Il dottor Gruner aveva delle infermiere private ventiquattr’ore su ventiquattro. Sammler entrò e trovò la donna in uniforme seduta accanto al letto. Il paziente stava dormendo. Bisbigliando nel modo più sommesso possibile, Sammler si presentò. «Suo zio – ah, sì, infatti mi ha detto che probabilmente sarebbe venuto» disse l’infermiera. Nulla nel tono delle sue parole fece pensare che si trattasse di una previsione gradevole. Sotto la cuffietta inamidata gli aridi capelli tinti erano gonfi e cotonati. La faccia, di mezza età, carnosa, prepotente, scoppiava di salute. Gli occhi avevano un’espressione di sovranità. I pazienti avrebbero seguito il corso che dovevano seguire: la guarigione o la morte.
«È ora di dormire per lui?, voglio dire per tutta la notte, oppure sta facendo semplicemente un sonnellino?» disse Sammler.
«Può darsi che si svegli tra pochi minuti, ma tiro a indovinare. La signorina Gruner è nella sala d’aspetto.»
«Mi fermerò un pochino» disse Sammler, non invitato a sedersi.
C’erano molti fiori, ceste di frutta, scatole di caramelle, bestseller. Il televisore era acceso, e muto. L’infermiera ascoltava con l’auricolare. La luce riflessa tremolava sulla parete dietro al letto. Le mani di Elya erano girate a palmo in giù, lungo i fianchi, come se lui gli avesse trovato una sistemazione simmetrica prima di lasciarsi cadere. Le mani pelose erano pulite, forti, percorse da vene, con le unghie lucide. Le unghie avevano la stessa lucentezza del bicchierino da cui Gruner aveva sorseggiato il suo olio minerale. C’era anche la bottiglia di Nujol, e accanto il «Wall Street Journal». Nuda dignità. Il filo elettrico del rasoio era infilato nella spina, in alto. Elya era sempre rasato di fresco. I sacerdoti del toro Api, secondo la descrizione di Erodoto, con il capo e il corpo rasato. E con la bocca dormiente sporta in fuori, da un lato, come se Elya, a cui piaceva dire che era cresciuto a Greenpoint tra la feccia del quartiere, stesse sognando delinquenti e pistolettate. Sotto il mento la fasciatura sembrava un colletto militare. Sammler pensò a lui come a un uomo che immensamente, persino disperatamente, aveva bisogno di conferme, di sostegno e contatto fisico con gli altri. Era un “toccatore”. Era sua abitudine, anche mentre semplicemente attraversava una stanza, toccare, prendere la gente per il braccio, addirittura informarsi della condizione, diciamo, medica di quelle persone, dei loro muscoli, ghiandole, peso, o della crescita dei capelli. Inoltre, inculcava le sue opinioni nella gente, immetteva le sue speranze nei loro cuori, e poi, se diceva: «Be’, non è così?», in effetti lo era. Come un moderno generale dell’esercito, un Eisenhower, faceva le sue preparazioni logistiche. Quella sua astuzia era molto infantile. Peraltro facile da perdonare. Soprattutto in un momento come quello. Ma come faceva a dormire, in un momento come quello?
Sammler indietreggiò pian piano fino a raggiungere la porta, uscì e andò nella sala riservata ai visitatori. Là era seduta Angela che fumava, ma non col suo caratteristico stile sensuale ed elegante. Aveva pianto, e il suo viso era bianco e infiammato. La figura pesante, i seni un ingombro, le ginocchia sporgenze pallide contro la seta aderentissima delle calze. Era soltanto per il padre che stava piangendo? Sammler avvertì che c’erano un insieme di motivi per quelle lacrime. Si sedette di fronte a lei e posò il suo cappello all’Augustus John grigio-talpa sulle ginocchia.
«Sì» disse Sammler.
Angela teneva aperte le grosse labbra come se cercasse di rinfrescarsi; respirava attraverso la bocca. Accaldata, la faccia inclinata, di una grana finissima, sembrava molto tirata. Il calore le saliva anche nel bianco degli occhi. «Ma capisce veramente qual è la situazione?»
«Chi lo sa. Ma è medico, e secondo me lo capisce.»
Angela ricominciò a piangere, e Sammler si convinse ancora di più che ci fosse un altro motivo per le sue lacrime. «E tutto il resto è perfettamente a posto, capisci» disse Angela. «Sta perfettamente bene, salvo per quell’affare – quell’unico dannato aggeggio. E tu credi che lo sappia, Zio?»
«Ma si comporta tanto normalmente. Parla della famiglia. È stato così contento di vederti e sperava che questa sera saresti tornato. E continua a preoccuparsi per Wallace.»
«Wallace è stato sempre un bel grattacapo. A sei anni, sette, era un bambino così bello, così dotato. Mi ricordo che metteva insieme numeri su numeri, sai, la matematica. Noi pensavamo di avere in famiglia un altro Einstein. Papà l’ha iscritto al Massachusetts Institute of Technology. Ma non ha fatto quasi in tempo a mandarcelo che siamo venuti a sapere che lavorava come barman a Cambridge, e che aveva picchiato a morte un ubriacone e c’è mancato poco che quello ci rimanesse secco.»
«E adesso rompe le scatole a papà perché gli compri un aereo. In un momento simile! Un disco volante ci starebbe meglio! Naturalmente parte della colpa di Wallace è anche mia.» Sammler sapeva che la conversazione avrebbe preso una svolta psichiatrico-pediatrica e che gli sarebbe toccato sorbirsi una certa dose di spiegazioni.
«Naturalmente io me la presi a male quando portarono il bambino a casa dalla clinica. Chiesi a mamma di mettere la culla in garage. Sono sicura che lui, fin dal principio, abbia provato la sensazione di venire respinto. A me non è mai piaciuto. Era troppo tetro. Insomma, non aveva nulla del bambino. Aveva degli attacchi di rabbia terribili.»
«Be’, ognuno di noi ha la propria storia» disse Sammler.
«Credo di aver deciso già da adolescente che mio fratello sarebbe diventato gay. Pensavo che fosse colpa mia, che ero una sgualdrina tale che lui un po’ per volta aveva cominciato ad avere paura delle ragazze.»
«Era semplicemente una facciata, Zio. In verità ero una troietta, ecco cos’ero.»
«Mah, chi lo sa. In retrospettiva, la gente esagera a un punto tale…»
«Wallace non ci è mai piaciuto, né a papà né a me. Abbiamo fatto in modo che fosse completamente sulle spalle della mamma, e questa è stata come una condanna a vita. A quel punto c’è stata una cosa dopo l’altra, la fase in cui era obeso, quella in cui era alcolizzato. Be’, adesso hai sentito l’ultima? È convinto che ci siano dei soldi nascosti in casa.»
«Mah. Papà ogni tanto alludeva vagamente a questa faccenda. Anche mamma prima che morisse. Sembrava che secondo lei papà qualche volta… be’, non rigava proprio dritto, come diceva la mamma.»
«Per tirare fuori dai guai famiglie famose della Dutchess County, come mi ha detto Wallace?»
«Ah, è così che dice lui? No, Zio, quello che ho sentito io è che papà faceva dei favori a certi tizi della mafia con cui è cresciuto. Pezzi grossi del crimine organizzato. Lui conosceva benissimo Lucky Luciano. Tu probabilmente non hai mai sentito parlare di Luciano.»
«Ogni tanto Luciano veniva a New Rochelle. E se papà faceva quelle cose e quelli lo pagavano in contanti dev’essere stato imbarazzante. Probabilmente non sapeva che fare con quel denaro. Ma non è questo che mi preoccupa di più.»
«No. Angela, a proposito di New Rochelle, tu per caso non hai visto Shula, eh?»
«No, non l’ho vista. Che cosa ha combinato?»
«Mi ha portato un libro molto interessante. Però, non era suo, capisci.»
«Desumo che se ne stia nascosta per via di Eisen. Crede che sia venuto qui per riprendersela.»
«Un timore lusinghiero. Magari Eisen fosse capace di venire con una missione del genere! Se non la picchiasse, sarebbe la soluzione di molti problemi. Sarebbe una benedizione. No, secondo me lui non la vuole affatto. Non gli va giù che lei posi da cattolica. Questo è stato il suo pretesto. Benché abbia detto che a Castel Gandolfo si è trovato molto bene con Papa Pio. E adesso Eisen non è più l’amico dei papi, è un artista. Io non credo che abbia un gran talento, seppure sia abbastanza pazzo da agognare alla gloria, la gloria vera.» Ma Angela in quel momento non aveva voglia di sentir parlare di quelle storie. Evidentemente pensava che Sammler cercasse di portare l’argomento su un piano teorico – discutere l’aspetto psicotico-creativo.
«Ah, questo proprio non mi va giù. Preferirei che non disturbasse Elya. Ma che diavolo vuole? Tienilo lontano.»
«Be’, non avrei dovuto farlo entrare. Io pensavo che forse papà ci si sarebbe divertito.»
Sammler stava per rispondere, ma varie pulsazioni di comprensione gli attraversarono il cervello e gli fecero vedere le cose in modo diverso. Naturale. Eh, già. Angela aveva i suoi di guai col dottor Gruner. Angela non era certo una dalla lacrima facile, come Margotte, per intenderci, che puntualmente, una volta all’anno, versava il suo torrente di lacrime. Se Angela quella sera aveva un’aria così esangue tanto che persino i capelli con le mèches, normalmente tanto splendenti e forti, sembravano secchi e fragili (Sammler credette di scorgere le macchioline scure follicolari sulla cute), era perché aveva litigato col padre. Sotto stress, così credeva Sammler, l’interezza vacillava, e alcune parti (i follicoli, ad esempio) diventavano vistosamente distinguibili. Queste, almeno, erano le sue riflessioni. Elya doveva essere furioso con lei, e lei cercava di distrarre la sua attenzione. Visitatori. Ovviamente era per questo che aveva portato Eisen dritto dritto nella stanza del malato. Ma Eisen non poteva servire a distrarlo. Era uno di quei maniaci sorridenti, ma cupi. Molto cupo, in verità. Un tipo deprimente. L’abito elegante di seta che aveva indossato dieci anni prima a Haifa quando lui e il suocero erano scesi in strada, ed erano entrati in un caffè per discutere di Shula, sarebbe stato perfetto per foderare l’interno di una bara. Eisen sicuramente meritava di essere accudito, e quello era uno dei vantaggi che offriva Israele: serviva a raccogliere quelle persone menomate. Ma adesso ne era fuggito, aveva udito la musica frenetica e allegra dell’America e voleva farsi avanti. Si era diretto come un razzo dal cugino ricco. Il cugino ricco era all’ospedale con una specie di ponticello per violino ficcato nel collo. Strano il sesto senso che avevano tutti, per molestare quell’uomo morente.
Angela si era messa un berrettino scherzoso, che faceva pendant con le scarpe bianche e nere. Ora che teneva il capo più basso Sammler vide il grosso bottone di capretto al centro delle pieghe che si aprivano a raggio.
«Per un po’ sì, credo» disse Angela. «Lo ha ritratto in alcuni schizzi. Senonché dopo ha provato a venderglieli. Papà li ha guardati appena.»
«Non c’è da sorprendersi. Chissà dove li ha trovati i soldi, Eisen, per venire in America.»
«Non so, forse li aveva messi da parte. Ce l’ha con te, Zio.»
«Perché non sei andato a trovarlo in Israele. Quando sei stato là per la guerra. Lui dice che l’hai snobbato.»
«Non è che questo mi tocchi più di tanto. Io non ero andato in Israele per porgere i miei omaggi a un genero o per far visita alla gente.»
«È orribile!» disse Sammler. «Tutti a darci sotto con queste stupidaggini. In un momento simile!»
«Ma papà s’interessa di un sacco di cose. Se tutto si fermasse all’improvviso, sarebbe anormale. È chiaro che è brutto dargli altre preoccupazioni, irritarlo. Per esempio, adesso è arrabbiato con me.»
«Immagino che in realtà non sia possibile per Elya comportarsi diversamente, in un modo più adatto alle circostanze.»
«Secondo me dovrebbe smettere di parlare con Widick. Lo conosci quell’avvocato grasso di papà, Widick?»
«Naturalmente. L’ho conosciuto.»
«Gli telefona quattro o cinque volte al giorno. E papà mi chiede di lasciarlo solo. Quei due stanno ancora comprando e vendendo in Borsa. Poi penso che discutano anche del testamento, altrimenti non mi manderebbe fuori dalla stanza.»
«Evidentemente, Angela, malgrado le tue rimostranze contro Mr. Widick, tu stessa in qualche modo hai fatto incollerire tuo padre. E a quanto capisco vorresti che io te ne domandassi il perché.»
«Infatti. È stato quando Wharton Horricker e io siamo andati in Messico.»
«A mio parere, Elya lo trova simpatico, Horricker. Non avrebbe avuto obiezioni a quel viaggio.»
Angela teneva la sigaretta accesa tra le dita incrociate, davanti alla faccia. Azioni normalmente graziose, ora dolorosamente grossolane. Scosse il capo, gli occhi le si riempirono di lacrime, divennero rossi. Ah, guai con Horricker. Sammler se l’era immaginato che si trattasse di qualcosa del genere. Era un po’ difficile per lui capire come mai quella ragazza dovesse sempre avere tanti problemi. Forse lui si era fatto l’idea che lei godesse di tanti privilegi, e quindi, di che cos’altro poteva aver bisogno? Viveva della rendita di un capitale del valore di mezzo milione di dollari: azioni di enti locali esenti da tasse, come ripeteva Elya. Aveva quella carne, quelle attrazioni e doni sessuali – volupté, aveva. Faceva riaffiorare alla memoria il vocabolario sessuale francese che Sammler aveva imparato all’Università di Cracovia, leggendo Émile Zola. Quel libro sul mercato della frutta. Le Ventre de Paris. Les Halles. E quella donna appetitosa, là, che era anche lei qualche cosa di buono da mangiare, un vero e proprio frutteto. Volupté, seins, épaules, hanches. Sur un lit de feuilles. Cette tiédeur satinée de femme. Ottimo, Émile! E – va bene! – i frutteti che soffrivano quando si verificavano tremori nella terra potevano far cadere tutte le loro pere: anche questo Sammler lo poteva capire con una certa dose di identificazione. Ma Angela era sempre, in modo non comune, impelagata in difficoltà, in preda alla sofferenza, incespicava in invisibili ostruzioni, faceva nascere complicazioni di dolorosa cattiveria, a un punto tale che Sammler si chiese se questa volupté non fosse uno dei fardelli più penosi e più strani che si potessero depositare sull’anima di una donna. Vedeva Angela (attraverso il suo stesso racconto erotico della faccenda), come se si trovasse veramente in camera da letto. Era là perché era stato invitato, spettatore perplesso. Evidentemente lei riteneva necessario che lui sapesse quello che succedeva in America. Lui, invece, non aveva bisogno poi d’informazioni così dettagliate. Comunque meglio il surplus dell’ignoranza. Per Sammler, sia gli USA che l’URSS erano progetti utopistici. Là, nell’Est, l’accento veniva posto su prodotti base, scarpe, berretti, stura gabinetti, e bacinelle di latta per i contadini e gli operai. Qui invece l’accento cadeva su determinate gioie e privilegi. Qui si camminava nudi nelle acque del paradiso eccetera. Ma sempre una certa disperazione sottolineava il piacere, la morte seduta all’interno della capsula della salute, per manovrarla, e l’oscurità che ti faceva l’occhiolino dall’utopistico sole dorato.
«Non precisamente. A quanto pare ho torto io.»
«Dovrebbe essere a Washington. Sta facendo qualche cosa di statistico su certi missili antibalistici. Per il blocco da parte del Senato del trattato ABM. Io queste cose non le capisco, sai com’è.»
«È brutto che queste difficoltà sorgano proprio adesso; averne due allo stesso tempo, voglio dire.»
Sia nell’espressione di Angela che in quella di Wallace c’era qualcosa di tenero, un accenno d’infanzia o di rêverie fanciullesca. I genitori dovevano aver desiderato eccessivamente dei bambini e di conseguenza avevano inibito qualcosa nel ciclo evolutivo dei figli. L’ultimo sguardo di Angela, prima che cominciasse a singhiozzare, meravigliò Sammler. Labbra aperte, fronte grinzosa, la pelle stessa che esprimeva una capitolazione completa, tratti della persona originaria. Una bambina! Ma gli occhi non abbandonarono il loro balenio di esperienza erotica.
«Una cosa che è successa ad Acapulco. Io non pensavo che fosse poi tanto grave. E nemmeno Wharton. A quell’epoca non era altro che uno sfizio. Insomma era buffo. Abbiamo combinato una serata con un’altra coppia.»
«Erano persone perbenissimo. Li avevamo conosciuti sulla spiaggia. È stata la moglie a suggerirlo.»
«Be’, sì. Oh, Zio, oggigiorno queste cose si fanno.»
«A me? No, non direi. Io ero informato di tutto da molto tempo. Mi dispiace quando le cose prendono una piega così stupida, questo è vero. A me sembra che quello che dei poveri professionisti un tempo dovevano fare per guadagnarsi da vivere, esibirsi alle feste degli scapoli, o quei circhi di sesso per turisti a Place Pigalle, adesso la gente più comune, casalinghe, impiegatucci, studenti, lo facciano tanto per stare in compagnia. E francamente non potrei spiegare in che cosa consista tutto ciò. Potrebbe essere una specie di sforzo collettivo per superare il disgusto? O per dimostrare che tutte le cose ripugnanti della storia non sono poi tanto ripugnanti? Non so. È uno sforzo per “liberalizzare” l’umana esistenza e dimostrare che nulla di quello che accade fra le persone è realmente deprecabile? Affermare la Fratellanza dell’uomo? Ah, certo che…» Sammler si ricompose e si frenò. Non voleva sapere i particolari dell’episodio di Acapulco, non voleva sentire che l’uomo in causa era un giudice municipale di Chicago, o un fisioterapista o un contabile o uno spacciatore di droga o un fabbricante di profumo o formaldeide.
«E Wharton c’è stato, ha fatto la sua parte, ma dopo ha messo il broncio. Poi, in aereo, sulla via del ritorno, mi ha detto quanto tutta la faccenda gli avesse dato sui nervi.»
«Be’, è un giovanotto pignolo, tutto ordinatello. Basta guardare le camicie che porta. Immagino che sia stato educato molto bene.»
«Se tu intendevi sposare Wharton, non hai certamente dimostrato molto buon senso a fare una cosa del genere.»
Sammler desiderava ardentemente terminare quella conversazione. Elya gli aveva detto di non preoccuparsi del suo futuro, per fargli capire, insomma, che il suo sostentamento era assicurato; ma c’erano anche considerazioni di ordine pratico da tenere presenti. Cosa sarebbe accaduto se lui e Shula avessero dovuto dipendere da Angela? Angela era sempre stata generosa – spendeva con facilità. Quando andavano a vedere qualche mostra o a colazione insieme, era lei, naturalmente, che pagava i taxi, pagava il conto, lasciava la mancia, tutto. Ma non sarebbe stato consigliabile andare troppo in profondità, con Angela, in quella sua strana vita. I fatti erano troppo brutti, troppo audaci, abominevoli, pietosi. Entro certi limiti quel suo modo di comportarsi era basato sulla teoria, sull’ideologia generazionale, era parte di un’educazione liberale ed era, quindi, in qualche misura, impersonale. Ma Angela in seguito si sarebbe pentita di quelle sue confessioni – si sarebbe pentita e le sarebbe seccata la disapprovazione dello zio. Nel complesso questi accoglieva le sue confidenze in modo disinteressato. Non che non la capisse, che fosse freddo nei riguardi di quanto le capitava: lui era (l’aveva detto lei stessa) obiettivo, non formulava giudizi. Trovandosi insieme di fronte alla morte di Elya, decise che in nessuna circostanza e per nessun motivo sarebbe stato disposto a lasciarsi coinvolgere in una relazione perversa con Angela nella quale si esigesse che lui ascoltasse per garantirsi la cena. Quel suo distacco, quel suo disinteresse, non sarebbero mai diventati uno dei conforti di Angela, parte della mobilia della sua vita. Neppure la sua ansia per il futuro di Shula poteva indurlo ad accettare quella posizione. Un ricevente di sordida merce? Tutto il suo cuore si sollevò contro quell’eventualità.
«Ma chi è che andrebbe a raccontargli cose del genere? Mi sembra insolitamente crudele.»
«Io non so se tu ti rendi conto di che cos’è quel grassone di Widick, l’avvocato. Lui e Wharton in qualche modo sono anche parenti, alla lontana. È un bastardo, quel Widick.»
«Io non ho affatto questa impressione. Normalmente disonesto, forse, ma questo fa semplicemente parte del suo mestiere.»
«È uno schifoso. Papà, invece, ne ha un’opinione altissima. È stato lui a vincere la causa, quella grossa causa di papà contro la compagnia di assicurazione. Te l’ho detto che si parlano al telefono quattro o cinque volte al giorno. E Widick a me mi odia.»
«Lo sento. Mi guarda con l’espressione di quello che crede che io sia una figlia viziata. Sono sempre stata circondata da persone convinte che papà avesse un debole per me, che mi avesse resa troppo indipendente dal punto di vista finanziario. Capisci, no? – dandomele tutte vinte e lasciandomi fare tutto quello che volevo.»
«Mica solo per il mio bene, Zio Sammler. Uno non fa le cose semplicemente per se stesso, e lui ha vissuto anche attraverso di me. Di questo puoi esser certo.»
Gli uomini, pensò Sammler, spesso peccano da soli; le donne raramente non hanno un compagno nel peccato. Ma per quanto probabilmente Angela stesse cercando di forzare quell’interpretazione della gentilezza e della generosità del padre, era possibile che anche Elya avesse tendenze libidinose. Chi era Sammler per dire di no? Tutta la situazione generale era disperata. Quella protuberanza arteriosa nel cervello di Elya doveva aver gettato la sua ombra tempo addietro – qualche goccia prima della gran raffica di pioggia. Sammler credeva nei presentimenti, e la morte era una possente istigatrice di idee erotiche. Gli impulsi sessuali di Sammler stesso (forse neppure ora del tutto spariti) erano stati assai diversi. Ma lui sapeva rispettare le differenze. Non misurava gli altri secondo il proprio metro. Ora, per esempio Shula non aveva alcuna volupté. Aveva qualcos’altro. Naturalmente non era figlia di un uomo ricco, e i soldi, il dollaro, erano sicuramente un formidabile additivo sessuale. Ma persino Shula, malgrado fosse un idrofilo o una gazza ladra, prima di allora non aveva mai veramente rubato. E poi all’improvviso anche lei era diventata come il borsaiolo negro. Provenienti dal lato nero, forti correnti travolgevano tutti. Bambino, nero, pellerossa – l’incontaminato Seminole contro l’orribile Uomo Bianco. Milioni di persone civilizzate volevano una nobiltà oceanica, illimitata, primitiva, libera da gioghi, sperimentavano un curioso prorompere di impulsi galoppanti, e acquisivano la peculiare meta della negrità sessuale per tutti. Il genere umano aveva perduto la sua antica pazienza. Esigeva un’esaltazione accelerata, non accettava neppure un istante privo di significati come nell’epica, la tragedia, la commedia, o nei film. Secondo lui era persino verosimile che il particolarissimo sviluppo del significato delle prigioni, dal diciottesimo secolo in poi, avesse qualche rapporto con l’abilità sempre più limitata, da parte dell’uomo, di tollerare la restrizione. Il castigo doveva essere fatto su misura, doveva essere adattato allo stato dello spirito, alle necessità dell’anima. Là dove la libertà era stata promessa con maggior vigore, esistevano le prigioni peggiori e più grandi. Poi bisognava porsi un’altra domanda: Elya aveva veramente eseguito degli aborti per fare un favore a vecchi amici della mafia? Quanto a ciò, Sammler non aveva alcuna opinione. Non avrebbe semplicemente saputo dirlo. Elya non aveva mai voluto fare il medico. Proprio non gli piaceva esercitare quella professione. Il suo dovere, però, l’aveva fatto. E anche i dottori di questi tempi facevano delle avance ai pazienti. Si mettevano le mani delle donne sui genitali. Sammler l’aveva sentito raccontare. Medici che ripudiavano il Giuramento, e diventavano soci dell’Epoca. Anche Shula, Shula che rubava, era contemporanea – senza legge. Provava anche lei a vivere l’esperienza dell’Epoca. E nel far ciò, vi trascinava dentro il padre. E probabilmente neppure Elya, con quella vite in gola, aveva voluto essere lasciato indietro, e aveva delegato Angela perché facesse l’esperienza dell’Epoca per suo conto.
Ma sia come sia! – la vita, una volta, era stata lì lì per finire. Uno che stava avanti a lui e portava il lume, era inciampato, aveva vacillato e Mr. Sammler aveva creduto che ormai non ci fosse più nulla da fare. Tuttavia, era ancora vivo. Non voleva dire che ce l’aveva fatta, poiché la connotazione di “farcela” era una conquista, un punto di arrivo, e ben poco era stato conquistato. Era stato condotto da Cracovia a Londra, da Londra alla Foresta di Zamość, e infine a New York City. Uno dei risultati di una storia con quelle caratteristiche era che aveva preso l’abitudine di condensare. Era uno specialista delle opinioni brevi, concise. E nella sua breve opinione, Angela aveva offeso il padre morente. Il padre era arrabbiato, e lei voleva che Sammler intercedesse per lei. Forse Elya l’avrebbe esclusa dal testamento, avrebbe devoluto il suo denaro a opere di beneficenza. Aveva donato ingenti somme di denaro al Weizmann Institute of Science. Quel “Serbatoio di Cervelli”, lo chiamavano, a Rehovoth. O forse Angela aveva paura che lui stesso, Sammler, così vicino a Elya, diventasse suo erede.
«Di questa faccenda… questa faccenda tua? Dipende da lui. Io il discorso non lo comincio. Per conto mio non credo che Elya sia venuto a scoprire il tuo modo di vivere solo adesso, in questo momento. Non potrei dire quali vantaggi gliene siano venuti – indirettamente, per procura, come suggerisci tu. Ma non è uno stupido, e avendo dato a una giovane donna come te un capitale di mezzo milione di dollari per vivere a New York City, dovrebbe essere proprio un cretino per pensare che tu non ti ci divertissi un po’.»
Le grandi città sono delle puttane. Non lo sanno tutti? Babilonia era una puttana. Ô La Reine aux fesses cascadantes. È la penicillina che fa sembrare New York più pulita. Niente facce mangiucchiate dalla sifilide, con quei naricioni spalancati come ai tempi antichi.
«I pregiudizi sessuali peggiori, più antichi, più profondi sono mobilitati contro di me.»
«Lo sa solo il Signore che cosa ha in mente tuo padre» disse Sammler. «Forse non è che un dolore, fra i tanti che ha.»
«Quest’episodio messicano non è il primo» disse Sammler. «Sicuramente tuo padre l’ha sempre saputo. Lui sperava che ti sposassi con Horricker e che la smettessi con queste sciocchezze sessuali.»
«Vado a vedere se è sveglio» disse Angela, e si alzò. La sua persona morbida e pesante era vestita con uno dei suoi costumi. Le gambe, esposte fino all’ultimo quarto della coscia, erano veramente molto forti, quasi goffe. Il viso, in quel preciso momento, era pallido come quello dei lattanti, e morbido sotto il berrettino di cuoio. Mentre si staccava dalla sedia di plastica – la sera era molto calda – si percepì forte un odore. Era tutt’e due le cose in una: sia il basso comico che l’alta serietà. Dea e majorette. La Grande Peccatrice! Quale vessazione per il povero Elya! Che supervalutazione. Che atroce miscuglio di sentimenti. Angela era un po’ seccata con Sammler. Uscì dalla stanza.
Mentre si allontanava, Sammler si ricordò dove aveva già visto un berrettino come quello. In Israele – la Guerra dei sei giorni che aveva visto.
Aveva visto.
Era quasi come se vi avesse assistito – insieme ad altri spettatori. Arrivando a bordo di macchine veloci in un punto davanti al Monte Hermon, dove si stava svolgendo una battaglia fra carri armati, lui era uno degli appartenenti al gruppo della stampa che osservavano il combattimento, sotto di loro. Giù nella vallata piatta, come in Vista-Vision. Lì dove stavano loro, in piedi, Mr. Sammler e gli altri, addetti ai servizi stampa e giornalisti israeliani, erano abbastanza al sicuro. La battaglia era a tre chilometri o più da loro. Le colonne di carri armati si muovevano, facevano manovra, nella polvere. Le bombe schizzavano giù da aeroplani remoti come insetti. Si scorgevano le ali quando roteavano nella luce, poi si udivano detonazioni, e per un brevissimo tempo si sollevavano cespugli di fumo. In lontananza si sentiva il rumore delle macchine – lontani cigolii di carri armati. Si udivano piccolissimi, minuscoli rumori di guerra. Poi altre due automobili sopraggiunsero a tutta velocità, si unirono al gruppo, e ne balzarono fuori gli operatori. Erano italiani, paparazzi, spiegò qualcuno, e si erano portati dietro tre ragazze con vestiti mod. Niente di strano se quelle ragazze fossero venute direttamente da Carnaby Street o da King’s Road, con i loro stivaletti di pelliccia, le minigonne, le ciglia finte. E in effetti erano inglesi, poiché Mr. Sammler le sentì parlare, e una di loro portava proprio quel tipo di berrettino che aveva in testa Angela, la stoffa a quadretti. Quelle fanciulle non avevano la minima idea di dove si trovassero, che cosa fosse tutta quella faccenda, avevano bisticciato con i loro amanti che adesso se ne stavano sdraiati pancia a terra in mezzo alla strada. A fotografare la battaglia, con le camicie che gli svolazzavano sulla schiena. Le ragazze erano furiose. Strappate da via Veneto, probabilmente, senza sapere con precisione dov’era diretto il jet. Poi, nudo fino alla cintola, un nanerottolo, muscoloso però, un corrispondente svizzero con una barbetta bionda tutta riccia, il torace appesantito da un gran numero di macchine fotografiche, cominciò a protestare presso il capitano israeliano dichiarando che non era acconcio che quelle ragazze stessero lì, al fronte. Sammler lo udì fare queste sue rimostranze fra i denti, che erano cariati e piccolissimi. Il luogo dove adesso si trovavano era stato bombardato poco prima. Non si riusciva a capire perché. Sembrava che non ci fosse alcuna ragione di natura militare. Il terreno, comunque, era pieno di enormi buche, ancora nere di fuliggine fresca, lasciata dalle bombe.
«Perlomeno mettetele in quelle buche» insistette lo svizzero.
«Nelle buche, le tane di volpe. Può arrivare un’altra bomba. Non le può mica lasciare così a camminare per la strada! Non si può, non capisce?» Era un ometto insopportabile. La sua guerra gliela stavano rovinando quelle stupide mascherate nei loro costumi. L’ufficiale israeliano cedette. Fece rifugiare le ragazze nelle buche bruciate. A quel punto tutto quel che si riusciva a vedere di loro erano le teste e le spalle. La paura non aveva ancora cancellato l’indignazione, ma iniziava a farsi sentire. Oramai erano così stordite, nella loro vernice erotica, che una cominciò a singhiozzare un pochino, e un’altra ansimava e diventava sempre più rossa in faccia. Si stava trasformando in una donna di mezza età – una donna di fatica. Fronzoli di nero luccicante si sollevavano intorno alle ragazze, l’erba risplendente di cordite.
Accadevano altre cose strane come quelle. C’era Padre Newell, il corrispondente di guerra gesuita. Portava l’uniforme da campo completa, adottata nelle giungle del Vietnam – chiazze e strisce gialle, nere e verdi, per l’effetto mimetizzante. Rappresentava un giornale di Tulsa, nell’Oklahoma, no? O di Lincoln, nel Nebraska? Sammler gli doveva ancora dieci dollari, la sua parte per la corsa del taxi che avevano noleggiato insieme a Tel Aviv per arrivare al fronte siriano. Ma non aveva l’indirizzo di Padre Newell. Avrebbe potuto fare qualche sforzo in più per rintracciarlo. Sulla via del ritorno in patria dal Sud-est asiatico, il prete si era fermato, come turista, ad Atene, e stava ammirando l’Acropoli quando aveva avuto notizia dei combattimenti e vi si era recato immediatamente. I grandi stivali da giungla erano ampi come galosce. Padre Newell sudava nella sua tuta mimetica. I capelli tagliati corti stile Marines, gli occhi anch’essi verdi e le guance di uno splendido rosso bistecca. Laggiù, sotto di loro, i carri armati correvano a precipizio e il fumo sbuffava giallo dal terreno. Pochi suoni giungevano fino a loro.
Seduto nella sala d’aspetto, Mr. Sammler ora si mosse e si alzò in piedi. Entrando dalla luce generale del corridoio in quella della lampada del salottino per i visitatori, Wallace gli stava già parlando. «Dice Angela che papà dorme. Immagino che non avrai avuto occasione di parlargli della soffitta?»
Wallace non era solo. Dietro di lui entrò Eisen.
Wallace e Eisen si conoscevano. Quanto si conoscevano? Una domanda curiosa. Ma da molto tempo, in ogni caso. Si erano conosciuti quando Wallace, dopo aver tentato di girare l’Asia centrale in sella a un cavallo, con conseguente arresto da parte delle autorità sovietiche, era andato in Israele ed era stato ospite del cugino Eisen. Allora Wallace aveva preparato tutta una serie di appunti (si era messo subito al lavoro) per un saggio in cui sosteneva che la modernizzazione imposta da Israele al Medio Oriente era assolutamente troppo repentina per gli Arabi. Perniciosa. Wallace, naturalmente, doveva per forza essere contrario al sionismo di Elya. Ma Eisen, che non capiva mai niente, all’oscuro com’era dell’improvvisa passione di Wallace (che presto sarebbe svanita) per la cultura araba, gli portava il caffè a letto mentre lui lavorava. E questo perché Wallace era appena uscito da una prigione sovietica, grazie a Gruner e al Senatore Javitz, e Eisen sapeva che cosa significava essere nelle mani dei russi. Così aveva fatto in modo che Wallace si riposasse, lo serviva in tutto e per tutto. Aveva imparato a muoversi svelto sui suoi piedi mutilati. Una capacità di adattamento ingegnosa. Lo strascicamento di quei piedi senza dita, a Haifa, aveva dato molto sui nervi a Sammler. Non sarebbe mai riuscito a passare due ore, da solo, con il bello, sorridente e ricciuto Eisen. Invece Wallace, con i suoi occhioni dalle grandi orbite e le lunghe ciglia, sporgeva un braccio magro e peloso dal letto e, senza guardare, accettava con dita tremanti quel caffè, e per dieci giorni, dopo le galere dell’Armenia sovietica, si era fatto coccolare nel letto di Eisen. I russi lo avevano mandato in Turchia. Dalla Turchia era andato ad Atene. Da Atene, come Newell il gesuita in seguito, aveva preso un aereo per Israele. Teneramente, devotamente, Eisen gli aveva prestato i suoi servigi.
Era per il piacere di vedere lui che Eisen aveva quell’aria raggiante, o perché l’avvenimento (Eisen a New York per la prima volta in vita sua) era eccezionale? Era allegro ma un po’ impalato, impacciato sotto le braccia e in mezzo alle gambe dai suoi nuovi indumenti americani. Evidentemente Wallace lo aveva portato in uno di quegli esecrabili negozi mod di abbigliamento maschile, tipo Barney. Forse in una di quelle boutique unisex. Il pazzo portava una camicia porpora con una cravatta color cachi, larga e spessa quanto la lingua di un bue. La tetraggine della sua risata interminabile, il luccichio dei suoi denti perfetti, intatti malgrado l’assedio di Stalingrado e neppur minimamente rovinati dalla totale mancanza di nutrimento quando, zoppicando, aveva attraversato a piedi i Carpazi e le Alpi. Denti come quelli meritavano un cervello più sano.
«Come sono contento di trovarti qui» disse Eisen a Sammler parlando russo.
Sammler gli rispose in polacco: «Come stai Eisen?».
«Dato che non ti sei voluto fermare a farmi visita nel mio Paese, sono venuto io a vedere te nel tuo» disse Eisen.
In questo rimbrotto, familiare e tradizionale introduzione ebraica, c’era, se non altro, una qualche traccia di normalità. Ma non fu così nella seconda dichiarazione. «Sono venuto in America per farmi una nuova carriera.» Karyera era la parola di cui si era servito. Vestito con quegli indumenti stretti, goffi, di cotone grigio e grezzo, palesi rimanenze di vecchie forniture del tempo della Ivy League che gli avevano subito appioppato, quei colori porpora, cachi e pomodoro (gli stivaletti rossi Chelsea che gli arrivavano fin sopra le caviglie), i suoi riccioli incolti fondevano testa e spalle eliminando brutalmente il collo: ovviamente si stava costruendo una nuova immagine, rivedendo la concezione di sé. Non più vittima di Hitler e Stalin; depositato, affamato fino all’osso, sulle sabbie di Israele; pidocchi, follia e febbre suoi unici beni e attributi; liberato dall’internamento a Cipro; gli erano stati insegnati una lingua e un mestiere. Ma alla guarigione non si poteva dire quando era giunto il momento di fermarsi. Lui aveva proseguito, nell’intento di diventare un artista. Sollevandosi dall’insignificanza, dall’essere “cosa non utilizzabile”, qualcosa che aspettava di essere fatto a pezzi con un arnese tagliente (Eisen aveva detto che l’aveva visto accadere con i suoi stessi occhi, prima di fuggire dal territorio occupato dai nazisti per passare nella zona russa – uomini troppo insignificanti per sprecarci delle pallottole, e quindi gli fracassavano la testa a colpi di pala); ma sollevandosi e continuando, poi, a sollevarsi, fino a raggiungere la supremazia sul mondo. Attraverso la divinità dell’Arte. Parlando, ispirato, al genere umano. Tracciando segni nel linguaggio universale dei pigmenti carichi dell’immaginazione dell’artista. Urrah! Eisen che se ne volava da una vetta all’altra! Malgrado i suoi colori fossero più grigi dell’ardesia, più neri del carbone, più rossi della malattia, e i suoi ritratti dal vivo fossero più che morti, l’autobus che lo aveva portato in città dal Kennedy era una limousine; le autostrade che conducevano in città lo accolsero come un astronauta baciato dalla gloria, e lui guardava alla sua Karyera con i suoi denti umidi scoperti nella risata, nella più disperata delle estasi. (Per fare pendant con la Karyera russa ci voleva per forza anche l’Extass russa, diamine!)
Lui e Wallace stavano già combinando degli affari insieme. Eisen disegnava le iscrizioni sulle etichette da affiggere sugli alberi e sui cespugli. Fecero vedere a Sammler qualche campione: QUERCUS e ULMUS. A grandi lettere tutte sbafate in inchiostro nero e a caratteri gotici. Altre etichette scritte nella foggia del corsivo straniero che Eisen aveva imparato al gymnasium davano un’impressione più ordinata, meno pasticciata. Il povero Eisen, quand’era scoppiata la guerra, andava ancora alla scuola elementare e non aveva potuto proseguire gli studi superiori. Sammler fece del suo meglio per dire qualcosa di appropriato e di innocuo, malgrado provasse ribrezzo per tutto ciò che Eisen metteva sulla carta.
«A queste bisogna farci qualche modifica qua e là» disse Wallace. «Ma l’idea è incredibilmente azzeccata. Per uno completamente digiuno, capisci.»
Wallace disse risolutamente, addirittura con un lievissimo ghigno di scherno (che gli fece apparire una specie di fossetta) diretto ai dubbi del vecchio: «Ma certo, nel modo più assoluto, Zio. Anzi domani stesso vado a provare qualche aereo, nel Westchester. Parto già stasera così passo la notte nella nostra vecchia casa».
«Be’, dev’essere una piacevole sensazione, eccitante – una nuova impresa, con amici e parenti. Che cos’hai lì, Eisen?»
Una grande borsa di panno verde penzolava dal polso di Eisen. «Qui? Ho portato un po’ del mio lavoro eseguito con materiali e procedimenti diversi dai soliti» disse Eisen. Mentre appoggiava la borsa sul tavolo di vetro, si udì un tintinnio; la borsa, molle, ricadde all’indietro.
«No, non sono fermacarte. Sì, volendo, li potresti adoperare a quello scopo, Suocero Sammler, ma in realtà sono medaglioni.» Tanto Eisen non si offendeva, felice com’era dei suoi magnifici risultati. Come se stesse inalando qualche aromatica rarità, cominciò a chiudere gli occhi e a sfoderare quelle sue impareggiabili ossa, i denti, e con ambo le mani si allisciò all’indietro i riccioli che gli spiovevano sulle orecchie. «Alla fonderia ho inventato un nuovo processo» disse. Cominciò a spiegare in che cosa consisteva servendosi di un russo tecnico, ma Sammler disse: «Non riesco a seguirti, Eisen. Non sono pratico di questi termini».
Il metallo aveva un’aria grezza, in parte color bronzo, ma anche giallo pallido, tinto di solfuri come l’oro finto. E Eisen aveva fatto le solite stelle di David, i candelabri a bracci, rotoli di pergamena e corna di ariete, o iscrizioni che fiammeggiavano in ebraico: Nahamu!, «Che tu riceva conforto!». Oppure il comando impartito da Dio a Giosuè: Hazak! Con un certo interesse Sammler rimase a guardare mentre quegli oggetti grossolani, grevi, venivano disposti, uno per uno, in bella mostra. E ogni volta, dopo, c’era una pausa, mentre la faccia del connaisseur veniva attentamente esaminata per scorgervi la meravigliosa reazione ovviamente dovuta a quel pezzo in particolare. Quelle piriti ferrose: sarebbero dovute stare in fondo al Mar Morto.
«Metafora per un carro armato. Niente è letterale nel mio lavoro.»
«Non c’è più nessuno che si limiti semplicemente ad allucinare» disse Sammler in polacco. La sua affermazione passò inosservata.
«Ma non dovrebbero essere più levigati, forse?» disse Wallace. «E che cos’è questa parola?»
«Sì, be’… Ma perché Dio parla una lingua così buffa?» disse Wallace.
«Sciocchezze» disse Sammler. «Elya sta male. Non lo può neppure maneggiare questo metallo pesante, ruvido.»
«No, no, io prenderò in mano un pezzo alla volta, lo prenderò io. Voglio che veda quanto sono riuscito a fare. Venticinque anni fa arrivai in Eretz che ero un uomo finito. Però non la volevo dare vinta, non riuscivo a morire. Mi rifiutavo di chiudere gli occhi – non prima di aver fatto qualche cosa, come essere umano, qualche cosa di bello, d’importante.»
Sammler non arrischiò alcun commento. In fondo, non era tanto difficile toccare il suo cuore. E inoltre, era stato allevato nei modi antichi della politesse. Quasi come, un tempo, le donne erano state educate alla castità. Ben addestrato a trovare qualcosa da mormorare alla vista di tutta la robaccia che Shula trovava nei cestini dei rifiuti, emise i necessari suoni e compì i necessari gesti, ma poi disse ancora una volta che Elya era molto malato. Quei medaglioni avrebbero potuto stancarlo.
«La mia opinione è diversa» disse Eisen. «Il contrario, invece. Come può far male l’arte?» Cominciò a collocare, accuratamente, i pezzi tintinnanti nella borsa di panno.
Poi Wallace disse a qualcuno che si trovava dietro a Sammler: «Sì, c’è». Era entrata l’infermiera privata.
«Tu, Zio. Eccolo qui Mr. Sammler.»
«La vogliono al telefono. Lei è lo Zio Sammler?»
«Una certa Mrs. Arkin. Dice di chiamarla a casa.»
«Oh, Margotte. Ha telefonato nella stanza di Elya? Spero che non l’abbia svegliato.»
«Grazie. Ah, già. Dove posso trovare un telefono pubblico?»
«Ti serve qualche monetina da dieci, Zio?» Sammler prese due monete calde dal palmo di Wallace. Wallace se li era tenuti stretti, i suoi soldi.
Margotte fece sforzi incredibili per riuscire a parlare con voce calma. «Zio? Ascolta bene. Dove l’hai lasciato il manoscritto del dottor Lal?»
«Certo che ne sono sicuro. Sulla mia scrivania.»
«Non c’è per caso un altro posto dove potresti averlo messo? So bene che non sei distratto, ma cosa vuoi, tutta questa tensione non è roba da niente.»
Fra tutti quei vasi di terra. Chissà che cosa provava quel Lal!
«Eh, non potevo mica mentirgli. Gliel’ho dovuto dire per forza. Lui voleva aspettarti qui. Naturalmente ci siamo precipitati qui dalla Butler Hall… Era così impaziente, angosciato.»
«Ma ti dico, è così abbattuto. Veramente, Zio, nessuno ha il diritto di sottoporre una persona a una cosa del genere.»
«Le mie scuse al dottor Lal. Me ne dispiace più di quanto possa dire… Posso facilmente capire quanto sia turbato. Però, ascolta, Margotte, una sola persona al mondo avrebbe potuto prendere quel quaderno. Cerca d’informarti dal tizio dell’ascensore. C’è stata Shula da noi?»
«Tanto Rodríguez la lascia entrare come una di famiglia. E Shula è una della famiglia, dunque…»
Rodríguez aveva un gigantesco mazzo di chiavi, tenute insieme da quello che più che un anello sembrava un cerchio da hula-hop. Se ce n’era bisogno andava a prenderlo in cantina, dove stava attaccato a un chiodo sul muro di mattoni.
«Sul serio, Shula è davvero stupida a questo punto. Quando è troppo è troppo. Gliene ho lasciate passare tante, io; dovevo essere più duro. L’imbarazzo che provo è terribile. Essere il padre della mentecatta che tende un’imboscata a quest’indiano così infelice. Tu con Rodríguez ci hai parlato?»
«Il dottor Lal ha ricevuto un rapporto del detective che oggi è andato a pescarla a casa, a mezzogiorno. Credo che quell’uomo l’abbia minacciata.»
«Le ha detto che il manoscritto deve essere restituito entro le dieci di domani mattina, altrimenti andrà a casa di Shula con un mandato.»
«Non so. E non lo sa neppure il dottor Lal. Ma sembra che lei si sia agitata molto. Ha detto che sarebbe andata dal suo sacerdote. Sarebbe andata da Padre Robles per presentare delle proteste alla Chiesa.»
«Margotte, sarebbe consigliabile che tu t’informassi da quel prete. Un mandato di perquisizione in quell’appartamento? Sono dodici anni che lo riempie di robaccia di ogni sorta. Se quelli della polizia appoggiano il cappello da qualche parte non lo ritroveranno più. Comunque io sono dell’idea che sia andata a New Rochelle.»
«Se non sta da Padre Robles, sarà là di sicuro.» Sammler la conosceva bene, poteva prevedere i suoi movimenti; li conosceva come gli eschimesi conoscono il modo di fare delle foche, i buchi che praticano nel ghiaccio, per respirare. «Capisci, lei in questo momento è convinta di proteggere me, dato che l’oggetto rubato si trova nelle mie mani. Dev’essere rimasta terrorizzata dal detective, poveretta, e poi ha aspettato che io e te uscissimo.» A spiare la mia porta, come il negro. Rendendosi conto che il padre non la includeva nelle sue preoccupazioni più serie. Determinata a riconquistare la priorità assoluta. «Le ho dato troppa corda con questa sciocchezza di H.G. Wells. E ora qualcuno c’è andato di mezzo.»
Questo sfortunato Lal che, tanto per cominciare, doveva essere nauseato della Terra, se nutriva tante speranze nella vita sulla Luna.
«Andrò a New Rochelle con Wallace» disse Sammler. «Sarà sicuramente là. Ma tanto per scrupolo chiederemo anche a Padre Robles. Se lui sa dove si trova… ti ritelefono io.»
Poiché Margotte non era americana lui la sentiva vicina, solidale. A lei non doveva nascondere la sua mortificazione (straniera). E poi aveva dato prova di delicatezza ricordandosi di non telefonare in stanza di Elya.
«Chiedigli scusa» disse Sammler. «Rassicuralo. Confortalo, Margotte. Digli che sono certo che il manoscritto è al sicuro. Spiegagli quanto Shula rispetti la parola scritta. E domandagli, per favore, di fare in modo che i detective si tengano lontani da questa faccenda.»
«Un momento, Zio. Il dottor Lal è qui. Vorrebbe dirti una parola.»
Una voce orientale infiorò la linea telefonica.
«Lei è Mr. Sammler?»
«Io sono il dottor Lal. Questo è il secondo furto. Non posso tollerare oltre. Dato che Mrs. Arkin mi ha chiesto di avere pazienza, posso aspettare soltanto un pochino di più. Ma molto poco. Poi debbo per forza dare ordini alla polizia perché fermino Sua figlia.»
«Magari servisse a qualcosa metterla dietro le sbarre! Mi creda, sono più spiacente di quanto io riesca a dire. Ma sono assolutamente convinto che il manoscritto è al sicuro. Mi dicono che quella è l’unica copia in Suo possesso.»
«È davvero penoso. Avevo sperato che si trattasse di sei, sette mesi. Ma posso rendermi senz’altro conto di tutta la preparazione e delle ricerche che un libro del genere deve richiedere.» Normalmente Sammler detestava l’adulazione, ma in quel momento non aveva altra scelta. Un velo umido si stese sull’apparecchio nero, contro il suo orecchio, e sulla guancia era rimasto un segno rosso lasciato dalla pressione del ricevitore. Disse: «È un lavoro superbo».
«Sono lieto che la pensi così. Giudichi Lei quale effetto tutto ciò può avere su di me.»
Sì, sì, posso giudicare. Chiunque può afferrare un altro e lanciarlo nel vuoto. Il basso può obbligare l’alto a ballare. I saggi sono costretti a girare vorticosamente insieme a imbecilli saltellanti. «Cerchi di non agitarsi eccessivamente, signore, La prego. Io sono in grado di ritrovare il Suo manoscritto, e lo farò stasera stessa. Non mi servo della mia autorità sufficientemente spesso. Mi creda, io posso farmi obbedire da mia figlia, e lo farò.»
«Avevo sperato che potesse essere pubblicato entro il primo atterraggio sulla Luna» disse Lal. «Lei può immaginare quanti paperback di nessun valore usciranno. Confondendo il pubblico. Falsi.»
«È chiaro.» Sammler avvertì che l’indiano, probabilmente un tipo passionale, opponendo resistenza a una grande pressione interna, si stava in realtà comportando in modo gentile, pieno di comprensione per la fragilità di un vecchio e per la difficoltà della situazione. Pensò, è un vero signore. Inclinando il capo dentro quel piccolo recinto metallico impenetrabile al suono, il voile à pois dell’isolamento acustico, Sammler cedette alla suggestione orientale: «Possa il sole illuminare il tuo volto. Sceglierti fra la moltitudine (immaginandosi gli indù sempre ammassati in una gran folla: come i mari rigurgitanti di maccarelli) per molti anni ancora». Sammler era risoluto a che Shula non dovesse far male a nessuno, eccetto lui. Lui se la doveva sorbire per forza, ma nessun altro doveva essere obbligato a fare lo stesso.
«Certo,» disse Sammler «avremo modo di parlarne ampiamente. La prego di pazientare ancora un po’. Telefonerò non appena avrò qualche notizia. La ringrazio per la Sua comprensione.»
Entrambi riattaccarono il ricevitore.
«È così, infatti. Shula. Possiamo partire presto?»
«Emil è giù con la Rolls. Tanto vale che l’adoperiamo mentre possiamo. Che cosa sta combinando Shula? Mi ha chiamato.»
«Poco tempo fa. Voleva mettere non so che cosa nella cassaforte di papà. Voleva sapere se conoscevo la combinazione. È chiaro che io non le potevo dire che la combinazione la conoscevo. Visto che ufficialmente non dovrei.»
«Non gliel’ho chiesto. Tu, immagino, l’avrai vista Shula quando sussurra ai fiori nel giardino» disse Wallace. Wallace non era un osservatore e gli interessava ben poco la condotta degli altri. Ma proprio per quella ragione valutava moltissimo le cose che eccezionalmente osservava. Quello che notava, lo teneva in gran conto. Era sempre stato gentile e affettuoso con Shula. «In che lingua gli parla, polacco?»
La lingua della schizofrenia, molto probabilmente.
Sammler aprì la porta della stanza del paziente e lo vide seduto sul letto, da solo. Con i suoi occhialoni neri il dottor Gruner stava studiando, o tentando di studiare, un contratto o un documento legale. A volte diceva che avrebbe dovuto fare l’avvocato, non il medico. La facoltà di medicina non l’aveva scelta lui, bensì la madre. Di sua completa volontà probabilmente aveva fatto poco. Bastava pensare alla moglie.
«Entra, Zio, e chiudi la porta. Rimaniamo tra padri e basta. Non voglio vedere figli stasera.»
«La capisco questa sensazione» disse Sammler. «Spesso l’ho provata anch’io.»
«È un gran peccato per Shula, povera donna. Ma lei è soltanto un po’ toccata. Mia figlia invece è una sporcacciona.»
«Ma se tu stesso non ci credi neppure per un minuto, Zio. Che cosa ti aspetti, una ripresa al nono inning? Mi domando come, a fare che cosa, ho passato tanti anni della mia vita. Si vede che credevo a quello che mi diceva l’America. Ho pagato sempre per la migliore qualità. Non mi è mai venuto il sospetto che quello che ricevevo non lo fosse affatto.»
Se Elya avesse parlato in preda all’agitazione, Sammler avrebbe cercato di calmarlo. Invece parlava con concretezza fattuale e dava l’impressione di essere perfettamente padrone di sé. Con addosso quei fondi di bottiglia aveva un’aria particolarmente giudiziosa. Come il presidente di un comitato senatoriale che ascolta testimonianze scandalose senza perdere per un attimo la sua espressione compassata.
«Sarà andata in bagno a farsi un pianto, immagino. A meno che non si stia succhiando un portantino o non sia nel bel mezzo di una partouze. Quando quella lì volta l’angolo, non si può mai sapere.»
«Oh, che brutte cose. Tu non dovresti bisticciare.»
«Mica bisticcio. Rendo semplicemente le cose più chiare, chiamandole col loro vero nome. Io mi ero immaginato che questo Horricker la sposasse, ma adesso non lo farà più di certo.»
«Be’, è meglio che tu non li sappia i dettagli. Quella facezia che dicesti era azzeccatissima, quella sul tavolo da biliardo all’inferno, una cosa verde dove fa caldo.»
«È chiaro che io lo sapevo che mia figlia, con venticinquemila dollari esenti da tasse a disposizione, ovviamente qualche divertimento se lo concedeva. Era una cosa che avevo calcolato, e fin tanto che si comportava da persona matura e assennata io non avevo nessuna obiezione. Tutto questo, in teoria, va benissimo. Uno adopera le parole “matura” e “assennata”, e ci si sente soddisfatti. Ma poi ti metti a guardare un po’ più da vicino, e quando guardi da vicino, caro mio, vedi qualcosa di diverso. Tu vedi una donna che l’ha fatto in troppi modi con troppi uomini. A questo punto probabilmente non sa neppure il nome dell’uomo che le sta fra le gambe. E ha un’aria… Gli occhi – ha gli occhi di chi si è fottuta l’anima sua.»
Qualcosa di molto strano nell’espressione di Elya. Da qualche parte, lì intorno, ci dovevano essere delle lacrime, ma la dignità non le permetteva. Forse si trattava di severità verso se stessi, non di dignità. Ma in tutti i casi non venivano fuori. Erano state avviate su un’altra rotta, assorbite dall’organismo. Erano state soggiogate, convertite in toni. Erano presenti nella voce, nel colore della pelle, nella luce degli occhi.
«Debbo andare, Elya. Porto Wallace con me. Torno a vederti domani.»
Emil nella sua Rolls Royce forse aveva avuto una vita invidiabile. La limousine argentata era il suo rubinetto. Aveva tutta quella potenza da sprigionare. E inoltre lui era al di fuori dell’ansiosa, miseranda rivalità, al di fuori dell’odio, del rancore, della guerra continua tra gli autisti normali di automobili meno pregiate. Parcheggiato in doppia fila, non veniva mai molestato dalla polizia. In piedi accanto alla sua macchina grandiosa, le natiche, che sporgevano rettilinee per via dei pantaloni dell’uniforme, erano più vicine alla terra di quelle della maggioranza della gente. Emil sembrava anche possedere uno spirito calmo, serio; grosse pieghe nella faccia; labbra curvate all’indentro che non mettevano mai in mostra i denti; i capelli con la riga in mezzo simili a un cappuccio che gli scendeva fino alle orecchie; un nasone alla Savonarola. Sulla targa della Rolls c’era ancora la scritta MD, Dottore in medicina.
«Emil ha guidato per Costello, per Lucky Luciano» disse Wallace, sorridendo.
Nella luce dell’interno grigio della macchina, la barba appena un po’ lunga di Wallace faceva l’effetto del puntinismo. I grandi occhi scuri nelle immense orbite desideravano offrire un garbato intrattenimento. Se si considerava con quale intensità Wallace si lasciava assorbire e prendere dagli affari, da problemi di carattere, dalla morte, si riconosceva quanto fosse generoso e difficile tutto ciò per lui – quanto fosse penoso, sconvolgente, irritante, quale sforzo gli si richiedesse. Per mettere insieme un sorriso gentile per il vecchio zio.
«Luciano? L’amico di Elya? Sì. Mafia di spicco. Angela me l’ha nominato.»
«Contatti di tempi ormai lontanissimi.»
Presero la West Side Highway, lungo lo Hudson. Ecco l’acqua – quant’era bella, impura, insidiosa! e i cespugli e gli alberi, copertura per stupri, rapine col coltello puntato, aggressioni e assassinii. Sull’acqua la luce del ponte e la luce della Luna giacevano lievi, deliziosamente brillanti. E quand’anche ci staccassimo da tutto questo e portassimo la vita umana fuori, fuori della Terra? Mr. Sammler era disposto a credere che ciò avrebbe potuto avere un effetto calmante sulla specie, in quel momento eccezionalmente travagliata. La violenza si sarebbe forse chetata, le idee esaltate avrebbero potuto riacquistare importanza. Una volta che gli uomini si fossero emancipati dalle condizioni telluriche.
Nella Rolls c’era un elegantissimo bar: aveva una lucina all’interno del mobile rivestito di specchi. Wallace offrì al vecchio del liquore o della Seven Up, ma lui non voleva niente. Stringendo l’ombrello fra le ginocchia alte, stava riprendendo in esame alcuni dei fatti. I viaggi nello spazio erano resi possibili dalla collaborazione tra specialisti. Mentre sulla Terra l’ignoranza sensibile sognava tuttora di essere separata e “intera”. “Intera”? Ma quale “intera”? Un’idea puerile. Portava a tutta questa follia, folli religioni, LSD, suicidio, delinquenza.
Chiuse gli occhi. Espirò dall’anima un po’ di male, e inspirò un po’ di bene. No, grazie, Wallace, niente whisky. Wallace ne versò un poco per sé.
Come poteva l’ignorante non-specialista essere forte di una forza adeguata per affrontare questi miracoli tecnici che facevano di lui uno sprovveduto selvaggio del Congo? Per visione, per arcaica purezza interiore pre-alfabetismo, per forza naturale, nobilmente intero? I ragazzi appiccavano il fuoco alle biblioteche. Indossavano pantaloni persiani e si lasciavano crescere le basette. Questa era la loro simbolica interezza. Un’oligarchia di tecnici, di ingegneri, gli uomini che facevano funzionare le formidabili macchine, infinitamente più sofisticate di questa automobile, sarebbero poi giunti a governare vaste bidonvilles formicolanti di adolescenti bohémiens, narcotizzati, infiorati, e “interi”. Lui stesso era un frammento, deduceva Mr. Sammler. Ed era pure fortunato a esserlo. La totalità era ugualmente al di là dei suoi poteri quanto costruire una Rolls Royce, pezzo per pezzo, con le proprie mani. E quindi forse, forse! le colonie sulla Luna avrebbero ridotto la febbre e l’edema di qui, e la passione per l’illimitatezza e per l’interezza avrebbe potuto trovare maggior appagamento materiale. Il genere umano, ubriaco di terrore, avrebbe potuto calmarsi, diventare più sobrio.
Ubriaco di terrore? Sì, e i frammenti (un frammento come Mr. Sammler) capivano: questa Terra era una tomba; la nostra vita le veniva data in prestito attraverso i propri elementi e doveva essere restituita; giungeva un momento in cui i semplici elementi sembravano bramare di essere liberati dalle complicate forme della vita, un momento in cui ciascun elemento di ciascuna cellula diceva: «Basta!». Il pianeta era la nostra madre e la nostra terra di sepoltura. Sfido io che lo spirito umano desiderava andarsene. Abbandonare questa pancia prolifica. Abbandonare anche questa grande tomba. La passione per l’infinito causata dal terrore, dal timor mortis, aveva bisogno di appagamento materiale. Timor mortis conturbat me. Dies irae. Quid sum miser tunc dicturus.
La Luna era così grande quella sera che catturò l’occhio di Wallace, seduto a bere nel sedile posteriore, nel lusso sconfinato dei rivestimenti interni e dei tappeti. Le gambe accavallate, appoggiato allo schienale, col dito fece segno verso la Luna, oltre Emil, al di sopra della superstrada levigata, a nord del George Washington Bridge.
«Non è fantastica la Luna? E tutti quei tizi che si danno tanto da fare, girandole intorno» disse.
«Chi?»
«Navicelle spaziali. Moduli.»
«Ah già. L’ho visto sui giornali. Tu ci andresti?»
«Se ci andrei? Ma anche subito» disse Wallace. «Fuori, fuori? Ci puoi scommettere che ci andrei. Al volo ci andrei. Anzi, ti dirò, che mi sono già messo in lista con la Pan Am.»
«Con chi?»
«Con le linee aeree. Mi sa che sono la cinquecentododicesima persona ad aver telefonato per prenotarsi.»
«Ma come, accettano già le prenotazioni per le escursioni sulla Luna?»
«Ma certamente, eccome. Centinaia di migliaia di persone ci vogliono andare. Anche su Marte e Venere, saltando come paracadutisti dalla Luna.»
«È davvero strano.»
«E che cosa c’è di strano? Andarci? Non è strano affatto. Te l’assicuro, le compagnie aeree ricevono tonnellate di domande. E tu? Lo faresti il viaggio, Zio?»
«No.»
«Dici per l’età, forse?»
«Probabilmente l’età. No, i miei viaggi sono finiti.»
«Ma la Luna, Zio! Naturalmente, dal punto di vista fisico, non saresti in grado di farlo; ma un uomo come te? Non posso credere che una persona della tua fatta non muoia dalla voglia di andarci.»
«Sulla Luna? Ma io non voglio nemmeno andare in Europa» disse Mr. Sammler. «E poi, se avessi la possibilità di scegliere, preferirei il fondo dell’oceano. Nella batisfera del dottor Piccard. Mi sembra di essere più un uomo da profondità che da altezza. Personalmente l’illimitabile non mi piace granché. L’oceano, per quanto profondo, ha una superficie, una sommità, insomma, e un fondo, mentre il cielo non ha un soffitto. Credo di essere un orientale, Wallace. Gli ebrei, dopotutto, sono orientali. Io mi contento di starmene qui sul West Side, e guardare, ammirare queste favolose partenze faustiane per gli altri mondi. Personalmente, io ho necessità di un soffitto, per quanto alto esso sia. Già, mi piacciono i soffitti, e quelli alti più di quelli bassi. In letteratura credo si possa dire che esistono dei capolavori a soffitto basso – Delitto e castigo, per esempio –, poi ci sono i capolavori a soffitto alto, Alla ricerca del tempo perduto.»
Claustrofobia? La morte è imprigionamento.
Continuando a sorridere, garbatamente ma risolutamente Wallace esprimeva disaccordo, tuttavia provava un sottile interesse per le opinioni di Sammler. «Naturalmente,» disse «a te il mondo sembra diverso. Letteralmente. A causa degli occhi. Quanto riesci a vedere?»
«Soltanto parzialmente. Hai ragione.»
«E malgrado tutto hai descritto quel negro e il suo coso.»
«Ah, te l’ha detto Feffer. Il tuo socio. L’avrei dovuto immaginare che si sarebbe precipitato a raccontarlo. Spero che non dica sul serio a proposito della faccenda di scattare fotografie sull’autobus.»
«Mah, lui crede che sia possibile, con la sua Minox. È un po’ picchiato, sai. Quando la gente è giovane e piena d’entusiasmo, si dice: “Tutta questa gioventù e quest’entusiasmo”, ma quando s’invecchia, a proposito dello stesso modo di comportarsi, si dice: “Che pazzo”. Feffer era tutto eccitato dalla tua esperienza. Ma cos’ha fatto, in verità, quell’uomo, Zio? Si è esibito. Si è abbassato i pantaloni?»
«No.»
«Se li è aperti. E poi si è tirato fuori l’arnese. Ma com’era? Mi stavo domandando… Gli sarà venuto in mente che la tua vista non era abbastanza buona da consentirti di vedere bene?»
«Non so che cosa gli è venuto in mente. Non me l’ha detto.»
«Be’, allora dimmi un po’ del suo coso. Non era nero, vero? Dev’essere stato una specie di color cioccolato un po’ violaceo; oppure, forse, dello stesso colore del palmo delle mani?»
L’obiettività scientifica di Wallace!
«Non ho voglia di parlarne, a dire il vero.»
«Oh, Zio, fa’ finta che io sia uno zoologo che non ha mai visto un leviatano, ma che tu invece conosca Moby Dick di prima mano, dalla baleniera. Quant’era lungo? Quaranta, quarantacinque centimetri?»
«Non saprei.»
«Quanto diresti che pesava, un chilo, un chilo e mezzo, due?»
«Non ho alcun modo di far calcoli simili. E tu non sei uno zoologo. Lo sei diventato in questo preciso momento e basta.»
«Non era circonciso, vero?»
«Questa è stata la mia impressione.»
«Chissà se le donne preferiscono sul serio quel genere di cosi.»
«Presumo che abbiano altri interessi oltre a questo.»
«Così dicono. Ma tu lo sai che non ci si può fidare di loro. Sono animali, o no?»
«In questo momento si enfatizza il lato animalesco.»
«Io non ci casco nella storiella della donna dolce e graziosa. Le donne sono lussuriose. A mio parere sono più porcaccione degli uomini. Con tutto il rispetto per la tua esperienza e conoscenza della vita, Zio Sammler, questo è un campo in cui non sono troppo incline a prendere per buona la tua parola. Angela dice sempre che se un uomo ha un bel pisello grosso… scusa, Zio.»
«Forse Angela è un caso particolare.»
«Tu preferisci pensare che Angela sia uscita dal continuum. E se non fosse così?»
«Wallace, preferirei lasciar perdere questo argomento.»
«No, è veramente troppo interessante. E questa è pura obiettività, non è mica una conversazione oscena. Ora, per esempio, Angela riferisce ottime cose sul conto di Wharton Horricker. Sembra che sia un uomo longilineo e forte. Lei però dice che fa troppa ginnastica, è troppo muscoloso. È difficile ricevere o provare delle emozioni tenere da un uomo con braccia che sembrano cavi di acciaio e con pettorali imponenti, grossi, proprio tipici dei sollevatori di pesi. Un uomo di ferro. Lei dice che tutto questo interferisce con il flusso di sentimenti teneri.»
«Non ci avevo pensato.»
«Ma che cosa ne sa lei di sentimenti teneri? Basta che abbia un tizio fra le gambe – ogni uomo è il suo amante. No, qualsiasi uomo. Dicono che gli uomini che ce la mettono tutta per diventare muscolosi come tori, in quel modo, sai, tipo “Oh, ero un mingherlino di quarantadue chili” – che questi tipi sono dei pederasti narcisisti. Io non voglio giudicare nessuno. E se anche fossero omosessuali? Oggigiorno queste cose non hanno più alcuna importanza. Io non credo che l’omosessualità sia semplicemente una maniera diversa di essere umani: in realtà credo si tratti di una malattia. Non so perché gli omosessuali la fanno tanto lunga e si proclamano normalissimi. Persone così perbene, educate. Naturalmente ci siamo noi a cui loro possono guardare – e noi non siamo poi dei gran bei campioni. Io sono convinto che questo boom dei froci sia stato causato dalla guerra dei tempi moderni. Uno dei risultati del 1914, quel massacro nelle trincee. Gli uomini scoppiavano in aria. Ovviamente era più sano essere donna che uomo. Era meglio essere un bambino. Meglio di tutti è essere un artista, una combinazione di bambino, donna o derviscio – un momento, è derviscio che voglio dire? Uno sciamano? No, probabilmente quel che voglio dire è un negromante. E in più milionario. Ci sono un sacco di milionari che vogliono essere artisti o bambini o donne e negromanti. Di che cosa stavo parlando? Ah, Horricker. Stavo dicendo che malgrado tutta quella cultura fisica e sollevamento pesi non è un finocchio. Ma cionondimeno ha un’immagine fantastica della forza maschile. Una persona che compie un risolutissimo sforzo su se stesso. Il compito di Angela sembra essere stato quello di fargli abbassare un pochino la cresta. Oggi lei piagnucola per lui, però è una porca, e domani lo avrà dimenticato. Io credo che mia sorella sia una maiala. Se lui ha troppi muscoli, lei ha senz’altro troppo grasso. Che dire di tutto quel grasso che interferisce col flusso dei sentimenti teneri? Cosa stavi dicendo, scusa?»
«Io non ho detto una parola.»
«A volte la notte, come ultima cosa prima di addormentarmi, passo in rivista tutta una lista di persone e le chiamo tutte porci. Trovo che sia una terapia meravigliosa. Così mi libero la mente per affrontare la notte. Se ti trovassi nella stanza con me non faresti altro che sentirmi dire “Porco, porco, porco!”. Non i nomi. Ciascun nome è mentale. Non convieni anche tu che domani si sarà già dimenticata di Horricker?»
«È probabile. Ma ho fiducia che non sia poi da considerarsi addirittura perduta.»
«Angela è il tipo di potere-femmina, la femme fatale. Ciascun mito ha i propri nemici naturali. Il nemico del mito del maschio superiore è la femme fatale. Tra quelle cosce, la concezione che un uomo ha di se stesso viene semplicemente assassinata. Se lui è convinto di essere tanto speciale allora glielo farà vedere lei. Nessuno è così speciale. Angela rappresenta il realismo della razza, che sta sempre a indicare che la saggezza, la bellezza, la gloria, il coraggio negli uomini non sono che vanità, e quindi è suo compito abbattere il mito che l’uomo ha di se stesso. È per questo che per lei e Horricker non c’è più niente da fare, è per questo che si è fatta scopare da quel fessacchiotto in Messico, davanti e di dietro, sempre sotto gli occhi di Wharton, con chissà che altra prestazione offerta gratis da lei. In uno spirito di partecipazione.»
«Non sapevo che Horricker avesse un’immagine tanto presuntuosa di se stesso.»
«Torniamo a quell’altra faccenda. Che altro ha fatto quell’uomo, te l’ha sventolato davanti?»
«No, affatto. Ma quest’argomento sta diventando sgradevole. Voleva avvertirmi di non difendere quel povero vecchio che aveva derubato. Di non informare la polizia. Io avevo già tentato d’informarla.»
«Tu, naturalmente, ti sentivi dispiaciuto per le persone che questo tizio deruba.»
«È una cosa tremenda. E non si può dire che io abbia il cuore tanto tenero.»
«Probabilmente ne hai viste troppe. Non ti avevano invitato a testimoniare al processo Eichmann?»
«Si misero in contatto con me. Ma io non me la sentivo.»
«Scrivesti quell’articolo su quel pazzo di Łódź – Re Rumkowski?»
«Sì.»
«Spesso penso che le parti genitali di un uomo abbiano un’aria espressiva. Anche quelle delle donne. Penso che siano sempre lì lì per dire qualche cosa, attraverso quelle barbe.»
Sammler non rispose. Wallace sorseggiava il suo whisky come un ragazzo avrebbe fatto con la Coca-Cola.
«Naturalmente,» disse Wallace «i neri parlano un’altra lingua. Un ragazzo li ha supplicati di non ucciderlo…»
«Quale ragazzo?»
«Stava sui giornali. Un ragazzino che si è trovato circondato da una gang di neri quattordicenni. Li ha pregati di non sparare, ma quelli semplicemente non capivano le parole che diceva. Letteralmente: non è la stessa lingua. Non sono gli stessi sentimenti. Non c’è comprensione. Né concetti comuni. Non esiste punto di contatto.»
Anche io sono stato supplicato. Sammler, tuttavia, non lo disse.
«Il bambino è morto?»
«Il ragazzino? Dopo qualche giorno è morto per la ferita. Ma quei ragazzi non sapevano neppure quello che stava dicendo.»
«C’è una scena in Guerra e pace a cui, ogni tanto, penso» disse Sammler. «Il Generale francese Davout, che era molto crudele, e che, a quanto si dice, credo, strappò i baffi a un uomo estirpandone le radici, mandava la gente davanti al plotone d’esecuzione, a Mosca; ma quando Pierre Bezuchov gli si avvicinò, i due si guardarono negli occhi. Venne scambiato uno sguardo umano, e Pierre fu risparmiato. Tolstòj dice che non lo uccidi un altro essere umano con cui hai scambiato uno sguardo così.»
«Oh, ma è meraviglioso! Cosa ne pensi, tu?»
«Io comprendo un tale desiderio per una tale convinzione.»
«Tu ti limiti a comprendere.»
«No, comprendo profondamente. Comprendo tristemente. Quando uomini di genio pensano al genere umano, sono quasi obbligati a credere in questa forma di unità psichica. Vorrei che fosse vero.»
«Perché rifiutano di pensare a se stessi come interamente eccezionali. Questo sì che lo capisco. Ma tu non credi che questo scambio di sguardi funzioni? Non accade così?»
«Oh, probabilmente di tanto in tanto accade pure. Pierre Bezuchov ha avuto una fortuna incredibile. Naturalmente era un personaggio di un libro. E naturalmente la vita stessa è una specie di fortuna, per l’individuo. Molto simile a un libro. Ma Pierre è stato eccezionalmente fortunato a incontrare lo sguardo del suo boia. In quanto a me, non mi è mai capitato di vederlo funzionare. No, non l’ho mai visto accadere. È una cosa per cui vale la pena di pregare. E ha un fondamento. Non è un’idea arbitraria. È basata sulla convinzione che esista la stessa verità nel cuore di ogni essere umano, o uno sprazzo dello spirito stesso di Dio, e che questa sia la cosa più ricca che abbiamo in comune. E fino a un certo punto io ne converrei. Ma sebbene non sia un’idea arbitraria, io personalmente non ci conterei.»
«Dicono che tu un tempo sia stato nella tomba.»
«Ah sì?»
«Com’era?»
«Già, com’era. Cambiamo discorso. Siamo già sull’autostrada Cross County. Emil è molto veloce.»
«A quest’ora, di notte, niente traffico, capisci. Una volta, mi hanno salvato la vita. Fu prima di New Rochelle. Marinai la scuola e andavo in giro, a zonzo, per il parco. La laguna era ghiacciata, però io vi caddi dentro lo stesso. C’era un ponticello tipo giapponese, e io stavo arrampicandomi sulle travate, di sotto, e ho fatto un bel capitombolo. Era dicembre, e il ghiaccio era grigio. La neve era bianca. L’acqua era nera. Io mi tenevo attaccato al ghiaccio, con una paura da cacare, e la mia anima mi sembrava una di quelle biglie di vetro, che rotolava giù, lontano lontano. È venuto un ragazzino più grande e mi ha salvato. Pure lui aveva fatto sega a scuola e strisciò pian piano sul ghiaccio, reggendosi a un ramo. Io l’ho afferrato, e il ragazzino mi ha trascinato a riva. Poi andammo al gabinetto degli uomini nel galleggiante, e io mi spogliai completamente. Lui mi strofinò col suo cappotto foderato di agnellino. Poi misi i vestiti sul termosifone, ma non c’era verso che si asciugassero. Allora lui disse: “Per la miseria, qui tu ti prendi un accidenti”. L’accidenti me lo fece prendere la mia cara mamma. Mi tirò le orecchie perché avevo i vestiti bagnati.»
«Molto bene. Avrebbe dovuto farlo più spesso.»
«Vuoi sapere una cosa? Sono d’accordo. Hai ragione. Quel ricordo mi è prezioso. È molto più vivido della torta al cioccolato, e molto più ricco. Però, Zio Sammler, il giorno dopo, a scuola, quando rividi quel ragazzino decisi di dargli la mia paghetta settimanale, che consisteva di dieci centesimi.»
«E lui li prese?»
«Certo che li prese.»
«Queste storie mi piacciono. Che ti disse?»
«Nemmeno una parola. Fece semplicemente un cenno con la testa e si prese la monetina da dieci centesimi. Se la mise in tasca e se ne tornò dai suoi compagni più grandi di me. Suppongo che abbia pensato che se li era guadagnati, là sul ghiaccio. Erano la sua giusta ricompensa.»
«Vedo che questi ricordi li hai.»
«Be’, mi servono. Tutti hanno bisogno dei propri ricordi. Tengono lontano il lupo dell’insignificanza.»
E tutto ciò continuerà. Continuerà, semplicemente. Altri sei miliardi di anni prima che esploda il sole. Sei miliardi di anni di vita umana! Ci si sente vacillare il cuore a contemplare una cifra simile. Sei miliardi di anni! Che cosa sarà di noi? Delle altre specie, sì, e di noi? Come potremo mai farcela? E quando dovremo abbandonare la Terra e lasciare questo sistema solare per un altro, te l’immagini che giornata di trasloco sarà quella! Ma per allora il genere umano sarà diventato molto diverso. L’evoluzione continua. Olaf Stapledon ha calcolato che ogni individuo nelle età future vivrà migliaia di anni. La persona futura, una figura colossale, di un bellissimo color verde, con una mano che si sarà evoluta in un nécessaire di strumenti straordinari, arnesi forti e malleabili, pollice e indice capaci di manovrare migliaia di chili di pressione. Ciascun cervello apparterrà a un meraviglioso collettivo analitico, che si sarà creato la propria, originale matematica, la propria fisica, quale parte di un “intero” sublime. Una corsa di giganti semi-immortali, i nostri ingenui e freschi discendenti, cari consanguinei e fratelli, contenenti ancora, inevitabilmente, alcune delle nostre acide peculiarità come pure alcuni dei poteri dello spirito. La rivoluzione scientifica aveva soltanto trecento anni. Aggiungiamoci un milione, aggiungiamoci un altro miliardo. E Dio? Sempre nascosto, persino a questa possente fratellanza mentale, sempre irraggiungibile?
Ma la Rolls ormai percorreva i vialetti della zona residenziale. Si potevano sentire le foglie di primavera agitarsi e sfiorare quell’automobile argentea che passava. Dopo tanti anni, Sammler non sapeva ancora la strada per arrivare a casa di Elya, attraverso i boschetti suburbani, con le stradine che serpeggiavano in quel modo. Ma ecco l’edificio, stile Tudor, per metà costruito in legno, dove il rispettabile chirurgo e la sua signora, dedita alla cura della casa, avevano allevato due figli e avevano giocato a volano su quell’erba deliziosa. Nel 1947, come profugo, Sammler era rimasto trasecolato di fronte a tutta quella voglia di giocare – adulti con racchette e volani. Ora il prato davanti alla casa, che a Sammler sembrava rasato di fresco, era illuminato dalla Luna; la ghiaia, fine, bianca e minuscola, produceva un gradevole suono di macinatura sotto le ruote dell’auto. Gli olmi erano folti, antichi – più antichi di tutti i Gruner messi insieme. Occhi di animali apparvero nella luce dei fanali, o erano riflettori molati che erano stati incassati nei bordi dei sentieri: topi, talpe, marmotte, gatti o pezzi di vetro spiavano dall’erba o dai cespugli. Non c’era nessuna finestra illuminata. Emil accese gli abbaglianti e proiettò la luce sul portone d’ingresso. Scendendo in fretta dalla macchina, Wallace rovesciò il whisky sulla moquette. Sammler, a tentoni, cercò il bicchiere e lo diede allo chauffeur, spiegando: «È caduto». Poi seguì Wallace sulla ghiaia scricchiolante.
Appena Sammler fu entrato, Emil inserì la retromarcia e si diresse al garage. Nelle stanze, perciò, rimase soltanto il riflesso della Luna. Una casa malconcepita, come sempre era parso a Sammler, dove nulla realmente funzionava salvo le apparecchiature meccaniche. Ma Gruner se ne era sempre occupato coscienziosamente, in modo particolare da quando era morta la moglie, in uno spirito di reverenza per una persona scomparsa. Proprio come Margotte faceva nei riguardi di Ussher Arkin. Era ghiaia fresca, quella nel vialetto. Non appena finiva l’inverno, Gruner ordinava che ve ne spargessero in abbondanza. La Luna risciacquava le tende e schiumava come acqua ossigenata sulla lanuggine dei pesanti tappeti bianchi.
«Wallace?» Sammler credeva di averlo sentito giù nella cantina. Se non accendeva la luce, evidentemente non voleva che Sammler scoprisse i suoi movimenti. Il poverino era proprio un deficiente. Obbligato dalla vita, dal destino, da quello che vi pare, a essere disinteressato, a pensare con il massimo della sua abilità in termini universali, Mr. Sammler non aveva alcuna intenzione di mettersi a fare il poliziotto con Wallace in casa di suo padre, di impedirgli di scovare quei soldi – immaginari o reali dollari di aborti criminali.
Esaminando la cucina, Sammler non trovò alcuna prova che qualcuno vi fosse stato di recente. Le credenze erano chiuse, il lavello e i piani di lavoro di acciaio inossidabile, asciutti. Come fosse in esposizione. Le tazze appese ai loro uncini: non ne mancava nessuna. Ma in fondo alla pattumiera foderata con una busta di carta da pacchi c’era una scatoletta di tonno vuota; preparato al naturale, a bagno nell’acqua, di marca Geisha, odorava di pesce fresco. Sammler se la portò al naso. Ah ah! Qualcuno aveva fatto colazione? Forse Emil, lo chauffeur? O Wallace stesso, direttamente dalla scatoletta, senza aceto o altro condimento? Wallace avrebbe lasciato delle briciole sul piano di lavoro, e la forchetta sporca, tracce disordinate di qualcuno che ha mangiato. Sammler rimise al suo posto la scatoletta di latta aperta, staccò il piede dal pedale della pattumiera e andò nel soggiorno. Qui toccò la reticella del parafuoco, poiché Shula amava molto i caminetti. Era fredda. Ma la serata era calda. Questo non provava niente.
Quindi salì al primo piano, ricordandosi come lui e lei avevano giocato a nascondino a Londra trentacinque anni prima. Lui era bravo in quel gioco, a parlare da solo, a voce alta. «Dov’è Shula? In questo sgabuzzino? Vediamo un po’. Ma dove può essere? No, nello sgabuzzino non c’è. Ma è una cosa misteriosa! Sarà forse sotto il letto? No. Però, che bambina furba questa Shula. Come si nasconde bene. Non c’è che dire: è semplicemente scomparsa.» Mentre la bambina, che aveva appena compiuto cinque anni, eccitatissima dalla febbre del gioco, bianca come un lenzuolo, stava rannicchiata dietro la cassetta del carbone dove lui faceva finta di non vederla, con il sederino vicino al pavimento, la grande testa dai capelli crespi col fiocchetto rosso – tutta una vita in quel luogo. Malinconia. Anche se non ci fosse stata la guerra.
In ogni modo, furto! Quella era una cosa grave. E furto di proprietà intellettuale – perfino peggio. E nel buio egli cedette un po’ alla debolezza dell’età avanzata. Era troppo vecchio per quelle faccende. Arrancava lungo la ringhiera sul lusso stancante della moquette. Avrebbe dovuto trovarsi all’ospedale. Un vecchio parente nella sala d’aspetto. Molto più acconcio. Al primo piano, le camere da letto. Si mosse prudentemente nel buio. Nell’aria rinchiusa c’erano vecchi odori di sapone e di acqua di colonia. Nessuno, di recente, aveva rinfrescato un po’ gli ambienti.
Udì un rumore d’acqua, un leggero movimento in una vasca piena. Uno sciacquio. La sua mano avanzò, il polso piegato, scivolando sulla parete di maiolica fino a quando trovò l’interruttore. Nella luce vide Shula che cercava di coprirsi i seni con un quadrato di spugna. L’enorme vasca era soltanto per metà occupata dal suo corpo basso. Le piante dei suoi piedi bianchi, lui vide, e il nero triangolo femminile e le bianche protuberanze con grandi cerchi di un marrone violaceo. Le vene. Sì, sì, anche lei era socia del club. Il club del genere. Questa era una femmina. Quello era un maschio. Per l’importanza che aveva per lui…
«Papà. Ti prego. Per favore spegni la luce.»
«Ma che sciocchezze. Aspetterò in camera da letto. Mettiti qualche cosa addosso. E fai presto.»
Si sedette nella vecchia camera da letto di Angela. Di quando era ragazzetta. O apprendista puttana. Be’, la gente andava in guerra. Prendeva ogni sorta di arma che aveva a disposizione e avanzava verso il fronte.
Sammler stava seduto in una poltroncina di cretonne color pesca. Non udendo alcun movimento nella stanza da bagno, gridò: «Sto aspettando», e lei emerse dall’acqua. Sammler udì i suoi piedi, solidi, rapidi. Quando camminava urtava sempre contro qualche cosa. Non si limitava mai semplicemente a camminare. Toccava le cose e le reclamava. Come sua proprietà. Poi entrò, a passo veloce, con indosso una vestaglia di lana da uomo e un asciugamano intorno alla testa, e sembrava senza fiato, scioccata di essere stata veduta nella vasca dal padre.
«Be’, allora dove sta?»
«Papà!»
«No, sono io che sono scandalizzato, non tu. Dov’è quel documento che hai rubato per ben due volte?»
«Non è stato rubare.»
«Altri possono anche formulare nuove regole a seconda dei casi, ma io no, e non accetterò che tu mi metta in questa posizione. Stavo per restituire il manoscritto al dottor Lal, e invece è stato portato via dalla mia scrivania. Esattamente com’è stato portato via dalle sue mani. Identico metodo.»
«Ma non è così che si deve guardare a questa faccenda. Non ti agitare a quel modo, papà.»
«Dopo tutto quello che è successo, non cercare di proteggere il mio cuore o accennare al fatto che sono vecchio e che posso morire di un colpo apoplettico. Non riuscirai a spuntarla con nessuna di queste mosse, stai bene attenta. Allora, dov’è questo oggetto?»
«È al sicuro, perfettamente al sicuro.» Lei cominciò a parlare polacco. Gravemente, lui le negò il permesso di parlare quella lingua. Shula stava tentando di farsi forte dei periodi tremendi in cui era stata nascosta – il convento, l’ospedale, il reparto per malattie infettive allorché giunsero i tedeschi a perquisire il suo rifugio.
«Lascia perdere quella roba. Rispondimi in inglese. L’hai portato qui?»
«Ne ho fatta fare una copia. Papà, sono andata allo studio di Mr. Widick…»
Sammler si trattenne. Visto che lui non le permetteva di parlare polacco, la figlia ricorreva a qualche altra cosa, all’infantilismo. Con la tenerezza di una bambina, abbassò il suo viso maturo, già definitivamente quello di una donna di mezza età. Adesso stava cercando di incontrare lo sguardo del padre, da un lato, con un solo occhio sgranato, come quello di un bimbo, e il mento timidamente, timidamente affondava nella vestaglia di lana.
«Ah sì? Be’, che cosa hai fatto nello studio di Mr. Widick?»
«Sai, ha una di quelle macchine per riprodurre gli stampati. L’ho usata per il Cugino Elya. E Mr. Widick non va mai a casa. Si vede che la odia casa sua. È sempre in ufficio, così l’ho chiamato e gli ho domandato se potevo adoperare la macchina, e lui ha detto: “Ma certo”. E così ho fatto una fotocopia di tutto.»
«Per me?»
«O per il dottor Lal.»
«Tu hai pensato che io avrei potuto volere l’originale?»
«Se per te è più comodo.»
«Oh, adesso veniamo al punto: che cosa ci hai fatto con questi manoscritti?»
«Li ho chiusi a chiave in due armadietti di sicurezza alla Grand Central Station.»
«Alla Grand Central. Buon Dio. Le chiavi ce le hai, o le hai perdute?»
«Ce le ho, papà.»
«Dove sono?»
Shula si era preparata a quella probabile visita. Gli presentò due buste sigillate e affrancate. Una era indirizzata a lui e l’altra al dottor Govinda Lal presso la Butler Hall.
«E tu volevi mandare queste per posta? L’armadietto di sicurezza si può tenere solamente per ventiquattro ore. Queste invece potrebbero metterci una settimana per arrivare. E allora cosa sarebbe successo? E ti sei scritta i numeri degli armadietti? No. E allora come avrebbe fatto uno a sapere dove si trovano, se le lettere si fossero smarrite? Ti toccherebbe presentare un reclamo fornendo prove di proprietà del materiale, prove per dimostrare che tu sei l’autore. Ce ne sarebbe abbastanza da far uscire un uomo pazzo.»
«Non mi sgridare così. Ho fatto tutto per te. Tu avevi della proprietà rubata in casa. Il detective ha detto che si trattava di proprietà rubata, e chiunque ne fosse stato in possesso era un ricettatore di proprietà rubata.»
«Senti, da ora in poi, non mi fare più favori simili. È addirittura impossibile discuterne con te. Sembra che tu non riesca neppure ad afferrare la gravità della questione.»
«Io te l’ho portato per mostrarti la mia fede nelle memorie di H.G. Wells. Volevo ricordarti quanto fossero importanti. A volte te ne dimentichi tu stesso. Come se H.G. Wells non fosse niente di speciale. Be’, forse non per te, ma per tanta gente Wells è ancora importante e molto, molto speciale. Sto aspettando che tu finisca il tuo lavoro e che appaiano le recensioni sui giornali. Volevo vedere la fotografia di mio padre nelle librerie, invece di tutte quelle facce da cretini e tutti quei libri stupidi e senza importanza.»
Le chiavi degli armadietti, sporche, nelle buste. Mr. Sammler le osservò accuratamente. Così com’era esasperante, una combina-guai, era anche, s’intende, una donna tristemente divertente. Purché gli armadietti contenessero i manoscritti e non montagne di scartafacci raccolti in cartelle. No, Sammler pensò di no. Era soltanto un pochino pazza. La sua povera bambina. Una creatura generata da lui e alla deriva in un mondo privo di forma o delimitazione. Come aveva fatto a diventare così? Forse la vita interiore, importante, intima – la cosa che siamo noi stessi dai primissimi giorni –, allorché scopre che esiste la morte, spesso impazzisce. E qui debbono venire in aiuto i poteri magici, per lenire, consolare e, per una donna, quei poteri meravigliosi tanto spesso sono i poteri di un uomo. Come nel caso di Cleopatra che, Antonio morente, gridò che non avrebbe abitato in questo triste mondo che «senza di te non è che un porcile». E poi? Un porcile, e poi? Ah, ecco, ora si ricordava la fine, molto adatta per quella notte. «Ogni confronto è sparito e nulla troverà di notevole la Luna nella sua prossima visita.»
E lui sarebbe dovuto essere la cosa notevole, lui che seduto su quella fodera lucida sentiva sotto di sé il tedio di quel color pesca e di quegli spampanati fiori rossi. Un oggetto simile, inteso per opprimere e affliggere l’anima, anche in quel momento ci riusciva. Lui era rimasto vulnerabile, sensibile alle piccolezze. Nondimeno Mr. Sammler riceveva tuttora messaggi primordiali. E il messaggio immediato, fondamentale era che lei, questa donna con la sua forma sessuale femminile che la copertura aderente della vestaglia di lana non riusciva a nascondere (soprattutto sotto la vita, dove una cosa doveva far rantolare di piacere un amante), questa donna matura non dovrebbe chiedere adesso al suo papà di rendere notevoli degli oggetti sublunari. Tanto per cominciare, lui non aveva mai attraversato il mondo a cavallo come un Colosso con eserciti e flotte, lasciando cadere corone dalle tasche. Lui era soltanto un vecchio ebreo a cui avevano inflitto un colpo dopo l’altro, a cui avevano sparato, ma che in qualche modo non erano riusciti a uccidere, assassinando, con le loro raffiche, tutti gli altri. Nella loro peculiare trasformazione: un popolo cambiato in uniforme, mascherato con stoffa militare e con elmetti, che arrivava con macchine d’ogni sorta allo scopo di ammazzare bambini, bambine, uomini, donne, facendo scorrere il sangue, seppellendo, e infine esumando e bruciando i cadaveri decomposti. L’uomo è assassino. L’uomo ha una natura morale. L’anomalia può essere risolta esclusivamente con la pazzia, con sogni pazzi in cui le illusioni della consapevolezza vengono conservate dall’organizzazione, in stati di folle perdizione aggrappati a forme di amministrazione commerciale. Trasformandola in “lavoro governativo”. Tutta quanta. Ma in questo mondo a lui, ora a lui, Signore benedetto! si richiedeva di fornire alla sua sbalestrata, squinternata figliola, delle nobili finalità. E naturalmente, dal punto di vista di Shula, lui era diventato troppo delicato per la vita terrestre, troppo assorto in universali non condivisi da altri, escludendone lei. E con la stravaganza, con istrionismi animaleschi, con la sottrazione di documenti, con un sacco di stramberie – quelle sue borse della spesa –, nevrosi da cestini dei rifiuti, cucina esotica da far venire l’acidità di stomaco, desiderava coinvolgere lui e riportarlo qui, legarlo e tenerlo nel mondo, accanto a lei. Te lo raccomando il mondo! Te la raccomando lei! La loro elevazione sarebbe stata un’elevazione in comune. Lei l’avrebbe sostenuto, e lui avrebbe conseguito grandi risultati nel mondo della cultura. Poiché lei era kulturnaja. Shula era tanto kulturnaja. Niente le si adattava di più di questa filistea parola russa. Kulturny. Lei poteva piegarsi lentamente sulle ginocchia e pregare come una cristiana; poteva fare uno scherzo del genere al padre; poteva intrufolarsi in oscuri confessionali; poteva correre da Padre Robles e invocare protezione cristiana contro la sua collera ebrea; ma nella sua svitata devozione per la cultura Shula non avrebbe potuto essere più ebrea di così.
«Benissimo, la mia fotografia nelle librerie. Grande idea. Ottima. Ma rubare…?»
«Non è stato veramente rubare.»
«Be’, comunque tu lo voglia chiamare, che importanza ha? Come in quella vecchia barzelletta: che cosa apprendo di più su un cavallo se so che in latino si chiama equus?»
«Ma io non sono una ladra.»
«Molto bene. Nella tua mente non sei una ladra. Solamente nei fatti.»
«Pensavo che se tu realmente, realmente prendessi sul serio H.G. Wells, dovresti sapere se lui ha fatto delle predizioni esatte sulla Luna, o su Marte, e che avresti pagato qualunque prezzo per avere le più recenti, le più aggiornate informazioni scientifiche su quest’argomento. Una persona creativa non si fermerebbe davanti a niente. Per i creativi non esistono delitti. E tu non sei forse una persona creativa?»
A Sammler sembrava che dentro di lui (faute de mieux, nella sua mente) ci fosse un campo in cui molti cacciatori in disaccordo l’uno con l’altro sparavano pallini da caccia all’apparizione di una piuma che pensavano fosse un uccello. Shula aveva inteso metterlo alla prova. Suo padre era o non era ciò che lei definiva «la cosa vera»? Era creativo, era una forza della natura, un originale autentico, o no? Sì, era un test attitudinale, e questo era molto americano da parte di Shula. Esisteva un americano che non fosse moralmente didattico? Era mai stato commesso un delitto che non punisse la vittima in funzione del “bene più alto”? C’era mai stato un peccatore che non peccasse pro bono publico? Così grande era il male dell’utilità, e così immenso lo spirito liberale della spiegazione. La psicopatologia dell’insegnamento negli Stati Uniti. Allora, papà era un vero creativo intransigente – capace di un audace furto per il bene dei mémoires? Poteva rischiare tutto per H.G.?
«Sinceramente, bambina mia, tu l’hai mai letto un libro di Wells?»
«Sì, l’ho letto.»
«Dimmelo – ma la verità, soltanto fra te e me.»
«Ho letto un libro, papà.»
«Uno? Un libro di Wells è come cercare di fare il bagno in un’unica e sola onda del mare. Che libro era?»
«Parlava di Dio.»
«Dio il re invisibile?»
«Ecco, quello lì.»
«L’hai finito?»
«No.»
«Nemmeno io.»
«Oh, papà… tu?»
«Non ci sono riuscito. L’evoluzione umana con Dio come Intelligenza. Ho immediatamente capito qual era il punto e perciò il resto era noioso, prolisso.»
«Ma era così intelligente. Io ne ho letto qualche pagina ed ero talmente elettrizzata. Sapevo che era un grand’uomo, anche se non sono stata capace di leggere tutto il libro. Lo sai che non riesco a leggere un libro per intero. Sono troppo impaziente. Ma tu li hai letti tutti, gli altri libri suoi.»
«Nessuno potrebbe leggerli tutti. Io ne ho letti molti. Probabilmente troppi.»
Sorridendo, Sammler vuotò le buste e gettò la palla di carta accartocciata nel cestino di cuoio fiorentino con i disegnini d’oro. Acquistato dalla madre di Angela durante uno dei suoi viaggi. Le chiavi se le mise nella tasca della giacca, piegandosi tutto da una parte sulla poltroncina per arrivarci.
Osservandolo in silenzio, Shula sorrideva a sua volta, tenendosi i polsi con le dita, le braccia incrociate sul petto per impedire che la vestaglia si aprisse. Sammler, malgrado il quadrato di spugna, le aveva visto i capezzoli marroni-viola, appesantiti dalle vene sporgenti. All’angolo della bocca, ora che aveva fatto la sua marachella, c’era una casta piega di trionfo. I capelli neri spettinati e piatti erano coperti, avvolti nell’asciugamano, salvo, come sempre, per i boccoletti kosher che le uscivano fuori, lungo le orecchie. Sorrideva come se avesse mangiato una scodella di minestra divina e proibita: e che cosa ci si poteva fare adesso che ormai era andata? Dietro, la nuca bianca era forte. Forza biologica. Sotto il collo aveva un rigonfiamento dorsale, da persona matura. Una donna fatta. Ma le braccia e le gambe non erano proporzionate. La sua unica creatura. Non dubitava mai che lei compisse atti che avevano origine in un passato lontanissimo, di inconscia derivazione ancestrale. Era consapevole di quanto ciò fosse vero di se stesso. Particolarmente nelle questioni religiose. Va bene, lei era una matta che pregava, ma lui, dopotutto, anche lui aveva l’abitudine di pregare, spesso si rivolgeva a Dio. In quel preciso momento per esempio domandava di capire perché mai amasse tanto quella donna sciocca con la pelle color crema, spessa, inutilmente sensuale, la bocca dipinta e quel turbante di asciugamani.
«Shula, lo so che hai fatto questo per me…»
«Tu sei più importante di quell’uomo, papà. Tu ne avevi bisogno.»
«Ma da ora in poi, non ti servire di me come scusa. Per i tuoi exploits…»
«C’è mancato poco che ti perdessimo in Israele, in quella guerra. Avevo una gran paura che non finissi la tua opera, il tuo lavoro di una vita.»
«Ma che sciocchezze, Shula. Quale opera? E venire ucciso? Laggiù? La migliore morte che potrei immaginare. E per di più, non c’era nessun pericolo. Che stupidaggini!»
Shula si alzò. «Sento il rumore di una macchina» disse. «Qualcuno deve essere appena arrivato qua sotto.»
Lui non aveva udito nulla. Lei era dotata di sensi acutissimi. Animale ingenuo e idiota, aveva le orecchie di una volpe. Si era alzata così all’improvviso, in piedi, zitta ad ascoltare, maestosa, lenta di cervello, attenta. E i piedi bianchi. I suoi piedi non erano stati deformati dalle scarpe alla moda.
«Probabilmente è Emil.»
«No, non è Emil. Bisogna che mi vesta.»
Corse via dalla stanza.
Sammler scese al pianterreno chiedendosi dove fosse finito Wallace. Il campanello di casa cominciò a squillare e continuò a squillare. Margotte non sapeva come si suona un campanello, quando smettere di premere un bottone. Lui poteva vederla, attraverso il lungo e stretto vetro della porta d’ingresso, col suo cappello di paglia, e il Professor V. Govinda Lal era con lei.
«Abbiamo preso un’auto della Hertz» disse Margotte. «Il professore non ce la faceva più a sopportare l’attesa. Abbiamo parlato al telefono con Padre Robles. Sono giorni che non vede Shula.»
«Professor Lal. Imperial College. Biofisica.»
«Io sono il padre di Shula.»
Vi furono dei piccoli inchini, una stretta di mano.
«Possiamo sederci nel soggiorno. Faccio un po’ di caffè? Shula è qui?» disse Margotte.
«Sì, è qui.»
«E il mio manoscritto?» disse Lal. «Il futuro della Luna?»
«È al sicuro» disse Sammler. «Non è proprio qui in casa, però è sotto chiave e al sicuro. Le chiavi le ho io. Professor Lal, La prego di accettare le mie scuse. Mia figlia si è comportata molto male. Le ha causato della sofferenza.»
Sotto la luce dell’ingresso, Sammler vide la faccia inorridita e delusa di Lal: guance marroni, capelli neri, ordinati, vividi, divisi graziosamente, e un’enorme barba spiegata al vento. L’inadeguatezza delle parole – la necessità di svariate lingue simultanee per rivolgersi contemporaneamente a tutte le parti del cervello, e in modo speciale a quelle parti lasciate libere dalla manchevole comunicazione che funzionavano furiosamente per conto proprio. Viceversa era come se uno dovesse fumare dieci sigarette tutte in una volta; bevendo, nel frattempo, anche del whisky; essendo anche impegnato, sessualmente, con altre tre o quattro persone; ascoltando, allo stesso tempo, bande musicali; ricevendo, anche, contemporaneamente, annotazioni scientifiche – e in siffatto modo engagé fino alla massima capacità… l’illimitatezza, la pressione delle aspettative moderne.
Lal gridò: «Oh mio Dio! Questo è intollerabile! Intollerabile! Perché mi viene mandato un castigo così duro?».
«Margotte, versa un cognac al dottor Lal.»
«Io non bevo! Io non bevo!»
Nella buia cornice della barba i denti di Lal erano serrati. Poi, consapevole della propria sonorità, disse in un tono più appropriato: «Normalmente non bevo».
«Ma, dottor Lal, Lei ha raccomandato che ci fosse la birra sulla Luna. Tuttavia… io sono illogico. Dài, avanti, Margotte, non stare semplicemente lì con quell’aria preoccupata. Prendi il cognac. Ne berrò un po’ io, se il professore non ne vuole. Sai dove stanno i liquori, no? Porta due bicchieri. E ora, Professore, presto questa angoscia sarà finita.»
Il soggiorno era quello che chiamavano «affondato». Ci si doveva scendere. Un pozzo, una piscina, una vasca foderata di moquette. Era ammobiliato o arredato con completezza professionale, in modo denso e organizzato. Ciò, se uno tanto tanto glielo permetteva, provocava sofferenza. Sammler l’aveva conosciuto, l’arredatore della fu Mrs. Gruner. O l’invalidatore. Croze. Croze era piccoletto, ma aveva la forza di una personalità da artista. Stava ritto in piedi come un tordo. La sua pancettina sporgeva bene in fuori e faceva sì che i pantaloni fossero sollevati di un bel po’ al di sopra delle caviglie. La faccia aveva un bellissimo colorito, i capelli erano tagliati alla perfezione per la sua testina leggiadra, aveva una boccuccia a bocciolo di rosa, e dopo che gli avevi stretto la mano, a Croze, la mano poi ti rimaneva profumata tutto il giorno. Era un tipo creativo. Capace di atti criminali, probabilmente. Tutte le cose lì intorno erano opera sua. Qui erano state trascorse parecchie ore noiose, soprattutto dopo i pranzi di famiglia. Non sarebbe una cattiva usanza mandare questi arredamenti e mobili giù nella tomba insieme all’estinto, stile egizio. Comunque, erano tutte lì, queste spoglie di seta, cuoio, vetro e legno da antiquariato. Qui Sammler guidò il peloso dottor Lal, un uomo piccolo, molto scuro. Non nero, col naso aguzzo, il tipo dravidico, dolicocefalo, ma con i lineamenti rotondi. Probabilmente veniva dal Punjab. Aveva polsi sottili e pelosi e così pure le caviglie e le gambe. Era un dandy. Un damerino, o meglio un macaroni (Sammler non poteva abbandonare le vecchie parole che, a Cracovia, aveva provato tanto piacere a pescare qua e là nei libri del diciottesimo secolo). Sì, decisamente Govinda era un beau. Era anche un uomo sensibile, bello, intelligente, nervoso, smanioso, elegante, un eccentrico. Una sola incongruenza ma di massima importanza: il viso rotondo ingrandito da una barba morbida ma forte. Dietro, due scapole sottili sporgevano attraverso il blazer di lino. Era un po’ curvo.
«Posso chiederLe dov’è sua figlia?»
«Sta scendendo. Dirò a Margotte di andare a cercarla. Si è spaventata quando ha visto il detective.»
«È stato bravissimo a trovarla. Lavoro ingegnoso. Il detective ha svolto bene la sua missione.»
«Indubbiamente, ma con mia figlia i metodi alla Pinkerton erano fuori luogo. Per via della Polonia, capisce, e la guerra… la polizia. Stava nascosta. E così è stata presa dal panico. È molto brutto che abbia dovuto risentirne Lei. Ma cosa si può fare se questa donna è un pochino…»
«Psicopatica?»
«Be’, questo sarebbe calcare troppo la mano. Non è che sia del tutto scervellata. Ha fatto una copia del Suo manoscritto e poi è andata alla Grand Central Station, ha preso due armadietti di sicurezza, in uno ha messo l’originale e nell’altro la fotocopia. Ecco le chiavi.»
La mano di Lal, lunga e sottile, le prese. «Come faccio a essere certo che sia veramente là, il mio libro?»
«Dottor Lal, io mia figlia la conosco. In questo caso, non ho il minimo dubbio. Tutto al sicuro in metallo a prova di fuoco. Anzi, Le dirò che sono contento che non si sia portata il libro in treno. L’avrebbe potuto perdere – dimenticarselo sul sedile. La Grand Central è bene illuminata, sorvegliata dalla polizia, e seppure uno degli armadietti dovesse venir manomesso dai ladri, ci sarebbe sempre il secondo. La prego di non preoccuparsi più. Lo vedo, Lei sta sulle spine. Ma può considerare questa spiacevole disavventura come ormai finita. Il manoscritto è salvo.»
«Spero di sì, signore.»
«Prendiamo un goccetto di cognac. Abbiamo passato delle giornate snervanti.»
«Un’agonia. In qualche modo è stato il tipo di terrore che mi ero immaginato pensando all’America. La mia prima visita. Avevo avuto un presentimento.»
«L’America è stata tutta così?»
«Non del tutto. Ma quasi.»
Rumorosa, in cucina, Margotte apriva scatolette, tirava fuori scodelle, sbatteva la porta del frigorifero, sbatacchiava pentole e posate. Le faccende di casa di Margotte erano in trasmissione continua.
«Potrei prendere il treno per New York» disse Lal.
«Margotte non sa guidare. Cosa ne farà dell’auto presa a noleggio alla Hertz?»
«Oh, accidenti! L’automobile! Dannate macchine!»
«Mi rincresce di non saper guidare neanch’io» disse Sammler. «Non guidare è la snobberia più recente, mi dicono. Ma io sono innocente, con quella roba non c’entro. È solo per la mia vista.»
«Dovrei tornare indietro a prendere Mrs. Arkin.»
«Può restituire la Sua Hertz qui a New Rochelle, ma dubito che rimangano aperti tutta la notte. Ci dev’essere un orario della Penn Central. In tutti i casi, manca poco alla mezzanotte. Potremmo chiedere a Wallace di accompagnarLa al treno, se non se l’è squagliata dalla porta posteriore… Wallace Gruner» spiegò. «Ci troviamo appunto in casa Gruner. Un mio parente – nipote attraverso una sorellastra. Ma prima mangiamoci quel che ci sta preparando Margotte. Quanto diceva poco fa mi ha interessato… i suoi presentimenti riguardo agli Stati Uniti. Ventidue anni fa il mio arrivo qui fu un gran sollievo.»
«Naturalmente in un certo senso tutto il mondo adesso è Stati Uniti. Ineluttabile» disse Govinda Lal. «È come un grande corvo che ci ha portato via il futuro dal nido, e noi, gli altri, siamo come fringuellini che lo rincorriamo per cercare di beccarlo. Ad ogni modo, i voli dell’Apollo sono americani. Io sono stato assunto dalla NASA. Per un altro tipo di ricerca. Ma è qui che le mie idee conteranno, se serviranno poi a qualche cosa… Se Le sembro strano, mi scusi. Sono stato veramente molto in ansia.»
«E per un motivo più che giusto. Mia figlia Le ha fatto davvero del male.»
«Ora comincio a sentirmi un po’ più disteso. Non credo che proverò più alcun risentimento al riguardo.»
Attraverso le lenti colorate e mentre aspirava i fumi del cognac, Sammler, provvisoriamente, approvò Govinda Lal, che gli ricordava, per certi aspetti, Ussher Arkin. Molto spesso, assai più spesso di quanto si rendesse conto, e con gran vividezza, pensava a Ussher sotto terra in una posizione o in un’altra, con questo o quel colore, in una o in un’altra condizione fisica. Esattamente come pensava ad Antonina, la moglie. A quanto gli risultava la grande fossa non era stata più toccata. Dalla quale lui stesso, scrostandosi di dosso tutto quel sudiciume, spingendo i cadaveri, era uscito soffocato dal sangue, ed era strisciato via, sulla pancia. Quindi, quel tipo di pensiero profondo, c’era da aspettarselo.
Ora Margotte stava tagliando delle cipolle in una terrina. Qualcosa da mangiare. La vita nelle sue cellule a goccioline luminose continuava le sue promulgazioni. Povero Ussher in quell’apparecchio all’aeroporto di Cincinnati. Sammler sentiva la sua mancanza e riconobbe di essersi trasferito nell’appartamento, insieme a Margotte, per il contatto con Ussher che esso poteva offrirgli.
Ma notava alcune delle stesse qualità, le qualità di Arkin, in quel Lal così diverso, più tenebroso, più piccolo, più cespuglioso, con un polso non più largo di un righello.
Poi Shula-Slawa scese al piano di sotto. Lal, che fu il primo a vederla, fece un’espressione tale che costrinse Sammler a voltarsi immediatamente. Si era vestita con un sari, o qualcosa di simile, aveva trovato un pezzo di stoffa indiana in un cassetto. Non doveva averlo indossato correttamente. Le copriva anche la testa. E soprattutto sul petto si notava un errore. (Sammler quella sera era molto preoccupato per la delicatezza di quella parte del corpo di lei; se c’era pericolo di esibizione o di dolore fisico, lui lo sentiva nei suoi stessi organi.) Non era sicuro che Shula portasse della biancheria intima. No, non c’era proprio nessun Büstenhalter. Era straordinariamente bianca – pelle spessa come un cedro, guance color crema – e le labbra, più morbide e più turgide del solito, erano dipinte di uno stranissimo color arancio. Come i ciclamini napoletani che Sammler aveva ammirato al giardino botanico. E poi si era messa le ciglia finte. Sulla fronte c’era una macchia indù marcata con il rossetto. Esattamente dove era stato lo sbaffo del Mercoledì delle Ceneri. L’idea era di affascinare e placare quell’incollerito Lal. I suoi occhi, mentre a passi veloci e senza guardare scendeva nel pozzo della stanza, erano accesi e (nelle parole che il vecchio disse a se stesso) dilatati in modo bizzarro, inclini alla sensualità. Benché cercasse di fare la signora, compiva troppi gesti, si faceva troppo avanti, esageratamente sollecita, avendo di gran lunga troppo da dire.
«Professor Lal!»
«Mia figlia.»
«Già, lo pensavo.»
«Mi dispiace. Mi dispiace terribilmente, dottor Lal. C’è stato un malinteso. Lei era circondato da tante persone. Lei deve aver pensato che io volessi solo dare uno sguardo al manoscritto. Mentre io ho creduto che Lei mi permettesse di portarlo a casa, a mio padre. Come Le ho detto, si ricorda? Stava scrivendo il libro su H.G. Wells.»
«Wells? No. Ma la mia impressione è che sia decisamente sorpassato.»
«Comunque, per il bene della scienza, della scienza, e per il bene della letteratura e della storia, poiché mio padre sta scrivendo questa storia importante, e Lei capisce, io l’aiuto nel suo lavoro intellettuale, culturale. Non c’è nessun altro che lo faccia. Non avrei mai voluto provocare dei guai.»
No. Nessun guaio. L’idea era solo quella di scavare una fossa, coprirla di arbusti e fogliame, e quando un uomo ci cadeva dentro, stendersi sulla nuda terra e conversare amorosamente con lui. Giacché Sammler adesso sospettava che lei fosse fuggita via con Il futuro della Luna proprio per creare quell’opportunità, quell’incontro. Lui e Wells erano sul serio secondari, allora? Dunque era stato fatto per suscitare interesse? Non era quello uno stratagemma familiare? Con lui, Sammler ricordava, le donne qualche volta agivano in maniera insolente per attrarre la sua attenzione, e dicevano cose mordaci e pungenti credendo di diventare, in tal modo, affascinanti ai suoi occhi. Era per questo che Shula aveva preso il libro? In un tentativo di seduzione femminile? Un’unica specie: ma i sessi come due diverse tribù selvagge. Dipinti con la pittura di guerra. Sorprendendosi e mettendosi paura a vicenda nei boschi. Questo Govinda, quest’uomo leggero, energico, baffuto, scuro, fragile, volante – un intellettuale. E lei per gli intellettuali andava pazza. Essi contribuivano a mantenere “notevole” il mondo sotto la Luna in visita. Accendevano il suo grembo. Anche Eisen, forse, per riconquistare la sua stima (fra le tante ragioni), aveva lasciato la fonderia e si era dato all’arte. Probabilmente si era dimenticato del motivo originario, per dimostrare che, come il padre di lei, era un uomo di cultura. E ora faceva il pittore. Povero Eisen.
Ma Shula stava seduta molto vicino a Lal sul sofà: ci mancava poco che lo prendesse per mano, per il braccio, come se intendesse toccare una delle sue membra. Gli stava assicurando che aveva riprodotto il suo manoscritto con la massima attenzione. Era preoccupata che l’apparecchio Xerox portasse via l’inchiostro e lasciasse le pagine bianche. Aveva fotocopiato la pagina Uno morendo di paura. «Lei adopera un inchiostro così speciale, cosa sarebbe accaduto se si fosse verificata una reazione negativa? Io sarei morta.» Ma tutto era andato benissimo. Mr. Widick aveva detto che era una riproduzione bellissima. E adesso si trovava in quei due armadietti di sicurezza. La copia l’aveva messa in un raccoglitore tipo quelli che usano gli avvocati. Mr. Widick aveva detto che uno poteva perfino lasciare i soldi per un riscatto, alla Grand Central. Perfettamente al sicuro. Shula voleva che Govinda notasse che il cerchio arancione tra i suoi occhi aveva un significato lunare. Non faceva che piegare il viso da una parte, offrendogli la fronte.
«E adesso, Shula, mia cara» disse Sammler. «Margotte ha bisogno di un po’ di aiuto in cucina. Vai da lei.»
«Oh, Papà.» Parlandogli, un po’ in disparte, in polacco, provò a dirgli che voleva restare.
«Shula! Vai! Avanti – su, vai!»
Mentre obbediva, le sue guance avevano un’aria accaldata e risentita. Davanti a Lal voleva far vedere la sua sottomissione filiale, ma mentre si allontanava il didietro esprimeva rabbia e impazienza.
«Non l’avrei mai riconosciuta, non l’avrei mai identificata» disse Lal.
«Ah sì? Eh già, senza la parrucca. Spesso si mette la parrucca.»
Tacque. Govinda stava pensando. Presumibilmente al recupero del suo manoscritto nell’armadietto alla stazione. Sì. Dal basso tastò le tasche del blazer, assicurandosi che le chiavi ci fossero.
«Lei è polacco?» disse.
«Ero polacco.»
«Artur?»
«Sì. Come Schopenhauer, che mia madre leggeva. Arthur, in quel periodo, era il nome più internazionale, non molto ebreo, ma più illuminato che si potesse dare a un maschio. Lo stesso in tutte le lingue. Ma a Schopenhauer gli ebrei non piacevano molto. Li chiamava volgari ottimisti. Ottimisti? Vivendo vicino al cratere del Vesuvio, è meglio essere ottimisti. Per il mio sedicesimo compleanno mia madre mi regalò Il mondo come volontà e rappresentazione. Naturalmente fu un complimento molto gradito che io potessi essere così serio e profondo. Come il grande Arthur. E così studiai il sistema, e ancora lo ricordo. Ho imparato che soltanto le Idee non possono essere sopraffatte dalla Volontà – la forza cosmica, la Volontà, che spinge tutte le cose. Un potere accecante. L’intrinseca furia creativa del mondo. Ciò che vediamo sono soltanto le sue manifestazioni. Come la filosofia indù – Maya, il velo delle apparenze che sta sospeso su tutta l’esperienza umana. Sì, e pensandoci bene, secondo Schopenhauer, la sede della Volontà negli esseri umani è…»
«Dove si trova?»
«Gli organi del sesso sono la sede della Volontà.»
Il ladro nell’atrio di casa sua era d’accordo. Lui aveva tirato fuori lo strumento della Volontà. Aveva scostato non il velo di Maya, ma uno dei suoi filati e aveva mostrato a Sammler il proprio mandato metafisico.
«E Lei è stato amico del famoso H.G. Wells – questo perlomeno è vero, no?»
«Non mi piace attribuirmi l’amicizia di un uomo non più vivo per confermarla o negarla, ma c’è stato un tempo, quando lui era sui settant’anni, che lo vedevo spesso.»
«Ah, allora Lei deve aver vissuto a Londra.»
«Eh già, a Woburn Square vicino al British Museum. Io facevo delle passeggiate col vecchio Wells. In quei giorni le mie idee personali non erano granché e di conseguenza ascoltavo le sue. Umanesimo scientifico, fede in un futuro emancipato, nella benevolenza attiva, nella ragione, nella civiltà. Oggigiorno idee non popolari. Naturalmente la civiltà l’abbiamo, ma in quanto tale viene sdegnata. Credo che Lei comprenda ciò che voglio dire, Professor Lal.»
«Penso di sì. Sì.»
«Eppure, sa, Schopenhauer non avrebbe mai chiamato Wells un volgare ottimista. Wells aveva molti pensieri neri. Prenda per esempio La guerra dei mondi. In quel libro i marziani vengono per eliminare il genere umano. Trattano la nostra specie come gli americani trattarono il bisonte e altri animali o, se è per questo, gli indiani americani. Sterminio.»
«Ah, sterminio. Immagino che Lei abbia una personale conoscenza del fenomeno.»
«Sì, un po’ ne ho.»
«Davvero?» disse Lal. «Anch’io. Come panjabi.»
«Lei è un panjabi?»
«Sì, e nel 1947 studiavo all’Università di Calcutta e sono stato presente a quei terribili tumulti, i combattimenti fra indù e musulmani. Da allora denominata la Grande strage di Calcutta. Temo di aver veduto dei maniaci omicidi.»
«Ah.»
«Sì, gente che ammazzava con grandi randelli pesanti e sbarre di ferro taglienti. E i cadaveri. Stupri, incendi, saccheggi.»
«Capisco.» Sammler lo guardò. Questo era un uomo sensibile e intelligente, con una faccia espressiva. Naturalmente quell’espressività alle volte era segno di soggettività e di abitudini mentali interiori. Non di un’immaginazione volta all’esterno. Cominciava a pensare, tuttavia, che questo Lal era, come Ussher Arkin, un uomo con cui lui poteva parlare. «Quindi per Lei non è una questione teorica. Nemmeno per me. Ma uomini eccellenti, di buon cuore, Mr. Arnold Bennett, Mr. H.G. Wells, che facevano colazione al Savoy… Olimpici di origine plebea. Così simpatici. Così seri. Così inglesi… Mr. Wells. Ero lusingato che mi avesse scelto perché ascoltassi i suoi monologhi. Gli volevo anche bene. Naturalmente, dalla Polonia in poi, 1939, i miei giudizi sono cambiati. Alterati. Come la mia vista. Io vedo che Lei sta cercando di osservare cosa c’è dietro queste lenti colorate. No, no, per carità, non me ne dispiace affatto. Un occhio funziona regolarmente. Come il vecchio detto del re dall’occhio solo nel paese dei ciechi. Wells scrisse un racconto su questo argomento. Non un buon racconto. Comunque, io non sono nel paese dei ciechi, sono semplicemente un “monocolo”. Quanto a Wells… era uno scrittore. Scriveva, scriveva, scriveva.»
Sammler credette che Govinda stesse per parlare. Quando fece una pausa, passarono svariate ondate di silenzio, contenenti tacite domande: Lei? No, Lei, signore: Parli Lei. Lal stava ascoltando. La sensibilità di una creatura pelosa; il marrone animale dei suoi occhi; la buona educazione della sua posizione attenta.
«Desidera che Le parli ancora di Wells, dato che Wells, in un certo senso, è dietro a tutta questa faccenda?»
«Sarebbe così gentile? La prego» disse Lal. «Lei ha dei dubbi circa il valore degli scritti di Wells.»
«Sì, naturalmente ne ho. Dei gravi dubbi. Per mezzo dell’istruzione universale e delle pubblicazioni a basso prezzo, dei poveri ragazzini sono diventati ricchi e potenti. Dickens, ricco. Shaw, pure. Si vantava che aver letto Karl Marx aveva fatto di lui un uomo. Io non saprei in questo caso, però il marxismo tramite il grande pubblico ne ha fatto un milionario. Se uno scriveva per un’élite, come Proust, non diventava ricco, ma se il tema che lui trattava era la giustizia sociale e le sue idee erano estremiste, veniva ricompensato dalla ricchezza, dal potere, dalla celebrità.»
«Estremamente interessante.»
«Le sembra? Mi deve scusare, questa sera mi sento angustiato. Contemporaneamente angustiato e loquace. E quando conosco qualcuno che mi piace, al principio mi può succedere di essere prolisso.»
«No, no, La prego di continuare questa spiegazione.»
«Spiegazione? Sono un po’ contrario alle spiegazioni estese. Ce ne sono troppe. Ciò rende ingovernabile la vita mentale dell’umanità. Ma ho riflettuto sulla questione Wells – la questione Shaw, e su gente come Marx, Jean-Jacques Rousseau, Marat, Saint-Just, parlatori, scrittori formidabili, che hanno cominciato senza alcun capitale salvo quello mentale e hanno ottenuto un’immensa influenza. E tutti gli altri, avvocatucci, lettori, bluffatori, libellisti, scienziati dilettanti, bohémiens, librettisti, chiromanti, ciarlatani, reietti, buffoni. Un pazzo avvocato provinciale che esige la testa del Re, e che oltre tutto la ottiene. In nome del popolo. Oppure Marx, uno studente, uno che frequenta l’università, scrive libri che travolgono il mondo. Era davvero un ottimo giornalista e pubblicista. In quanto ex giornalista, posso giudicare la sua abilità. Come molti giornalisti, s’inventava le cose, basandosi su altri articoli di giornale, la stampa europea, ma le inventava estremamente bene, scrivendo sull’India o sulla Guerra civile americana, questioni di cui non sapeva assolutamente nulla. Ma era meravigliosamente arguto, geniale nelle intuizioni, un polemista e retore di grandissima forza. Il suo hashish ideologico era molto potente. In ogni modo, capisce quel che voglio dire – la gente diventa autorevole e i plebei di genio dapprima si elevano alla nobiltà e in seguito alla gloria universale, e tutto perché hanno avuto quello che tutti i bambini poveri hanno ricevuto dal saper leggere e scrivere: l’ABC, il dizionario, le grammatiche, i classici. Fino a quando, elevandosi dalle loro bidonville o dai loro salottini piccolo-borghesi, indirizzano le loro parole a milioni di uomini in tutto il mondo. Sono questi gli individui che stabiliscono i termini, che creano il discorso, e poi la storia segue il loro verbo. Pensi alle guerre e alle rivoluzioni in cui ci siamo venuti a trovare a causa dei loro geroglifici.»
«Indubbiamente la stampa indiana ha avuto molta responsabilità in quei tumulti» disse Lal.
«Una cosa a favore di Wells era che, a causa di delusioni personali sue, lui se non altro non esigeva il sacrificio della civiltà. Non è diventato una figura-culto, una personalità regale, un grande eroe dell’arte o un leader attivista. Lui non si sentiva disonorato dalle parole. Molti invece sì, e non soltanto allora, anche adesso.»
«Cosa vuol dire, signore?»
«Ebbene, vede,» disse Mr. Sammler «nel grande periodo borghese, gli scrittori diventavano degli aristocratici. Ed essendo diventati aristocratici attraverso la loro destrezza con le parole, si sentivano obbligati a lanciarsi nell’azione. Evidentemente è una vergogna per la vera nobiltà sostituire agli atti le parole. Lei può riscontrare quanto sto dicendo nella carriera di Monsieur Malraux, o Monsieur Sartre. Lo può osservare, dottor Lal, molto più lontano nel tempo, in Amleto, quando prova, appunto, questa umiliazione e dice: “Io… debba come una puttana scaricarmi l’anima con le parole”.»
«“E darmi a bestemmiare come una vera baldracca.”»
«Già, questa è la citazione completa. Oppure a Polonio: “Parole, parole, parole”. Le parole sono per gli anziani, o per i giovani vecchi di cuore. Naturalmente qui si tratta dello stato d’animo di un principe il cui padre è stato assassinato. Ma quando la gente per disprezzo dell’impotenza e della paralisi della parola si lancia in nobili azioni, lo sa davvero quello che fa? Quando cominciano a reclamare il sangue e a patrocinare il terrore, o a proclamare una generale rottura di uova per farne un’enorme omelette storica, sanno veramente quello che reclamano? Quando hanno preso a colpi di martello uno specchio, nell’intento di ripararlo, possono rimettere insieme i frammenti di quello specchio? Ebbene, dottor Lal, non so quanto possano giovare questo esame e questo rimbrotto. Non è che sia convinto della possibilità di controllare gli esseri umani quale che sia il livello della complessità. Non giurerei che l’umanità sia governabile. Tuttavia Wells era incline a credere che lo fosse. Egli pensava, sostanzialmente, che la civiltà di minoranza potesse essere trasmessa alle grandi masse, e che condizioni giuste per una tale trasmissione fossero possibili. Condizioni eque, stile britannico, vittoriano-edwardiane, non-reiette, non-folli, condizioni riconoscenti. Ma durante la Seconda guerra mondiale si disperò. Paragonava l’umanità a dei ratti in un sacco, che lottavano disperatamente e mordevano. In verità la situazione era simile a un ratto e simile a un sacco. Realmente. Ma ora ho esaurito il mio interesse per Wells. E anche il Suo, spero, dottor Lal.»
«Ah, Lei lo conosceva davvero molto bene» disse Lal. «E con quanta chiarezza sa esporre le cose. Lei è un condensatore di gran classe. Vorrei averlo io il Suo talento. Mi è mancato penosamente quando ho scritto il mio libro.»
«Il Suo libro, per la parte che ho avuto tempo di leggere, è molto chiaro.»
«Spero che potrà leggerlo tutto. Mi scusi, Mr. Sammler, sono confuso. Non so con precisione dove mi abbia condotto Mrs. Arkin, e di chi sia questa casa. Lei me l’ha spiegato, ma io non sono riuscito a seguire.»
«Questa è la Westchester County, poco lontana da New Rochelle, e la casa è di mio nipote, il dottor Arnold Elya Gruner che in questo momento è all’ospedale.»
«Ho capito. È molto malato?»
«Ha una perdita di sangue nel cervello.»
«Un aneurisma. E non lo si può raggiungere chirurgicamente?»
«No.»
«Santo cielo. E Lei ne è terribilmente turbato.»
«Morirà fra un giorno o due. Sta morendo. Un brav’uomo. Ci ha portati via da un campo profughi, Shula e me, e da ventidue anni si occupa di noi, con gentilezza e generosità. Ventidue anni senza averci mai trascurato un giorno, senza mai una parola di rabbia.»
«Un gentiluomo.»
«Sì, un vero gentiluomo. Lei può vedere che mia figlia e io non abbiamo vere e proprie competenze. Io ho fatto del giornalismo fino all’incirca a quindici anni fa. Ma è sempre stata poca cosa. Recentemente ho scritto un rapporto in polacco sulla guerra in Israele. Ma è stato il dottor Gruner a pagarmi il viaggio.»
«Insomma Le ha dato modo di essere una specie di filosofo?»
«Se è questo che sono. Ho una certa dimestichezza con molte spiegazioni delle cose. A dirLe la verità, sono stanco della maggioranza di queste spiegazioni.»
«Ah, Lei quindi ha un punto di vista escatologico. Molto interessante.»
Sammler, che non aveva molta simpatia per la parola “escatologico”, scrollò le spalle. «Dottor Lal, Lei crede che dovremmo andare nello spazio?»
«Lei è molto triste per Suo nipote. Forse preferirebbe non parlare.»
«Una volta che si comincia a parlare, una volta che la mente si mette a girare in questa direzione, continua a girare, e si tuffa in tutti gli avvenimenti. E forse a lasciarla girare le cose diventano leggermente più tollerabili. Sebbene non veda perché poi dovrebbero essere tollerabili. È veramente un momento spaventoso. Ma cosa si può fare? I pensieri continuano a girare.»
«Come la ruota panoramica dei lunapark» disse il fragile, nero-barbuto Govinda Lal. «Io dovrei dire che ho fatto del lavoro per la Worldwide Technics, in Connecticut. Le mie sono mansioni altamente sofisticate e teoretiche che hanno a che fare con l’ordine nei sistemi biologici, come, cioè, meccanismi complessi si riproducono. Sebbene quanto Le sto per dire probabilmente significherà poco per Lei, ecco, mi si associa con l’ipotesi del Bang-Bang, connessa all’esplosione di impulsi simultanei, teorie atomiche della conduttività cellulare. Poiché Lei ha menzionato Rousseau, l’uomo può o non può essere nato libero. Ma io posso dire con certezza che non esisterebbe senza le sue catene di polimeri. Spero molto che a Lei piacciano le mie battute. Io amo molto il Suo spirito, la Sua intelligenza. Se non è reciproco, sarebbe un gran peccato. Mi riferisco a quelle strutture a catena della cellula. Sono questioni di ordine, Mr. Sammler. Malgrado non abbia il progetto completo da poter presentare. Non sono ancora quel genio universale. Ah! Ah! In tutta serietà, comunque, la scienza biologica è in uno stato di evoluzione straordinario. Oh, è bellissimo, e così stupendo! Parteciparvi è un privilegio. Quest’ordine chimico, che è un fondamento della vita, è di grande bellezza. Oh, sì, grandissima. E quale alto privilegio! Mi è venuto in mente, mentre Lei parlava di un’altra questione, che desiderare di vivere senza ordine equivale a desiderare di allontanarsi dal fondamentale principio biologico che ci governa. Il quale principio, un’infinità di individui presume esista soltanto al fine di liberarci, una piattaforma di lancio per l’impulso. Siamo pazzi, o che cosa? Dall’ordine, dal principio governatore, l’essere umano si può staccare per esprimere il suo immenso privilegio di semplice e pura libertà o dell’inesplicabilità dell’impulso. I fondamenti biologici sono come i contadini, mentre l’individuo intero si considera un principe. Si tratta della cigale e della fourmi. La formica un tempo era l’eroe, ma adesso è la cicala che trionfa su tutto. Mio padre mi ha insegnato la matematica e il francese. La più grande preoccupazione della sua vita era che gli studenti potessero tagliare le pagine dell’Encyclopædia Britannica con le lamette e si portassero gli articoli a casa per studiarseli con calma. Mio padre era una persona semplice. Per merito suo, io ho amato la letteratura francese. Prima a Calcutta, e poi a Manchester, l’ho studiata fino al momento in cui sono maturati i miei interessi scientifici. Ma per rispondere alla Sua domanda riguardante lo spazio. Ci sono, naturalmente, molte obiezioni a queste spedizioni. Accuse secondo le quali sono soldi tolti alle scuole, agli slum, e così via, si capisce. Esattamente come il denaro del Pentagono viene sottratto ai miglioramenti di ordine sociale. Che sciocchezze! È tutta contro-propaganda da parte della burocrazia social-scientifica. Loro sì che i fondi se li accaparrerebbero subito. Inoltre, il denaro in se stesso, da solo, non cambia necessariamente la situazione, giusto? Io credo di no. Gli americani hanno sempre avuto le mani bucate. Male, senza dubbio, ma esiste una cosa che si chiama gaspillage fruttuoso. Lo sperpero può essere giustificato qualora consenta l’inventività, l’originalità, l’avventura. Sfortunatamente i risultati sono per lo più solitamente immorali, corrotti, creando profitti odiosi, ricreazioni da playboy e ammassando fortune reazionarie. Per ciò che riguarda Washington, una spedizione sulla Luna costituisce senza dubbio una superba operazione di pubbliche relazioni. È un puro showbiz. Può darsi che il mio argot non sia aggiornato.» La voce orientale e pastosa era molto piacevole.
«Io non sono un’autorità in materia.»
«Lei sa, ad ogni modo, a che cosa sto pensando. Circhi. Abbacinamento. Gli Stati Uniti che diventano i più grandi dispensatori di spettacoli fantascientifici. Per quanto riguarda gli organizzatori e gli ingegneri, è un’opportunità grandissima, ma questo non è di alto valore teoretico. Eppure, allo stesso tempo, qualcosa di serio si verifica all’interno. L’anima sicurissimamente avverte la grandiosità di questa conquista. Non andare dove uno è in grado di andare può provocare un arresto. Io credo che l’anima lo senta, e di conseguenza diventa una necessità. Può portare a un nuovo equilibrio. Ovviamente la tecnologia farà più colpo sulle menti che non sulle personalità. Gli astronauti possono non sembrare tanto degli eroi. Semmai dei super-scimpanzé. Soprattutto se non si esprimono in bello stile. Ma dopotutto, questa è la funzione dei poeti. Se una funzione ce l’hanno. Tuttavia oserei dire che persino i tecnici ne usciranno nobilitati. Ma Lei è d’accordo, signore, che dovremmo andare nello spazio?»
«Be’, perché no? Fino a un certo punto, sì. Benché io non creda che si possa giustificare razionalmente.»
«Perché no? A me vengono in mente moltissime giustificazioni. Io la vedo come una necessità razionale. Lei avrebbe dovuto finire di leggere il mio libro.»
«In tal caso avrei trovato la prova inconfutabile?» Sammler sorrise attraverso gli occhiali colorati, e l’occhio cieco tentò di partecipare. Nel vecchio abito nero e impeccabile, il suo corpo snello e rigido ben eretto, e le sue dita, particolarmente tremolanti quand’era teso o affaticato, che reggevano, lievemente, le ginocchia. Una sigaretta (ne fumava solamente tre o quattro al giorno) bruciava fra le sue nocche goffe e pelose.
«Voglio semplicemente dire che, in tal caso, sarebbe stato al corrente della mia tesi, che in parte baso sulla storia degli Stati Uniti. Dopo il 1776 esisteva un continente dove potersi espandere, e questo spazio assorbì tutti gli errori. Naturalmente io non sono uno storico. Ma se uno non si può lanciare in supposizioni audaci, allora non può far altro che cedere il tutto agli esperti. L’Europa, dopo il 1789, non aveva spazio sufficiente per tutti i suoi errori. Risultato: guerra e rivoluzione, con le rivoluzioni che finiscono in mano ai pazzi.»
«L’ha detto De Maistre.»
«Ah sì? Non so molto di lui.»
«Può essere sufficiente sapere che lui è d’accordo. Le rivoluzioni in effetti finiscono in mano ai pazzi. Naturalmente di pazzi ce ne sono sempre in abbondanza per soddisfare ogni finalità. Inoltre, se il potere è di dimensioni notevoli, con la sua pressione, produce i propri pazzi personali. Il potere indubbiamente corrompe, ma questa affermazione è incompleta sotto l’aspetto umano. Non è troppo astratta? Ciò che bisognerebbe sicuramente aggiungere è la verità specifica che l’avere in mano il potere distrugge la sanità mentale dei potenti. Permette alle loro irrazionalità di abbandonare la sfera dei sogni e di entrare a far parte del mondo reale. Ma… mi scusi, io non sono certo uno psicologo. Come dice Lei, nondimeno, bisogna che ci venga concesso di avanzare supposizioni audaci.»
«Forse è naturale che un indiano debba essere ipersensibile nei riguardi di un surplus di umanità. Calcutta è così formicolante di vita, così vulcanica. Un cinese sarebbe altrettanto sensibile. Qualsiasi nazione di vaste moltitudini. Adesso noi siamo gremiti, ammassati, e gli esseri umani debbono sentire che una via d’uscita esiste, e che il potere intellettuale e l’abilità della loro stessa specie aprono loro questa via. L’invito al viaggio, il desiderio di Baudelaire di uscir fuori – uscir fuori dalle circostanze umane – o la bramosia di essere un battello ebbro, o un’anima il cui ardente desiderio è di spalancare un universo chiuso, è tuttora reale, soltanto che l’impulso non deve essere attribuito alla stanchezza e alla vanità della vita, e non deve necessariamente essere un viaggio della morte. Il guaio è che soltanto specialisti addestrati saranno in grado di fare questo viaggio. L’anima agognante non può farlo semplicemente in virtù dell’impulso diretto, perché ne ha una necessità incommensurabile o perché ne ha voglia o perché è dotata del potere della sofferenza. Bisognerà che conosca l’ingegneria e che indossi quelle stranissime tute e che accetti di sopportare imbarazzi organici, personali. Forse il problema delle radiazioni si dimostrerà insuperabile, oppure in altri mondi si contrarranno malattie sconosciute. Cionondimeno esiste un universo dove possiamo riversarci. Ovviamente un solo pianeta non ci basta più. Né possiamo rifiutare il fascino, la sfida insiti in un nuovo tipo di esperienza. Dobbiamo riconoscere l’estremismo e il fanatismo della natura umana. Se non accettassimo quest’opportunità la Terra ci sembrerebbe sempre più una prigione. Poter spiccare il volo e non farlo significherebbe condannare noi stessi. Saremmo irritati più che mai con la vita. Già adesso la specie si sta mangiando viva. E ora il Regno A Venire è direttamente sopra di noi in attesa di ricevere i frammenti di un’esplosione finale. Molto meglio la Luna.»
Sammler non pensava che ciò dovesse necessariamente accadere.
«Lei crede che la specie non voglia vivere?» disse.
«Molti desiderano farla finita» disse Lal.
«Ebbene, se, come dice Lei, noi siamo il tipo di creatura obbligata a fare ciò che è capace di fare, ne conseguirebbe che dobbiamo autodistruggerci. Ma questo non dev’essere deciso dalla specie? Potremmo affermare che a questo punto la politica non è altro che pura biologia? In Russia, in Cina, e qui, gente molto mediocre ha il potere assoluto di porre fine alla vita. Tali rappresentanti – non rappresentanti dei migliori, ma Calibani o, nel gergo, leccapiedi – decideranno per noi tutti se dobbiamo vivere o morire. L’uomo adesso interpreta il dramma della morte universale. Non dovrebbero morire tutti insieme, subito, come in una sola grande morte individuale, esprimendo liberamente tutte le passioni dell’uomo per il proprio fato? Molti dicono che desiderano finirla. Naturalmente questa potrebbe essere soltanto retorica.»
«Mr. Sammler,» disse Lal «credo che Lei voglia suggerire che vi sia un’implicita moralità nella volontà di vivere e che queste mediocrità ai posti direttivi compiano il loro dovere nei confronti della specie. Io non ne sono sicuro. Nella biologia non vi è dovere. Non c’è alcun obbligo sovrano verso la propria razza. Allorché il destino biologico viene realizzato nella riproduzione, il desiderio è spesso di morire. Noi troviamo piacere nell’estrarre delle idee di dovere dalla biologia. Ma il dovere è dolore. Il dovere è odioso – angoscia, oppressiva.»
«Sì?» disse Sammler, dubbioso. «Quando sai che cosa è il dolore, sei perfettamente d’accordo che non essere nati è meglio. Ma, essendo nati, rispettiamo i poteri della creazione, obbediamo alla volontà di Dio – con qualsivoglia riserve interiori la verità ci imponga. Quanto al dovere, Lei ha torto. La sofferenza del dovere rende la creatura retta, e questa rettitudine non è cosa trascurabile. No, io continuo a sostenere quanto ho detto all’inizio. C’è anche un istinto contro il lanciarsi nel Regno A Venire.»
La scena, per una conversazione di tale natura, era di per sé curiosa: la moquette verde, i grandi vasi, le tende di seta del soggiorno della fu Hilda Gruner. Qui Govinda Lal, piccolo, curvo, scuro, con la sua carnagione ruggine o oro, la faccia piena e la barba, era come un ornamento o un dipinto orientale. Sammler stesso sottostava a quell’influsso, simile a una figura dai colori indiani – le guance rosse, i capelli bianchi che gli sventolavano dietro la testa, i cerchi degli occhiali e il fumo della sigaretta intorno ai capelli. Con Wallace aveva insistito di essere orientale, e ora sentiva di assomigliarci.
«Quanto allo stato attuale delle cose,» disse Govinda «io vedo che l’insoddisfazione personale, che è tanto grande, può fornire energia all’impresa più grandiosa che il fato ha segretamente preparato – la partenza dalla Terra. Potrebbe essere la compressione che precede la nuova espansione. Per lanciarsi verso la Luna, possiamo aver bisogno di un’inerzia eguale e opposta. Un’inerzia profonda perlomeno duecentocinquantamila miglia. O anche di più. E inoltre sembra che ne siamo in possesso. Chi può sapere come funzionano queste cose? Lei conosce il famoso Oblomov? Non riusciva ad alzarsi dal letto. Quel fantasma dell’inerzia o della paralisi. Allora l’opposto sarebbe l’attivismo frenetico – lancio di bombe, guerra civile, culto della violenza? Lei ne ha parlato. Ma noi, fino al punto di cadere nell’infelicità, facciamo sempre, sempre, qualche cosa? Persistiamo fino all’esaurimento completo? Forse. Prenda il mio temperamento personale, ad esempio. Le confesso, Mr. Sammler (e quanto sono lieto che le peculiarità della sua figliola ci abbiano fatti incontrare – penso che diventeremo amici)… io confesso di avere, originariamente – originariamente, Lei mi comprende – un carattere malinconico, depresso. Da bambino non potevo sopportare di essere separato da mia madre. Né, se è per questo, da mio padre, che era, come ho detto, un insegnante di francese e di matematica. E tantomeno dalla casa, dai compagni di gioco. Quando coloro che ci venivano a far visita stavano per andarsene, facevo delle scenate violente. Ero un bambino dal singhiozzo facile. Qualunque separazione produceva un tormento emotivo così acuto che veramente mi sentivo male. Devo aver provato dolore per la separazione in modo così profondo e interno da raggiungere le mie molecole costitutive, e tremavo in miliardi di nuclei. Iperbole? Forse, mio caro Mr. Sammler. Ma dai primi studi compiuti in biofisica sui letti vascolari (non La importunerò con i particolari) mi sono convinto che la natura, più che un ingegnere, è un’artista. Il comportamento è poesia, è ordine metaforico, è metafisica. Dalle reazioni ad alta frequenza del cervello di decimi di millisecondo nelle reti corticotalamiche ai fenomeni ecologici più vistosi e più rozzi, tutto è un grafico, in un codice misterioso, di una sublime metafora. Io parlo delle mie passioni personali all’epoca della mia infanzia, e il corpo di un individuo è elettronicamente più denso di quanto la foresta pluviale tropicale sia densa di organismi. E tutte queste esistenze sono, come spesso ci viene suggerito, poesia. Io non ci provo nemmeno più a superare questa impressione di poesia universale. Ma per tornare alla questione della mia personalità, ora sono in grado di vedere che mi ero prefissato di allontanarmi dagli oggetti di più intimo attaccamento. In cui, Mr. Sammler, lo spazio esterno è un opposto – personalmente, un polo emotivo. Uno nasce fra le gambe della propria madre, e in seguito persiste a muoversi verso l’esterno. Una cosa è vedere gli arcipelaghi siderali e un’altra tuffarcisi dentro, in un universo senza giorno e senza notte; be’, quello, vede, fa della profondità marina una cosa meschina, del leviatano non più che un girino…»
Entrò Margotte – gambe corte, robuste, rapide, efficienti, ma asciugandosi le mani inettamente sia sulla gonna che sul grembiule – dicendo: «Ci sentiremo tutti meglio quando avremo mangiato qualcosa. Per te, Zio, abbiamo un’insalata di aragosta, della zuppa alla cipolla della Crosse and Blackwell, Bauernbrot e burro, e caffè. Dottor Lal, immagino che Lei non sia un mangiatore di carne. Le piacciono i fiocchi di latte?».
«Se non Le dispiace, niente pesce.»
«Ma dov’è Wallace?» disse Sammler.
«Oh, è andato su con degli arnesi per accomodare non so che cosa in soffitta.» Sorrise mentre tornava in cucina, sorrise in modo particolare a Govinda Lal.
Lal disse: «Provo molta simpatia per Mrs. Arkin».
Sammler pensò: Lei voleva, a scatola chiusa, che tu provassi simpatia per lei. Io ti posso dare delle dritte su come essere felice con lei. Forse perderò il mio santuario, ma ci posso anche rinunciare se si tratta di una cosa seria. Con una prospettiva dello spazio, forse le urgenze immediate e l’egoismo vengono ridimensionati, e il matrimonio potrebbe essere una buona forma di associazione – sub specie aeternitatis. E inoltre, benché piccolo, Govinda in qualche aspetto era simile a Ussher Arkin. Alle donne non piacciono troppi cambiamenti.
«Margotte è un’ottima persona» disse Sammler.
«Questa è anche la mia impressione. Ed estremamente, immensamente attraente. È molto tempo che è morto il marito?»
«Tre anni, poveretto.»
«Poveretto davvero, morire giovane e con una moglie tanto desiderabile.»
«Su, io ho fame» disse Sammler. Stava già riflettendo su come fare a togliere di mezzo Shula da tutto questo. Era innamorata cotta di quell’indiano. Anche lei aveva i suoi desideri. Bisogni. Era una donna, dopotutto. Cosa si poteva fare per una donna? Poco, molto poco. O per Elya, con quello spruzzo che gli gorgogliava in testa? Tremendo. Elya riappariva stranamente e continuamente, come se la sua faccia descrivesse un’orbita – come se fosse un satellite.
Comunque sia, si sedettero a consumare una piccola cena nella cucina di Elya, e la conversazione continuò.
Ora che Sammler era rimasto affascinato da Govinda e aveva veduto, o immaginato, una rassomiglianza con Ussher Arkin, ed era compromesso affettivamente, per abitudine mentale lo vedeva anche, sotto un altro aspetto, come una curiosità orientale, un demonietto asiatico cespuglioso e ronzante intorno a un pianeta, che mentalmente rimbalza dai limiti come un moscone dal vetro. Chiedendosi se quell’uomo potesse essere un ciarlatano, in qualche misura. No, no, quello no. Non c’era tempo per fare delle osservazioni strambe o meschine; bisognava essere decisi e fidarsi dei propri istinti. Lal era autentico. La sua conversazione era conversazione, non era una buffonata. Quello non era un ciarlatano, era semplicemente una bizzarria umana. Era un uomo eccellente, solido. La sua unica debolezza, immediatamente riconoscibile, era il desiderio che le sue credenziali fossero rese note. Snocciolava titoli e nomi – l’Imperial College, il Professor Waddington, suo amico intimo, il suo incarico di consulente ufficioso del Professor Hoyle, il suo rapporto con il dottor Feldstein della NASA e la sua partecipazione al Convegno di Bellagio sulla biologia teoretica. Cose perdonabili in un piccolo straniero. Il resto era perfettamente limpido. Naturalmente Sammler era divertito dal fatto che lui e Lal parlassero un tipo d’inglese “straniero” così diverso l’uno dall’altro, ed era anche simpatico che fossero uno alto e uno basso. Per lui l’altezza significava iperattività pituitaria e forse deterioramento vitale. I grandi e grossi a volte sembravano avere menti ristrette, come se quello spigare in alto dovesse costare qualche cosa al cervello. Fatto stranissimo nell’ottava decade della vita di un uomo, comunque, era provare uno spontaneo sentimento di amicizia. Alla sua età? Quelle erano cose per i giovani, che ancora sognavano di innamorarsi, d’incontrare qualcuno dell’altro sesso che li guarisse di tutti i loro problemi, cuore e anima, e per cui loro avrebbero fatto lo stesso. Da ciò nasceva una disposizione per gli attaccamenti improvvisi come ora si vedeva in Lal, in Margotte e in Shula. Ma per se stesso, in quel momento della vita, e poiché vi era tornato dall’altro mondo, non si verificavano connessioni rapide, subitanee. I suoi primi germogli di affetti erano stati consumati. La sua vita, un tempo umana, un tempo preziosa, era stata bruciata via. Un ulteriore verde germoglio che scaturisse dal nero bruciato non poteva che essere semplice persistenza naturale, la Forza Vitale al lavoro, che tentava di ricominciare.
In tutti i modi, per la durata di questa piccola cena in cucina (servita con la generosità maldestra di Margotte), il vecchio uomo triste provò anche la massima gioia. Gli sembrava che pure gli altri sentissero ciò che sentiva lui: Shula-Slawa nel suo sari approssimativo che seguiva la conversazione con occhi devoti, riproducendo ogni parola a bocca chiusa con labbra morbide dipinte di arancione, inclinando il capo sul palmo della mano; Margotte, compiaciutissima, naturalmente: quel piccolo indù l’aveva conquistata in pieno; l’occasione era intellettuale e, per di più, le era capitato di dar da mangiare, di nutrire, tutti i presenti. Poteva essere più piacevole di così un istante della vita? A Sammler queste stramberie femminili facevano tenerezza.
Il dottor Lal stava dicendo che non ne ricavavamo granché dal cervello, considerando il cervello da un punto di vista elettronico, con i suoi miliardi di connessioni istantanee. «Quello che si verifica nella testa di un uomo» disse «è di gran lunga al di là della sua comprensione, è chiaro. Molto similmente, come una lucertola o un ratto o un uccello non possono comprendere il fatto di essere degli organismi. Ma un essere umano, a motivo di uno sprazzo improvviso di percezione, può facilmente capire di essere un ratto che vive in un tempio. Nel suo sviluppo esterno, come cosa, come creatura, in elettronica cerebrale, egli viene a godere di un adattamento, di un’idoneità che gli fanno toccare con mano l’inadeguatezza dei propri sforzi umani personali. Di conseguenza, all’indice più basso, un ratto in un tempio. All’indice più alto, una cosa goffa, con un bagliore di consapevolezza di quanto sia sottile e raffinata l’organizzazione interna impiegata in volgarità, grossolanerie.»
«Sì,» disse Mr. Sammler «questo è un modo molto simpatico e carino di descrivere il fenomeno, sebbene io non sia certo che esistano tante persone consapevoli di essere molto di più di quanto riescano a capire.»
«Sarei estremamente interessato a sentire le Sue opinioni» disse Lal.
«Le mie opinioni?»
«Oh, sì, Papà.»
«Sì, caro Zio Sammler.»
«Le mie opinioni.»
Accadde una cosa strana. Egli sentì che stava per dire tutto quello in cui credeva. A voce alta! Quella era la parte più straordinaria. Non il solito ragionare tra sé e sé di una persona anziana e stramba. Stava per dire quello che pensava, a viva voce.
«Shula ha una gran passione per le conferenze, io no» disse. «Io sono estremamente scettico sulle spiegazioni, sulle pratiche razionalistiche. Ho in antipatia la religione moderna delle categorie vuote e le persone che compiono i movimenti della conoscenza.»
«Lo consideri un recital anziché una conferenza» disse Lal. «Consideri la cosa da un punto di vista musicale.»
«Un recital. È il dottor Lal che dovrebbe darlo – lui ha una voce musicale. Un recital – in effetti è più invitante» disse Sammler posando la tazza sul tavolo. «I recital sono per esecutori ben addestrati. Io non sono pronto per le luci della ribalta. Ma non c’è molto tempo. Sicché, pronto o no… Io sono troppo portato a tenere le mie idee per me, e devo dire che sono tentato di comunicare alcune delle mie opinioni. Ovviamente i vecchi temono sempre di essersi deteriorati senza accorgersene. Come faccio a sapere che non sia accaduto anche a me? Shula, la quale crede che il suo papà sia un mago di grande potenza, e Margotte, a cui le discussioni delle idee piacciono tanto, lo negheranno.»
«Ma certo» disse Margotte. «Le cose non stanno così, è molto semplice.»
«Be’, l’ho veduto capitare ad altri, quindi perché non a me? Uno deve convivere con tutte le possibili combinazioni dei fatti. Ricordo un famoso aneddoto su un demente: C’è un tipo che dice: “Tu sei un paranoico, caro amico”, e l’altro risponde: “Può darsi, ma questo non impedisce alla gente di tramare contro di me”. A mio avviso si tratta di un importante raggio di luce proveniente da una fonte oscura. Non posso dire di aver avvertito alcuna debolezza nel cervello, però può esserci ugualmente. Per fortuna, le mie opinioni sono brevi. Dottor Lal, suppongo che Lei abbia ragione. Biologicamente, chimicamente, la sottigliezza della creatura è al di là della comprensione stessa della creatura. Ne abbiamo una vaga idea, e sentiamo come, in confronto, lo stato interiore sia così caotico, un guazzabuglio di odi et amo. Dicono che il nostro protoplasma sia come l’acqua del mare. Il nostro sangue ha una base mediterranea. Ma ora noi viviamo in un mare sociale e umano. Invenzioni e idee bagnano i nostri cervelli che, a volte, come spugne, devono ricevere qualsiasi cosa portino le correnti e digerire i protozoi mentali. Non dico che non ci sia alternativa a tale passività, che, in parte, è comica, ma ci sono dei momenti, delle situazioni, in cui noi sentiamo l’orrendo volume della consapevolezza cumulativa, vi soggiacciamo, sentiamo il peso del mondo. Il che non è uno scherzo. Il mondo, certamente, è un terrore, e l’umanità in uno stato rivoluzionario diventa, come si dice, moderna, sempre più mentale, il reame della natura, come si chiamava un tempo, che si trasforma in un parco, un giardino zoologico, un giardino botanico, una fiera mondiale, una riserva indiana. E poi ci sono sempre degli esseri umani che si assumono la responsabilità di rappresentare o interpretare la vecchia selvaticità, il tribalismo, la ferocia primitiva del feroce, per timore che ci dimentichiamo la preistoria, lo stato selvaggio, le origini animali. Si sente persino dire, qua e là, che il vero scopo della civilizzazione è quello di permettere a tutti noi di vivere come i popoli primitivi e condurre un’esistenza neolitica in una società automatizzata. Questo è un punto di vista ameno. Tuttavia, non voglio tenervi una concione. Se uno vive nella propria stanza, come faccio io, benché Shula e Margotte si prendano così bene cura di me, in modo eccellente devo dire, s’immagina di rivolgersi a un pubblico che non può sottrarsi alle sue parole. Pochissimo tempo fa ho cercato di tenere una conferenza alla Columbia. Non è andata bene. Credo di aver fatto una figura da cretino.»
«Oh, ma La prego di continuare» disse il dottor Lal. «Noi siamo attentissimi.»
«Le opinioni di una persona sono o necessarie o superflue» disse Sammler. «Quelle superflue mi irritano terribilmente. Io sono un individuo estremamente impaziente. La mia impazienza a volte sconfina nella rabbia. È un fatto clinico.»
«No, no, Papà.»
«Tuttavia, qualche volta è necessario ripetere ciò che tutti sanno. Ogni cartografo dovrebbe porre il Mississippi nello stesso punto, ed evitare l’originalità. Può essere noioso, ma uno deve sapere dove si trova. Non possiamo trovarci di fronte un Mississippi che fluisca verso le Montagne Rocciose così, tanto per dilettarci di un cambiamento. Ora, come ciascuno di noi sa, è stato solamente negli ultimi due secoli che la maggioranza della gente nei Paesi civilizzati ha rivendicato il privilegio di essere degli individui. Precedentemente erano schiavi, contadini, operai, anche artigiani, ma non persone. È chiaro che questa rivoluzione, un trionfo della giustizia in molti modi – gli schiavi dovrebbero essere liberi, il lavoro duro e massacrante dovrebbe finire, l’anima dovrebbe godere della libertà –, ha anche introdotto nuovi tipi di dolori e di infelicità, e fino a questo momento, su una scala più ampia, non è stato, nell’insieme, un successo, un successo pieno. Non parlerò neppure dei Paesi comunisti, dove la rivoluzione moderna ha subìto la massima frustrazione. Per noi i risultati sono mostruosi. Consideriamo soltanto la nostra parte di mondo. Siamo caduti in una profonda abiezione. Si rimane trasecolati a vedere quanti di questi nuovi individui soffrono, con tutto il loro tempo libero e la loro libertà. Sebbene io a volte mi senta decisamente come incorporeo, provo in me poco rancore e moltissima comprensione e simpatia. Spesso sento il desiderio di fare qualcosa, ma è un’illusione pericolosa pensare che si riesca a fare molto per più di due o tre persone.»
«Che cosa si dovrebbe fare?» disse Lal.
«Forse la cosa migliore è di avere un po’ d’ordine entro noi stessi. Meglio di ciò che molti chiamano amore. Forse è amore.»
«Per piacere di’ qualcosa a proposito dell’amore» disse Margotte.
«Ma non ho intenzione di farlo. Quello che stavo dicendo… vedete sto diventando vecchio. Stavo dicendo che questa liberazione a favore dell’individualità non è stata un grande successo. Per uno storico, è cosa di grande interesse, ma per qualcuno che è consapevole della sofferenza, è spaventoso. Cuori che non ricevono compensi reali, anime che non trovano alcun nutrimento. Falsità, illimitate. Desiderio, illimitato. Possibilità, illimitate. Esigenze impossibili imposte a realtà complesse, illimitate. Rifiorimento in forma puerile e volgare di antiche idee religiose, misteri, assolutamente inconsci, è ovvio – sbalorditivo. Orfismo, mitraismo, manicheismo, gnosticismo. Quando il mio occhio è in forze qualche volta leggo l’Enciclopedia della religione e dell’etica di Hastings. Ne emergono molte rassomiglianze affascinanti. Ma quello che si nota di più è una peculiare rappresentazione di sé, una maniera elaborata e a volte assai artistica di presentare se stesso come individuo e uno strano desiderio di originalità, distinzione, interesse – sì, interesse! Una forte derivazione da altri modelli, contemporaneamente al ripudio dei modelli. L’antichità accettava i modelli, anche il Medio Evo – non è che voglia trasformarmi in un libro di storia innanzi ai vostri occhi –, ma l’uomo moderno, forse per via della collettivizzazione, ha la febbre dell’originalità. L’idea dell’unicità dell’anima. Un’ottima idea. Un’idea vera. Ma in queste forme? In queste scadentissime forme? Dio Onnipotente! Con i capelli, i vestiti, le droghe e i cosmetici, con i genitali, con viaggi di andata e ritorno attraverso il male, la mostruosità, e l’orgia, e addirittura con Dio avvicinato per mezzo dell’oscenità? Come dev’essere terrorizzata l’anima in questa veemenza, quanto poco che le stia veramente a cuore può vedere, tale anima, in questi esercizi sadici. E persino qui, il Marchese de Sade nel suo modo folle era un filosofo dell’Illuminismo. Proponeva principalmente la dissacrazione. Ma per coloro che (inconsapevolmente) seguono le pratiche da lui raccomandate, l’idea non è più quella della dissacrazione, ma piuttosto dell’igiene, del piacere che è anch’esso igiene, e di una vita stregata e interessante. Una vita interessante è il concetto supremo dei deficienti.
«Forse non sto pensando con sufficiente chiarezza. Oggi sono molto triste e tormentato. E inoltre, mi rendo conto dell’anormalità della mia esperienza personale. A volte mi chiedo se abbia veramente un posto qui, fra altra gente. Suppongo di essere uno di voi. Ma allo stesso tempo non lo sono. Sospetto dei miei stessi giudizi perché la mia sorte è stata “estrema”. Ero una persona giovane e studiosa, non ero tagliato per l’azione. Improvvisamente, è stata tutta azione – sangue, fucili, tombe, carestia. Chirurgia molto drastica. Uno non ne può uscire intatto. Per molto tempo ho continuato a vedere le cose con peculiare durezza. Quasi come un criminale – una persona che lascia da parte, scarta, comuni flebili scusanti e accomodamenti, e semplifica ogni cosa brutalmente. Non esattamente come ha detto il signor Brecht, Erst kommt das Fressen, und dann kommt die Moral.1 Quella è una sbruffonata. Aristotele ha detto qualcosa di simile e non faceva lo sbruffone, né si comportava da prepotente. Comunque sia, le circostanze mi hanno costretto a pormi delle domande semplici: “Lo uccido? Mi ucciderà?”. “Se mi addormento, mi sveglierò mai? Sono realmente vivo, o non è rimasto più nulla se non un’illusione di vita?” E ora so che l’umanità contrassegna certi individui per la morte. In faccia a loro si chiude una porta. Shula e io siamo stati in questa categoria dei “cancellati”. Se tu, per caso, vivi comunque, l’essere scampato ti lascia con delle idiosincrasie. I tedeschi hanno cercato di uccidermi. Poi anche i polacchi mi hanno sparato addosso. Sarei morto senza il signor Cieslakiewicz. Lui era l’unico per cui non ero stato cancellato. Aprendo quella tomba per me, lui mi ha fatto vivere. Un’esperienza di tale genere deforma. Chiedo perdono a tutti voi per questa deformità.»
«Ma lei non è deforme.»
«Certo che sono deforme. E ossessionato. Potete vedere anche voi che parlo continuamente del ruolo che uno si sceglie da interpretare, dell’originalità, dell’individualità istrionica, della teatralità nella gente, delle forme assunte dalla lotta spirituale. Tutto questo mi gira perpetuamente nella testa, di continuo. Non vi dico, per esempio, quanto spesso io pensi a Rumkowski, il folle re ebreo di Łódź.»
«Chi sarebbe?» disse Lal.
«Una persona che si è trovata in un posto eminente a Łódź, il grande centro tessile. Quando arrivarono i tedeschi, nominarono quest’individuo a capo del ghetto. Ancora adesso si discute di lui in alcuni circoli di rifugiati. Si chiamava Rumkowski. Era un uomo d’affari fallito. Anziano. Un individuo rumoroso, corrotto, direttore di un orfanotrofio, un propagandista per la raccolta di fondi, un cattivo attore, una figura antipatica e grottesca nella comunità ebraica. Un uomo che aveva un qualcosa da recitare, come tanti individui moderni. Ne avete mai sentito parlare?»
Lal non aveva mai sentito parlare di lui.
«Be’, adesso qualche cosetta la sentirete. I nazisti lo nominarono Judenältester. La città era tutta recintata. Il ghetto diventò un campo di lavoro. I bambini vennero catturati e deportati per essere sterminati. La fame era in ogni dove. I morti venivano portati sui marciapiedi e rimanevano là in attesa che arrivasse un carretto per i cadaveri. In mezzo a tutto questo, Rumkowski era Re. Aveva la sua corte personale. Stampava le banconote e i francobolli con la propria effigie. Si organizzavano spettacoli teatrali in suo onore. C’erano delle cerimonie alle quali lui partecipava indossando vesti regali, e viaggiava in una carrozza sgangherata del secolo scorso, riccamente ornata, dorata, tirata da un bianco ronzino morente. In un’occasione mostrò del coraggio, protestando contro l’arresto e la deportazione, in poche parole contro l’assassinio, del suo comitato di consiglio. E per questo fu percosso brutalmente e scagliato in mezzo alla strada. Ma nondimeno lui era un terrore per gli ebrei di Łódź. Era un dittatore. Era il loro Re Ebreo. Una parodia dell’essere reale – un folle Re Ebreo che presiedeva alla morte di mezzo milione di persone. Forse il suo pensiero segreto era quello di salvarne un rimasuglio. Forse il suo pazzo modo di agire si prefiggeva di divertire o distrarre i tedeschi. Queste buffonate di identità fallita, il grand seigneur o le assurdità dittatoriali, questo bislacco rancore contro l’evoluzione della consapevolezza umana portavano alla ribalta da ogni angolo e buco questi io che si dibattevano, questi orribili clown. Eh già, era una cosa che avrebbe fatto presa su quella gente. Raramente l’umorismo era assente dai loro programmi di assassinio. Questa asprezza verso goffe pretese, verso la barzelletta mal riuscita del proprio io che tutti noi sentiamo. L’immaginaria grandezza degli insetti. Senza contare che a questi ebrei avevano sbattuto la porta in faccia: essi appartenevano alla categoria dei “cancellati”. Questa teatralità del Re Rumkowski evidentemente faceva piacere ai tedeschi. Gli ebrei, con un re fantoccio, si sentivano ancora più degradati. E questo ai nazisti piaceva. Avevano una speciale predilezione per tali farse dell’assassinio alla Ubu Roi. Giocavano a fare della Patafisica. Ciò alleggeriva o mitigava l’orrore. Qui, ad ogni modo, possiamo distinguere con peculiare chiarezza la questione delle forme che potevano trovarsi per le azioni della consapevolezza liberata, e dell’odio intriso di sangue, della gioia degli uccisori davanti al suo fallimento e alla sua degradazione.»
«Mi perdoni, ma non sono riuscito a trovare il nesso» disse Lal.
«Già, effettivamente potrei essere più esplicito. Questo fa parte dell’ossessione del mio rimuginare tra me e me. Ma nel Libro di Giobbe c’è la lamentela che Dio chieda troppo all’uomo. Giobbe protesta che di lui si è fatto troppo conto, in maniera insopportabile – “Che è quest’uomo che tu nei fai tanto conto e a lui rivolgi la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e a ogni istante lo metti alla prova? Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva?”. Dicendo anche: “Non vivrò più a lungo. Ben presto giacerò nella polvere”. Questo esigere troppo dall’umana coscienza e dalle umane capacità ha messo a prova durissima e ha logorato la resistenza umana. Non parlo soltanto di quanto si chiede a livello morale, ma anche dell’aspettativa nei confronti dell’immaginazione affinché produca una figura umana di statura adeguata. Qual è la vera statura di un essere umano? È questo, dottor Lal, che intendevo dire parlando della gioia degli assassini nell’assistere alla degradazione nella parodia – in Rumkowski, Re di stracci e di sterco, Rumkowski, governatore di cadaveri. Ed è questo che mi arrovella nella teatralità dell’episodio Rumkowski. Naturalmente il commediante era già condannato. Molti altri commedianti, con agonia minore, hanno anch’essi la percezione dell’ineluttabile condanna. Quanto agli altri, per la grande massa dei condannati immagino che, mentre morivano di fame, abbiano, gradualmente, sentito sempre di meno. Persino le madri affamate non riuscivano a sentire per più di un giorno o due lo strazio dei bambini che erano stati strappati dalle loro braccia. I dolori della fame soffocano la sofferenza. Erst kommt das Fressen, capisce.
«Può darsi che la mia capacità di mettere in relazione ogni cosa sia difettosa. La prego di dirmi se ha quest’impressione. Il mio scopo è di tracciare un quadro – sebbene quell’uomo fosse pazzo da sempre probabilmente, forse lo shock lo rese addirittura più equilibrato; in ogni caso, alla fine, di sua volontà salì sul treno diretto ad Auschwitz – per portare in superficie la debolezza delle forme esteriori che attualmente la nostra umanità ha a disposizione, e la penosa mancanza di fiducia in esse. Il risultato iniziale del nostro moderno boom individualistico. In una figura del genere noi abbiamo il peggiore caso immaginabile. Il tipo più mostruoso dell’esagerazione. Vediamo la disintegrazione delle peggiori idee dell’ego. Idee dell’ego estratte da poesia, storia, tradizione, biografia, cinema, giornalismo, pubblicità. Come fece notare Marx…» Ma non disse ciò che Marx aveva fatto notare. Lui pensava, e gli altri non parlarono. La sua cena non era stata toccata. «Mi dicono che quel vecchio fosse molto lascivo» disse. «Palpava le ragazzette. Le sue orfane, forse. Sapeva che tutti sarebbero morti. Poi tutto sembrò venir fuori come un’efflorescenza, un rigurgito della sua “personalità”. Forse quando la gente è tanto disperatamente impotente, si mette a suonare quello strumento, la personalità, a un volume sempre più forte e con un ritmo sempre più scatenato. Mi sembra di aver veduto spesso questo fenomeno. Ricordo di aver letto in un libro, ma non riesco a rammentarmi quale, che quando gli individui avevano trovato un nome per se stessi, Umano, dedicavano un sacco di tempo ad Agire Umanamente, ridendo, e piangendo, e facendo ridere e piangere gli altri, cercando occasioni, provocando, godendo da morire a torcersi le mani, a spremere lacrime dalle loro ghiandole, e nuotando e navigando in quell’elemento nuvoloso, contaminato, sconcertante e fluttuante dei sentimenti umani, bevendo le acque della passione, inveendo sul loro fato. Il libro condannava quest’esercizio, e in modo particolare la mancanza di originalità. L’autore preferiva la severità intellettuale, odiava l’emozione, esigeva esclusivamente lacrime intense, lacrime piante all’ultimo istante possibile, dopo averle a lungo trattenute, frutto del riconoscimento del più nobile e alto livello spirituale.
«Ma supponiamo che a uno non piaccia tutta questa teatralità dell’anima. Anch’io trovo stancante incontrarla con tanta frequenza e sotto forme così familiari. Ho letto molti spiacevoli resoconti di questo fenomeno. L’ho visto descrivere come un mucchio di detriti delle varie epoche, come scarto storico, come peso morto, e anche come proprietà borghese, come deformità ereditaria. L’io può pensare di avere indosso un nuovo ornamento gioioso, colorato deliziosamente, ma da fuori noi vediamo che non è altro che una pietra da macina intorno al collo. Oppure ancora, questa personalità di cui il proprietario va tanto fiero è roba che si trova ai magazzini Woolworth, latta da quattro soldi o plastica del bon marché delle anime. Vedendola in questo modo, un uomo potrebbe pensare che non valga poi tanto la pena essere umani. Dov’è il desiderabile io che si potrebbe avere? Dove sia, come la domanda viene cantata nell’opera? Dipende. Dipende in parte dalla volontà di chi pone la domanda scorgerne il pregio. Dipende dal suo talento e dal suo disinteresse. È giusto che proviamo antipatia per l’individualità contraffatta, per il pastiche fatto male, per la banalità e tutto il resto. È ripugnante. Ma l’individualismo, a mio parere, non è di nessun interesse se non approfondisce la verità. Quale distinzione personale, gloria, elevazione, per me è assolutamente privo di interesse. Lo considero soltanto un mezzo per ottenere la verità» disse Sammler. «Ma mettendo questo da parte per il momento, credo che possiamo riassumere quanto intendo più o meno in questi termini: che molti, nella storia moderna, hanno fatto un balzo in avanti, dopo lunghissimi periodi di anonimità e amara oscurità, per reclamare e godere (come la gente gode le cose oggi) di un nome, una dignità di persona, una vita simile a quella che apparteneva in passato solamente ai patrizi, alla nobiltà, ai re o agli dèi del mito. E che questo balzo in avanti ha, come tutti i grandi movimenti consimili, portato infelicità e disperazione, che i suoi successi non sono chiaramente visibili, ma che la pena che a causa sua molte persone provano è incalcolabile, che la maggior parte delle forme di vita personale sembrano essere screditate, e che esiste un peculiare desiderio di non-essere. Fino a quando non ci sarà una vita etica e tutto continuerà a essere riversato così barbaramente e avventatamente nel gesto personale, tutto ciò bisognerà sopportarlo. Ed esiste un peculiare desiderio di non-essere. Forse è più esatto dire che gli uomini vogliono visitare tutti gli altri modi di essere in un diffuso stato di consapevolezza, senza desiderare di essere alcuna cosa determinata, ma di diventare, invece, inclusivi, completi, liberi di andare e venire a loro piacimento. Perché dovrebbero essere umani? Nella maggioranza delle forme a disposizione il raggio è troppo breve per le grandi forze della natura esistenti nell’individuo, le forze abbondanti, generose. Negli affari, nelle professioni, nel lavoro manuale; come membro del pubblico; come abitante delle città, questi strani pozzi; come sperimentatore di compulsioni, di manipolazioni; come sopportatore della fatica; come padre, marito che soddisfa la società realizzando la sua quota di azioni – l’individuo sembra sentire queste forze sempre meno, sempre meno. E quindi a me sembra indubbio che egli voglia un divorzio da tutti gli stati a lui già noti.
«Il Cristiano è stato accusato di volersi liberare di sé. Coloro che mossero l’accusa lo incitarono a trascendere la sua umanità insoddisfacente. Ma la trascendenza non è forse il medesimo disordine? Non significa forse liberarsi dell’essere umano? Be’, forse davvero l’uomo dovrebbe liberarsi di se stesso. Naturale. Sempre che possa. Ma entro di sé egli ha anche qualche cosa che sa che è importante far continuare. Qualcosa che merita di andare avanti. È qualcosa che deve andare avanti a tutti i costi, e tutti noi lo sappiamo. Lo spirito si sente imbrogliato, oltraggiato, profanato, corrotto, frammentato, ferito. Eppure sa quel che sa, e di quella conoscenza non ci si può sbarazzare. Lo spirito sa che il suo ampliamento è il vero scopo dell’esistenza. Così a me sembra. Inoltre, l’umanità non può essere un’altra cosa. Non può liberarsi di se stessa se non attraverso un atto di universale autodistruzione. Ma non spetta neppure a noi votare Sì o No. E non ho dichiarato le mie argomentazioni, perché non contesto nulla. Ho dichiarato i miei pensieri. Mi sono stati domandati, e io ho voluto esprimerli. La cosa migliore, ho scoperto, è essere disinteressati. Non come i misantropi si distaccano dagli altri – giudicando –, bensì col non giudicare. Col volere ciò che Dio vuole.
«Durante la guerra non avevo alcun credo, e non mi erano mai piaciute le pratiche degli ortodossi. Vedevo che a Dio non faceva alcun effetto la morte. L’Inferno era la sua indifferenza. Ma l’incapacità di spiegare non può costituire la base per il non credere. Non lo è, perlomeno, fin tanto che persiste il senso di Dio. Io potrei desiderare che non persistesse. Le contraddizioni sono troppo dolorose. Nessuna preoccupazione per la giustizia? Nessuna pietà? Dio è dunque solo un pettegolezzo dei vivi? Poi osserviamo questi vivi che sfrecciano come uccelli sulla superficie dell’acqua, e uno si tuffa o si lancia dentro, ma non ritorna mai su e nessuno mai più lo vedrà. E a nostra volta non saremo visti mai più, quando avremo attraversato quella superficie. Ma è anche vero che non abbiamo nessuna prova che non ci sia alcuna profondità sotto quella superficie. Non possiamo neppure dire che la nostra conoscenza della morte è poco profonda. Tale conoscenza non esiste. Esistono il desiderio, la sofferenza, il lutto. E queste cose ci vengono dalla necessità, dall’affetto, e dall’amore – le necessità di una creatura viva, perché è una creatura viva. Implicita, vi è anche la stranezza. Ci sono anche dei segni premonitori. Si avverte la presenza di altri stati. Non tutto è conoscibile agevolmente. Non sarebbe mai esistita alcuna ricerca senza questi segni premonitori, non ci sarebbe mai stata alcuna conoscenza senza di essi. Ma io non sono un esaminatore della vita, o un esperto, e non ho niente da discutere. Indubbiamente un uomo, se potesse, offrirebbe consolazione. Però questo non rientra nei miei scopi. I consolatori non possono essere sempre veritieri. Ma molto spesso, e quasi giornalmente, io provo una fortissima impressione di eternità. Ciò può essere dovuto alle mie curiose esperienze, o all’età avanzata. Io dirò che per me questo non ha il carattere della vecchiaia. Né mi dispiacerebbe che non ci fosse nulla dopo la morte. Se dev’essere soltanto come era prima della nascita, perché dovrebbe importarcene? Là non si riceverebbe nessun’altra informazione. La nostra caparbietà di scimmie si dissolverebbe. Io credo che ciò che mi mancherebbe di più è questo presagio di Dio nelle molte forme quotidiane. Sì, è questo che mi mancherebbe. E perciò, dottor Lal, se la Luna fosse vantaggiosa per noi metafisicamente, io sarei completamente favorevole all’idea. Come progetto d’ingegneria, colonizzare lo spazio, salvo per la curiosità, l’ingenuità della cosa in sé, è di pochissimo reale interesse per me. Naturalmente la spinta interiore, la volontà di organizzare questa spedizione scientifica dev’essere una di quelle necessità irrazionali che costituiscono la vita – questa vita che noi crediamo di poter comprendere. E quindi immagino che dobbiamo saltare, spiccare il volo, poiché è nostro destino di uomini farlo. Se si trattasse di una questione razionale, allora sarebbe razionale avere prima la giustizia su questo pianeta. Poi, quando avessimo una terra di santi, e i nostri cuori fossero rivolti verso la Luna, potremmo entrare nelle nostre macchine e librarci nell’aria…»
«Ma che cosa c’è sul pavimento?» disse Shula. Tutti e quattro si alzarono dal tavolo per guardare. Dalla scala sul retro scorreva giù abbondante acqua sulla superficie a mosaico pompeiano di plastica bianca. «Tutto a un tratto mi sono sentita i piedi bagnati.»
«C’è un bagno che trabocca?» disse Lal.
«Shula, hai chiuso il rubinetto?»
«Ma certo, ne sono assolutamente sicura.»
«Credo che scorra troppo veloce per essere acqua di un bagno» disse Lal. «Presumibilmente è scoppiato un tubo.» In ascolto, udirono il rumore di un grande sciacquio al piano di sopra, e il cadere veloce, gocciolante, a cascata, di acqua che picchiettava e scivolava sui gradini. «Un tubo aperto. A sentirla sembra un allagamento.» Si staccò dal tavolo e attraversò di corsa la grande cucina, i sottili polsi pelosi sul petto, la testa abbandonata all’indietro fra le spalle gracili.
«Oh, Zio Sammler, che cos’è?»
Le donne seguirono Lal. Di necessità più lento, anche Sammler salì al piano di sopra.
La teoria di Wallace che nella soffitta vi fossero delle tubature posticce zeppe di denaro illegale era stata messa alla prova. Sammler immaginò che, dato che Wallace era tanto incline alla matematica, adorava le equazioni, trascorreva nottate intere a calcolare le probabilità di vincita al gioco, si fosse preparato un disegno dell’impianto idraulico prima di prendere in mano la chiave inglese.
Fare attenzione a dove mettere i piedi divenne completamente inutile, una volta arrivati al primo piano. La moquette del corridoio era come un praticello intriso d’acqua che inzuppava le scarpe rotte di Sammler. La porta della soffitta era chiusa, ma da sotto scorreva l’acqua.
«Margotte,» disse Sammler «corri subito giù. Chiama l’idraulico e i vigili del fuoco. Chiama prima i pompieri e avvertili che immediatamente dopo farai intervenire l’idraulico. Non star lì, dài. Fai presto.» La prese per il braccio e la diresse verso la porta.
Evidentemente Wallace aveva cercato di tamponare la falla con la camicia. Quando il suo calcolo si era dimostrato sbagliato, aveva perduto la testa. La camicia giaceva in terra, fra i piedi, e lui e Lal stavano tentando di ricongiungere le due estremità aperte del tubo.
«C’è qualche cosa che non funziona nel manicotto. Si vede che ne ho rovinato il filetto» disse Wallace. Stava a cavalcioni sopra il tubo. Nel tentativo di ricongiungere i due pezzi staccati, il dottor Lal veniva abbondantemente spruzzato, barba e petto. Shula stava in piedi molto vicino a lui. Se i grandi occhi avessero potuto essere strumenti meccanici – se lo sguardo fisso e la prossimità potessero condurre all’unione!
«Ma non c’è una saracinesca centrale? Non c’è una valvola?» disse Sammler. «Shula, non t’infradiciare tutta. Tirati indietro, cara, sei d’intralcio.»
«Dubito che riusciremo a combinare qualcosa in questo modo» disse Lal. L’acqua schizzava e frizzava rumorosamente.
«Secondo Lei no?» disse Wallace.
Si parlavano con grande educazione.
«Mah, non credo. Per cominciare la pressione dell’acqua è troppa. E, come vede, questo manicotto non si può portare più avanti di così» disse Lal. Abbassò il tubo e si spostò da un lato. I suoi pantaloni grigi erano neri d’acqua fino alla vita. «Lei conosce l’impianto idraulico di quest’abitazione?»
«In che senso, lo conosco?»
«Voglio dire, è fornita dall’amministrazione cittadina, o avete una sorgente privata? Se è acqua municipale, bisognerà chiamare le autorità. Tuttavia, se è un pozzo, la soluzione può trovarsi facilmente in cantina. Se esiste un pozzo, esiste una pompa.»
«La cosa strana è che non l’ho mai saputo.»
«E l’impianto fognario è municipale?»
«Eh, anche qui, non posso esserLe d’aiuto.»
«Se è un pozzo e c’è una pompa, allora c’è anche una saracinesca. Andrò giù io. C’è una torcia?»
«La conosco io la casa» disse Shula. «Vengo con Lei.» Col sari, lento e sciolto, i sandali che le scivolavano dai piedi troppo impazienti, si affrettò dietro a Lal, che correva giù per le scale.
Sammler disse a Wallace: «Ma non ci sono dei secchi? Verranno giù i soffitti».
«Siamo assicurati. Non ti preoccupare dei soffitti.»
«Ciononostante…»
Sammler scese.
Sotto il lavello di cucina e nell’armadio delle scope trovò dei secchi di plastica gialli, e rifece le scale. Riconobbe di avere le preoccupazioni tipiche del parente povero. Certamente quella casa non gli era mai piaciuta, anzi. Trovava difficile comportarsi in modo disinvolto in quel posto, mentre mangiava il pane del suo benefattore. E poi, tutta quella densa comodità, quelle stanze piene zeppe di quadri, soprammobili e attrazioni varie, poggiavano su fondamenta di nullità. L’opera di Mr. Croze, con la sua bocca a bocciolo di rosa, narici visibili, capigliatura alla Oscar Wilde, la pancetta elegante e discreta e le dita profumate, che inviava, come Elya una volta aveva detto, incollerito, rendiconti spese cinici e duri come mai ne aveva visti in vita sua. Elya concedeva di aver ottenuto un arredamento adeguato, di essere stato trattato bene, ma non gli andava giù di essere superato da Mr. Croze, che aveva a che fare con meravigliosi premi, con ducati dei suburbi per ex ragazzini di strada che ce l’avevano fatta! E ciò malgrado – un allagamento! Sammler non poteva sopportarlo. Inoltre, era una tipica impresa di Wallace, come l’affondamento della limousine nel bacino di riserva di Croton, il pellegrinaggio a cavallo nell’Armenia sovietica, l’allestimento di uno studio legale per farci le parole incrociate – proteste contro il successo «privo di valore» del padre. In questo non c’era nulla di nuovo. Regolarmente, adesso, per generazioni e generazioni, le famiglie prosperose davano alla luce figli anarchici – questi Bakunin in erba, geni della libertà, piromani, demolitori di prigioni, proprietà, palazzi. A Bakunin il fuoco era piaciuto da morire. Wallace lavorava con l’acqua, un elemento diverso. Ed era proprio curioso (Sammler con i due secchi di plastica, gialli e leggeri come foglie o piume, ebbe tempo per le scale, mentre l’acqua continuava a scorrere, d’intrattenere quella curiosità) che, parlando di suo padre quel pomeriggio, Wallace avesse detto che, come un pesce, era stato agganciato dall’aneurisma ed era stato scaraventato nella parte sbagliata dell’universo, e stava affogando nell’aria.
«Hai portato dei secchi. Vediamo un po’ se riusciamo a metterli giusti giusti sotto il tubo. Non è che servirà a molto.»
«A qualcosa servirà. Puoi aprire una finestra e far scendere l’acqua giù per la grondaia.»
«Giù per il tubo di scarico. Ok. Ma per quanto tempo possiamo continuare a scaricare secchi d’acqua?»
«Fino a quando arrivano i vigili del fuoco.»
«Hai chiamato i vigili?»
«Naturalmente. Li ho fatti chiamare da Margotte.»
«Così quelli fanno un verbale. La compagnia di assicurazione si baserà su quello. Meglio mettere via tutti questi arnesi. Insomma voglio che sembri un incidente.»
«Come, che questi tubi si sono rotti così, da soli? Che si sono aperti per conto loro? Sciocchezze, Wallace, i tubi scoppiano soltanto d’inverno.»
«Già, credo anch’io.»
«Sicché tu pensavi che fossero pieni di bigliettoni da mille dollari. Ah, Wallace!»
«Non mi sgridare, Zio. C’è un bottino qui, da qualche parte. C’è, te lo giuro. Io lo conosco mio padre. È uno che nasconde. E adesso a che gli servono i soldi? Non si potrebbe permettere di dichiararli nemmeno se…»
«Nemmeno se vivesse?»
«Appunto. Ed è come se ci voltasse le spalle. O come il can dell’ortolano.»
«E ti pare un’espressione adatta?»
«Non lo sarebbe in bocca tua. Ma io posso permettermela. Appartengo a una generazione diversa. Tanto per cominciare, io una dignità non l’ho mai avuta. Sono fatto in tutt’altro modo. Nessun sentimento naturale di rispetto. Be’, non c’è che dire: con questi tubi ho fatto un bel macello del cazzo.»
Sammler stava riflettendo su quanto fossero simili Wallace e Shula con le loro malefatte. Bisognava fermarsi, girarsi e aspettarli. Si rifiutavano entrambi di essere lasciati fuori. Sammler teneva il secondo secchio sotto il tubo che buttava acqua in abbondanza. Wallace era andato a vuotare il primo dalla finestra dell’abbaino, tornando con le mani tutte sporche e bagnate, a petto nudo, i peli neri e corti perfettamente simmetrici come la pettorina di un sacerdote. Le braccia erano lunghe, le spalle bianche, ben tornite senza alcuno scopo. E con una certa piega della bocca, sorridendo a se stesso, trasmetteva a Sammler, come aveva fatto altre volte, l’immagine che la madre aveva di quel ragazzino grazioso, il grande cranio da bambino e il collo lungo, le sopracciglia ben disegnate, sottili, i capelli vivi, un bel naso piccolo. Ma, come avveniva in certe antiche tele a olio, al di sopra di tutto ciò era rappresentato anche un altro mondo, e uno poteva immaginarsi, in una linea diritta al di sopra della testa di Wallace, vari simboli di turbolenza: fumo, fuoco, oggetti scuri in volo. Ordinanze arbitrarie. Un verdetto completo di sigillo e tutto.
«Se mi dicesse dove si trova la grana, perlomeno coprirebbe il danno dell’acqua. Ma tanto non lo fa, e tu non glielo chiedi nemmeno.»
«No, io non voglio averci nulla a che fare.»
«Secondo te io mi dovrei fare la grana da solo e basta.»
«Sì. Cataloga gli alberi e i cespugli. Guadàgnati i soldi da solo.»
«E lo faremo. Infatti, tutto quel che voglio dal vecchio è proprio questo, un piccolo capitale per l’attrezzatura. È l’ultima occasione che ha per dimostrare la sua fiducia in me. Per augurarmi buona fortuna. Come per darmi la sua benedizione, diciamo. Secondo te, lui mi ha voluto bene?»
«Certamente che ti ha voluto bene.»
«Quand’ero bambino. Ma mi ha voluto bene una volta che sono diventato un uomo?»
«L’avrebbe fatto.»
«Se mai fossi stato un uomo secondo i suoi parametri. È questo che vuoi dire, no?»
Avendo sempre la possibilità di ricorrere a uno dei suoi sguardi ciechi, Sammler poteva ugualmente esprimere il suo pensiero. O se tu gli avessi voluto bene, Wallace. Queste sono opportunità molto transitorie. Bisogna essere svelti.
«Mi dispiace che a quest’ora di notte tu debba star qui a svuotare secchi d’acqua. Devi essere stanco.»
«Eh, probabilmente sì. La gente vecchia e incartapecorita può andare avanti per ore e ore. Eppure, comincio a sentirla, la stanchezza.»
«Non è che mi senta tanto in forma neppure io. Com’è la situazione giù, brutta? Una valanga d’acqua?»
No comment.
«Le cose vanno sempre a finire così. È questo il messaggio che mando al mondo dal mio io inconscio?»
«Perché mandare tali messaggi? Censurali. Metti la tua mente inconscia dietro le sbarre, a pane e acqua.»
«No, è semplicemente il mio modo mortale di essere. Non lo puoi mica soffocare. Deve venir fuori per forza. Anch’io lo odio.»
Il sottile Mr. Sammler reggeva delicatamente il secchio leggero direttamente sotto al tubo, mentre l’acqua veloce schizzava di qua e di là.
«Io lo so benissimo che papà ha fatto venire quassù dei tizi che hanno installato tubature fasulle.»
«Se era una gran somma di denaro, ammettiamo pure, il tubo finto doveva essere molto grosso.»
«No, lui non è tipo da fare una cosa tanto ovvia. Tu hai un’idea sbagliata di lui. Papà fa le cose in modo scientifico. Potevano benissimo essere in questo tubo. Lui avrebbe potuto arrotolare i biglietti stretti stretti, renderli più piccoli. È un chirurgo, sai. Ha tutta l’abilità e la pazienza che ci vogliono.»
Improvvisamente lo sgorgo d’acqua si arrestò.
«Guarda! L’ha chiusa. Ormai ne scende solo un goccio. Urrah!» disse Wallace.
«Il dottor Lal!»
«Ah, che sollievo. Ha trovato un modo per fermarla. Ma chi è quel tizio?»
«Il Professor V. Govinda Lal.»
«E di che cos’è professore?»
«Biofisica, credo, è il suo campo.»
«Be’, la testa la sa adoperare, questo è poco ma sicuro. Mai una volta mi è saltato in mente di scoprire da dove veniva l’acqua di casa nostra. Si vede che c’è un pozzo. Te l’immagini! E abbiamo abitato qui fin da quando avevo dieci anni! L’8 giugno 1949. Io sono dei Gemelli. Il mughetto è il mio fiore. Lo sapevi che i mughetti sono molto velenosi? Traslocammo qui il giorno del mio compleanno. Niente festa. Il camion rimase incagliato fra i pali del cancello d’entrata proprio il giorno del trasloco. Ah, dunque non è acqua municipale – sono strabiliato.» Con il tono leggero che gli era consueto, introdusse delle riflessioni più generali. «Dicono che sia una caratteristica dell’Uomo Massa il fatto di non conoscere la differenza fra la Natura e le soluzioni umane. L’Uomo Massa crede che i beni di prima necessità a poco prezzo – l’acqua, l’elettricità, la metropolitana, gli hot dog – siano come l’aria, il sole e le foglie sugli alberi.»
«Ma come, semplice fino a questo punto?»
«Secondo Ortega y Gasset, evidentemente sì. Be’, sarà meglio che veda quanto è ingente il danno e faccia venire la donna di servizio.»
«Potresti passarci lo straccio e asciugare. Non lasciare queste pozzanghere sul pavimento tutta la notte.»
«Figurati, io non so neppure da dove cominciare per passare lo straccio. Dubito persino di aver mai tenuto in mano uno spazzolone in vita mia. Ma potrei stenderci dei giornali. Vecchi “Times” che stanno giù in cantina. Però ti prego di una cosa sola, Zio.»
«E quale cosa sarebbe?»
«Non me ne volere per questa faccenda.»
«No, no.»
«Be’, insomma, non pensare male di me – non mi disprezzare.»
«Senti, Wallace…»
«Lo so che non puoi farne a meno. Ecco, diciamo che questo è come un appello. Vorrei che tu avessi una buona opinione di me.»
«Ti senti depresso, Wallace, quando le cose ti vanno storte come stasera?»
«Sempre di meno.»
«Intendi dire che stai migliorando» disse Sammler.
«Vedi, se la casa la eredita Angela io perdo ogni chance d’impossessarmi dei quattrini. Visto che non è sposata metterà la casa in vendita. Lei non ha nessun attaccamento speciale per la vecchia casa di campagna. Le radici. Be’, se è per questo neppure io. In fondo neanche a papà piace sul serio questo posto. No, io non sento nessun rimorso per il danno provocato dall’acqua. Si può rimpiazzare qualunque cosa. A prezzi esorbitanti. Ma la proprietà servirà a pagare il conto, che sarà una bella fregatura. Poi c’è l’assicurazione. Le emozioni possessive si trovano in una fase di transizione. Davvero, lo dico sinceramente.» Wallace poteva, improvvisamente, diventare serio, appassionarsi a un argomento, ma la sua serietà mancava di peso. La serietà probabilmente rappresentava l’ideale di Wallace, il suo vero bisogno, peccato che il giovanotto fosse incapace di individuare le proprie essenze. «Ti dirò di che cosa ho paura, Zio» disse. «Se dovessi vivere su una rendita fissa di un trust, per me sarebbe la fine. In quel caso è certo che non troverò mai me stesso. Vuoi che vada in malora? Io ho bisogno di scaraventarmi fuori dal futuro che mio padre mi ha preparato. Altrimenti tutto continua semplicemente a essere possibile, e tutte queste possibilità saranno la mia morte. Io debbo avere le mie necessità, e non riesco a vederle da nessuna parte. Tutto quel che vedo sono diecimila dollari all’anno, come la condanna a vita di mio padre contro di me. Bisogna che mi giochi tutto mentre è ancora vivo. Quando morirà, mi verrà una tale malinconia che non mi riuscirà di muovere nemmeno un dito.»
«Vogliamo asciugare un po’ di quest’acqua?» disse Sammler. «Cominciamo a spargere per terra qualcuno di quei “Times”?»
«Oh, per quello c’è tempo. Al diavolo! Tanto con le riparazioni ci fregheranno lo stesso. Se lo vuoi sapere, Zio, io credo di essere intelligente solo metà di quanto lo dev’essere un uomo per risolvere queste cose; per cui non riuscirò mai a fare più della metà del percorso necessario.»
«E così tu non hai nessun rapporto con questa casa – nessun desiderio di avere delle radici, Wallace.»
«No, naturalmente no. Radici? Le radici non sono roba moderna. Sono un concetto da contadino, la terra e le radici. Il mondo, la tradizione contadina, sono destinati a scomparire. È questo il vero significato della rivoluzione moderna: preparare i contadini di tutto il mondo a una nuova esistenza. Io, certamente, non ho radici di sorta. Ma io stesso sono antiquato. Quello che ho io sono un’infinità di vecchi fili della luce, e persino quelli appartengono alla vecchia tecnologia. La cosa che vale è la telemetria. La cibernetica. Io praticamente ho deciso, Zio Sammler: se questa impresa con Feffer non va in porto, me ne andrò a Cuba.»
«A Cuba, dici? Ma tu non sarai anche comunista, no, Wallace?»
«Per niente. Comunque Castro lo ammiro. Ha uno stile sensazionale, è un radicale bohémien, e ha tenuto testa al superpotere di Washington. Lui e il suo gabinetto vanno in giro in jeep. S’incontrano nei campi di canne da zucchero.»
«E tu che cosa gli vuoi dire?»
«Potrebbe essere importante, non mi prendere in giro, Zio Sammler. Ho delle idee sulla rivoluzione. Quando i russi hanno fatto la loro rivoluzione, tutti dicevano: “Un passo in avanti in una nuova era della storia”. Niente affatto. La Rivoluzione russa è stata un’azione procrastinatrice – ah, Dio mio, che rumore! Le autopompe. Sarà bene che corra giù. Quelli mica ci mettono tanto a buttare giù la porta. Questi tizi, con le asce, si fanno un’orgia tutta loro. E io invece devo avere un alibi per l’assicurazione.»
Corse via.
Nello spiazzo avanti casa le luci roteanti fendevano gli alberi, rosse scuro sul prato, i muri e le finestre. La campana sbatacchiava, bangalang, e più in fondo, lungo la strada, trangugiando strida appassionate, si avvicinavano le sirene dal suono mortale. Stavano arrivando altre autopompe. Dalla finestra della soffitta Sammler stette a guardare mentre Wallace correva fuori, le mani alzate, dando spiegazioni agli uomini con gli elmetti che spuntavano fuori dai carri balzando nei morbidi stivali di gomma.
Acqua, avevano portato.
Quella notte Mr. Sammler trascorse alcune ore sveglio. Un risultato prevedibile della preoccupazione per Elya. Dell’allagamento. Anche della conversazione con Lal che l’aveva obbligato a dichiarare le sue opinioni – storiche, planetarie e universali. L’ordine probabilmente andava invertito: prima c’erano state le opinioni, planetarie o universali, e poi i dollari nascosti, le tubature dell’acqua, i vigili del fuoco. Sammler uscì e camminò per il giardino, dietro la casa, su e giù per il vialetto. Si sentiva insoddisfatto. Aveva spiegato, aveva assunto delle posizioni, aveva detto cose che non aveva voluto dire, aveva voluto dire cose che non aveva detto. Dentro casa c’erano attività, discussioni, spiegazioni, accordi, modifiche di accordi. Nella casa di un uomo che stava morendo. Era di nuovo il turno di certe faccende minori che la gente insisteva a ingrandire, ingigantire, a spostare al centro dell’attenzione: rapporti personali, arredamenti, alterchi di famiglia, fotografie di ladri su autobus scattate con la Minox, braccia di donne portoricane sull’Express per il Bronx, odi et amo – bisogno-e-ripudio, autoesami emozionali, faccende erotiche ad Acapulco, fellatio con cordiali sconosciuti. Questioni civili. Civili tutte quante! Le menti elevate, come Platone (ora non solo stava facendo una conferenza, ma addirittura ne faceva una a se stesso), desideravano sbarazzarsi di simili cose – baruffe, cause legali, isterie, tutta quella grettezza insignificante. Altri cervelli poderosi negavano che ciò potesse attuarsi. Essi sostenevano (come Freud) che gli istinti più potenti erano aggrovigliati proprio in quel genere di cose, ogni quisquilia il sintomo di una profonda malattia in una creatura il cui intero destino era la malattia. Cosa fare per quelle cose? Assurde nella forma, ma probabilmente reali? O probabilmente non reali? Sollevarsi da tutto ciò era ormai imperativo. E quello era il motivo per cui, durante la crisi di Aqaba, Mr. Sammler era dovuto andare in Medio Oriente.
In quel momento, camminando nella luce bianca della Luna sulla ghiaia lavata di Elya Gruner, tagliata dai neri solchi delle autopompe, riconobbe e ancora una volta identificò i propri motivi. Era tornato al 1939. Voleva riferirsi ancora alla Foresta di Zamość, a caratteristiche umane più fondamentali. Quand’è che le cose erano sembrate reali, vere? In Polonia, quand’era stato accecato, a Zamość quando moriva di freddo, nella tomba, quando aveva fame. Perciò aveva convinto Elya a lasciarlo andare, a mandarlo, e aveva rinnovato la propria familiarità con un certo tipo di fatti. Che, essendo lui più vecchio e più fragile, gli avevano fatto tremare ancora più le gambe; più tentava di irrigidirsi e più vacillava. Pochi altri segni esteriori di tutto questo si manifestarono. Ma non era troppo vecchio? Che c’entrava lui, da dover partire in volo per una guerra?
Sull’aereo, sopra ad Atene, venne annunciato che quel volo non sarebbe proseguito perché in Israele i combattimenti erano già cominciati. Riportato a terra! Doveva andarsene. Il caldo della Grecia, all’aeroporto, stordiva. La musica che si sentiva dappertutto circolava nella testa assai poco propensa di Sammler. Il caffè zuccheroso, le bevande appiccicose, anche quelle erano una tortura per lui. La suspense, il ritardo, gli rodevano il fegato intollerabilmente. Andò in città e si rivolse ad alcuni uffici di linee aeree, domandò a un amico d’affari di Elya nel settore del petrolio o benzina, di aiutarlo, si recò al consolato di Israele e riuscì a ottenere un posto sul primo volo dell’El Al. Attese ancora all’aeroporto fino alle quattro del mattino, fra giornalisti e hippy. Questi giovani – olandesi, tedeschi, scandinavi, canadesi, americani – erano stati accampati a Eilat, sul Mar Rosso. I Beduini, sull’antica strada che conduce dall’Arabia in Egitto, gli avevano venduto l’hashish. Era un posto allegro. Ora, con le loro chitarre, volevano tornarci. Reagire a un evento di primaria importanza. Sebbene non riconoscessero alcun governo.
Il jet era gremito. Non ci si poteva muovere. Per uomini anziani e magri, respirare era difficile. Un tizio della televisione, accanto a Sammler, gli offrì una sorsata dalla sua fiaschetta di whisky. «Grazie» disse Sammler, e accettò. Mandò giù un po’ di Scotch Bell. Esattamente in quel momento il sole balzò fuori dal mare come una volpe rossa. Non era rotondo, ma lungo, non lontano, ma vicino. Il metallo dei motori, quegli armoniosi barilotti in cui l’aria congelata stava urlando – luce nell’oscurità, oscurità nella luce – erano sospesi sotto le ali di fianco al finestrino di Sammler. Il whisky direttamente da una bottiglia – Sammler sorrise a se stesso – faceva di lui un vero corrispondente di guerra. Una persona ben strana per precipitarsi in questa guerra, sebbene non più strana di questi bohémiens dell’età della pietra con le loro solenni barbe. C’erano poi altre persone che a loro volta non sembravano tanto utili in una crisi. Sammler avrebbe inviato i suoi antiquati dispacci a Mr. Jerzy Zhelonski, a Londra, destinati a un gruppo molto eterogeneo di lettori polacchi.
Che diritto aveva Sammler, alla sua età, con un berrettino bianco e la giacca di cotone a righe, di seguire, a bordo di un autobus riservato alla stampa, quei carri armati diretti a Gaza, ad Al Arish e oltre? Ma lui si era organizzato tutto da sé. Non c’era nulla di accidentale in quella sua impresa. Con quegli indumenti così caratteristicamente americani, probabilmente era passato per un uomo più giovane. Gli americani e gli inglesi sembravano sempre un po’ più giovani. Comunque sia, era là. Era uno dei giornalisti. Camminò per le strade di Gaza conquistata. Stavano spazzando via dei vetri rotti. Nella piazza, carri blindati e fucili. Appena più in là, le mura del cimitero, le cupole di mausolei bianchi. Nella polvere, avanzi di cibo si arrostivano, rancidi; puzza d’immondizia che si scaldava, e di orina. Jazz orientale trasmesso dalle radio serpeggiante come la dissenteria negli intestini. Una musica così mortalmente comica. Le donne, solamente quelle più mature, anzianotte, andavano al mercato; o si avviavano in quella direzione; non poteva esserci stato granché da comprare. I veli neri erano trasparenti. Sotto a quei veli si vedevano le facce maschili dall’ossatura grossa – grandi nasi, le bocche rigide e severe sporgenti su denti di pietra. A Gaza non c’era niente che ti tentasse a rimanervi a lungo. L’autobus si fermò per Sammler; e il giovane Padre Newell, con addosso la sua uniforme da combattimento del Vietnam, lo salutò.
Conoscendo le tecniche della guerra moderna, il Padre fu in grado di indicargli cose che Sammler avrebbe potuto non notare quando passarono l’ultimo campo irrigato ed entrarono nel deserto del Sinai. E allora cominciarono a vedere i morti, i corpi non sepolti degli arabi. Padre Newell gli fece vedere il primo. Sammler avrebbe potuto non accorgersene mai, avrebbe potuto scambiare il cadavere per null’altro che un verdastro sacco di iuta, riempito fino agli orli, caduto giù da un camion sulla sabbia bianca.
Catapultati lontano dalla strada, affondati nella sabbia, naufragati sulle dune, molti bruciavano – tutti quei veicoli, trasporto-truppe, carri armati, camion, le automobili leggere schiacciate, piatte, ruote scaraventate lontano, libere, fuggite; e ammassati intorno a queste macchine, i morti. C’erano piazzuole, postazioni, trincee, e là dentro, pure, centinaia di cadaveri. L’odore che se ne sprigionava era come di cartone bagnato. Gli abiti dei cadaveri, maglioni verdastro-marroni, giubbe militari, camicie, erano tutti tesi dal gonfiore, dai gas, dai fluidi. Gigantesche braccia gonfie, gambe arrostivano al sole. I cani mangiavano arrosto di carne umana. Nelle trincee i corpi erano appoggiati ai parapetti. I cani arrivavano tenendosi acquattati, appiattiti. Gli abitanti erano fuggiti dagli accampamenti che si scorgevano qua e là – le tende basse, stile beduino, ma fatte di involucri di plastica scaricati dalle navi, pezzi di polistirolo, sudici fogli di cellulosa simili a mute d’insetti, grossi tegumenti di scarafaggi. Povera gente! Ah, povere creature!
«Be’, hanno fatto le cose sul serio, eh?» disse Padre Newell. «Quante vittime ci saranno secondo lei?»
«Non ho idea.»
«Questo, a parer mio, è stato un piccolo esperimento russo» disse Padre Newell. «Adesso sanno come stanno le cose.»
Nel sole le facce si afflosciavano, si annerivano, si liquefacevano e fluivano via. La carne affondava nel cranio, la cartilagine del naso si accartocciava, le labbra si restringevano, gli occhi si dissolvevano, i liquidi riempivano le fessure e rilucevano sulla pelle. Uno strano sapore, odore di grasso umano. Di pasta di legno fradicia. Mr. Sammler combatteva la nausea. Mentre lui e Padre Newell camminavano insieme, furono messi in guardia affinché non abbandonassero la strada, a causa delle mine. Sammler lesse e interpretò a voce alta, per il prete, le lettere russe dipinte in bianco sul verde dei carri armati e dei camion: GORKISKIJ AUTOZAVOD, dicevano la maggioranza. Sembrava che Padre Newell fosse molto ben informato sui calibri dei fucili, la potenza dei mezzi corazzati, la portata delle varie armi da fuoco. A voce bassa, per rispetto degli israeliani che ne negavano l’uso, identificò il napalm. Vede tutta quella zona rossiccia, tutto quel lilla laggiù? Il rosa salmone con una sfumatura di verde nelle scorie era un’indicazione irrefutabile. Senza alcun dubbio napalm. Era una guerra vera. Questi ebrei erano dei duri. Parlava a Sammler da americano ad americano. Le lunghe righe blu sulla giacca di cotone, il berretto bianco e sporco di Kresge, il quadernetto a spirale in cui Sammler teneva i suoi appunti per gli articoli polacchi, anch’esso comprato da Kresge, giustificavano tutto ciò. Era una guerra vera. Tutti rispettavano la necessità di uccidere. Perché non il prete? Camminava con i suoi scarponi americani da combattimento come se non fosse affatto un prete. Non era un cappellano. Era un giornalista. Non era quel che si supponeva che fosse. E Sammler nemmeno. Ciò che Sammler era non poteva neppure lui formularlo chiaramente. Umano, in qualche modo alterato. Quell’essere umano che stava tentando di ottenere il rilascio, la dispensa dall’essere umani. Non era questo a cui Sammler aveva voluto arrivare parlando in quella cucina, a Lal e alle signore, di divorzio da ogni stato umano? Facendo appello a Dio per ottenere un rilascio dalla sua attenzione? I miei giorni sono vanità. Io non vivrò per sempre. Lasciami in pace. Ricevere una visita ogni mattina, venire chiamato, essere magnificato. Lasciami in pace.
Camminava per la strada angusta con Padre Newell, raccogliendo oggetti curiosi, bossoli, fasce, fumetti e lettere in arabo, scansandosi da un lato per lasciar passare camion zeppi di pane, che appesantivano le balestre, sporgendo in fuori la parte posteriore. Ma in realtà l’argomento principale non si poteva cambiare, l’argomento dei morti. Spuntavano nelle lane verdi-marrone e color sugo di carne. I fumi soffocanti di cartone bagnato che emanavano. Nell’aria bollente, nella luce formidabile, nella persistenza vetrosa e nella distorsione della luce del deserto, quelle forme enfiate erano la cosa principale da vedere. Erano l’unico argomento che l’anima era certa di prendere sul serio. E questo forse era ciò che l’istinto di Sammler l’aveva guidato a fare. Andare al Kennedy, prendere un jet, atterrare a Tel Aviv, farsi fare delle fotografie, ottenere una tessera stampa, trovare un autobus per Gaza, visitare la grande ruota del sole del bianco deserto in cui questi cadaveri egiziani e queste macchine erano incastrate, stabilire in tal modo il suo contatto primario. Venivano così ad attuarsi certi desideri per i quali non poteva trovare giustificazione. E questa guerra era, per come andavano le vicende umane, un affare della minima importanza. Nell’esperienza moderna, una cosa minuscola. Assolutamente da nulla. E tutta la gente che in essa era implicata, i ragazzi, dopo i combattimenti, giocavano a calcio ad Al Arish. Ripulivano uno spiazzo togliendo di mezzo quello che ingombrava, e là davano calci al pallone e cozzavano tra di loro, si lanciavano alti nell’aria, trottavano sulla sabbia. Oppure all’ombra degli hangar tiravano fuori i loro libri e leggevano testi di biologia o chimica, filosofia, preparandosi, forse, agli esami. Poi lui e Padre Newell vennero chiamati per andare a vedere dei franchi tiratori che erano stati catturati: giacevano sul fondo di un camion, con mani e piedi legati e gli occhi bendati. Sotto quegli stracci che servivano da bende, le facce disperate, come se non si trattasse affatto di un affare della minima importanza. Uno vedeva quegli uomini, e poi le cose che seguivano, e dopo, altre cose ancora. Ed evidentemente Mr. Sammler aveva un suo proprio bisogno di quegli spettacoli, per i quali imparò a dominare il tremito delle gambe o il desiderio di piangere che lo trafisse quando vide le facce bendate dei franchi tiratori. Alcuni uomini lo condussero giù, al mare. Entrarono nell’acqua per rinfrescarsi. Anche lui entrò e rimase nell’acqua, in piedi. Nella vasta striscia che correva lungo la spiaggia la spuma si mischiava al bagliore dell’aria calda per chilometri e chilometri, in profonde curve, diverse fra loro, di un bianco ribollente fra la sabbia e il grande mare. Per un poco, nell’acqua, non avvertì l’odore della carne in putrefazione, ma presto dovette legarsi un fazzoletto intorno al viso. Il fazzoletto assorbì velocemente quel puzzo. I suoi abiti ne vennero contaminati. La saliva aveva lo stesso sapore.
Passando per Londra, dieci giorni dopo tornò in volo a New York. Come se fosse stato a compiere qualche sorta di missione auto-assegnata, alla scoperta di fatti. Osservò che la Londra moderna era molto gaia. Andò a vedere il suo vecchio appartamento a Woburn Square. Notò che il traffico era molto intenso. Vide che per le strade c’erano più ubriachi, che l’industria pubblicitaria inglese aveva scoperto il nudo femminile, e che la maggior parte dei manifesti sulle pareti lungo le scale mobili della metropolitana ritraevano donne in biancheria intima. Trovò i suoi conoscenti vecchi come lui. Poi la British Airways lo ricondusse all’aeroporto Kennedy, e subito dopo era alla biblioteca della Quarantaduesima Strada, a leggere, come sempre, Meister Eckhart.
«Beati sono i poveri di spirito. Povero è colui che non ha nulla. Colui che è povero di spirito è ricettivo di tutto lo spirito. Ora Dio è lo Spirito degli spiriti. Il frutto dello spirito è l’amore, la gioia, la pace. Bada a liberarti di tutte le creature, di tutta la consolazione che dalle creature può venirti. Poiché con certezza, fin tanto che le creature confortano e hanno la capacità di confortarti, mai troverai il vero conforto. Ma se nulla può confortarti salvo Dio, Dio veramente sarà il tuo consolatore.»
Mr. Sammler non poteva dire di credere letteralmente a ciò che stava leggendo. Poteva, comunque, dire che non gli interessava leggere altro che questo.
Sul prato davanti alla casa costruita per metà in legno, la terra era umida, l’erba fragrante. O era il suolo stesso che aveva quell’odore così fresco? Nell’aria rischiarata, purgata dalla Luna, egli vide Shula che veniva a cercarlo.
«Perché non sei a letto?»
«Ora ci vado.»
Gli diede la coperta di lana di Elya, fatta all’uncinetto, e Sammler si sdraiò.
Conscio della strana specie a cui apparteneva anche lui, alla specie che aveva organizzato il proprio pianeta fino a quel livello. Di questa massa di creature ingegnose, circa la metà erano entrate nello stato del sonno, fra cuscini, lenzuola, avvolti, rincalzati, imbacuccati, protetti dalle coperte. L’altra metà, sveglia, come un equipaggio metteva in funzione le macchine del mondo, e tutti andavano su e giù e in cerchio con calcoli accurati fino al miliardesimo grado, rimossa la pelle dei motori, sostituita, traiettorie segnate per milioni di chilometri. Da questi geni, dalla metà sveglia. I dormienti, bruti, fantasiosi, sognavano. Poi costoro si svegliavano e l’altra metà andava a letto.
Ed è così che la brillante razza umana fa girare questo globo roteante.
Per un po’ anche lui si unì a coloro che dormivano.