Difficile che si tratti di una coincidenza. È probabile che il centro culturale di Göbekli Tepe fosse in qualche modo connesso con l’iniziale domesticazione dei cereali da parte degli umani e viceversa. Per poter alimentare la gente che costruiva e usava quelle strutture monumentali, era necessaria una notevole quantità di cibo. Forse in quella circostanza i nomadi passarono dalla raccolta del frumento selvatico alla coltivazione intensa del medesimo, non tanto per incrementare la normale disponibilità di cibo, quanto piuttosto per sostenere l’opera di costruzione e la conduzione di un tempio. Secondo quanto si pensava di solito, i pionieri dapprima costruiscono un villaggio e, quando esso è diventato prospero, erigono un tempio nel mezzo. Il caso di Göbekli Tepe suggerisce invece l’ipotesi che il tempio sia stato costruito prima, e che il villaggio sia cresciuto in seguito intorno a esso.
Vittime della rivoluzione
Il patto faustiano tra gli umani e i cereali non fu l’unico stretto dalla nostra specie. Un altro riguardò il destino di animali quali pecore, capre, maiali e polli. I gruppi nomadi che facevano la posta alle pecore selvatiche alterarono gradualmente la composizione delle greggi che depredavano. È probabile che tale processo sia iniziato con una caccia di tipo selettivo. Gli umani avevano capito che cacciare solo i montoni adulti e le pecore vecchie o malate costituiva una scelta vantaggiosa. Le femmine fertili e gli agnelli venivano risparmiati allo scopo di salvaguardare la vitalità di lungo periodo dell’intero gregge. Il secondo passo potrebbe essere stato quello di difendere attivamente il gregge dai predatori, tenendo dunque lontani leoni, lupi e anche gruppi umani rivali. Più tardi, probabilmente, il gregge venne radunato all’interno di una stretta gola, così da controllarlo e proteggerlo ancora meglio. Infine si sarà pensato che conveniva fare un’attenta selezione tra le pecore, in modo che si conformassero alle esigenze umane. I montoni più aggressivi e che mostravano una maggiore resistenza al controllo umano venivano macellati per primi. La stessa sorte era riservata alle femmine più magre e a quelle più curiose (i pastori non vedono di buon occhio le pecore che tendono a uscire dal gregge). Una generazione dopo l’altra, le pecore divennero più grasse, più remissive e meno intraprendenti. Et voilà! “Mary ebbe il suo agnellino” (potremmo dire), pronto a seguirla ovunque lei andasse.
Secondo un’altra ipotesi, i cacciatori catturavano e “adottavano” un agnello, ingrassandolo durante i mesi d’abbondanza, per poi macellarlo nella stagione di carestia. A un certo punto cominciarono a tenere presso di sé un numero sempre più grande di agnelli. Alcuni di questi animali raggiunsero la maturità sessuale e iniziarono a riprodursi. Gli agnelli più aggressivi e ribelli erano i primi a essere macellati. I più remissivi invece potevano vivere più a lungo e procreare. Il risultato fu un gregge di pecore domesticate e sottomesse.
Questi animali domesticati – pecore, polli, asini e altri – fornivano cibo (carne, latte, uova), materie prime (pelli, lana) e potenza muscolare. Il trasporto, l’aratura, la macinatura e altri compiti, fino ad allora eseguiti dalla forza umana, furono affidati in misura sempre crescente agli animali. In numerose società dedite all’agricoltura, l’attività degli umani era incentrata sulla coltivazione di piante; allevare animali era un’occupazione secondaria. Ma in alcune regioni comparve un nuovo tipo di società, basata principalmente sullo sfruttamento degli animali: furono le tribù dei pastori.
Gli umani si diffusero in tutto il pianeta, e così fu anche per i loro animali domesticati. Circa 10.000 anni fa, solo pochi milioni di pecore, mucche, capre, cinghiali e polli vivevano in Africa e Asia, all’interno di nicchie ecologiche ben circoscritte. Oggi, nel mondo, ci sono circa un miliardo di pecore, un miliardo di maiali, più di un miliardo di bovini e oltre venticinque miliardi di polli. Sono sparsi su tutto il globo. Il pollo domesticato è il volatile più diffuso mai apparso sulla Terra. Dopo Homo sapiens, le mucche, i maiali e le pecore sono al secondo, terzo e quarto posto tra i grandi mammiferi più diffusi al mondo. Se si adotta una prospettiva strettamente evoluzionistica, che misura il successo in base al numero delle copie di DNA, la Rivoluzione agricola è stata una vera manna per i polli, le mucche, i maiali e le pecore.
Sfortunatamente, tale prospettiva restituisce una misurazione del successo piuttosto incompleta. Giudica ogni cosa secondo i criteri della sopravvivenza e della riproduzione, senza tenere in alcun conto la sofferenza e la felicità degli individui. I polli e le mucche domesticate potranno anche rappresentare un successo evoluzionistico, ma sono anche tra le creature più sventurate mai vissute. La domesticazione degli animali si fondò su una serie di pratiche brutali che col passare dei secoli non hanno fatto altro che incrudelirsi.
La durata di vita naturale del pollo selvatico è di circa sette-dodici anni, quella di un bovino è di venti-venticinque anni circa. Nel loro ambiente naturale, polli e mucche potevano morire molto prima di arrivare a quell’età, ma avevano anche buone possibilità di vivere per un discreto numero di anni. Viceversa, la grande maggioranza dei polli e dei bovini domesticati viene macellato quando hanno poche settimane e pochi mesi di vita, perché da un punto di vista economico quella è l’età ideale di macellazione. Perché nutrire un pollo per tre anni visto che ha già raggiunto il suo peso massimo dopo tre mesi?
Le galline da uova, le vacche da latte e le bestie da tiro hanno talvolta la possibilità di vivere per molti anni. Ma il prezzo è il soggiogamento a un modo di vita completamente estraneo ai loro stimoli e desideri. Per esempio, è ragionevole supporre che i buoi preferirebbero passare le loro giornate a vagare per vaste praterie in compagnia di altri buoi e mucche, invece di tirare carri e vomeri sotto il giogo imposto loro da una scimmia che brandisce la frusta.
11. Dipinto proveniente da una tomba egiziana, circa 1200 a.C. Una coppia di buoi tira l’aratro in un campo. In natura, i bovini girovagavano a piacimento in mandrie dalla complessa struttura sociale. Il bue castrato e domesticato passava la vita subendo la frusta e rinchiuso in uno stretto recinto, quando non veniva messo al lavoro, da solo o in coppia: tutte condizioni che non si adattavano né al suo corpo né alle sue necessità sociali ed emozionali. Quando un bue non ce la faceva più a tirare l’aratro, passava al macello. (Si noti la schiena curva dell’agricoltore egiziano che, similmente al bue, dedicava la vita a un duro lavoro, opprimente per il corpo, la mente e le relazioni sociali.)
11. Dipinto proveniente da una tomba egiziana, circa 1200 a.C. Una coppia di buoi tira l’aratro in un campo. In natura, i bovini girovagavano a piacimento in mandrie dalla complessa struttura sociale. Il bue castrato e domesticato passava la vita subendo la frusta e rinchiuso in uno stretto recinto, quando non veniva messo al lavoro, da solo o in coppia: tutte condizioni che non si adattavano né al suo corpo né alle sue necessità sociali ed emozionali. Quando un bue non ce la faceva più a tirare l’aratro, passava al macello. (Si noti la schiena curva dell’agricoltore egiziano che, similmente al bue, dedicava la vita a un duro lavoro, opprimente per il corpo, la mente e le relazioni sociali.)
Allo scopo di trasformare buoi, cavalli, asini e cammelli in obbedienti animali da soma, i loro istinti naturali e i loro legami sociali dovevano essere spezzati; bisognava smorzare la loro aggressività, moderare i loro istinti sessuali, limitare la loro libertà di movimento. Gli agricoltori svilupparono tecniche volte a questi scopi: chiusero gli animali dentro recinti e gabbie, li imbrigliarono con bardature e cinghie, li addestrarono con la frusta e gli speroni e li mutilarono. Il processo di addomesticamento quasi sempre comprendeva la castrazione dei maschi. Ciò limita la loro aggressività e consente agli umani di controllare selettivamente la procreazione all’interno del branco.
In numerose società della Nuova Guinea la ricchezza di una persona viene tradizionalmente determinata dal numero di maiali posseduti. Per assicurarsi che i maiali non scappino, gli agricoltori della Nuova Guinea settentrionale ancora adesso recidono un pezzo del naso dell’animale. Così, ogni volta che il maiale cerca di annusare, prova un dolore terribile. Poiché i maiali, senza annusare, non riescono a trovare cibo e neppure a girovagare, la mutilazione li rende completamente dipendenti dai loro proprietari. In un’altra zona della Nuova Guinea era costume, per di più, cavare gli occhi a queste povere bestie, di modo che non potessero neppure vedere dove andavano.29
Anche l’industria casearia ha i suoi sistemi per costringere gli animali a fare quel che vuole. Mucche, capre e pecore producono latte solo dopo aver messo al mondo vitelli, capretti e agnelli, e solo nel periodo in cui i piccoli sono poppanti. Per continuare ad avere la produzione di latte animale, un agricoltore ha bisogno quindi che ci siano vitelli, capretti e agnelli da allattare, facendo in modo però che non si accaparrino tutto il latte. Un metodo comune sempre usato lungo il corso della storia è stato semplicemente quello di macellare i vitelli e i capretti poco tempo dopo la nascita, mungere la madre finché è possibile e poi farla ingravidare di nuovo. È una tecnica ancora molto diffusa. In molti allevamenti di mucche da latte una mucca vive di solito circa cinque anni e poi viene macellata. Durante questi cinque anni, è gravida quasi costantemente, e viene inseminata entro due-quattro mesi dopo aver dato alla luce il vitello, allo scopo di ottenere il massimo della produzione lattiera di cui è capace. I suoi vitelli vengono separati da lei poco tempo dopo la nascita. Le femmine sono allevate per diventare la generazione successiva di mucche da latte, mentre i maschi passano alle cure dell’industria della carne.30
Un altro metodo è quello di tenere i vitelli e i capretti vicino alle madri, impedendogli però, con vari stratagemmi, di succhiare troppo latte. Il sistema più semplice è lasciare che il capretto o il vitello cominci a succhiare, staccandolo poi appena il latte comincia a fluire. Questo metodo incontra di solito la resistenza sia del piccolo sia della madre. Alcune tribù di pastori avevano l’abitudine di uccidere il piccolo, mangiare la sua carne e poi imbottire la sua pelle. Il piccolo impagliato veniva poi presentato alla madre in modo che la sua presenza la incoraggiasse a produrre latte. La tribù Nuer, nel Sudan, arrivava al punto di irrorare gli animali impagliati con l’urina della loro madre, conferendo ai vitelli camuffati un odore familiare. Un’altra tecnica dei Nuer consisteva nel legare un cerchio di rametti spinosi intorno alla bocca del vitello, in modo da pungere la madre, che a quel punto si rifiutava di allattarlo.31 Nel Sahara, i Tuareg allevatori di cammelli erano soliti bucare o tagliare parti del naso e del labbro superiore dei giovani cammelli allo scopo di rendere molto dolorosa la poppata, scoraggiandoli così dal consumare troppo latte.32
Non tutte le società agricole hanno mostrato tanta crudeltà nei confronti dei loro animali. La vita di certe bestie domesticate poteva essere del tutto apprezzabile. Le pecore allevate per la lana, i cani e i gatti da compagnia, i cavalli da guerra e quelli di razza hanno goduto spesso di condizioni piacevoli. Secondo quanto si tramanda, l’imperatore romano Caligola aveva ipotizzato di elevare Incitatus – il suo cavallo preferito – al rango di senatore. In vari momenti della storia pastori e agricoltori dimostrarono affetto per i loro animali e si presero grande cura di loro, così come molti padroni di schiavi mostrarono attaccamento e considerazione nei confronti dei loro schiavi. Non a caso re e profeti si richiamavano ai pastori, paragonando alla cura che il pastore aveva per il proprio gregge il modo in cui essi e gli dèi si curavano del proprio popolo.
Tuttavia, se consideriamo il punto di vista del gregge più che quello del pastore, è difficile negare che per la grande maggioranza degli animali domesticati la Rivoluzione agricola fu una terribile catastrofe. Il loro “successo” nel senso evoluzionistico venne pagato a un prezzo troppo caro. Il raro rinoceronte selvaggio che oggi è sull’orlo dell’estinzione è molto più soddisfatto del vitello che passa la sua breve vita in un minuscolo box, a ingrassare per produrre gustose costolette. Il rinoceronte è meno contento per il fatto di essere tra gli ultimi esemplari della propria specie. Il successo numerico della specie dei vitelli è una ben magra consolazione di fronte alle sofferenze che deve sopportare ciascun suo membro.
12. Vitello di un allevamento di bestiame da macello dei giorni nostri. Subito dopo la nascita, il vitello viene separato dalla madre e chiuso dentro una minuscola gabbia appena più grande di lui. Lì trascorre la sua intera breve vita – mediamente, quattro mesi circa. Non esce mai dalla gabbia, non gli è permesso di giocare con altri vitelli e nemmeno di camminare – così i suoi muscoli non si rafforzano. Muscoli teneri daranno bistecche morbide e succose. La prima volta in cui il vitello ha la possibilità di camminare, stirare i muscoli ed entrare in contatto con i suoi simili è nel tragitto per il mattatoio. In termini evoluzionistici, i bovini rappresentano una delle specie animali di maggior successo che siano mai esistite. Allo stesso tempo, sono tra gli animali più disgraziati del nostro pianeta.
12. Vitello di un allevamento di bestiame da macello dei giorni nostri. Subito dopo la nascita, il vitello viene separato dalla madre e chiuso dentro una minuscola gabbia appena più grande di lui. Lì trascorre la sua intera breve vita – mediamente, quattro mesi circa. Non esce mai dalla gabbia, non gli è permesso di giocare con altri vitelli e nemmeno di camminare – così i suoi muscoli non si rafforzano. Muscoli teneri daranno bistecche morbide e succose. La prima volta in cui il vitello ha la possibilità di camminare, stirare i muscoli ed entrare in contatto con i suoi simili è nel tragitto per il mattatoio. In termini evoluzionistici, i bovini rappresentano una delle specie animali di maggior successo che siano mai esistite. Allo stesso tempo, sono tra gli animali più disgraziati del nostro pianeta.
Tale discrepanza tra il successo evoluzionistico e la sofferenza individuale è probabilmente la lezione più importante che possiamo ricavare dalla Rivoluzione agricola. Quando studiamo la storia di piante come il frumento e il mais, può darsi che una prospettiva puramente evoluzionistica abbia senso. Tuttavia, nel caso di animali quali i bovini, gli ovini e i Sapiens, ciascuno con un complesso mondo di sensazioni e di emozioni, dobbiamo considerare come il successo evoluzionistico si traduca in esperienza individuale. Nei capitoli che seguono vedremo come assai di frequente il notevole incremento del potere collettivo e l’apparente successo della nostra specie siano andati di pari passo con grandi sofferenze dei singoli individui.
6.
Costruire piramidi
La Rivoluzione agricola è uno degli eventi più controversi della storia. I suoi sostenitori dicono che essa ha posto l’umanità sulla strada della prosperità e del progresso. Altri insistono nell’affermare che essa ha portato l’uomo alla perdizione. Fu la svolta decisiva, sostengono, in cui Homo sapiens rinnegò la propria intima simbiosi con la natura per iniziare una volata verso la cupidigia e l’alienazione. Ovunque questa scelta lo condusse, tornare indietro si rivelò impossibile. Fare l’agricoltore consentì alle diverse popolazioni di crescere così rapidamente che nessuna forma di società agricola avrebbe potuto di nuovo sostenersi se avesse optato per il ritorno alla caccia e alla raccolta. Intorno al 10.000 a.C., prima della transizione all’agricoltura, sulla Terra abitavano tra i cinque e gli otto milioni di cacciatori-raccoglitori nomadi. Nel I secolo d.C. ne restavano 1-2 milioni (principalmente in Australia, America e Africa): una quantità irrisoria rispetto ai 250 milioni di agricoltori sparsi nel mondo.33
La grande maggioranza degli agricoltori viveva in insediamenti permanenti; pochi erano i pastori nomadi. Stabilirsi in un posto significò per molti ridurre in misura drastica lo spazio in cui vivere. Gli antichi cacciatori-raccoglitori vivevano di solito in territori che coprivano diverse decine se non centinaia di chilometri quadrati. La loro “casa” era l’intero territorio, con i suoi monti, fiumi, boschi e cieli aperti. I contadini, invece, passavano la maggior parte della giornata in piccoli campi e frutteti, e la loro vita domestica si svolgeva all’interno di una piccola struttura di legno, pietra o fango, che misurava non più di qualche decina di metri quadri: la casa. Il tipico contadino sviluppò un attaccamento molto forte a questa struttura. Si trattò di una rivoluzione di enorme portata, il cui impatto fu tanto psicologico quanto architettonico. Da quel momento in poi, l’attaccamento per casa e la separatezza dai vicini diventarono la caratteristica psicologica di una creatura sempre più centrata su se stessa.
I nuovi territori agricoli non solo erano assai più piccoli rispetto a quelli dei vecchi cacciatori-raccoglitori, ma anche molto più artificiali. A parte l’uso del fuoco, i nomadi intervenivano in misura limitata sull’ambiente in cui giravano. Gli agricoltori, invece, vivevano dentro isole umane artificiali che si erano laboriosamente ritagliati in mezzo alla natura selvaggia. Abbattevano foreste, scavavano canali, sarchiavano campi, costruivano case, facevano solchi con l’aratro, interravano piante da frutto in bella fila. L’habitat artificiale che ne risultava era inteso solo per gli umani, le “loro” piante e i “loro” animali, per cui spesso veniva difeso da muri e protezioni varie. Le famiglie contadine facevano tutto quel che potevano per tenere alla larga le piante infestanti e gli animali selvatici. Quando questi intrusi riuscivano a entrare, venivano scacciati. Se persistevano, i loro antagonisti umani cercavano il modo di sterminarli. Si erigevano difese particolarmente forti intorno alla casa. Dagli albori dell’agricoltura fino ai giorni nostri, miliardi di umani – vuoi brandendo un ramo, uno scacciamosche, una scarpa, vuoi spruzzando un insetticida – hanno condotto una guerra senza posa contro le diligenti formiche, gli scarafaggi furtivi, i ragni avventurosi e gli incauti coleotteri che costantemente s’infilano nelle dimore degli umani.
Per la maggior parte della storia queste enclave create dall’uomo rimasero di dimensioni molto contenute, circondate da grandi estensioni di natura incontaminata. La superficie del nostro pianeta misura 510 milioni di chilometri quadrati, dei quali 155 milioni sono terre emerse. Ancora nel 1400 d.C. la grande maggioranza degli agricoltori, insieme alle loro piante e ai loro animali, era raggruppata in un’area di soli 11 milioni di chilometri quadrati – il 2% della superficie totale del pianeta.34 Altrove faceva troppo freddo o troppo caldo, il clima era troppo arido o troppo umido, o anche semplicemente inadatto alla coltivazione. Questo minuscolo 2% della superficie terrestre costituì il palcoscenico su cui si svolse la storia.
Gli umani trovavano difficile lasciare le loro isole artificiali. Non potevano abbandonare le loro case, campi e granai senza grave rischio. Inoltre, col passare del tempo, presero ad accumulare sempre più cose: oggetti non facilmente trasportabili che li tenevano legati. Ai nostri occhi gli agricoltori antichi potrebbero sembrare poverissimi, ma una loro famiglia tipo possedeva più manufatti di un’intera tribù di cacciatori-raccoglitori.
L’avvento del futuro
Mentre lo spazio agricolo diminuì, il tempo agricolo si espanse. Abitualmente, i cacciatori-raccoglitori non sprecavano troppo tempo a pensare alla settimana successiva o al mese venturo. Gli agricoltori, invece, viaggiavano con l’immaginazione spingendosi fino ad anni e decenni nel futuro.
Ai cacciatori-raccoglitori il futuro interessava poco perché vivevano alla giornata, e con difficoltà riuscivano a preservare cibo o ad accumulare cose proprie. Certo, s’impegnavano a fare qualche previsione. Quasi certamente i creatori delle pitture rupestri di Chauvet, Lascaux e Altamira le realizzarono perché durassero per generazioni. Le alleanze sociali e le rivalità politiche erano questioni a lungo termine. Spesso ci volevano anni per restituire un favore o far pagare un torto. Ciò nonostante, nell’economia di sussistenza in cui vivevano i cacciatori-raccoglitori, c’era un limite ovvio a tale programmazione a lungo termine. Paradossalmente ciò evitava un sacco di ansie. Non aveva senso preoccuparsi di cose che era impossibile governare.
La Rivoluzione agricola rese l’avvenire molto più importante di quanto non fosse mai stato in precedenza. Gli agricoltori dovevano tenere sempre a mente il futuro e dovevano essere al suo servizio. L’economia agricola si basava sui cicli di produzione stagionali, che comprendevano lunghi mesi di coltivazione seguiti dai brevi, intensi periodi dei raccolti. La notte successiva alla conclusione di un raccolto abbondante, i contadini potevano festeggiare, ma nel giro di una settimana dovevano essere di nuovo sui campi per una lunga giornata di lavoro. Anche se di cibo ce n’era abbastanza per oggi, per la settimana prossima o per il mese prossimo, bisognava preoccuparsi di come sarebbe andata l’anno successivo e quelli dopo ancora.
La preoccupazione per il futuro si radicava non soltanto nei cicli stagionali della produzione, ma anche nella fondamentale incertezza del sistema agricolo. Dato che, per la maggior parte, i villaggi fondavano la propria sussistenza su una varietà molto limitata di piante coltivate e di bestie domesticate, essi erano alla mercé della siccità, delle inondazioni e delle epidemie. I contadini erano obbligati a produrre più di quanto consumavano per poter costituire delle riserve. Senza grano nel silo, senza giare di olio d’oliva in cantina, senza formaggio in dispensa e salsicce appese ai travetti, negli anni di magra avrebbero patito la fame. E prima o poi gli anni di magra sarebbero arrivati. Il contadino che avesse ignorato questa realtà non sarebbe vissuto a lungo.
Di conseguenza, con l’avvento dell’agricoltura, le preoccupazioni circa il futuro iniziarono a ricoprire un ruolo di primo piano nel teatro della mente umana. Laddove i contadini dipendevano dalla pioggia per irrigare i loro campi, ogni mattina scrutavano l’orizzonte, annusando il vento e aguzzando gli occhi. Che cos’è, una nuvola quella? La pioggia arriverà in tempo? Ne cadrà abbastanza? Un temporale violento spazzerà via i semi dal campo, devastando le pianticelle? Nel frattempo, nelle valli dell’Eufrate, dell’Indo e del Fiume Giallo, altri contadini monitoravano, con non minore trepidazione, l’altezza dell’acqua. Avevano bisogno che i fiumi in piena depositassero sui terreni il limo fertile strappato agli altipiani, e che alimentassero d’acqua i loro vasti sistemi. Ma le piene troppo abbondanti o arrivate nel periodo sbagliato potevano distruggere i loro campi, esattamente come la siccità.
I contadini si concentravano sul futuro non solo perché avevano buoni motivi per temerlo, ma anche perché potevano fare qualcosa per modificarlo. Potevano dissodare un altro campo, scavare un altro canale d’irrigazione, seminare più sementi. D’estate il contadino ansioso lavorava senza posa, al pari di una formica raccoglitrice: piantava alberi d’ulivo il cui olio sarebbe stato spremuto solo dai propri figli e nipoti, e rimandava all’inverno o addirittura all’anno successivo il consumo di quel cibo che avrebbe tanto desiderato mangiare subito.
Lo stress dell’attività agricola ebbe conseguenze di vasta portata. Costituì le fondamenta dei sistemi politici e sociali di larga scala. Purtroppo i contadini diligenti quasi mai riuscivano a conquistare la sicurezza economica da loro tanto bramata mentre lavoravano duramente. Si imposero, ovunque, governanti o élite che li privavano del surplus di cibo da loro stessi prodotto, lasciandoli con il minimo indispensabile per sopravvivere.
Queste eccedenze di cibo sequestrato alimentarono la politica, la guerra, l’arte e la filosofia. Con esse furono costruiti palazzi, fortezze, monumenti e templi. Si può dire che, fino all’altro ieri, più del 90% degli umani era costituito da agricoltori che si alzavano ogni mattina a lavorare la terra con il sudore della fronte. L’extra che producevano andava alla minuscola minoranza delle élite – re e regine, funzionari governativi, soldati, preti, artisti e pensatori – che hanno riempito i libri di storia. La storia è stata determinata da pochissime persone, mentre tutti gli altri aravano campi e portavano secchi d’acqua.
Un ordine costituito immaginario
Le eccedenze di scorte alimentari prodotte dai contadini, insieme alle nuove tecnologie di trasporto, fecero sì che un numero sempre maggiore di persone vivesse insieme: dapprima in grandi villaggi, poi in cittadine, e infine in città vere e proprie, tutte collegate fra loro da nuovi regni e da nuove reti commerciali.
Tuttavia, per poter sfruttare queste nuove opportunità, non bastavano le eccedenze di prodotti alimentari e le migliorie nei trasporti. Il semplice fatto che si possa dare da mangiare a mille persone nella stessa cittadina o a un milione di persone nello stesso regno non garantisce che queste siano d’accordo su come spartire la terra e l’acqua, sul modo di comporre dispute e conflitti, e su come agire in tempi di siccità o di guerra. E, se non si riesce a raggiungere un accordo, le contese si propagano anche se i magazzini sono pieni. Non fu la carenza di cibo a causare la maggior parte delle guerre e delle rivoluzioni nella storia. La Rivoluzione francese fu capeggiata da ricchi uomini di legge, non da contadini affamati. La Roma repubblicana raggiunse il vertice della sua potenza nel I secolo a.C., quando da tutto il Mediterraneo navi piene di tesori vennero ad arricchire i Romani ben più di quanto i loro antenati avessero osato sognare. Eppure fu in questo momento che l’ordine politico crollò, distrutto da una serie di catastrofiche guerre civili. La Jugoslavia nel 1991 aveva risorse più che sufficienti per i suoi abitanti, e tuttavia si disintegrò in un terribile bagno di sangue.
Il problema alla radice di tali calamità è che gli umani, per milioni di anni, si evolsero all’interno di piccoli gruppi di poche decine di individui. I pochi millenni che separarono la Rivoluzione agricola dalla comparsa delle città, dei regni e degli imperi non rappresentarono un tempo sufficiente perché si sviluppasse un istinto di cooperazione di massa.
Nonostante la mancanza di simili istinti biologici, nell’era dei cacciatori-raccoglitori centinaia di persone erano in grado di cooperare grazie ai propri miti condivisi. La loro cooperazione, però, era debole, poco strutturata e limitata. Ogni gruppo di Sapiens continuava a condurre la propria vita in modo indipendente e a occuparsi delle proprie necessità. Un ipotetico sociologo vissuto 20.000 anni fa, prima della Rivoluzione agricola (e di tutti gli eventi che essa comportò), sarebbe probabilmente giunto alla conclusione che la mitologia aveva una portata piuttosto limitata. Le storie sugli spiriti ancestrali e sui totem tribali erano sufficientemente incisive da far sì che cinquecento persone avviassero un commercio di conchiglie, celebrassero qualche bizzarra festa o unissero le proprie forze per respingere un gruppo di Neanderthal, ma niente di più. La mitologia – avrebbe detto il nostro sociologo arcaico – non è in grado di far sì che milioni di persone estranee fra loro cooperino quotidianamente.
Ma si sarebbe sbagliato. Perché presto fu chiaro che i miti sono più forti di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. Quando la Rivoluzione agricola consentì di creare città affollate e imperi possenti, la gente cominciò a inventare storie su grandiose divinità, sacre patrie e società per azioni, così da rinsaldare i necessari legami sociali. Mentre l’evoluzione umana procedeva, come di consueto, a passo di lumaca, l’immaginazione umana stava erigendo sbalorditive reti di cooperazione di massa, quali non si erano mai viste sulla faccia della Terra.
Intorno all’8500 a.C. gli insediamenti più vasti al mondo erano villaggi come Gerico, che conteneva poche centinaia di persone. Nel 7000 a.C. nella cittadina di Çatalhöyük, in Anatolia, abitavano tra i cinque e i diecimila individui. Può darsi che fosse il più grande insediamento dell’epoca. Durante il V e IV millennio a.C. città con decine di migliaia di persone punteggiavano la Mezzaluna fertile, e ciascuna di esse dominava molti villaggi circostanti. Nel 3100 a.C. l’intera valle del basso Nilo venne unificata in quello che fu il primo regno egiziano. I faraoni governavano su migliaia di chilometri quadrati e centinaia di migliaia di individui. Intorno al 2250 a.C. Sargon il Grande creò il primo impero – quello accadico – che poteva vantare oltre un milione di sudditi e un esercito permanente di 5400 soldati. Fra il 1000 e il 500 a.C. comparvero in Medio Oriente altri grandi imperi: il neo-assiro, il babilonese e il persiano. Avevano milioni di sudditi ed erano difesi da eserciti di decine di migliaia di soldati.
Nel 221 a.C. la dinastia Qin unificò la Cina, e poco tempo dopo Roma unificò il bacino del Mediterraneo. Le tasse applicate su quaranta milioni di sudditi Qin consentivano di mantenere un esercito di centinaia di migliaia di soldati e un complesso sistema burocratico che occupava oltre centomila funzionari. All’apice della sua potenza, l’impero romano raccoglieva le imposte versate da cento milioni di contribuenti. Queste entrate erariali finanziavano un esercito permanente che contava tra duecentocinquantamila e mezzo milione di soldati; una rete stradale che millecinquecento anni dopo è ancora in uso; e teatri e anfiteatri che tuttora ospitano spettacoli.
Impressionante, senza dubbio. Ma non dobbiamo idealizzare le “reti di cooperazione di massa” che operavano nell’Egitto dei faraoni o nell’impero romano. Il termine “cooperazione” suona come qualcosa di altruistico, ma non sempre è volontario e di rado è egalitario. La maggior parte delle reti di cooperazione umana è stata sempre spinta verso l’oppressione e lo sfruttamento. I contadini pagarono questo spirito crescente di cooperazione con le loro preziose riserve di cibo, piombando nella disperazione quando l’esattore delle imposte si portava via un intero anno di duro lavoro con un singolo tratto di penna imperiale. I celebri anfiteatri romani erano spesso edificati da schiavi; lì i Romani ricchi e indolenti potevano assistere ai crudeli giochi gladiatori, durante i quali altri schiavi erano costretti a battersi fino alla morte. Persino le prigioni e i campi di concentramento sono reti di cooperazione, e possono funzionare solo perché migliaia di estranei riescono in qualche modo a coordinare le loro azioni.
Tutte queste reti di cooperazione – dalle città dell’antica Mesopotamia agli imperi come quello cinese o romano – si fondavano su un’idea di “ordine immaginario costituito”. Le norme sociali che le sostenevano non si basavano né su istinti radicati né su relazioni personali, ma su un comune credo in miti condivisi.
Come fanno i miti a sostenere interi imperi? Abbiamo già trattato un esempio di questo tipo: la Peugeot. Esaminiamo ora due dei più noti miti della storia: il Codice di Hammurabi del 1776 circa a.C., che servì da manuale di cooperazione per centinaia di migliaia di antichi Babilonesi, e la Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 d.C., che tuttora serve da manuale di cooperazione per centinaia di milioni di americani moderni.
Nel 1776 a.C. Babilonia era la più grande città del mondo. Probabilmente anche l’impero babilonese era il più grande esistente, con oltre un milione di sudditi. Copriva gran parte della Mesopotamia, comprendendo il grosso dell’attuale Iraq e alcune regioni della Siria e dell’Iran attuali. Il re babilonese oggi più famoso è Hammurabi. La sua fama è dovuta principalmente al testo che porta il suo nome, il Codice di Hammurabi. Era una raccolta di leggi e di sentenze giudiziarie i cui obiettivi erano presentare Hammurabi come modello del giusto re; costituire la base per un più uniforme sistema giudiziario che valesse per tutto l’impero; infine insegnare alle future generazioni che cosa fosse la giustizia e come dovesse agire un sovrano giusto.
Le future generazioni infatti ne tennero conto. L’élite intellettuale e burocratica dell’antica Mesopotamia fece di questo testo il proprio canone, e gli scribi continuarono a copiarlo per molto tempo anche dopo che Hammurabi era morto e il suo impero era ridotto in rovine. Il Codice di Hammurabi costituisce dunque una fonte preziosa per comprendere quale concetto gli antichi mesopotamici avessero dell’ordine sociale.35
Il testo inizia annunciando che Anu, Enlil e Marduk – le principali divinità del pantheon mesopotamico – avevano assegnato a Hammurabi il compito di “far sì che la giustizia prevalga sulla terra, di abolire la cattiveria e il male, di impedire che i forti opprimano i deboli”.36 Fa poi l’elenco di trecento sentenze, secondo la formula: “Se accade la cosa tal dei tali, questo è il giudizio”. Per esempio, le sentenze 196-199 e 209-214 recitano:
196. Se un uomo di rango cava l’occhio di un altro uomo di rango, gli si cavi il suo occhio.
197. Se egli rompe l’osso di un altro uomo di rango, gli si rompa il suo osso.
198. Se egli cava l’occhio di un uomo comune o rompe l’osso di un uomo comune, gli si facciano levare e consegnare 60 sicli d’argento.
199. Se egli cava l’occhio di uno schiavo di un uomo di rango o spezza l’osso di uno schiavo di un uomo di rango, gli si faccia levare e consegnare la metà del valore dello schiavo (in argento).37
209. Se un uomo di rango colpisce una donna di rango e con ciò le fa perdere il suo feto, gli si facciano levare e consegnare 10 sicli di argento per il suo feto.
210. Se quella donna ne muore, gli si uccida la figlia.
211. Se egli fa sì che una donna comune perda il suo feto per averla percossa, gli si facciano levare e consegnare 5 sicli d’argento.
212. Se quella donna ne muore, gli si facciano levare e consegnare 30 sicli d’argento.
213. Se egli percuote una schiava di un uomo di rango e in conseguenza di ciò ella perde il suo feto, gli si facciano levare e consegnare 2 sicli d’argento.
214. Se quella schiava ne muore, gli si facciano levare e consegnare 20 sicli d’argento.38
Dopo aver elencato i suoi principi di sentenza, Hammurabi dichiara ancora che:
Queste sono le giuste decisioni che Hammurabi, il bravo re, ha fissato indirizzando con ciò la terra sulla strada della verità e del corretto modo di vita... Io sono Hammurabi, nobile re. Io non sono stato indifferente o negligente verso l’umanità, attribuita alla mia cura dal dio Enlil, e della cui guida mi ha incaricato il dio Marduk.39
Il Codice di Hammurabi asserisce che l’ordine sociale babilonese è radicato su princìpi di giustizia universali ed eterni, dettati dagli dèi. Il principio di gerarchia è di somma importanza. Secondo il codice, la popolazione è suddivisa oltre che in due generi, anche in tre classi: gli individui di rango, i comuni e gli schiavi. A seconda del genere e della classe di appartenenza, le persone hanno un valore diverso. La vita di una donna comune vale 30 sicli d’argento e quella di una schiava 20 sicli, mentre l’occhio di un uomo comune vale 60 sicli d’argento.
Il codice stabilisce inoltre una stretta gerarchia all’interno della famiglia, secondo la quale i figli non sono persone indipendenti, ma proprietà dei loro genitori. Perciò, se un uomo di rango uccide la figlia di un altro uomo di rango, per punizione viene giustiziata la figlia dell’assassino. A noi può sembrare strano che all’assassino non sia fatto nulla, mentre viene uccisa la sua figlia innocente; ma ad Hammurabi e ai Babilonesi questo sembrava perfettamente normale. Il Codice di Hammurabi si basava sul presupposto che, se tutti i sudditi del re accettavano la propria posizione nell’ordine gerarchico e agivano di conseguenza, il milione di persone che vivevano nell’impero sarebbero state in grado di cooperare efficientemente. La loro società avrebbe quindi potuto produrre sufficiente cibo per i suoi membri, distribuirlo in maniera efficiente, proteggersi contro i nemici ed espandere i propri domini, in modo da acquisire maggiore benessere e una migliore sicurezza.
Circa 3500 anni dopo la morte di Hammurabi, gli abitanti delle colonie britanniche del Nord America si convinsero che il re di Gran Bretagna non li trattava in modo equo. I loro rappresentanti si riunirono nella città di Philadelphia, e il 4 luglio 1776 le colonie dichiararono che i loro abitanti non si consideravano più sudditi della Corona britannica. La loro Dichiarazione d’indipendenza proclamò princìpi di giustizia universali ed eterni che, al pari di quelli di Hammurabi, s’ispiravano all’autorità divina. Tuttavia il più importante principio dettato dal dio americano era diverso da quello degli dèi babilonesi. La Dichiarazione d’indipendenza americana asseriva:
Noi consideriamo le seguenti verità evidenti di per sé: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono stati dotati di alcuni diritti inalienabili dal loro Creatore; che tra questi diritti ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità.
Come il Codice di Hammurabi, il documento fondativo americano promette che, se gli umani agiscono secondo i suoi sacri princìpi, milioni di loro potranno cooperare efficientemente, vivendo senza pericoli e pacificamente in una società giusta e prospera. E proprio come il Codice di Hammurabi, la Dichiarazione d’indipendenza americana non fu un documento per un tempo e per un luogo: venne abbracciata anche dalle generazioni successive. Da oltre due secoli gli alunni americani la copiano e imparano a memoria.
Questi due testi ci mettono davanti a un ovvio dilemma. Sia il Codice di Hammurabi sia la Dichiarazione d’indipendenza americana sostengono di enunciare princìpi universali ed eterni di giustizia, solo che per gli americani tutti gli individui sono uguali, mentre per i Babilonesi le persone sono decisamente non uguali. Gli americani, naturalmente, direbbero che hanno ragione loro e che Hammurabi aveva torto. Hammurabi, naturalmente, replicherebbe dicendo che era lui ad avere ragione e che gli americani sbagliano. In realtà sono in errore entrambi. Sia Hammurabi sia i Padri Fondatori americani hanno immaginato una realtà governata da princìpi di giustizia universali e immutabili, quali l’eguaglianza e la gerarchia. Ma l’unico posto dove esistono simili princìpi è quello della fertile immaginazione dei Sapiens, quello dei miti che inventano e raccontano a se stessi. Questi princìpi non hanno alcuna validità obiettiva.
È facile per noi accettare il fatto che la divisione delle persone in “superiori” e “comuni” sia un parto dell’immaginazione. Tuttavia anche l’idea che tutti gli umani siano uguali è un mito. In che senso tutti gli umani sarebbero uguali tra loro? Esiste forse una realtà obiettiva, al di fuori dell’immaginazione umana, in cui siamo davvero tutti uguali? Siamo tutti uguali biologicamente? Cerchiamo di tradurre in termini biologici la frase più famosa della Dichiarazione d’indipendenza:
Noi consideriamo le seguenti verità evidenti di per sé: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono stati dotati di alcuni diritti inalienabili dal loro Creatore; che tra questi diritti ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità.
Secondo la biologia, gli uomini non sono stati “creati”. Essi si sono evoluti diventando tali. E certamente non si sono evoluti per essere “eguali”. L’idea di eguaglianza è inestricabilmente intrecciata con l’idea di creazione. Gli americani hanno acquisito il concetto di eguaglianza dal cristianesimo, il quale sostiene che ogni persona ha un’anima instillata per via divina e che tutte le anime sono eguali davanti a Dio. Tuttavia, se noi non crediamo nei miti cristiani su Dio, sulla creazione e sulle anime, cosa significa che tutti sono “eguali”? L’evoluzione si basa sulla differenza, non sull’eguaglianza. Ogni persona porta con sé un codice genetico che ha qualcosa di differente, ed è esposta fin dalla nascita alle differenti influenze ambientali. Ciò conduce allo sviluppo di differenti qualità che portano con sé differenti opportunità di sopravvivenza. “Creati eguali” dovrebbe dunque essere tradotto con “evoluti differentemente”.
Allo stesso modo per cui gli individui non sono stati creati eguali, non è stato neppure il “Creatore” a renderli “dotati” di alcunché. C’è stato unicamente un cieco processo evoluzionistico, privo di qualsiasi scopo, e ciò ha portato alla nascita degli individui che siamo. L’espressione “dotati dal loro Creatore” dovrebbe essere resa semplicemente con “nati”.
In modo analogo non esistono, in biologia, cose come i “diritti”. Ci sono solo organi, capacità e caratteristiche. Gli uccelli non volano perché hanno il diritto di volare, ma perché hanno le ali. E non è vero che questi organi, queste capacità e caratteristiche siano “inalienabili”. Sono invece passibili di costanti mutazioni e possono addirittura perdersi del tutto nel corso del tempo. Lo struzzo è un uccello che ha perduto la sua capacità di volare. Per cui l’espressione “diritti inalienabili” dovrebbe essere tradotta con “caratteristiche mutabili”.
E quali caratteristiche si sono evolute negli umani? La “vita”, certamente. Ma la “libertà”? Non esiste una cosa del genere in biologia. Al pari dell’eguaglianza, dei diritti e delle società a responsabilità limitata, anche la libertà è un ideale politico piuttosto che un fenomeno biologico. Da un punto di vista puramente biologico non c’è molta differenza tra i cittadini di una repubblica e i sudditi di un sovrano. Quanto alla “felicità”? Finora la ricerca biologica non è riuscita ad arrivare a una definizione di felicità che fosse misurabile oggettivamente. La maggior parte degli studi biologici riconosce soltanto l’esistenza del piacere, che è più facilmente definibile e misurabile. Così, “la vita, la libertà e il perseguimento della felicità” dovrebbe essere reso con “la vita e il perseguimento del piacere”.
Se si vuole dunque tradurre in termini biologici questo passo della Dichiarazione d’indipendenza americana, dovremmo dire:
Noi consideriamo le seguenti verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini si sono evoluti in modo differente, che essi sono nati con certe caratteristiche mutevoli, e che tra queste ci sono la vita e il perseguimento del piacere.
È possibile che i propugnatori dell’eguaglianza e dei diritti umani si sentano sdegnati di fronte a questa linea di ragionamento. Probabilmente, la loro risposta sarebbe: “Lo sappiamo bene che le persone non sono uguali biologicamente! Ma se noi crediamo che, sostanzialmente, siamo tutti uguali, questo ci consentirà di creare una società stabile e prospera.” In merito a ciò, io non ho niente da dire. Infatti, questo è esattamente quello che intendo con “ordine immaginario costituito”. Crediamo in un particolare ordine non perché sia oggettivamente vero, ma perché crederci ci permette di cooperare efficacemente e di forgiare una società migliore. Gli ordini immaginari non sono cospirazioni maligne o inutili miraggi. Sono invece l’unico modo con il quale grandi numeri di individui possono cooperare efficientemente. Si tenga in mente, però, che Hammurabi potrebbe difendere il suo principio di gerarchia usando la stessa logica: “Lo so benissimo che gli uomini di rango, i comuni e gli schiavi non sono in sé tipi differenti di persone. Ma se noi crediamo che lo siano, ciò ci consentirà di creare una società stabile e prospera.”
I veri credenti
È probabile che non pochi lettori si siano irritati nel leggere i precedenti paragrafi. Quasi tutti noi, oggi, siamo educati a reagire in questo modo. È facile accettare l’idea che il Codice di Hammurabi fosse un mito, ma non vogliamo assolutamente sentire che anche i diritti umani lo sono. Non c’è forse il pericolo che la nostra società crolli, se la gente si rende conto che i diritti umani esistono soltanto nella nostra immaginazione? Riguardo a Dio, Voltaire era solito affermare: “non esiste alcun Dio, ma non ditelo al mio domestico, se no di notte viene a uccidermi”. Hammurabi avrebbe detto la stessa cosa circa il suo principio di gerarchia e Thomas Jefferson circa i diritti umani. Homo sapiens non ha alcun diritto naturale, così come non hanno alcun diritto naturale i ragni, le iene e gli scimpanzé. Ma non diciamolo ai nostri domestici, altrimenti vengono a ucciderci durante la notte.
Tali paure sono del tutto giustificate. Un ordine naturale è un ordine stabile. È impossibile che domani la gravità smetta di funzionare – dovessimo anche smettere di crederci. Al contrario un ordine immaginario è sempre in pericolo di collassare, poiché poggia sui miti e i miti svaniscono una volta che non ci si crede più. Per salvaguardare un ordine immaginario sono indispensabili continui e strenui sforzi. Alcuni prendono la forma della violenza e della coercizione. Gli eserciti, le polizie, i tribunali e le prigioni sono incessantemente al lavoro per costringere gli individui ad agire in consonanza con l’ordine immaginario. Se un antico babilonese accecava il suo vicino di casa, di solito una certa violenza era necessaria per applicare la legge dell’occhio per occhio. Quando nel 1860 la maggioranza dei cittadini americani giunse alla conclusione che gli schiavi africani erano esseri umani e dovevano dunque godere del diritto di libertà, ci volle una sanguinosa guerra civile perché gli stati del Sud accettassero l’idea.
Tuttavia, un ordine costituito immaginario non può essere mantenuto con la sola violenza. Richiede anche che vi sia chi creda davvero in esso. Il principe di Talleyrand, che iniziò la sua camaleontica carriera sotto Luigi XVI, servì in seguito il regime rivoluzionario e poi quello napoleonico; mutò la sua fedeltà in tempo per finire i suoi giorni lavorando per la monarchia restaurata, e riassunse vari decenni di esperienza di governo dicendo che “si possono fare molte cose con le baionette, ma è piuttosto scomodo starci seduto sopra”. Un singolo prete può fare a volte il lavoro di cento soldati – molto più efficientemente e a costo più basso. Inoltre, quale che sia l’efficacia delle baionette, bisogna che ci sia chi le brandisce. Perché mai soldati, carcerieri, giudici e poliziotti dovrebbero mantenere un ordine costituito immaginario in cui non credono? Di tutte le attività collettive degli umani, la più difficile da organizzare è l’esercizio della violenza. Dire che un ordine sociale è mantenuto dalla forza militare suscita immediatamente la domanda: che cosa sostiene l’ordine militare? È impossibile organizzare un esercito con la semplice coercizione. Almeno alcuni dei comandanti e dei soldati devono per forza credere in qualcosa – sia esso Dio, l’onore, la madrepatria, la virilità o il denaro.
Un interrogativo ancora più interessante riguarda coloro che siedono al vertice della piramide sociale. Perché vorrebbero imporre un ordine costituito immaginario se non ci credessero essi stessi? Si sente comunemente sostenere che forse l’élite ci crede per cinica bramosia. Ma un cinico che non crede in nulla è difficile che sia bramoso. Non ci vuole poi molto per far fronte alle necessità biologiche oggettive di Homo sapiens. Una volta che siano state soddisfatte, si può spendere il denaro che avanza per costruire piramidi, fare vacanze intorno al mondo, finanziare una campagna elettorale, supportare la vostra organizzazione terroristica preferita o investire nel mercato azionario e accumulare ancora più denaro – tutte attività, queste, che un vero cinico troverebbe del tutto insensate. Diogene, il filosofo greco fondatore della scuola dei cinici, viveva in una botte. Una volta Alessandro Magno andò a trovarlo proprio mentre prendeva il sole, e gli chiese se c’era qualcosa che potesse fare per lui. Al che il cinico rispose al sommo conquistatore: “Sì. Spostati un po’ più in là, perché mi stai facendo ombra.”
Ecco perché i cinici non costruiscono imperi, ed ecco perché un ordine costituito immaginario può reggersi soltanto se ampi strati della popolazione – e in particolare ampi strati dell’élite e delle forze di sicurezza – credono veramente in esso. Il cristianesimo non esisterebbe da 2000 anni se la maggioranza dei vescovi e dei preti non avesse creduto in Cristo. La democrazia americana non durerebbe da due secoli e mezzo se la maggioranza dei presidenti e dei membri del Congresso non avesse creduto nei diritti dell’uomo. Il sistema economico moderno non resisterebbe un solo giorno se la maggioranza degli investitori e dei banchieri non credesse nel capitalismo.
Le mura della prigione
Come agire per far sì che la gente creda a un ordine costituito immaginario quale il cristianesimo, la democrazia o il capitalismo? Per prima cosa, non si deve ammettere mai che l’ordine è stato immaginato. Bisogna dire sempre che l’ordine in base al quale si regge la società è una realtà oggettiva creata dai grandi dèi o dalle leggi della natura. Gli individui sono ineguali non perché Hammurabi ha detto così, ma perché Enlil e Marduk l’hanno decretato. Gli individui sono eguali non perché Jefferson ha detto così, ma perché Dio li ha creati in quel modo. I mercati liberi sono il migliore sistema economico: non perché Adam Smith ha detto così, ma perché queste sono le leggi immutabili della natura.
Occorre poi una sistematica educazione delle persone. Fin da quando nascono, verranno costantemente indottrinate con i princìpi dell’ordine costituito immaginario: princìpi che saranno inseriti dappertutto. Eccoli così incorporati dentro favole, commedie, quadri, canzoni, regole del galateo, propaganda politica, architettura, ricette, moda. Per esempio, oggi la gente crede nell’eguaglianza, per cui è di moda per i ragazzi ricchi portare i jeans, originariamente un capo d’abbigliamento della classe operaia. Nell’Europa medievale si credeva nelle divisioni tra classi sociali, così a nessun giovane nobile sarebbe venuto in mente di mettersi un camiciotto da contadino. A quell’epoca sentirsi chiamare “signore” o “madama” era un privilegio raro, riservato alla nobiltà e spesso comprato col sangue. Oggi qualsiasi lettera formale comincia, a prescindere dal contenuto, con “Caro signore”, “Gentile signora”.
Le discipline umanistiche e le scienze sociali dedicano la maggior parte delle proprie energie al tentativo di spiegare esattamente come l’ordine costituito immaginario si intrecci nel tessuto della vita. Nello spazio limitato di cui disponiamo, possiamo solo scalfire la superficie del problema. Tre fattori principali impediscono alla gente di comprendere che l’ordine cui s’informa la loro esistenza esiste solo nella loro immaginazione – e sono i seguenti.
a. L’ordine costituito immaginario è incastonato nel mondo materiale.
Benché l’ordine immaginario esista solo nelle nostre menti, esso può essere intessuto nella realtà materiale, e persino scolpito nella pietra. Oggi gran parte degli occidentali crede nell’individualismo, crede che ogni essere umano sia un individuo, il cui valore non dipende da ciò che gli altri pensano di lui. Ciascuno di noi possiede all’interno di sé un brillante raggio di luce che dà valore e significato alla sua vita. Nelle moderne scuole dell’Occidente, insegnanti e genitori dicono ai bambini che, se i compagni di classe li prendono in giro, devono ignorare la cosa. Soltanto loro stessi, non altri, sanno qual è il proprio vero valore.
Nell’architettura moderna questo mito esce dall’immaginazione per prendere forma nella pietra e nella malta. La casa moderna ideale è suddivisa in diverse piccole stanze in modo che ciascun figlio possa avere un suo spazio privato, nascosto alla vista altrui e tale da dargli un massimo di autonomia. Questo spazio personale ha naturalmente una porta che, in molte case, secondo una pratica accettata, il figlio quasi sempre ha la possibilità di chiudere anche a chiave. Persino ai genitori è proibito entrare senza bussare e chiedere permesso. La stanza in questione è decorata nel modo che il figlio ritiene giusto, con i poster delle rock star alle pareti e con i calzini sporchi sul pavimento. Chi cresce in un simile spazio non può fare a meno di immaginarsi come un “individuo”, il cui valore emana dall’interno e non dall’esterno.
I nobili medievali non credevano nell’individualismo. Il valore di una persona era determinato dal posto che occupava nella gerarchia sociale e da ciò che gli altri dicevano di essa. Venire derisi era un disonore orribile. I nobili insegnavano ai loro figli a difendere la propria reputazione a qualsiasi costo. Come nel moderno individualismo, il sistema medievale dei valori valicava l’immaginazione e si manifestava nella solida pietra dei castelli. Il castello di rado conteneva stanze private destinate ai figli (o, se per questo, destinate a chiunque). Il figlio adolescente di un barone medievale non aveva una stanza personale al secondo piano del castello, con i poster di Riccardo Cuor di Leone e di re Artù alle pareti e la porta chiusa che i genitori non avevano il permesso di aprire a piacimento. Egli dormiva accanto a molti altri giovani in una grande sala. Era sempre in mostra, e doveva sempre tener conto di ciò che gli altri potevano vedere e dire. Chi cresceva in simili condizioni concludeva naturalmente che il vero valore di un uomo era determinato dal suo posto nella gerarchia sociale e da ciò che gli altri dicevano di lui.40
b. L’ordine costituito immaginario modella i nostri desideri.
La maggior parte delle persone non vuole accettare il fatto che l’ordinamento che governa la loro esistenza sia immaginario. Ma in effetti ognuno nasce in seno a un ordine immaginario preesistente, e i suoi desideri sono modellati fin dalla nascita dai miti che caratterizzano quell’ordine. I nostri desideri personali, dunque, diventano le più importanti difese dell’ordine costituito immaginario.
Per esempio i desideri più coltivati degli occidentali del nostro tempo sono modellati da miti romantici, nazionalisti, capitalisti e umanisti che esistono da secoli. Gli amici che danno consigli si dicono spesso: “Segui il tuo cuore”. Ma il cuore è un doppiogiochista che di solito prende ordini dai miti dominanti in quel momento, e la stessa raccomandazione “Segui il tuo cuore” è stata impiantata nelle nostre menti da una combinazione di miti romantici ottocenteschi e miti consumistici del Novecento. La Coca-Cola, per esempio, ha commercializzato nel mondo la Diet Coke con lo slogan “Diet Coke. Do what feels good” (“Fa’ quello che senti sia bene”).
Anche i desideri che la gente ritiene più personali di solito sono programmati dall’ordine costituito immaginario. Si prenda in considerazione, per esempio, il diffuso desiderio di fare una vacanza all’estero. Non c’è niente di naturale e di ovvio in questo. Uno scimpanzé maschio alfa del proprio branco non si sognerebbe mai di usare il suo potere per andare in vacanza nel territorio di un branco dei dintorni. I membri dell’élite dell’antico Egitto spendevano i loro capitali per costruire piramidi e far mummificare i propri corpi, ma nessuno pensava di andare a fare shopping a Babilonia o una vacanza sugli sci in Fenicia. Oggi la gente spende un sacco di soldi per le vacanze all’estero perché ha una fede cieca nei miti del consumismo romantico.
Il romanticismo ci dice che, allo scopo di trarre il massimo vantaggio dal nostro potenziale umano, dobbiamo fare quante più esperienze possibile. Dobbiamo aprirci a un ampio spettro di emozioni; dobbiamo provare vari tipi di rapporti personali; dobbiamo assaggiare molte cucine diverse; dobbiamo imparare ad apprezzare differenti stili musicali. Uno dei modi migliori per realizzare tutto questo è rompere la nostra routine quotidiana, lasciarci alle spalle lo scenario familiare e partire per terre lontane, dove possiamo “vivere” la cultura, gli odori, i gusti e i costumi di altri popoli. In continuazione sentiamo evocare i miti romantici su come “una nuova esperienza mi ha aperto gli occhi e cambiato la vita”.
Il consumismo ci dice che, per essere felici, dobbiamo consumare quanti più prodotti e servizi possibili. Se abbiamo la sensazione che qualcosa ci manchi o non sia proprio come si deve, probabilmente abbiamo bisogno di comprare un prodotto (una macchina, nuovi vestiti, cibo biologico) o un servizio (un aiuto in casa, una terapia di relazione, corsi di yoga). Ogni pubblicità televisiva è una piccola leggenda su come consumare un dato prodotto migliorerà la nostra vita.
Il romanticismo, che incoraggia la varietà, si combina benissimo con il consumismo. La loro unione ha dato vita a quell’infinito “mercato di esperienze” su cui è fondata la moderna industria del turismo. Quest’ultima non vende biglietti aerei e camere d’albergo. Vende esperienze. Parigi non è una città, l’India non è un paese – sono entrambe esperienze, al consumo delle quali si attribuisce un ampliamento dei nostri orizzonti, un contributo al nostro potenziale umano, un incremento della nostra felicità. Di conseguenza, quando i rapporti tra un milionario e sua moglie stanno attraversando un periodo difficile, lui decide di portarla a fare una costosa vacanza a Parigi. Il viaggio sarà il riflesso non di qualche desiderio isolato, ma di una fede ardente nei miti del consumismo romantico. Nell’antico Egitto un uomo facoltoso non si sarebbe mai sognato di risolvere una crisi matrimoniale portando la moglie in vacanza a Babilonia. Piuttosto, avrebbe fatto costruire per la consorte la sontuosa tomba che lei aveva sempre voluto.
Al pari dei membri dell’élite dell’antico Egitto, moltissime persone di tante culture diverse dedicano la loro vita a costruire piramidi. Da una cultura all’altra cambiano solo i nomi, le forme e le dimensioni di queste piramidi. Esse possono assumere la forma, per esempio, di un cottage in un sobborgo residenziale, con tanto di piscina e di prato all’inglese, oppure di uno splendido attico con una vista invidiabile. Pochi sono quelli che mettono in discussione i miti che ci fanno desiderare la piramide.
c. L’ordine costituito immaginario è intersoggettivo.
Anche se con qualche sforzo sovrumano sono riuscito a liberare i miei personali desideri dall’influsso dell’ordine costituito immaginario, io sono un singolo individuo. Per cambiare l’ordine immaginario, devo per forza convincere milioni di estranei a cooperare con me. Perché l’ordine immaginato non è un ordine soggettivo che esiste soltanto nella mia immaginazione: è piuttosto un ordine intersoggettivo, radicato nell’immaginazione condivisa di migliaia o milioni di persone.
Per comprendere bene questo concetto, occorre che capiamo le differenze tra “oggettivo”, “soggettivo” e “intersoggettivo”.
Un fenomeno oggettivo esiste indipendentemente dalla consapevolezza umana e dalle credenze umane. La radioattività, per esempio, non è un mito. Le emissioni radioattive c’erano molto prima che noi le scoprissimo, e sono pericolose anche se noi non crediamo che ci siano. Marie Curie, tra gli scopritori della radioattività, non sapeva, durante i lunghi anni in cui studiava i materiali radioattivi, che questi potevano danneggiare il suo corpo. Anche se non credeva che la radioattività potesse ucciderla, ciò nonostante morì di anemia aplastica, una malattia mortale causata dalla sovraesposizione a materiali radioattivi.
Il fenomeno soggettivo è invece qualcosa la cui esistenza dipende dalla coscienza e dalle credenze di un individuo. Scompare o muta se quel particolare individuo cambia le sue convinzioni. Molti bambini credono nell’esistenza di un amico immaginario, che è invisibile e inudibile per il resto del mondo. L’amico immaginario esiste solamente nella coscienza soggettiva del bambino, e quando il bambino cresce e cessa di credervi, l’amico immaginario svanisce.
Il fenomeno intersoggettivo, infine, esiste all’interno di una rete di comunicazione che collega la coscienza soggettiva di molti individui. Se un singolo individuo cambia le sue credenze o muore, ciò ha poca importanza. Però se la maggior parte degli individui della rete muore o cambia le proprie credenze, il fenomeno intersoggettivo potrà mutare o scomparire. I fenomeni intersoggettivi non sono né imposture malevole né farse insignificanti. Esistono in forma diversa rispetto ai fenomeni fisici, come la radioattività, ma il loro impatto sul mondo può essere enorme. Molti dei più importanti motori della storia sono intersoggettivi: le leggi, le divinità, le nazioni.
La Peugeot, per esempio, non è l’amico immaginario dell’amministratore delegato della Peugeot. La società esiste nell’immaginazione condivisa di milioni di persone. L’amministratore delegato crede nell’esistenza della società perché ci credono anche i membri del consiglio d’amministrazione, come pure i legali della società, le segretarie dell’ufficio accanto, gli impiegati della banca, i broker della borsa e i venditori delle macchine Peugeot dalla Francia all’Australia. Se l’amministratore delegato, lui solo, dovesse improvvisamente smettere di credere nell’esistenza della Peugeot, sarebbe ricoverato alla svelta nel più vicino ospedale psichiatrico, e qualcun altro andrebbe a ricoprire il suo posto.
Allo stesso modo, il dollaro, i diritti umani e gli Stati Uniti d’America esistono nell’immaginazione condivisa di miliardi di persone; e nessun individuo, da solo, ne potrebbe minacciare l’esistenza. Se io mi facessi avanti a dire che non credo nel dollaro, nei diritti umani o negli Stati Uniti, la cosa non importerebbe un granché. Questi ordini costituiti immaginari sono intersoggettivi; per poterli cambiare dovremmo cambiare simultaneamente la coscienza di miliardi di persone, il che non è facile. Un cambiamento di tale dimensione potrebbe essere conseguito solo con l’aiuto di un’organizzazione strutturata come un partito politico, un movimento ideologico, un culto religioso. E comunque, per costituire tale organizzazione complessa sarebbe necessario convincere molti estranei a cooperare l’uno con l’altro. E ciò può accadere soltanto se questi estranei credono in alcuni miti condivisi. Ne consegue che, per cambiare un ordine costituito immaginario vigente, prima dobbiamo credere in un ordine immaginario alternativo.
Se volessimo per esempio smantellare la Peugeot, avremmo bisogno di immaginare qualcosa di più potente, come il sistema giudiziario francese. Per smantellare il sistema giudiziario francese ci servirebbe immaginare qualcosa di ancor più potente, come lo stato francese. E se volessimo smantellare anche quello, dovremmo di nuovo immaginare qualcosa di ancor più potente.
Non c’è modo di uscire dall’ordine costituito immaginario. Quando noi abbattiamo le mura della nostra prigione e corriamo verso la libertà, di fatto corriamo verso il cortile di ricreazione più ampio di una prigione più grande.
7.
Memoria sovraccarica
L’evoluzione non ha dotato gli umani della capacità di giocare a calcio. Certo, ha dato loro gambe per calciare, gomiti per fare ostruzionismo, bocche per inveire, ma tutto ciò ci consente al massimo di allenarci a tirare calci di rigore da soli. Per metterci a fare una partita con gli estranei che troviamo nel cortile di una scuola in un pomeriggio qualsiasi, non solo dobbiamo agire di concerto con dieci compagni che magari non abbiamo mai visto prima; dobbiamo sapere anche che gli undici giocatori della squadra avversaria stanno giocando con le stesse regole. Altri animali che coinvolgono estranei in aggressioni ritualizzate lo fanno principalmente per istinto: le regole per azzuffarsi e fare la lotta sono innate, scritte nei geni di tutti i cuccioli del pianeta. Ma gli adolescenti umani non hanno i geni del calcio. Possono tuttavia giocare una partita insieme a perfetti sconosciuti perché hanno imparato tutti un’identica serie di concetti riguardo al calcio. Questi concetti sono interamente immaginari; ma, se ciascuno di noi li fa propri, possiamo giocare tutti insieme la partita.
Lo stesso vale, su scala più ampia, per i regni, le chiese e le reti commerciali, con un’importante differenza. Le regole del calcio sono relativamente semplici e concise, si può dire molto simili a quelle che erano necessarie per cooperare all’interno di un gruppo di cacciatori-raccoglitori o in un piccolo villaggio. Ogni giocatore può immagazzinarle facilmente nella sua testa e avere ancora spazio per memorizzare canzoni, immagini, liste di cose da comprare. Ma grandi sistemi di cooperazione che coinvolgono non ventidue ma migliaia o anche milioni di umani richiedono la gestione e l’immagazzinamento di enormi quantità di informazioni, molte di più di quelle che un singolo cervello umano possa contenere ed elaborare.
Le società estese riscontrate in alcune altre specie, come formiche e api, sono stabili e resilienti perché la maggior parte delle informazioni di cui hanno bisogno per sostenersi sono codificate nel genoma. Ad esempio, una larva di ape domestica femmina può crescere per diventare o una regina o un’operaia a seconda del cibo con cui è nutrita. Il suo DNA programma i comportamenti necessari per l’uno e per l’altro ruolo. Gli alveari possono essere strutture sociali assai complesse, in cui ci sono molti tipi diversi di operaie – coglitrici, balie e pulitrici, per fare degli esempi. Ma fino a questo momento gli studiosi non hanno individuato api avvocate. Le api non hanno bisogno di patrocinatori legali perché non c’è pericolo che possano dimenticare o violare la costituzione dell’alveare. La regina non inganna le api pulitrici dando loro meno cibo, e nessuna di esse sciopera chiedendo salari più alti.
Invece gli umani fanno continuamente cose di questo genere. Dato che l’ordine sociale dei Sapiens è frutto di un’astrazione, gli umani non possono preservare le informazioni necessarie a riprodurlo facendo semplicemente repliche del DNA e trasmettendole di generazione in generazione. Per sostenere le leggi, i costumi, le procedure e i modelli di comportamento occorre fare uno sforzo consapevole, altrimenti l’ordine sociale crollerebbe alla svelta. Per esempio re Hammurabi decretò che il popolo era suddiviso tra individui di rango, comuni e schiavi. Non è una partizione naturale, nel senso che non ve n’è traccia nel genoma umano. Se i Babilonesi non fossero riusciti a tenere in testa questa “verità”, la loro società avrebbe cessato di funzionare. Analogamente, quando Hammurabi trasmise il suo DNA alla propria progenie, non vi codificò la sua disposizione di legge per cui un uomo di rango che uccideva una donna comune doveva pagare 30 sicli d’argento. Hammurabi dovette istruire deliberatamente i suoi figli riguardo alle leggi del suo impero, e i suoi figli e nipoti fecero lo stesso.
Gli imperi producono enormi quantità di informazioni. Oltre alle leggi, devono registrare transazioni e tasse, inventari delle forniture militari e delle navi mercantili, calendari delle ricorrenze e delle vittorie. Per milioni di anni gli individui hanno immagazzinato informazioni in un unico posto: il loro cervello. Sfortunatamente il cervello umano non è uno strumento di archiviazione adatto a database così estesi, e ciò per tre principali ragioni.
Per prima cosa, esso ha capacità limitata. Certo, alcune persone posseggono una memoria straordinaria, e nei tempi antichi c’erano professionisti della memoria che potevano immagazzinare nella loro testa la topografia di intere province e i codici di interi stati. Ciò nonostante, esiste un limite che neppure i grandi mnemonisti possono trascendere. Un avvocato potrebbe anche imparare a memoria tutto il codice delle leggi del Commonwealth del Massachusetts, ma non i dettagli di ogni procedimento legale che abbia avuto luogo nel Massachusetts dai processi alle streghe di Salem in avanti.
In secondo luogo, gli umani sono destinati a morire, e i loro cervelli muoiono con loro. Una data informazione contenuta in un cervello si cancellerà in meno di un secolo. Naturalmente è possibile trasmettere le memorie da un cervello a un altro, ma dopo alcuni passaggi l’informazione tende ad alterarsi o a svanire.
Terzo fattore, il più importante di tutti: il cervello umano si è adattato a immagazzinare e a elaborare solo particolari tipi di informazioni. Per sopravvivere, gli antichi cacciatori-raccoglitori avevano bisogno di ricordare le forme, le qualità e i modelli di comportamento di migliaia di piante e di animali. Dovevano ricordare che quel grinzoso fungo giallo che cresce in autunno sotto l’olmo molto probabilmente è velenoso, mentre il fungo d’aspetto simile che cresce d’inverno sotto la quercia è un buon rimedio per il mal di stomaco. I cacciatori-raccoglitori, inoltre, dovevano tenere in mente le opinioni di diverse decine di membri del loro gruppo e ricordare i rapporti tra loro. Se Lucy aveva bisogno che un membro del gruppo l’aiutasse a far sì che John la smettesse di tormentarla, per lei era importante ricordare che John la settimana scorsa aveva litigato con Mary, la quale sarebbe stata così una probabile e pronta alleata. Insomma, le urgenze dell’evoluzione avevano adattato il cervello umano a immagazzinare enormi quantità di informazioni di carattere botanico, zoologico, topografico e relazionale.
Ma quando, sulla scia della Rivoluzione agricola, cominciarono a comparire forme di società particolarmente complesse, diventò vitale un tipo d’informazione del tutto nuovo: quello costituito dai numeri. I cacciatori-raccoglitori non erano mai stati obbligati a ricordare, poniamo, il numero di frutti su ogni albero della foresta. E così i cervelli umani non si erano adattati a immagazzinare e a elaborare cifre. Però, per poter mantenere in piedi un grande regno, i dati matematici diventavano indispensabili. Non bastava formulare leggi e costruire storie sugli dèi protettori. Si dovevano riscuotere tasse. Per riuscire a tassare centinaia di migliaia di persone, era essenziale raccogliere informazioni sui redditi e sui beni delle persone, registrare i pagamenti effettuati, calcolare gli arretrati, le pendenze e le ammende, annotare le riduzioni e le esenzioni accordate. Raccogliere, cioè, milioni di dati, che andavano conservati ed elaborati. Senza questa capacità, lo stato non avrebbe mai saputo su quante risorse poteva contare, e quali altre avrebbe potuto racimolare. Trovandosi di fronte alla necessità di memorizzare, ricordare e maneggiare tutti questi numeri, la maggior parte dei cervelli umani si sentì stordita o piombò nel sonno.
Tale limitazione mentale ostacolò fortemente la grandezza e la complessità delle forme di vita collettiva. Quando in una società il numero delle persone e delle proprietà superava una certa soglia critica, diventava necessario immagazzinare ed elaborare una grande quantità di dati matematici. Poiché il cervello umano non riusciva a farvi fronte, il sistema crollava. Per migliaia di anni dopo la Rivoluzione agricola, dunque, le reti sociali umane rimasero relativamente piccole e semplici.
I primi a superare il problema furono gli antichi Sumeri, che vivevano nella Mesopotamia meridionale. Lì il sole cocente che irradiava fertili pianure fangose garantiva raccolti abbondanti, permettendo la nascita di prospere città. Con il crescere del numero dei loro abitanti, aumentarono naturalmente le informazioni necessarie a coordinare i loro affari. Fra il 3500 e il 3000 a.C. alcuni Sumeri, geniali ma rimasti anonimi, inventarono un sistema per immagazzinare ed elaborare le informazioni senza doverle tenere a mente, fatto apposta per gestire grandi quantità di dati matematici. Così facendo, i Sumeri riuscirono a svincolare il proprio ordinamento sociale dalle limitazioni poste dal cervello umano, aprendo la strada alla formazione di città, regni e imperi. Tale processo di elaborazione dei dati inventato dai Sumeri è chiamato scrittura.
Firmato, Kushim
La scrittura è un metodo che consente di immagazzinare dati per mezzo di segni specifici. Il sistema di scrittura sumero ci riuscì combinando due tipi di segni che venivano incisi su tavolette d’argilla. Il primo tipo rappresentava i numeri. C’era il segno per 1, 10, 60, 600, 3600 e 36.000. (I Sumeri utilizzavano una combinazione di due sistemi di numerazione: uno in base 6 e uno in base 10. Il primo di essi, quello basato sui multipli di 6, ci ha lasciato diverse importanti eredità, come la divisione della giornata in 24 ore e del cerchio in 360 gradi.) L’altro tipo di segni serviva a rappresentare le persone, gli animali, le merci, i territori, le date e così via. Combinando i due tipi di segni, i Sumeri furono in grado di conservare più dati di quanti un cervello umano riuscisse a ricordare, o un DNA con la sua doppia elica potesse codificare.
13. Una tavoletta d’argilla contenente un testo amministrativo, dalla città di Uruk, circa 3400-3000 a.C. “Kushim” può essere un generico titolo di un funzionario, oppure il nome proprio di un individuo. (E, in questo caso, costui sarebbe il primo uomo della storia di cui conosciamo il nome!) Tutti i nomi relativi a periodi precedenti della storia umana – i Neanderthal, i Natufiani, la Grotta Chauvet, Göbekli Tepe – sono invenzioni moderne. Noi non abbiamo idea di come i costruttori di Göbekli Tepe chiamassero quel sito. Grazie alla comparsa della scrittura, invece, possiamo cominciare a sentire la storia attraverso le orecchie dei suoi protagonisti. Quando i vicini di casa di Kushim volevano chiamarlo, è possibile che gridassero appunto “Kushim!” È significativo che il primo nome registrato dalla storia appartenga a un contabile e non a un profeta, un poeta o un conquistatore.41
13. Una tavoletta d’argilla contenente un testo amministrativo, dalla città di Uruk, circa 3400-3000 a.C. “Kushim” può essere un generico titolo di un funzionario, oppure il nome proprio di un individuo. (E, in questo caso, costui sarebbe il primo uomo della storia di cui conosciamo il nome!) Tutti i nomi relativi a periodi precedenti della storia umana – i Neanderthal, i Natufiani, la Grotta Chauvet, Göbekli Tepe – sono invenzioni moderne. Noi non abbiamo idea di come i costruttori di Göbekli Tepe chiamassero quel sito. Grazie alla comparsa della scrittura, invece, possiamo cominciare a sentire la storia attraverso le orecchie dei suoi protagonisti. Quando i vicini di casa di Kushim volevano chiamarlo, è possibile che gridassero appunto “Kushim!” È significativo che il primo nome registrato dalla storia appartenga a un contabile e non a un profeta, un poeta o un conquistatore.41
In questo stadio iniziale, la scrittura era limitata a registrare eventi e numeri. Il grande romanzo sumero – ammesso che ne sia esistito uno – di certo non fu affidato alle tavolette d’argilla. La scrittura richiedeva molto tempo e il pubblico che sapeva leggere era molto ristretto: non c’era ragione di usarla per scopi diversi dalla mera registrazione di informazioni. I primissimi messaggi che i nostri antenati ci hanno lasciato recitano, per esempio: “29.086 misure orzo 37 mesi Kushim”. La più probabile lettura di questa frase è: “Un totale di 29.086 misure di orzo è stato ricevuto nel corso di 37 mesi. Firmato, Kushim.” Ahimè, i primi testi della storia non contengono pensieri filosofici né poesie, leggende, leggi o cronache sul trionfo di qualche sovrano. Sono banali documenti economici, registrazioni di pagamenti di tasse, conteggi di debiti, certificazioni di proprietà.
Un sistema scrittorio parziale non può esprimere l’intero spettro della lingua parlata, ma può esprimere cose che cadono fuori della sfera della lingua parlata. Sistemi scrittòri parziali, come l’antica scrittura sumera o la scrittura matematica, non possono essere usati per scrivere poesie, ma possono registrare con grande efficacia le informazioni contabili.
Un sistema scrittorio parziale non può esprimere l’intero spettro della lingua parlata, ma può esprimere cose che cadono fuori della sfera della lingua parlata. Sistemi scrittòri parziali, come l’antica scrittura sumera o la scrittura matematica, non possono essere usati per scrivere poesie, ma possono registrare con grande efficacia le informazioni contabili.
Ci resta solo un altro tipo di testo risalente a quegli antichi giorni, ed è ancor meno eccitante: sono elenchi di parole, copiate più e più volte da apprendisti scribi come esercizio di scrittura. Anche se uno studente annoiato avesse voluto scrivere una sua poesia invece di copiare una fattura commerciale, non avrebbe potuto farlo. La primissima scrittura sumera è un sistema scrittorio parziale e non totale. Una scrittura totale è un insieme di segni materiali in grado di rappresentare più o meno completamente una lingua parlata. Può dunque esprimere qualsiasi cosa una persona dica, poesia compresa. Un sistema scrittorio parziale, invece, è formato da segni materiali in grado di rappresentare solo particolari tipi di informazioni, che pertengono ad ambiti di attività limitati. Il latino scritto, gli antichi geroglifici egiziani e il sistema Braille sono sistemi scrittori totali. Li si può usare per scrivere registri fiscali, poesie d’amore, libri di storia, ricette culinarie, disposizioni di diritto commerciale. Al contrario, le primissime scritture sumeriche, al pari dei moderni simboli matematici e della notazione musicale, sono sistemi scrittori parziali. Si può usare la scrittura matematica per fare calcoli, ma non per scrivere una poesia d’amore.
14. Un quipu del XII secolo proveniente dalle Ande.
14. Un quipu del XII secolo proveniente dalle Ande.
Ai Sumeri non disturbava il fatto che la loro scrittura non si prestasse a scrivere poesie. Non l’avevano inventata per riprodurre la lingua parlata, ma per fare con essa cose per cui la lingua parlata era inadatta. Ci sono state culture, come quelle precolombiane delle Ande, che hanno usato un sistema scrittorio parziale durante l’intero arco della loro storia, senza avvertire la necessità di svilupparne una versione completa. Il sistema scrittorio andino era molto diverso dal suo omologo sumero. A ben vedere, era così diverso che per molti studiosi non lo si può neppure considerare una vera forma di scrittura. Non veniva “scritta” su tavolette di creta o pezzi di carta. La si realizzava facendo nodi su matasse di cordicelle colorate, chiamate quipu. Ogni quipu poteva contenere centinaia di cordicelle di differente colore, fatte di lana o di cotone. Combinando nodi, colori e cordicelle era possibile registrare grandi quantità di dati matematici, riferiti per esempio all’esazione fiscale e ai diritti di proprietà.42
Per centinaia, forse migliaia di anni, i quipu furono uno strumento essenziale per il commercio esercitato nelle città, nei regni e negli imperi.43 Raggiunsero il loro massimo potenziale sotto l’impero inca, che governava tra i dieci e i dodici milioni di persone e si espandeva su una superficie che oggi copre il Perù, l’Ecuador e la Bolivia, oltre a parte del Cile, dell’Argentina e della Colombia. Grazie ai quipu gli Inca potevano preservare ed elaborare quantità enormi di dati, senza cui non sarebbero stati in grado di mantenere la complessa macchina amministrativa che un impero di quelle dimensioni richiedeva.
In effetti i quipu si dimostrarono così efficaci e accurati che anche gli spagnoli, nei primi anni seguiti alla loro conquista del Sud America, li adoperarono nell’amministrazione del loro nuovo impero. Ma i conquistatori, da soli, non sapevano adoperare e leggere i quipu, ed erano quindi obbligati a rivolgersi ai professionisti locali. I nuovi governanti del continente si resero conto che questo fatto li metteva in una posizione delicata, perché i nativi potevano facilmente sviare e ingannare i loro padroni. Così, una volta che la dominazione si assestò più saldamente, i quipu furono abbandonati e gli atti ufficiali del nuovo impero furono interamente redatti in scrittura e numerazione romane. Pochissimi quipu sopravvissero all’occupazione spagnola, e la maggior parte di quelli rimasti risultano oggi indecifrabili, poiché sfortunatamente la facoltà di leggerli è andata perduta.
Le meraviglie della burocrazia
Alla fine i Mesopotamici cominciarono a voler scrivere cose diverse dai monotoni elenchi di cifre. Fra il 3000 e il 2500 a.C. vennero aggiunti più e più segni al sistema sumerico, che a poco a poco si trasformò in un sistema scrittorio totale: la scrittura cuneiforme. Nel 2500 a.C. i re usavano la scrittura cuneiforme per emanare decreti; i sacerdoti la usavano per registrare gli oracoli; i cittadini meno altolocati la usavano per scrivere messaggi personali. Approssimativamente nello stesso periodo, gli Egizi svilupparono un altro sistema scrittorio totale: la scrittura geroglifica. Sistemi di questo genere furono elaborati anche in Cina intorno al 1200 a.C. e nell’America centrale intorno al 1000-500 a.C.
Da questi centri iniziali, i sistemi scrittòri totali si diffusero ovunque, assumendo nuove forme e nuove applicazioni. La gente cominciò a scrivere poesie, libri di storia, romanzi, opere teatrali, profezie e libri di cucina. Tuttavia la più importante applicazione della scrittura continuò a essere quella di registrare enormi quantità di dati matematici (compito che rimase prerogativa dei sistemi scrittòri parziali). La Bibbia ebraica, l’Iliade greca, il Mahabharata indù e il Tripitaka buddhista all’inizio erano opere orali. Per molte generazioni furono trasmesse oralmente e avrebbero continuato a esistere anche se la scrittura non fosse mai stata inventata. Ma le registrazioni fiscali e le burocrazie complesse nacquero insieme ai sistemi scrittòri parziali; e ancora oggi il loro legame è inscindibile, come quello fra gemelli siamesi – basti pensare alle criptiche voci dei database e dei fogli di calcolo.
Via via che si scrivevano sempre più cose, e in particolare con la crescita degli archivi amministrativi, si presentarono nuovi problemi. Le informazioni immagazzinate nel cervello di una persona sono facili da richiamare alla memoria. Nel mio cervello sono riposti miliardi di dati, eppure posso velocemente, quasi istantaneamente, ricordare qual è la capitale dell’Italia, e subito dopo ricostruire in un attimo cosa stavo facendo l’11 settembre 2001, e poi ricostruire il percorso da casa mia all’Università Ebraica di Gerusalemme. Come faccia esattamente il cervello a compiere queste operazioni rimane un mistero, ma noi tutti sappiamo che il metodo di reperimento del nostro cervello è straordinariamente efficiente – tranne che nei casi in cui non ti ricordi dove hai messo le chiavi della macchina.
Come si fa, però, a trovare e recuperare informazioni immagazzinate sulle cordicelle di un quipu o su una tavoletta d’argilla? Se hai solo una decina, o anche un centinaio, di tavolette non c’è problema. Ma se ne hai accumulate a migliaia, come accadde a un contemporaneo di Hammurabi, il re Zimrilim di Mari?
Immaginiamo per un momento di trovarci nel 1776 a.C. Due abitanti di Mari stanno discutendo sul possesso di un campo di frumento. Jacob insiste che ha comprato quel campo da Esaù trent’anni fa. Esaù ribatte che in realtà l’aveva dato a Jacob in affitto per trent’anni: e ora, alla scadenza, ne reclama il possesso. Gridano e litigano e cominciano a spintonarsi, finché capiscono che possono risolvere la disputa andando all’archivio reale, dove sono custoditi gli atti e le transazioni commerciali riguardanti tutte le proprietà esistenti nell’impero. Arrivati all’archivio, vengono mandati da un funzionario all’altro. Aspettano che gli addetti facciano la loro pausa per il tè, viene detto loro di tornare il giorno dopo, e alla fine un impiegato brontolone li porta a cercare la tavoletta d’argilla che li riguarda. Questi apre una porta e li conduce in un’enorme stanza tappezzata, dal pavimento al soffitto, da migliaia di tavolette d’argilla. Non c’è da stupirsi che l’impiegato sia scontroso e poco disponibile: come si può pretendere che egli riesca a trovare proprio il contratto, scritto trent’anni prima, in cui si parla del terreno conteso? Anche se ci riuscisse, sarà poi in grado di fare dei controlli incrociati, di modo da verificare se quegli atti di trent’anni prima sono gli ultimi documenti relativi a quel campo? E se non riesce a trovare niente, vorrà dire forse che Esaù non ha mai venduto o affittato il campo? O vorrà dire solo che il documento è andato perduto, o che si è sciolto in poltiglia quando un po’ di pioggia è filtrata nell’archivio?
Chiaramente, incidere nell’argilla un documento non basta a garantire un processo di elaborazione dei dati che sia pratico e accurato. Questo richiede una metodica organizzativa con cataloghi, possibilità di riproduzione con macchine fotocopiatrici, sistemi di reperimento rapido e preciso come quelli algoritmici del computer; e non devono mancare archivisti pedanti (ma si spera gentili) che sappiano come usare questi strumenti.
Inventare tali metodi risultò un’impresa molto più difficile che inventare la scrittura. In culture distanti nel tempo e nello spazio si svilupparono molti sistemi di scrittura. Non passa decennio senza che gli archeologi scoprano qualche nuova forma di scrittura in precedenza sconosciuta. Alcune di esse, a volte, possono rivelarsi ancora più antiche dei caratteri incisi nell’argilla dei Sumeri. Ma restano quasi sempre delle curiosità, poiché coloro che le inventarono non riuscirono a inventare metodi efficienti per catalogare e reperire i dati. Ciò che distingue invece la Mesopotamia, l’Egitto dei faraoni, l’antica Cina e l’impero inca, è che tutte queste culture svilupparono buone tecniche di archiviazione, catalogazione e reperimento dei documenti scritti. E inoltre investirono in scuole destinate ai futuri scribi, impiegati, archivisti e contabili.
Un esercizio di scrittura proveniente da una scuola dell’antica Mesopotamia, scoperto da moderni archeologi, ci consente di gettare uno sguardo in quella che era la vita di questi studenti, circa 4000 anni fa:
Sono entrato e mi sono seduto, e il mio maestro ha letto la mia tavoletta.
Ha detto: “Manca qualcosa!”
E mi ha fustigato.
Uno di quelli preposti alla scuola ha detto: “Perché hai aperto la bocca senza il mio permesso?”
E mi ha fustigato.
Quello preposto alla osservazione delle regole ha detto: “Perché ti sei alzato senza il mio permesso?”
E mi ha fustigato.
Il portiere ha detto: “Perché vuoi andare fuori senza il mio permesso?”
E mi ha fustigato.
L’addetto alla brocca di birra ha detto: “Perché ne hai preso un po’ senza il mio permesso?”
E mi ha fustigato.
L’insegnante di sumero ha detto: “Perché hai parlato in accadico?”*
E mi ha fustigato.
Il mio maestro ha detto: “La tua calligrafia non è buona!”
E mi ha fustigato.44
Gli antichi scribi non imparavano semplicemente a leggere e a scrivere, ma anche a usare cataloghi, dizionari, calendari, formule e tabelle. Studiavano e memorizzavano tecniche di catalogazione, reperimento ed elaborazione di informazioni molto differenti da quelle usate dal cervello. Nel cervello tutti i dati vengono associati liberamente. Quando io vado con mia moglie a firmare i documenti di un mutuo per la nuova casa, può venirmi in mente il primo appartamento in cui abbiamo vissuto insieme; cosa che potrebbe ricordarmi la nostra luna di miele a New Orleans, il che mi potrebbe far pensare agli alligatori, poi ai draghi, e di conseguenza all’Anello dei Nibelunghi: e improvvisamente, prima ancora che me ne renda conto, potrei ritrovarmi a canticchiare a bocca chiusa il tema di Sigfrido al cospetto di un perplesso impiegato di banca. Nella dimensione burocratica le cose vanno tenute separate. C’è un cassetto per i mutui delle case, un altro per i certificati di matrimonio, un terzo per le cartelle delle tasse, un quarto per le azioni legali. Altrimenti come sarebbe possibile ritrovare alcunché? Le cose che stanno in più di un cassetto, come le opere teatrali di Wagner (dove le trovo, sotto “musica”, “teatro”, o devo forse inventare una categoria totalmente nuova?), sono un terribile rompicapo. Così si passa il tempo ad aggiungere, annullare o ripristinare cassetti.
Affinché questo sistema di cassetti funzioni, le persone che lo utilizzano devono essere riprogrammate in modo che smettano di pensare da umani e comincino a pensare come impiegati e contabili. Come sanno tutti, dai tempi antichi fino ai giorni nostri, gli impiegati e i contabili pensano in modo non-umano. Pensano come schedari. Non è colpa loro. Se non pensano in quel modo, i loro cassetti rischiano di mescolarsi rendendo impossibile fornire i servizi che il governo, l’azienda o l’organizzazione richiedono. L’impatto più decisivo della scrittura sulla storia umana è stato appunto questo: ha cambiato gradualmente il modo in cui gli umani pensano e vedono il mondo. La libera associazione e il pensiero olistico hanno lasciato il passo alla compartimentazione e alla burocrazia.
Il linguaggio dei numeri
Secolo dopo secolo, i sistemi burocratici di elaborazione dei dati divennero via via sempre più diversi dal modo in cui gli umani tendono a pensare naturalmente, e sempre più importanti. Un passaggio cruciale avvenne in un qualche momento prima dell’inizio del IX secolo della nostra era, quando fu inventato un nuovo sistema scrittorio parziale, che poteva immagazzinare ed elaborare dati matematici con una efficienza senza precedenti. Era composto da dieci segni, che rappresentavano le cifre da 0 a 9. In maniera imprecisa, oggi questi segni vengono definiti numeri arabi, anche se furono inventati prima dagli indù (e, ad aumentare la confusione, gli arabi moderni usano una serie di cifre che appaiono assai differenti da quelle occidentali). Ma è agli Arabi che va il merito, perché quando invasero l’India scoprirono questo sistema numerico, ne compresero l’utilità, lo affinarono e lo diffusero in tutto il Medio Oriente e poi in Europa. Quando in seguito vennero aggiunti ai numeri arabi diversi altri segni (come quelli dell’addizione, della sottrazione e della moltiplicazione), furono gettate le basi della moderna notazione matematica.
Un’equazione per calcolare l’accelerazione di massa i sotto l’influenza della gravità, secondo la teoria della relatività. La maggior parte dei profani, di fronte a una simile equazione, si fa prendere dal panico e si sentono gelare il sangue, al pari di un cervo illuminato dai fari di un veicolo in corsa. È una reazione assolutamente naturale, che non tradisce mancanza di intelligenza o di curiosità. Con rare eccezioni, il cervello umano è semplicemente incapace di pensare per mezzo di concetti quali la relatività e la meccanica quantistica. Ciò nonostante i fisici ci riescono, perché mettono da parte il tradizionale modo di pensare degli umani, e imparano di nuovo a pensare con l’aiuto dei sistemi esterni di elaborazione dei dati. Parti cruciali del loro processo mentale hanno luogo non nella testa ma all’interno del computer o della lavagna dell’aula.
Un’equazione per calcolare l’accelerazione di massa i sotto l’influenza della gravità, secondo la teoria della relatività. La maggior parte dei profani, di fronte a una simile equazione, si fa prendere dal panico e si sentono gelare il sangue, al pari di un cervo illuminato dai fari di un veicolo in corsa. È una reazione assolutamente naturale, che non tradisce mancanza di intelligenza o di curiosità. Con rare eccezioni, il cervello umano è semplicemente incapace di pensare per mezzo di concetti quali la relatività e la meccanica quantistica. Ciò nonostante i fisici ci riescono, perché mettono da parte il tradizionale modo di pensare degli umani, e imparano di nuovo a pensare con l’aiuto dei sistemi esterni di elaborazione dei dati. Parti cruciali del loro processo mentale hanno luogo non nella testa ma all’interno del computer o della lavagna dell’aula.
Benché tale sistema di scrittura resti parziale, esso è diventato il linguaggio dominante nel mondo. Quasi tutti gli stati, le società, le organizzazioni e le istituzioni – che parlino arabo, hindi, inglese o norvegese – usano la scrittura matematica per registrare ed elaborare i dati. Ogni informazione che può essere tradotta in notazione matematica viene registrata, diffusa ed elaborata con una velocità ed efficienza sbalorditive.
Una persona che voglia influenzare le decisioni di governi, organizzazioni e multinazionali deve dunque imparare a parlare in termini numerici. Gli esperti fanno del loro meglio per tradurre in numeri anche i concetti, poniamo, di “povertà”, “felicità” e “onestà” (“la soglia di povertà”, “i livelli soggettivi di benessere”, “il rating di credito”). Interi campi della conoscenza, come la fisica e l’ingegneria, hanno già perduto quasi ogni traccia della lingua umana parlata, e si appoggiano unicamente sulla notazione matematica.
Più recentemente, la notazione matematica ha dato vita a un sistema ancora più rivoluzionario: un sistema numerico binario computerizzato che consiste di soli due segni, 0 e 1. Le parole che io ora sto digitando sulla tastiera vengono scritte dentro il mio computer da differenti combinazioni di 0 e 1.
La scrittura è nata come ancella della coscienza umana, ma sta diventando sempre di più la sua padrona. I nostri computer hanno difficoltà a capire come parla, sente, sogna Homo sapiens. Così a Homo sapiens stiamo insegnando a parlare, sentire e sognare nel linguaggio dei numeri, che può essere capito dai computer.
Alla fine i computer potrebbero superare le prestazioni degli uomini in numerosi campi che fanno di Homo sapiens il dominatore del pianeta: intelligenza e comunicazione. Il processo che iniziò nella valle dell’Eufrate 5000 anni fa, quando i geek sumeri spostarono la capacità di elaborare dati dal cervello umano a una tavoletta di argilla, potrebbe culminare nella Silicon Valley con la vittoria dei tablet, le tavolette contemporanee. Gli uomini potrebbero essere ancora in circolazione, ma potrebbero non riuscire più a dare un senso al mondo. Il nuovo dominatore del pianeta potrebbe essere una lunga linea di zero e uno.
* Anche dopo che l’accadico divenne la lingua parlata, il sumero restò la lingua dell’amministrazione, e quindi la lingua usata nella scrittura. Questa la ragione per cui gli aspiranti scribi dovevano parlare sumero. (N.d.A.)