martedì 24 dicembre 2024

LA BELLA CHAT DI GIANNINI Pietro Molteni

 


LA BELLA CHAT DI GIANNINI

Pietro Molteni  

23/12/2024 

La “Bella Chat” di Giannini e la Resistenza oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente

 

È sempre così: quando si fa a gara a chi ce l’ha più antifascista si perde sempre, ci sarà sempre qualcuno che ce l’ha più antifascista di te.

La notizia che Massimo Giannini ha lasciato la “Chat 25 Aprile” ha già fatto sbellicare i tre quarti dei giornali italiani, ma è difficile resistere alla tentazione di ritornarci su. Perché è una storia troppo bella, troppo emblematica nella sua tragica semplicità, sulla cui pietra tombale andrebbe iscritto ciò che Pasolini disse di Giorgio Bocca: “Ogni zelo nasconde sempre qualcosa di poco bello: anche lo zelo antifascista.”

Studi accademici sul declino dei media tradizionali ed il tracollo della sinistra sono esercizi superflui dinanzi al fenomeno “Bella Chat”, il cui destino era già scritto nella lista dei suoi membri: Sigfrido Ranucci, Massimo Gramellini, Concita De Gregorio, Antonio Scurati, Luisella Costamagna e Corrado Formigli, poi Massimo D’Alema, Veltroni e Bertinotti, fino a Venditti e Claudio Baglioni. La meglio gioventù dell’Intellighenzia italiana volta a “rappresentare dal basso istanze che vengono dalla gente comune” (questa è la missione, testuali parole). Come entrare a far parte della chat? Avere il numero di uno di loro. La via della Resistenza è chiusa a chi non vanta un filo diretto con questi “direttori clamorosi, cardinali, e i figli di tutti questi potenti” per citare Fantozzi.

Partito con l’idea di schiacciare i fascisti con lo scarpone democratico, il nostro Massimo Giannini è finito per schiacciare il pulsante “abbandona il gruppo”, e qui c’è da dargli atto di aver compiuto un atto di socratico coraggio, (“E’ giunto il momento che io vada, io alla morte, voi alla vita. Cosa sia meglio, Dio solo lo sa” diceva il suo predecessore) perché, se non la cicuta, ora il nostro dovrà subire lo sberleffo dei colleghi di destra (e non solo) che stanno sguazzando nella notizia come Paperone nei dollari.

Il motivo della dipartita è stato il clima di guerra all’interno della chat riguardo il conflitto Israelo-Palestinese, che già aveva causato attriti e defezioni, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso sembra essere stato l’ultimo acceso litigio tra l’“in-Gazata” (come la definisce Dagospia) Rula Jebreal ed il zanzaresco Parenzo. A questo punto, il nostro Giannini si è trovato dinanzi a due possibilità: fare lo Zelensky e dare un (metaforico) calcio nel sedere ai due indisciplinati estromettendoli dal gruppo così da far vedere a tutti chi comanda, oppure fare il Tarquinio e darsela a gambe sventolando bandiera bianca. È finita come doveva finire.

Come disse Woody Allen di sé stesso: “Voleva essere un grande artista, ma rinunciava agli sforzi necessari per diventarlo”. Potrebbe essere il motto della sinistra Gianniniana, vittima del qualunquismo da lei stessa propalato a piene mani: vuole sostenere l’Ucraina, ma non vuole che il governo investa nelle difesa; vuole dare grandi opportunità ai giovani, ma inorridisce all’idea che la scuola premi il “merito”; vuole un’economia dinamica e competitiva, ma si oppone alle deregolamentazioni; sta con i diritti delle donne, ma anche con la libertà del mondo islamico ad esprimere appieno il proprio credo; e tanto altro… Il risultato è che quando gestisce una chat antifascista si trova in quattro e quattr’otto tra il fuoco incrociato come tra Zerocalcare e Chiara Valerio.

Si fa per scherzare, ma si parte dal presupposto che nessuno abbia mai davvero pensato che la “Bella Chat” fosse una cosa seria. Oppure sì? Ci credevano davvero? Vivono davvero così fuori dal mondo reale? Ciò che corrobora questo amaro sospetto è che i grandi temi riguardanti il nostro Paese (la questione energetica, il declino tecnologico, la sfiducia nelle istituzioni, l’inefficienza della macchina statale, l’iperburocrazia che confligge con la democrazia) non esistono nell’orizzonte di pensiero di questi influenti editorialisti, pensatori e filosofi, così propensi a esercitare le proprie forze per contrastare il raduno di Predappio. E così, mentre il Titanic affonda, si azzuffano sulla paternità del busto di Mussolini in casa La Russa, al tempo stesso interrogandosi scandalizzati su come faccia la gente ad informarsi sui canali YouTube. D’altronde, Il nostro sistema mediatico non ha battuto ciglio quando il Corriere della Sera diffuse la notizia, falsa, secondo cui Zelensky avesse compilato una lista di proscrizione di filorussi italiani (correlato da un video in inglese con falsi sottotitoli, ve lo ricordate?). E non ha battuto ciglio nemmeno quando la bufala venne scoperta ed il video rimosso.


Poi sta arrivando il Natale, ed è lecito pensare che non sia un caso che la faccenda sia scoppiata proprio ora. Perché, se c’è da preparare l’anatra all’arancia, andare a comprare il salmone affumicato, prenotare il panettone in pasticceria, chi ha voglia di mettersi in mezzo alle beghe di due colleghi che litigano su Netanyahu e compagnia? Partigiani sì, ma non oltre il 20 dicembre, già bisogna sopportare i propri parenti (un cugino o un prozio fascistone ce lo abbiamo tutti, che fare, ammazzarlo?), e intanto che il brodo per i tortelli si riscalda chi se ne frega se i fasci al governo ci sono oppure no.


E così l’esperimento della “Bella Chat” finisce come un’opera di Pirandello: “E’ stato un po’ tutto, ma anche niente”. Il nuovo anno porterà qualche altra superficiale ignominia davanti a cui esercitare il proprio punitivo moralismo, basta che nulla di importante venga affrontato. Per un paio di settimane la lotta al fascismo può aspettare, per parafrasare Gaber, la Resistenza oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.



domenica 22 dicembre 2024

IL PIANETA DI MR. SAMMLER Saul Bellow




IL PIANETA DI MR. SAMMLER
Saul Bellow
Recensione
Amo Bellow, amo questo libro.
È un libro divertente, dissacrante, esilarante. Bellow ci racconta di un personaggio strambo e assolutamente credibile. Un 
poveraccio nell'anima che in realtà non lo è affatto. La storia è raccontata da Mr Sammler che accompagna il lettore in quel carosello dalle mille sfaccettature che è la sua vita, il suo pianeta. Come accade per ogni libro di Bellow in realtà il libro contiene aspetti autobiografici, saggistici, comici , di critica nei confronti della società e "dell'uomo ebreo" e di tutte quelle caratteristiche e manie che lo contraddistinguono. Troviamo le sue donne, sempre un po' esagerate e poi tra i personaggi anche la Città che emerge così bene che pare proprio di stare lì. Il pianeta di Mr. Sammler è un autentico capolavoro di Saul Bellow con echi di Dostoevskij e dell’Ulisse di James Joyce. Il protagonista si perde nelle sue riflessioni quotidiane sulla metafisica e sull’epoca, in un contesto così particolare come la fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Troviamo il gusto per il paradosso e il fine humour di chiara matrice ebraica, con la sua ironia dissacrante e scorretta nei confronti della supremazia dell’intelletto. 

IL PIANETA DI MR. SAMMLER
I
Poco dopo l’alba, o quella che sarebbe stata l’alba in un cielo normale, Mr. Artur Sammler osservò col suo occhio cespuglioso i libri e le carte nella sua camera da letto sulla West Side e sospettò fortemente che si trattasse di libri sbagliati, di carte sbagliate. In un certo senso non aveva troppa importanza per un uomo di oltre settant’anni e per di più senza impegni di sorta. Bisognava proprio essere dei fissati a insistere di aver ragione. Aver ragione era in larga misura una questione di spiegazioni. L’uomo intellettuale era diventato un essere spiegante. I padri ai figli, le mogli ai mariti, i conferenzieri agli ascoltatori, gli esperti ai profani, i colleghi ai colleghi, i medici ai pazienti, l’uomo alla propria anima, tutti spiegavano. Le radici di questo, le cause di quest’altro, l’origine di determinati eventi, la storia, la struttura, i motivi per cui. Nella maggior parte dei casi, entravano da un orecchio e uscivano dall’altro. L’anima voleva quel che voleva. Aveva la propria naturale conoscenza. Se ne stava infelicemente seduta, povera creatura, in cima a sovrastrutture di spiegazioni, e non sapeva da che parte girarsi.

L’occhio si richiuse brevemente. Un lavoro ingrato, una sgobbata come quella degli olandesi, pensò Sammler, pompa e ripompa per tenere asciutto qualche ettaro di terra, dove il mare che avanza è una metafora per la moltiplicazione di fatti e sensazioni, la terra, una terra di idee.

Pensò che, non avendo nessun lavoro che lo obbligasse ad alzarsi, tanto valeva tentare di riaddormentarsi in modo da poter risolvere, immaginativamente, certe sue difficoltà; quindi si tirò su la coperta elettrica, che comunque non era stata accesa, tutta nervature e bozzi. Il bordo di raso era piacevole sotto la punta delle dita. Si sentiva ancora mezzo addormentato, ma non proprio incline al sonno. Era tempo di esser consci.

Si rizzò a sedere e infilò la spina del fornelletto elettrico con la piastra a spirale. L’acqua l’aveva preparata prima di andare a letto. Gli piaceva osservare i cambiamenti che subivano i fili color cenere. Prendevano vita con furia, lanciando minuscole scintille e piombando quindi in una rossa rigidità sotto l’ampolla da laboratorio di pirex. Arrivavano all’incandescenza. Sbiancavano. Sammler aveva soltanto un occhio buono. Il sinistro poteva distinguere solo la luce e l’ombra. Ma quello buono era luminoso-scuro, vibrante di osservazione attraverso i peli spioventi del sopracciglio, come in certe razze di cani. Considerata la sua altezza aveva un viso piccolo. Quella combinazione rendeva la sua fisionomia subito individuabile.

L’essere tanto individuabile gli dava da pensare; lo preoccupava. Da parecchi giorni ormai Mr. Sammler tornando a casa il pomeriggio tardi dalla biblioteca della Quarantaduesima Strada, sempre sullo stesso autobus, osservava un borsaiolo al lavoro. L’uomo saliva a Columbus Circle. Quando si giungeva alla Settantaduesima Strada, il colpo, il reato, era stato già compiuto. Se Mr. Sammler non fosse stato un passeggero alto, quelle cose, con il suo unico occhio buono, non le avrebbe viste accadere. Ma ora si domandava anche se non si fosse avvicinato un po’ troppo, se non fosse stato veduto vedere. Portava occhiali fumé per proteggersi costantemente la vista; ad ogni modo non lo si poteva certo scambiare per un cieco. Non aveva il bastone bianco, ma semplicemente un ombrello chiuso e allacciato, all’inglese. E oltre tutto non aveva l’espressione dell’uomo cieco. Il borsaiolo portava anche lui un paio di occhiali scuri. Era un negro grande e robusto con un soprabito di cammello, vestito con straordinaria eleganza, come se il suo abbigliamento gli venisse fornito da Mr. Fish del West End, o da Turnbull e Asser di Jermyn Street (la sua Londra, Mr. Sammler la conosceva bene). I cerchi perfetti delle lenti del negro, color viola genziana montati in un bellissimo oro, si volgevano verso Sammler; la faccia, però, denunciava la strafottenza di un grosso animale. Sammler non era timido, ma in vita sua aveva avuto tanti di quei guai che gli bastavano. A gran parte di essi, in attesa di assimilarli, mai si sarebbe adattato. Sospettava che il criminale si fosse reso conto che un uomo bianco, alto, vecchio (e che fingeva forse di essere cieco?) aveva osservato, aveva visto i particolari più minuti dei suoi reati. Guardando in basso, come se stesse assistendo a un intervento cardiaco. E quantunque tentasse di dissimulare, decidendo di non girarsi da un’altra parte quando il ladro lo guardava, la sua faccia anziana, civile, compatta, si accendeva fortemente, i corti peli si rizzavano, le labbra e le gengive gli bruciavano. Avvertiva una sorta di costrizione, un malessere che lo attanagliava alla base del cranio dove i nervi, i muscoli, i vasi sanguigni erano strettamente intrecciati fra loro. L’alito della Polonia del tempo di guerra passava sui tessuti danneggiati – quegli spaghetti di nervi, come li immaginava lui.

Gli autobus erano sopportabili, le sotterranee ti ammazzavano. Doveva dunque rinunciare a quell’autobus? Non si era occupato degli affari suoi, come un uomo di settant’anni, vivendo a New York, avrebbe dovuto fare. Era sempre stato il problema di Mr. Sammler quello di non essere perfettamente conscio della propria età, di non rendersi ben conto della propria situazione, non protetto, com’era in quella città, da una posizione, dai privilegi dell’irraggiungibilità resi possibili a New York solo da un reddito di cinquantamila dollari l’anno – iscrizione a vari club, taxi, portieri, incontri sorvegliati. Per lui c’erano gli autobus, o la metropolitana opprimente, stridente, e la colazione al ristorante self-service. Nessun motivo per farsene un cruccio, ma i suoi anni da “inglese”, due decenni a Londra in qualità di corrispondente per quotidiani e periodici di Varsavia, gli avevano lasciato degli atteggiamenti non particolarmente utili per un profugo residente a Manhattan. Aveva imparato a servirsi di espressioni adatte a una sala di riunioni di Oxford: aveva il volto di un lettore del British Museum. Sammler si era innamorato dell’Inghilterra da ragazzino, quando andava a scuola a Cracovia. Gran parte di quelle sciocchezze gli erano state strappate via con violenza. Aveva ripreso in esame l’intera questione dell’anglofilia, pensando scetticamente a Salvador de Madariaga, Mario Praz, André Maurois e al Colonnello Bramble. Il fenomeno lo conosceva. Eppure, sull’autobus, trovandosi di fronte quel bruto elegante che lui stesso aveva veduto rubare – la borsetta della signora era ancora aperta – aveva assunto un’aria tipicamente inglese. Una faccia asciutta, composta, compassata dichiarava che nessuno aveva oltrepassato i confini dell’altro; che ci si riteneva perfettamente soddisfatti delle proprie faccende personali e basta. Ma sotto le alte ascelle Mr. Sammler sentiva un gran caldo, si sentiva bagnato; sorreggendosi al mancorrente, come sigillato da altri corpi, riceveva il loro peso su di sé e appoggiava il proprio su di loro mentre i pesanti e grassi pneumatici affrontavano la gigantesca curva alla Settantaduesima con un brontolio di fiacca potenza.

In effetti dava l’impressione di non conoscere la propria età, o in quale stadio della vita si trovasse. Si vedeva dal modo in cui camminava. Per le strade era teso, veloce, a tratti leggero e avventato, i capelli di vecchio svolazzanti dietro la testa. Quando attraversava, sollevava bene in alto il suo ombrello chiuso facendone uno strumento di segnalazione affinché le macchine, gli autobus, i camion veloci e i taxi che parevano avventarglisi contro capissero in quale direzione intendeva andare. L’avrebbero potuto mettere sotto, però lui non riusciva a disfarsi di quel suo modo di fare da cieco che avanza a gran passi.

Quanto al borsaiolo, lo si poteva collocare in una zona adiacente di avventatezza. Sammler sapeva che l’uomo si lavorava l’autobus di Riverside. L’aveva visto rubare dalle borsette e aveva riferito il fatto alla polizia. La polizia non aveva mostrato grande interesse per quella sua informazione. Sammler si era sentito uno stupido per essersi precipitato in una cabina telefonica della Riverside Drive. Naturalmente anche quel telefono era stato fatto a pezzi. La maggior parte degli apparecchi delle cabine pubbliche erano scassati, resi inservibili. Li adoperavano anche come orinatoi. New York stava diventando peggio di Napoli o Salonicco. Era come una città asiatica, o africana, sotto quel profilo. E neppure i quartieri opulenti della città ne erano immuni. Aprivi una porta tutta intarsiata e ti trovavi nella degradazione, da un ipercivilizzato lusso bizantino dritti dritti allo stato brado, con il mondo barbaro del colore che eruttava dal basso. Poteva benissimo essere che fosse barbaro sia da questo che dall’altro lato della porta intarsiata. Sessualmente, ad esempio. La faccenda, evidentemente, così come Mr. Sammler cominciava ad afferrare, consisteva nell’ottenere i privilegi e le vie aperte della barbarie, sotto la protezione dell’ordine civilizzato, i diritti di proprietà, un’organizzazione tecnologica raffinata, e così di seguito. Eh già, doveva essere così.

Mr. Sammler si macinava il caffè in una scatola quadrata, girando in senso antiorario la manovella fra le lunghe ginocchia. Ai gesti e alle azioni di ordinaria amministrazione lui conferiva una particolare goffaggine pedantesca. In Polonia, in Francia, in Inghilterra, gli studenti, i giovani di buona famiglia del suo tempo, non avevano avuto alcuna dimestichezza con le cucine. Ora lui faceva cose che una volta facevano cuoche e cameriere. E lui le faceva con una certa qual rigidezza sacerdotale. Ammissione di decadimento sociale. Rovina storica. Trasformazione della società. Andava oltre l’umiliazione personale. Lui quelle idee le aveva superate durante la guerra in Polonia – superate del tutto, in particolar modo il dolore idiota di perdere i privilegi di classe. Nella maniera migliore consentitagli da quell’unico occhio, si rammendava le calze, si attaccava i bottoni, strofinava il lavandino e, in primavera, con un flacone spray, provvedeva a che i suoi indumenti di lana non venissero attaccati dalle tarme. Naturalmente di donne ce n’erano: sua figlia Shula, sua nipote (acquisita, per matrimonio) Margotte Arkin, nell’appartamento della quale viveva. Le cose per lui le facevano, quando veniva loro in mente. A volte facevano moltissimo, ma non era un aiuto su cui si potesse contare, una consuetudine. Alle cose di routine ci pensava da solo. Con molta probabilità era parte del suo essere giovanile – un giovanilismo sostenuto con un certo tremore. Sammler conosceva quel tremore. Era buffo – Sammler notava in donne anziane con collant operati, in vecchi uomini ancora intrisi di sesso, quel certo tremolio di vivacità con cui obbedivano alla sovrana moda dei giovani. I poteri sono poteri – feudatari, re, dèi. E naturalmente nessuno sapeva quand’era arrivato il momento di smettere. Nessuno giungeva a patti sobri e decorosi con la morte.

Pronto, sopra all’ampolla, teneva il caffè nel piccolo cassetto del macinino. La serpentina rossa si scaldava sempre di più, poi si faceva più bianca, e infine bianca del tutto. I riccioletti della spirale venivano presi da convulsioni. Alcune perline d’acqua cominciavano a guizzare. Individualmente, le pioniere si portavano con grazia fino alla superficie. Poi si mettevano a ribollire tutte insieme. Sammler versava dentro il caffè. Nella sua tazza, una zolletta di zucchero, un cucchiaino di latte in polvere. Nel comodino teneva una busta di panini alla cipolla comprati da Zabar. Erano in un sacchetto uterino, trasparente, di plastica, chiuso da un fermaglio bianco, anch’esso di plastica. Il comodino rivestito di rame, che un tempo era stato un umidificatore, manteneva le cose fresche. Era appartenuto al marito di Margotte, Ussher Arkin. Per Arkin, una brava persona, rimasto ucciso tre anni prima in un incidente aereo, Sammler provava rimpianto, dolore: ne sentiva la mancanza. Quando la vedova lo invitò a occupare una stanza da letto nel grande appartamento a West Side, sulla Novantesima Strada, Sammler chiese se poteva avere l’umidificatore di Arkin in camera sua. Sentimentale anche lei, Margotte aveva detto: «Ma certo, Zio. Che pensiero carino. Tu gli volevi bene davvero a Ussher». Margotte era tedesca, romantica. Sammler era tutta un’altra cosa. Non era neppure suo zio. Margotte era la nipote della moglie di Sammler, morta in Polonia nel 1940. La sua povera moglie, la sua fu moglie. La fu zia della vedova. Ovunque ti girassi o provassi a guardare, c’erano i fu. Ce ne volle di tempo per abituarcisi.

Il succo di pompelmo lo beveva direttamente da una lattina su cui aveva praticato due aperture triangolari e che teneva sul davanzale. La tenda della finestra si scostò quando lui allungò il braccio: Sammler guardò fuori. Eleganti palazzi di arenaria bruno-rossastra, balaustre, bovindo, ferro battuto. Come francobolli in un album – il rosa grigiastro e sbiadito degli edifici cancellato dal nero pesante delle griglie, delle grondaie di metallo ondulato. Quanto era opprimente la vita umana qui, nelle sue forme di solidità borghese. Quel tentativo di permanenza era triste. Ora si volava sulla Luna. Avevamo dunque diritto a speranze e prospettive private, essendo, come eravamo, simili a quelle bollicine nell’ampolla? Però c’era anche il fatto che la gente esagerava i toni tragici della propria condizione. Calcava troppo la mano su determinate sicurezze che si erano disintegrate; quello in cui precedentemente si era creduto, ciò cui si era data la propria fiducia, era adesso incorniciato amaramente di nera ironia. Il ripudiato “nero” borghese della stabilità tradotto in siffatta maniera. Ma neppure questo era esatto, corretto. La gente giustificava l’ozio, la stoltezza, la superficialità, la maleducazione, la lascivia – capovolgendo quella che un tempo era stata la rispettabilità.

Tale era il panorama che si apriva, a est, agli occhi di Sammler, una pancia molle di asfalto che si sollevava e in cui giacevano ombelichi di fogne fumanti. Marciapiedi sgretolati, con mucchi di bidoni per le immondizie. Vecchi palazzi di arenaria. La pietra gialla di palazzi più moderni, con ascensore, come il suo. Boschetti di antenne della televisione. Graziosi dendriti a guisa di frusta, metallici, vibranti, che attingevano immagini dall’aria, portando fratellanza, comunione alla gente murata nei propri appartamenti. A ovest lo Hudson si frapponeva tra Sammler e le grandi industrie Spry del New Jersey. Appena scendeva la notte trafiggevano il cielo con i loro messaggi elettrici, fiammeggianti. SPRY. Ma tanto lui era mezzo cieco.

Sull’autobus aveva visto sufficientemente bene. Aveva visto commettere un reato. L’aveva riferito ai poliziotti. Quelli non se l’erano presa molto a cuore. Perciò avrebbe potuto starsene lontano da quella particolare linea di autobus; viceversa cercava in tutti i modi che l’esperienza si ripetesse. Andò a Columbus Circle e gironzolò lì intorno fino a quando non rivide il suo uomo. Per ben quattro volte aveva osservato affascinato la faccenda, il crimine, mentre questo veniva commesso; il primo pomeriggio, dall’alto, aveva tenuto lo sguardo fisso sulla mano maschile che era sbucata da dietro sollevando la fibbia della borsetta e contemporaneamente inclinandola leggermente in maniera che si aprisse. Sammler vide un lucido indice di negro che, senza fretta, privo del minimo segno di tremore criminale, passava oltre un portatessere di plastica contenente probabilmente il tesserino della previdenza sociale o qualche carta di credito, limette smerigliate per le unghie, un tubetto di rossetto, fazzolettini di carta color corallo, facendo poi scattare il fermaglio di un portamonete – e là dentro c’erano le banconote verdi. Sempre con lo stesso ritmo, le dita avevano estratto i dollari. Poi con il tocco tipico di un medico che si muove sull’addome di un paziente, il negro raddrizzò il cuoio rimasto un po’ di sghimbescio, girò, chiudendolo, il fermaglio dorato e sagomato. Sammler, sentendosi la testa contratta, come rimpicciolita dallo sforzo, le mascelle irrigidite, guardava ancora quella borsetta di vernice che se ne viaggiava, derubata, sul fianco della donna, e si rese conto di essere arrabbiato con lei. Che quella non si accorgesse di nulla. Che cretina! Andarsene in giro a quel modo con uno stupido stampo per dolci nel cranio, al posto del cervello. Istinti, zero, neppure il minimo senso di ciò che significava vivere a New York. Mentre l’uomo si allontanava da lei, con le spalle ampie nel cappotto di cammello. Gli occhiali scuri, design originale di Christian Dior, la gola poderosa fasciata da un colletto di camicia alto e una cravatta di seta rosso ciliegia ben in evidenza. Sotto il naso africano, i baffi, sottili e ben curati. Impercettibilmente piegato verso di lui, Sammler credette di sentire un profumo francese emanare dal cappotto di cammello. Era stato forse in quell’attimo che l’uomo l’aveva notato? L’aveva forse seguito fino a casa? Di questo Sammler non era sicuro.

Non gliene fregava niente del fascino, dello stile, dell’arte dei delinquenti. Per lui non erano certo eroi della società. Aveva ampiamente discusso proprio di quell’argomento con una delle sue parenti più giovani, Angela Gruner, la figlia del dottor Gruner di New Rochelle, che si era adoperato per farlo venire negli Stati Uniti nel 1947, tirandolo fuori dal Campo profughi di Salisburgo. Poiché Arnold (Elya) Gruner aveva un senso della famiglia che ricalcava le linee del Vecchio Continente. E studiandosi gli elenchi di profughi pubblicati sui giornali yiddish, aveva trovato i nomi Artur e Shula Sammler. Angela, che parecchie volte alla settimana si trovava nel quartiere di Sammler, dato che il suo psichiatra stava proprio all’angolo della strada, si fermava spesso a fargli visita. Era una di quelle ragazze belle, passionali, ricche, che rappresentavano sempre una categoria umana e sociale importante. Istruzione scadente. Letteratura, per lo più francese. Al Sarah Lawrence College. E Mr. Sammler doveva fare un notevole sforzo per ricordarsi il Balzac che aveva letto a Cracovia nel 1913. Vautrin, il criminale evaso. Dalle galere. Trompe-la-mort. No, non gliene importava granché del fascino romanzesco dei fuorilegge. Angela inviava denaro a comitati che raccoglievano fondi per la difesa di assassini e stupratori di colore. Ma, naturalmente, quelli erano affari suoi.

In ogni caso Mr. Sammler doveva ammettere che una volta visto il borsaiolo al lavoro, aveva una gran voglia di assistere di nuovo alla faccenda. Non sapeva perché. Era un avvenimento carico di potenza, e illecitamente – ossia contro i propri saldi princìpi – lui bramava la ripetizione. Un particolare di vecchie letture che ricordava senza alcuno sforzo – il momento in Delitto e castigo in cui Raskolnikov abbassava l’ascia sulla testa nuda della vecchia, quei radi capelli striati di grigio, sporchi di grasso, la treccia striminzita fermata sul collo da un pettinino di corno tutto rotto. In altre parole, l’orrore, il delitto, l’assassinio davvero vivificavano tutti i fenomeni, i particolari più comuni e ordinari dell’esperienza. Nel male come nell’arte vi era illuminazione. Naturalmente era come il racconto di Charles Lamb: bruciare tutta la casa per arrostire un maiale. Era proprio necessaria una conflagrazione generale? Sarebbe bastato un incendio controllato, nel luogo giusto. Cionondimeno, chiedere a tutti di trattenersi dall’appiccare il fuoco fin quando la cosa non si fosse potuta attuare nel luogo giusto, in modo più oculato, probabilmente era pretendere troppo. E benché Sammler, scendendo dall’autobus, intendesse telefonare alla polizia, sentiva, suo malgrado, di aver ricevuto da quel delitto il beneficio di una visione più ampia. L’aria era più luminosa – pomeriggio inoltrato, ora legale. Il mondo, Riverside Drive, era malvagiamente illuminato. Malvagiamente perché quella luce chiara rendeva tutti gli oggetti così espliciti, e quel loro essere espliciti era come un rimbrotto per il Mr. Attentissimo-Osservatore Artur Sammler. Che tutti i metafisici ne prendano nota. Ecco come stavano le cose. Non vedrete mai con maggior chiarezza. E che cosa capite da tutto ciò? Questa cabina telefonica ha il pavimento di metallo; le porte pieghevoli verdi hanno dei cardini molto scorrevoli, ma il pavimento manda un fetore pungente di orina asciutta, l’apparecchio telefonico è stato fracassato, e in fondo al filo penzola un moncherino.

Nei tre isolati che dovette percorrere non gli riuscì di trovare un solo apparecchio in grado di garantirgli che introdurre il gettone non fosse del tutto vano, e quindi se ne tornò a casa. Nell’atrio del suo palazzo l’amministrazione aveva installato uno schermo televisivo in modo che il portiere potesse accorgersi della presenza di eventuali malviventi. Il portiere, però, stava sempre in qualche altro posto. Il rettangolo ronzante di radiosità elettronica era vuoto di immagini. Sotto le scarpe c’era il tappeto dignitoso e rispettabile, marrone come una salsa di carne. Il cancelletto interno dell’ascensore, con i suoi rombi di ottone pieghevoli, sudici e luccicanti. Sammler entrò nell’appartamento e si sedette sul sofà nell’ingresso, che Margotte aveva ricoperto con una serie di grandi foulard comprati da Woolworth, annodati agli angoli e appuntati sui vecchi cuscini. Formò il numero della stazione di polizia e disse: «Vorrei denunciare un reato».

«Che genere di reato?»

«Un borseggio.»

«Un attimo, le passo l’incaricato.»

Ci fu un lungo ronzio. Una voce atona per l’indifferenza o per la stanchezza disse: «Sì».

Col suo inglese straniero, polacco e oxoniense, Mr. Sammler cercò di essere il più conciso, diretto e fattuale possibile. Per risparmiare tempo. Per evitare complicati interrogatori, inutili dettagli.

«Vorrei denunciare un borseggio sull’autobus di Riverside.»

«Ok.»

«Scusi?»

«Ok. Ho detto ok. Dica pure.»

«Un negro, un metro e ottanta circa, novanta chili circa, trentacinque anni circa, molto bello, molto ben vestito.»

«Ok.»

«Ho pensato che fosse mio dovere telefonare.»

«Ok.»

«Allora farete qualcosa?»

«Be’, sarebbe nostro compito, no? Lei come si chiama?»

«Artur Sammler.»

«D’accordo, Art. Dove abita?»

«Caro signore, glielo dirò, stia tranquillo, ma le sto chiedendo cosa intendete fare con quest’uomo.»

«Lei cosa crede che dovremmo fare?»

«Arrestarlo.»

«Prima lo dobbiamo acchiappare.»

«Dovreste mettere uno dei vostri uomini sull’autobus.»

«E noi un uomo da mettere sull’autobus non ce l’abbiamo. Di autobus ce ne sono un sacco, Art, e di uomini non ne abbiamo abbastanza. Dobbiamo piantonare un sacco di congressi, banchetti eccetera eccetera, mio caro Art. Tutti i Vip e i pezzi grossi. Ci sono un sacco di signore che vanno a fare acquisti da Lord and Taylor, da Bonwit e da Saks, e che lasciano le borsette sulle sedie mentre vanno a provare i vestiti.»

«Capisco. Non avete il personale, ed esistono delle priorità, pressioni politiche. Io però potrei indicarvi l’uomo.»

«Un’altra volta, guardi.»

«Non volete che ve lo indichi?»

«Certo, ma abbiamo una lista d’attesa.»

«Ma come, io mi devo mettere nella vostra lista?»

«Proprio così, Abraham.»

«Artur.»

«Arthur.»

Seduto, rigidamente proteso in avanti nella luce sfavillante della lampada, Artur Sammler, come un motociclista colpito in fronte da un sasso della strada, leggerissimamente ferito, sorrise con le sue lunghe labbra. America! (stava parlando a se stesso). Reclamizzata in tutto l’universo come la nazione più desiderabile, la più esemplare di tutte quelle esistenti.

«Vediamo se ho capito bene, mi scusi, agente – signor detective. Quest’individuo deruberà certamente altre persone, però voi non farete niente per impedirlo. È così?»

Era così – confermato dal silenzio, seppure non un silenzio di tipo comune. Mr. Sammler disse: «Arrivederla, signore».

Dopodiché, a rigor di logica Sammler avrebbe dovuto evitare quell’autobus; lui, al contrario, se ne serviva sempre più spesso. Il ladro aveva una sua rotta ben precisa, e si vestiva appositamente per quelle traversate, per il lavoro che lo attendeva. Sempre abbigliato stupendamente. Una volta Mr. Sammler rimase colpito, ma non meravigliato, nel vedere che portava un solo orecchino d’oro. Questo era troppo per tenerselo tutto per sé, e per la prima volta disse a Margotte, sua nipote e padrona di casa, e a Shula, sua figlia, che quel formidabile, strafottente e bel borsaiolo, quel principe africano o grosso bestione nero era alla ricerca di qualcuno da divorare fra Columbus Circle e Verdi Square.

Per Margotte la cosa era affascinante. Purché si trattasse di una cosa affascinante era pronta a discuterla tutto il giorno, da ogni angolo visuale, con piena pedanteria germanica. Chi era questo negro? Quali erano le sue origini, il suo ceto o attitudini razziali, le sue opinioni psicologiche, le sue vere emozioni, la sua estetica, le sue idee politiche? Era un rivoluzionario? Era favorevole a una politica di guerriglia nera? A meno che Sammler avesse dei pensieri privati che lo tenessero occupato, non riusciva a sopportare quelle conversazioni con Margotte. Era carina e gentile, ma quanto al teorizzare sulle cose, molto noiosa, e quando si lanciava con entusiasmo su un tema specifico, non c’era più scampo. Era per questo che lui si macinava il caffè da sé, si bolliva l’acqua nell’ampolla, teneva un sacchetto di panini alla cipolla nell’umidificatore, e persino orinava nel lavabo (sollevandosi in punta di piedi in meditazione sulla malinconia inerente alla natura animale, continuamente in travaglio, secondo il pensiero di Aristotele). Perché, mentre Margotte, nella sua bontà, faceva le sue congetture, si dissolvevano nel nulla intere mattinate. Lui la sua lezione l’aveva imparata una certa settimana in cui lei aveva desiderato analizzare l’espressione di Hannah Arendt, «La banalità del Male», e lo aveva trattenuto nel soggiorno, seduto su un sofà (fatto di gommapiuma appoggiata su tavole di compensato sostenute da pezzi di tubo larghi cinque centimetri; come schienale c’erano dei cuscini a forma di trapezio rivestiti completamente di stoffa di cotone grezzo, grigio scuro). Non era riuscito a dire ciò che pensava. Tanto per cominciare, lei si fermava di rado ad ascoltare. Poi dubitava di riuscire a essere sufficientemente chiaro. Inoltre la maggior parte della famiglia di Margotte era stata sterminata dai nazisti, come la sua del resto, sebbene lei personalmente se ne fosse venuta via nel 1937. Lui certo no. Quando era scoppiata la guerra lui si trovava, con Shula e la sua povera moglie, in Polonia. Si erano recati là per liquidare la proprietà del suocero. Avrebbero dovuto pensarci gli avvocati, ma per Antonina era importante sovrintendere alle trattative necessarie. Lei fu uccisa nel 1940, e la piccola fabbrica di strumenti ottici del padre venne smantellata e trasferita in Austria. Non gli fu pagata nessuna indennità post-bellica. Margotte invece riceveva un risarcimento dal governo della Germania Occidentale per la proprietà della sua famiglia a Francoforte. Arkin non le aveva lasciato molto; di quel denaro tedesco lei aveva bisogno. Quando la gente si veniva a trovare in circostanze simili non era davvero il caso di mettersi a discutere. Anche lui, beninteso, aveva le sue di circostanze, come riconosceva Margotte stessa. Lui c’era passato in mezzo sul serio, ci aveva perduto la moglie, un occhio. Tuttavia, sul piano teorico, la questione potevano anche discuterla. Puramente come questione. Zio Artur, seduto, le ginocchia alte nella sedia a sdraio, gli occhi con i loro pallidi ciuffi protetti da lenti scure, le vene biforcute che gli scendevano dalle protuberanze della fronte e la grande bocca decisa a rimanersene muta.

«La questione» disse Margotte «è che qui non stiamo parlando di un grande spirito del male. Quella gente era troppo insignificante, Zio. Si trattava semplicemente di persone di basso ceto, amministratori, piccoli burocrati o Lumpenproletariat. Una società di massa non produce grandi criminali. E questo lo si deve alla divisione del lavoro in tutta la società, che ha distrutto radicalmente l’idea della responsabilità collettiva. È stato il lavoro sminuzzato in tante piccole parti a creare tutto questo. È come se invece di una foresta con alberi enormi, tu debba pensare a delle piccole piante con radici a fior di terra. La civiltà moderna non crea più grandi fenomeni individuali.»

La buonanima di Arkin, normalmente affettuoso e indulgente, sapeva come far star zitta Margotte. Era uno splendido uomo con i baffi, alto, mezzo calvo e con un buon cervello agile e astuto. Il suo campo era stato la teoria politica. Insegnava allo Hunter College – insegnava alle donne. Ragazze deliziose, idiote, sciocche, usava dire. Una volta ogni tanto, dotate di una potente intelligenza femminile, ma tremendamente arrabbiata, in continua protesta contro questo e quello, troppa ideologia sessuale, poverine. Fu mentre era diretto a Cincinnati per tenere una conferenza in qualche college ebraico che l’aereo si schiantò. Sammler notava come ora la vedova di Arkin tendesse a impersonarlo. Era diventata lei la teorica politica. Parlava a nome di lui, nel modo in cui, presumibilmente, avrebbe fatto il marito, e non c’era nessuno che potesse tutelare le idee dello scomparso. Lo stesso destino di Socrate e di Gesù. Entro certi limiti ad Arkin era piaciuta la conversazione tormentosa di Margotte, questo bisognava ammetterlo. Le sue sciocchezze gli facevano piacere, e sotto i baffi ridacchiava tra sé e sé, le lunghe braccia che andavano a toccare i bordi dei cuscini trapezoidali, e i piedi, nelle calze, uno sopra l’altro (si toglieva le scarpe appena si sedeva). Ma dopo che Margotte era andata avanti per un po’, lui diceva: «Basta, basta con questo schmaltz1 alla Weimar. Piantala, Margotte!». Quella risoluta interruzione virile non si sarebbe più udita in quel soggiorno bislacco.

Margotte era bassa, rotonda, piena. Le sue gambe, nelle calze nere a rete, soprattutto sotto le cosce, avevano una pesantezza seducente. Quando si sedeva metteva un piede in fuori come una ballerina, col collo del piede flesso in avanti. Appoggiava il piccolo pugno forte sulla coscia. Arkin una volta aveva detto allo Zio Sammler che Margotte era uno strumento di prima classe, sempre che ci fosse qualcuno che l’avviasse nella direzione giusta. Era una persona di buon cuore, gli aveva detto, ma quella sua energica bontà poteva fare danni se usata male. Sammler se ne rendeva conto di persona. Margotte non riusciva a lavare un pomodoro senza bagnarsi completamente le maniche del vestito. L’appartamento veniva regolarmente svuotato dai ladri perché lei spalancava una finestra per ammirare un tramonto e poi dimenticava di richiuderla. I ladri entravano nella camera da pranzo dal tetto del palazzo attiguo, che si trovava immediatamente sotto la finestra. La compagnia di assicurazione non teneva conto del valore sentimentale dei suoi medaglioni, catenine, anelli e cimeli di famiglia. Ora le finestre erano chiuse definitivamente, inchiodate addirittura, e protette dalle tendine. I pasti venivano consumati a lume di candela. Un chiarore appena sufficiente a distinguere le riproduzioni incorniciate di opere del Museum of Modern Art e, dal lato opposto della tavola, Margotte che serviva, schizzando la tovaglia; il suo bel sorriso, scuro e tenero, con i denti piccoli, imperfetti e puliti, gli occhi blu scuri e privi di ogni malizia. Una creatura importuna, animata di buona volontà, allegra, benintenzionata, maldestra. Le tazze, le posate e tutto ciò che si usava a tavola erano unti. In bagno si dimenticava di tirare la catena. Ma erano tutte cose sopportabili. Il problema era quella sua carica di onesto entusiasmo – quel suo considerare ogni singola minimissima cosa con quella sua ottusità tedesca. Come se essere ebrei non fosse già abbastanza complicato, quella povera donna era pure tedesca.

«Già. E qual è la tua opinione, caro Zio Sammler?» domandava infine. «So che tu hai pensato molto a questo argomento. Ne hai passate tante. E tu e Ussher facevate tanti di quei discorsi su quel vecchio pazzo – Re Rumkowski. L’uomo di Łódź… Che cosa ne pensi?»

Lo Zio Sammler aveva guance sode e compatte, il suo colorito era buono per un uomo di settant’anni, e non aveva troppe rughe. Tuttavia, sul lato sinistro, il lato cieco, si diramavano lunghe linee sottili come quelle che si intravedono in un bicchiere incrinato o in un blocco di ghiaccio.

Risponderle non serviva a nulla. Ne sarebbero nate altre discussioni, altre spiegazioni. Cionondimeno, era un essere umano che gli si era rivolto. Sammler aveva idee all’antica. La cortesia di una qualsivoglia risposta era necessaria.

«L’idea di far sembrare il grande crimine del secolo come qualche cosa di poco interessante non è banale. Politicamente, psicologicamente, i tedeschi ebbero un’idea geniale. La banalità non era che camuffamento. Quale miglior sistema poteva esserci per svuotare l’assassinio del proprio orrore se non quello di farlo sembrare comune, noioso, o addirittura trito? Con spaventosa sagacia politica essi trovarono il modo per mascherare tutta la faccenda. Gli intellettuali non capiscono. Attingono le loro idee su argomenti di questo genere dalla letteratura. Si aspettano un eroe malvagio come Riccardo III. Ma tu credi davvero che i nazisti non sapessero cosa fosse l’assassinio? Tutti (salvo certe bas-bleu) sanno che cos’è l’assassinio. È una conoscenza umana antichissima. Gli esseri umani migliori e più puri hanno sempre capito, dal tempo dei tempi, che la vita è sacra. Sfidare quell’antica conoscenza non è banalità. È stata attuata una congiura contro la sacralità della vita. La banalità è il travestimento di una potentissima volontà tesa ad abolire la coscienza. Secondo te questo progetto è insignificante? Soltanto se la vita umana stessa è insignificante. Il nemico di questa donna-professore, di Hannah Arendt, è la civiltà moderna. Si serve dei tedeschi semplicemente per attaccare tutto il ventesimo secolo – per accusarlo con termini inventati dai tedeschi. Facendo uso di una storia tragica per promuovere le sciocche idee degli intellettuali di Weimar.»

Discussioni! Spiegazioni! pensò Sammler. Tutti spiegheranno tutto a tutti, fino a quando sarà pronta la prossima, la nuova versione unanimemente accettata. Tale versione, un residuo di ciò che gli uomini per circa un secolo ripetono uno all’altro, sarà, come quella vecchia, un’invenzione. Forse un numero maggiore di elementi della realtà verranno incorporati nella nuova versione. Ma la considerazione importante era che la vita doveva ritrovare la sua pienezza, la sua normale soddisfatta turgescenza. Ovviamente bisognava sbarazzarsi di tutta la vecchia roba ammuffita e sorpassata, in modo da potersi avvicinare di più alla natura. Essere più vicini alla natura era necessario per mantenere in equilibrio le conquiste del Metodo moderno. I tedeschi erano stati i giganti di questo Metodo, nell’industria e nella guerra. Per trovare distensione dalla razionalità, dal calcolo, dalle macchine, dalla pianificazione, dalla tecnica, essi avevano le romanticherie, la mitomania, un peculiare fanatismo estetico. Ma erano macchine anche queste – la macchina estetica, la macchina filosofica, la macchina mitomaniaca, la macchina culturale. Macchine nel senso che erano sistematiche. Il sistema esige la mediocrità, non la grandezza. Il sistema è basato sul lavoro. Il lavoro connesso all’arte è banalità. Ergo la sensibilità dei tedeschi colti per tutto ciò che esiste di banale. Metteva a nudo la regola, la potenza del Metodo, e la loro sottomissione al Metodo. Sammler, nella sua testa, aveva ricostruito il quadro in modo preciso. Ben attento al pericolo e alla disgrazia derivanti dalle spiegazioni, poi, se la cavava piuttosto bene nel darle lui stesso, le spiegazioni. E anche ai vecchi tempi, quando era “britannico”, durante i begli anni Venti e Trenta, e abitava in Great Russell Street, quando frequentava Maynard Keynes, Lytton Strachey e H.G. Wells e adorava il pensiero “britannico”, prima della Grande Crisi, la fisica umana della guerra, con i suoi volumi, i suoi vuoti, i suoi spazi non popolati (quel periodo di dinamica e azione diretta sull’individuo, paragonabile, biologicamente, alla nascita), lui non si era mai fidato troppo del proprio giudizio allorché si trattava di tedeschi. La Repubblica di Weimar non gli suscitava alcuna simpatia. No, un’eccezione c’era – ne aveva ammirato i Planck e gli Einstein. Praticamente nessun altro.

In tutti i casi, non aveva alcuna intenzione di essere uno di quei gentili zii europei con cui le Margotte di questo mondo potevano intessere conversazioni ad alto livello e che duravano tutta la giornata. A lei avrebbe fatto piacere che lui la seguisse per l’appartamento mentre, per due ore, svuotava i sacchetti della spesa alla ricerca di un salame che intendeva mangiare a pranzo e che peraltro era già in bella mostra sulla mensola; mentre dava gran colpi al materasso e allisciava il letto con le braccia corte e robuste (aveva conservato la camera da letto devotamente intatta, dopo la morte di Ussher – la sua sedia girevole, il panchettino per i piedi, i suoi Hobbes, Vico, Hume e Marx con i vari passi sottolineati), continuando a discutere di varie cose. Lui sapeva che anche se gli fosse riuscito di infilare dentro una parola, questa veniva subito cerchiata e liquidata. Margotte proseguiva imperterrita, enormemente desiderosa di fare qualcosa di buono. E in tutta verità era buona (stava lì il punto), si schierava sempre, illimitatamente, dolorosamente, disperatamente dal lato giusto, il lato migliore, di ogni grande questione umana: lei era per la creatività, per i giovani, per i neri, i poveri, gli oppressi, le vittime, i peccatori, gli affamati.

Una dichiarazione significativa di Ussher Arkin, che dava molto da pensare dopo la sua morte, era che lui aveva imparato a fare la cosa “buona”, come se praticasse un vizio. Evidentemente pensava alla moglie soltanto come partner sessuale. Probabilmente lei lo aveva spinto all’invenzione erotica facendo della monogamia un’affascinante sfida. Margotte, ricordando continuamente Ussher, ne parlava sempre, germanicamente, come del suo Uomo. «Quando il mio Uomo era vivo… il mio Uomo soleva dire.» Sammler si rammaricava per quella sua nipote rimasta vedova. La si poteva criticare all’infinito. Idealista, Margotte ti annoiava, faceva crudelmente irruzione nel tuo tempo, nei tuoi pensieri, nella tua pazienza. Diceva delle sciocchezze, nell’appartamento faceva raccolta di stupidaggini e di rifiuti. I rifiuti li coltivava addirittura. Guardate, per esempio, queste piante che si affannava a far crescere. Piantava i noccioli degli avocado, i semi dei limoni, piselli, patate americane. C’era mai stato niente di più micragnoso, di più miserabile, di quelle cose nei vasi? Cespuglietti e rampicanti vari si trascinavano a fatica per terra, tentando di salire su fili di spago attaccati insieme con la graffatrice e sistemati, speranzosamente, a mo’ di ventaglio sul soffitto. I gambi degli avocado sembravano bastoncini di bengala quando ricadono indietro dopo lo scoppio luminoso, e producevano qualche rugginosa foglia puntuta, lendinosa, danneggiata dall’antrace. Quell’orrore botanico prodotto di tanto annaffiare e scavare con la forchetta, di tanto petto materno e tanta fatica, cuore e speranza, in fondo era sintomo di qualche cosa, no? Innanzitutto stava a dimostrare che i fatti individuali erano pregni di messaggi e significati, e tuttavia non si poteva esser certi di ciò che quei messaggi volessero dire. Margotte nel suo soggiorno voleva un pergolato, uno schermo di foglie lucide, fiori, un giardino, benedizioni di freschezza e di meraviglia – qualcosa da nutrire e proteggere come donna germinatrice, matriarca di grandi riserve naturali e di giardini. Il genere umano, pazzo per i simboli, che tenta di esprimere ciò che esso stesso non sa. E intanto quegli zeppetti, quelle penne d’oca prive di piume che si estendevano a ventaglio: niente viola pavone, niente celeste soave, niente verde genuino, ma soltanto macchie dinanzi ai tuoi occhi. Redente da un sentimento di calore umano pronto e disponibile? No, non se ne poteva esser certi. La stanchezza per l’incessante sforzo analitico, a Mr. Sammler faceva venire il mal di testa. La cosa peggiore era che quelle piante estenuate non reagivano, non potevano reagire. Non c’era luce sufficiente. Troppa roba ammassata.

Ma quanto a roba ammassata, sua figlia, Shula, era molto peggio. Sammler aveva vissuto con Shula per parecchi anni, a est, a pochi passi da Broadway. Quella donna aveva troppe stranezze per il vecchio genitore. Collezionava un mucchio di cose con grande passione. In parole povere, Shula era una divoratrice di rifiuti. Più di una volta l’aveva vista andarsene in giro per Broadway a pescare dentro alle pattumiere (o, come lui ancora li chiamava, portaimmondizie). Non era vecchia, non era brutta, nemmeno troppo mal vestita, se si prendevano in esame i vari elementi, uno separato dall’altro. L’effetto generale sarebbe stato tutt’al più pacchiano se Shula, palesemente, non fosse stata una svitata. Ti si presentava con una minigonna color verde bandiera mettendo in mostra gambe sensuali nella sagomatura, ma prive di una loro sensualità; alla vita un gran cinturone di cuoio; sulle spalle, sul busto, un camicione guatemalteco di stoffa grezza ricamata; in testa una parrucca tipo quella che avrebbe potuto indossare un female impersonator a un congresso di commessi viaggiatori. I suoi capelli naturali avevano una leggera arricciatura, come una minuscola alterazione. E la facevano andare in bestia. Urlava che erano troppo radi, che erano capelli da maschio. Radi, va bene, lo erano, ma da maschio no. Li aveva ereditati direttamente dalla madre di Sammler, una donna senza dubbio alcuno isterica, ma tutto fuorché mascolina. Ma chi poteva sapere quante difficoltà e complicazioni sessuali derivavano dai capelli di Shula? E a cominciare dalla tormentata punta della attaccatura a V dei suoi capelli, seguendo una immaginaria traccia luminosa giù lungo il naso, in origine bello ma ora deformato da un continuo, irrequieto movimento, poi ancora lungo il commento ridicolo delle labbra (turgide, dipinte di rosso scuro) e giù giù fra i seni, fino a metà del corpo – quanti e quali problemi dovevano esserci! Sammler non faceva che sentire la medesima e identica storia di lei che aveva portato la parrucca a un buon parrucchiere perché gliela mettesse in piega, e poi il parrucchiere aveva esclamato: La prego! che la portasse via, era troppo dozzinale perché lui ci mettesse le mani! Sammler non sapeva se si trattasse di un incidente isolato e dovuto a uno di quei coiffeur omosessuali che si trovano in giro, o se invece si fosse ripetuto in numerose, differenti occasioni. In sua figlia egli vedeva molti elementi buoni ma scombinati tra loro. Elementi che in realtà avrebbero dovuto collegarsi, ma che tuttavia mancavano di farlo. Le parrucche, ad esempio, suggerivano l’ortodossia; e Shula in effetti aveva relazioni con il mondo ebraico. A quanto pareva, conosceva un sacco di rabbini in famosi templi e sinagoghe a Central Park West e sulla East Side. Andava dappertutto ad ascoltare sermoni e conferenze gratuite. Dove trovasse la pazienza necessaria per fare queste cose Sammler non lo sapeva. Lui non c’era conferenza al mondo che potesse sopportare per più di dieci minuti. Ma lei, con i suoi occhioni folli e astuti, la faccia pervasa da bianco commento e la pelle ispessita dalla concentrazione, stava là seduta sulla gonna tutta spiegazzata, con la borsa della spesa fra le gambe, piena di roba raccattata qua e là, bottini di diversa natura, punti premio e pubblicazioni di infimo ordine. Alla fine della conferenza lei era sempre la prima a porre le domande. Aveva allacciato rapporti stretti con il rabbino, la moglie e la famiglia del rabbino – aveva un ruolo attivo in discussioni dadaistiche sulla fede, le questioni del rito, il sionismo, Masada, gli arabi. Aveva, però, anche dei periodi cristiani. Era stata nascosta per quattro anni in un convento polacco, dove la chiamavano Slawa, e ora c’erano dei momenti in cui lei rispondeva soltanto a quel nome. Quasi sempre, a Pasqua, era cattolica. Osservava il Mercoledì delle Ceneri, ed era con uno sbaffo tra gli occhi che spesso veniva messa perfettamente a fuoco dalla vista del vecchio signore suo padre. Con quei ciuffetti ebrei, crespi, che dalla parrucca le scendevano a lato delle orecchie, e le labbra floride rosso scuro, scettica, accusatrice, affermava qualcosa di sostanziale circa le proprie rivendicazioni sulla vita, il proprio diritto a essere qualunque cosa – quale che fosse. Sempre rigurgitante di commenti, la bocca completava le premesse dichiarate da un angolo pazzoide degli occhi scuri, sporgenti. Non del tutto pazza, forse. Però arrivava dicendo che era stata buttata a terra dalla polizia a cavallo a Central Park. Quelli stavano cercando di catturare un cervo fuggito dallo zoo, e lei era tutta intenta a leggere un articolo su «Look», quando l’avevano scaraventata a terra. Era, tuttavia, di umore allegrissimo. Anzi, per Sammler, era di gran lunga troppo allegra. La sera si metteva alla macchina da scrivere. Cantava, mentre batteva i tasti. Era stata assunta dal cugino Gruner, il medico, che quel lavoro l’aveva inventato per lei. Gruner l’aveva salvata (praticamente si trattava di questo) dal suo altrettanto pazzo marito, Eisen, in Israele, mandando Sammler, dieci anni or sono, sul posto, per portare Shula-Slawa a New York.

Quello era stato il primo viaggio di Sammler in Israele. Breve. Per motivi di famiglia.

Di una bellezza non comune, con un’espressione intelligentissima, Eisen era stato ferito a Stalingrado. Insieme ad altri veterani mutilati, in Romania, più tardi, era stato lanciato fuori da un treno in movimento. Evidentemente perché era ebreo. Gli si erano congelati i piedi; gli erano state amputate le dita. «Oh, erano ubriachi» disse Eisen, a Haifa. «Brave persone – tovariši. Ma tu lo sai come diventano i russi quando hanno bevuto qualche bicchiere di vodka in più.» E sorrideva a Sammler. Riccioli neri, un bel naso romano, denti lucenti, aguzzi, insensati, umidi di saliva. Il guaio era che molto spesso, lui, Shula-Slawa la picchiava, la prendeva a calci, anche appena sposati. A Haifa il vecchio Sammler, nell’appartamento stipato, con le pareti a calce che odoravano di pietra, osservava i rami di palma alla finestra, in un’aria calda, limpida. Shula stava cucinando per loro seguendo un libro di ricette messicane; preparava una salsa di cioccolato amaro, grattava la noce di cocco sui petti di pollo e si lamentava che a Haifa non si potesse comprare il chutney. «Quando mi hanno buttato fuori,» aveva detto Eisen allegramente «pensai di andare a vedere il Papa. Mi sono preso una verga e sono andato in Italia a piedi. La verga mi serviva da gruccia, capisci.»

«Capisco.»

«Sono andato a Castel Gandolfo. Il Papa fu molto gentile con noi.»

Dopo tre giorni Mr. Sammler aveva visto chiaramente che doveva portar via sua figlia.

Lui non poteva trattenersi a lungo in Israele. Non si sentiva di spendere il denaro di Elya Gruner. Tuttavia Nazareth la visitò e prese un taxi per recarsi in Galilea, per l’interesse storico della cosa, dato che si trovava da quelle parti. Lungo una strada sabbiosa trovò un gaucho. Quasi nascosto da un cappellone legato sotto il mento grande, con ampi pantaloni argentini infilati negli stivali, baffetti alla Douglas Fairbanks, stava mescolando il mangime per le piccole creature che scorrazzavano intorno a lui in un recinto delimitato da reti metalliche. Da un tubo di gomma l’acqua, limpida e gradevole, scorreva al sole sul pasto, quella poltiglia gialla, chiazzandola di arancione. Quelle piccole bestie, benché grasse, erano agili e svelte; ben pasciute, il pelo luccicava, denso e opulento. Erano nutrie. Con la loro pelliccia si facevano cappelli da portare in climi freddi. Mantelli per le signore. Mr. Sammler, sentendosi la faccia arrossata in quel sole di Galilea, interrogò l’uomo. Con la sua voce di basso, tipica di un viaggiatore di alto rango – la sigaretta stretta fra le nocche pelose, il fumo che si dileguava oltre le sue orecchie pelose –, rivolse alcune domande al gaucho. Nessuno dei due parlava l’ebraico. Né tantomeno la lingua di Gesù. Mr. Sammler si attaccò all’italiano, che l’allevatore di nutrie, nella sua tenebrosità argentina, comprendeva; il bel viso dai lineamenti forti era intento a guardare quelle bestie voraci che si assiepavano intorno ai suoi stivali. Era bessarabico-siriano-sudamericano – un vaccaro israeliano che parlava spagnolo e proveniva dalle pampas.

Li macellava lui stesso quegli animali? Sammler desiderava saperlo. Il suo italiano non era mai stato buono. «Uccidere?» «Ammazzare?» Il gaucho lo capì. Quando arrivava il momento, sì, li ammazzava lui stesso. Li colpiva in testa con un bastone.

Ma non gli dispiaceva fare una cosa simile al suo piccolo gregge? Non li conosceva fin dai loro primi giorni di vita – non esisteva alcuna tenerezza per gli individui – non ce n’era nessuno tra loro che fosse il suo preferito? Il gaucho rispose negativamente a tutto. Scosse la sua bella testa. Disse che le nutrie erano molto stupide.

«Son muy tontos.»

«Arrivederci» disse Sammler.

«Adiós. Shalom.»

Con la macchina presa a nolo Sammler si fece portare a Cafarnao, dove Gesù aveva predicato nella sinagoga. Da lontano, scorse il Monte delle Beatitudini. Due occhi sarebbero stati inadeguati per la compattezza e la levigatezza del colore, divise a stento da alcune barche da pesca – l’acqua azzurra, insolitamente densa, pesante, era come sprofondata sotto le cime spoglie della Siria. Il cuore di Mr. Sammler era molto combattuto da sentimenti diversi mentre se ne stava in piedi sotto i bassi alberi di banana svolazzanti di foglie.

E nei tempi antichi calcarono quei piedi…

Ma quelli erano i verdi monti d’Inghilterra. I monti che gli stavano di fronte, nella loro nudità serpentina, non erano affatto verdi: erano rosso-bruni, con cavità e fumosi misteri di potenza inumana fiammeggianti sopra di loro.

Le molte impressioni ed esperienze della vita non sembravano più collocarsi ciascuna nel proprio debito spazio, in successione, ciascuna con la propria riconoscibile importanza religiosa ed estetica, ma gli esseri umani soffrivano le umiliazioni dell’incongruenza, degli stili confusi, di una lunga vita che conteneva differenti vite separate. Di fatto oggi ciascuna vita singola veniva obliterata dall’alluvione dell’intera esperienza del genere umano. Rendendo tutte le età della storia simultanee. Obbligando la fragile persona a ricevere, a registrare, privandola, con quel volume, con quella massa, del potere di impartirvi il proprio disegno.

Be’, quella era stata la prima visita di Sammler in Terra Santa. Dieci anni dopo, per uno scopo diverso, ci tornò.

Shula era rientrata con Sammler in America. Tratta in salvo dalle mani di Eisen, che la percuoteva, a detta di lui, perché andava da preti cattolici, perché era una bugiarda (le bugie lo infuriavano: i paranoici, Sammler aveva concluso, hanno un amore per la verità maggiore degli altri pazzi), Shula-Slawa aveva messo su casa a New York. Creando, cioè, nel Nuovo Mondo, un grande centro di accozzaglia varia. Mr. Sammler, uno Slim-Jim dalle buone maniere (Slim-Jim era il nomignolo che gli aveva dato il dottor Gruner), padre gentile e attento, che borbottava frasi di apprezzamento di fronte a ogni spregevole carabattola gli venisse presentata, in certi momenti di umore speciale esplodeva e, provocato, diventava più violento di altri individui. Tanto è vero che la sua richiesta di risarcimento al governo di Bonn era basata tanto sul danno subìto dal suo sistema nervoso quanto su quello della perdita dell’occhio. Grandi accessi di collera, rarissimi ma nondimeno sconvolgenti, lo riducevano in pessimo stato, con emicranie fortissime, come se avesse appena avuto un attacco epilettico. E allora trascorreva quasi una settimana sdraiato su un letto in una camera al buio, irrigidito, con le mani contratte sul petto, ferito, dolorante, incapace di rispondere quando gli veniva rivolta la parola. Con Shula-Slawa ebbe tutta una serie di questi attacchi. Innanzitutto non poteva sopportare il palazzo dove li aveva messi Gruner, con quei gradini di pietra tutti pendenti da un lato che scendevano a precipizio nel sottoscala di una lavanderia cinese adiacente. L’atrio gli faceva venire il voltastomaco: mattonelle come denti gialli incastonati in un sudiciume disperato, e la tromba fetida dell’ascensore. La stanza da bagno dove Shula teneva un pulcino di Pasqua comprato da Kresge, fino a quando era diventato una gallina che emetteva strida rauche sul bordo della vasca. Le decorazioni di Natale che rimanevano appese fino a primavera. Le stanze stesse erano come quelle campanine polverose di carta rossa che si comprano a Natale, tutte pieghettate. E un certo giorno la gallina con le zampe gialle, in camera da letto, sui suoi documenti e sui suoi libri, gli fece perdere completamente il controllo. Sammler era consapevole che il sole splendeva, che il cielo era azzurro, ma quell’immenso turgore che era il palazzo dove abitavano, una sorta di massiccio vaso barocco, gli dette la sensazione che quella stanza al tredicesimo piano fosse come una credenza di cucina dove si trovasse rinchiuso, e le sataniche zampe della gallina, di un giallo rugoso, che si aggrappavano alle sue carte, lo fecero urlare.

A quel punto Shula-Slawa convenne con Sammler che era meglio se lui si trasferiva altrove. Disse a tutti che il lavoro del padre, il lavoro di un’intera vita, le sue memorie di H.G. Wells, lo rendevano troppo teso perché ci si potesse vivere insieme. Aveva H.G. Wells nel cervello, Shula: come un gran deposito di materiale formatosi nell’intero arco della sua vita. H.G. Wells era l’essere umano più augusto di cui avesse mai sentito parlare. Lei era bambina quando i Sammler abitavano a Woburn Square, Bloomsbury, e con genialità infantile aveva interpretato correttamente le passioni dei suoi genitori – il loro orgoglio per i contatti ad alto livello, il loro snobismo, il fatto che fossero tanto soddisfatti di vivere tra il fior fiore degli esponenti del mondo culturale inglese. Il vecchio Sammler pensando alla moglie nella Bloomsbury dell’anteguerra interpretava un certo gesto riservato, accompagnato da un vago sporgersi del petto, che lei compiva abbassando la mano con un unico movimento, così delicato che bisognava davvero conoscerla per ravvisarvi un segno di vanteria: noi siamo nell’intimità più invidiabile con l’autentica élite culturale britannica. Un piccolo vizio – nutritivo, quasi, digestivo – che rendeva le gote di Antonina più morbide, i capelli più soffici, il colorito più vivo. Se un tantino di arrampicamento sociale la rendeva più bella (più piena fra le gambe – il pensiero l’aveva assalito all’improvviso e Sammler aveva ormai cessato ogni tentativo di respingere quegli assalti mentali), c’era in fondo la sua brava giustificazione femminile. L’amore è il cosmetico più potente che esista, ma ce ne sono anche altri. E la bambina in effetti poteva aver osservato che il semplice riferimento al nome di Wells aveva un misto di influsso erotico-sociale sulla madre. Senza formulare giudizi, e sempre ricordando Wells con rispetto, Sammler sapeva che era stato un uomo di grande appetito sessuale, di straordinaria labirintica sensualità. Come biologo, come pensatore sociale che si occupava del potere e di progetti di portata mondiale, della realizzazione di un ordine universale, come dispensatore di interpretazioni e di opinioni alle masse colte – poiché era tutte queste cose messe insieme, Wells sembrava aver bisogno di una enorme dose di fornicazione. Oggi Sammler se lo ricordava come un inglesuccio di basso ceto, e come un uomo che stava invecchiando e la cui abilità e forza di attrazione erano in declino. E nell’agonia di separarsi per sempre dai seni, dalle bocche e dai preziosi fluidi sessuali delle donne, il povero Wells, il maestro naturale, l’emancipatore del sesso, l’individuo spiegante, il benedicente compassionevole dell’umanità, alla fine non poteva che inveire e mandare tutti al diavolo. S’intende, quelle cose le scrisse durante la malattia dei suoi ultimi giorni, orribilmente depresso dalla Seconda guerra mondiale.

Quel che Shula-Slawa diceva tornava poi alle orecchie divertite di Sammler attraverso Angela Gruner. Shula andava a far visita ad Angela nel quartiere fra la Sessantesima e la Settantesima sull’East Side, dove la cugina aveva quello che si poteva considerare l’appartamento ideale per una giovane donna di New York bella, libera e ricca. Shula aveva una grande ammirazione per tutto questo. A quanto sembrava, senza invidia, senza imbarazzo alcuno, Shula, con parrucca e borsa della spesa, la faccia bianca corrugata da un’incessante ispirazione (ricevendo e trasmettendo messaggi fra i più strampalati), stava seduta nella maniera più goffa possibile nel super-comfort dei divani di Angela, sbavando piatti e forchette di rossetto. Secondo la versione che Shula presentava delle cose, il padre aveva avuto delle conversazioni con H.G. Wells che erano durate per anni. Aveva portato i suoi appunti in Polonia, nel 1939, immaginando di avere un po’ di tempo per le famose memorie. Proprio allora il Paese fu stravolto dall’esplosione. Nel geyser che si sollevò per un paio di miglia nel cielo c’erano finiti anche gli appunti di papà. Ma (con la sua memoria!) lui ricordava tutto a mente, e bastava chiedergli che cosa gli aveva detto Wells di Lenin, Stalin, Mussolini, Hitler, la pace nel mondo, l’energia atomica, Aperta congiura, la colonizzazione dei pianeti. Papà si ricordava discorsi interi. Naturalmente aveva bisogno di concentrarsi. E Shula tanto aveva rigirato la faccenda del trasferimento del padre a casa di Margotte che alla fine si era trasformata in un’idea partita da lei. Il padre se n’era andato per concentrarsi meglio. Diceva che non gli rimaneva troppo tempo, ormai. Però ovviamente esagerava. Sembrava così in forma. Era una persona così bella. C’erano vedove attempatelle che le chiedevano sempre di lui. La madre del Rabbino Ipsheimer. La nonna di Ipsheimer, con molta più probabilità. In tutti i modi (era sempre Angela che riferiva), Wells aveva comunicato certe cose a Sammler che il mondo non conosceva. Quando infine sarebbero state pubblicate avrebbero sbalordito tutti. Il libro avrebbe assunto la forma di dialoghi come quelli con A.N. Whitehead che Sammler tanto ammirava.

Con la voce bassa, arrochita, un’ombra di scherzosa sfacciataggine nel tono, Angela (che solo per un pelo non arrivava alla volgarità, una bellissima donna) disse: «Ah, ti assicuro che la sua tirata su Wells è proprio fantastica! Ma eri veramente così intimo di H.G., Zio?».

«Ci conoscevamo bene.»

«Ma proprio amiconi? Eravate amici per la pelle, insomma?»

«Hmm? Mia cara ragazza, malgrado i miei anni, io sono un uomo dell’età moderna. Di questi tempi, non li trovi dei Davide e Gionata o Rolando e Oliviero che sono intimi amici, “amiconi” come dici tu. La compagnia di quell’uomo era molto gradevole. Inoltre sembrava che conversare con me gli piacesse. Quanto alle sue opinioni, Wells era semplicemente una massa di opinioni intelligenti. Ne esprimeva il maggior numero possibile, e in qualsiasi momento, sempre. Tutto quel che diceva, prima o poi, lo trovavo in forma scritta. Era come Voltaire, un grafomane. La sua mente era eccezionalmente attiva, lui pensava di dover spiegare tutto, e in effetti alcune cose le disse molto bene. Come “La scienza è la mente della razza”. Questo è vero, sai. È una cosa che merita di essere accentuata e sottolineata più di altri fatti collettivi come la malattia o il peccato. E quando io vedo l’ala di un jet non vedo soltanto metallo, ma metallo temperato dall’accordo raggiunto da molte menti che conoscono la pressione e la velocità e il peso, che hanno compiuto calcoli sui loro regoli, siano essi indù o cinesi, congolesi o brasiliani. Sì, nel complesso era una persona intelligente e saggia, indubbiamente dal lato giusto in molte questioni.»

«E a te interessava, vero?»

«Sì, una volta m’interessava.»

«Ma lei dice che stai componendo quell’opera magna a cento all’ora.»

Angela rise. E non si limitò a ridere, rise brillantemente. Con lei ci si trovava di fronte alla femminilità sensuale, senza remissione. Si sentiva pure all’odore. Portava quegli strani indumenti allora di moda che Sammler notava con distaccata e purificata asciuttezza, come se guardasse il tutto da un’altra parte dell’universo. Che cos’erano quelli, stivaletti di capretto bianco? Che cos’era quella calzamaglia… trasparente, opaca? Dove conduceva? Quell’effetto dei capelli chiamato mèche, quel colore che la leonessa ha sotto il muso, quell’andatura spavalda per mettere in risalto la naturale potenza del petto! Il suo soprabito di plastica ispirato ai cubisti o a Mondrian, forme geometriche bianche e nere; i pantaloni di Courrèges e Pucci. Sammler seguiva quei fenomeni dell’era del jet sul «Times» e sulle riviste femminili che Angela stessa gli mandava. Senza troppo impegno. Non leggeva tanto di queste cose. Attento a salvaguardarsi la vista, sfogliava le pagine rapidamente avanti e indietro, dinanzi al suo occhio: l’ampia fronte registrava lo stimolo che gli si presentava alla mente. L’occhio sinistro danneggiato sembrava volgersi in un’altra direzione, come assorbito separatamente da questioni diverse. E in questo modo Sammler conosceva, attraverso molti rapidi cambiamenti, Warhol, Baby Jane Holzer fino a che questa durò, il Living Theater, le esplosioni del nudo esibito in maniere sempre più rivoluzionarie, Dionysus ’69, fornicazione sui palcoscenici, la filosofia dei Beatles; e nel mondo dell’arte, le mostre con i giochi di luce e la pittura minimalista. Angela era sulla trentina, ormai, ricca e indipendente, con un colorito vivo, sano, capelli biondo-biancastri, labbra grosse. Aveva paura dell’obesità. Le cose erano due: o digiunava o mangiava come un ludro. Andava a far ginnastica in una palestra alla moda. Lui conosceva i suoi problemi – doveva conoscerli per forza, dato che lei veniva a trovarlo e li discuteva dettagliatamente. Lei, invece, non conosceva i suoi di problemi. Lui parlava di rado e lei di rado gli faceva delle domande. Inoltre lui e Shula erano pensionati, salariati del padre – o come si volevano definire. E così, subito dopo le sue sedute dallo psichiatra, Angela andava dallo Zio Sammler a tenere un seminario e ad analizzare l’ora passata dal suo dottore. Per cui il vecchio sapeva quel che la ragazza faceva, con chi, e con quali reazioni da parte di lei. Tutto ciò che lei era in grado di esprimere, lui doveva ascoltarlo. Non aveva altra scelta.

Al tempo in cui frequentava il gymnasium, Sammler una volta aveva tradotto un passo di sant’Agostino: «Il Diavolo ha collocato le sue città nel Nord». Ci aveva pensato spesso. A Cracovia, prima della Grande Guerra, ne aveva avuta un’altra versione – un buio disperato, il tetro fanghiccio liquido e giallo alto cinque o sei centimetri sui selci delle strade del quartiere ebreo. La gente aveva bisogno delle sue candele, delle sue lampade e dei suoi bollitori di rame, delle sue fettine di limone a immagine del sole. Era questo il modo per debellare lo squallore, con l’aiuto, sempre, dei simboli mediterranei. Ambienti scuri riscattati da simboli religiosi importati e da amenità domestiche locali. Senza la potenza del Nord, le sue miniere, le sue industrie, il mondo non avrebbe mai raggiunto la propria strabiliante forma moderna. E a dispetto di sant’Agostino, a Sammler erano sempre piaciute molto le città nordiche, specialmente Londra, le meraviglie della sua tetraggine, del fumo di carbone, delle piogge grigie, e le possibilità mentali e umane di un ambiente scuro e ovattato. Là si imparava a trovare un modus vivendi con l’oscurità, con i toni bassi, non si esigeva la chiarezza completa del cervello o del proposito. Ma ora la strana dichiarazione di sant’Agostino richiedeva una nuova interpretazione. Ascoltando Angela attentamente, Sammler percepiva differenti sviluppi. L’incessante lavoro del Puritanesimo era agli sgoccioli, ormai. Le scure fabbriche sataniche si mutavano in chiare fabbriche sataniche. I reprobi si convertivano in fanciulli di gioia, i costumi sessuali dell’harem e delle boscaglie del Congo venivano adottati dalle masse emancipate di New York, Amsterdam, Londra. Il vecchio Sammler con le sue visioni strampalate! Vedeva il trionfo crescente dell’Illuminismo – Libertà, Fraternità, Uguaglianza, Adulterio! Illuminismo, istruzione universale, suffragio universale, i diritti della maggioranza riconosciuti da tutti i governi, i diritti delle donne, i diritti dei bambini, i diritti dei criminali, l’unità delle diverse razze conclamata, previdenza sociale, salute pubblica, la dignità della persona, il diritto alla giustizia – le battaglie di tre secoli rivoluzionari che venivano vinte mentre i legami feudali di Chiesa e Famiglia s’indebolivano e i privilegi dell’aristocrazia (senza dovere alcuno) si estendevano sempre di più, si democratizzavano, soprattutto i privilegi libidinosi, il diritto a essere disinibiti, spontanei, a orinare, defecare, ruttare, accoppiarsi in tutte le posizioni, triplicarsi, quadruplicarsi, polimorfi, nobili nell’essere naturali, primitivi, unendo agli agi e alla lussuosa inventività di Versailles la facilità erotica coperta di ibisco di Samoa. Ora stava mettendo radici un romanticismo “scuro”. Vecchio, a dir poco, come lo strano orientalismo dei Templari, e da allora pieno delle varie Lady Stanhope, dei Baudelaire, dei de Nerval, degli Stevenson e dei Gauguin – quei barbari innamorati del Sud. Eh già, i Templari. Li avevano adorati, loro, i musulmani. Un solo capello della testa di un saraceno era più prezioso dell’intero corpo di un cristiano. Quale pazzo fervore! E adesso tutto il razzismo, tutti gli strani convincimenti erotici, il turismo e il colore locale, il sapore esotico di ciò era svanito; tuttavia le masse mentali, ereditando tutto in uno stato di degradazione, avevano concepito l’idea della malattia corruttrice dell’essere bianchi e del potere taumaturgico dei neri. I sogni dei poeti dell’Ottocento inquinavano l’atmosfera psichica delle grandi circoscrizioni e dei suburbi di New York. Aggiungeteci la pericolosa balzante vacillante folle violenza dei fanatici, e i guai diventavano un fatto serio. Come molte persone che avevano visto il mondo crollare una volta, Mr. Sammler intratteneva il pensiero che potesse crollare una seconda volta. Non conveniva con amici, profughi anche loro, che quel destino fosse inevitabile, ma sembrava, comunque, che il liberalismo non fosse capace di autodifesa, e il disfacimento si annusava nell’aria. Gli impulsi suicidi della civiltà che premevano con veemenza erano visibili a occhio nudo. Ci si domandava se questa cultura occidentale sarebbe sopravvissuta alla divulgazione universale – se soltanto la sua scienza e la sua tecnologia o le sue pratiche amministrative si sarebbero diffuse, venendo adottate da altre società. O se, a rivelarsi i nemici peggiori della civiltà, non sarebbero stati infine i suoi stessi coccolati intellettuali che la attaccavano nei momenti di maggiore debolezza – la attaccavano in nome della rivoluzione proletaria, in nome della ragione, e in nome dell’irrazionalità, in nome della profondità viscerale, in nome del sesso, in nome della perfetta istantanea libertà. Perché in fondo si riduceva tutto a un’illimitata pretesa – insaziabilità, rifiuto da parte della creatura predestinata (la morte essendo sicura e definitiva) di lasciare, inappagata, questa terra. E di conseguenza ciascun individuo presentava una lista completa di rivendicazioni. Non negoziabile. Non riconosceva alcuna scarsità di “offerta” in alcun dipartimento umano. Illuminismo? Meraviglioso! Però un po’ fuori controllo, no?

Sammler lo vedeva in Shula-Slawa. Veniva a rifargli la stanza. Lui doveva starsene in cappotto e berretto, dato che lei aveva bisogno di aria fresca. Arrivava con tutto l’occorrente per la pulizia nella sua borsa della spesa – ammoniaca, carta per foderare le mensole, Vetril, cera per pavimenti, stracci da spolvero. Si sedeva sul davanzale per pulire le finestre, abbassando il telaio fino alle cosce. Le piccole suole delle sue scarpe erano dentro la stanza. Sulle labbra – un’esplosione di scettica, asimmetrica, carnosa sensualità scarlatta a metà tra l’efficiente e il sognante –, la sigaretta che continuava ad ardere in punta. C’era la parrucca, anche, un misto di peli di yak e di babbuino, con in più fibre sintetiche. Shula, come tutte le donne, forse, era bisognosa: aveva bisogno della gratificazione di numerosi istinti, aveva bisogno del calore e della pressione degli uomini, aveva bisogno di un bambino che la succhiasse e si nutrisse di lei, aveva bisogno dell’emancipazione femminile, aveva bisogno di esercitare la propria mente, aveva bisogno di continuità, aveva bisogno di interesse – interesse! –, aveva bisogno di adulazione, aveva bisogno di trionfo, potere, aveva bisogno di rabbini, aveva bisogno di preti, aveva bisogno di combustibile per tutto ciò che era perverso e folle, aveva bisogno della nobile azione dell’intelletto, aveva bisogno di cultura, esigeva il sublime. Nessuna insufficienza, nessuna scarsità veniva riconosciuta. Se provavi a prendere in esame tutte quelle necessità immediate, eri un uomo finito. Anche a voler considerare il tutto a modo suo, spruzzando spuma gelata sui vetri della finestra, strofinandola via, mancina com’era, con un movimento scattante del petto verso sinistra (ohne Büstenhalter),2 non se ne ricavavano né più affetto per lei, né maggiore possibilità di conservazione per il padre. Quando arrivava e apriva le finestre e le porte, l’atmosfera personale, che Mr. Sammler si era andato creando e aveva messo da parte, sembrava venir soffiata via. La porta sul retro si apriva sulla scala di servizio, da cui emanava un forte odore caldo d’incinerazione, carta arsa, interiora di gallina e piume bruciate. Gli spazzini portoricani si portavano dietro le transistor che suonavano musica latino-americana. Come se venissero riforniti di quella fanfaretta da una fonte universale inesauribile, tipo raggi cosmici.

«Be’, Papà, come procede?»

«Come procede che cosa?»

«Il lavoro. H.G. Wells.»

«Come al solito.»

«La gente ti porta via troppo del tuo tempo. Così non riesci a leggere abbastanza. Lo so che devi proteggerti la vista. Ma comunque, va bene?»

«A meraviglia.»

«Vorrei che non scherzassi su questo, Papà.»

«E perché, è troppo importante per scherzarci sopra?»

«Be’, è importante, insomma.»

Sì. Ok. Stava sorseggiando il caffè del mattino. Oggi, quello stesso pomeriggio, avrebbe parlato alla Columbia University. Lo aveva persuaso a farlo uno dei suoi giovani amici della Columbia. E poi doveva telefonare per avere notizie del nipote. Il dottor Gruner. Sembrava che il dottore stesso fosse all’ospedale. Aveva subìto, così avevano detto a Sammler, un piccolo intervento chirurgico. Un taglio nel collo. Certo quel giorno del seminario se ne sarebbe potuto fare a meno. Era uno sbaglio. Poteva tirarsi indietro adesso, disdire con una scusa? No, probabilmente no.

Shula aveva assunto degli studenti universitari perché leggessero al suo posto, in modo da risparmiare i suoi occhi. Anche lei ci aveva provato. Ma la sua voce lo faceva appisolare. Mezz’ora di lettura di Shula e il sangue gli andava via dal cervello. Lei aveva detto ad Angela che il padre cercava di tenerla lontano dalle sue attività più impegnative. Come se dovessero essere protette proprio dalla persona che più ci credeva! Era un paradosso molto triste. Comunque era da quattro o cinque anni che lei gli trovava degli studenti. Alcuni si erano laureati e ora erano entrati a far parte delle varie professioni o imprese commerciali, ma venivano ancora a far visita a Sammler. «È come se fosse il loro guru» diceva Shula-Slawa. I “lettori” più recenti erano studenti attivisti. Mr. Sammler nutriva un forte interesse per il movimento radicale. A giudicare dalla loro abilità nella lettura, questi giovani avevano ricevuto un’istruzione alquanto mediocre. A volte la loro presenza induceva (o approfondiva) un lungo, immobile sorriso che più di ogni altra cosa creava l’effetto della cecità. Pelosi, sporchi, senza stile, egualitari, ignoranti. Ormai sapeva che, dopo che avevano letto qualche ora per lui, doveva poi fargli lezione, spiegargli i termini, indicargli le etimologie, come se fossero dei ragazzini di dodici anni. «Scire: sapere. Scienziato: chi è fornito di sapienza, scienza.» «Lapis: pietra. Dilapidare, letteralmente spezzare, ridurre in pezzi le pietre. Non si può dire di una persona.» Ma ove si potesse, una cosa la direbbe di questi giovani. Le ragazze poi, qualcuna di loro mandava decisamente un cattivo odore. Era stata la protesta bohémienne che le aveva danneggiate di più. Era elementare, rifletteva Sammler, che fra i compiti e i problemi della civilizzazione alcune parti della natura richiedessero più controllo di altre. Le femmine erano per natura più inclini alla grossolanità, emanavano più odori, avevano più bisogno di lavarsi, sfrondarsi, potarsi, curarsi, profumarsi, e di ricevere un minimo di addestramento. Quelle povere bambine potevano benissimo aver deciso di puzzare tutte insieme a sfida di una tradizione corrotta costruita sulla nevrosi e sulla falsità, però Mr. Sammler pensava che un imprevisto risultato del loro modo di vivere era la perdita della femminilità, della stima di sé. Nella loro smania di staccarsi da qualunque autorità non rispettavano nessuna persona. Nemmeno la propria.

In ogni modo lui non li voleva più questi lettori, con i loro stivaloni sudici e il pathos vitale e vano di giovani cani alla loro prima erezione rossa, e i pedicelli che salivano alle guance da quelle barbe spumose, che stavano lì nella sua stanza ad arrancare con parole e pensieri difficili che dovevano poi venir spiegati, incespicando a ogni Toynbee, Freud, Burckhardt, Spengler. Poiché lui aveva letto gli storici della civiltà – Karl Marx, Max Weber, Max Scheler, Franz Oppenheimer. Ogni tanto qualche escursione minore in Adorno, Marcuse, Norman O. Brown, che secondo lui non avevano nessun valore. Insieme a questi aveva attaccato Doktor Faustus, Les Noyers de l’Altenbourg, Ortega, i saggi di Valéry sulla storia e sulla politica. Ma dopo quattro o cinque anni di questa dieta, desiderava leggere soltanto certi autori religiosi del tredicesimo secolo – Suso, Tauler e Meister Eckhart. A settant’anni c’era ben poco al di fuori di Meister Eckhart e della Bibbia che gli interessasse. Per questi non aveva bisogno di lettori. Leggeva il latino di Eckhart al microfilm alla biblioteca pubblica. Leggeva i Sermoni e Le disquisizioni sull’istruzione poche frasi alla volta – un paragrafo in tedesco antico, sottoposto a breve distanza al suo unico occhio buono. Mentre Margotte passava l’aspirapolvere in tutte le stanze. Sicuramente riempiendosi le gonne del laniccio che se ne sollevava. E cantando. Le piacevano moltissimo i Lieder di Schubert. Perché poi dovesse mischiarli al rombo dell’aspirapolvere era una cosa che eludeva la sua capacità di comprensione. Ma tanto lui non riusciva neppure a comprendere il gusto particolare per certi abbinamenti: per esempio i panini allo storione, groviera, lingua, bistecca alla tartara più condimento alla russa fra uno strato e l’altro – quelle cose che si vedevano soltanto sui menù di certi Delicatessen di gran classe. Eppure, a quanto pareva, gli avventori li ordinavano. Ovunque ti girassi, l’umanità, impegolata e angustiata, sfornava tante di quelle stramberie che seguirle tutte era impossibile.

Una combinazione di stramberie che oggi, ad esempio, lo spingeva nel bel mezzo delle cose: uno dei suoi ex lettori, il giovane Lionel Feffer, gli aveva chiesto di tenere la prolusione, alla Columbia University, di un seminario sulla scena culturale britannica negli anni Trenta. Per qualche motivo quella proposta aveva esercitato una certa attrazione su Sammler. Voleva bene a Feffer. Un traffichino pieno d’ingegnosità, più organizzatore che studente. Col suo colorito florido, la barba marrone castoro, gli occhi neri dal taglio allungato, il grosso stomaco, i capelli lisci, le manone rosa e impacciate, il vocione che interrompeva sempre qualcuno, la sua energia frettolosa, Sammler lo trovava simpatico. Fidato, no. Soltanto simpatico. In altre parole, a volte Sammler trovava molto piacevole osservare Lionel Feffer in azione, nel suo modo peculiare, udire il frizzolio del suo gas vitale, del suo carburante.

Sammler non sapeva di che seminario si trattasse. Non sempre attento, a volte non capiva chiaramente; forse non c’era nulla di chiaro da capire; però a quanto pareva, glielo aveva promesso, sebbene non riuscisse a ricordarsi di averlo fatto. Comunque Feffer lo confondeva. C’erano tanti di quei progetti, tanti di quei rimandi ad altre fonti, tante confidenze e richieste di segretezza, tanti scandali, frodi, comunicazioni spirituali – un continuo flusso all’indietro, in avanti, da una parte, di sopra, di sotto; come una qualsiasi pagina dell’Ulisse di Joyce, sempre in medias res. In tutti i modi, evidentemente Sammler aveva acconsentito a tenere quella conferenza per un progetto studentesco che si proponeva di aiutare gli allievi di colore più indietro negli studi a superare i loro problemi di lettura.

«Lei deve venire e parlare a questa gente, è della massima importanza. Questi non hanno mai sentito un punto di vista come il suo» aveva detto Feffer. La camicia di cotone rosa accentuava il colore della sua faccia. La barba, il grande naso diritto e sensuale lo facevano rassomigliare a François Premier. Un tipo indaffarato, affettuoso, pressante, vulcanico, intraprendente. Aveva fatto degli investimenti in Borsa. Era vicepresidente di una compagnia di assicurazione guatemalteca per gli operai della ferrovia. All’università il suo campo era la storia diplomatica. Era membro di una società per corrispondenza chiamata il Club dei Ministri degli esteri. Coloro che ne facevano parte prendevano in esame una questione come la Guerra di Crimea o la Rivolta dei Boxer, e ricominciavano tutto da capo, scrivendosi lettere in veste di Ministri degli esteri di Francia, Inghilterra, Germania, Russia. Ottenevano risultati assai differenti. E in più, Feffer era un seduttore molto attivo e, a quanto pareva, la sua specialità erano le giovani mogli. Tuttavia trovava anche il tempo di darsi da fare in favore dei bambini minorati. Procurava loro giocattoli gratis e fotografie firmate dei campioni di hockey; trovava persino il tempo di andare a fargli visita in ospedale. Lui “trovava tempo”. Per Sammler quello era un fatto americano estremamente significativo. Feffer conduceva una vita americana ad altissima energia, al punto di giungere all’anarchia e al crollo fisico e mentale. Tuttavia con grande dedizione. E manco a dirlo era in cura da uno psichiatra. Tutti lo erano. Potevano sempre dire di essere malati. Nulla veniva omesso.

«“La scena culturale britannica negli anni Trenta” – Lei deve farlo, professore. Per il mio seminario.»

«Ma come, proprio quella roba morta e sepolta?»

«Esattamente. È proprio quello che ci serve.»

«Bloomsbury? Tutta quella roba là? Ma perché? E per chi, poi?»

Feffer venne a prendere Sammler in taxi. Si recarono alla Columbia University in grande stile. Feffer, anzi, sottolineò l’importanza della cosa. Disse che l’autista doveva aspettare là mentre Sammler faceva la conferenza. L’autista, un negro, si rifiutò. Feffer alzò la voce. Disse che quella era una questione legale. Sammler lo convinse a lasciar perdere visto che l’autista stava per chiamare la polizia. «Non c’è nessun bisogno che un taxi rimanga qui ad aspettarmi» disse Sammler.

«E allora va’ a farti benedire» disse Feffer al tassista. «E niente mancia.»

«Non lo maltrattare» disse Sammler.

«Io non ho nessuna voglia di fare distinzioni perché è nero» disse Lionel. «Ah, a proposito, ho sentito da Margotte che lei si è imbattuto in un borsaiolo nero.»

«Dove andiamo, Lionel? Ora che sto per parlare, ho qualche apprensione. Non vedo le cose chiare. Che cos’è che devo dire, precisamente? L’argomento è così vasto.»

«Ma lei lo conosce meglio di chiunque altro.»

«Lo conosco, sì. Ma mi sento a disagio – un pochino titubante, nervoso.»

«Macché, lei sarà un fenomeno!»

Quindi Feffer lo condusse in uno stanzone. Sammler si era aspettato una piccola aula, una saletta da seminario. Era venuto con l’idea di rievocare, per uno sparuto gruppetto di studenti interessati, la figura e l’epoca di R.T. Tawney, Harold Laski, John Strachey, George Orwell, H.G. Wells. Ma qui invece si trattava di una riunione di massa. La sua vista ostruita percepì una grandissima, dilagante, arruffata, mista fioritura umana. Maleodorante, peculiarmente rancida, solfurea. L’anfiteatro era pieno. C’era solo posto in piedi. Feffer stava forse combinando uno dei suoi intrallazzi? Si sarebbe messo in tasca lui gli incassi dei biglietti d’ingresso? Sammler si dominò e accantonò il proprio sospetto, attribuendolo alla sorpresa e al nervosismo. Poiché era sorpreso, spaventato. Ma si ricompose. Provò a esordire in tono umoristico ricordando quel conferenziere che aveva tenuto un discorso a degli alcolizzati incurabili, sinceramente convinto che si trattasse della Società Browning. Ma non si levò alcuna risata, e lui fu costretto a ricordare che le Società Browning erano ormai estinte da molto tempo. Gli appesero un microfono sul petto. Cominciò a parlare dell’atmosfera politica e intellettuale che circolava in Inghilterra prima della Seconda guerra mondiale. L’avventura di Mussolini in Africa Orientale. La Spagna nel ’36. Le Grandi purghe in Russia. Lo Stalinismo in Francia e in Gran Bretagna. Blum, Daladier, il Fronte Popolare, Oswald Mosley. Lo stato d’animo degli intellettuali inglesi. Per quelle cose non aveva bisogno di appunti: poteva ricordare facilmente ciò che la gente aveva detto o scritto.

«Presumo» disse «che voi siate a conoscenza della situazione e dei fattori che determinarono gli eventi del 1917. Avrete letto degli eserciti ribelli, della Rivoluzione di febbraio in Russia, della gravissima crisi che colpì l’autorità. In tutti i Paesi europei i vecchi leader vennero screditati da Verdun, dalla battaglia delle Fiandre, da Tannenberg. Potrei forse cominciare con la caduta di Kerenskij. O forse con Brest-Litovsk.»

Doppiamente straniero, polacco-oxoniense, con i capelli bianchi svolazzanti dietro la nuca, le rughe che fluivano giù dagli occhiali fumé, tirò fuori il fazzoletto dal taschino, lo spiegò e lo ripiegò, si toccò la faccia, si asciugò le palme delle mani con sottile delicatezza, da persona anziana. Senza alcun piacere nell’esibirsi, senza incoraggiamento vista l’attenzione ricevuta (c’era parecchio rumore), la poca soddisfazione che provava era il pallido fantasma dell’orgoglio che un tempo lui e sua moglie avevano sentito per i loro successi britannici. Per il suo successo: un ebreo polacco, così bene introdotto, così felicemente riconosciuto dalla crema della società, da H.G. Wells. Coinvolto, ad esempio, insieme a Gerald Heard e a Olaf Stapledon nel progetto di «Cosmopolis» per uno Stato mondiale, Sammler aveva scritto articoli per «News of Progress» e per l’altra pubblicazione, «The World Citizen». Come spiegò con una voce ancora connotata da sibilanti e nasali polacche, sebbene incredibilmente bassa, il progetto era basato sulla diffusione delle scienze biologiche, della storia e della sociologia e sull’applicazione efficace dei princìpi scientifici all’ampliamento della vita umana; l’edificazione di una società mondiale pianificata, ordinata e bella: abolendo la sovranità nazionale, proclamando illegale la guerra; sottoponendo denaro e credito, produzione, distribuzione, trasporto, popolazione, costruzione di armamenti eccetera a un controllo collettivo su scala mondiale, offrendo istruzione universale gratuita, libertà personale (compatibile con il benessere della comunità) al massimo livello; una società di servizi basata su un atteggiamento razionale scientifico nei confronti della vita. Ricordando tutto ciò con interesse e fiducia crescenti, Sammler parlò per mezz’ora di «Cosmopolis», pur rendendosi conto di quanto quel progetto fosse stato ingenuo, stupido, generoso. Dicendo tutto ciò nell’irrequieta, illuminata fossa dell’anfiteatro con la cupola sudicia e le apparecchiature elettriche protette da griglie, fino a quando venne interrotto da una voce forte e chiara. Gli veniva rivolta una domanda. Gli veniva gridato qualche cosa:

«Ehi!»

Cercò di andare avanti. «Tali tentativi di allontanare gli intellettuali dal marxismo incontrarono scarso successo…»

Un uomo con un paio di jeans Levi’s e barba folta, che poteva comunque essere anche un giovane, un’immagine di compatta distorsione, si era alzato in piedi e urlava verso di lui.

«Ehi! Vecchio!»

Nel silenzio, Mr. Sammler abbassò i suoi occhiali fumé, vedendo perciò quella persona col suo occhio funzionante.

«Vecchio! Prima tu hai citato Orwell.»

«Ebbene?»

«E l’hai citato per dire che i radicali britannici erano tutti protetti dalla Marina Reale? L’ha detto veramente Orwell che i radicali britannici erano protetti dalla Marina Reale?»

«Sì, credo proprio che l’abbia detto.»

«Be’, sono solo cazzate.»

Sammler non riusciva a parlare.

«Orwell era un crumiro. Era un controrivoluzionario di merda. Meno male che è morto quando è morto. E quello che stai dicendo tu è merda.» Rivolgendosi poi agli ascoltatori, le braccia violente aperte e le palme in alto come un danzatore greco, disse: «Perché state a sentire questo vecchio sacco di merda effeminato? Che cosa ha da dirvi, lui? Ormai ha le palle secche, questo qui. È morto. Non ce la fa più a venire».

Più tardi, ripensandoci, Sammler credette di aver udito delle voci alzarsi in sua difesa. Qualcuno aveva detto: «Ma vergognati. Esibizionista!».

Nessuno, realmente, cercò di difenderlo. La maggior parte dei giovani sembravano contro di lui. Tutto quel gridare suonava ostile. Feffer se n’era andato, lo avevano chiamato al telefono. Sammler si allontanò dal leggio, prese l’ombrello, il trench e il cappello che si trovavano dietro di lui e lasciò la cattedra, guidato da una ragazza che si era precipitata a esprimergli la propria indignazione e simpatia, dicendo che era uno scandalo avere interrotto una conferenza così interessante. Lo accompagnò a una porta, poi giù per varie rampe di scale, ed egli si trovò a Broadway alla Centosedicesima Strada.

Di colpo fuori dell’università.

Un’altra volta in città.

E non era tanto offeso personalmente dall’accaduto, quanto, piuttosto, colpito dalla volontà di offendere. Che voglia di essere reali! Ma reali voleva dire anche brutali. E l’accettazione dell’escremento quale criterio di giudizio? Straordinario! Gioventù? Insieme all’idea della potenza sessuale? Tutto ciò confondeva la militanza sessual-escrementizia, esplosività, prepotenza, digrignamento di denti, l’urlo delle scimmie di Berberia. O come quelle scimmiette ragno sugli alberi – aveva letto una volta Sammler – che defecavano nelle loro stesse zampe, mandando grida stridule, e bombardando gli esploratori sotto di loro.

Non gli dispiaceva di essersi trovato nel bel mezzo dei fatti, per tristi e deprecabili che fossero. Ma l’effetto era che Mr. Sammler in verità si sentì come separato dal resto della propria specie, se non addirittura, in un certo senso, tagliato fuori – tagliato fuori non tanto dall’età quanto semmai da pensieri e interessi troppo differenti e remoti, sproporzionati dal punto di vista spirituale, platonici, agostiniani, tredicesimo secolo. Mentre il traffico sfrecciava, anche il vento sfrecciava e il sole, relativamente brillante per Manhattan, splendeva e penetrava dentro di lui, attraverso le aperture nella sua sostanza, attraverso le sue fessure. Come se fosse stato plasmato da Henry Moore. Con dei buchi, delle cavità. Ancora una volta, come dopo aver visto il borsaiolo, Sammler era grato agli avvenimenti per avergli fatto toccare una differenza, avere intensificato la sua visione della realtà. Un fattorino con una croce di fiori che gli teneva occupate entrambe le braccia, una testa calva tutta scanalata, sembrava ubriaco, in lotta contro il vento, virando di bordo. I suoi stivali erano opachi e piccoli, e i suoi pantaloni corti e larghi svolazzavano come le gonne di una donna. Gardenie, camelie, calle fluttuavano sopra di lui sotto la plastica leggera, trasparente. Alla fermata dell’autobus su Riverside, Mr. Sammler notò la vicinanza di uno studente anche lui in attesa, si servì della potenza del suo occhio per osservare che portava un paio di pantaloni di velluto a coste larghe di un verde orinoso, una giacca di tweed color carota disseminata di ciuffetti di lana blu; che le basette sembravano potenti colonne cespugliose messe lì a sorreggere la testa; che due civilizzate stanghette di tartaruga attraversavano le suddette basette; che sulla fronte i capelli erano più radi; un naso ebreo, un labbro che assaporava tutto, respingeva tutto. Oh, questa era una ricreazione di tipo artistico che le strade offrivano a Mr. Sammler allorché vi veniva stimolato da qualche shock. Era studioso, libresco, ed era stato istruito dai migliori scrittori a distrarsi con le percezioni. Quando usciva, la vita non era vuota. E nel frattempo la gente motivata, orientata verso gli affari, aggressiva, volitiva, si comportava come normalmente si comporta l’umanità. Se la maggioranza se ne andava in giro come sotto l’effetto di un incantesimo, sonnambuli, circoscritti da o nella morsa di secondarie trascurabili finalità nevrotiche, gli individui come Sammler si trovavano a un solo stadio più avanti, desti non agli scopi ma al consumo estetico dell’ambiente in cui vivevano. Anche se offesi, dolenti, in qualche dove sanguinanti, non esprimevano apertamente alcuna collera, non si mettevano a piangere in preda alla tristezza, ma traducevano i mali del cuore in delicata, addirittura penetrante osservazione. Le particelle nel vento chiaro, che si scagliava verso il centro della città, erano come smeriglio quando ti colpivano in faccia. Il sole splendeva come se la morte non ci fosse. Per un minuto intero, mentre l’autobus si avvicinava, spruzzando aria, fu esattamente così. Poi Mr. Sammler salì, avviandosi, come un buon cittadino, verso il fondo della vettura, sperando che non lo spingessero oltre l’uscita, dato che doveva scendere dopo quindici isolati soltanto e c’era una gran folla. Il solito odore di deretani a lungo seduti, di scarpe sudate, di fradiciume di tabacco, di sigari, colonia, cipria. Eppure lungo il fiume, l’inizio della primavera, i primi cachi – qualche settimana di sole, di caldo, e Manhattan si univa (per poco) al continente nordamericano in una giornata di verde d’altri tempi, il lusso sfarzoso, la lucentezza della stagione, splendente, nitida, i cornioli bianchi, rosa, i meli selvatici in fiore. E poi i piedi della gente si sarebbero gonfiati a quel calore, e al Rockefeller Center quelli che se ne andavano a spasso si sarebbero seduti sulle panchine di pietra lucida vicino ai tulipani nelle aiuole e ai tritoni e all’acqua, tutto in uno spirito di pregnanza, di pienezza. Creature umane sotto le ombre calde dei grattacieli che sentivano il pesante piacere della loro natura, e vi si arrendevano. Anche Sammler avrebbe voluto godere della primavera – una di quelle penultime primavere. Naturalmente era turbato. Molto. Naturalmente tutte quelle faccende su Brest-Litovsk, tutte quelle vecchie storie sugli intellettuali rivoluzionari contrapposti ai pezzi grossi tedeschi, in quel contesto erano decisamente buffe. Inconseguenti. Naturalmente erano comici pure quegli studenti. E qual era la cosa peggiore in tutta quella situazione (a parte la villania)? Modi appropriati per ridurre al silenzio un vecchio noioso, ce n’erano. Poteva benissimo darsi che lui fosse stato davvero tremendamente noioso, con quella sua conferenza su «Cosmopolis», soprattutto in una manifestazione pubblica. La cosa peggiore, per quanto riguardava i giovani stessi, era che si comportavano senza dignità. Non avevano nessuna idea della nobiltà insita nell’essere intellettuali e giudici dell’ordine sociale. Che peccato! pensò il vecchio Sammler. Un essere umano, che apprezzi se stesso per delle ragioni valide, possiede e restaura l’ordine, l’autorità. Purché le parti interne siano in ordine. Debbono essere in ordine. Ma quanto era grave essersi fermati allo stadio dell’educazione dell’intestino e della vescica! Ma quanto era grave lasciarsi ingabbiare da uno standard psichiatrico (Sammler dava la colpa di questo ai tedeschi e alla loro psicoanalisi)! Chi è che aveva issato il pannolino come bandiera? Chi è che aveva fatto della merda un sacramento? Che razza di movimento letterario e psicologico era quello? Con la mente incollerita e amareggiata, Mr. Sammler si sorreggeva al mancorrente superiore del suo autobus sovraffollato, in corsa verso il centro, un tragitto breve.

Certo non pensava minimamente al suo borsaiolo di colore. Lui lo associava a Columbus Circle. Quello andava sempre verso i quartieri alti della città, mai dalla parte opposta. Eppure, in fondo all’autobus, col suo cappotto di lana di cammello, occupando interamente un angolo della vettura con il suo immenso corpo, eccolo là, in piedi. Sammler, pur opponendo una forte resistenza interna, lo vide. Lottava, perché in quel difficile momento di insicurezza, non aveva alcun desiderio di vederlo. Signore! Non adesso! Dentro di sé, Sammler avvertì un subitaneo precipitare; il cuore che gli si sprofondava. Sicuro come il destino, come una legge di natura, una pietra che cade, un gas che si alza. Sapeva che il ladro non saliva su quell’autobus semplicemente per servirsene come mezzo di trasporto. Per andare a incontrare una donna, per andare a casa – qualsiasi fosse il suo modo di distrarsi –, senza il minimo dubbio prendeva un taxi. Se lo poteva permettere. Ma ora Mr. Sammler guardava in giù, in direzione della propria spalla: era lui l’uomo più alto di tutto l’autobus, a parte il ladro. Si accorse che quello aveva già preso di mira qualcuno seduto nel lungo sedile sul retro. Chino, vigoroso, l’ampia schiena nascondeva la vittima agli altri passeggeri. Soltanto Sammler, per via della sua altezza, poteva vedere. C’era ben poco da essere grati, all’altezza o alla vista che fosse. L’uomo preso di mira era vecchio, era fragile: occhi deboli, acquosi di terrore; ciglia bianche, palpebre rosse, e gli occhi di un azzurro gelatinoso, la bocca aperta con la dentiera sul punto di cadere dall’arcata superiore. Anche il cappotto e la giacca erano aperti, la camicia floscia come una vecchia carta da parati verde quando è staccata dal muro, la fodera della giacca a brandelli. Il ladro strattonava quegli abiti come un dottore con un paziente d’ambulatorio. Dopo aver spostato di lato cravatta e sciarpa, tirò fuori il portafoglio. Il proprio cappello se lo tirò poi leggermente indietro dalla fronte, corrugata ma non dal nervosismo (un movimento animalesco, tutto lì). Il portafoglio era lungo – finto-cuoio, di plastica. Una volta aperto, produsse qualche banconota. C’erano delle carte d’identità. Il ladro le passò nella palma della mano. Le lesse con il capo inclinato. Le lasciò cadere a terra. Esaminò un assegno dall’aria ufficiale, come quelli rilasciati da un ente federale, forse la previdenza sociale. Mr. Sammler con i suoi occhialoni aveva difficoltà a mettere a fuoco le immagini. Troppa adrenalina gli stava passando attraverso il cuore con lieve, sottile, scioccante rapidità. Lui in realtà non era spaventato, ma il suo cuore sembrava registrare una sorta di paura; ebbe un colpo. Sammler capì di cosa si trattava, ne conosceva la definizione: tachicardia. Respirare era difficile. Non riusciva a inalare aria sufficiente. Si domandò se non ci fosse pericolo che svenisse. Se non potesse addirittura accadere qualcosa di peggio. L’assegno, il nero se lo mise in tasca. Alcune fotografie, come era avvenuto prima per i documenti di riconoscimento, caddero dalle sue dita. Avendo ormai finito, lasciò scivolare il portafoglio al suo posto, nella grigia, logora fodera a brandelli, e con una mossa velocissima sistemò la sciarpa del vecchio. Con ironica calma, pollice e indice presero il nodo della cravatta del pover’uomo e approssimativamente, ma soltanto approssimativamente, lo aggiustarono. Fu allora che, con un rapido girarsi del capo, notò Mr. Sammler. Mr. Sammler – visto mentre vedeva – era ancora alle prese con le sfreccianti correnti del suo cuore. Come si trattasse di una creatura in fuga, che corresse via da lui. In alto, fino alla base della lingua, la gola gli faceva male. Avvertì una fitta di dolore all’occhio menomato. Ebbe, però, ancora un po’ di presenza di spirito. Aggrappandosi al mancorrente cromato, sopra di lui, si piegò un po’ in avanti come se volesse vedere a quale fermata erano arrivati. Novantaseiesima Strada. In altre parole, evitò uno sguardo che avrebbe potuto fissarsi su di lui, o qualsiasi scambio di sguardi. Non dette segno di nulla, e cominciò a farsi strada verso l’uscita sul retro, garbatamente insistente, piegando il corpo in quella direzione. Vi arrivò, tirò la fune per richiedere la fermata, raggiunse il gradino, sgattaiolò tra le due porte che si aprivano, e si fermò sul marciapiede reggendo l’ombrello per la stoffa, vicino al bottoncino di chiusura.

La tachicardia si stava calmando e Sammler poteva camminare, anche se non alla sua solita andatura. Il suo stratagemma consisteva nell’attraversare Riverside Drive ed entrare poi nel primo palazzo che avesse trovato, come se abitasse lì. Aveva battuto il borsaiolo, era arrivato prima lui all’uscita dell’autobus. Poteva darsi che quell’affronto lo persuadesse a lasciar perdere Sammler quale elemento troppo trascurabile per continuare a inseguirlo. Sembrava che quell’uomo non si sentisse minacciato da chicchessia. L’inerzia, la codardia del mondo, le dava per scontate. Con fatica, Sammler aprì un grande portone di vetro con inferriate nere e si ritrovò in un atrio vuoto. Evitando l’ascensore, localizzò la scala, si trascinò sulla prima rampa, e si sedette sul pianerottolo. Qualche minuto di riposo e riacquistò l’ossigeno necessario, malgrado qualcosa, all’interno, sembrasse essersi affievolito. Semplicemente assottigliato. Prima di tornare in strada (non c’era un’uscita posteriore), infilò l’ombrello dentro al cappotto, attaccandolo al giro della manica e cercando di fermarlo in una posizione più o meno sicura. Si sforzò anche di cambiare forma al cappello, assestandogli un colpetto che fece uscire in fuori la calotta. Oltrepassò West End, verso Broadway, entrando poi nel primo snack bar: andò a sedersi in fondo al banco e ordinò del tè. Dalla tazza pesante bevve fino all’ultimo goccio, fino ad assaporare l’acido tannico, spremendo la bustina inzuppata e chiedendo al barista di portargli un altro po’ d’acqua, tanto si sentiva inaridito. Al di là dei vetri il ladro non era comparso. A questo punto ciò di cui Mr. Sammler aveva più bisogno al mondo era il suo letto. Però ne sapeva qualche cosa, lui, dello starsene nascosto. L’aveva imparato in Polonia, in guerra, nelle foreste, nelle cantine, negli anditi, nei cimiteri. Vicende attraverso cui era passato una volta, che avevano abolito un certo margine di sicurezza o una certa libertà d’azione normalmente dati per scontati. Si dà per scontato che non ci verrà sparato addosso mentre mettiamo piede su una strada, che non ci bastoneranno a morte mentre ci chiniamo per liberarci l’intestino, o che non ci rincorreranno senza pietà in un vicolo. Una volta che questo margine civile gli era stato portato via, Mr. Sammler non avrebbe più creduto completamente nella sua restituzione. Non gli era capitato troppo spesso di far uso dell’arte della fuga e del nascondersi a New York. Ma ora, seppure le ossa gli dolessero e reclamassero il letto, e il cranio agognasse un cuscino, sedeva al banco, col suo tè. Non avrebbe più potuto servirsi degli autobus. Da ora in poi sarebbe dovuto andare in metropolitana. La metropolitana era un orrore.

Ma Mr. Sammler non era riuscito a seminare il borsaiolo. Evidentemente era un uomo che sapeva muoversi con rapidità. Poteva essersi aperto un varco a forza tra i passeggeri dell’autobus, essere sceso a metà strada e aver preso la rincorsa, dietro a lui, pesante eppure veloce, col suo cappello di feltro e il cappotto di cammello. Con molta più probabilità il ladro lo aveva già osservato altre volte, l’aveva seguito per la strada, fino alla porta di casa. Sì, a quanto pareva le cose erano andate così. Poiché quando Mr. Sammler entrò nell’atrio del proprio palazzo l’uomo gli sbucò dietro con un balzo, e non semplicemente dietro ma premendoglisi contro, pancia contro schiena. Non alzò le mani su Sammler, ma spingeva. Non c’era nessun addetto all’amministrazione del palazzo. I custodi, gli stessi che facevano funzionare l’ascensore, passavano gran parte del tempo nello scantinato.

«Cosa c’è? Che cosa vuole?» disse Mr. Sammler.

La voce del negro non l’avrebbe mai sentita. Quanto a parlare, un puma parlava più di lui. Quel che fece fu di costringere Sammler dentro a un angolo accanto al lungo tavolo nerastro, intarsiato, una specie di pezzo del Rinascimento, un oggetto che contribuiva ad accrescere la malinconia di quell’ingresso, vicino alla tela rigonfia che si staccava dalla parete, vicino alle luci dagli occhi rossi delle applique d’ottone. E lì, in quell’angolo, l’uomo tenne fermo Sammler contro il muro facendo forza con l’avambraccio. L’ombrello cadde a terra con un colpo secco della ghiera, sulle mattonelle. Venne ignorato. Il borsaiolo si sbottonò. Sammler udì la chiusura lampo che si abbassava. Poi gli occhiali fumé vennero tolti dalla faccia di Sammler e fatti cadere sul tavolo. Gli venne indicato, in silenzio, di guardare in giù. Il negro si era aperto la patta dei pantaloni e aveva tirato fuori il pene. Fu esibito a Sammler, con i grossi testicoli ovali, un enorme affare avana e viola non circonciso – un tubo, un serpente; peli metallici si rizzavano sulla base spessa, e la punta si curvava oltre la mano che la sosteneva, dimostrando, dando l’impressione della mobilità carnosa della proboscide di un elefante, sebbene la pelle fosse piuttosto iridescente anziché spessa o ruvida. Al di sopra di quell’avambraccio e di quel polso che lo trattenevano, Sammler venne obbligato a guardare quell’organo. Non sarebbe stata necessaria nessuna costrizione. Avrebbe guardato comunque.

L’intervallo fu lungo. L’espressione dell’uomo non era direttamente minacciosa, ma curiosamente, serenamente dominatrice. Quell’affare veniva esibito con sicurezza sconcertante. Alterigia. Poi venne rimesso nei pantaloni. Quod erat demonstrandum. Sammler fu lasciato libero. La patta venne richiusa, il cappotto abbottonato, la meravigliosa cravatta di seta fluente color salmone venne allisciata con una mano potente sul potente torace. Gli occhi neri con una luce di estremo candore ebbero un lievissimo movimento, concludendo la sessione, la lezione, l’avvertimento, l’incontro, la trasmissione. Prese gli occhiali scuri di Sammler e glieli rimise sul naso. Quindi aprì e inforcò i propri: circolari, color viola genziana, delicatamente montati con il bellissimo oro di Dior.

Poi se ne andò. L’ascensore, di ritorno dallo scantinato, si aprì con un sobbalzo simultaneamente al portone che dava sulla strada. Dopo aver raccolto l’ombrello caduto, chinato in avanti, dolorante, Sammler salì al suo piano. Il custode non aveva voglia di scambiare due parole. Per quella triste mancanza di socievolezza bisognava sentirsi grati. E meglio ancora, non s’imbatté in Margotte. La cosa migliore fu che poté lasciarsi cadere sul letto; si distese, così come si trovava, con i piedi che gli facevano male, la respirazione difficile, un dolore al cuore, la mente stravolta e – oh! – un temporaneo vuoto nella testa. Come lo schermo del televisore nell’atrio, bianco e grigio, ronzante senza alcuna immagine. Fra la testa e il guanciale, avvertì qualcosa di rettangolare, duro, il cartone marmorizzato di un quaderno, verde-mare. Vi era stato attaccato un foglietto di carta con lo scotch. Portandolo alla luce, avvicinandolo all’occhio, e con labbra che sillabavano mute, amare, si costrinse a leggere ciascuna lettera separatamente. Il messaggio era di S. (Shula o Slawa).

«Papà: queste lezioni sulla Luna del Professor V. Govinda Lal le ho avute in prestito per brevissimo tempo. C’entrano con il tuo libro di memorie.» Wells, naturalmente, che scriveva sulla Luna nel 1900 circa. «Rappresentano veramente le ultimissime scoperte. Sono affascinanti. Papà, devi assolutamente leggerle. È essenziale! Occhi o non occhi. E presto, per favore!, perché il dottor Lal deve tenere un ciclo di lezioni alla Columbia. Quindi ne ha bisogno.» Terribilmente accigliato, senza più alcuna pazienza né capacità di sopportazione, Sammler fu invaso da un senso di ripugnanza per l’ossessione persistente, risoluta, persecutoria, orribil-comica di sua figlia. Tirò un lungo respiro da far squarciare i polmoni, da raddrizzare tutto il corpo.

Poi, aprendo il quaderno, lesse, in un inchiostro ruggine brillante, seppia, Il futuro della Luna. «Per quanto tempo» diceva la prima frase «questa Terra rimarrà la sola dimora dell’uomo?»

Per quanto tempo? Oh, Signore, ma che scherziamo? Non era forse tempo di andarsene? Da tutti i punti di vista. Tempo di raccogliere insieme le pietre, tempo di lanciare via le pietre. Considerando la Terra stessa non come una pietra da lanciare, ma come qualche cosa da cui lanciare noi stessi – di cui alleggerirci. Tempo di far esplodere questo grande, azzurro, bianco, verde pianeta, o di venirne esplosi, lontani da esso.

1. Yiddish: letteralmente grasso sciolto, quasi sempre di gallina, ma il termine viene usato, idiomaticamente, per indicare eccessivo sentimentalismo, sdolcinatezza.

2. Tedesco: senza reggiseno.

II

Il raggio medio della Luna, 1737 chilometri; quello della Terra, 6371 chilometri. La gravità della Luna, 161 cm/sec2; quella della Terra, 981 cm/sec2. Cedimenti e crepe nel fondo roccioso e nelle montagne lunari provocati da punte estreme di temperatura. Naturalmente non c’è vento. Cinque miliardi d’anni senza vento. Eccetto il vento solare. Detriti di pietra ma senza la normale erosione. Le schegge di roccia cadono lentamente poiché la forza di gravità è inferiore e di conseguenza l’angolo di caduta più acuto. Inoltre, nel vuoto lunare, le pietre, la sabbia, la polvere, o i corpi degli esploratori avrebbero tutti la stessa velocità di caduta, conseguentemente prima di tentare l’ascesa, è essenziale studiare i pericoli di valanghe sotto ogni possibile aspetto. Strumenti per la raccolta d’informazioni si vanno rapidamente sviluppando. Spettrometri di massa. Batterie solari. Elettricità prodotta da isotopi radioattivi, stronzio 90, polonio 210, da conversione di energia termoelettrica. Il dottor Lal aveva compiuto un esame esauriente della telemetria, della trasmissione di dati. Aveva trascurato forse qualcosa? Riguardo ai rifornimenti, una volta messi in orbita, si poteva farli scendere, a seconda delle necessità, con un sistema di frenaggio. Era essenziale che i computer fossero straordinariamente accurati. Se uno aveva bisogno di una tonnellata di dinamite in un punto X, non si poteva mica farla scendere a 800 chilometri di distanza. E se fosse stato necessario l’ossigeno? Poi, data la maggiore curvatura della superficie lunare, gli orizzonti sono più corti e le apparecchiature di cui disponiamo attualmente non possono inviare segnalazioni di comando oltre l’orizzonte. Sarà indispensabile una coordinazione ancor più precisa. Per il bene del personale addetto alla Luna, per aumentare la loro facoltà inventiva, e semplicemente quale piacevole stimolo per la mente, il dottor Lal raccomandava che nelle colonie pioniere si fabbricasse la birra. Per la birra è necessario l’ossigeno, per l’ossigeno servono i giardini, per i giardini le serre. Un breve capitolo era dedicato alla selezione della flora lunare. Be’, tanto per cominciare, alcuni membri resistentissimi del regno vegetale vivevano nel salotto di Margotte. Apri due porte, e te li trovi lì davanti: patate rampicanti, avocado, ficus. Il dottor Lal aveva in mente i luppoli e le barbabietole da zucchero.

Sammler pensò: Questo non è il modo giusto per uscire dalla prigione spazio-temporale. Il distante è sempre, tuttora, finito. Il finito è ancora il sentire attraverso un velo, esaminare la nuda realtà interiore con una mano guantata. Ad ogni modo, era facile vedere il vantaggio di andarsene da qui, costruire igloo di plastica nel vuoto, condurre un’esistenza in colonie tranquille, di necessità austere, bevendo le acque fossili, prendendo in esame esclusivamente le questioni fondamentali. Non c’era alcun dubbio. Questa volta Shula-Slawa gli aveva portato un documento che meritava la sua attenzione. La figlia andava sempre in giro per la Quarta Avenue alla ricerca di titoli idioti: li pescava nei cestini dei rifiuti sui marciapiedi, libri con le coste sbiadite, macchiati di pioggia – l’Inghilterra negli anni Venti e Trenta, Bloomsbury, Downing Street, Clare Sheridan. Gli scaffali di Mr. Sammler erano pieni zeppi di robaccia d’occasione, otto volumi per un dollaro, che Shula trascinava a casa sua in borse della spesa mezze sfondate. E anche i libri acquistati da lui erano in gran parte superflui. Dopo essersi dedicati con grande concentrazione a scrittori seri si finiva per scoprire ben poche cose che uno non conoscesse già. Tante di quelle false partenze, vicoli ciechi, postulati che capitolavano prima della conclusione dell’argomento. Perfino i pensatori più acuti annaspavano allorché si avvicinavano ai propri limiti, venivano a mancare loro le prove, veniva a mancare loro la certezza. Ma sia che fossero ottimisti o pessimisti, sia che la visione finale fosse oscura o luminosa, generalmente per il vecchio Sammler si trattava di terra cognita. Ed era per questo che il dottor Lal aveva un certo valore. Portava notizie, diciamo. Naturalmente doveva essere ancora possibile seguire la verità lungo la strada interiore, senza bisogno di preparazioni elaborate, computer, telemetria, tutta l’abilità tecnologica, gli investimenti e la complessa organizzazione necessari per visitare Marte, Venere, la Luna. Cionondimeno, era forse alle stesse attività umane, responsabili di quello stato di costrizione, che spettava il compito di metterci di nuovo in libertà. I poteri che avevano fatto della Terra un posto troppo piccolo erano in grado di liberarci dall’imprigionamento. Attraverso il principio omeopatico. Continuando sino alla fine il corso della rivoluzione puritana che si era imposta al mondo materiale, che aveva dato tutto lo spazio ai processi materiali, e che in quell’azione aveva tradotto ed esaurito il sentimento religioso. Oppure, secondo la schiacciante sintesi di Max Weber, che Sammler sapeva a memoria, «Specialisti senza spirito, sensualisti senza cuore, questa nullità immagina di aver conquistato un livello di civiltà mai raggiunto prima d’ora». E così, plausibilmente, non c’era altra alternativa che continuare a spingere in quella stessa direzione, attendere che una forza trascurata, lasciata indietro, tornasse a volare in avanti per riacquistare il predominio. Forse attraverso un accordo sempre più solido fra le menti migliori, non dissimile dalla Aperta congiura di H.G. Wells. Forse quel vecchio birbante (Sammler stesso si sentiva un po’ vecchio birbante, mentre ci pensava) dopotutto aveva ragione.

Tuttavia mise da parte il quaderno rilegato in cartone verde marino, le frasi a inchiostro dorato di V. Govinda Lal scritte in un pedante e formale indi-inglese edwardiano, per tornare – sotto costrizione mentale, a dire il vero – al borsaiolo e a quell’affare che gli aveva mostrato. Ma che cos’era stata, sostanzialmente, tutta quella storia? Gli aveva procurato uno shock. Gli shock stimolavano la consapevolezza. Fino a un certo punto, ovviamente. Ma qual era lo scopo di mettere in mostra i genitali? Qu’est-ce que cela prouve? Era stato un matematico francese a formulare quella domanda dopo aver assistito a una tragedia di Racine? Perlomeno così ricordava. Non che gli piacesse giocare al vecchio gioco della cultura europea. Quello aveva ormai fatto il suo tempo. Eppure, anche se non rincorse, quelle frasi gli tornavano in mente. Ad ogni modo, aveva davanti agli occhi l’organo di quell’uomo, un enorme pezzo di carne sessuale, mezzo tumescente nella sua superbia, ed esibito in tutto il suo diritto, un oggetto prominente e separato, inteso a comunicare autorità. Come del resto, nell’ambito dell’ideologia del sesso di quei tempi, poteva benissimo essere. Era un simbolo di super-legittimità o sovranità. Era un mistero. Era irrefutabile. La spiegazione totale. Questo è il perché e il per come. Capito? Ah, la prova trascendente, definitiva e silenziatrice. Noi, caro mio, queste cose le riteniamo lampanti. E tuttavia, tali sensibili prolungamenti li possedeva anche il formichiere, senza le complicazioni delle asserzioni di potere, sia pure sulle formiche. Ma fai della Natura il tuo Dio, eleva il tuo stato di creatura umana, e puoi contare su risultati volgari. Forse puoi contare su risultati volgari in qualsiasi circostanza.

Senza neppure volerlo, Sammler sapeva molto su quel modo esasperato di essere creature umane. Per ragioni singolari, in quei giorni era molto ricercato, spesso lo andavano a trovare, spesso lo consultavano, si confessavano con lui. Forse era questione di macchie solari o di stagioni, qualcosa di barometrico o addirittura astrologico. Ma c’era sempre qualcuno che prima o poi si presentava, che bussava alla sua porta. Mentre pensava ai formichieri, al fatto che era stato individuato dal negro molto tempo prima, e anche seguito, si udì un colpetto alla porta sul retro.

Chi era? Poteva darsi che Sammler avesse dato l’impressione di essere più risentito di quanto in effetti non fosse. In realtà Sammler si sentiva come se gli altri avessero più forza per vivere di quanta ne avesse lui. E ciò gli procurava un segreto sgomento. Ma in tutto questo c’era anche un’illusione, poiché, data la potenza dell’antagonista, nessuno poteva avere forza sufficiente.

A entrare fu Walter Bruch, uno di famiglia. Walter, cugino di Margotte, era anche parente dei Gruner.

La cugina Angela una volta aveva portato Sammler a una mostra di Rouault. Vestita stupendamente, profumata, truccata in modo delicato, aveva condotto Sammler di sala in sala fino a che egli ebbe l’impressione che Angela fosse un cerchio, un hula-hop di oro meraviglioso e gemme colorate, e che lui, dietro a lei, non fosse che un vecchio bastone da cui lei aveva bisogno di ricevere solo qualche occasionale colpetto. Però a un certo punto, fermandosi insieme davanti a un ritratto di Rouault, avevano avuto tutti e due la stessa associazione d’idee: Walter Bruch. Era un uomo massiccio, basso, pesante, rubicondo, marcato nei lineamenti, i capelli lanosi, stralunato, lo sguardo fisso, un’aria abbastanza spavalda ma palesemente incapace di sostenere i propri sentimenti. Walter era quell’uomo, spiccicato. Ce ne dovevano essere migliaia di uomini così. Quello, però, era il nostro Walter. Con un impermeabile nero, il basco, i capelli grigi ammassati davanti alle orecchie, le guance rossiccio-marroni prominenti, le grosse labbra tinte di gelso – be’, insomma, immaginatevi l’Altro Mondo; immaginatevi le anime colà riunite, a carrettate intere; immaginatevele inviate all’incarnazione e alla nascita con caratteri dominanti ab initio. Nel caso di Bruch la voce sarebbe stata significativa fin dal primo momento. Lui era un uomo-voce, fin da quando faceva parte della torma delle anime. Cantava nei cori, nei cori dei templi. Di professione era baritono e musicologo. Scovava vecchi manoscritti e li adattava o ne faceva degli arrangiamenti per gruppi specializzati nell’esecuzione di musica antica e barocca. Era il suo piccolo racket, diceva. Cantava bene. La sua voce, nel canto, era bella, ma nella normale conversazione, era rasposa, rapida, gutturale. Gloglottava le sillabe, le grugniva, le gracchiava, le inghiottiva.

Presentandosi in un momento in cui Sammler era così assorto nei propri pensieri, Bruch, nella sua idiosincrasia, fu ricevuto in una maniera molto speciale. Grosso modo, così: Le cose che incontriamo in questo mondo sono legate alle forme della nostra percezione nello spazio e nel tempo e alle forme dei nostri pensieri. Noi vediamo ciò che ci sta davanti, il presente, l’oggettivo. L’essere eterno fa la sua apparizione temporale in questa maniera. L’unico modo per uscire fuori dalla cattività delle forme, fuori dall’esilio nella prigione delle proiezioni, il solo contatto con l’eterno, è attraverso la libertà. Sammler pensò di essere sufficientemente kantiano per convenire con quelle idee. E vedeva un uomo come Walter Bruch logorarsi il cuore entro quelle forme. Era appunto per questo che veniva da Sammler. Questo era il motivo delle sue buffonerie, poiché faceva sempre un po’ il buffone. Shula-Slawa ti raccontava che era stata buttata a terra mentre era tutta intenta a leggere un articolo su «Look», da un poliziotto a cavallo che rincorreva un cervo in fuga. Bruch era capacissimo, all’improvviso, di mettersi a cantare come il cieco della Settantaduesima Strada che si tirava dietro l’occhio valido – il cane – e scuotendo le monetine nella sua tazza, ripeteva: «Il nostro più grande amico è Gesù – Dio la benedica, signore». Gli piaceva anche scimmiottare i funerali con latino e musica, Monteverdi, Pergolesi, la Messa in do minore di Mozart; cantava Et incarnatus est in falsetto. Durante i suoi primi anni da profugo, lui e un altro ebreo tedesco, impiegati al magazzino di Macy, celebravano delle messe, così, l’uno per l’altro, uno sdraiato in una cassa da imballaggio con un rosario da quattro soldi intorno ai polsi; e l’altro che officiava. Bruch si divertiva ancora con quel genere di cose, adorava fare la parte del cadavere. Sammler l’aveva visto “in azione” varie volte. Insieme ad altre sue specialità buffonesche. Adunate in massa di nazisti allo Sportspalast. Bruch che si serviva di una casseruola vuota per ottenere gli effetti acustici del caso, tenendola davanti alla bocca per produrre un’eco, declamando come Hitler e interrompendosi ogni tanto per gridare «Sieg Heil». Sammler non si era mai divertito a quel genere di scherzi. Ben presto portavano Bruch alle reminiscenze di Buchenwald. Tutte quelle cose orrende, comiche, inconseguenti, insensate. Come quando, all’improvviso, nel 1937, ai prigionieri vennero offerti in vendita dei pentolini. Centinaia di migliaia, nuovi di zecca, appena usciti dalla fabbrica. Perché? Bruch ne comprò quanti più poteva. Ma per quale ragione? I prigionieri cercavano di vendersi i pentolini a vicenda. E poi un uomo cadde nella trincea adibita a latrina. A nessuno fu concesso di aiutarlo, e quello affogò là, mentre gli altri prigionieri stavano accovacciati sulle tavole di legno, senza potergli dare una mano. Sì, esattamente, soffocato nelle feci!

«Molto bene, Walter, molto bene!» diceva Sammler con tono severo.

«Sì, lo so, e pensare che io non mi sono trovato là neppure nei momenti peggiori, Zio Sammler. Tu sei stato proprio in mezzo a tutta la guerra. Comunque io me ne stavo seduto là col mal di pancia e la diarrea. Le mie budella, oh! Col buco del culo allo scoperto.»

«Molto bene, Walter, non ti ripetere tanto.»

Purtroppo Bruch era obbligato a ripetersi, e a Sammler dispiaceva. Era seccato e gli dispiaceva. E con Walter, come con molti altri, si trattava sempre, continuamente, interminabilmente, della questione del sesso. Bruch si innamorava delle braccia delle donne. Dovevano essere donne piuttosto giovani, pienotte. Scure, di norma. Spesso erano portoricane. E d’estate, soprattutto d’estate, senza cappotto, quando le braccia delle donne erano esposte. Le vedeva in metropolitana. Andava insieme a loro fino all’Harlem Spagnolo. Si premeva contro una sbarra di metallo. Lassù, sul treno diretto ad Harlem, era l’unico passeggero bianco. E tutta la faccenda – l’adorazione, la sventura, il pericolo di cadere in deliquio quando veniva! Qui, raccontandogli quelle cose, cominciava a toccarsi la base pelosa di quella sua gola grossa. Scientifico! Allo stesso tempo, di regola, aveva una relazione altamente idealizzata e raffinata con qualche signora. Classico! Capace di comprensione, di sacrificio, d’amore. Persino di fedeltà, nel suo modo tutto particolare, come dice Dowson nella sua poesia a Cynara.

Al momento “si era fissato”, come diceva lui, con le braccia di una delle cassiere del drugstore.

«Ci vado il più spesso possibile.»

«Ah, sì» disse Sammler.

«È pazzia pura. Mi porto la cartella sotto il braccio. È resistentissima. Cuoio di prima qualità. L’ho pagata trentotto dollari e cinquanta da Wilt Luggage sulla Quinta Avenue. Ti rendi conto?»

«Sì, capisco la situazione.»

«Compro qualche cosa per venticinque, dieci centesimi. Gomma da masticare. Un pacchetto di salviette umidificate per le lenti. Poi le do un bigliettone da… da dieci, anche da venti. Vado alla banca per avere dei biglietti nuovi.»

«Capisco.»

«Zio Sammler, tu non hai idea di che cosa rappresenti per me quel braccio rotondo. Così scuro! Così pieno!»

«No, probabilmente no.»

«Metto la cartella tra me e il banco, e mi ci spingo contro. Mentre lei mi prepara il resto, io mi ci spingo contro.»

«Va bene, Walter, risparmiami la conclusione.»

«Zio Sammler, mi devi perdonare. Che cosa posso fare? Per me è l’unico modo.»

«Be’, questi sono affari tuoi. Perché dirlo a me?»

«Ma una ragione c’è. Perché non dovrei dirtelo? Una ragione ci dev’essere. Non mi fermare per favore. Sii gentile.»

«Ti dovresti fermare da solo.»

«Non posso.»

«Sei sicuro?»

«Io spingo. Ho l’orgasmo. Mi bagno.»

Sammler alzò la voce. «Ma non puoi omettere proprio niente?»

«Zio Sammler, ma che devo fare? Ho più di sessant’anni.»

Poi Bruch si portò agli occhi il dorso delle mani corte e spesse. Il naso piatto dilatato, la bocca aperta; gli sgorgavano le lacrime e, come uno scimmione, contorceva le spalle e il tronco. E con quei patetici spazi fra i denti. E quando piangeva la sua voce non era rasposa. Allora si sentiva il musicista che era.

«Tutta la mia vita è stata così.»

«Mi dispiace, Walter.»

«Ne sono schiavo.»

«Be’, non hai fatto male a nessuno. E ti dico, per davvero, che la gente prende queste cose molto meno sul serio di una volta. Non ti potresti concentrare di più su qualche altro interesse, Walter? E inoltre, la tua sventura è così simile a quella di altra gente, sei tanto contemporaneo, tu, che non dovresti abbatterti così. Non è un conforto che non esista più quella sofferenza del sesso, isolata, vittoriana? Sembra che li abbiano tutti questi vizi, e li vanno a raccontare ai quattro venti. Anzi, oramai, tu sei persino un pochino sorpassato. Sì, tu sei afflitto da una vecchia forma di feticismo scoperta da Krafft-Ebing nel diciannovesimo secolo.»

Ma Sammler si fermò, disapprovando il tono leggero che si stava infiltrando nelle sue parole di consolazione. Ma per quanto riguardava il passato aveva detto sul serio. Le difficoltà sessuali di un uomo come Bruch avevano origine dalle repressioni di un altro tempo, da immagini di donna e madre che stavano scomparendo. Lui stesso, nato nel secolo scorso e nell’Impero austro-ungarico, poteva discernere quei mutamenti. Ma gli sembrava anche ingiusto starsene a letto a fare quel genere di osservazioni. In tutti i modi, il vecchio, l’originario Sammler di Cracovia, non era mai stato particolarmente gentile. Era un figlio unico viziato da una madre lei stessa viziata, nella sua veste di figlia. Un ricordo divertente: da piccolo Sammler si copriva la bocca, quando tossiva, con la mano della donna di servizio, per evitare di prendersi i germi nella mano propria. Un aneddoto famigliare. Wadja, la donna di servizio, ridacchiando, rossa in faccia, gentile, con i capelli color paglia, tutta gengive (aveva degli strani bozzi sulle gengive), permetteva al piccolo Sammler di prendere in prestito la sua mano. Poi, quando era più grande, la sua stessa madre, non Wadja, portava al magro, nervoso, giovane Sammler, la cioccolata e i croissant mentre lui se ne stava seduto nella sua stanza a leggere Trollope e Bagehot, cercando di fare di se stesso un Englishman. Lui e sua madre avevano fama di persone eccentriche, irritabili, a quei tempi. Non erano persone compassionevoli. Non si riusciva a farli contenti facilmente. Superbi. Naturalmente, tutto ciò per Sammler era cambiato in modo considerevole negli ultimi trent’anni. Ma poi c’era questo Walter Bruch con le sue vecchie nocche da monellaccio ficcate negli occhi, seduto in camera sua, a singhiozzare, dopo essersi confessato con lui. E quando mai non c’era qualcosa da confessare? Qualcosa da confessare c’era sempre. Bruch gli disse che si comprava dei giocattoli. Da FAO Schwarz sulla Quinta Avenue o dagli antiquari si comprava delle scimmiette a molla che si pettinavano guardandosi in uno specchio, che suonavano i piatti e ballavano le gighe, con delle giacchettine verdi o berrettini rossi. I suonatori ambulanti negri erano scesi di prezzo. Lui giocava nella sua stanza con i suoi giocattoli, da solo. Mandava anche delle lettere offensive, di denuncia, a musicisti. Poi veniva, confessava e piangeva. Non piangeva per mettersi in mostra. Piangeva perché sentiva di aver sprecato la propria vita. Sarebbe stato possibile dirgli che in realtà non era così?

Con un uomo come Bruch era più facile spostarsi su riflessioni di natura più vasta, fare dei paragoni, pensare alla storia e a temi d’interesse generale. Per esempio, rimanendo nel campo della nevrosi sessuale, Bruch veniva superato da individui quali l’Uomo dei topi di Freud, con il suo delirio di topi che gli rodevano l’ano, persuaso che anche i suoi genitali fossero simili a un topo, o che lui stesso fosse una qualche specie di topo. In confronto, un individuo come Bruch era affetto da una forma leggera di feticismo. Se assumevi un punto di vista comparativo o storico naturalmente dovevi riferirti solamente agli esempi più degni di nota, più clamorosi. Una volta presi in considerazione questi, potevi lasciar perdere il resto, scartarlo, dimenticartelo e basta, poiché non erano che un peso in più, bagaglio eccedente. Se riflettevi su ciò che la memoria storica del genere umano conservava, non valeva la pena conservare i Bruch; né, a pensarci bene, i Sammler. A Sammler non gliene importava troppo dell’oblio, o perlomeno non più di quanto gli sarebbe importato del ricordo. Pensava di aver scoperto, ormai, tutta la natura misantropica dell’idea dei «più memorabili». Era indubbiamente possibile che l’approccio storico rendesse più facile scartare la maggior parte degli esempi. In altre parole, buttare a mare la maggior parte di noi. Ma eccoti qui Walter Bruch, che era venuto nella sua stanza perché sentiva di poter parlare con lui. E probabilmente Walter, quando avesse smesso di piangere, si sarebbe sentito offeso dal riferimento a Krafft-Ebing, dall’asserzione che la sua deviazione non era poi così insolita. Evidentemente non c’era nulla che facesse tanto male quanto sapere di essere devastati da un vizio che non era un “supervizio”. E questo faceva tornare in mente il comico resoconto di Kierkegaard sulla gente che se ne andava in giro per il mondo a vedere fiumi e montagne, nuove stelle, uccelli di raro piumaggio, pesci curiosamente deformi, ridicole razze d’uomini: turisti che si abbandonavano al bestiale stupore di chi rimane a bocca aperta davanti all’esistenza ed è convinto di aver veduto qualche cosa. Ciò non poteva interessare Kierkegaard. Egli era alla ricerca del Cavaliere della Fede, del vero prodigio. Quel vero prodigio, avendo stabilito le proprie relazioni con l’infinito, si trovava perfettamente a proprio agio nel finito. Capace di portare il gioiello della fede, compiendo i movimenti dell’infinito, e, come risultato, non avendo alcuna necessità se non del finito e del comune. Mentre altri cercavano lo straordinario nel mondo. O desideravano essere quel “quid” avanti a cui si rimane a bocca aperta. Volevano essere essi stessi gli uccelli di raro piumaggio, i pesci curiosamente deformi, le ridicole razze d’uomini. Soltanto Mr. Sammler, disteso, un vecchio corpo dinoccolato con gli zigomi color terracotta e i capelli della nuca spesso elettrizzati, come in corsa dietro la sua testa – soltanto Mr. Sammler era preoccupato. Era impensierito dalla prova criminosa che il Cavaliere della Fede doveva affrontare. Il Cavaliere della Fede doveva avere la forza di infrangere le leggi stabilite dall’uomo in obbedienza a Dio? Ma sì, naturalmente! Però forse Sammler sapeva determinate cose sull’omicidio che avrebbero reso le scelte appena un pochino più difficili. Pensava spesso a quale fascino straordinario il crimine aveva esercitato sui figli della civiltà borghese. Che fossero rivoluzionari, super-uomini, santi, i Cavalieri della Fede, anche i migliori, si mettevano alla prova, indulgendo a pensieri di coltello o pistola. Dei senzalegge. Dei Raskolnikov. Eh già…

«Walter, mi dispiace – mi dispiace vederti soffrire.»

Le cose strambe che succedevano nella stanza di Sammler, con le sue carte, i libri, l’umidificatore, lavandino, fornelletto elettrico, ampolla di pirex, documenti.

«Pregherò per te, Walter.»

Bruch smise di piangere, chiaramente sbigottito.

«Ma che vuoi dire, Zio Sammler? Tu preghi?»

La musica baritonale abbandonò la sua voce che tornò a essere rasposa, e Walter raucamente riprese a mangiarsi le parole.

«Zio Sammler, io ho le mie braccia. Tu hai le preghiere?» E si fece una grassa risata. Rideva e grugniva, oscillando comicamente avanti e indietro, reggendosi ambo i fianchi, mettendo in mostra, ciecamente, tutt’e due le narici. Tuttavia non è che si stesse burlando di Sammler. Non proprio. Bisognava imparare a distinguere. Distinguere e distinguere e distinguere. Era saper distinguere, non spiegare, che contava. La spiegazione era per le masse mentali. Per l’istruzione degli adulti. L’elevazione della generale consapevolezza. Un livello mentale paragonabile, diciamo, a quello economico del proletariato del 1848. Ma quanto al distinguere? Eh, no, si trattava di un’attività più evoluta.

«Pregherò per te» ripeté Sammler.

Detto questo, per un po’ la conversazione assunse toni più affabili, meno impegnativi. Sammler dovette dare una scorsa a lettere che Bruch aveva inviato al «Post», al «Newsday» e al «Times», polemizzando con i loro critici musicali. E questo era di nuovo il lato litigioso, ridicolo delle cose, il Bruch che recitava, il Bruch grossolano, impacciato, che calcava troppo la mano. Proprio quando Sammler voleva riposarsi. Rimettersi un pochino in sesto. Ritrovare un certo ordine in se stesso. E quel modo di fare scatenato di Bruch, così gutturale, dadaista, era contagioso. Va’, Walter, vattene, così posso pregare per te, avrebbe voluto dire Sammler, cadendo pari pari nello stile tipico di Bruch. Ma in quel momento Bruch gli domandò: «E quand’è che dovrebbe arrivare tuo genero?».

«Chi? Eisen?»

«Sì, viene qui. Forse è già arrivato.»

«Non lo sapevo. Ha minacciato di venire, molte volte, per stabilirsi a New York e fare l’artista. Di Shula non ne vuol sapere nel modo più assoluto.»

«Lo so» disse Bruch. «E lei ha talmente paura di lui.»

«Sicuramente non funzionerebbe. Eisen è troppo violento. Sì, sì, lei ne sarà spaventata. Si sentirà anche lusingata all’idea che lui sia venuto per riconquistarla. Ma Eisen non pensa certo a mogli e matrimoni. Lui vuole i suoi quadri in mostra a Madison Avenue.»

«Ma come, crede di essere così bravo?»

«Ha imparato stampa e incisione a Haifa e quando sono stato al suo laboratorio mi hanno detto che era una persona sul cui lavoro si poteva contare. Ma poi ha scoperto l’Arte, e nei ritagli di tempo ha cominciato a dipingere e a fare incisioni. Dopodiché ha mandato a ogni membro della famiglia un ritratto dell’interessato copiato da delle fotografie. Ne hai visto qualcuno? Erano abominevoli, Walter. È una mente folle e un’anima spaventevole che ha dipinto quei quadri. Non so come abbia fatto, ma servendosi del colore è riuscito a portar via il colore a ogni soggetto. Sembravano tutti dei cadaveri, con le labbra nere e gli occhi rossi, con delle facce di un verde che sembrava una specie di avanzo di fegato cotto. Allo stesso tempo era come se una bambina delle scuole elementari stesse imparando a disegnare delle figure di persona belle, graziose, con bocche da cupido e ciglia lunghe. Francamente, sono rimasto scioccato quando mi sono visto ridotto a un bambolotto di plastica dentro a una catacomba. Con quella patina lucida che adopera lui, sembravo proprio spacciato. Era come se per me una morte sola non fosse abbastanza, e dovessi quindi morire due volte. Be’, che venga pure, questo Eisen. La sua pazzesca intuizione su New York può anche essere giusta. È un maniaco di tipo euforico. Adesso tanti di quegli intellettualoni hanno scoperto che la pazzia è una forma più alta di conoscenza. Ritraendo Lyndon Johnson, il Generale Westmoreland, Rusk, Nixon o Mr. Laird in quello stesso stile, chissà, magari sarebbe diventato una celebrità nel mondo dell’arte. Il potere e il denaro, si capisce, fanno ammattire la gente. E perciò, perché la gente non dovrebbe anche conquistare potere e ricchezza in virtù della propria pazzia? Le due cose dovrebbero andare insieme.»

Sammler si era tolto le scarpe, e ora i lunghi piedi fragili dentro i calzini marroni si erano infreddoliti e vi appoggiò sopra la coperta con il bordo di seta tutto sfrangiato. Bruch interpretò il gesto come se il vecchio volesse dormire. O era forse che la conversazione aveva preso una piega che non interessava a Sammler? Il cantante si accomiatò.

Quando Bruch se ne fu rumorosamente andato – impermeabile nero, gambe corte, sedere largo come il fondo di un sacco, berretto aderente sulla fronte, mollette ferma-pantaloni (la sfida suicida di andare in bicicletta a Manhattan) – Sammler riprese a pensare al borsaiolo, alla pressione del suo corpo, all’atrio e a quella tela erniosa sulle pareti, le due paia di occhiali scuri, il tubo incurvato in mano, erto come una lucertola, color cioccolata stantia di un rosa polveroso, che con prepotenza suggeriva la funzione più certa: generare un infante. Brutto, odioso, risibile, ma cionondimeno importante. E Mr. Sammler stesso (una di quelle invasioni mentali a cui non valeva più la pena tentare di opporre resistenza) era abituato a mettere il proprio individualissimo accento sulle cose. Beninteso, lui e il borsaiolo erano tipi differenti. Tutto era differente. I loro profili mentali, caratteriologici, spirituali, erano distanti anni luce l’uno dall’altro. Nel passato, Mr. Sammler aveva pensato che, quanto a quello stesso aspetto biologico, egli era stato abbastanza avvenente, nella sua particolare maniera ebrea. Non aveva mai avuto molta importanza, e adesso, a settant’anni, meno che mai. Però restava il fatto che il mondo occidentale era travolto da una follia sessuale. Sammler adesso ricordava anche, vagamente, di aver sentito dire che, a quanto pareva, un Presidente degli Stati Uniti si era mostrato in modo simile ai rappresentanti della stampa (chiedendo che le signore si allontanassero), esigendo di sapere se un uomo così ben dotato non meritava la fiducia necessaria a guidare il Paese. La storia era, naturalmente, apocrifa, però non era del tutto inverosimile, considerando chi era il Presidente; e ciò che contava era il fatto che se ne fosse venuti a conoscenza e che anzi la storia fosse circolata in ambienti così vasti da aver raggiunto persino i vari Sammler nelle loro camere da letto del West Side. Prendete come ulteriore esempio l’ultima mostra di Picasso. Angela l’aveva condotto alla sua inaugurazione al Museum of Modern Art. Nel senso strettamente sessuale anche quella era stata un’esibizione. Il vecchio Picasso era profondamente ossessionato dalle fessure sessuali, dai falli. Nel dolore comico e folle del suo commiato dal mondo, creava organi a migliaia, forse a decine di migliaia. Lingam e Yoni. Sammler pensò che potesse essere illuminante ricordare le parole sanscrite. Introdurre un tantino di prospettiva. Ma non serviva a molto per un tema così tormentato. Ed era molto tormentato. Riandò con la memoria, per esempio, a un’affermazione fatta da Angela Gruner, uscitale di bocca dopo vari bicchieri, mentre rideva, era allegra e si sentiva, evidentemente, libera (fino a essere brutale) con il vecchio Zio Sammler. «Un cervello ebreo, un cazzo nero e una bellezza nordica:» aveva detto «è questo che vuole una donna.» Mettendo insieme l’uomo ideale. Be’, dopotutto aveva dei conti aperti presso i migliori negozi di New York, e accesso a tutto ciò che di meglio c’era al mondo. Se Pucci non aveva quel che lei voleva, lo ordinava da Hermès. Tutto quello che il denaro poteva acquistare, il lusso poteva offrire, la bellezza individuale poteva conferire alla persona, o che la sofisticazione sessuale poteva contraccambiare. Se lei avesse trovato il maschio ideale, la sua sintesi divina – be’, era sicura che quell’uomo non se ne sarebbe pentito. Il meglio era troppo poco per lei. Su questo pareva non esserci dubbio alcuno. In momenti come quelli Mr. Sammler si lasciava piacevolmente perseguitare da visioni lunari. Artemide: castità lunare. Sulla Luna la gente avrebbe dovuto lavorare sodo semplicemente per sopravvivere, per respirare. Avrebbe dovuto tenere sotto continua, attentissima osservazione gli indicatori di livello di tutti i congegni. Condizioni completamente differenti. Tecnici austeri – pressoché un sacerdozio.

Se non era Bruch che s’imponeva a forza con le sue confessioni, se non era Margotte (poiché ora cominciava a pensare agli affari di cuore dopo tre anni di decorosa vedovanza – più discorsi che prospettive, indubbiamente: discussioni, analisi serissime ad infinitum), se non era Feffer con le sue indiscriminate avventure di letto, era Angela che veniva a confidarsi. Se quelle potevano definirsi confidenze. Comunicava il caos. Stava diventando una cosa opprimente. Soprattutto da quando il padre, recentemente, non era stato troppo bene. Anzi, proprio ora era in ospedale. Sammler si era fatto un’idea di quel caos – aveva una sua opinione personale di ogni singola cosa, un’opinione intensamente peculiare; d’altronde su che cos’altro ci si poteva basare? Naturalmente concedeva delle attenuanti per gli errori. Lui era europeo, e questi erano fenomeni americani. Gli europei spesso fraintendevano, comicamente, l’America. Ricordava che molti profughi avevano fatto le valigie pronti a partire per il Messico o il Giappone dopo la prima sconfitta di Stevenson, certi che Ike avrebbe instaurato una dittatura militare. Alcune importazioni europee erano state coronate da un notevole successo negli Stati Uniti – la psicoanalisi, l’esistenzialismo. Ambedue connessi alla rivoluzione sessuale.

In ogni caso, una gran quantità di tristezza si era andata accumulando per la libera, bella, ricca, solo leggermente ordinaria Angela Gruner, che in quel momento volava sotto nuvole gravide di tempesta. Tanto per cominciare aveva delle difficoltà con Wharton Horricker. Lei gli voleva bene, le piaceva, probabilmente amava Wharton Horricker. In quegli ultimi due anni Sammler aveva sentito parlare di pochi altri uomini. La fedeltà, assoluta e letterale, non era certo la specialità di Angela, tuttavia aveva un bisogno vecchio stampo di Horricker. Lui era uno di Madison Avenue, una specie di esperto nelle ricerche di mercato e un mago delle statistiche. Più giovane di Angela. Un cultore del fisico (tennis, sollevamento pesi). Alto, nato e cresciuto in California, denti magnifici. A casa sua aveva gli attrezzi per fare ginnastica. Angela descriveva la tavola inclinata con le cinghie per bloccare i piedi che gli serviva per gli esercizi di flessione, la sbarra d’acciaio nel vano di una porta per rafforzare i muscoli delle braccia. E i freddi mobili di marmo e metallo cromato, le eleganti poltrone Safari con le loro strisce di cuoio per braccioli, gli objets d’art op e pop, la luce indiretta, e la prevalenza di specchi. Horricker era bello. Sammler ne conveniva. Allegro, per qualche verso ancora poco formato, forse Horricker per natura era portato al furfantesco? (A che gli servivano tutti quei muscoli? Per mantenersi sano? Non per fare il bandito?) «E poi come si veste, una meraviglia!» fu il gorgheggio velato di Angela. Con le lunghe gambe californiane, i fianchi stretti, i lunghi capelli mossi con un vezzoso ricciolo sulla nuca, era un dandy mod. Estremamente critico verso l’abbigliamento altrui. Persino Angela doveva sottoporsi a un’ispezione tipo West Point. Una volta, quando, secondo lui, non era vestita a dovere, l’aveva abbandonata per la strada. Aveva attraversato, e via. Camicie, scarpe, golf, tutto su misura, arrivavano continuamente da Londra e da Milano. Mancava soltanto un po’ di musica sacra mentre si faceva tagliare i capelli (no, «mettere in forma i capelli!»), diceva Angela. Andava da un parrucchiere greco sulla Cinquantaseiesima Strada, Est. Eh sì, Sammler sapeva parecchio di Wharton Horricker. I suoi cibi dietetici e sani. Horricker gli aveva persino portato dei barattoli di lievito in polvere. Sammler trovava che il lievito gli faceva bene. Poi c’era la faccenda delle cravatte. La collezione di bellissime cravatte di Horricker! A questo punto il paragone con il suo borsaiolo nero era inevitabile. Bisognava pensarci un po’, su quel culto dell’eleganza maschile. Qualcosa di importante, ancora nebuloso, che riguardava Salomone con tutta la sua gloria, e i gigli del campo. Be’, staremo a vedere. Comunque sia, malgrado la sua schifiltosità autoindulgente, la sua intolleranza per la gente malvestita, malgrado il suo nome chic di ebreo di terza generazione, Wharton veniva preso in seria considerazione da Sammler. Provava comprensione per lui, rendendosi conto del potere corruttore e sviante di Angela, insidioso senza intenzionalità. Angela voleva essere allegra, generatrice di piacere, esuberante, libera, bella, sana. Almeno per come vedevano la cosa i giovani americani (la generazione della Pepsi, no?). E Angela raccontava tutto a Zio Sammler – l’onore delle sue confidenze era riservato a lui. Perché? Oh, lei pensava che lui fosse il più comprensivo, il più esperto-del-mondo-europeo-non-provinciale-mentalmente-diversificato-intelligente-giovane-di-cuore di tutti i vecchi profughi, e sinceramente interessato ai fenomeni nuovi. Per meritare quel giudizio si era forse sbracciato un pochino troppo? Non si era forse prestato, non era stato forse al gioco, non si era forse comportato come il classico profugo maturo? Se le cose stavano così, si sentiva ingiuriato da se stesso. E in fondo, sì, la faccenda stava in quel modo. Se sentiva cose che non voleva sentire, esisteva un parallelo – sull’autobus aveva visto cose che non voleva vedere. Ma non era andato una decina di volte a Columbus Circle a cercare il ladro nero?

Senza alcun riserbo, in termini diretti, Angela descriveva i vari avvenimenti allo zio. Entrava nella sua stanza, si toglieva il soprabito, il foulard che portava in testa, scuoteva i capelli con le ciocche tinte come la pelliccia di un procione lavatore, profumata di muschio arabo – un odore che più tardi rimaneva attaccato al rivestimento da quattro soldi del divano, ai cuscini delle sedie, alla coperta del letto, persino alle tendine, ostinato come le macchie di noci che ti rimangono sulle dita –, si metteva a sedere con le sue calze bianche operate: bas de poule, come le chiamavano i francesi. Con le guance che irradiavano colore, gli occhi di un blu sessuale, un bianco colore vitale nella carne della gola, era portatrice di un messaggio destinato ai maschi, il potente messaggio del “genere”. Di questi tempi la gente si sente obbligata a temperare tutti questi potenti messaggi con la commedia, e lei forniva anche quella. In America certe forme di successo esigevano un determinato elemento di parodia, di autoironia, di satira della cosa in sé. Mae West aveva quella qualità. Il Senatore Dirksen ce l’aveva. In Angela si poteva cogliere un balenio della strana vendetta mentale su quel quid che così evidentemente possedeva. Accavallava le gambe su una sedia troppo fragile per accogliere quelle cosce, troppo diritta per quelle sue anche. Apriva la borsetta per prendere una sigaretta e Sammler le offriva del fuoco. Lei adorava i suoi modi garbati. Il fumo le usciva dal naso, e quando si sentiva in forma guardava Sammler allegramente, con un briciolo di malizia. La bella vergine. Lui era il vecchio eremita. Quando, con lui, diventava cordiale, espansiva e rideva, le si scoprivano una grande bocca, una grande lingua. Dentro la donna elegante lui scorgeva quella volgare. Le labbra erano rosse, la lingua, spesso pallida. Quella lingua, la lingua di una donna – evidentemente essa svolgeva un ruolo sorprendente nella sua vita libera, lussuosa.

Al suo primo incontro con Wharton Horricker, nei quartieri alti della città, ci era arrivata correndo a scapicollo dall’East Village. Una cosa, quella, di cui non riusciva a liberarsi. Quella sera l’“erba” non l’aveva toccata, solo whisky, diceva. L’erba non la faceva andar su di giri come piaceva a lei. Quattro telefonate gli aveva fatto, a Wharton, da un locale affollato. Lui le aveva detto che aveva bisogno di farsi le sue ore di sonno: era l’una di notte passata; lui col sonno e con la salute era fissato. E alla fine lei gli era piombata in casa aggredendolo con un gran bacio. E aveva gridato: «Ehi, fottiamo tutta la notte!». Ma prima doveva assolutamente fare un bagno. Perché aveva desiderato Wharton tutta la sera. «Oh, una donna è una vera puzzola. Tanti di quegli odori, Zio» aveva detto. Togliendosi tutto, ma dimenticandosi il collant, era caduta nella vasca. Wharton, totalmente allibito, rimase, in vestaglia, seduto sul copriasse in spugna del gabinetto, mentre lei, tutta rossa per il whisky, s’insaponava i seni. Sammler sapeva benissimo come dovevano essere quei seni. Dopotutto, gli abiti scollati di Angela nascondevano ben poco. Dunque s’insaponò e si sciacquò, con gioiosa difficoltà si sbarazzò anche del collant, e venne condotta a letto per mano. Oppure fu lei a condurre. Dato che Horricker le camminava dietro e la baciava sul collo e sulle spalle. Lei aveva gridato «Oh!» e fu montata.

Mr. Sammler, nelle aspettative altrui, doveva ascoltare con benevolenza ogni sorta di racconto di natura intima. Ed era un fatto curioso, ma anche H.G. Wells, benché con maggior riguardo e decenza, gli aveva parlato della sua passione sessuale. Da un individuo tanto superiore uno si sarebbe potuto aspettare constatazioni e giudizi più affini a quelli di Sofocle nella sua tarda età. «Sono così felice di essermene liberato; mi pare di essere scampato da un padrone furioso e selvaggio.» Manco per sogno. Come Sammler ben ricordava, Wells a settant’anni passati era ancora ossessionato dalle ragazze. Con argomenti fortissimi propugnava una revisione totale degli atteggiamenti sessuali perché fossero in linea con l’aumentata longevità. Ai tempi in cui l’individuo moriva mediamente a trent’anni, gli esseri umani logorati dalla fatica, malnutriti, malaticci, erano sessualmente finiti prima ancora della terza decade. Romeo e Giulietta erano degli adolescenti. Ma ora che la durata media della vita civilizzata si avvicinava ai settant’anni, gli antichi standard della brutale brevità, del precoce esaurimento fisico e della condanna, bisognava metterli da parte. Quando parlava della diminuzione delle capacità del cervello, dei suoi limiti di espansione, della ridotta abilità, in età avanzata, di provare un interesse vivo per avvenimenti nuovi, a un dato momento Wells veniva assalito dal rancore, addirittura da una collera incontrollabile. Da utopista qual era, non immaginava neppure che il tanto auspicato futuro avrebbe portato l’eccesso, la pornografia, l’anormalità sessuale. Anzi, a mano a mano che il vecchio sudiciume e le lugubri malattie venivano eliminate, sarebbe emerso un tipo umano più vitale, più grande, più forte, più longevo, col cervello più sveglio, un corpo nutrito meglio, meglio ossigenato, capace di mangiare e bere secondo le norme igieniche, perfettamente autonomo e misurato nei desideri, che se ne andava in giro nudo mentre accudiva tranquillamente ai suoi doveri, espletando il suo affascinante e utile lavoro mentale. Sì, gradatamente, il lungo brivido d’orrore dell’umanità di fronte alla veloce transitorietà della bellezza mortale, del piacere, sarebbe cessato, per essere sostituito dalla saggezza nata dal prolungamento dell’esistenza.

Oh, vecchi con la barba grigia, i volti solcati da rughe, occhi che spurgano ambra densa e gomma di susino, con la vostra copiosa mancanza di senno unita a debolissimi lombi, che come gamberi andate a ritroso, fuori dell’aria dentro la tomba: Amleto aveva la sua opinione personale su questa faccenda. E Sammler, in parecchie occasioni, ascoltando Angela mentre se ne stava sdraiato sul letto, riflettendo (come minimo) su due categorie di problemi con due occhi che vedevano in modo differente l’uno dall’altro, una fitta acuta tra le costole e l’anca che gli faceva flettere una gamba nella speranza di un sollievo che non trovava, aveva una leggera espressione di biasimo e anche una di ricettività. Il suo cucchiaio giornaliero di lievito nutritivo, prodotto genuino estratto da zuccheri naturali, sciolto e agitato nel succo di frutta fino a che diventava spuma rosa, gli permetteva di mantenere un colorito fresco. Probabilmente, un risultato della longevità era il divertimento divino. Si riusciva ad apprezzare il divertimento di Dio osservando la formazione di disegni che, per evolversi adeguatamente, avevano bisogno di tempo. Sammler aveva conosciuto i nonni di Angela. Erano ebrei ortodossi. E ciò lo portava a considerare la sua familiarità con il paganesimo della ragazza in una prospettiva tutta particolare. C’era una parte di sé che dubitava dell’adeguatezza di questi ebrei per quel primitivismo erotico cattolico-voodoo. Non era affatto sicuro che la liberazione dalla lunga disciplina mentale ebrea, dall’addestramento ereditario al controllo di sé in ossequio alle leggi, fosse raggiungibile in virtù della sola applicazione individuale. Sebbene alcune rivendicazioni alla leadership erotica fossero state avanzate anche da moderni dottori ebrei, spirituali e mentali, Sammler aveva i suoi dubbi.

Accetta, concedi che la felicità consiste nel fare ciò che la maggioranza degli altri fa. Allora devi incarnare ciò che incarnano gli altri. Se si tratta di preconcetti, il preconcetto. Se furia, che sia furia. Se è sesso, allora sesso. Ma non contraddire la tua epoca. Lìmitati a non contraddirla. A meno che, per puro caso, tu non sia un Sammler e sia convinto che il posto d’onore sia fuori. Ad ogni modo, quel che si conquistava per mezzo della “distanza”, con l’essere semplicemente un vestigio, una lucida coscienza in visita a cui era capitato di vivere in una camera da letto a West Side, non rendeva idonei a partecipare degli onori del fuori. Inoltre, nel dentro c’era tanto di quello spazio e vi entravano tante di quelle persone che, se tu abitavi dalle parti tra la Novantesima e la Centesima Strada del West Side, anzi, se ti trovavi qui, eri, in realtà, un americano. E il fascino, il glamour esuberante, l’agitazione quasi insopportabile che scaturivano dal fatto di poter descrivere se stessi quali americani del ventesimo secolo erano a disposizione di tutti. Di chiunque avesse occhi per leggere i giornali o guardare la televisione, di tutti coloro che condividevano le estasi collettive procurate dalle notizie, le crisi, il potere. Di ciascuno secondo la propria eccitabilità. Ma forse era una cosa ancora più profonda. L’umanità si osservava e si descriveva nelle svolte stesse del suo proprio destino. Se stessa soggetto, vivendo o affogando nella notte, se stessa oggetto, vista sopravvivere o soccombere, avvertendo in sé le ondate di forza e i periodi di paralisi: la passione stessa dell’umanità era simultaneamente il grande spettacolo dell’umanità, una faccenda di profonda e strana partecipazione, a tutti i livelli, dal melodramma e rumore puro e semplice fino agli strati più profondi dell’anima e ai silenzi più impenetrabili, dove si cela la conoscenza ancora da scoprire. Questo tipo di esperienza, a giudizio di Mr. Sammler, poteva offrire ad alcune persone opportunità affascinanti per la mente e per l’anima, ma un uomo, tanto per cominciare, avrebbe dovuto essere straordinariamente intelligente, e per di più straordinariamente pronto e perspicace. Nemmeno lui si sentiva all’altezza di quelle qualità. Per via dell’alto ritmo di velocità, le decadi, i secoli, le ere si condensavano in mesi, settimane, giorni, addirittura frasi. Per cui per star dietro a tutto questo, bisognava correre, scattare, fluttuare, volare su acque luccicanti, bisognava saper vedere che cos’era che stava abbandonando la vita umana e che cos’era che, viceversa, vi rimaneva dentro. Non si poteva più fare il saggio che se ne sta seduto e osserva, figura ormai desueta. Bisognava addestrarsi. Bisognava essere sufficientemente forti per non lasciarsi terrorizzare dagli effetti locali della metamorfosi, per vivere con la disintegrazione, con le strade invase dalla follia, con incubi schifosi, mostruosità venute alla luce, tossicomani, alcolizzati e pervertiti che celebrano la propria disperazione, apertamente, nel bel mezzo della città. Bisognava essere capaci di sopportare i grovigli dell’anima, la vista della crudele dissoluzione. Bisognava essere pazienti con le idiozie del potere, con la fraudolenza del mondo degli affari. Quotidianamente alle cinque o alle sei del mattino Mr. Sammler si svegliava a Manhattan e cercava di trovare una chiave d’accesso per capire la situazione. Pensava di non riuscirci. E, ove potesse, di non riuscire a convincere o a convertire una qualsiasi persona. Avrebbe potuto lasciare la chiave a Shula, nel suo testamento. Lei avrebbe potuto rivelarne il possesso al Rabbino Ipsheimer. Avrebbe potuto bisbigliarlo a Padre Robles, nel confessionale, dirgli che ce l’aveva lei. Quale poteva dunque essere questa cosa? La consapevolezza e il dolore che a essa si accompagnano? La fuga dalla consapevolezza nel primitivo? Libertà? Privilegio? Demoni? L’espulsione di quei demoni e di quegli spiriti dall’aria, dove erano sempre stati, per mezzo dell’Illuminismo e del Razionalismo? E il genere umano non aveva mai vissuto fuori dalle grinfie dei suoi demoni e doveva per forza riaverli indietro! Oh, con quale sventurata, irrequieta, smaniosa, sanguinante, bisognosa, idiota, geniale creatura avevamo a che fare! E in che modo bizzarro giocava (lui, lei) con tutte le strane proprietà dell’esistenza, con tutte le specie di possibilità, con le bislaccherie di ogni genere, con l’anima del mondo, con la morte. Si poteva condensare il tutto in una o due asserzioni? Il genere umano non aveva la forza di sopportare l’assenza del futuro. Fino a quel momento, la morte era il solo futuro visibile.

Una famiglia, una cerchia di amici, un gruppo di esseri viventi avviava determinate cose, poi compariva la morte e della morte nessuno era preparato a prendere atto. Il dottor Gruner, era stato rivelato, aveva subìto un’operazione, una cosa da poco. Stavano veramente così le cose? Un’arteria che giungeva al cervello, la carotide, aveva cominciato a perdere attraverso le pareti sottili. Sammler era stato lento, riluttante ad afferrare quanto tutto ciò poteva significare. Forse aveva un motivo pratico per tale riluttanza. Dal 1947 in poi, lui e Shula erano stati a carico del dottor Gruner. Pagava loro l’affitto, inventava del lavoro per Shula, arrotondava gli assegni della previdenza sociale e quelli dell’indennità dalla Germania. Era generoso. Naturalmente era ricco, ma i ricchi, di solito, sono meschini, incapaci di separarsi dalle pratiche che hanno prodotto i soldi: lotta corpo a corpo, frode abituale, agilità pazzesca nell’inganno multiplo, le strane convenzioni della truffa legittima. Per il vecchio Sammler, che rifletteva, con quella sua faccia piccolina e rubizza, la protuberanza velata dell’occhio, e i baffi un po’ da gatto – un’isola meditativa sull’isola di Manhattan –, era chiarissimo che i ricchi che conosceva lui erano vincitori di lotte di criminalità, di criminalità lecita. In altre parole, trionfanti in forme d’inganno e di durezza di cuore considerate dall’ordine politico nel suo complesso come forme produttive; un genere di imbroglio o di furto o (nel caso migliore) di spreco che, nell’insieme, portava a un aumento del prodotto nazionale lordo. Aspettate un momento, però: Sammler si negava il privilegio dell’intellettuale dai nobili princìpi che deve sempre applicare il più puro degli standard dando poi dei gran pugni in testa al resto della sua specie. Quando cercava di immaginare un ordine sociale giusto, non ci riusciva. Una società non corrotta? Neppure quello riusciva a figurarsi. Nel suo ricordo, non c’erano rivoluzioni che non fossero state fatte in nome della giustizia, della libertà e della bontà pura. Il loro punto d’arrivo era sempre più nichilistico del loro punto di partenza. Perciò se il dottor Gruner era stato un uomo corrotto, bisognava gettare uno sguardo anche agli altri ricchi, per vedere che razza di cuori avevano. Non c’era dubbio. Il dottor Gruner, che si era fatto un mucchio di quattrini come ginecologo e ancora di più, in seguito, con la compravendita di beni immobili, era, nell’insieme, buono e aveva un gran senso della famiglia, molto, ma molto più di Sammler che in gioventù si era incamminato in una direzione completamente opposta, quella moderna di Marx-Engels-proprietà-privata-le-origini-dello-stato-e-della-famiglia.

Sammler aveva soltanto sei o sette anni più di Gruner, che si trovava a essere suo nipote per via di un buffo tecnicismo. Sammler era figlio di un secondo matrimonio, nato quando suo padre aveva sessant’anni. (Evidentemente anche il padre di Sammler era stato sessualmente intraprendente.) E il dottor Gruner aveva desiderato ardentemente uno zio europeo. Era elaboratamente ossequioso, decisamente cinese nel suo modo di osservare le antiche formalità. Aveva lasciato il Vecchio Continente all’età di dieci anni, era sentimentale nei riguardi di Cracovia, e voleva sempre parlare di nonni, zie, cugini con cui Sammler non aveva mai avuto molto a che fare. Non era facile spiegargli che quelle erano persone di cui lui aveva pensato di doversi liberare e a cagione delle quali era diventato così assurdamente britannico. Viceversa il dottor Gruner, dopo cinquant’anni, era ancora una specie di immigrante. Malgrado la grandiosa villa di Westchester e la Rolls Royce luccicante come una zuppiera d’argento, a copertura della sua garbata calvizie ebraica. Le rughe del dottor Gruner erano appena accennate. Esprimevano pazienza e a volte addirittura gioia. Aveva labbra grandi, nobili, che comunicavano anche pessimismo e ironia. La sua era una faccia simpatica, simpaticamente illuminata.

E Sammler, suo zio tramite la sorellastra – zio, in verità, solo per cortesia, per devoto desiderio di antiquariato di Gruner – veniva considerato (alto, anziano, straniero) come l’ultimo rappresentante di una vecchia, meravigliosa generazione. Il fratello di Mamma, lo Zio Artur, con i grandi ciuffi pallidi sopra gli occhi, le rughe sottili che fluttuavano augustamente sotto il cappello a larghe falde, forse un cappello romanticamente britannico. Sammler, dalla faccia del “nipote” con quel suo gran bel sorriso e le orecchie vistose, capiva che per Gruner il suo significato storico era considerevole. Anche le sue esperienze venivano rispettate. La guerra. Olocausto. Dolore.

Gruner, per via del suo bel colorito, a Sammler sembrava sempre in perfetta salute. Ma un giorno il dottore aveva detto: «È l’ipertensione, Zio, non la salute».

«Forse non dovresti giocare a carte.»

Due volte alla settimana, al suo club, per lunghissime ore, Gruner giocava a ramino o a canasta con poste decisamente alte. Così diceva Angela, che era compiaciuta del vizio del padre. Avevano dei vizi ereditari a cui far riferimento – lei e il fratello minore, Wallace. Wallace era un giocatore d’azzardo nato. Si era già fatto fuori i suoi primi cinquantamila dollari, con degli investimenti insieme a un gruppo della mafia a Las Vegas. O forse erano semplicemente dei mafiosi sedicenti, visto che non erano stati capaci di farsi una “posizione”. Lo stesso dottor Gruner era cresciuto in un quartiere di teppisti e a volte ricadeva nei modi di fare tipici di quella gente, facendo uscire le parole dall’angolo della bocca. Era vedovo. La moglie era un’ebrea tedesca, di un livello sociale più alto del suo, così pensava lei. I membri della sua famiglia erano stati pionieri nel 1848. Gruner era un immigrante Ostjude. Il compito della moglie era stato di raffinarlo, di aiutarlo ad avviare una professione sicura. La fu Mrs. Gruner era stata una persona perbene, educata, con gambe sottili, i capelli vaporosi ma irrigiditi dalla lacca, e abiti di Peck & Peck, geometricamente corretti, al millimetro. Gruner aveva creduto nella superiorità sociale della moglie.

«Non è il ramino che mi fa salire la pressione. Se non ci fossero le carte, ci sarebbe sempre la Borsa, e se non ci fosse la Borsa, ci sarebbe il condominio in Florida, ci sarebbe la causa con la compagnia di assicurazione, o ci sarebbe sempre Wallace. Ci sarebbe Angela.»

Temperando il suo grande affetto risplendente, unendo all’amore paterno gli improperi, Gruner bofonchiava «troia» quando la figlia gli si avvicinava con tutta la sua carne in movimento – cosce, fianchi e petto messi in mostra con una certa fasulla innocenza. Presumibilmente facendo impazzire gli uomini e infuriare le donne. A mezza bocca, Gruner diceva «Che oca!» o «Che sciamannata di fica!». Eppure, aveva sistemato le faccende finanziarie in modo tale che lei avesse abbastanza denaro per condurre una vita più che comoda con la rendita che incassava. Milioni di donne corrotte, osservava Sammler, disponevano di vere e proprie fortune per vivere. Creature sciocche, o anche peggio, sperperavano la ricchezza della terra. Gruner non sarebbe mai riuscito a sopportare i particolari che Sammler sentiva dalla viva voce di Angela. Lei non faceva che raccomandarsi: «Papà morirebbe se lo venisse a sapere». Sammler non era d’accordo: probabilmente Elya ne sapeva fin troppo. La verità naturalmente era nota a tutti gli interessati. La si vedeva tutta nei polpacci di Angela, nella scollatura delle sue camicette, nei movimenti delle punte delle dita, si udiva nella sonorità dei suoi bisbigli.

Era un po’ di tempo che il dottor Gruner, ogni tanto, diceva: «Ah, sì, la conosco quella puttana. Io Angela la conosco. E pure Wallace!».

Da principio Sammler non aveva capito che cosa fosse un aneurisma; da Angela aveva saputo che Gruner era in clinica per un intervento chirurgico alla gola. Il giorno dopo che il borsaiolo lo aveva messo all’angolo, andò all’East Side per far visita a Gruner. Lo trovò con il collo fasciato.

«E allora, Zio Sammler?»

«Elya – come stai? A vederti mi sembra che stai bene.» E dopo aver spianato con il lungo braccio il trench sul dietro, piegò le gambe magre e si sedette. Fra le punte delle scarpe nere grinzose e piene di crepe, sistemò la punta dell’ombrello e si appoggiò con tutt’e due le mani al manico ricurvo, inclinandosi verso il letto con garbo polacco-oxoniense. L’inappuntabile visitatore perfetto di un malato. Finemente, intricatamente rugoso, il lato sinistro della sua faccia assomigliava al tracciato di una mappa di un terreno dissestato.

Il dottor Gruner stava seduto eretto, senza sorridere. La sua espressione dopo tutta una vita trascorsa a presentare un aspetto bonario e allegro era, tuttora, preminentemente gradevole. Non aveva nessuna attinenza con la situazione del momento, era semplicemente abituale.

«Credo di trovarmi in mezzo a un bel guaio.»

«L’operazione è andata bene?»

«Ho un aggeggio in gola, Zio.»

«Per fare cosa?»

«Per regolare il flusso del sangue nell’arteria – la carotide.»

«Sul serio? Ma che cos’è? Una valvola o qualcosa del genere?»

«Grosso modo.»

«Ma dovrebbe ridurre la pressione?»

«Eh già, lo scopo sarebbe quello.»

«Uhm. Ebbene, sembra che funzioni, no? A vederti sei lo stesso di sempre, Elya. Normale, insomma.»

Evidentemente c’era qualcosa che il dottor Gruner non aveva intenzione di far trapelare. La sua espressione non era né iperdrammatica né torva. A Mr. Sammler parve di ravvisarvi non la durezza, ma piuttosto una curiosa specie di tesa leggerezza. Il dottore in clinica, in pigiama, era un buon paziente. Disse alle infermiere: «Questo è mio zio. Ditegli un po’ che tipo di paziente sono io».

«Ah, il dottore è un paziente meraviglioso.»

Gruner ci teneva che tutti quelli che gli stavano intorno gli dessero il loro affettuoso appoggio, la loro approvazione, che fossero ben disposti nei suoi confronti.

«Sono completamente nelle mani del chirurgo. Faccio esattamente quello che mi dice di fare.»

«È un buon medico?»

«Oh sì. È uno zoticone, uno di quei provincialoni rozzi della Georgia. Al college era un campione del football. Mi ricordo di aver letto il suo nome sui giornali. Giocava per il Georgia Tech. Comunque, professionalmente è molto bravo, e io mi limito a ricevere i suoi ordini, non discuto mai il mio caso.»

«Dunque sei completamente soddisfatto di lui?»

«Ieri la vite era troppo stretta.»

«E che problemi ti dava?»

«Be’, m’impasticciavo con le parole. Ho perduto un po’ di coordinazione. Come sai il cervello ha bisogno del suo rifornimento di sangue. E così me l’hanno dovuta allentare un’altra volta.»

«Ma oggi stai meglio?»

«Oh, sì.»

Gli portarono la posta e il dottor Gruner chiese allo Zio Sammler di leggergli un paio di articoli sul «Bollettino dell’Azionista». Sammler sollevò il giornale vicino all’occhio destro, facendo in modo che la luce della finestra si concentrasse sulla pagina. «Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti intenterà una causa per costringere la Ling-Temco-Vought a disfarsi delle proprie partecipazioni nella Jones and Laughlin Steel. Opponendo la sua iniziativa contro l’immenso conglomerato finanziario…»

«Questi conglomerati si stanno succhiando tutte le imprese commerciali del Paese. Mi hanno detto che ce n’è uno che ha acquistato tutte le imprese di pompe funebri di New York. Ho sentito che Campbell e Riverside sono stati comprati dalla stessa società che pubblica la rivista “Mad”.»

«Che fatto curioso.»

«E la gioventù è un affare d’oro. I ragazzini che vanno a scuola spendono cifre incredibili. Se un bel numero di ragazzi sceglie lo stesso stile, diventa “cool”, ci sarà un nuovo mercato di massa, e allora si parla di milioni.»

«Sì, un’idea generale ce l’ho.»

«C’è ben poco che se ne rimane fermo lì e basta. Per prima cosa devi farti i soldi, poi fare in modo che questi soldi non si riducano con l’inflazione. Come li investi, a chi devi credere – non si deve credere a nessuno –, che cosa te ne verrà, come li metti in salvo da quei ladri delle tasse federali, quell’orrore del fisco. E poi come li lasci… testamenti! Questi sono i problemi peggiori della vita. Strazianti.»

Lo Zio Sammler adesso capiva pienamente come stavano le cose. Suo nipote Gruner aveva in testa un’arteria difettosa dalla nascita che si era assottigliata e consumata per tutta una vita di pulsazione. Con la perdita di sangue, lenta ma continua, si era formato un grumo. E così tutta quella gelatina tremava. Era come se ti avessero convocato sull’orlo delle tenebre. Un qualsiasi battito del cuore avrebbe potuto aprire l’arteria e inondare di sangue il cervello. Questi fatti s’insinuarono con chiarezza nella mente di Sammler. Era l’ora? Quell’ora? Che cosa terribile! Ma sì! Elya sarebbe morto di emorragia. E lo sapeva? Certo che lo sapeva. Era medico, di conseguenza doveva saperlo per forza. Ma era un essere umano, per cui poteva inquadrare un mucchio di cose a modo suo. In altre parole: sapere e non sapere – uno degli “accomodamenti” umani più frequenti. Poi Sammler impegnandosi intensamente a osservare il nipote, concluse, dopo dieci o dodici minuti, che Gruner decisamente sapeva. Pensava che il momento d’onore di Gruner fosse giunto, quel momento in cui l’individuo poteva chiamare a raccolta le proprie qualità migliori. Mr. Sammler aveva avuto una lunga vita e capiva qualcosa di questi casi di nobiltà d’animo finale. Sempreché ci fosse tempo, ogni tanto venivano fatte delle buone cose. Sempreché uno avesse un certo tipo di fortuna.

«Zio, prova una di queste gelatine di frutta. Quelle di limoncella e d’arancia sono le migliori. Vengono da Beersheba.»

«Ma non fai attenzione a non ingrassare, Elya?»

«No. Adesso in Israele producono delle cose formidabili.» Il dottore da un po’ di tempo comprava obbligazioni e beni immobili israeliani. A Westchester serviva vino e brandy israeliani. Regalava penne biro d’argento incise a sbalzo, anch’esse fatte in Israele. Ci si potevano firmare gli assegni, con quelle. Per scopi comuni non servivano a molto. E un paio di volte il dottor Gruner, prendendo il suo cappello morbido e floscio, aveva detto: «Credo che me ne andrò a Gerusalemme per un po’».

«Quando parti?»

«Adesso.»

«Immediatamente?»

«Certo.»

«Ma come, così come ti trovi?»

«Così come mi trovo. Lo spazzolino da denti e il rasoio me li posso comprare quando arrivo. Mi piace tanto stare là.»

E poi si faceva accompagnare dallo chauffeur all’aeroporto Kennedy.

«Quando sarò in procinto di tornare, ti avviso con un telegramma, Emil.»

A Gerusalemme c’erano altri vecchi parenti come Sammler, e Gruner ricostruiva insieme a loro gli alberi genealogici, uno dei suoi passatempi preferiti. Più di un passatempo. Aveva una vera e propria passione per le parentele. Sammler lo trovava un fatto curioso, soprattutto per un medico. Come individuo la cui prosperità era stata fondata nel limo generativo femminile, avrebbe potuto nutrire un sentimento meno specifico per la propria tribù. Ma ora, vedendo una fatale aridità nelle occhiaie di Gruner, Sammler comprendeva meglio la ragione di tutto ciò. A ciascuno secondo i propri presagi. Erano dieci anni che Gruner non esercitava la sua professione. Aveva avuto un attacco di cuore e si era ritirato a vita privata con i proventi dell’assicurazione. Dopo un anno o due di pagamenti, la compagnia d’assicurazione insisté che stava abbastanza bene per tornare a esercitare, e quindi ne era nata una causa. Poi il dottor Gruner venne a sapere che le compagnie d’assicurazione tenevano, permanentemente a disposizione, i migliori talenti legali di New York. Gli avvocati migliori erano impegnatissimi, e i tribunali erano appositamente soffocati da processi per cause minori che interessavano le compagnie stesse, di modo che passassero anni prima che il suo caso fosse esaminato. Però aveva vinto ugualmente. O perlomeno stava per vincere. Il suo mestiere non gli era mai piaciuto – il coltello, il sangue. Era stato coscienzioso. Aveva fatto il suo dovere. Ma il suo mestiere non gli era mai piaciuto. Tuttavia, si faceva ancora fare una meticolosissima manicure, come un chirurgo che eserciti. E, qui in clinica, fu mandata a chiamare la manicure che, durante la visita di Sammler, aveva messo le dita di Gruner a mollo in una vaschetta di acciaio. La strana tinta delle dita maschili dentro la schiuma. La donna con la sua uniforme bianca, ogni singolo capello della sua testa senza collo tinto dello stesso identico colore nero, senza alcuna variazione, era un tipo tetro, con i piedi appesantiti dalle bianche scarpe ortopediche. Le spalle piene e grevi, stava piegata con i vari strumenti sulle unghie di Gruner, concentrata sul suo lavoro. Aveva un naso molto largo, come pregno di lacrime. Il dottor Gruner doveva corteggiarla, blandirla, per ottenere qualche reazione da lei. Persino da una creatura tanto lugubre.

Come forse non sarebbe accaduto più molte altre volte (per Elya), la stanza era invasa dalla luce del sole. Nella quale i corpi assumevano positure familiari. Dalla quale nel passato non erano emersi grandi risultati. Dalla quale poco ci si poteva aspettare in quell’ora tarda. Cosa sarebbe avvenuto se la manicure avesse preso in simpatia il dottor Gruner? E se avesse contraccambiato il desiderio di lui? In che consisteva il suo desiderio? Mr. Sammler era ossessionato da quegli infruttuosi, vani istanti di chiarezza. Vedendo la singolare creatura umana esigere di più allorché la somma dei fatti umani non poteva concedere più nulla. A Sammler non piacevano quei particolari istanti, ma ci si trovava in mezzo suo malgrado.

La donna spinse indietro le pellicine. Non c’era verso che si facesse tentare a guardare in su dalle sue gallerie sotterranee. Negava qualsiasi intimità.

«Zio Artur, mi potresti dire qualche cosa del fratello di mia nonna nel “Vecchio Paese”?»

«Chi?»

«Hessid, si chiamava.»

«Hessid? Hessid? Sì, c’erano degli Hessid.»

«Aveva un mulino per il granturco, e un negozio vicino al Castello. Un localetto da niente con qualche barile di roba.»

«Credo che ti sbagli. Io non ricordo nessuno della famiglia che macinasse qualche cosa. Comunque, tu hai un’ottima memoria. Migliore della mia.»

«Hessid. Un bel vecchio con una barba bianca, larga. Portava una bombetta in testa, e un gilet elegantissimo con orologio e catena. Veniva chiamato spesso a leggere la Torah, anche se certo non poteva essere un contribuente molto facoltoso della sinagoga.»

«Ah, la sinagoga. Be’, vedi Elya, io non avevo molto a che fare con la sinagoga. Noi eravamo quasi dei liberi pensatori. Specialmente mia madre. Aveva ricevuto un’istruzione polacca. Mi ha persino dato un nome emancipato: Artur.»

A Sammler dispiaceva di essere così poco esauriente nelle reminiscenze di famiglia. Dato che i contatti contemporanei erano abbastanza insoddisfacenti, avrebbe aiutato volentieri Gruner a costruirsi un passato.

«Volevo un gran bene al vecchio Hessid. Lo sai, io ero un bambino molto affettuoso.»

«Ne sono certissimo» disse Sammler. Se lo ricordava appena, Gruner, da bambino. Alzandosi, disse poi: «Non ti voglio stancare con una visita troppo lunga».

«Oh, non mi stanchi mica. Ma probabilmente avrai delle cose da fare. Alla biblioteca pubblica. Una cosa, però, prima che te ne vada, Zio – tu sei ancora abbastanza in forma. In quell’ultimo viaggio in Israele te la sei cavata molto bene, e non era certo cosa da poco. Ti piace ancora correre al Riverside Park, come facevi una volta?»

«Di recente no. Mi sento troppo anchilosato per quel genere di cose.»

«Be’, ti volevo dire che non è consigliabile correre da quelle parti. Non voglio che qualcuno ti aggredisca. Quando rimani senza fiato per correre, salta fuori qualche pazzo di un figlio di una mignotta e ti taglia la gola! In tutti i modi, anche se ti senti troppo rigido per correre, sei ben lungi dall’essere fiacco. So che non sei il tipo del malaticcio, a parte il tuo problema di nervi. Ricevi sempre quel mini-risarcimento dai tedeschi dell’Ovest? E la previdenza sociale? Sì, sono contento che abbiamo fatto sistemare tutto dall’avvocato per la faccenda dei tedeschi. E non voglio che tu ti preoccupi, Zio Artur.»

«Di che cosa?»

«Di qualsiasi cosa, di niente. La sicurezza, quando uno invecchia… Avere una casa. Tu stai con Margotte. È una brava donna. Avrà cura di te. Mi rendo conto che Shula è un po’ troppo pazzoide per te. Gli altri li diverte, ma suo padre no. Io lo so come vanno queste cose.»

«Sì, Margotte è una persona perbene. Non si potrebbe desiderare di meglio.»

«Be’, allora ricordati, Zio, niente preoccupazioni.»

«Grazie, Elya.»

Un momento di confusione, di apprensione, che s’insinuava nel petto, nella testa, e perfino giù nell’intestino e vicino al cuore, e dietro agli occhi – qualcosa che stringeva, faceva male, bruciava. La donna stava lucidando le unghie di Gruner, e lui se ne stava seduto eretto nella giacca del pigiama completamente abbottonata; più su, la fasciatura che nascondeva la gola, con la sua vite. Il viso grande, rubizzo, era nel complesso non bello; la sua calvizie, quelle orecchie grandi, sgraziate, la punta grossa del naso: Gruner apparteneva al ramo volgare della famiglia. Era tuttavia una faccia virile, la sua, e, una volta ignorate alcune obiezioni superficiali, una faccia gentile. Sammler conosceva i difetti di quell’uomo. Li vedeva come polvere e sassolini, come pietrisco sopra un mosaico, che si poteva facilmente spazzar via. Sotto tutto ciò, un’espressione bella, nobile. Un uomo su cui si poteva contare – un uomo che si preoccupava per gli altri.

«Tu sei stato buono con Shula e con me, Elya.»

Gruner non prese atto di quella dichiarazione, né la negò. Forse con la rigidità della sua posizione stornava una gratitudine che non gli spettava in pieno.

In poche parole, se la Terra merita di essere abbandonata, se adesso noi dobbiamo essere spinti a riversarci in altri mondi, cominciando dalla Luna, non è a causa di creature come te, Sammler avrebbe detto. Ma fu più breve: «Ti sono riconoscente».

«Tu sei un signore, Zio Artur.»

«Mi terrò in contatto.»

«Sì, torna. Mi fa bene.»

Fuori della porta rivestita di gomma per attutire i rumori, Sammler si mise il suo cappello all’Augustus John. Un cappello della Soho di una volta. S’incamminò per il corridoio col solito passo svelto, favorendo leggermente il lato di sé che vedeva bene, mettendo avanti la gamba destra e la spalla destra. Quando arrivò alla sala d’aspetto, una baia invasa dal sole con una mobilia di plastica color arancione, vi trovò Wallace Gruner con un medico in camice bianco. Era il chirurgo di Elya.

«Lo zio di mio padre – il dottor Cosbie.»

«Onoratissimo, dottor Cosbie.» La fragranza probabilmente sprecata delle buone maniere di Mr. Sammler! E chi c’era ormai che potesse notare quella roba da Vecchio Continente! Qui e là, forse, una donna poteva apprezzare il suo stile nel salutare. Ma un dottor Cosbie, no davvero. L’ex divo del football, famoso in Georgia, diede l’impressione a Sammler di essere una specie di muro umano. Alto e piatto. La sua faccia era misteriosamente silenziosa, e bianchissima. Il labbro superiore era spesso e prominente. La bocca in sé sottile e diritta. Alquanto inavvicinabile, tenne le mani dietro la schiena. Aveva l’aria di un generale la cui mente è tutta assorta in battaglioni che lottano all’ultimo sangue, appena fuori dal raggio della propria vista, su una collina. A un seccatore, un civile, che veniva da lui in quel momento non aveva nulla da dire.

«Come sta il dottor Gruner?»

«Fa dei buoni progressi, signore. Un ottimo paziente.»

Il dottor Gruner era dunque visto proprio come desiderava esser visto. Ogni occasione aveva la sua propaganda. La democrazia era propaganda. Dal governo in giù, la propaganda penetrava in ogni aspetto della vita. Avevi un desiderio, un’opinione, una linea di condotta, e la disseminavi. Sotto il tuo influsso prendeva piede, parlavano tutti dell’avvenimento nel modo appropriato. In questo caso, Elya, un dottore, un paziente, rendeva noto che era il paziente modello numero uno. Una debolezza accettabile; puerile, ma che c’era di male? La cosa aveva un certo interesse.

Faccia a faccia con un medico, Sammler aveva la sua di debolezza, poiché spesso voleva chiedere qualche cosa sui propri sintomi. Naturalmente ciò veniva represso. In tutti i casi l’impulso c’era. Avrebbe voluto dire che si svegliava con un rumore dentro la testa, che nell’occhio buono, pian piano, all’angolo, si formava una specie di macchiolina che non riusciva a mandar via, si bloccava nella piega dell’occhio, che di notte i piedi gli bruciavano in modo intollerabile, che soffriva di pruritus ani. I dottori non li potevano soffrire i profani che si servivano di termini medici. Tutto, naturalmente, venne censurato. Per ultima la tachicardia. A Cosbie non fu rivelato nulla, tranne un certo freddo colorito roseo, tipico delle persone anziane. Una mela d’inverno. Un vecchio con la mente affollata di pensieri. Lenti colorate. Cappello a larghe tese, tutto grinze. L’ombrello in una giornata di sole – incongruo. Scarpe lunghe e strette, piene di crepe ma perfettamente lucide.

Ma come, non sentiva niente nel cuore per Elya? Sì, soffriva per lui. Ma cosa poteva fare? Continuò a pensare, a vedere.

Come sempre, anche nel mezzo di una conversazione, Wallace, con i suoi occhi rotondi e neri, era con la testa fra le nuvole. Completamente. Anche lui aveva una carnagione molto bianca. Vicino alla trentina, era tuttora il fratello più piccolo, con i riccioli, le labbra di un bambino. Un po’ trascurato, forse, nelle sue abitudini di evacuazione – anche in questo caso proprio come un bambino –, spesso, quando faceva caldo, trasmetteva a Sammler (forse il naso di Sammler era ipersensibile) un odore, diciamo, leggermente non pulito, dal didietro. Appena appena l’ombra di una certa negligenza fecale. Non che questo offendesse il prozio. Veniva semplicemente rilevato da un apparato ricettivo peculiarmente delicato. Anzi, Sammler aveva una certa simpatia per quel giovanotto. Wallace apparteneva alla categoria delle Shula. C’era persino una somiglianza di famiglia, in particolare negli occhi – rotondi, scuri, larghi, riempivano le grandi orbite ossute, capaci di vedere tutto, ma sognando, sognanti, come drogati. Era uno svitato, diceva Angela. Con il dottor Cosbie stava discutendo di sport. Per Wallace non esistevano campi per cui provasse un interesse normale, comune. Per lui tutti gli interessi assumevano proporzioni fuori del comune. Veniva colto da una febbre sconvolgente. Cavalli, football americano, hockey, baseball. Conosceva tutte le medie, i record di ogni incontro, le statistiche. Lo si poteva interrogare con l’almanacco statistico alla mano. Il dottor Gruner diceva che il figlio era capace di alzarsi alle quattro di mattina per mandare a memoria le tabelle, mentre con la mano sinistra buttava giù cifre a velocità pazzesca. E insieme a tutto questo, la fronte intellettuale anche se leggermente pedomorfica, la raffinatezza del naso, un pochino troppo piccolo, e la parte centrale del viso, un tantino troppo concava, e un’espressione di potenza mentale, virilità, nobiltà, tutto vagamente sprecato. Wallace era stato sul punto di diventare un fisico, era quasi diventato un matematico, quasi avvocato (aveva persino superato l’esame di Stato per fare l’avvocato e una volta aveva aperto addirittura uno studio), quasi ingegnere, quasi libero docente in scienze del comportamento. Aveva il brevetto di pilota. Quasi alcolizzato, quasi omosessuale. Al momento sembrava facesse l’handicapper. Aveva dei fogli gialli formato protocollo zeppi di cifre e nomi di squadre, e insieme al dottor Cosbie che, a quanto pareva, giocava anche lui, stava esaminando quei calcoli plurimi, intricatissimi, e il dottore era affascinato sul serio, non era che lo facesse per compiacere Wallace. Quel Wallace slanciato, con l’abito scuro, era decisamente bello. Un giovane di incredibile talento. Una cosa sconcertante.

«Guardi che può sbagliarsi sulla partita al Rose Bowl» disse il dottore.

«No, no, assolutamente» disse Wallace. «Esamini semplicemente questa analisi di yardage. Mi sono studiato tutte le cifre dell’anno scorso e le ho inserite nella mia equazione personale: ora guardi bene…»

Questo fu quanto di quella conversazione Sammler riuscì a seguire. Aspettò per un po’ alla finestra osservando il traffico, le donne con i cani, al guinzaglio e non. Un edificio dirimpetto destinato alla demolizione, come indicavano i comuni contrassegni. Grosse “X” bianche sui vetri delle finestre. Sulla vetrina del negozio vuoto c’erano strane cifre o forse non-cifre dipinte con una vernice densa, bianca. Per la maggior parte tutte quelle scritte e scarabocchi si potevano ignorare. Ma quei segni in particolare, per qualche strano motivo, dettero l’impressione a Mr. Sammler di essere pertinenti. Indicativi. Ma di che cosa? Del futuro non-essere. (Elya!) Ma anche della grandezza dell’eternità che ci solleverà dalla futile condizione presente. Di questi tempi, le forze, le energie che avrebbero potuto sollevare l’umanità, la spingevano, invece, in basso. Per propositi di vita più nobili, c’era ben poco che fosse disponibile. Il terrore del sublime faceva impazzire tutte le menti. Le facoltà, le impressioni, le visioni ammassate negli esseri umani dall’origine di ogni cosa, forse fin dal tempo in cui la materia cominciò a dare i primi segni di consapevolezza, erano tutte legate in grande misura alle vanità, alle negazioni, e si rivelavano solamente in amorfi accenni o in cifre scarabocchiate sulle vetrine di negozi ormai condannati. Naturalmente tutti erano spaventati dal futuro. Non dalla morte. Da quel futuro, no. Un altro futuro in cui l’anima tutta si concentrava sull’essere eterno. Mr. Sammler credeva in questo. E nel frattempo c’era la scusa della pazzia. Una nazione intera, tutta la società civilizzata, forse, alla ricerca dello stato incensurabile della pazzia. Il privilegiato, quasi aristocratico status della pazzia. Intanto quei grossi geroglifici e quelle curve aperte sulla vetrina di un vecchio negozio di sarto davano voce al loro messaggio.

Fu in Polonia, in tempo di guerra, e particolarmente nei tre o quattro mesi che Sammler passò nascosto in un mausoleo, che cominciò a rivolgersi per la prima volta al mondo esterno per scorgervi strane cifre e segni premonitori. La vita morta di quell’estate, e poi l’autunno, quando era stato un osservatore in attesa di presagi, e molto infantile anche, poiché molte forme più vaste di significato erano state cancellate, e si doveva ricorrere a interpretare un filo di paglia, o la trama di un ragno o una macchia, un passero o un coleottero. Simboli ovunque, e messaggi metafisici. Nella tomba di una famiglia di nome Mezvinski lui era, per così dire, un pensionante. Il custode del cimitero del tempo di pace gli procurava un po’ di pane. Acqua, anche. Qualche giornata la saltava, ma non molte, e comunque Sammler si metteva da parte una piccola riserva di pane, e di fame non moriva. Sul vecchio Cieslakiewicz si poteva contare. Gli portava il pane dentro il cappello. Odorava di cute, di testa. E durante quel periodo tutto aveva una certa tinta gialla, una luce gialla nel cielo. In questa luce venivano diffuse cattive notizie per Sammler, cattive notizie per l’umanità, cattive informazioni sull’essenza stessa dell’essere. Qualche cosa di odioso, e a volte soverchiante. Nei momenti peggiori sembrava che le cose stessero così: Tu sei stato chiamato a essere. Chiamato a nascere dalla materia. E perciò eccoti qui. E sebbene il vasto disegno complessivo possa essere del più profondo interesse, ove nato da un Dio o da una fonte indeterminata che dovrebbe avere un nome diverso, tu, tu stesso, un’istanza finita, sei costretto ad aspettare, dolorosamente, ansiosamente, straziantemente, in questa gialla disperazione. E perché? Ma devi! E così lui rimaneva là disteso e aspettava. Questo, poi, non era tutto, quando Sammler stava a pensione nella tomba. Non era certo il momento giusto per pensare, forse, ma che altro c’era da fare? Non succedeva nulla. Gli avvenimenti erano cessati. Non c’erano notizie. Con i baffi spioventi, le mani gonfie scosse da un tremito, quei suoi brutti occhi azzurri, Cieslakiewicz – il salvatore di Sammler – non aveva notizie o perlomeno non ne dava. Cieslakiewicz aveva rischiato la vita per lui. Alla base di questo fatto c’era un che di molto strano. Provavano antipatia l’uno per l’altro. Che cosa c’era, in Sammler, che potesse ispirare simpatia? – mezzo nudo, affamato, capelli e barba appiccicati dalla sporcizia, uscito strisciando dalla foresta. La lunga esperienza con i morti, il dover maneggiare ossa umane, avevano forse preparato il custode all’apparizione di Sammler. L’aveva fatto entrare nella tomba dei Mezvinski, gli aveva portato degli stracci perché si potesse coprire. Dopo la guerra, Sammler aveva mandato del denaro, dei pacchi, a Cieslakiewicz. Teneva corrispondenza con la famiglia. Poi, dopo qualche anno, nelle lettere cominciarono a trapelare sentimenti antisemiti. Niente di particolarmente malvagio. Solo un accenno delle solite vecchie cose. Non fu una grande sorpresa, o comunque durò poco. Cieslakiewicz aveva avuto il suo grande momento di onore e di carità. Aveva rischiato la vita per salvare Sammler. Anche il vecchio polacco era un eroe. Ma l’eroismo era finito. Era un comune essere umano e voleva di nuovo essere se stesso. Quando era troppo era troppo. Non aveva forse il diritto di essere se stesso? Di lasciarsi andare ai vecchi pregiudizi? Era soltanto la persona “meditativa” con le sue eccezionali esigenze che continuava ad automolestarsi, responsabile nei riguardi di “valori più alti”, della “civiltà”, che s’impegnava, si sforzava, e così via. Erano i Sammler che seguitavano, vanamente, a tentare di realizzare un qualche compito simbolico. Il risultato principale di ciò era l’irrequietezza, la facilità a esporsi a complicazioni. Mr. Sammler aveva un carattere simbolico. Lui stesso, nella sua persona, era un simbolo. I suoi amici e la sua famiglia avevano fatto di lui un giudice e un sacerdote. E di che cosa era simbolo? Neppure lo sapeva. Dipendeva dal fatto che era sopravvissuto? Non aveva fatto nemmeno quello, dato che tanta parte della persona precedente era scomparsa. Non era sopravvivere, quello: era durare. Lui era durato. Poteva anche durare per un altro po’ di tempo. Un pochino più a lungo, evidentemente, di Elya Gruner con la pinza o la vite in gola. Quella no che non sarebbe riuscita a tenere lontana la morte per molto tempo. Una fuga improvvisa di liquido rosso, e l’uomo era spacciato. Con tutta la sua volontà, la sua determinazione, le sue virtù, il suo buon passato di medico, le sue imprese, le partite a carte, la sua lealtà verso Israele, l’antipatia per De Gaulle, con tutta la bontà del suo cuore, l’avidità del suo cuore, con la bocca che faceva l’amore appassionatamente con quello che di più manifesto esisteva, con i suoi discorsi di soldi, il senso ebreo della paternità, il suo amore e la sua disperazione per il figlio e la figlia. Quando la sua vita – o questa vita, quella vita, l’altra vita – se ne fosse andata, portata via, per Sammler sarebbe restata quella brutta letteralità, la luce gialla del caldo dell’estate polacca dietro la porta del mausoleo, sempre, fino a quando lui fosse durato. La stessa luce della stanza della cristalliera nell’appartamento in cui era stato costretto a vivere come confinato con Shula-Slawa. Interminabili ore letterali in cui si è rosi internamente. Rosi e mangiati perché manca la coerenza. Forse come punizione per aver fallito nel trovarla, la coerenza. O divorati da un desiderio ardente di sacralità. Sì, valla a trovare la sacralità, quando tutti si ammazzano fra di loro. Quando Antonina era stata assassinata. Quando lui stesso aveva subìto l’assassinio a fianco di lei. Quando lui e altri sessanta o settanta individui, tutti nudi come vermi, dopo essersi scavata la propria fossa, erano stati presi a fucilate e vi erano caduti dentro. Corpi sopra il suo corpo. Che lo schiacciavano. La moglie morta là vicino, da qualche parte. Quando lui, con una gran fatica, molto più tardi, si era sottratto al peso dei cadaveri serpeggiando fuori da quella terra smossa. Strisciando sulla pancia. Nascondendosi in una capanna. Trovando un cencio da mettersi addosso. Rimanendo accovacciato nei boschi per giorni e giorni.

E circa trent’anni dopo, nei giorni d’aprile, il sole che risplende, il tempo primaverile, un’altra stagione, l’agitazione e l’intensità di New York City, tutti segni della prossima primavera; appoggiato a un divano soffice, di finto cuoio, color arancione; i piedi su un tappeto finlandese marrone scuro con un centro o nucleo giallo – con fusi mitotici; guardando in giù, in una strada; in quella strada, la vetrina di un sarto artigiano sulla quale lo spirito del tempo, tramite la mediazione inconscia della mano di un ragazzo, aveva scarabocchiato il suo pronostico.

È dunque pazza la nostra specie?

Di prove ne esistono a bizzeffe.

Tutto, naturalmente, sembra un’invenzione dell’uomo. Inclusa la pazzia. Che può essere un’ulteriore creazione di quell’agonizzante inventività. Al livello attuale dell’evoluzione umana venivano sostenute delle proposizioni (e Sammler, in parte, oscillava tra l’una e l’altra) in base alle quali la possibilità di scelta era fra la santità e la pazzia. Noi siamo pazzi a meno che non siamo santi, santi esclusivamente se ci solleviamo al di sopra della pazzia. La trazione gravitazionale della pazzia che spinge il santo verso l’urto schiacciante. Alcuni possono comprendere che è la forza di compiere quotidianamente e prontamente il proprio dovere che produce santi ed eroi. Non molti. La maggioranza si fa trascinare da fantasie che nella loro spirale li conducono a condizioni di esistenza più alte, facendoli sentire appena sufficientemente matti per esservi idonei.

Prendete uno come Wallace Gruner. Il dottore era andato via, e Wallace, con i suoi fogli gialli, se ne stava là in piedi aggraziato, bello, con le sue ciglia lunghe. Quanta parte di normalità, quale stabilità era disposto a sacrificare, Wallace, per ottenere la benedizione della pazzia?

«Zio?»

«Ah sì, Wallace.»

Alcuni erano eccentrici, altri istrionici. Probabilmente Wallace era genuinamente squinternato. Doveva fare uno sforzo formidabile per interessarsi agli avvenimenti comuni. Poteva darsi che fosse per questo che le statistiche sportive lo piombavano in quello stato febbrile, delirante, che fosse per questo che tanto spesso sembrava trovarsi in orbita. Dans la lune. Be’, se non altro non trattava Sammler come un simbolo e, a quanto pareva, non sapeva che farsene di preti, giudici o confessori. Wallace diceva che ciò che apprezzava nello Zio Sammler era il suo spirito arguto. Soprattutto quando era molto irritato o si sentiva provocato, infastidito, Sammler diceva delle cose spiritose. Nel vecchio stile europeo. Spesso queste battute erano l’avvisaglia di un attacco nervoso.

Ma Wallace, quando cominciava una conversazione con Sammler, sorrideva immediatamente, e qualche volta ripeteva le spiritosaggini, le battute più felici pronunciate da Sammler.

«Una persona mal distribuita, Zio?»

Riferendosi a se stesso, una volta Sammler aveva osservato: «Io sono più stupido in certe cose che in altre; non sono egualmente stupido in tutte le direzioni; sono una persona mal distribuita».

Oppure, una di quegli ultimi tempi, tra le preferite di Wallace: «Il tavolo da biliardo, Zio. Il tavolo da biliardo».

Aveva a che fare con il viaggio di Angela in Messico. Lei e Horricker avevano trascorso una vacanza infelice in Messico. A gennaio lei non ne poteva più di New York e dell’inverno. Voleva andare in Messico, in un posto caldo, aveva detto, dove si potesse vedere qualcosa di verde. E allora all’improvviso, prima di avere la possibilità di frenarsi, Sammler aveva detto: «Caldo? Qualcosa di verde? Mi sembra che un tavolo da biliardo all’inferno risponderebbe perfettamente alla descrizione».

«Accidenti, oh! Quella mi ha fatto proprio sbellicare!» disse Wallace.

Più tardi chiedeva a Sammler se si ricordava le parole esatte. Sammler sorrideva, le sue piccole guance cominciavano ad arrossarsi, ma rifiutava di ripetere le sue battute. Wallace non era spiritoso. Lui non aveva queste uscite felici. Esperienza, però, ne aveva eccome, e la sua mente concepiva strani progetti. Parecchi anni prima aveva preso un aereo per Tangeri col proposito di comprarsi un cavallo e visitare il Marocco e la Tunisia così, in sella. Non si portava la Honda, aveva detto, perché la gente retrograda andava veduta in groppa a un cavallo. Da Sammler si era fatto prestare Riflessioni sulla storia universale di Jacob Burckhardt e ne era rimasto fortemente colpito. Voleva studiare le popolazioni nei vari stadi di sviluppo. Nel Marocco spagnolo fu derubato in un albergo. Da un uomo con una pistola, nascosto nell’armadio. Allora prese un aereo per la Turchia e tentò di nuovo. In un modo o nell’altro riuscì a entrare in Russia in sella al suo cavallo. Nell’Armenia sovietica venne messo in stato di fermo dalla polizia. Dopo che Gruner fu andato cinque o sei volte dal Senatore Javits, Wallace fu finalmente rilasciato e uscì di prigione. Poi, una volta rientrato a New York, Wallace, che aveva condotto una signora a vedere il film Nascita di un bambino, al momento vero e proprio della nascita svenne, batté la testa contro lo schienale di una poltrona e rimase in stato di incoscienza per un po’ di tempo. Quando rinvenne, si trovò sul pavimento. Si accorse allora che la sua compagna si era allontanata imbarazzata, aveva cambiato posto. Ebbe un litigio con lei perché l’aveva abbandonato a quel modo. Wallace, che aveva preso in prestito la Rolls del padre, se la fece sparire in qualche modo da sotto il naso: parcheggiata malamente, finì in fondo a un bacino di riserva dalle parti di Croton. Guidò un autobus che attraversava tutta la città per poter coprire i debiti. La mafia gli stava alle costole. Il suo allibratore gli aveva concesso due mesi per pagare. Le corse a handicap non avevano funzionato. Con un amico se ne andò in Perú, in aereo, con l’idea di scalare le Ande. Si diceva che fosse un bravissimo pilota. Aveva offerto a Sammler di portarlo con lui, lassù per aria («No, credo di no. Grazie lo stesso, Wallace»). Si era iscritto volontario nei Corpi della Pace destinati al servizio nazionale. Voleva aiutare in qualche modo i bambini neri, voleva fare l’allenatore di pallacanestro nei parco giochi.

«Wallace, esattamente, che ne pensa questo chirurgo delle possibilità di guarigione di Elya?»

«Gli farà delle altre radiografie alla testa.»

«Pensano a un intervento chirurgico al cervello, adesso?»

«Dipende se riescono o no ad arrivare al punto giusto. Possono pure non farcela. È chiaro che se non riescono a raggiungerlo, non ci riescono e basta.»

«A guardarlo non si direbbe mai che… Sembra che stia così bene.»

«Oh, sì» disse Wallace. «Perché no?»

Al che Sammler sospirò. Pensò a quanto doveva essere stata contenta la defunta Mrs. Gruner del suo Wallace, della sua bella testa, il collo lungo, i capelli ricci, le sopracciglia perfette, la breve linea netta del naso, e la linda nudità dei denti, opera di un valente odontoiatra.

«È congenito, l’aneurisma. Capita che uno nasca con un’arteria dalle pareti sottili. Potrei averne una anch’io. Pure Angela, chissà, benché mi sorprenderebbe che avesse qualche cosa di sottile da qualche parte. Ma la gente, gente giovane anche, a volte perfetta sotto ogni altro aspetto, ci crepa con questa faccenda. Se ne vanno in giro forti, belli, tutti pimpanti, e a un bel momento quella ti scoppia dentro. E muoiono. Da principio c’è una grande bolla. Diciamo come quella che le lucertole soffiano dalla gola. E poi la morte. Tu hai vissuto così a lungo, probabilmente in queste cose ti ci sei già imbattuto.»

«Anche per me, c’è sempre qualcosa di nuovo, un pochino.»

«Le parole incrociate dell’altra settimana erano parecchio difficili, sai, quelle di domenica. Ci hai provato, tu?»

«No.»

«Be’, qualche volta le fai.»

«Margotte non ha portato a casa il “Times”.»

«È straordinario come si scoprono le parole.»

Per alcuni mesi Wallace aveva davvero esercitato la professione di avvocato. Il padre gli aveva preso uno studio in affitto; la madre glielo aveva ammobiliato, chiamando addirittura Croze, l’arredatore d’interni. Per sei mesi Wallace si era alzato puntualmente come un qualsiasi altro pendolare ed era andato al lavoro. Ma si scoprì che in ufficio non faceva altro che risolvere parole incrociate: chiudeva la porta a chiave, staccava il telefono, e si sdraiava sul divano in pelle. E questo era quanto. No, c’era un’altra cosa: sbottonava il vestito della stenografa e le esaminava i seni. Questa informazione l’aveva avuta da Angela che, a sua volta, l’aveva avuta direttamente dall’interessata. Perché la ragazza lo permetteva? Forse pensava che la cosa avrebbe condotto al matrimonio. Porre delle speranze in Wallace? Nessuna donna con la testa sul collo lo avrebbe fatto. Ma il suo interesse per i seni evidentemente era stato di carattere scientifico. C’entrava in qualche modo con i capezzoli. Come Jean-Jacques Rousseau, il quale si era talmente fissato con i seni di una prostituta veneziana che lei l’aveva spinto via e gli aveva detto di andarsi a studiare la matematica. (Altro materiale che proveniva dalle vaste letture dello Zio Sammler, dalla sua cultura europea.)

«Questi tipi che preparano le parole incrociate non mi piacciono. Hanno dei cervelli scarsi» disse Wallace. «Perché poi la gente dovrebbe sapere tutte quelle stupidaggini? È proprio roba da gente dei College-Costa-dell’Est-e-tutto quel che segue. Un pot-pourri di nozioni da ragazzi sapientoni della Columbia University che sanno proprio tutto. Bravate del genere. Anzi, ti ho pure telefonato per sapere di un’antica danza inglese. Giga, “reel” e “hornpipe” era tutto quel che mi veniva in mente. Ma questo invece cominciava per “m”.»

«Con “m”? Avrebbe potuto essere moresca

«Oh, porca miseria! Certo che era moresca. Cristo, il cervello ti funziona a meraviglia, però. Ma come fai a ricordartelo?»

«Milton, ComusUn’ondeggiante moresca incontro alla luna

«Ah, carino. Eh, ma questa è proprio deliziosa, Un’ondeggiante moresca

«“In ondeggiante moresca vanno incontro alla luna.” Sono i pesci, a miliardi, credo, e i mari stessi, che eseguono la danza.»

«Oh, ma è una cosa splendida. Evidentemente tu vivi bene se riesci a ricordarti queste belle cose. La tua mente non è divorata dagli affari, dagli stupidi affari. Sei proprio un vecchio notevole, Zio Artur. La gente vecchia non mi piace. Non rispetto molte persone – qualche scienziato, qualche fisico. Ma tu – tu da un certo punto di vista sei molto austero, però hai un buon senso dell’umorismo. Le uniche barzellette che racconto sono quelle che sento da te. A proposito, mi voglio assicurare di aver capito bene quella di De Gaulle. Lui ha detto che non voleva essere sepolto sotto l’Arco di Trionfo vicino a un ignoto. À côté d’un inconnu. Giusto?»

«Fino qui, almeno, sì.»

«Mio padre ce l’ha a morte con De Gaulle perché corteggia gli arabi. A me invece De Gaulle piace perché è un monumento. E non accetterebbe di andare agli Invalides con Napoleone, che era soltanto uno schifoso caporale.»

«Sì.»

«Però gli israeliani gli volevano far pagare centomila verdoni per un posto nel Santo Sepolcro.»

«Appunto, la freddura è proprio qui.»

«E De Gaulle ha detto: “Per tre giorni? Troppo caro”. Pour trois jours? Sarebbe resuscitato, no? Ora, per conto mio, questo è molto buffo.» Il solenne giudizio di Wallace. «Ai polacchi piace da morire raccontare barzellette» disse. Lui non aveva nessun senso dell’umorismo. Soltanto di rado gli capitava di ridere.

«I popoli sconfitti tendono a essere spiritosi.»

«A te, Zio, i polacchi non piacciono molto, eh?»

«Credo che nel complesso piacciano più loro a me di quanto io piaccia a loro. E poi, una volta è stato proprio un polacco a salvarmi la vita.»

«E Shula nel convento.»

«Sì, anche quello. L’hanno tenuta nascosta le suore.»

«Io me la ricordo Shula, anni fa, a New Rochelle, che scendeva le scale in camicia da notte, e non era certo una ragazzina, avrà avuto ventisette anni o giù di lì, e poi s’inginocchiava davanti a tutti in salotto e pregava. Ma che faceva, parlava in latino? Comunque sia, quella camicia da notte era maledettamente trasparente. Io credevo che cercasse di farti uscire dai gangheri, con quella scenetta cristiana. Era come un insulto, no?, in una casa ebrea. Ebrea, poi! Ma Shula è ancora tanto cristiana?»

«A Natale e a Pasqua, un pochino.»

«E poi ti rompe le scatole con H.G. Wells. Ma i padri sono indulgenti con le figlie. Guarda papà quanto favorisce Angela. Le ha dato dieci volte più che a me. Perché gli ricordava Mae West. Quando le guardava le poppe sorrideva sempre. Lui non se ne rendeva conto, però mamma e io lo vedevamo.»

«Cosa credi che succederà, Wallace?»

«A papà? Non ce la farà. Ha il due per cento delle possibilità di cavarsela. A che gli serve quella vite?»

«Sta lottando, però.»

«Qualunque pesce lotta. Un uncino nella branchia. E proprio quel pesce viene scaraventato nella parte sbagliata dell’universo. Dev’essere come affogare nell’aria.»

«Ah, è terrificante.»

«Eppure, per certi individui la morte è la benvenuta. Se hanno rovinato la loro partita di merci, io sono convinto che molti preferirebbero essere morti. Quello che sto scoprendo è che quando i tuoi genitori sono vivi, stanno fra te e la morte. Sono loro che se ne devono andare per primi, e quindi tu ti senti abbastanza al sicuro. Ma quando muoiono, allora è il turno tuo, e avanti a te, in fila, non c’è nessun altro. Allo stesso tempo mi accorgo già che, emotivamente, sto sbagliando tutto quanto, e so che più tardi la dovrò pagare. Io faccio parte del sistema, che mi piaccia o no.» Un altro momento di silenziosa, aberrante riflessione – Mr. Sammler avvertiva la densità e la sregolatezza dei pensieri di Wallace. Poi Wallace disse: «Chissà perché il dottor Cosbie si appassiona tanto ai pronostici del football».

«E tu no?»

«No, mica come un tempo. È stato papà a dirgli che io so un sacco di cose del football professionale, e anche di quello del college. Ma ormai tutte queste faccende per me sono acqua passata. Però era come se papà mi offrisse al chirurgo, in modo che io potessi fare qualcosa per lui, capisci, in modo che saremmo tutti stati amiconi.»

«Ma c’è qualche altra cosa che ti appassiona adesso?»

«Sì, io e Feffer abbiamo un’idea commerciale. Praticamente non riesco a pensare ad altro.»

«Ah, Feffer. Mi ha abbandonato alla Columbia, e da allora non l’ho più visto. Mi sono perfino chiesto se cercasse di far soldi servendosi di me.»

«Per gli affari ha un’immaginazione incredibile. Quello imbroglierebbe chiunque. Ma forse non te. Sta’ a sentire in che consiste la nostra idea, la nostra impresa. Fotografie aeree di case di campagna. Poi il rappresentante ti arriva in casa con la fotografia – non semplici provini, capisci, ma la fotografia sviluppata e stampata – e ti offre un pacchetto, tutto compreso. Noi ci occuperemo di identificare gli alberi e i cespugli in loco, poi ci metteremo i loro nomi, il tutto molto elegante, in latino e in inglese. Sai, la gente si sente ignorante riguardo alle piante che ha nella sua proprietà.»

«E Feffer gli alberi li conosce?»

«Mah, in ogni zona assumeremmo un laureando in botanica. Per esempio nella Contea Duchess potremmo prendere una studentessa di Vassar.»

Mr. Sammler non poté fare a meno di sorridere. «Così Feffer seduce la ragazza più la padrona di casa.»

«Oh, no. Ci penserei io a vedere che non si scatenasse eccessivamente. Io riesco a controllarlo quel tipo, sai. Ma è un venditore di primissimo ordine. La primavera è un periodo buono per cominciare. Proprio adesso. Prima che le foglie diventino troppo folte per ottenere buone fotografie aeree. D’estate ci potremmo lavorare Montauk, Chilmark, Wellfleet, Nantucket, in questo caso dal mare. Mio padre i soldi non me li darà.»

«Si tratta di una grande somma?»

«Un aeroplano e un’attrezzatura? Eh sì, considerevole, direi.»

«Intendi comprare un aeroplano, non prenderlo in affitto?»

«Noleggiarlo non ha nessun senso. Se lo compri puoi detrarre il costo dalle tasse – come ammortamento. Il segreto degli affari è assicurarsi che sia il governo a sobbarcarsi il rischio. Nella categoria di contribuenti di papà noi risparmieremmo settanta centesimi al dollaro. Il fisco ti rovina. Papà non manda neppure una dichiarazione congiunta e non risulta capofamiglia dal tempo che è morta mamma. Non me la vuole dare un’altra somma forfettaria, in una botta sola. È tutto vincolato in un trust, per cui devo vivere per forza sulla rendita che mi frutta. Quando mi si è presentata l’occasione buona, ho buttato via cinquantamila dollari in quella boutique.»

«Al gioco, credevo. Las Vegas.»

«No, no, era un complesso alberghiero a Las Vegas, e noi avevamo il negozio di abbigliamento, la boutique per uomini.»

Wallace sarebbe stato un accanito vestitore e adornatore di corpi maschili.

«Zio Artur, io avrei piacere che tu facessi parte del nostro staff. Feffer è d’accordo. Feffer ti vuole un gran bene, sai? Se non ti va, vuol dire che ci prendiamo Shula a cinquanta dollari la settimana.»

«E in cambio di questo? Vuoi che parli con tuo padre?»

«Adopera la tua influenza.»

«No, Wallace. Temo che non potrei. Insomma, pensa a quello che sta succedendo. È terribile. Io sono terrorizzato.»

«Ma mica lo metteresti in agitazione, sai? Lui ci pensa e poi ci ripensa, che tu gli parli o no. Se non è zuppa è pan bagnato. Ci rimugina sopra comunque.»

«No, no.»

«Be’, questa è una decisione che devi prendere tu. Però c’è un’altra faccenda. Ci sono dei soldi a casa, a New Rochelle. Dentro casa.»

«Come hai detto?» Per la curiosità, per l’incertezza, la voce di Sammler aumentò di volume.

«Contanti, nascosti. Una grossa somma. Mai dichiarata.»

«Non può essere.»

«Certo che può essere, Zio. Tu ti sorprendi. Eh, se soltanto l’interno di una persona fosse chiaro e semplice come un’anguria – polpa rossa, semi neri… Ogni tanto, come favore a persone altolocate, papà ha eseguito degli interventi. Dilatazioni e raschiamenti. Esclusivamente quando si presentava una situazione molto critica, quando qualche ragazza dell’alta società, un’ereditiera, si trovava incinta. Top secret. Soltanto per compassione. Il mio papà sentiva compassione per famiglie famose, e quelli gli hanno fatto dei bei regaloni in contanti.»

«Wallace, guarda. Parliamoci chiaro. Elya è un brav’uomo. Ormai è vicino alla fine. Tu sei suo figlio. Sei stato educato a pensare che per la tua salute devi demolire il padre. Hai avuto una vita travagliata, lo so. Però è arrivato il momento che a questa lotta antiquata, a questa lotta psicologica contro la famiglia capitalistica ci rinunci. Basta. Io questo te lo dico perché fondamentalmente tu sei una persona intelligente. Hai fatto molte cose bizzarre. Certo nessuno potrebbe definirti noioso. Ma puoi diventarlo, se non la smetti. Ora ti potresti ritirare onorevolmente con numerose esperienze interessanti di cui puoi sempre valerti. Ma adesso basta. Dovresti provare a fare qualcosa di diverso.»

«Be’, Zio Sammler, tu sei una persona molto educata. Lo so. In un certo qual modo, sei anche, diciamo, distaccato. Come se fossi distante dalla vita. Con tutto ciò sopporti i vari numeri e le buffonate della gente. È semplicemente la tua politesse polacca dei bei tempi andati. Però qui si tratta anche di una questione pratica. Pratica e nient’altro.»

«Pratica?»

«Mio padre ha un tot di dollari in casa, e non c’è verso che dica dove si trovano. Ce l’ha con noi. È lui che sta nel bel mezzo della lotta psicologico-famigliare-capitalistica. Tu hai perfettamente ragione – perché mai una persona deve logorarsi la salute con questa febbre nevrotica? Nella vita esistono finalità più alte. Io non credo mica che siano merda. Ben lungi. Ma vedi, Zio, se io riesco a prendermi quell’aeroplano, posso avere una entrata fissa con poche ore di volo e passare il resto del tempo a leggere filosofia. E magari conseguire il Ph.D. in matematica. Ora ascolta bene. Le persone sono come numeri primi. Lo capisci?»

«No, certamente no, Wallace.»

«Anche i numeri hanno una relazione importante con le persone. La serie dei numeri è come la serie degli esseri umani – numeri infiniti di individui. Le caratteristiche dei numeri sono come le caratteristiche della materia, altrimenti le espressioni matematiche non potrebbero dirci che cosa farà o potrà fare la materia. Le equazioni matematiche ci conducono alle realtà fisiche. Cose ancora non viste. Come la turbolenza dei gas riscaldati. Capisci adesso?»

«Soltanto vagamente.»

«Le equazioni hanno preceduto le osservazioni effettive. Perciò quello che ci serve è un sistema analogo di segni per gli esseri umani. In questo sistema, che cos’è Uno? Com’è il numero intero umano? Be’, vedi, adesso hai fatto sì che ti parlassi seriamente. Ma soltanto per un minuto o due, voglio andare avanti con quell’altra faccenda. In casa ci sono dei soldi. Io ho tanto l’idea che ci siano delle finte tubature che attraversano la soffitta nelle quali lui ha nascosto i soldi. Una volta si fece dare in prestito uno stagnino della mafia. Lo so per certo. Tu potresti semplicemente fare casualmente un’allusione alle tubature in genere o alle soffitte, la prossima volta che ci parli. Vedi un pochino come reagisce. Può anche decidere di dirtelo. Non ci tengo mica a buttar giù la casa.»

«No, certamente no» disse Sammler.

Che cos’è, Uno?


III

Sulla strada di casa.

Nella Seconda Avenue il raschiare primaverile dei roller-skate giungeva da marciapiedi sgretolati risuonanti a vuoto, un rumore duro, che calmava. Lasciandosi dietro le spalle la New York dei palazzi ammassati l’uno sull’altro, e penetrando in quella New York più vecchia, di palazzi in arenaria e ferro battuto, Mr. Sammler scorse, attraverso dei grossi cerchi neri di una inferriata, tulipani e giunchiglie, le bocche di quei fiori aperte e risplendenti, ma sul giallo puro il deposito della fuliggine si era già installato, spruzzandolo di nero. In questa città uno si poteva mettere a fare il lavatore di fiori. Ecco un’altra idea commerciale per Wallace e Feffer.

Fece un giro intorno a Stuyvesant Park, un’ellisse dentro un quadrato con la statua dell’Olandese con la gamba di legno, gli angoli tutti irsuti di cespugli. Battendo sul lastricato col puntale dell’ombrello ogni tre passi, Sammler portava sotto il braccio il manoscritto del dottor Govinda Lal. L’aveva preso con sé per leggerselo in metropolitana, sebbene non gli piacesse venire notato in pubblico mentre si passava le pagine avanti e indietro nel cerchio focale dell’occhio, scostando leggermente la tesa del cappello, il viso intensamente concentrato. Era una cosa che faceva di rado.

Tracciate una perpendicolare partendo dalla Luna. Fatele intersecare una tomba. Dentro, un uomo fino ad allora accudito, tenuto al caldo, con le unghie lucide e ben curate. Giungevano quegli intensi colori dell’arcobaleno. Deterioramento. Un tempo Mr. Sammler aveva stabilito un rapporto di gran lunga più facile con la morte. Aveva perduto terreno, era retrocesso. Era tutto compreso del nipote, un uomo assai diverso da lui. Lo ammirava, gli voleva bene. Non riusciva a fronteggiare la totalità dei fatti che lo riguardavano. Considerazioni remote sembravano fornire qualche aiuto – la Luna, la sua assenza di vita, la sua assenza di morte. Una perla bianca, corrosa. Da un occhio solo, vista come un solo occhio.

Sammler aveva imparato a fare attenzione camminando per le strade di New York, infallibilmente insudiciate dai cani. Nelle aiuole recintate da piccole inferriate, le luci verdi dell’erba erano praticamente spente, bruciate dagli escrementi degli animali. I sicomori, la corteccia butterata, ma molto bella, bianca e marrone, si stavano preparando a far spuntare le foglie. In pietra rossa, la Friends Seminary School, e in pietra ruvida, rossiccia, calda, goffa, larga, solida, la Chiesa Episcopale di St. George. Sammler aveva sentito dire che John Pierpont Morgan, quello vero, il primo, era stato un fabbriciere di quella chiesa. Nell’antichità austro-ungarico-polacco-cracoviana i vecchi che avevano letto di Morgan sui giornali ne parlavano con grande stima chiamandolo Piepernotter-Morgan. Nella chiesa di St. George, la domenica, il dio degli agenti di cambio per un po’ riusciva a respirare senza fatica in quella città turbolenta. Nei suoi pensieri, Mr. Sammler era risentito con l’America bianca e protestante che non era in grado di mantenere l’ordine. Cedeva, codardamente. Non era una classe dirigente forte. Ben lieta, in maniera segreta e umiliante, di abbassarsi e di mischiarsi con tutte le varie plebaglie minoritarie, anzi pronta a urlare e a inveire contro se stessa. E il clero? Trasformava le spade in aratri? Macché, al contrario trasformava collari in perizomi. Ma questo c’entrava come i cavoli a merenda.

Stava attento a dove metteva i piedi (per via dei cani), cercando una panchina per riposarsi dieci minuti, per pensare o evitare di pensare a Gruner. Forse, malgrado la grande tristezza, per leggere qualche paragrafo di quell’affascinante manoscritto sulla Luna. Notò un’accattona che, sbronza, dormiva come un dugongo, la pancia da tricheco che si sollevava, le gambe gonfie, viola; un vestito corto, un mini-straccio. In un angolo dell’inferriata un altro ubriacone stava pisciando tutto imbronciato su giornali e vecchie foglie. I poliziotti raramente badavano a questi derelitti dei tempi andati. Lì c’era anche gente più giovane, dall’aria autoctona. Piedi nudi, i ragazzi come mendicanti di Bombay, le barbe appiccicate e grumose, respiravano peluria lussureggiante dalle narici, con le teste che spuntavano fuori da ponchos alla peruviana. Indigeni di qualche dove. Innocenti, privi di qualsiasi aggressività, avevano semplicemente optato per la non partecipazione, proprio come Toro Ferdinando. Niente corrida per loro; solo i fiori profumati sotto il bell’albero di sughero. Ed erano anche molto simili agli Eloi del romanzo fantasy di H.G. Wells, La macchina del tempo. Belle e giovani mandrie umane guidate dai cannibalistici Morlock che conducevano una vita sotterranea e temevano la luce e il fuoco. Sì, quell’ometto coraggioso e agguerrito di Wells in fondo aveva avuto delle visioni profetiche. Shula non aveva poi tutti i torti a continuare a insistere perché quelle memorie venissero scritte. Le memorie bisognava scriverle. Solo che rimaneva poco tempo per una narrazione tranquilla e distesa su questo e quell’altro, su cose abbastanza curiose in sé, come il fatto che Wells a settantotto anni ancora sgobbasse come un matto per farsi ammettere alla Royal Society – il suo lavoro (sui vermi?) non era ritenuto accettabile. No, i vermi no. «La qualità dell’illusione nella continuità della vita individuale nei metazoi superiori.» Non lo volevano nominare membro della Società. Ma per far luce su tutto questo ci sarebbero volute settimane, e per Sammler non esistevano settimane libere. Aveva altre necessità, priorità più alte.

Non avrebbe neppure dovuto leggere quello – con “quello” intendeva le pagine di Govinda Lal scritte con un inchiostro color bronzo e con una calligrafia antiquata. Vergava dei caratteri gotici. Ma Mr. Sammler, avendo ormai letto parecchio, non seppe resistere al fascino autentico. A pagina settanta, Lal aveva cominciato a speculare su organismi probabilmente capaci di adattarsi a condizioni di esposizione lunare. Non c’erano piante che avrebbero potuto ricoprire la superficie della Luna? L’acqua e il biossido di carbonio sarebbero stati indispensabili, si sarebbe dovuto trovare un sistema per resistere alle punte estreme della temperatura. I licheni, secondo Govinda, probabilmente ce l’avrebbero fatta. Anche certi esemplari della famiglia dei cactus. La pianta trionfante, un misto di lichene e cactus, sarebbe certo sembrata strana agli occhi dell’uomo. Ma le capacità della vita sono già adesso inconcepibilmente svariate. Quali impossibilità non ha dovuto affrontare la vita? Chi lo sa che cosa potrebbero ancora rivelare le profondità dei mari? Esseri viventi, forse addirittura uno per ciascuna specie. Un grottesco individuo che ha trovato il proprio equilibrio sotto venti miglia d’acqua. C’è poco da stupirsi, diceva Govinda, che gli esseri umani diano tanta importanza alle future possibilità realizzabili e dimostrino tanta impazienza di sganciarsi dalla superficie della Terra. L’immaginazione è un potere biologico innato che cerca di superare condizioni impossibili.

Mr. Sammler sollevò la faccia, conscio che qualcuno si stava avvicinando a lui in gran fretta. Vide Feffer. Sempre di corsa. Feffer era robusto, tarchiato, sarebbe dovuto dimagrire un po’. La schiena gli dava dei fastidi, e di tanto in tanto portava una cintura elastica ortopedica. Grande e grosso, con un colorito fresco, con la barba viva e castana alla Francesco I e il naso diritto, sembrava sempre che Feffer esigesse velocità dal proprio corpo, dalle proprie gambe. Un’urgenza praticamente incessante. Le mani, goffe e rosa, le teneva sollevate come se avesse paura di andare a cozzare contro un’altra irruenza e fretta simili alle sue. Gli occhi marroni erano a forma di chiave. Invecchiando, gli angoli avrebbero avuto un intaglio più elaborato.

«Lo pensavo che probabilmente si sarebbe fermato qui per un momento» disse Feffer. «Wallace mi ha detto che era appena uscito, e mi sono precipitato giù.»

«Davvero? Ebbene, c’era il sole e non avevo alcuna fretta di scendere nella metropolitana. Non ti ho più visto dal giorno della conferenza.»

«Appunto. Dovetti andare al telefono. Mi dicono che lei è stato magnifico. Mi scuso sinceramente per la condotta degli studenti. Ecco come si comporta la mia generazione! Io non so neppure se fossero veri studenti o dei “duri” genericamente parlando – capisce, no?, militanti, gente che ha interrotto gli studi. Ma non sono i ragazzi a cominciare i disordini. Tutti i leader sono più vecchi. Però Fanny si è occupata di lei, no?»

«La signorina?»

«Non è che io sia semplicemente scomparso, sa. Ho dato l’incarico a una ragazza di occuparsi di lei.»

«Ho capito. Sua moglie, per caso?»

«No, no» sorrise veloce Feffer, e altrettanto velocemente continuò, sedendosi sul bordo della panchina. Portava una giacca di velluto blu a doppio petto, con i bottoni di madreperla. Appoggiò il braccio sullo schienale della panchina e, affettuosamente, vicino alla spalla di Sammler. «Non è mia moglie. È solo una ragazza che ogni tanto mi fotto, e di cui mi prendo cura, diciamo.»

«Capisco. Sembra tutto così rapido. Io ho l’impressione che i tuoi contatti abbiano qualcosa di elettronico. Non te ne saresti dovuto andare. Io ero tuo ospite. Suppongo sia troppo tardi perché tu impari un po’ di buona educazione. Comunque, la ragazza è stata molto carina. Mi ha guidato fuori dell’aula e poi mi ha fatto strada. Io non mi aspettavo una ressa di gente a quel modo. Ho pensato che forse tu ti facessi un po’ di soldi su di me.»

«Io? No. Mai. Mi creda – no. Era davvero una manifestazione di beneficenza per i bambini neri, proprio come le avevo detto. Mi deve credere, Mr. Sammler. Non la imbroglierei per nulla al mondo. Ho troppo rispetto per lei. Lei potrà non saperlo, o potrà non attribuire importanza alla cosa, ma per me lei ricopre un ruolo speciale, che è praticamente sacro. La sua vita, le sue esperienze, la sua personalità, le sue opinioni – oltre alla sua anima. Ci sono rapporti umani per cui farei qualsiasi cosa pur di proteggerli. E se non mi avessero chiamato al telefono, gli avrei spaccato la testa a quel tizio. Io lo conosco quel pezzo di merda. Ha scritto un libro sugli omosessuali in prigione; è un Jean Genet da quattro soldi. Sodomia dietro le sbarre. Oppure sentirsi un puro angelo cristiano perché commetti un assassinio e hai delle bellissime relazioni amorose con i maschi. Lei sa come vanno queste cose.»

«Ne ho un’idea generale. Però tu mi hai fatto credere una cosa per un’altra, Lionel.»

«Ma non volevo. All’ultimo momento un oratore non si è presentato a un’altra conferenza organizzata per gli studenti, e alcuni dei miei compagni, in preda al panico, mi hanno contattato. E mi sono trovato di fronte l’occasione di prendere due piccioni con una fava. Quanto al progetto di miglioramento della capacità di lettura, ho desunto che per lei non avrebbe avuto tanta importanza, che lei avrebbe capito. Così ho stretto un accordo. Un accordo vantaggiosissimo.»

«Qual era l’argomento del conferenziere che non si è presentato?»

«Sorel e la violenza moderna, mi pare.»

«E io ho parlato di Orwell e di quanto fosse equilibrato.»

«Un sacco di giovani radicali vedono Orwell come parte della gang degli anticomunisti della Guerra fredda. Lei non avrà mica lodato sul serio la Marina Reale britannica?»

«È questo che hai sentito dire?»

«Se non fosse stata una telefonata così importante non me ne sarei andato. Era questione di comprare o non comprare una locomotiva. Il governo federale crea queste situazioni incredibili con detrazioni fiscali eccetera per incoraggiare gli investimenti. Ti dicono, in altre parole, dove devono andare i dollari. Uno può comprare un jet e darlo in affitto alle linee aeree. O dare a nolo una locomotiva alla Penn Central o alla B & O. Gli investimenti sul bestiame ricevono incoraggiamenti analoghi.»

«Ma tu guadagni già somme tanto considerevoli da aver bisogno di detrazioni fiscali?»

Sammler non voleva indurre Feffer a una conversazione piena di fantasticherie, esagerazioni, visioni, menzogne. Non sapeva quanto di ciò che inventava quel giovanotto fosse semplicemente inteso a far colpo, a divertire. Feffer aveva una strana necessità di agghindarsi con il broccato delle vanterie. Soldi, tracotanza – fissazioni ebree. Anche americane? Non avendo informazioni a sufficienza sull’America contemporanea, Sammler non si arrischiava troppo a formulare giudizi. Non era, comunque, per gentilezza che ascoltava quelle sue smargiassate. Sammler apprezzava la grande vitalità presente in Feffer, il colore meraviglioso e vivido delle sue guance, i suoni di passione che emetteva. La voce assomigliava a uno strumento che veniva suonato con intensità sempre crescente ma che, ciò malgrado, era musicalmente privo di ogni speranza – i toni bassi imploravano letteralmente aiuto.

Però a volte Mr. Sammler aveva l’impressione che il modo in cui lui vedeva le cose potesse essere sbagliato. Le sue esperienze erano state troppo singolari, ed egli temeva di proiettare quelle singolarità sulla vita stessa. La vita, probabilmente, non era priva di colpe, ma Sammler pensava spesso che non era e non poteva essere quale la vedeva lui. Però poi, al contrario, ogni tanto sentiva con grande forza che, in fatto di stranezza, erano i fenomeni stessi a superarlo un milione di volte.

«Ma andiamo, Lionel, non mi dirai che stai per comprare una locomotiva intera.»

«Mica da solo. Faccio parte di un gruppo. Centomila dollari a testa.»

«E quell’altro progetto, insieme a Wallace? Fotografare case e identificare alberi?»

«Lo so, sembra roba da scalzacani, ma è veramente un’ottima idea commerciale. Io ho intenzione di cimentarmi personalmente. Ho un gran talento per il commercio, questo lo posso dire forte. Se la cosa fila, la organizzerò su scala nazionale, con delle équipe di vendita in tutto il Paese. Naturalmente ci serviranno degli specialisti di piante regionali. Certo saranno diverse le problematiche da affrontare a seconda che siamo a Portland in Oregon, a Miami Beach o a Austin in Texas. “Tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza.” È l’incipit della Metafisica di Aristotele. Non sono mai andato oltre, però suppongo che il resto ormai sia sorpassato comunque. In tutti i modi, se gli uomini aspirano alla conoscenza, si deprimono a non sapere il nome delle piante che crescono sulla loro proprietà. Si sentono come degli impostori. Le piante fanno parte del luogo. E loro no. E io sono convinto che conoscere il nome delle cose rinvigorisce la gente. Io sono andato per anni dagli strizzacervelli, e crede che mi abbiano guarito di qualche cosa? No. Però hanno messo tante belle etichette sulle mie difficoltà psicologiche, e suonano come vera e propria conoscenza. È un grande conforto; vale la pena di spenderci i soldi. Uno dice: “Sono maniaco”. Oppure dice: “Soffro di depressione reattiva”. Di un problema sociale si dice: “È il colonialismo”. E a quel punto il cervello più addormentato lancia razzi da tutte le parti, e le scintille ti fanno uscire dal cranio in cui eri stato rinchiuso. Divino. Ti credi di essere un uomo nuovo. Be’, il modo per arrivare alla ricchezza e al potere è di aggrapparsi a questo genere di cose. Quando avvii una nuova impresa, tu ridescrivi i fenomeni e crei la sensazione che si stia veramente arrivando da qualche parte. Se la gente vuole che le cose abbiano un nome o che ne abbiano uno nuovo, ti puoi fare un sacco di quattrini diventando un esperto in tassonomia. Sì, sì, ho tutte le intenzioni di collaudare quest’idea di Wallace.»

«È il momento sbagliato. Deve averlo per forza un aeroplano?»

«Non saprei se sia essenziale, ma a quanto pare l’idea del pilotaggio gli sta molto a cuore, a Wallace. Be’, è la sua passione. Ci sono altre persone che ne hanno altre.»

Quest’ultima constatazione sulle altre persone fu rimarcata con intenzionalità. Sammler capì quel che stava accadendo. Feffer faceva finta di non voler rivelare, per una delicatezza di cui certo non era dotato, un’informazione che viceversa non vedeva l’ora di diramare. L’eccitazione gli brillava in faccia. Negli occhi. Sulle labbra impazienti.

«A che cosa ti riferisci?»

«In verità mi riferisco a un certo scienziato indù. Credo che si chiami Lal. E credo anche che questo Lal sia un professore invitato a tenere un ciclo di lezioni alla Columbia University.»

«E allora?»

«Parecchi giorni fa, dopo la lezione, gli si è avvicinata una donna. Gli ha chiesto se poteva vedere il manoscritto. Lui pensava che volesse semplicemente dare uno sguardo a qualche cosa nel testo e così gliel’ha dato. C’era un gruppetto di gente che gli si accalcava intorno. Credo che sia stato fatto il nome di H.G. Wells. E poi la signora è scomparsa con il manoscritto.»

Mr. Sammler si tolse il cappello e se lo mise sulle ginocchia sopra la copertina marezzata.

«Come? Se n’è andata con il manoscritto?»

«È sparita con in mano l’unica copia dell’opera.»

«Ah. Che sventura. L’unica, eh? Brutto affare.»

«Già, ero sicuro che lei l’avrebbe pensata così. Il dottor Lal si aspettava che la donna ritornasse, che si trattasse semplicemente di una persona distratta. Per ventiquattr’ore non ha detto niente. Ma alla fine si è rivolto alle autorità. Ora non so se si tratti del dipartimento di Astronomia o di qualche altro programma spaziale che conducono alla Columbia, non so.»

«Ma come mai tu hai sempre informazioni di questo genere, Lionel?»

«Col mio modo di vivere, questi contatti mi servono, capisce. Naturalmente conosco i tizi del servizio di sicurezza – i poliziotti del campus. Comunque sia, non erano in grado di occuparsi di questa faccenda. Hanno dovuto chiamare degli investigatori. I Pinkerton. Lei sa che il Pinkerton originario fu scelto da Abramo Lincoln stesso per organizzare i Servizi segreti. Lei questo lo sa, no?»

«A me non sembra un elemento di grande importanza. Immagino che questi Pinkerton sapranno come recuperare quel testo. Non è stupido averne una copia sola? Con tutte queste macchine Xerox e altri attrezzi del genere, e inoltre quest’uomo è pure uno scienziato.»

«Be’, non lo so. C’è stato Carlyle. C’è stato T.E. Lawrence. Gente in gambissima, no? Eppure tutti e due hanno perduto l’unica copia esistente di un loro capolavoro.»

«Eh, Signore. Signore.»

«Oramai il campus è tappezzato di manifesti. Smarrito manoscritto. E poi c’è una descrizione della donna. Veduta spesso a conferenze e lezioni aperte al pubblico. Indossa la parrucca, si porta dietro una borsa per la spesa, ed è in qualche modo associata a H.G. Wells.»

«Sì, capisco.»

«Lei non è che per caso ne sa qualcosa, vero Mr. Sammler? È chiaro che io vorrei essere d’aiuto in qualche modo.»

«Sono strabiliato dalla quantità d’informazioni che ti rimangono attaccate addosso. Mi fai pensare alla lingua di una rana. Si slancia fuori e rientra coperta di zanzare.»

«Credevo di non fare niente di male. Quando si tratta di lei, Mr. Sammler, m’interessa una sola cosa: proteggerla. Ho un istinto protettivo verso di lei. Mi rendo conto che possa essere edipico – ecco, ci risiamo, i nomi delle cose – ma per lei ho un sentimento di venerazione. Lei è l’unica persona al mondo per cui userei una parola come venerazione. Questo è un tipo di parola che si scrive, non che si dice.»

«Sì, in un certo senso posso capirlo, Lionel.» La fronte di Mr. Sammler, ormai umida, gli prudeva. La tamponò delicatamente con il fazzoletto del taschino, ben stirato. Era Shula che gli riportava i fazzoletti stirati così lisci e piatti.

«Io so che lei sta cercando di condensare ciò che sa, la sua esperienza di vita. In un Testamento.»

«Questo come lo sai?»

«Me l’ha detto lei.»

«Davvero? Non mi ricordo di aver mai detto nulla di simile. È una questione molto privata. Se dico le cose senza accorgermene, è un brutto segno. Certamente non ho mai avuto intenzione di dirlo.»

«Eravamo davanti al Breton Hall Hotel, quel miserabile mucchio di calcinacci, e lei stava appoggiato al suo ombrello. E se mi è concesso dirlo» – nei suoi sentimenti si potevano scorgere i segni di un’aumentata carica di fervore –, «riguardo ad altre persone posso avere dei dubbi, posso dubitare perfino che siano esseri umani, ma a lei io voglio bene senza riserve. E affinché la sua mente possa trovare sollievo, le dirò che non ha fatto affermazioni strane, ha detto semplicemente che le sarebbe piaciuto concentrare la sua esperienza di vita in poche frasi. Forse, addirittura in un’unica e sola frase.»

«Sydney Smith.»

«Smith?»

«Disse: “Giudizi brevi, per l’amor di Dio, giudizi brevi”. Un sacerdote inglese.»

Sentire cosa aveva fatto Shula-Slawa (follia-devozione-per-papà-commedia-furto) riempì oppressivamente determinati spazi riservati all’oppressione che si erano andati aprendo e allargando negli ultimi tre decenni. A causa di Elya, oggi erano tutti spalancati. Prima del 1939 Sammler non ricordava una simile pesantezza, una tale oscurità. Forse in qualche parte del mondo esisteva una tintura astringente da poter prescrivere per quelle aperture? Mr. Sammler provò sinceramente a concentrarsi sul lato divertente della faccenda, immaginandosi Shula con le scarpe spaziali, tutto quel cremisi disordinato sulle labbra, mentre saltava fuori come il corpo di un demonietto dalle Favole di Grimm, per scappare con il tesoro di un saggio indù. Sammler stesso, da Shula, veniva trattato come una specie di Incantatore. Pensava che fosse Prospero. Secondo lei il padre avrebbe potuto “produrre” una cultura superba. Scrivere delle memorie eccezionali, tanto magiche che il mondo avrebbe ricordato per molto tempo che cosa straordinaria significava essere un Sammler. La risposta della follia privata alla follia pubblica (in un’era di potenziali nucleari altamente distruttivi) era rappresentata da una maggiore distinzione, da conquiste più alte, da un filo di brillanti più risplendenti presentati all’umanità in ammirazione. Perle ai porci? Mr. Sammler, pensando al Rabbino Ipsheimer, che era andato ad ascoltare trascinatovi da Shula, riprese in esame il vecchio detto. Perle artificiali a porci reali venivano lasciate cadere da questi predicatori del jet-set. L’aver pensato questo lo rese più allegro. La sua mano elegantemente nervosa formò un ponte tremolante sugli occhiali colorati, che aggiustò sul naso senza che ce ne fosse bisogno. Ebbene, Sammler non era quello che Shula credeva. E inoltre non era neppure quello che di lui pensava Feffer. Come poteva soddisfare le necessità di quelle immaginazioni? Nello scatenato vorticare del suo spirito Feffer prendeva lui come punto fisso. In tali iper-energetiche rivoluzioni ci si innamorava delle idee di stabilità, e Sammler era un’idea di stabilità. E con quanta profusione Feffer lo lusingava! A Sammler dispiaceva. Si assicurò che il suo grande cappello coprisse per intero il quaderno.

«C’è qualcosa che vuole che io faccia per lei?» disse Feffer.

«Ma certo, Lionel.» Si alzò in piedi. «Accompagnami alla metropolitana. Devo andare a Union Square.»

Attraverso il cancello di ferro battuto uscirono dal giardinetto, dirigendosi a ovest; oltrepassarono il luogo di culto dei Quaccheri, e poi i freschi edifici di arenaria s’inquadrarono fra gli alberi, alle loro spalle. Le pance incatenate dei bidoni dell’immondizia. Una delle catene era addirittura ricoperta da una guaina. E c’erano cani, altri cani. Amorosa cura dei cani – da parte di scolaretti, di donne eleganti, di certi omosessuali. Si sarebbe detto che soltanto gli eschimesi avessero altrettanto – o quasi altrettanto – da fare con i cani quanto questa categoria locale del genere umano. Sicuramente i veterinari se ne andavano in giro su panfili meravigliosi. Le loro parcelle erano altissime.

Bisogna che raggiunga Shula al più presto, decise Sammler. Le odiava le scenate con sua figlia. Era capace di digrignare i denti, di mettersi a urlare e strepitare. Lui le voleva troppo bene. Provava una grandissima tenerezza per lei. E poi, era il suo unico contributo alla continuazione della specie! Lo riempiva di angoscia e pietà che lui e Antonina non si fossero amalgamati meglio. Fin da quando era bambina Sammler aveva scorto, soprattutto nel collo esile di Shula, nelle ghiandole ingrossate, nelle vene azzurre così delicate, nelle grandi palpebre bluastre e nella testa grande, pesante, una pietosa eredità, squilibrata, fragile, che gli faceva temere per il suo futuro. Be’, le suore polacche l’avevano salvata. Quando andò al convento per riprenderla, aveva già quattordici anni. Adesso ne aveva più di quaranta, sempre a vagare per New York con le sue borse per la spesa. Doveva assolutamente e subito restituire il manoscritto. Figuriamoci, il dottor Govinda Lal probabilmente stava impazzendo. Chi poteva saperlo quale forma asiatica stava assumendo la disperazione di quell’uomo.

E nel frattempo la coscienza di Sammler era stata anche invasa da un flutto rosso. Probabilmente dovuto alle condizioni di salute di Elya Gruner. Aveva assunto una forma curiosa, quella di un’immensa busta scarlatta, una stoffa di seta che riempiva tutto il cielo, l’aletta fermata da un bottone nero. Si domandò se per caso quello non potesse essere ciò che intendevano i mistici quando parlavano di aver visto un mandàla, e credeva che quella suggestione si fosse insinuata nel suo spirito per associazione con Govinda, un asiatico. Ma lui stesso, ebreo, per quanto britannicizzato o americanizzato, era pur sempre un asiatico. L’ultima volta che si era trovato in Israele, ed era cosa recentissima, si era chiesto fino a che punto, dopotutto, gli ebrei fossero europei. La crisi a cui aveva assistito laggiù aveva fatto venire in superficie un certo orientalismo più profondo. Persino nell’ebraismo tedesco e olandese, secondo lui. E per quanto si riferiva al bottone nero, era forse un’immagine sovrappostasi a quella della Luna bianca?

Per la Quindicesima Strada spirava una corrente calda di primavera. Lillà e fogne. Veramente i lillà ancora non c’erano, ma qualcosa di quell’odore selvatico era vellutato e dolce e ricordava i lillà in fiore. Tutt’intorno c’era una pastosità, forse di fuliggine disciolta, o di aria passata attraverso molti petti umani, o metabolizzata da miriadi di cervelli, o fuoriuscita da altrettanti intestini, e ti toccava… oh, profondamente, anche! Ogni tanto ti arrivava un elogiativo o fantasioso piacere, evidentemente illogico, suggerito dal bruno rossiccio-grigiastro dell’arenaria, dagli angoli freschi di quel calore. Beatitudine da ciò che lo circondava! Per un certo periodo Mr. Sammler aveva opposto resistenza a impressioni fisiche di quella sorta – allettato quasi comicamente da una dolcezza momentanea e fortuita. Per moltissimo tempo aveva pensato di non essere necessariamente umano. Durante quel periodo, non sapeva molto che farsene della maggioranza degli altri esseri umani. Pochissimo interesse per se stesso. Freddo persino di fronte all’idea di riconquistare la normalità. Che cosa c’era da riconquistare? Poca considerazione per forme precedenti di se stesso. Maldisposto. La sua facoltà di giudizio più o meno assente. Ma poi, dieci o dodici anni dopo la guerra, cominciò a notare che anche quello stato di cose stava cambiando. Entro la cornice umana, insieme a tutti gli altri, in mezzo ai particolari della vita comune lui era umano – e, in poche parole, quel senso di appartenenza al genere umano s’insinuò di nuovo, furtivamente, nel suo essere. Con i suoi trucchi meschini, quel suo ammaliante, canino annusare le zampe posteriori. Per cui adesso, veramente, Sammler non sapeva come considerare se stesso. Voleva, con Dio, essere libero dal vincolo dell’ordinario e del finito. Un’anima disciolta dalla Natura, dalle impressioni, e dalla vita di tutti i giorni. Affinché ciò potesse avvenire, Dio stesso doveva essere in attesa, indubbiamente. E un uomo che è stato ucciso e seppellito non dovrebbe avere altro interesse. Dovrebbe essere totalmente disinteressato. Eckhart l’ha detto papale papale che Dio amava la purezza e l’unità disinteressate. Dio stesso veniva sospinto verso l’anima disinteressata. Di che cosa gli dovrebbe importare, oltre che dello spirito, a un uomo che ha fatto ritorno dalla tomba? Cionondimeno, e abbastanza misteriosamente, accadeva, come Sammler stesso osservava, che uno veniva sempre, e con forza, con persuasività, risospinto verso le condizioni umane. Cosicché questi granelli all’interno della propria sostanza avrebbero sempre punteggiato con i loro riflessi tutto ciò verso cui l’uomo si volge, tutto ciò che intorno a lui fluisce. L’ombra dei suoi nervi avrebbe sempre proiettato delle strisce, come alberi sull’erba, come acqua sulla sabbia, quella sottilissima rete fatta di luce. Era un secondo incontro dello spirito disinteressato con le predeterminate necessità biologiche, una partita di ritorno con la persistente creatura.

Per questo, camminando in direzione della metropolitana, stazione di Union Square, uno sente Feffer che spiega perché sia necessario comprare una locomotiva Diesel. Un’occasione magnifica per un affare. Così appropriata! Così congruente con la primavera, la morte, i mandàla orientali, il gas delle fogne con un sentore dolce di lillà oppiati. Gioia e felicità dalle pietre, dal cielo! Beatitudine e gioia mistica!

Mr. Artur Sammler, il confidente degli eccentrici di New York; il curato di uomini spostati e tempestosi e progenitore di una donna spostata e tempestosa; cancelliere della pazzia. Una volta che prendi una posizione, una volta che tracci una linea di base, verrai assalito dai contrari. Dichiàrati pro normalità, e le aberrazioni ti si scateneranno addosso. Tutti gli atteggiamenti vengono beffeggiati dai loro opposti. Questo è ciò che succede quando l’individuo comincia a sentirsi nuovamente sospinto a lasciare il suo disinteresse per avvicinarsi alle condizioni umane. Porzioni o aspetti del suo io precedente tornano in vita. La personalità di un tempo riafferma se stessa, e a volte anche sgradevolmente, debolmente, ignobilmente. Era il Sammler di un tempo, il Sammler di Londra e Cracovia, che era sceso dall’autobus a Columbus Circle scioccamente deciso a individuare un criminale nero. Adesso quell’autobus doveva evitarlo, terrorizzato da un altro eventuale incontro. Era stato avvertito, anzi gli era stato ordinato, senza possibilità d’errore, di non farsi vedere mai più.

«Ma aspetti un po’» disse Feffer. «Io so benissimo che lei le metropolitane le odia. È cambiato qualcosa? Pensavo che soffrisse decisamente di claustrofobia.»

Feffer era intelligentissimo. Era stato accettato alla Columbia senza neppure il diploma delle scuole superiori, avendo ottenuto un record inaudito di voti agli esami di ammissione. Era sagace, furbo, intrigante, e allo stesso tempo fresco, simpatico e vigoroso. Nei suoi occhi appariva un’espressione stranamente pungente, una specie di intensità che ti si abbarbicava addosso. Sammler, il Sammler di un tempo, non aveva mai avuto abbastanza forza per resistere a quegli sguardi.

«Non è mica per quel malvivente che ha visto sull’autobus, no?»

«Chi te ne ha parlato?»

«Sua nipote, Mrs. Arkin. Ma gliel’ho detto, si ricorda?, prima della conferenza.»

«Ah, è così. E allora l’ha raccontato a te, eh?»

«Sì, dei vestiti di lusso, gli accessori di Dior e tutto quanto. Gagliardissimo! E sicché lei ha paura di lui, uhm? Perché? È stato individuato?»

«Qualcosa di simile.»

«Ma il ladro ha parlato?»

«Nemmeno una parola.»

«Qui c’è qualche cosa che non quadra, Mr. Sammler. Sarebbe meglio che ne parlasse con me. Lei può non capire l’idioma di New York. Si può trovare in pericolo. Dovrebbe raccontare il fatto a una persona più giovane.»

«Tu mi mandi in confusione, Feffer. Ci sono dei momenti in cui io, sotto la tua influenza, non sono veramente più me stesso. M’imbroglio. Tu sei così rumoroso, così turbolento.»

«Quell’uomo le ha fatto qualche cosa. Lo so, me lo sento. Che ha fatto? Guardi che le può far del male, sa? Si può trovare nei pasticci; quindi non dovrebbe tenersi tutto dentro. Lei è una persona saggia, ma non “moderna”, e questo signorino, Mr. Sammler, a me pare proprio una tigre con gli artigli e tutto. Lei l’ha visto in azione?»

«Sì.»

«E lui l’ha visto mentre lei guardava?»

«Sì, anche.»

«Certo è grave. Ora, che cosa ha combinato per spaventarla a un punto tale da non farle prendere più l’autobus? Lei l’ha detto alla polizia?»

«Ho tentato. Andiamo, Feffer, mi fai impegolare in faccende che non mi piacciono.»

«È il fatto che l’hanno costretto a non prendere l’autobus che dovrebbe darle fastidio, l’interferenza con le sue abitudini, i suoi gusti e così via. Ha paura di lui?»

«Be’, mi ha scosso. Il cuore mi si è messo a battere a una velocità tremenda. La mente umana è così bislacca. Oggettivamente m’importa poco, non so che farmene di queste esperienze, ma in noi c’è una bramosia talmente assurda per determinate azioni che si collegano ad altre azioni, per la coerenza, per le forme, per i misteri o per le leggende. Posso aver pensato che non mi fosse rimasta nessuna curiosità umana di ordinaria amministrazione, ma con mia grande sorpresa, sbagliavo. E la cosa non mi va. Non mi va niente di tutto quest’affare.»

«Ma quando quello si è accorto di lei, le si è pure messo alle costole?» disse Feffer.

«Mi è venuto dietro, sì. E adesso lasciamo perdere l’argomento.»

Ma Feffer non ne era capace. Aveva il viso in fiamme. Incorniciato dai contorni all’antica della barba, bruciava di moderne, scatenate passioni. «L’ha seguito ma non le ha detto niente? In qualche modo, però, il suo messaggio glielo deve pur aver trasmesso. Che cosa ha fatto? L’ha minacciata. Ha tirato fuori un coltello a serramanico?»

«No.»

«Una pistola? Non le ha puntato contro una pistola?»

«Nessuna pistola.» Se Sammler fosse stato sereno e sicuro di sé sarebbe riuscito a resistere a Feffer. Ma non era affatto sereno né sicuro di sé. Scendere nella stazione della metropolitana era un tormento. La tomba, Elya, la Morte, la sepoltura, il mausoleo dei Mezvinski.

«Ma quell’uomo ha scoperto dove abita?» disse Feffer.

«Sì, Feffer, mi ha pedinato. Evidentemente mi stava tenendo d’occhio da qualche tempo. Mi ha seguito fin dentro l’atrio.»

«Ma Mr. Sammler, che cosa ha fatto questo tizio? Santa pazienza, perché non lo vuol dire!?»

«Che cosa c’è da dire? È ridicolo. Non vale la pena discuterne. È semplicemente insensato.»

«Insensato? È sicuro che non abbia senso? È meglio che lasci giudicare una persona più giovane. Una generazione diversa. Una diversa…»

«Be’, forse tu hai un’inclinazione naturale per queste cose bizzarre, insensate. Una tale famelica curiosità per queste cose. Sarò brevissimo. Quell’uomo si è scoperto davanti a me.»

«Ma no! È incredibile! Davanti a lei? Questa sì che è originale! L’ha spinta in un angolo?»

«Sì.»

«Dentro il suo portone, si è tirato fuori l’affare e gliel’ha fatto vedere? Gliel’ha sventolato davanti?»

Sammler non era disposto a dire altro.

«Stupefacente!» disse Feffer. «Ma come diavolo era?» Rideva, anche. Che cosa meravigliosa, che… gloria improvvisa. E se Sammler poteva in qualche modo interpretare quella risata, Feffer moriva dalla voglia di vedere quel fenomeno. Per proteggere Sammler, sì. Per fargli da guida attraverso i pericoli di New York, sì. Ma per vedere, per impicciarsi, per intromettersi, tipico di Lionel al cento per cento. Doveva a tutti i costi avere anche lui un “pezzo” dell’azione – Sammler pensava che fosse quella l’espressione corrente. «Ha tirato fuori l’uccello? E non ha detto una parola? Gliel’ha semplicemente sventolato davanti? Accidenti, Mr. Sammler! Ma che diavolo voleva dimostrare? E quanto grosso? Lei non l’ha detto. Posso immaginarmelo. Potrebbe uscire dritto dritto da Finnegans Wake. “Tutti debbono denudarsi la verga!” Dunque questo tizio agisce fra Columbus Circle e la Settantaduesima nelle ore di punta? Be’, allora uno che cosa fa in situazioni del genere? New York è veramente un fenomeno. E tutti quei tipi che si affannano per diventare sindaci come tanti forsennati. E Lindsay, lei immagini Lindsay che conduce la campagna forte del suo passato politico. Bel passato, quando non riescono neppure a mandare un poliziotto ad arrestare un bandito. E tutti quegli altri con il loro passato! Mr. Sammler, io conosco uno alla televisione, alla NBC, che conduce un talk show. In realtà è il marito di Fanny. Dovremmo far partecipare lei alla trasmissione, Sammler, per farle raccontare tutta questa faccenda.»

«Oh, andiamo, Feffer.»

«Gli farebbe un bene dell’anima a tutti, sentirla parlare. Lo so, guardi, lo so, è proprio come ha detto quel tizio: non è il cervello dello spettatore che uno raggiunge, ma il didietro. Lei gli solleticherà il didietro con bellissime piume di pensiero profondo.»

«Certo.»

«Eppure, Mr. Sammler, avere influenza e potere… o semplicemente mettere a confronto la cosa fasulla con la cosa reale. Lei dovrebbe denunciare tutta New York. Dovrebbe parlare come un profeta, come qualcuno che venisse da un altro mondo. Bisognerebbe sfruttarla, la televisione. Noi dovremmo sfruttarla – e a lei potrebbe piacere, uscire dal suo isolamento.»

«È quel che abbiamo fatto ieri alla Columbia, Feffer. Sono uscito dal mio isolamento. Tu mi hai già trasformato in una specie di attore.»

«Io sto pensando solo al bene che lei potrebbe fare.»

«Tu stai pensando a tutti gli affari che potresti combinare, ai progetti che potresti promuovere, e a come ottenere una gratifica dal marito di Fanny per avermi scovato, e con quale espediente riusciresti a infilare in TV i genitali di quel tale.» Mr. Sammler sorrideva intensamente. Ancora un momento, e avrebbe riso di cuore, distolto dalle proprie preoccupazioni.

«E va bene» disse Feffer. «Evidentemente non ho gli stessi princìpi sulla privacy che ha lei. Sono disposto a lasciar perdere.»

«Devi.»

«Vengo in autobus con lei.»

«No, grazie.»

«Per assicurarmi che nessuno le dia fastidio.»

«Quello che vuoi è che io ti indichi chi è.»

«No, veramente, io so quanto lei abbia in antipatia, quanto odi la metropolitana.»

«Non ti preoccupare, va benissimo.»

«È chiaro che ha stuzzicato la mia curiosità, perché mai dovrei negarlo? So che alla fine mi ha raccontato di quel tizio per liberarsi di me, e invece io sto ancora qui ad assillarla. Ha detto che porta un cappotto di cammello?»

«Penso di sì, che fosse cammello.»

«Un cappello floscio? Occhiali scuri di Dior?»

«Del cappello floscio sono sicuro. Quanto a Dior ho tirato a indovinare.»

«È un buon osservatore. Mi fido di lei. I baffi, anche, camicie di lusso e cravatte psichedeliche. Sarà un principe di qualche tipo, o perlomeno crede di esserlo.»

«Sì» disse Sammler. «Una certa qual maestà non si può negare.»

«Io un’idea ce l’ho per questo tipo.»

«Lascialo perdere. Lascialo stare, guarda, ti avverto.»

«Non è mica che mi ci metterei a litigare. Non farei mai una cosa simile. Non sospetterebbe nemmeno che io mi trovo vicino a lui. Ma le macchine fotografiche si possono mettere in qualsiasi posto. Adesso fanno persino le fotografie del bambino nell’utero. In qualche modo ci hanno schiaffato dentro una macchina. Ho appena comprato una nuova Minox piccola quanto un accendino.»

«Non fare lo stupido, Lionel.»

«Ma quel tizio non lo verrebbe mai a sapere. Gliel’assicuro. Non se ne accorgerebbe nemmeno. Le fotografie potrebbero avere un gran valore. Acchiappi il delinquente, vendi il servizio a “Look”. Allo stesso tempo stronco la polizia e anche Lindsay, che non ha nessun diritto di fare il sindaco mentre conduce la campagna elettorale per la presidenza. Con una sola fava tre piccioni.»

Il basso muro di Union Square, la verde piattaforma rialzata di tappeto erboso suddivisa da sentieri grigi, aridi, e il traffico veloce tutt’intorno – le automobili puzzolenti, fetide, che andavano all’impazzata. Sammler non aveva bisogno della mano di Feffer che gli sorreggeva il gomito. Si staccò dal giovane.

«La prendo qui, la metropolitana.»

«A quest’ora un taxi non lo trova. È il momento in cui cambiano turno. Vengo con lei.»

Sammler, sempre col cappello e il quaderno stretti al fianco, l’ombrello appeso al polso, avanzò nella mezza luce dei corridoi, nel fumo delle salsicce alla griglia. I tornelli rapidissimi registravano l’inserimento dei gettoni con un rumore da dente di arresto. Il brontolio da bisonti dei treni. Sammler voleva fare il viaggio da solo. Feffer non poteva lasciarlo andare. Feffer non riusciva a stare zitto un istante. Aveva bisogno di far colpo incessantemente, di essere originale, radioso di fascino. E naturalmente, poiché nutriva tanto rispetto per Sammler, doveva per forza saggiare il terreno o inserire piccole osservazioni o piccoli cenni di irriverenza, uno qui, uno là, confidenze, libertà, insinuazioni, esplorando, per vedere quanto riusciva ad arraffare. Caro amico, ma perché cercare tanto affannosamente? La corruzione esiste in molti posti. Te li potrei indicare io, uno per uno.

«Questa Fanny… la ragazza che le ha fatto da guida… è molto disponibile…» disse Feffer.

E aggiunse subito: «Oggigiorno le ragazze lo sono tutte. Lei è ancora un po’ timida. Non è poi questo gran portento a letto. Pure se ha delle gran tette. Sposata, naturalmente. Il marito lavora di notte. Dirige quella trasmissione di cui le ho parlato…». E poi ancora: «A me la compagnia piace, vede. Passiamo un sacco di tempo insieme. Poi quando è venuto il perito assicurativo…».

«Come mai il perito?» disse Sammler.

«Avevo presentato una richiesta di risarcimento per una valigia rimasta danneggiata all’aeroporto. E quel tizio è venuto mentre c’era Fanny, e se n’è innamorato – bang!, tutto d’un colpo. Era pure un tipo interessante, con i denti da scimpanzé. Ha detto che aveva piantato gli studi alla Facoltà di Economia e Commercio di Harvard. Aveva una faccia gialla che non le dico, e sudava, uh! Terribile. Sembrava un filtro per l’olio che avrebbero dovuto cambiare cinquemila chilometri prima.»

«Ah sì?»

«E così io ho incoraggiato il suo interesse per Fanny. Mi faceva comodo per il risarcimento. Sarei stato tanto gentile da dargli il suo numero di telefono? Ma certamente.»

«Con il permesso della ragazza?»

«Pensavo che non le sarebbe dispiaciuto. E così lui ha telefonato e ha detto: “Sono Gus, tesoro. Vediamoci per un drink”. Senonché al telefono aveva risposto il marito. Lui lavora di notte. E quando Gus è venuto a trovarmi la volta dopo, gli ho detto: “Perdiana, Gus, il marito di Fanny è su tutte le furie. Stattene lontano. Quello è pure un tipo duro”. E allora Gus ha detto…»

Ma non c’era una fermata alla Diciottesima Strada? Ce n’era una alla Ventitreesima, una alla Trentaquattresima. Alla Quarantaduesima si cambiava e si prendeva la linea dell’IRT.

«Gus ha detto: “E di che cosa devo aver paura? Guarda, io mi porto dietro la pistola”. E ha tirato fuori una pistola. Io sono rimasto di sale. Ma non era poi un revolver da mettere tanta soggezione. Gli ho detto: “Un affaretto come quello? Ma non riusciresti neppure a bucare un elenco del telefono con quel giocattolo”. E prima che potessi dire “ba” quello aveva messo l’elenco su un leggio e ci stava mirando contro. Quel pazzo figlio di una buonadonna. Stava a nemmeno un metro e mezzo di distanza, ha sparato. Non ho mai sentito un fracasso simile in vita mia. È rimbombato per tutto il palazzo. Però avevo ragione io. La cartuccia è penetrata appena due dita. La guida telefonica di Manhattan non ce la faceva a perforarla.»

«Già, un’arma inadeguata.»

«Lei se ne intende di armi?»

«Un poco.»

«Be’, con un’arma come quella uno poteva al massimo ferire qualcuno. Probabilmente non avrebbe mai ammazzato nessuno a meno di non sparare dritto in testa a una distanza minima. Ci sono tanti di quei mentecatti in giro.»

«Verissimo.»

«Comunque dall’assicurazione mi beccherò all’incirca duecento carte, che è molto di più del valore della valigia, capirà, una vecchia carcassa.»

«Eh già, bel colpo.»

«Il giorno dopo Gus si è presentato un’altra volta e voleva che gli scrivessi una lettera di raccomandazione.»

«Indirizzata a chi?»

«Al suo superiore dell’ufficio liquidazioni.»

Alla Novantaseiesima Strada salirono insieme nella piena esplosione di Broadway. Feffer accompagnò Sammler fino al portone.

«Se ha bisogno di qualcosa, Mr. Sammler…»

«Non ti invito di sopra, Lionel. Il fatto è che mi sento stanco.»

«È la primavera. Voglio dire, è il cambiamento di temperatura» disse Feffer. «Anche i giovani ne risentono.»

In ascensore Mr. Sammler estrasse la chiave yale dal portamonete. Entrò spingendo forte la porta, nell’ingresso. In onore della primavera, Margotte aveva messo dei rami di forsizia in alcuni barattoli di vetro. Un barattolo si rovesciò immediatamente. Sammler andò a prendere un rotolo di carta assorbente in cucina, assicurandosi, mentre attraversava l’appartamento, che la nipote fosse uscita. Dopo aver asciugato l’acqua caduta in terra, osservando la carta che pian piano si scuriva, sollevò il telefono, lo appoggiò sul bracciolo di acero del sofà, si sedette sui foulard che lo ricoprivano, e formò il numero di Shula. Non rispondeva nessuno. Forse aveva staccato la spina. Sammler non la vedeva da parecchi giorni. Ora, diventata ladra, poteva darsi benissimo che stesse nascosta da qualche parte. Se Eisen era veramente a New York, Shula aveva una ragione in più per andarsi a rinchiudere da qualche parte. Sammler non riusciva a concepire, tuttavia, che Eisen volesse sul serio molestarla. Aveva ben altra carne al fuoco, ben altra roba che bolliva in pentola (quanto piacevano a Sammler quelle vecchie espressioni!).

Riportati in cucina gli asciugamani di carta, quelli imbevuti e quelli asciutti, Sammler si tagliò parecchie fettine di salame con il coltellone da chef (a quanto sembrava Margotte non aveva neppure un coltello piccolo; ci affettava addirittura le cipolle, con quelle lame enormi). Si fece un panino. Colman’s English Mustard, ancora una delle sue salse preferite. Il succo di mirtilli rossi a basso contenuto calorico, di Margotte. Visto che non riusciva a trovare un bicchiere pulito, bevve a piccoli sorsi da uno di carta. Quella sensazione di cera era sgradevole, ma doveva uscire di nuovo e non aveva tempo di lavare e asciugare. Attraversò subito Broadway e si diresse a casa di Shula. Suonò il campanello, bussò, alzò la voce e disse: «Shula, sono papà. Apri. Shula?». Scrisse un biglietto e lo fece scivolare sotto la porta. «Chiamami immediatamente.» Quindi, dopo esser sceso nell’ascensore nero (quant’era nero e arrugginito!), guardò nella cassetta delle lettere che lei non chiudeva mai a chiave. Era piena, e Sammler esaminò la corrispondenza. Tutta roba da buttar via. Lettere personali, nessuna. Quindi evidentemente la figlia era fuori città, la posta non l’aveva ritirata. Forse aveva preso un treno per New Rochelle. Aveva una copia della chiave di casa dei Gruner. Sammler aveva rifiutato l’offerta di una chiave dell’appartamento della figlia. Non voleva che gli capitasse di entrare in casa sua quando magari lei stava con un amante. Un amante del gusto di Shula sarebbe stato sicuramente un tipo di cui aver paura. Indubbiamente uno di tanto in tanto ce l’aveva. Forse per migliorare la carnagione, quand’era brutta. Ricordava di aver sentito una donna che diceva così. E Shula era fiera della propria pelle levigata e chiara. Come si faceva a sapere quello che la gente, gli individui, facevano veramente?!

Quando fu di ritorno, chiese a Margotte: «Non hai mica visto Shula, vero?».

«No, Zio Sammler, non l’ho vista. Però c’è stata una telefonata per te, da tuo genero.»

«Ha telefonato Eisen?»

«Gli ho detto che eri andato in clinica.»

«Secondo te che cosa voleva?»

«Be’, vedere la famiglia. Benché abbia aggiunto che voi non ci andate a fargli visita quando vi trovate in Israele, perlomeno Elya no, e tu nemmeno. Sembrava veramente dispiaciuto.»

Agli altri, messi di fronte alla compassione di Margotte, così prontamente disponibile, così assoluta, pareva di avere un cuore di pietra.

«E Elya, come sta?» disse lei.

«Non bene, temo.»

«Oh, bisogna che vada a trovarlo, il povero Elya.»

«Sì, forse dovresti, ma trattieniti poco.»

«Oh, certo, non si deve stancare. Quanto a Shula, ha paura di vedere Eisen. Crede di averlo ferito terribilmente quando tu l’hai costretta a partire.»

«Io non ho mai fatto nulla del genere. Lei era contenta di andarsene. Anche lui sembrava contento. Ma Eisen ha chiesto di lei?»

«Neppure una parola. Non l’ha neppure nominata. Ha parlato del suo lavoro. La sua arte. Sta cercando uno studio.»

«Sì… Be’, non sarà facile da trovare in questa città di artisti. Dei loft. Ma lui naturalmente ha combattuto a Stalingrado, potrebbe svernarci, in un loft.»

«Voleva andare in clinica e fare un ritratto di Elya.»

«Una cosa che dovremmo impedire in tutti i modi.»

«Zio Sammler, vuoi mangiare una cotoletta insieme a me? Sto preparando delle Schnitzel

«Grazie, ho mangiato.»

Andò in camera sua.

Con una lente d’ingrandimento nella sua lunga mano sinistra tremante, Sammler proiettò trasparenze instabili sulla carta da lettere. Dalla lampada della scrivania, nuclei vetrosi di lucentezza seguivano le parole che scriveva.

Gentile Dottor Professore,

il Suo manoscritto è al sicuro. La signora che l’ha preso in prestito è mia figlia. Non intendeva fare dei danni. È stato semplicemente il suo modo goffo, inetto, di cercare di aiutare me a portare avanti un progetto immaginario che la ossessiona. È trafitta da un’ispirazione – H.G. Wells, il futuro scientifico. È convinta che noi due condividiamo la stessa ispirazione. Io, a volte, vengo trafitto, da un angolo diverso, dalla visione delle attività di mia figlia. Psicologicamente arcaica – tutti i fossili nei suoi strati mentali completamente vivi (anche la Luna è un tipo di fossile) – ella fantastica sul futuro. Tuttavia ognuno di noi, ciascuno secondo il proprio modo maldestro e soffocato, lotta corpo a corpo con un potere, un angelo di Giacobbe, per ottenere la soddisfazione finale o la gloria che è arduo raggiungere. In ogni caso, sia così gentile da pregare le autorità di interrompere le loro ricerche. La prego. Mia figlia evidentemente credeva che il documento Lei glielo avesse prestato, sebbene possa sembrare un tradimento premeditato visto che non Le ha dato né il suo nome né l’indirizzo. Sarei comunque lieto di riportarLe personalmente Il futuro della Luna. L’ho letto rimanendone completamente affascinato, sebbene, per l’aspetto scientifico, le mie qualificazioni siano inesistenti. Più di trent’anni fa ho avuto la fortuna di frequentare H.G. Wells, la cui fantasia sulla Luna Lei indubbiamente conoscerà – Seleniti, oceano lunare sotterraneo, e ciò che segue. In veste di corrispondente per alcuni periodici dell’Europa orientale, ho vissuto in Inghilterra per molti anni. Woburn Square. Ah, era una delizia. Ma mi scuso per mia figlia. Posso facilmente immaginare l’angoscia e la preoccupazione che deve averLe causato. Nelle donne la coscienza più viva della cattiva condotta sembra essere collocata altrove. Il Suo quaderno è di fronte a me in questo momento. Il cartone che lo ricopre è marezzato, verde, e l’inchiostro è marrone e iridescente, quasi bronzeo. Può telefonarmi a qualsiasi ora della notte al numero indicato sotto la data in alto a destra.

Il Suo obbediente servitore,

Artur Sammler

«Margotte» disse, alzandosi dalla scrivania.

Stava seduta sola, intenta a mangiare in camera da pranzo, sotto un paralume imitazione Tiffany di carta a colori vivaci, verde e rossa. La tovaglia era una riproduzione di un disegno indonesiano. Tutto in quella strana stanza era veramente scurissimo. Anche lei, in quell’ambiente, sembrava scura, mentre nel piatto tagliava la vitella con la crosticina gialla. Si sarebbe dovuto sedere a mangiare con lei più spesso. Una vedova senza figli. Si sentiva triste per lei, quella faccina con la frangetta pesante, nera. Prese una sedia. «Ascolta, Margotte, siamo nei pasticci con Shula.»

«Aspetta che ti apparecchio.»

«No, grazie, non ho appetito. Per piacere, siediti. Ho paura che Shula abbia rubato una cosa. Non si tratta di un vero e proprio furto. Sarebbe ridicolo. Ha preso una cosa. Un manoscritto di uno scienziato indù alla Columbia University. È chiaro che l’ha fatto per me. La solita idiozia su H.G. Wells. Vedi, Margotte, questo libro indiano tratta della colonizzazione della Luna e dei pianeti. E Shula si è portata via la sola copia esistente.»

«La Luna. Oh, è affascinante, Zio.»

«Sì, industrie sulla Luna. Centri manufatturieri sulla Luna. Come costruirvi delle città.»

«Posso capire perché Shula voleva che tu lo avessi.»

«Comunque dev’essere restituito, assolutamente. Ma scherziamo? Si tratta di un furto, Margotte, e hanno già chiamato gli investigatori. E io non riesco a trovare Shula. Sa benissimo di aver fatto qualcosa di male.»

«Oh, Zio Sammler, ma tu lo chiameresti un reato? Non da parte di Shula. Povera creatura.»

«Sì, povera creatura. E chi ci rimarrebbe da accusare, se cominci a dire povera creatura?»

«Io non l’avrei mai detto di Ussher. Non lo direi nemmeno di te.»

«Sul serio? Be’, va bene. Accetto la correzione. In tutti i modi, l’indiano bisogna che venga informato. Ecco, ho qui una lettera per lui.»

«Perché non un telegramma?»

«Inutile. I telegrammi non li consegnano più.»

«È proprio quello che diceva Ussher. Diceva che i fattorini li buttavano nelle fogne, e basta.»

«Mandarla per posta non sarebbe una soluzione. Potrebbe impiegarci tre giorni ad arrivare, questa lettera. Tutte le reti di comunicazioni locali stanno andando in malora» disse Sammler. «Persino Cracovia ai tempi di Francesco Giuseppe funzionava meglio del servizio postale degli Stati Uniti. E nel frattempo la polizia può acciuffare Shula come niente, è di questo che ho paura. Credi che potremmo mandare il portiere con un taxi?»

«Ma perché non possiamo adoperare il telefono?»

«Sì, certamente, se potessi essere sicuro di parlare davvero con il dottor Lal in persona. Una spiegazione diretta. Non ci avevo pensato. Ma come facciamo a trovare il numero?»

«E non potresti portarglielo tu il manoscritto, semplicemente?»

«Ora che so di essere in possesso della sola copia esistente, non mi sento, Margotte, di andare per le strade così, specialmente la notte, quando la gente viene aggredita e derubata più facilmente. Supponi che me lo strappino di mano…»

«E la polizia?»

«Ha dato pochissima soddisfazione. Preferisco evitarla. In effetti inizialmente ho pensato che, forse, potevo rivolgermi ai funzionari addetti al servizio di sicurezza della Columbia, o addirittura ai Pinkerton… ma preferirei consegnarlo al dottor Lal personalmente in modo da essere sicuro che non verrà mossa alcuna accusa contro Shula. Gli indiani sono così suscettibili, tu lo sai. Se questo professore non conosce nessuno di noi, se non diventa, diciamo così, una nostra conoscenza, lascerà che sia la polizia a consigliarlo sul da farsi. Allora ci servirebbe un avvocato. Non mi suggerire Wallace. In passato, Elya queste cose le faceva sempre fare a Mr. Widick.»

«Be’, forse consegnargli la lettera personalmente è la cosa migliore. Meglio di una telefonata. Forse dovrei andarci io, Zio, a portargli la lettera. Di persona.»

«Ah, brava, una donna. Venendo da una donna, potrebbe sortire un effetto conciliatorio.»

«Meglio di un portiere. È ancora giorno. Posso prendere un taxi.»

«Ho un po’ di soldi in camera mia. All’incirca dieci dollari.»

Poi sentì Margotte al telefono che s’informava. Sospettò che le cose venissero fatte nel modo più inefficiente possibile. Ma Margotte era pronta ad aiutare quando si trattava di difficoltà serie. Non si era messa a discutere il caso di Shula – gli effetti della guerra o la morte di Antonina o la pubertà in un convento polacco o che cosa poteva provocare il terrore nella psiche di una giovinetta. Elya aveva ragione. E anche Ussher. Margotte era una brava persona. Non persisteva meccanicamente a fare le cose a modo suo una volta che il segnale era stato dato. Come facevano altri, che si precipitavano immediatamente nelle loro routine personali. Schiavi delle loro stesse abitudini.

Nel bagno si sentì un gran scorrere d’acqua. Margotte stava facendo la doccia, il consueto segno che stava preparandosi per uscire. Se in una certa giornata doveva uscire di casa per tre volte, faceva tre docce. Subito dopo sentì che camminava rapidissima per la camera da letto, senza scarpe, calcando il pavimento a passi veloci, aprendo e richiudendo cassetti e armadi. Circa venti minuti dopo, col suo abito nero adatto a ogni occasione e con un cappello nero di paglia, era davanti alla porta di Sammler per chiedergli la lettera. Era proprio cara.

«Sai dove si trova?» disse Sammler. «Gli hai parlato?»

«Non di persona, era fuori. Ma sta alla Butler Hall, e il centralinista sapeva tutto.»

Guanti, sebbene la serata fosse calda. Profumo, parecchio. Braccia nude. A Bruch sarebbero piaciute quelle braccia. Avevano una loro compattezza tutta particolare. A volte era una donna graziosa. E Sammler vide che era contenta di fare quella commissione. La salvava da una serata vuota a casa. A Ussher piaceva molto guardare gli spettacoli televisivi in onda in tardissima serata. Margotte raramente accendeva il televisore. Spesso non funzionava neppure. Da quando era morto Ussher, aveva cominciato ad avere un’aria antiquata nel suo rivestimento di legno. Forse non era legno, ma una parrucca simil-legno di qualche materiale scuro e venato.

«Se incontro il dottor Lal – che cosa faccio, lo devo aspettare alla Butler Hall? Lo porto qui da noi?»

«Io pensavo di tornare in clinica» disse Sammler. «Sai, le cose si mettono molto male per Elya.»

«Oh, povero Elya. Lo so, i guai non vengono mai da soli. Ma non ti stancare troppo. Sei appena rientrato.»

«Mi sdraierò sul letto per un quarto d’ora. Sì, se il dottor Lal vuole venire, certamente, sì. Lascia che venga.»

Prima di andare Margotte volle dare un bacio al vecchio. Lui non si ritrasse, seppure fosse dell’idea che la gente di rado era nella condizione giusta per baciare e che per lo più lo faceva, con profanazione, come un memento di beatitudine. Ma quel bacio di Margotte, nel suo sforzo di allungarsi verso di lui, sulla punta dei piedi, gonfiando le gambe forti e rotonde, era un bacio dato nel momento adatto. Sembrava riconoscente che Sammler avesse scelto di vivere con lei anziché con Shula, che lui l’apprezzasse così tanto, e che fosse a lei che si rivolgeva anche quando si trovava nei guai. Tramite Sammler, inoltre, avrebbe incontrato un signore di fama, uno scienziato indù. Era profumata, si era truccata gli occhi.

Sammler disse: «Dovrei essere a casa verso le dieci».

«Zio caro, allora, se lo trovo, lo porto qui e ti possiamo aspettare insieme. Sarà ansiosissimo di riavere indietro il suo manoscritto.»

Presto la vide in strada. Scostando la tenda a grandi disegni, la osservò mentre si dirigeva verso la West End Avenue, lungo la pallida distesa del marciapiede, pronta a fermare il primo taxi che avesse visto. Era piccola, forte, e aveva una sorta di compatta fierezza femminile. Un po’ tremante, come accade alle donne quando hanno fretta. Agghindata in modo strano. Decisamente stravagante. Femmine! La corrente gli deve passare in mezzo alle gambe. Tali osservazioni scaturivano principalmente da una sorta di distacco cortese, di distacco di commiato, da un’obiettività da partenza-dalla-terra.

C’era ancora la luce del giorno, ma la scritta bianca della Spry sul lato opposto dello Hudson aveva cominciato a lampeggiare contro il verde pallido, e anche più giù, nell’acqua scura, mentre nel tramonto di rame la pancia d’asfalto della strada era morbidamente sfigurata, morbidamente rancida, con i suoi tombini. E le automobili si accalcavano come sempre per la strada. Macchine per andarsene via.

Togliendosi scarpe e calze, Mr. Sammler sollevò il lungo piede fin sopra al lavandino. Non era troppo vecchio per quei movimenti? Evidentemente no. Nell’intimità della sua stanza, in realtà si sentiva le membra meno irrigidite. Si lavò i piedi e non se li asciugò accuratamente, dato che era una serata calda. L’evaporazione diede un po’ di sollievo al dolore. Secondo il corso dell’evoluzione non eravamo bipedi da molto tempo, e i piedi ne soffrivano, particolarmente a primavera quando gli organismi sperimentavano una peculiare espansione. Stanco, e respirando sommessamente, Sammler si sdraiò sul letto. Si lasciò i piedi scoperti. Si portò la freschezza del lenzuolo sul torace piatto, asciutto. Spostò la lampada in modo che riverberasse la luce sulla tenda tirata.

Il lusso della non-intimidazione del destino funesto – con quelle parole si sarebbe potuto descrivere il suo stato d’animo. Poiché ormai la Terra nel suo complesso era una piattaforma, un punto d’imbarco, si poteva pensare al momento di andarsene da essa con il minimo terrore possibile. Non per liberare dal terrore un altro uomo (stava pensando a Elya con il tormento di metallo calibrato in gola). Ma spesso si sentiva quasi completamente fuori da tutto questo. E fra non molto ogni cosa doveva cambiare. Gli uomini avrebbero regolato gli orologi secondo soli diversi da questo. O il tempo sarebbe sparito. Nel futuro siderale non avremmo più avuto bisogno di nomi propri personali all’antica maniera, dato che nulla sarebbe stato fermo, fisso. Ci avrebbero designato con altri sostantivi. I giorni e le notti sarebbero appartenuti ai musei. La Terra un parco delle rimembranze, un cimitero carosello. I mari avrebbero polverizzato le nostre ossa come quarzo, facendone sabbia, macinando la nostra pace per noi in eoni. Be’, sarebbe stata una buona cosa – malinconicamente, una buona cosa.

Mah! Prima di lasciare ricadere la tenda, quando Margotte era scomparsa alla vista, prima di sedersi per togliersi le scarpe, prima di girarsi per lavarsi i piedi, ora che ci pensava, aveva notato la Luna non troppo distante dall’insegna della Spry, e rotonda come una segnalazione stradale. Quest’immagine lunare o post-immagine circolare gli era rimasta in testa. E ora conosciamo, dalle fotografie scattate dagli astronauti, la bellezza della Terra, il suo bianco e il suo azzurro, il suo manto di nubi e spume, la grande luminosità galleggiante. Un pianeta splendido. Ma non veniva fatto di tutto per rendere intollerabile l’esistenza qui, una collaborazione inconscia di tutte le anime per diffondere veleno e follia? Per liquidarci, come tirare una gran catena e via? Non tanto un’aspirazione faustiana, pensò Sammler, quanto una strategia da terra bruciata. Sì, distruggi tutto, e che cosa si porta via la morte? Profana, e poi fuggi nella beatitudine dell’oblio. O spicca il volo per altri mondi.

Da questi pensieri si rese conto che stava preparandosi a incontrare Govinda Lal. Probabilmente avrebbero discusso quegli argomenti. Il dottor Lal, il cui campo, a quanto pareva, era la biofisica e che, come la maggior parte degli esperti, poteva rivelarsi un non-individuo, dava a vedere, se non altro nei suoi scritti, di possedere una percettività più ampia. Poiché dopo ciascuna sezione tecnica proponeva osservazioni sugli aspetti umani degli sviluppi futuri. Sembrava consapevole, ad esempio, che la scoperta dell’America aveva sollevato, nel peccaminoso Vecchio Mondo, speranze di un Nuovo Eden. «Una consapevolezza condivisa» aveva scritto Lal «può benissimo essere la nuova America. L’accesso a meccanismi di dati primari può produrre un nuovo Adamo.» Ebbene, era molto strano ciò che Mr. Sammler si ritrovò a fare mentre se ne stava sdraiato nella sua stanza, in un vecchio edificio. A causa dell’assestamento dell’edificio sul terreno, l’intonaco si era incrinato, e lungo quelle incrinature diagonali Sammler aveva scritto, mentalmente, determinate proposizioni. Secondo una di queste, lui, personalmente, se ne stava in disparte, a distanza, da tutti i possibili sviluppi. Per un senso di deferenza, per l’età, per le sue buone maniere, Sammler a volte affermava di essere un individuo fuori da tutto questo, hors d’usage, un uomo non di quei tempi. Nessuna forza della natura, niente di paradossale o demoniaco, egli non sentiva dentro di sé alcuna spinta a penetrare a tutti i costi, rompendole, le maschere dell’apparenza. Non «Io e l’Universo». No, la sua idea personale era quella dell’essere umano condizionato da altri esseri umani, e conscio che gli attuali “ordinamenti” non erano, sub specie aeternitatisla verità, ma che ci si doveva ritenere soddisfatti della verità che si riusciva ad avvicinare per approssimazione. Tentando di vivere con un cuore civile. Con carità disinteressata. Con un senso della potenza mistica dell’umanità. Con un’inclinazione a credere negli archetipi della bontà. Il desiderio della virtù non era un caso.

Nuovi mondi? Inizi nuovi? Non era poi una faccenda tanto semplice. (Sammler cercava di distrarsi.) Che cosa fece il Capitano Nemo in Ventimila leghe sotto i mari? Rimase seduto nel sottomarino, nel Nautilus, e in fondo all’oceano suonò all’organo Bach e Händel. Roba buona, ma vecchia. E che dire del “viaggiatore nel tempo” di Wells, allorché si trovò proiettato a migliaia di anni e oltre nel futuro? S’innamorò nel modo più convenzionale di una bella fanciulla del popolo degli Eloi. Portarsi dietro – negli abissi del mare o lontano nello spazio e nel tempo – qualcosa di caro, e conservarlo: a quanto pare l’impulso era quello. Jules Verne aveva perfettamente ragione a tenersi Händel sul fondo dell’oceano, e non Wagner, sebbene ai tempi di Verne, Wagner fosse all’avanguardia fra i simbolisti, per aver fuso parola e suono. Secondo Nietzsche, i tedeschi, intollerabilmente oppressi dal fatto di essere tedeschi, usavano Wagner come hashish. Agli orecchi di Mr. Sammler, Wagner era musica di sottofondo per un pogrom. E cosa ci si doveva portar dietro sulla Luna? composizioni elettroniche? Mr. Sammler avrebbe sconsigliato una tale scelta. L’Arte che leccava i piedi alla Scienza.

Ma Sammler era turbato da qualche altra cosa, di natura niente affatto scherzosa. Desiderando distrarlo, Feffer gli aveva raccontato la storia del perito assicurativo che aveva tirato fuori la pistola. Non era stata una distrazione. Feffer aveva detto che con quell’accidenti di pistola uno avrebbe dovuto sparare a un uomo a brevissima distanza, mirando alla testa. Ammazzarlo a bruciapelo. Questo sparare alla testa era ciò che Sammler aveva tentato di cancellare, di eliminare dalla mente. Niente da fare. La distrazione si accartocciava, avvizziva. Doveva arrendersi e guardare in faccia determinate cose insopportabili. Queste cose non si potevano controllare. Bisognava affrontarle. Erano diventate una forza dentro di lui a cui non importava nulla se era in grado o meno di sopportarle. Visioni o incubi per altri, ma per lui avvenimenti alla luce del giorno, in piena coscienza. Certamente Sammler non aveva provato cose negate a tutti gli altri. Anche altri erano dovuti passare per le stesse esperienze. Prima e dopo. Soprattutto i non-europei avevano un loro modo più quieto di prendere certe cose. Senza dubbio qualche Navaho, qualche Apache sarà caduto nel Grand Canyon, sarà riuscito a sopravvivere, si sarà rialzato, ripreso, forse non avrà detto niente alla sua tribù. Perché parlarne poi? Le cose che succedono, succedono. E così, per parte sua, era accaduto che Sammler, insieme alla moglie e ad altri, in una giornata perfettamente limpida, si era dovuto spogliare del tutto. Attendendo, a quel punto, di essere fucilato nella fossa comune. (Eichmann aveva testimoniato di aver camminato su una nuova fossa simile a quella, e il sangue fresco che gli saliva intorno alle scarpe lo aveva fatto star male. Per un giorno o due, era dovuto rimanere a letto.) Quel giorno stesso, Sammler era già stato colpito all’occhio col calcio di un fucile, che lo aveva accecato. Contraendosi, come ritraendosi, dalla vita, nudo com’era, si era già sentito morto. Ma in qualche modo non era riuscito, a differenza degli altri, a mettersi in collegamento. Paragonando l’evento, come a volte faceva mentalmente, a un circuito telefonico: la morte non aveva sollevato il ricevitore per rispondere al suo squillo. Qualche volta, oggi, quando camminava per Broadway e udiva lo squillo di un telefono provenire da un negozio con le porte aperte, tentava di trovare, d’intuire, la sillaba che uno avrebbe sentito provenire dalla morte. «Pronto? Ah, finalmente tu.» «Pronto.» E l’aria della strada evaporava visibilmente in una tinta di piombo e anche di ottone. Ma se c’erano questi corpi vivi di New York che passavano, come una volta c’erano stati morti accatastati sopra di lui, se c’era quella folla che se ne andava in giro, ciondolava, si trascinava, saltellava di qua e di là (la plebaglia di Broadway a cui anche lui apparteneva); se c’era tutto questo, c’era anche abbastanza da sfamare ogni bocca: paste e biscotti, carne cruda, carne affumicata, pesce sanguinolento, pesce affumicato, maiale e pollo alla griglia, mele come munizioni, granate d’arancia anti-fame. Nelle fogne, lungo i bordi dei marciapiedi c’era un sacco di roba da mangiare, divorata, come lui aveva visto alle tre di notte, dai ratti che emergevano a quell’ora. Panini, ossi di pollo che, un tempo, lui avrebbe ringraziato Dio di poter avere. Quand’era partigiano nella Foresta di Zamość, gelato, l’occhio morto come una palla di ghiaccio in testa. Invidiando i rametti caduti, tale era la sua vicinanza al loro stato. Con una coperta da cavallo tutta buchi, congelata, e i piedi avvolti in stracci. Mr. Sammler era armato. Lui e altri uomini affamati masticavano radici ed erba per tenersi in vita. Di notte si sparpagliavano per andare a far esplodere ponti, deragliare treni, uccidere tedeschi rimasti sbandati.

Sammler stesso uccideva degli uomini. C’era quel pazzo dell’assicurazione di Feffer, preso nella morsa dell’impulso o del desiderio di esibizionismo, che aveva sparato contro l’elenco del telefono. In quell’atto c’era qualcosa di comicamente fanatico. Far passare una cartuccia attraverso un milione di nomi stampati a caratteri piccolissimi – un gioco da salotto. Ma Sammler fu spinto oltre il salotto e rimandato alla Foresta di Zamość. Là a distanza ravvicinata aveva sparato su un uomo che aveva disarmato. Gli aveva ordinato di lanciare via la carabina. Da un lato. Un bel metro abbondante dentro la neve. Cadde dritta e affondò. Sammler disse all’uomo di togliersi il cappotto. Poi la giacca dell’uniforme. Il pullover, gli stivali. Dopodiché il soldato disse a Sammler con voce sommessa: «Nicht schiessen». Chiedeva che gli fosse risparmiata la vita. I capelli rossi, un grosso mento ispido di bronzo, respirava appena. Era bianco. Violetto sotto gli occhi. Sammler vide la terra già sparsa su quella faccia. Vide la fossa richiusa sulla sua pelle. Il sudiciume del labbro, le grandi pieghe della pelle che gli scendevano giù dal naso già rigato di sporco – quell’uomo per Sammler era già sottoterra. Non era più vestito per la vita. Era segnato, perduto. Doveva andare. Era andato. «Non uccidermi. Prenditi la roba.» Sammler non gli rispose, ma rimase là in piedi, a debita distanza. «Ho figli.» Sammler premette il grilletto. Il corpo giacque sulla neve. Un secondo colpo gli traforò la testa e la fracassò. Le ossa esplosero. La materia fuoriuscì.

Sammler arraffò tutto quel che poteva – fucile, bossoli, roba da mangiare, stivali, guanti. Due colpi nell’aria d’inverno: la riverberazione si sarebbe sentita per miglia e miglia. Si affrettò, girandosi a guardare una volta. I capelli rossi e il grosso naso poteva vederli dai cespugli. Purtroppo gli era impossibile prendere la camicia. Le calze di lana puzzolenti, quelle sì. Le aveva desiderate con tutta l’anima. Era troppo debole per trascinare il bottino molto lontano. Si sedette sotto gli alberi scricchiolanti dell’inverno e mangiò il pane del tedesco. Insieme al pane, si portò alla bocca un po’ di neve per riuscire a inghiottirlo, ché era difficile. Non aveva saliva. La faccenda indubbiamente si sarebbe svolta in maniera diversa per un altro uomo, un uomo che durante quel tempo avesse mangiato, bevuto, fumato, e il cui sangue rigurgitasse di grassi, nicotina, alcol, secrezioni sessuali. Nel sangue di Sammler non c’era nulla di tutto ciò. Allora lui non era interamente umano. Stracci e carta, un involto legato con lo spago, e tutti quegli oggetti sarebbero potuti volare dove volevano, se la cordicella si fosse spezzata. Non è che poi gliene sarebbe importato molto. A quel punto, era ridotto. Ben poco per rispondere all’appello umano, alla supplica di una faccia distorta con i tendini che si aprivano a ventaglio nella gola.

Quando, più tardi, Mr. Sammler si nascose nel mausoleo, non fu per sottrarsi ai tedeschi, ma ai polacchi. Nella Foresta di Zamość i partigiani polacchi si rivoltavano contro i combattenti ebrei. La guerra stava per finire, i russi stavano avanzando e sembra che fosse stata presa la decisione di ricostruire una Polonia senza ebrei. E quindi ci fu un massacro. I polacchi vennero all’alba e spararono. Non appena ci fu abbastanza luce per l’assassinio. C’era nebbia, fumo. Il sole cercava di sorgere. Gli uomini cominciarono a cadere, e Sammler si mise a correre. C’erano altri due sopravvissuti. Uno fece finta di essere morto. L’altro, come Sammler, trovò una specie di varco e lo attraversò di corsa. Nascosto nella palude, Sammler giaceva sotto il tronco di un albero, nella melma, sotto i rifiuti. Di notte abbandonò la foresta. Il giorno dopo (era soltanto un giorno? forse era di più) tentò, decise di correre il rischio con Cieslakiewicz. Quelle settimane d’estate lui le passò al cimitero. Quindi riapparve a Zamość, nella cittadina vera e propria, stravolto, emaciato, a pezzi, l’occhio morto che gli sporgeva in fuori – come una pustola. Uno dei predestinati che era riuscito a scamparla.

Non valeva poi tanto aver fatto tutta quella fatica, forse. Ci sono circostanze in cui cedere è più ragionevole e dignitoso, e resistere a tutti i costi è un’infamia. Il non superare un determinato limite nel resistere. Non tendere eccessivamente il materiale umano. La scelta più nobile. Così la pensava Aristotele.

Mr. Sammler poteva anche aggiungere, alla saggezza di base, che uccidere l’uomo cui aveva teso un’imboscata nella neve gli aveva fatto piacere. Si trattava di piacere soltanto? Era di più. Era gioia. La chiamereste un’azione tenebrosa? Al contrario, era anche un’azione luminosa. Era predominantemente luminosa. Quando sparò il colpo di fucile, Sammler, lui stesso quasi cadavere, scoppiò di vita. Congelato com’era, nella Foresta di Zamość, aveva spesso sognato di starsene vicino al fuoco. Ebbene, qui si trattava di qualcosa di più sontuoso del fuoco. Il suo cuore si sentì rivestito di raso scintillante, voluttuoso. Uccidere l’uomo e ucciderlo senza pietà, poiché lui era dispensato dalla pietà. Ci fu un bagliore, una macchia di bianco infuocato. Quando sparò di nuovo non fu tanto per assicurarsi che l’uomo fosse morto quanto per provare ancora una volta quella beatitudine. Per bere altre fiamme. Avrebbe ringraziato Iddio per quell’opportunità. Se avesse avuto un Dio. A quel tempo, non lo aveva. Per molti anni, nella sua mente, non c’era stato altro giudice che se stesso.

Nell’intimità del suo letto tornò brevemente a considerare quella furia (per riferimento, lo fece). Il lusso. E quando lui stesso fu quasi colpito a morte. Dovette sollevare i cadaveri dalla sua persona. Disperato! Strisciando fuori. Cuore che scoppiava! Oh infamia! E poi lui stesso seppe cosa voleva dire sopprimere una vita. Scoprì che poteva voler dire estasi.

Si alzò. Si stava bene lì – la luce della lampada, la sua stanza. Aveva raccolto intorno a sé una sorta d’intimità che era molto gradevole. Ma si alzò. Non riusciva a riposarsi e tanto valeva che andasse in clinica. Suo nipote Gruner aveva bisogno di lui. Quella cosa gli stava sfrigolando nel cervello. La terra era sparsa sulla sua di faccia. Guarda bene. Ne scorgerai senz’altro qualche granello. Così, levandosi, Sammler diede un’allisciata alle coperte e alle lenzuola. Non lasciava mai un letto disfatto. S’infilò delle calze pulite. Fino alle ginocchia.

Peccato! Peccato cioè, venire lanciato in modo così anormale, avanti e indietro sui campi da gioco, come una palla che rimbalza fra due giocatori agguerriti. O l’essere soggetti a circostanze pazzesche. Oh quale cosa impietosa! Grazie no, no! Non volevo cadere nel Grand Canyon. Bello non essere morti? Più bello non esserci caduti dentro. Troppe cose interne erano state stritolate. C’era certa gente, ed è la verità, che considerava l’esperienza addirittura una ricchezza. La sofferenza aveva un altissimo valore. L’orrore poi, era una fortuna. Sì. Ma io queste ricchezze non le ho mai desiderate.

Dopo le calze, le scarpe di dieci anni prima. Le faceva risuolare continuamente. Per girare per Manhattan andavano benissimo. Aveva una cura impeccabile per le proprie cose, imbottiva il suo vestito buono con la carta velina, la sera metteva le scarpe nelle forme anche se il cuoio era tutto butterato tanto era vecchio e logoro, percorso com’era da crepe e pieghe. Quelle stesse scarpe Mr. Sammler le aveva portate in Israele, nell’estate del 1967. E non soltanto in Israele, ma anche in Giordania, nel deserto del Sinai e nel territorio siriano durante la Guerra dei sei giorni. La sua seconda visita. Se di visita si poteva parlare. Fu una spedizione. All’inizio della crisi di Aqaba improvvisamente si era fatto prendere dall’eccitazione. Non riusciva a star fermo. Aveva scritto a un vecchio amico giornalista a Londra dicendogli che era costretto a recarsi sul posto, doveva andarci assolutamente, in qualità di corrispondente, e spedire dei reportage. Esisteva un’associazione di pubblicazioni dell’Europa orientale. Tutto quello di cui realmente Sammler aveva bisogno erano le credenziali necessarie, una tessera che gli permettesse di inviare telegrammi, un tesserino-stampa per soddisfare gli israeliani. I soldi vennero forniti da Gruner. E così Sammler era stato con gli eserciti sui tre fronti. Era una cosa curiosa, quella. All’età di settantadue anni sui campi di battaglia, con quelle stesse scarpe indosso e una giacca in tela indiana a strisce alterne e un berretto bianco tutto sporco acquistato da Kresge. Con quella giacca, i carristi capivano subito che era americano, e gli urlavano dietro: «Yank!». Avvicinandosi ai carri armati, con alcuni parlava polacco, con altri in francese, o in inglese. C’erano dei momenti in cui pensava a se stesso come a un cammello in mezzo a veicoli blindati. Mr. Sammler non era certo sionista, e per molti anni si era interessato ben poco alle faccende ebraiche. Eppure, dall’inizio della crisi, non era riuscito a starsene fermo a New York a leggere la stampa mondiale. Non foss’altro perché per la seconda volta in venticinque anni lo stesso popolo veniva minacciato di sterminio: le cosiddette potenze lasciavano che le cose scivolassero pian piano verso il disastro; uomini armati per un massacro. E lui si rifiutò di rimanersene a Manhattan a guardare la televisione.

Forse era la pazzia delle cose che esercitò l’effetto più profondo in Sammler. La persistenza, la spinta maniacale di certe idee, in se stesse originariamente stupide, stupide idee che avevano attecchito per secoli, fu questo a provocare le reazioni più curiose in lui. Lo stupido sultanesimo di un Luigi Quattordici riprodotto nel Generale De Gaulle – il neo Carlo Magno, l’aveva chiamato qualcuno. O l’ambizione imperialista degli zar nel Mediterraneo. Volevano essere la potenza navale dominante nel Mediterraneo, una stolida bramosia di due secoli, e a questo fine, sotto gli auspici “rivoluzionari” del Cremlino, si lavorava ancora, nello stesso, identico modo – si lavorava! Ma non aveva dunque alcuna importanza che presto il dominio galleggiante da parte di navi armate sarebbe stata una cosa obsoleta quanto Assurbanipal, strana e inusitata come gli dèi dalla testa di cane d’Egitto? Ma no, non aveva proprio alcuna importanza. Non più di quanto la scomparsa degli ebrei dalla Polonia ne aveva avuta per l’antisemitismo dei polacchi. Questo era il significato della stupidità storica. E i russi pure, con la loro tenacia nazionale. Forniscigli un sistema, lascia che afferrino qualche idea, e quelli si lanciano a capofitto, lo applicano sino in fondo, ricoprono l’intero universo con uno strato di materiale ottuso e idiota. In ogni modo, a Sammler era sembrato giusto recarsi sulla scena. Si sarebbe trovato sul posto, avrebbe inviato reportage, per fare qualche cosa, forse per morire in quel massacro. Davanti a una cosa del genere non si poteva pretendere che se ne stesse seduto calmo e tranquillo a New York! Quella poi! La tremebonda, tumultuosa, sinistra New York – la città fenomeno di Feffer! E Sammler stesso si spinse all’estremo, forse era come ossessionato, fissato, cominciò a pensare ai sonniferi, al veleno. In realtà era il suo sistema nervoso tutto ingarbugliato, i “nervi-spaghetti”. Erano i suoi vecchi nervi polacchi che s’infuriavano. Era il suo vecchio panico, la sua peculiare afflizione. Non avrebbe più letto le corrispondenze del giorno dopo sulle migliaia di morti a Tel Aviv per mano degli arabi di Shukairy. Lo disse a Gruner. Gruner disse: «Be’, se per te è così importante, secondo me faresti bene ad andare». Ora Sammler pensava di essere stato esagerato. Aveva perduto la testa. Pur tuttavia aveva avuto ragione ad andare.

Essendo stato unico e solo consigliere di se stesso per tanto tempo, avendo trascorso sette decenni di consultazione interiore, Sammler aveva i propri, personali punti di vista su quasi tutto. E anche l’indipendenza più illimitata era insufficiente, non era ancora abbastanza. E nella sua testa c’erano dei corsi mentali asciutti, di nessun interesse per altri al di fuori di lui, forse – wadis, gli pareva che si chiamassero in arabo – piccoli burroni creati dalla costante erosione delle preoccupazioni. Aver tolto una vita era uno di questi. Esattamente. La sua vita era stata lì lì per essere tolta. Lui aveva visto togliere una vita. L’aveva tolta lui stesso. Sapeva che era un lusso. Sfido io che per tanto tempo i principi si erano riservati il diritto di uccidere con impunità. L’impunità si trovava anche al fondo estremo della società, poiché a nessuno importava ciò che accadeva. Sotto quella massa scura e brutale, spesso, ai delitti di sangue non ci si faceva caso. E sulla vetta, sul punto più alto di tutti, le antiche immunità di nobili e di re. Sammler pensava che di questo si occupava la rivoluzione. In una rivoluzione si sottraevano i privilegi a un’aristocrazia e si ridistribuivano. Che cosa significava l’uguaglianza? Significava che tutti gli uomini erano amici e fratelli? No, significava che tutti appartenevano all’élite. Uccidere era privilegio antico. Era per questo che le rivoluzioni si tuffavano nel sangue. Ghigliottine? Terrore? Soltanto un inizio – nulla. Poi era venuto Napoleone, un criminale che lavò con abbondantissimo sangue tutta l’Europa. Poi era venuto Stalin, per cui il vero grande premio del potere consisteva nel godimento non intralciato dell’assassinio. Quel possente godimento nel consumare il respiro delle narici degli uomini, inghiottendo i loro volti come un Saturno. Era questo, in verità, che la conquista del potere sembrava significare. Sammler si allacciò le scarpe – continuò a vestirsi. Si spazzolò i capelli. Come in trance. Separato da un’enorme distanza dal se stesso nello specchio, di fronte a lui. E per la parte media della società c’erano invidia e venerazione di quel potere di uccidere. Quanto lo adoravano i vari Sorel e Maurras della borghesia – la mano che afferrava il pugnale con autorità. Quanto amavano l’uomo sufficientemente forte da assumersi la colpa di sangue su di sé. Per loro un’élite doveva dimostrare il proprio valore in quella particolare maestria dell’assassinio. Per gente come loro un santo doveva essere inteso come un individuo eguale in spirito all’infuocata convulsione del crimine nelle fibre più nascoste del proprio cuore. Il super-uomo che mette alla prova se stesso con un’ascia, fracassando il cranio di vecchie donne. Il Cavaliere della Fede, capace di tagliare la gola del proprio Isacco sull’altare di Dio. E ora l’idea che si può riconquistare, o stabilire la propria identità uccidendo, divenendo in tal modo uguale a chiunque altro, uguale al più grande. Un uomo in mezzo ad altri uomini sa come si uccide. Un patrizio. La classe media non aveva i suoi propri autonomi princìpi d’onore. E quindi non aveva alcuna resistenza al fascino esercitato dagli assassini. La classe media, non essendo riuscita a creare una vita spirituale propria, investendo ogni suo avere nell’espansione materiale, era ormai di fronte al disastro. Inoltre, essendosi il mondo disincantato, ora gli spiriti e i demoni espulsi dall’aria venivano portati all’interno. La ragione aveva spazzato e adornato la casa, ma lo stato ultimo poteva essere peggio del primo. Allora, adesso, cosa ci si potrebbe portare sulla Luna?

Con il gomito spazzolò il cappello di feltro, tornò nell’ingresso, chiuse la porta a chiave, si assicurò che non fosse rimasta aperta, chiamò l’ascensore, e scese. Mr. Sammler di nuovo in giro per le strade, che erano ormai azzurro scuro, un chiarore bluastro proveniente dai lampioni. Curvo, camminava veloce. Aveva soltanto due ore, e se non riusciva a prendere in tempo l’autobus Crosstown all’Ottantaseiesima Strada per andare alla Seconda Avenue, sarebbe stato costretto a prendere un taxi. West End era assai tetra. Lui le preferiva persino quella Broadway maleodorante, fumante, ansimante, scossa da brividi, rigurgitante di pazzi. I suoi ciuffi setosi, ormai quasi bianchi, aggrovigliati, sopra gli occhiali, si sollevavano alla vista di quel fenomeno. Non serviva a nulla essere l’osservatore sensibile, il turista (c’era forse qualche terra sufficientemente stabile per andarvi come turisti?), il vagabondo filosofo a Broadway, che ispezionava il fenomeno. Il fenomeno in qualche modo aveva raggiunto una propria consapevolezza dell’interesse e dell’osservabilità che stimolava. Era consapevole di essere una scena di perversità, conosceva la propria disperazione. E la paura. Il terrore di tutto ciò! Qui si poteva vedere l’anima dell’America alle prese con problemi storici, intenta a lottare con determinate impossibilità, sperimentando violentemente stati connotati da intrinseca staticità. Già realizzata, ma provando nondimeno essa stessa a realizzarsi, ad agire. Tentando di creare interesse. Questo sforzo di creare interesse era, per Mr. Sammler, uno dei motivi del perseguimento della follia. La follia crea interesse. La follia è il tentativo di libertà compiuto da individui che si sentono soverchiati da forze gigantesche di controllo organizzato. Alla ricerca della magia degli estremi. La follia è una forma base della vita religiosa.

Ma aspetta un momento – si mise in guardia Sammler. Persino questa follia è anch’essa, in grandissima misura, una questione di rappresentazione, di messa in atto. Sotto a tutto ciò persiste, e pure potentemente, un senso ben chiaro di quello che è normale per la vita umana. Si ottempera ai doveri. Gli affetti vengono conservati. C’è il lavoro. La gente si presenta al lavoro. È straordinario. Prendono l’autobus e vanno in fabbrica. Aprono il loro negozio, spazzano, incartano, lavano, riparano, servono, contano, sorvegliano i registratori di cassa. Ogni giorno, ogni notte. E per quanto ribelli nel cuore, per quanto disperati, terrorizzati, o ridotti a nulla, si recano dove i loro compiti li attendono. Su e giù in ascensore, seduti alla scrivania, al volante, al controllo macchine. Per un animale così impulsivo e irrequieto, un animale così irritabile, curioso, una scimmia soggetta a così tante malattie, all’angoscia, alla noia, una tale disciplina, un tale addestramento, una tale forza per osservare la regolarità, un tale senso di responsabilità e volontà di assumersela, un tale rispetto per l’ordine (persino nel disordine): anche questo è un gran mistero. Eccome se è un mistero. Quindi non si può confondere tutto ciò con la pazzia completa. C’è una cosa, però: i disciplinati odiano gli indisciplinati al punto di ucciderli. E di conseguenza la classe lavoratrice, disciplinata, è un grande deposito di odio. Per questo l’impiegato dietro lo sportello trova difficile perdonare coloro che vanno e vengono a loro piacere, in quella che sembra libertà. E il burocrate è felice quando uomini sregolati vengono uccisi. Uccisi, tutti.

Ah, quello che si vede a Broadway mentre si va a prendere l’autobus! Sono riprodotti tutti i tipi umani: il barbaro, il pellerossa o un indigeno delle Isole Figi, il dandy, il cacciatore di bufali, il desperado, il pederasta, il fantasista sessuale, la squaw; bas-bleu, principessa, poeta, pittore, cercatore d’oro, troubadour, guerrigliero, Che Guevara, il nuovo Thomas à Becket. Non imitati sono l’uomo d’affari, il soldato, il prete, e il tizio perbene che vive secondo le regole. Lo standard è di tipo estetico. Agli occhi di Mr. Sammler, gli esseri umani, quando hanno spazio, quando godono di libertà e in più hanno anche delle idee, si automitizzano. Leggendizzano. Attraverso l’immaginazione si espandono e cercano di sollevarsi al di sopra delle limitazioni delle forme ordinarie della vita comune. E cosa c’è di “comune” nella “vita comune”? Cosa accadrebbe se un genio facesse della “vita comune” quello che Einstein ha fatto della “materia”? Trovando le fonti della sua energia, le sue trasformazioni, scoprendo il suo irraggiamento. Ma al livello attuale di visione rozza, gli spiriti agitati fuggivano dall’oppressività della “vita comune” separandosi dal resto della loro specie, dalla vita della loro specie, sperando forse di scampare (in qualche senso peculiare) alla morte della specie. Per compiere azioni di più alto significato, per servire l’immaginazione con esiti speciali, sembra essenziale essere istrionici. Anche questo è un genere di pazzia. La pazzia ha sempre costituito la scelta preferita dell’uomo civilizzato che si appresta a una nobile impresa. Spesso si tratta del più semplice stato di disponibilità agli ideali. La maggior parte di noi si ritiene soddisfatta e non cerca altro: significando, tramite un certo tipo di pazzia, la devozione e la disponibilità ad accedere a finalità più alte. E queste finalità più alte non sono di necessità visibili.

Se stiamo per portare a compimento il nostro progetto terreno – o perlomeno la prima grande fase di esso – è meglio fare una somma di tutte queste cose. Però, brevemente. Nel modo più breve possibile.

Giudizi brevi, per l’amor di Dio!

Dunque: una specie pazza? Sì, forse. Sebbene la pazzia sia anch’essa una mascherata, la proiezione di un motivo più profondo, il risultato della disperazione che ci coglie dinanzi alle infinità e alle eternità. La pazzia è una diagnosi o un verdetto di alcuni dei nostri più insigni medici e geni, e delle loro menti deluse dall’uomo. Oh, uomo stordito dal contraccolpo dei poteri dell’uomo. E cosa fare? Per rimanere nell’ambito degli istrioni, considera, per esempio, quel che aveva fatto quel furioso ribollitore del mondo che era Marx, sostenendo che le rivoluzioni venivano fatte in costumi storici, i Cromwelliani in guisa di profeti del Vecchio Testamento, i Francesi, nel 1789, vestiti da antichi romani. Ma il proletariato, egli disse, dichiarò, affermò, avrebbe fatto la prima rivoluzione non-imitativa. Non avrebbe avuto bisogno della droga del ricordo storico. Dalla pura e semplice ignoranza, dal non conoscere alcun modello, sarebbe scaturita la cosa pura. L’originalità faceva girare la testa anche a lui, come a tutti gli altri. E soltanto la classe lavoratrice era originale. E in quel modo la storia si sarebbe distaccata dalla mera poesia. E allora l’esistenza umana si sarebbe sbarazzata del bisogno di copiare. Sarebbe stata libera dall’Arte. Oh, no. No, no, per niente, pensò Sammler. Al contrario, l’Arte aumentava, ed era una specie di caos. Più possibilità, più attori, scimmiottatori, imitatori, più invenzione, più finzione, più illusione, più fantasia, più disperazione. La vita che svaligiava l’Arte della sua ricchezza, distruggendo, con il suo desiderio di diventare la “cosa in sé”, anche l’Arte stessa. Si imponeva spingendosi dentro le immagini. La realtà che penetrava a forza in tutte quelle forme. Guarda semplicemente (Sammler guardò) l’anarchia imitativa delle strade – queste uniformi rivoluzionarie cinesi, questi pupi e pupe del paese dei balocchi, questi capi di guerra surrealisti, questi conducenti di diligenze western: alcuni di loro erano dottori in filosofia (Sammler ne aveva conosciuti, e insieme avevano discusso di quei problemi). Cercavano l’originalità. E loro copiavano palesemente. E che cosa? I Paiute, i Fidel Castro? No, le comparse di Hollywood. Facevano i mitici. Gettandosi nel caos, sperando di aderire in quella maniera a una consapevolezza più alta, di venire riversati sui lidi della verità. Molto meglio, pensò Sammler, accettare l’inevitabilità dell’imitazione e poi imitare cose buone. Gli antichi avevano questo diritto. Grandezza senza modelli? Inconcepibile. Uno non poteva essere la “cosa in sé” – la Realtà. Bisognava accontentarsi dei simboli. Far sì che l’obiettivo dell’imitazione fosse quello di raggiungere e lasciar libere queste qualità più alte. Far la pace, quindi, con la mediazione e la rappresentazione. Ma scegliendo rappresentazioni più alte. Altrimenti l’individuo deve per forza essere il fallimento che ora vede e sa di essere. Mr. Sammler, dispiaciuto per tutti, e desolato.

Prima di scappare, prima di questo salto sulla Luna e di questo balzo nel vuoto fuori di noi, era meglio che considerassimo un po’ più da vicino tali faccende. Quanto al Crosstown e a quell’ora di sera, era un autobus che si poteva prendere senza alcun rischio.

IV

Il dottor Gruner aveva delle infermiere private ventiquattr’ore su ventiquattro. Sammler entrò e trovò la donna in uniforme seduta accanto al letto. Il paziente stava dormendo. Bisbigliando nel modo più sommesso possibile, Sammler si presentò. «Suo zio – ah, sì, infatti mi ha detto che probabilmente sarebbe venuto» disse l’infermiera. Nulla nel tono delle sue parole fece pensare che si trattasse di una previsione gradevole. Sotto la cuffietta inamidata gli aridi capelli tinti erano gonfi e cotonati. La faccia, di mezza età, carnosa, prepotente, scoppiava di salute. Gli occhi avevano un’espressione di sovranità. I pazienti avrebbero seguito il corso che dovevano seguire: la guarigione o la morte.

«È ora di dormire per lui?, voglio dire per tutta la notte, oppure sta facendo semplicemente un sonnellino?» disse Sammler.

«Può darsi che si svegli tra pochi minuti, ma tiro a indovinare. La signorina Gruner è nella sala d’aspetto.»

«Mi fermerò un pochino» disse Sammler, non invitato a sedersi.

C’erano molti fiori, ceste di frutta, scatole di caramelle, bestseller. Il televisore era acceso, e muto. L’infermiera ascoltava con l’auricolare. La luce riflessa tremolava sulla parete dietro al letto. Le mani di Elya erano girate a palmo in giù, lungo i fianchi, come se lui gli avesse trovato una sistemazione simmetrica prima di lasciarsi cadere. Le mani pelose erano pulite, forti, percorse da vene, con le unghie lucide. Le unghie avevano la stessa lucentezza del bicchierino da cui Gruner aveva sorseggiato il suo olio minerale. C’era anche la bottiglia di Nujol, e accanto il «Wall Street Journal». Nuda dignità. Il filo elettrico del rasoio era infilato nella spina, in alto. Elya era sempre rasato di fresco. I sacerdoti del toro Api, secondo la descrizione di Erodoto, con il capo e il corpo rasato. E con la bocca dormiente sporta in fuori, da un lato, come se Elya, a cui piaceva dire che era cresciuto a Greenpoint tra la feccia del quartiere, stesse sognando delinquenti e pistolettate. Sotto il mento la fasciatura sembrava un colletto militare. Sammler pensò a lui come a un uomo che immensamente, persino disperatamente, aveva bisogno di conferme, di sostegno e contatto fisico con gli altri. Era un “toccatore”. Era sua abitudine, anche mentre semplicemente attraversava una stanza, toccare, prendere la gente per il braccio, addirittura informarsi della condizione, diciamo, medica di quelle persone, dei loro muscoli, ghiandole, peso, o della crescita dei capelli. Inoltre, inculcava le sue opinioni nella gente, immetteva le sue speranze nei loro cuori, e poi, se diceva: «Be’, non è così?», in effetti lo era. Come un moderno generale dell’esercito, un Eisenhower, faceva le sue preparazioni logistiche. Quella sua astuzia era molto infantile. Peraltro facile da perdonare. Soprattutto in un momento come quello. Ma come faceva a dormire, in un momento come quello?

Sammler indietreggiò pian piano fino a raggiungere la porta, uscì e andò nella sala riservata ai visitatori. Là era seduta Angela che fumava, ma non col suo caratteristico stile sensuale ed elegante. Aveva pianto, e il suo viso era bianco e infiammato. La figura pesante, i seni un ingombro, le ginocchia sporgenze pallide contro la seta aderentissima delle calze. Era soltanto per il padre che stava piangendo? Sammler avvertì che c’erano un insieme di motivi per quelle lacrime. Si sedette di fronte a lei e posò il suo cappello all’Augustus John grigio-talpa sulle ginocchia.

«Dorme ancora?»

«Sì» disse Sammler.

Angela teneva aperte le grosse labbra come se cercasse di rinfrescarsi; respirava attraverso la bocca. Accaldata, la faccia inclinata, di una grana finissima, sembrava molto tirata. Il calore le saliva anche nel bianco degli occhi. «Ma capisce veramente qual è la situazione?»

«Chi lo sa. Ma è medico, e secondo me lo capisce.»

Angela ricominciò a piangere, e Sammler si convinse ancora di più che ci fosse un altro motivo per le sue lacrime. «E tutto il resto è perfettamente a posto, capisci» disse Angela. «Sta perfettamente bene, salvo per quell’affare – quell’unico dannato aggeggio. E tu credi che lo sappia, Zio?»

«Sì, è probabile.»

«Ma si comporta tanto normalmente. Parla della famiglia. È stato così contento di vederti e sperava che questa sera saresti tornato. E continua a preoccuparsi per Wallace.»

«Si può pure capire perché.»

«Wallace è stato sempre un bel grattacapo. A sei anni, sette, era un bambino così bello, così dotato. Mi ricordo che metteva insieme numeri su numeri, sai, la matematica. Noi pensavamo di avere in famiglia un altro Einstein. Papà l’ha iscritto al Massachusetts Institute of Technology. Ma non ha fatto quasi in tempo a mandarcelo che siamo venuti a sapere che lavorava come barman a Cambridge, e che aveva picchiato a morte un ubriacone e c’è mancato poco che quello ci rimanesse secco.»

«L’ho saputo.»

«E adesso rompe le scatole a papà perché gli compri un aereo. In un momento simile! Un disco volante ci starebbe meglio! Naturalmente parte della colpa di Wallace è anche mia.» Sammler sapeva che la conversazione avrebbe preso una svolta psichiatrico-pediatrica e che gli sarebbe toccato sorbirsi una certa dose di spiegazioni.

«Naturalmente io me la presi a male quando portarono il bambino a casa dalla clinica. Chiesi a mamma di mettere la culla in garage. Sono sicura che lui, fin dal principio, abbia provato la sensazione di venire respinto. A me non è mai piaciuto. Era troppo tetro. Insomma, non aveva nulla del bambino. Aveva degli attacchi di rabbia terribili.»

«Be’, ognuno di noi ha la propria storia» disse Sammler.

«Credo di aver deciso già da adolescente che mio fratello sarebbe diventato gay. Pensavo che fosse colpa mia, che ero una sgualdrina tale che lui un po’ per volta aveva cominciato ad avere paura delle ragazze.»

«Veramente? Mah, mi ricordo la tua bat mitzvà» disse Sammler. «Eri una ragazza molto studiosa. Rimasi molto colpito da come studiavi l’ebraico.»

«Era semplicemente una facciata, Zio. In verità ero una troietta, ecco cos’ero.»

«Mah, chi lo sa. In retrospettiva, la gente esagera a un punto tale…»

«Wallace non ci è mai piaciuto, né a papà né a me. Abbiamo fatto in modo che fosse completamente sulle spalle della mamma, e questa è stata come una condanna a vita. A quel punto c’è stata una cosa dopo l’altra, la fase in cui era obeso, quella in cui era alcolizzato. Be’, adesso hai sentito l’ultima? È convinto che ci siano dei soldi nascosti in casa.»

«E ne sei convinta pure tu?»

«Mah. Papà ogni tanto alludeva vagamente a questa faccenda. Anche mamma prima che morisse. Sembrava che secondo lei papà qualche volta… be’, non rigava proprio dritto, come diceva la mamma.»

«Per tirare fuori dai guai famiglie famose della Dutchess County, come mi ha detto Wallace?»

«Ah, è così che dice lui? No, Zio, quello che ho sentito io è che papà faceva dei favori a certi tizi della mafia con cui è cresciuto. Pezzi grossi del crimine organizzato. Lui conosceva benissimo Lucky Luciano. Tu probabilmente non hai mai sentito parlare di Luciano.»

«Soltanto vagamente.»

«Ogni tanto Luciano veniva a New Rochelle. E se papà faceva quelle cose e quelli lo pagavano in contanti dev’essere stato imbarazzante. Probabilmente non sapeva che fare con quel denaro. Ma non è questo che mi preoccupa di più.»

«No. Angela, a proposito di New Rochelle, tu per caso non hai visto Shula, eh?»

«No, non l’ho vista. Che cosa ha combinato?»

«Mi ha portato un libro molto interessante. Però, non era suo, capisci.»

«Desumo che se ne stia nascosta per via di Eisen. Crede che sia venuto qui per riprendersela.»

«Un timore lusinghiero. Magari Eisen fosse capace di venire con una missione del genere! Se non la picchiasse, sarebbe la soluzione di molti problemi. Sarebbe una benedizione. No, secondo me lui non la vuole affatto. Non gli va giù che lei posi da cattolica. Questo è stato il suo pretesto. Benché abbia detto che a Castel Gandolfo si è trovato molto bene con Papa Pio. E adesso Eisen non è più l’amico dei papi, è un artista. Io non credo che abbia un gran talento, seppure sia abbastanza pazzo da agognare alla gloria, la gloria vera.» Ma Angela in quel momento non aveva voglia di sentir parlare di quelle storie. Evidentemente pensava che Sammler cercasse di portare l’argomento su un piano teorico – discutere l’aspetto psicotico-creativo.

«Be’, comunque è stato qui.»

«Tu hai visto Eisen? Si è messo a dar fastidio a Elya? È entrato in camera?»

«Voleva fare dei disegni – voleva fare degli schizzi di papà, capisci.»

«Ah, questo proprio non mi va giù. Preferirei che non disturbasse Elya. Ma che diavolo vuole? Tienilo lontano.»

«Be’, non avrei dovuto farlo entrare. Io pensavo che forse papà ci si sarebbe divertito.»

Sammler stava per rispondere, ma varie pulsazioni di comprensione gli attraversarono il cervello e gli fecero vedere le cose in modo diverso. Naturale. Eh, già. Angela aveva i suoi di guai col dottor Gruner. Angela non era certo una dalla lacrima facile, come Margotte, per intenderci, che puntualmente, una volta all’anno, versava il suo torrente di lacrime. Se Angela quella sera aveva un’aria così esangue tanto che persino i capelli con le mèches, normalmente tanto splendenti e forti, sembravano secchi e fragili (Sammler credette di scorgere le macchioline scure follicolari sulla cute), era perché aveva litigato col padre. Sotto stress, così credeva Sammler, l’interezza vacillava, e alcune parti (i follicoli, ad esempio) diventavano vistosamente distinguibili. Queste, almeno, erano le sue riflessioni. Elya doveva essere furioso con lei, e lei cercava di distrarre la sua attenzione. Visitatori. Ovviamente era per questo che aveva portato Eisen dritto dritto nella stanza del malato. Ma Eisen non poteva servire a distrarlo. Era uno di quei maniaci sorridenti, ma cupi. Molto cupo, in verità. Un tipo deprimente. L’abito elegante di seta che aveva indossato dieci anni prima a Haifa quando lui e il suocero erano scesi in strada, ed erano entrati in un caffè per discutere di Shula, sarebbe stato perfetto per foderare l’interno di una bara. Eisen sicuramente meritava di essere accudito, e quello era uno dei vantaggi che offriva Israele: serviva a raccogliere quelle persone menomate. Ma adesso ne era fuggito, aveva udito la musica frenetica e allegra dell’America e voleva farsi avanti. Si era diretto come un razzo dal cugino ricco. Il cugino ricco era all’ospedale con una specie di ponticello per violino ficcato nel collo. Strano il sesto senso che avevano tutti, per molestare quell’uomo morente.

«E Elya ha trovato Eisen divertente? Ne dubito.»

Angela si era messa un berrettino scherzoso, che faceva pendant con le scarpe bianche e nere. Ora che teneva il capo più basso Sammler vide il grosso bottone di capretto al centro delle pieghe che si aprivano a raggio.

«Per un po’ sì, credo» disse Angela. «Lo ha ritratto in alcuni schizzi. Senonché dopo ha provato a venderglieli. Papà li ha guardati appena.»

«Non c’è da sorprendersi. Chissà dove li ha trovati i soldi, Eisen, per venire in America.»

«Non so, forse li aveva messi da parte. Ce l’ha con te, Zio.»

«Oh, ne sono certo.»

«Perché non sei andato a trovarlo in Israele. Quando sei stato là per la guerra. Lui dice che l’hai snobbato.»

«Non è che questo mi tocchi più di tanto. Io non ero andato in Israele per porgere i miei omaggi a un genero o per far visita alla gente.»

«Si è lamentato di te con papà.»

«È orribile!» disse Sammler. «Tutti a darci sotto con queste stupidaggini. In un momento simile!»

«Ma papà s’interessa di un sacco di cose. Se tutto si fermasse all’improvviso, sarebbe anormale. È chiaro che è brutto dargli altre preoccupazioni, irritarlo. Per esempio, adesso è arrabbiato con me.»

«Immagino che in realtà non sia possibile per Elya comportarsi diversamente, in un modo più adatto alle circostanze.»

«Secondo me dovrebbe smettere di parlare con Widick. Lo conosci quell’avvocato grasso di papà, Widick?»

«Naturalmente. L’ho conosciuto.»

«Gli telefona quattro o cinque volte al giorno. E papà mi chiede di lasciarlo solo. Quei due stanno ancora comprando e vendendo in Borsa. Poi penso che discutano anche del testamento, altrimenti non mi manderebbe fuori dalla stanza.»

«Evidentemente, Angela, malgrado le tue rimostranze contro Mr. Widick, tu stessa in qualche modo hai fatto incollerire tuo padre. E a quanto capisco vorresti che io te ne domandassi il perché.»

«Penso che dovrei dirtelo, ecco.»

«Mi sembra un brutto segno.»

«Infatti. È stato quando Wharton Horricker e io siamo andati in Messico.»

«A mio parere, Elya lo trova simpatico, Horricker. Non avrebbe avuto obiezioni a quel viaggio.»

«No, sperava che Wharton e io ci sposassimo.»

«E non è così?»

Angela teneva la sigaretta accesa tra le dita incrociate, davanti alla faccia. Azioni normalmente graziose, ora dolorosamente grossolane. Scosse il capo, gli occhi le si riempirono di lacrime, divennero rossi. Ah, guai con Horricker. Sammler se l’era immaginato che si trattasse di qualcosa del genere. Era un po’ difficile per lui capire come mai quella ragazza dovesse sempre avere tanti problemi. Forse lui si era fatto l’idea che lei godesse di tanti privilegi, e quindi, di che cos’altro poteva aver bisogno? Viveva della rendita di un capitale del valore di mezzo milione di dollari: azioni di enti locali esenti da tasse, come ripeteva Elya. Aveva quella carne, quelle attrazioni e doni sessuali – volupté, aveva. Faceva riaffiorare alla memoria il vocabolario sessuale francese che Sammler aveva imparato all’Università di Cracovia, leggendo Émile Zola. Quel libro sul mercato della frutta. Le Ventre de Paris. Les Halles. E quella donna appetitosa, là, che era anche lei qualche cosa di buono da mangiare, un vero e proprio frutteto. Volupté, seins, épaules, hanches. Sur un lit de feuilles. Cette tiédeur satinée de femme. Ottimo, Émile! E – va bene! – i frutteti che soffrivano quando si verificavano tremori nella terra potevano far cadere tutte le loro pere: anche questo Sammler lo poteva capire con una certa dose di identificazione. Ma Angela era sempre, in modo non comune, impelagata in difficoltà, in preda alla sofferenza, incespicava in invisibili ostruzioni, faceva nascere complicazioni di dolorosa cattiveria, a un punto tale che Sammler si chiese se questa volupté non fosse uno dei fardelli più penosi e più strani che si potessero depositare sull’anima di una donna. Vedeva Angela (attraverso il suo stesso racconto erotico della faccenda), come se si trovasse veramente in camera da letto. Era là perché era stato invitato, spettatore perplesso. Evidentemente lei riteneva necessario che lui sapesse quello che succedeva in America. Lui, invece, non aveva bisogno poi d’informazioni così dettagliate. Comunque meglio il surplus dell’ignoranza. Per Sammler, sia gli USA che l’URSS erano progetti utopistici. Là, nell’Est, l’accento veniva posto su prodotti base, scarpe, berretti, stura gabinetti, e bacinelle di latta per i contadini e gli operai. Qui invece l’accento cadeva su determinate gioie e privilegi. Qui si camminava nudi nelle acque del paradiso eccetera. Ma sempre una certa disperazione sottolineava il piacere, la morte seduta all’interno della capsula della salute, per manovrarla, e l’oscurità che ti faceva l’occhiolino dall’utopistico sole dorato.

«E così hai bisticciato con Wharton Horricker?»

«È lui che è arrabbiato con me.»

«E tu non sei arrabbiata con lui?»

«Non precisamente. A quanto pare ho torto io.»

«E lui adesso dov’è?»

«Dovrebbe essere a Washington. Sta facendo qualche cosa di statistico su certi missili antibalistici. Per il blocco da parte del Senato del trattato ABM. Io queste cose non le capisco, sai com’è.»

«È brutto che queste difficoltà sorgano proprio adesso; averne due allo stesso tempo, voglio dire.»

«Ho paura che papà sia venuto a sapere di questa faccenda.»

Sia nell’espressione di Angela che in quella di Wallace c’era qualcosa di tenero, un accenno d’infanzia o di rêverie fanciullesca. I genitori dovevano aver desiderato eccessivamente dei bambini e di conseguenza avevano inibito qualcosa nel ciclo evolutivo dei figli. L’ultimo sguardo di Angela, prima che cominciasse a singhiozzare, meravigliò Sammler. Labbra aperte, fronte grinzosa, la pelle stessa che esprimeva una capitolazione completa, tratti della persona originaria. Una bambina! Ma gli occhi non abbandonarono il loro balenio di esperienza erotica.

«È venuto a sapere che cosa?»

«Una cosa che è successa ad Acapulco. Io non pensavo che fosse poi tanto grave. E nemmeno Wharton. A quell’epoca non era altro che uno sfizio. Insomma era buffo. Abbiamo combinato una serata con un’altra coppia.»

«E che genere di serata è stata?»

«Be’, sai, sesso a quattro.»

«Con altre persone? Chi erano?»

«Erano persone perbenissimo. Li avevamo conosciuti sulla spiaggia. È stata la moglie a suggerirlo.»

«Uno scambio?»

«Be’, sì. Oh, Zio, oggigiorno queste cose si fanno.»

«Già, l’ho sentito dire.»

«Ti faccio ribrezzo ora, Zio.»

«A me? No, non direi. Io ero informato di tutto da molto tempo. Mi dispiace quando le cose prendono una piega così stupida, questo è vero. A me sembra che quello che dei poveri professionisti un tempo dovevano fare per guadagnarsi da vivere, esibirsi alle feste degli scapoli, o quei circhi di sesso per turisti a Place Pigalle, adesso la gente più comune, casalinghe, impiegatucci, studenti, lo facciano tanto per stare in compagnia. E francamente non potrei spiegare in che cosa consista tutto ciò. Potrebbe essere una specie di sforzo collettivo per superare il disgusto? O per dimostrare che tutte le cose ripugnanti della storia non sono poi tanto ripugnanti? Non so. È uno sforzo per “liberalizzare” l’umana esistenza e dimostrare che nulla di quello che accade fra le persone è realmente deprecabile? Affermare la Fratellanza dell’uomo? Ah, certo che…» Sammler si ricompose e si frenò. Non voleva sapere i particolari dell’episodio di Acapulco, non voleva sentire che l’uomo in causa era un giudice municipale di Chicago, o un fisioterapista o un contabile o uno spacciatore di droga o un fabbricante di profumo o formaldeide.

«E Wharton c’è stato, ha fatto la sua parte, ma dopo ha messo il broncio. Poi, in aereo, sulla via del ritorno, mi ha detto quanto tutta la faccenda gli avesse dato sui nervi.»

«Be’, è un giovanotto pignolo, tutto ordinatello. Basta guardare le camicie che porta. Immagino che sia stato educato molto bene.»

«Non si è comportato mica meglio di noialtri tre.»

«Se tu intendevi sposare Wharton, non hai certamente dimostrato molto buon senso a fare una cosa del genere.»

Sammler desiderava ardentemente terminare quella conversazione. Elya gli aveva detto di non preoccuparsi del suo futuro, per fargli capire, insomma, che il suo sostentamento era assicurato; ma c’erano anche considerazioni di ordine pratico da tenere presenti. Cosa sarebbe accaduto se lui e Shula avessero dovuto dipendere da Angela? Angela era sempre stata generosa – spendeva con facilità. Quando andavano a vedere qualche mostra o a colazione insieme, era lei, naturalmente, che pagava i taxi, pagava il conto, lasciava la mancia, tutto. Ma non sarebbe stato consigliabile andare troppo in profondità, con Angela, in quella sua strana vita. I fatti erano troppo brutti, troppo audaci, abominevoli, pietosi. Entro certi limiti quel suo modo di comportarsi era basato sulla teoria, sull’ideologia generazionale, era parte di un’educazione liberale ed era, quindi, in qualche misura, impersonale. Ma Angela in seguito si sarebbe pentita di quelle sue confessioni – si sarebbe pentita e le sarebbe seccata la disapprovazione dello zio. Nel complesso questi accoglieva le sue confidenze in modo disinteressato. Non che non la capisse, che fosse freddo nei riguardi di quanto le capitava: lui era (l’aveva detto lei stessa) obiettivo, non formulava giudizi. Trovandosi insieme di fronte alla morte di Elya, decise che in nessuna circostanza e per nessun motivo sarebbe stato disposto a lasciarsi coinvolgere in una relazione perversa con Angela nella quale si esigesse che lui ascoltasse per garantirsi la cena. Quel suo distacco, quel suo disinteresse, non sarebbero mai diventati uno dei conforti di Angela, parte della mobilia della sua vita. Neppure la sua ansia per il futuro di Shula poteva indurlo ad accettare quella posizione. Un ricevente di sordida merce? Tutto il suo cuore si sollevò contro quell’eventualità.

«Papà mi fa delle domande molto precise su Wharton.»

«È venuto a sapere di quell’episodio?»

«Proprio così, Zio.»

«Ma chi è che andrebbe a raccontargli cose del genere? Mi sembra insolitamente crudele.»

«Io non so se tu ti rendi conto di che cos’è quel grassone di Widick, l’avvocato. Lui e Wharton in qualche modo sono anche parenti, alla lontana. È un bastardo, quel Widick.»

«Io non ho affatto questa impressione. Normalmente disonesto, forse, ma questo fa semplicemente parte del suo mestiere.»

«È uno schifoso. Papà, invece, ne ha un’opinione altissima. È stato lui a vincere la causa, quella grossa causa di papà contro la compagnia di assicurazione. Te l’ho detto che si parlano al telefono quattro o cinque volte al giorno. E Widick a me mi odia.»

«E come fai a saperlo?»

«Lo sento. Mi guarda con l’espressione di quello che crede che io sia una figlia viziata. Sono sempre stata circondata da persone convinte che papà avesse un debole per me, che mi avesse resa troppo indipendente dal punto di vista finanziario. Capisci, no? – dandomele tutte vinte e lasciandomi fare tutto quello che volevo.»

«Secondo te non è stato eccezionalmente indulgente?»

«Mica solo per il mio bene, Zio Sammler. Uno non fa le cose semplicemente per se stesso, e lui ha vissuto anche attraverso di me. Di questo puoi esser certo.»

Gli uomini, pensò Sammler, spesso peccano da soli; le donne raramente non hanno un compagno nel peccato. Ma per quanto probabilmente Angela stesse cercando di forzare quell’interpretazione della gentilezza e della generosità del padre, era possibile che anche Elya avesse tendenze libidinose. Chi era Sammler per dire di no? Tutta la situazione generale era disperata. Quella protuberanza arteriosa nel cervello di Elya doveva aver gettato la sua ombra tempo addietro – qualche goccia prima della gran raffica di pioggia. Sammler credeva nei presentimenti, e la morte era una possente istigatrice di idee erotiche. Gli impulsi sessuali di Sammler stesso (forse neppure ora del tutto spariti) erano stati assai diversi. Ma lui sapeva rispettare le differenze. Non misurava gli altri secondo il proprio metro. Ora, per esempio Shula non aveva alcuna volupté. Aveva qualcos’altro. Naturalmente non era figlia di un uomo ricco, e i soldi, il dollaro, erano sicuramente un formidabile additivo sessuale. Ma persino Shula, malgrado fosse un idrofilo o una gazza ladra, prima di allora non aveva mai veramente rubato. E poi all’improvviso anche lei era diventata come il borsaiolo negro. Provenienti dal lato nero, forti correnti travolgevano tutti. Bambino, nero, pellerossa – l’incontaminato Seminole contro l’orribile Uomo Bianco. Milioni di persone civilizzate volevano una nobiltà oceanica, illimitata, primitiva, libera da gioghi, sperimentavano un curioso prorompere di impulsi galoppanti, e acquisivano la peculiare meta della negrità sessuale per tutti. Il genere umano aveva perduto la sua antica pazienza. Esigeva un’esaltazione accelerata, non accettava neppure un istante privo di significati come nell’epica, la tragedia, la commedia, o nei film. Secondo lui era persino verosimile che il particolarissimo sviluppo del significato delle prigioni, dal diciottesimo secolo in poi, avesse qualche rapporto con l’abilità sempre più limitata, da parte dell’uomo, di tollerare la restrizione. Il castigo doveva essere fatto su misura, doveva essere adattato allo stato dello spirito, alle necessità dell’anima. Là dove la libertà era stata promessa con maggior vigore, esistevano le prigioni peggiori e più grandi. Poi bisognava porsi un’altra domanda: Elya aveva veramente eseguito degli aborti per fare un favore a vecchi amici della mafia? Quanto a ciò, Sammler non aveva alcuna opinione. Non avrebbe semplicemente saputo dirlo. Elya non aveva mai voluto fare il medico. Proprio non gli piaceva esercitare quella professione. Il suo dovere, però, l’aveva fatto. E anche i dottori di questi tempi facevano delle avance ai pazienti. Si mettevano le mani delle donne sui genitali. Sammler l’aveva sentito raccontare. Medici che ripudiavano il Giuramento, e diventavano soci dell’Epoca. Anche Shula, Shula che rubava, era contemporanea – senza legge. Provava anche lei a vivere l’esperienza dell’Epoca. E nel far ciò, vi trascinava dentro il padre. E probabilmente neppure Elya, con quella vite in gola, aveva voluto essere lasciato indietro, e aveva delegato Angela perché facesse l’esperienza dell’Epoca per suo conto.

Ma sia come sia! – la vita, una volta, era stata lì lì per finire. Uno che stava avanti a lui e portava il lume, era inciampato, aveva vacillato e Mr. Sammler aveva creduto che ormai non ci fosse più nulla da fare. Tuttavia, era ancora vivo. Non voleva dire che ce l’aveva fatta, poiché la connotazione di “farcela” era una conquista, un punto di arrivo, e ben poco era stato conquistato. Era stato condotto da Cracovia a Londra, da Londra alla Foresta di Zamość, e infine a New York City. Uno dei risultati di una storia con quelle caratteristiche era che aveva preso l’abitudine di condensare. Era uno specialista delle opinioni brevi, concise. E nella sua breve opinione, Angela aveva offeso il padre morente. Il padre era arrabbiato, e lei voleva che Sammler intercedesse per lei. Forse Elya l’avrebbe esclusa dal testamento, avrebbe devoluto il suo denaro a opere di beneficenza. Aveva donato ingenti somme di denaro al Weizmann Institute of Science. Quel “Serbatoio di Cervelli”, lo chiamavano, a Rehovoth. O forse Angela aveva paura che lui stesso, Sammler, così vicino a Elya, diventasse suo erede.

«Allora parlerai con papà, Zio?»

«Di questa faccenda… questa faccenda tua? Dipende da lui. Io il discorso non lo comincio. Per conto mio non credo che Elya sia venuto a scoprire il tuo modo di vivere solo adesso, in questo momento. Non potrei dire quali vantaggi gliene siano venuti – indirettamente, per procura, come suggerisci tu. Ma non è uno stupido, e avendo dato a una giovane donna come te un capitale di mezzo milione di dollari per vivere a New York City, dovrebbe essere proprio un cretino per pensare che tu non ti ci divertissi un po’.»

Le grandi città sono delle puttane. Non lo sanno tutti? Babilonia era una puttana. Ô La Reine aux fesses cascadantes. È la penicillina che fa sembrare New York più pulita. Niente facce mangiucchiate dalla sifilide, con quei naricioni spalancati come ai tempi antichi.

«Papà ha un tale rispetto per te.»

«E quale uso dovrei fare di questo rispetto?»

«I pregiudizi sessuali peggiori, più antichi, più profondi sono mobilitati contro di me.»

«Lo sa solo il Signore che cosa ha in mente tuo padre» disse Sammler. «Forse non è che un dolore, fra i tanti che ha.»

«Mi ha detto delle cose crudeli.»

«Quest’episodio messicano non è il primo» disse Sammler. «Sicuramente tuo padre l’ha sempre saputo. Lui sperava che ti sposassi con Horricker e che la smettessi con queste sciocchezze sessuali.»

«Vado a vedere se è sveglio» disse Angela, e si alzò. La sua persona morbida e pesante era vestita con uno dei suoi costumi. Le gambe, esposte fino all’ultimo quarto della coscia, erano veramente molto forti, quasi goffe. Il viso, in quel preciso momento, era pallido come quello dei lattanti, e morbido sotto il berrettino di cuoio. Mentre si staccava dalla sedia di plastica – la sera era molto calda – si percepì forte un odore. Era tutt’e due le cose in una: sia il basso comico che l’alta serietà. Dea e majorette. La Grande Peccatrice! Quale vessazione per il povero Elya! Che supervalutazione. Che atroce miscuglio di sentimenti. Angela era un po’ seccata con Sammler. Uscì dalla stanza.

Mentre si allontanava, Sammler si ricordò dove aveva già visto un berrettino come quello. In Israele – la Guerra dei sei giorni che aveva visto.

Aveva visto.

Era quasi come se vi avesse assistito – insieme ad altri spettatori. Arrivando a bordo di macchine veloci in un punto davanti al Monte Hermon, dove si stava svolgendo una battaglia fra carri armati, lui era uno degli appartenenti al gruppo della stampa che osservavano il combattimento, sotto di loro. Giù nella vallata piatta, come in Vista-Vision. Lì dove stavano loro, in piedi, Mr. Sammler e gli altri, addetti ai servizi stampa e giornalisti israeliani, erano abbastanza al sicuro. La battaglia era a tre chilometri o più da loro. Le colonne di carri armati si muovevano, facevano manovra, nella polvere. Le bombe schizzavano giù da aeroplani remoti come insetti. Si scorgevano le ali quando roteavano nella luce, poi si udivano detonazioni, e per un brevissimo tempo si sollevavano cespugli di fumo. In lontananza si sentiva il rumore delle macchine – lontani cigolii di carri armati. Si udivano piccolissimi, minuscoli rumori di guerra. Poi altre due automobili sopraggiunsero a tutta velocità, si unirono al gruppo, e ne balzarono fuori gli operatori. Erano italiani, paparazzi, spiegò qualcuno, e si erano portati dietro tre ragazze con vestiti mod. Niente di strano se quelle ragazze fossero venute direttamente da Carnaby Street o da King’s Road, con i loro stivaletti di pelliccia, le minigonne, le ciglia finte. E in effetti erano inglesi, poiché Mr. Sammler le sentì parlare, e una di loro portava proprio quel tipo di berrettino che aveva in testa Angela, la stoffa a quadretti. Quelle fanciulle non avevano la minima idea di dove si trovassero, che cosa fosse tutta quella faccenda, avevano bisticciato con i loro amanti che adesso se ne stavano sdraiati pancia a terra in mezzo alla strada. A fotografare la battaglia, con le camicie che gli svolazzavano sulla schiena. Le ragazze erano furiose. Strappate da via Veneto, probabilmente, senza sapere con precisione dov’era diretto il jet. Poi, nudo fino alla cintola, un nanerottolo, muscoloso però, un corrispondente svizzero con una barbetta bionda tutta riccia, il torace appesantito da un gran numero di macchine fotografiche, cominciò a protestare presso il capitano israeliano dichiarando che non era acconcio che quelle ragazze stessero lì, al fronte. Sammler lo udì fare queste sue rimostranze fra i denti, che erano cariati e piccolissimi. Il luogo dove adesso si trovavano era stato bombardato poco prima. Non si riusciva a capire perché. Sembrava che non ci fosse alcuna ragione di natura militare. Il terreno, comunque, era pieno di enormi buche, ancora nere di fuliggine fresca, lasciata dalle bombe.

«Perlomeno mettetele in quelle buche» insistette lo svizzero.

«Che cosa?»

«Nelle buche, le tane di volpe. Può arrivare un’altra bomba. Non le può mica lasciare così a camminare per la strada! Non si può, non capisce?» Era un ometto insopportabile. La sua guerra gliela stavano rovinando quelle stupide mascherate nei loro costumi. L’ufficiale israeliano cedette. Fece rifugiare le ragazze nelle buche bruciate. A quel punto tutto quel che si riusciva a vedere di loro erano le teste e le spalle. La paura non aveva ancora cancellato l’indignazione, ma iniziava a farsi sentire. Oramai erano così stordite, nella loro vernice erotica, che una cominciò a singhiozzare un pochino, e un’altra ansimava e diventava sempre più rossa in faccia. Si stava trasformando in una donna di mezza età – una donna di fatica. Fronzoli di nero luccicante si sollevavano intorno alle ragazze, l’erba risplendente di cordite.

Accadevano altre cose strane come quelle. C’era Padre Newell, il corrispondente di guerra gesuita. Portava l’uniforme da campo completa, adottata nelle giungle del Vietnam – chiazze e strisce gialle, nere e verdi, per l’effetto mimetizzante. Rappresentava un giornale di Tulsa, nell’Oklahoma, no? O di Lincoln, nel Nebraska? Sammler gli doveva ancora dieci dollari, la sua parte per la corsa del taxi che avevano noleggiato insieme a Tel Aviv per arrivare al fronte siriano. Ma non aveva l’indirizzo di Padre Newell. Avrebbe potuto fare qualche sforzo in più per rintracciarlo. Sulla via del ritorno in patria dal Sud-est asiatico, il prete si era fermato, come turista, ad Atene, e stava ammirando l’Acropoli quando aveva avuto notizia dei combattimenti e vi si era recato immediatamente. I grandi stivali da giungla erano ampi come galosce. Padre Newell sudava nella sua tuta mimetica. I capelli tagliati corti stile Marines, gli occhi anch’essi verdi e le guance di uno splendido rosso bistecca. Laggiù, sotto di loro, i carri armati correvano a precipizio e il fumo sbuffava giallo dal terreno. Pochi suoni giungevano fino a loro.

Seduto nella sala d’aspetto, Mr. Sammler ora si mosse e si alzò in piedi. Entrando dalla luce generale del corridoio in quella della lampada del salottino per i visitatori, Wallace gli stava già parlando. «Dice Angela che papà dorme. Immagino che non avrai avuto occasione di parlargli della soffitta?»

«No.»

Wallace non era solo. Dietro di lui entrò Eisen.

Wallace e Eisen si conoscevano. Quanto si conoscevano? Una domanda curiosa. Ma da molto tempo, in ogni caso. Si erano conosciuti quando Wallace, dopo aver tentato di girare l’Asia centrale in sella a un cavallo, con conseguente arresto da parte delle autorità sovietiche, era andato in Israele ed era stato ospite del cugino Eisen. Allora Wallace aveva preparato tutta una serie di appunti (si era messo subito al lavoro) per un saggio in cui sosteneva che la modernizzazione imposta da Israele al Medio Oriente era assolutamente troppo repentina per gli Arabi. Perniciosa. Wallace, naturalmente, doveva per forza essere contrario al sionismo di Elya. Ma Eisen, che non capiva mai niente, all’oscuro com’era dell’improvvisa passione di Wallace (che presto sarebbe svanita) per la cultura araba, gli portava il caffè a letto mentre lui lavorava. E questo perché Wallace era appena uscito da una prigione sovietica, grazie a Gruner e al Senatore Javitz, e Eisen sapeva che cosa significava essere nelle mani dei russi. Così aveva fatto in modo che Wallace si riposasse, lo serviva in tutto e per tutto. Aveva imparato a muoversi svelto sui suoi piedi mutilati. Una capacità di adattamento ingegnosa. Lo strascicamento di quei piedi senza dita, a Haifa, aveva dato molto sui nervi a Sammler. Non sarebbe mai riuscito a passare due ore, da solo, con il bello, sorridente e ricciuto Eisen. Invece Wallace, con i suoi occhioni dalle grandi orbite e le lunghe ciglia, sporgeva un braccio magro e peloso dal letto e, senza guardare, accettava con dita tremanti quel caffè, e per dieci giorni, dopo le galere dell’Armenia sovietica, si era fatto coccolare nel letto di Eisen. I russi lo avevano mandato in Turchia. Dalla Turchia era andato ad Atene. Da Atene, come Newell il gesuita in seguito, aveva preso un aereo per Israele. Teneramente, devotamente, Eisen gli aveva prestato i suoi servigi.

«Ah, ecco mio suocero.»

Era per il piacere di vedere lui che Eisen aveva quell’aria raggiante, o perché l’avvenimento (Eisen a New York per la prima volta in vita sua) era eccezionale? Era allegro ma un po’ impalato, impacciato sotto le braccia e in mezzo alle gambe dai suoi nuovi indumenti americani. Evidentemente Wallace lo aveva portato in uno di quegli esecrabili negozi mod di abbigliamento maschile, tipo Barney. Forse in una di quelle boutique unisex. Il pazzo portava una camicia porpora con una cravatta color cachi, larga e spessa quanto la lingua di un bue. La tetraggine della sua risata interminabile, il luccichio dei suoi denti perfetti, intatti malgrado l’assedio di Stalingrado e neppur minimamente rovinati dalla totale mancanza di nutrimento quando, zoppicando, aveva attraversato a piedi i Carpazi e le Alpi. Denti come quelli meritavano un cervello più sano.

«Come sono contento di trovarti qui» disse Eisen a Sammler parlando russo.

Sammler gli rispose in polacco: «Come stai Eisen?».

«Dato che non ti sei voluto fermare a farmi visita nel mio Paese, sono venuto io a vedere te nel tuo» disse Eisen.

In questo rimbrotto, familiare e tradizionale introduzione ebraica, c’era, se non altro, una qualche traccia di normalità. Ma non fu così nella seconda dichiarazione. «Sono venuto in America per farmi una nuova carriera.» Karyera era la parola di cui si era servito. Vestito con quegli indumenti stretti, goffi, di cotone grigio e grezzo, palesi rimanenze di vecchie forniture del tempo della Ivy League che gli avevano subito appioppato, quei colori porpora, cachi e pomodoro (gli stivaletti rossi Chelsea che gli arrivavano fin sopra le caviglie), i suoi riccioli incolti fondevano testa e spalle eliminando brutalmente il collo: ovviamente si stava costruendo una nuova immagine, rivedendo la concezione di sé. Non più vittima di Hitler e Stalin; depositato, affamato fino all’osso, sulle sabbie di Israele; pidocchi, follia e febbre suoi unici beni e attributi; liberato dall’internamento a Cipro; gli erano stati insegnati una lingua e un mestiere. Ma alla guarigione non si poteva dire quando era giunto il momento di fermarsi. Lui aveva proseguito, nell’intento di diventare un artista. Sollevandosi dall’insignificanza, dall’essere “cosa non utilizzabile”, qualcosa che aspettava di essere fatto a pezzi con un arnese tagliente (Eisen aveva detto che l’aveva visto accadere con i suoi stessi occhi, prima di fuggire dal territorio occupato dai nazisti per passare nella zona russa – uomini troppo insignificanti per sprecarci delle pallottole, e quindi gli fracassavano la testa a colpi di pala); ma sollevandosi e continuando, poi, a sollevarsi, fino a raggiungere la supremazia sul mondo. Attraverso la divinità dell’Arte. Parlando, ispirato, al genere umano. Tracciando segni nel linguaggio universale dei pigmenti carichi dell’immaginazione dell’artista. Urrah! Eisen che se ne volava da una vetta all’altra! Malgrado i suoi colori fossero più grigi dell’ardesia, più neri del carbone, più rossi della malattia, e i suoi ritratti dal vivo fossero più che morti, l’autobus che lo aveva portato in città dal Kennedy era una limousine; le autostrade che conducevano in città lo accolsero come un astronauta baciato dalla gloria, e lui guardava alla sua Karyera con i suoi denti umidi scoperti nella risata, nella più disperata delle estasi. (Per fare pendant con la Karyera russa ci voleva per forza anche l’Extass russa, diamine!)

Lui e Wallace stavano già combinando degli affari insieme. Eisen disegnava le iscrizioni sulle etichette da affiggere sugli alberi e sui cespugli. Fecero vedere a Sammler qualche campione: QUERCUS e ULMUS. A grandi lettere tutte sbafate in inchiostro nero e a caratteri gotici. Altre etichette scritte nella foggia del corsivo straniero che Eisen aveva imparato al gymnasium davano un’impressione più ordinata, meno pasticciata. Il povero Eisen, quand’era scoppiata la guerra, andava ancora alla scuola elementare e non aveva potuto proseguire gli studi superiori. Sammler fece del suo meglio per dire qualcosa di appropriato e di innocuo, malgrado provasse ribrezzo per tutto ciò che Eisen metteva sulla carta.

«A queste bisogna farci qualche modifica qua e là» disse Wallace. «Ma l’idea è incredibilmente azzeccata. Per uno completamente digiuno, capisci.»

«Ma tu t’imbarchi sul serio in quest’impresa?»

Wallace disse risolutamente, addirittura con un lievissimo ghigno di scherno (che gli fece apparire una specie di fossetta) diretto ai dubbi del vecchio: «Ma certo, nel modo più assoluto, Zio. Anzi domani stesso vado a provare qualche aereo, nel Westchester. Parto già stasera così passo la notte nella nostra vecchia casa».

«È ancora valido il tuo brevetto da pilota?»

«Come sarebbe? Certo che è valido.»

«Be’, dev’essere una piacevole sensazione, eccitante – una nuova impresa, con amici e parenti. Che cos’hai lì, Eisen?»

Una grande borsa di panno verde penzolava dal polso di Eisen. «Qui? Ho portato un po’ del mio lavoro eseguito con materiali e procedimenti diversi dai soliti» disse Eisen. Mentre appoggiava la borsa sul tavolo di vetro, si udì un tintinnio; la borsa, molle, ricadde all’indietro.

«Ah, hai fatto dei fermacarte.»

«No, non sono fermacarte. Sì, volendo, li potresti adoperare a quello scopo, Suocero Sammler, ma in realtà sono medaglioni.» Tanto Eisen non si offendeva, felice com’era dei suoi magnifici risultati. Come se stesse inalando qualche aromatica rarità, cominciò a chiudere gli occhi e a sfoderare quelle sue impareggiabili ossa, i denti, e con ambo le mani si allisciò all’indietro i riccioli che gli spiovevano sulle orecchie. «Alla fonderia ho inventato un nuovo processo» disse. Cominciò a spiegare in che cosa consisteva servendosi di un russo tecnico, ma Sammler disse: «Non riesco a seguirti, Eisen. Non sono pratico di questi termini».

Il metallo aveva un’aria grezza, in parte color bronzo, ma anche giallo pallido, tinto di solfuri come l’oro finto. E Eisen aveva fatto le solite stelle di David, i candelabri a bracci, rotoli di pergamena e corna di ariete, o iscrizioni che fiammeggiavano in ebraico: Nahamu!, «Che tu riceva conforto!». Oppure il comando impartito da Dio a Giosuè: Hazak! Con un certo interesse Sammler rimase a guardare mentre quegli oggetti grossolani, grevi, venivano disposti, uno per uno, in bella mostra. E ogni volta, dopo, c’era una pausa, mentre la faccia del connaisseur veniva attentamente esaminata per scorgervi la meravigliosa reazione ovviamente dovuta a quel pezzo in particolare. Quelle piriti ferrose: sarebbero dovute stare in fondo al Mar Morto.

«E questo che cos’è, Eisen, un carro armato, suppongo, un carro Sherman?»

«Metafora per un carro armato. Niente è letterale nel mio lavoro.»

«Non c’è più nessuno che si limiti semplicemente ad allucinare» disse Sammler in polacco. La sua affermazione passò inosservata.

«Ma non dovrebbero essere più levigati, forse?» disse Wallace. «E che cos’è questa parola?»

«Hazak, hazak» disse Sammler. «È l’ordine che Dio impartisce a Giosuè davanti a Gerico. “Rafforzati.”»

«Hazak, v’ematz» disse Eisen.

«Sì, be’… Ma perché Dio parla una lingua così buffa?» disse Wallace.

«Ho portato i medaglioni per farli vedere al Cugino Elya.»

«Sciocchezze» disse Sammler. «Elya sta male. Non lo può neppure maneggiare questo metallo pesante, ruvido.»

«No, no, io prenderò in mano un pezzo alla volta, lo prenderò io. Voglio che veda quanto sono riuscito a fare. Venticinque anni fa arrivai in Eretz che ero un uomo finito. Però non la volevo dare vinta, non riuscivo a morire. Mi rifiutavo di chiudere gli occhi – non prima di aver fatto qualche cosa, come essere umano, qualche cosa di bello, d’importante.»

Sammler non arrischiò alcun commento. In fondo, non era tanto difficile toccare il suo cuore. E inoltre, era stato allevato nei modi antichi della politesse. Quasi come, un tempo, le donne erano state educate alla castità. Ben addestrato a trovare qualcosa da mormorare alla vista di tutta la robaccia che Shula trovava nei cestini dei rifiuti, emise i necessari suoni e compì i necessari gesti, ma poi disse ancora una volta che Elya era molto malato. Quei medaglioni avrebbero potuto stancarlo.

«La mia opinione è diversa» disse Eisen. «Il contrario, invece. Come può far male l’arte?» Cominciò a collocare, accuratamente, i pezzi tintinnanti nella borsa di panno.

Poi Wallace disse a qualcuno che si trovava dietro a Sammler: «Sì, c’è». Era entrata l’infermiera privata.

«Chi è che c’è?»

«Tu, Zio. Eccolo qui Mr. Sammler.»

«Elya ha chiesto di me?»

«La vogliono al telefono. Lei è lo Zio Sammler?»

«Prego, signorina? Io sono Artur Sammler.»

«Una certa Mrs. Arkin. Dice di chiamarla a casa.»

«Oh, Margotte. Ha telefonato nella stanza di Elya? Spero che non l’abbia svegliato.»

«No, la chiamata è arrivata al piano, non nella stanza.»

«Grazie. Ah, già. Dove posso trovare un telefono pubblico?»

«Ti serve qualche monetina da dieci, Zio?» Sammler prese due monete calde dal palmo di Wallace. Wallace se li era tenuti stretti, i suoi soldi.

Margotte fece sforzi incredibili per riuscire a parlare con voce calma. «Zio? Ascolta bene. Dove l’hai lasciato il manoscritto del dottor Lal?»

«L’ho lasciato sulla mia scrivania.»

«Ne sei sicuro?»

«Certo che ne sono sicuro. Sulla mia scrivania.»

«Non c’è per caso un altro posto dove potresti averlo messo? So bene che non sei distratto, ma cosa vuoi, tutta questa tensione non è roba da niente.»

«Non è sulla scrivania? Il dottor Lal è lì con te?»

«L’ho fatto accomodare nel soggiorno.»

Fra tutti quei vasi di terra. Chissà che cosa provava quel Lal!

«E lui lo sa che è sparito?»

«Eh, non potevo mica mentirgli. Gliel’ho dovuto dire per forza. Lui voleva aspettarti qui. Naturalmente ci siamo precipitati qui dalla Butler Hall… Era così impaziente, angosciato.»

«Senti, Margotte, bisogna che noi due teniamo la testa sul collo.»

«Ma ti dico, è così abbattuto. Veramente, Zio, nessuno ha il diritto di sottoporre una persona a una cosa del genere.»

«Le mie scuse al dottor Lal. Me ne dispiace più di quanto possa dire… Posso facilmente capire quanto sia turbato. Però, ascolta, Margotte, una sola persona al mondo avrebbe potuto prendere quel quaderno. Cerca d’informarti dal tizio dell’ascensore. C’è stata Shula da noi?»

«Tanto Rodríguez la lascia entrare come una di famiglia. E Shula è una della famiglia, dunque…»

Rodríguez aveva un gigantesco mazzo di chiavi, tenute insieme da quello che più che un anello sembrava un cerchio da hula-hop. Se ce n’era bisogno andava a prenderlo in cantina, dove stava attaccato a un chiodo sul muro di mattoni.

«Sul serio, Shula è davvero stupida a questo punto. Quando è troppo è troppo. Gliene ho lasciate passare tante, io; dovevo essere più duro. L’imbarazzo che provo è terribile. Essere il padre della mentecatta che tende un’imboscata a quest’indiano così infelice. Tu con Rodríguez ci hai parlato?»

«Sì, è stata Shula.»

«Ah.»

«Il dottor Lal ha ricevuto un rapporto del detective che oggi è andato a pescarla a casa, a mezzogiorno. Credo che quell’uomo l’abbia minacciata.»

«Come temevo.»

«Le ha detto che il manoscritto deve essere restituito entro le dieci di domani mattina, altrimenti andrà a casa di Shula con un mandato.»

«Di perquisizione? Di arresto?»

«Non so. E non lo sa neppure il dottor Lal. Ma sembra che lei si sia agitata molto. Ha detto che sarebbe andata dal suo sacerdote. Sarebbe andata da Padre Robles per presentare delle proteste alla Chiesa.»

«Margotte, sarebbe consigliabile che tu t’informassi da quel prete. Un mandato di perquisizione in quell’appartamento? Sono dodici anni che lo riempie di robaccia di ogni sorta. Se quelli della polizia appoggiano il cappello da qualche parte non lo ritroveranno più. Comunque io sono dell’idea che sia andata a New Rochelle.»

«Davvero?»

«Se non sta da Padre Robles, sarà là di sicuro.» Sammler la conosceva bene, poteva prevedere i suoi movimenti; li conosceva come gli eschimesi conoscono il modo di fare delle foche, i buchi che praticano nel ghiaccio, per respirare. «Capisci, lei in questo momento è convinta di proteggere me, dato che l’oggetto rubato si trova nelle mie mani. Dev’essere rimasta terrorizzata dal detective, poveretta, e poi ha aspettato che io e te uscissimo.» A spiare la mia porta, come il negro. Rendendosi conto che il padre non la includeva nelle sue preoccupazioni più serie. Determinata a riconquistare la priorità assoluta. «Le ho dato troppa corda con questa sciocchezza di H.G. Wells. E ora qualcuno c’è andato di mezzo.»

Questo sfortunato Lal che, tanto per cominciare, doveva essere nauseato della Terra, se nutriva tante speranze nella vita sulla Luna.

E in parte aveva ragione, poiché l’umanità continuava a fare le stesse bravate ad infinitum. La solita solfa comico-lagrimosa. Relazioni emotive. Desideri incapaci di un utile esaudimento. E sempre, e di nuovo, la stessa storia, nel tentativo di svuotarsi e alleggerirsi il petto di certe grida, di certi ardori. Quale equilibrio positivo era possibile? Ma questa lotta, questa faticaccia passionale era proprio del tutto inutile? Era la banca d’energia anche di nobili propositi. Latrati, sibili, chiacchiericci di scimmie, sputi. Ma c’erano dei momenti in cui l’Amore sembrava il grande architetto della vita. Non era vero, forse? Persino la stupidità, a volte, la si poteva martellare fino a farla diventare un fondale dorato per azioni di grande respiro. Non si poteva, forse? Ma per queste debolezze e queste ostinate malattie esistevano vere cure risolutive? Talvolta l’idea stessa della guarigione a Sammler sembrava perniciosa. Cos’è che veniva guarito? Uno poteva riarrangiare, orchestrare i disordini. Ma la guarigione? Per carità. Cambi il Peccato in Malattia, un cambiamento di parole (Feffer aveva ragione), e poi i medici illuminati eliminano la malattia. Oh, sì. E allora filosofi, uomini di scienza, di brillante intelletto, comprendendo tutto ciò con chiarezza sempre maggiore, sono obbligati a far causa per ottenere il divorzio da tutti questi stati umani. Poi lanciano in fuori, verso la Luna, il loro armamentario da volo artropode.

«Andrò a New Rochelle con Wallace» disse Sammler. «Sarà sicuramente là. Ma tanto per scrupolo chiederemo anche a Padre Robles. Se lui sa dove si trova… ti ritelefono io.»

Poiché Margotte non era americana lui la sentiva vicina, solidale. A lei non doveva nascondere la sua mortificazione (straniera). E poi aveva dato prova di delicatezza ricordandosi di non telefonare in stanza di Elya.

«Che cosa devo fare con il dottor Lal?»

«Chiedigli scusa» disse Sammler. «Rassicuralo. Confortalo, Margotte. Digli che sono certo che il manoscritto è al sicuro. Spiegagli quanto Shula rispetti la parola scritta. E domandagli, per favore, di fare in modo che i detective si tengano lontani da questa faccenda.»

«Un momento, Zio. Il dottor Lal è qui. Vorrebbe dirti una parola.»

Una voce orientale infiorò la linea telefonica.

«Lei è Mr. Sammler?»

«Sì, sono io.»

«Io sono il dottor Lal. Questo è il secondo furto. Non posso tollerare oltre. Dato che Mrs. Arkin mi ha chiesto di avere pazienza, posso aspettare soltanto un pochino di più. Ma molto poco. Poi debbo per forza dare ordini alla polizia perché fermino Sua figlia.»

«Magari servisse a qualcosa metterla dietro le sbarre! Mi creda, sono più spiacente di quanto io riesca a dire. Ma sono assolutamente convinto che il manoscritto è al sicuro. Mi dicono che quella è l’unica copia in Suo possesso.»

«Tre anni di stesura.»

«È davvero penoso. Avevo sperato che si trattasse di sei, sette mesi. Ma posso rendermi senz’altro conto di tutta la preparazione e delle ricerche che un libro del genere deve richiedere.» Normalmente Sammler detestava l’adulazione, ma in quel momento non aveva altra scelta. Un velo umido si stese sull’apparecchio nero, contro il suo orecchio, e sulla guancia era rimasto un segno rosso lasciato dalla pressione del ricevitore. Disse: «È un lavoro superbo».

«Sono lieto che la pensi così. Giudichi Lei quale effetto tutto ciò può avere su di me.»

Sì, sì, posso giudicare. Chiunque può afferrare un altro e lanciarlo nel vuoto. Il basso può obbligare l’alto a ballare. I saggi sono costretti a girare vorticosamente insieme a imbecilli saltellanti. «Cerchi di non agitarsi eccessivamente, signore, La prego. Io sono in grado di ritrovare il Suo manoscritto, e lo farò stasera stessa. Non mi servo della mia autorità sufficientemente spesso. Mi creda, io posso farmi obbedire da mia figlia, e lo farò.»

«Avevo sperato che potesse essere pubblicato entro il primo atterraggio sulla Luna» disse Lal. «Lei può immaginare quanti paperback di nessun valore usciranno. Confondendo il pubblico. Falsi.»

«È chiaro.» Sammler avvertì che l’indiano, probabilmente un tipo passionale, opponendo resistenza a una grande pressione interna, si stava in realtà comportando in modo gentile, pieno di comprensione per la fragilità di un vecchio e per la difficoltà della situazione. Pensò, è un vero signore. Inclinando il capo dentro quel piccolo recinto metallico impenetrabile al suono, il voile à pois dell’isolamento acustico, Sammler cedette alla suggestione orientale: «Possa il sole illuminare il tuo volto. Sceglierti fra la moltitudine (immaginandosi gli indù sempre ammassati in una gran folla: come i mari rigurgitanti di maccarelli) per molti anni ancora». Sammler era risoluto a che Shula non dovesse far male a nessuno, eccetto lui. Lui se la doveva sorbire per forza, ma nessun altro doveva essere obbligato a fare lo stesso.

«M’interesserà sentire i Suoi commenti sul mio saggio.»

«Certo,» disse Sammler «avremo modo di parlarne ampiamente. La prego di pazientare ancora un po’. Telefonerò non appena avrò qualche notizia. La ringrazio per la Sua comprensione.»

Entrambi riattaccarono il ricevitore.

«Wallace,» disse Sammler «penso che verrò in macchina con te a New Rochelle.»

«Sul serio? Allora papà ti ha detto qualche cosa della soffitta?»

«La soffitta non c’entra.»

«E allora perché? Qualcosa in relazione a Shula? Sarà così senz’altro, eh?»

«È così, infatti. Shula. Possiamo partire presto?»

«Emil è giù con la Rolls. Tanto vale che l’adoperiamo mentre possiamo. Che cosa sta combinando Shula? Mi ha chiamato.»

«Quando?»

«Poco tempo fa. Voleva mettere non so che cosa nella cassaforte di papà. Voleva sapere se conoscevo la combinazione. È chiaro che io non le potevo dire che la combinazione la conoscevo. Visto che ufficialmente non dovrei.»

«Ma da dove telefonava?»

«Non gliel’ho chiesto. Tu, immagino, l’avrai vista Shula quando sussurra ai fiori nel giardino» disse Wallace. Wallace non era un osservatore e gli interessava ben poco la condotta degli altri. Ma proprio per quella ragione valutava moltissimo le cose che eccezionalmente osservava. Quello che notava, lo teneva in gran conto. Era sempre stato gentile e affettuoso con Shula. «In che lingua gli parla, polacco?»

La lingua della schizofrenia, molto probabilmente.

«Mi ricordo che le leggevo Alice nel paese delle meraviglie. Quei fiori parlanti. Il giardino di fiori vivi.»

Sammler aprì la porta della stanza del paziente e lo vide seduto sul letto, da solo. Con i suoi occhialoni neri il dottor Gruner stava studiando, o tentando di studiare, un contratto o un documento legale. A volte diceva che avrebbe dovuto fare l’avvocato, non il medico. La facoltà di medicina non l’aveva scelta lui, bensì la madre. Di sua completa volontà probabilmente aveva fatto poco. Bastava pensare alla moglie.

«Entra, Zio, e chiudi la porta. Rimaniamo tra padri e basta. Non voglio vedere figli stasera.»

«La capisco questa sensazione» disse Sammler. «Spesso l’ho provata anch’io.»

«È un gran peccato per Shula, povera donna. Ma lei è soltanto un po’ toccata. Mia figlia invece è una sporcacciona.»

«Una generazione diversa, una generazione diversa.»

«E mio figlio, un fesso con un alto quoziente d’intelligenza.»

«Può anche darsi che cambi, sai, Elya.»

«Ma se tu stesso non ci credi neppure per un minuto, Zio. Che cosa ti aspetti, una ripresa al nono inning? Mi domando come, a fare che cosa, ho passato tanti anni della mia vita. Si vede che credevo a quello che mi diceva l’America. Ho pagato sempre per la migliore qualità. Non mi è mai venuto il sospetto che quello che ricevevo non lo fosse affatto.»

Se Elya avesse parlato in preda all’agitazione, Sammler avrebbe cercato di calmarlo. Invece parlava con concretezza fattuale e dava l’impressione di essere perfettamente padrone di sé. Con addosso quei fondi di bottiglia aveva un’aria particolarmente giudiziosa. Come il presidente di un comitato senatoriale che ascolta testimonianze scandalose senza perdere per un attimo la sua espressione compassata.

«Dov’è Angela?»

«Sarà andata in bagno a farsi un pianto, immagino. A meno che non si stia succhiando un portantino o non sia nel bel mezzo di una partouze. Quando quella lì volta l’angolo, non si può mai sapere.»

«Oh, che brutte cose. Tu non dovresti bisticciare.»

«Mica bisticcio. Rendo semplicemente le cose più chiare, chiamandole col loro vero nome. Io mi ero immaginato che questo Horricker la sposasse, ma adesso non lo farà più di certo.»

«È sicuro?»

«Ti ha detto quello che è successo in Messico?»

«Non in dettaglio.»

«Be’, è meglio che tu non li sappia i dettagli. Quella facezia che dicesti era azzeccatissima, quella sul tavolo da biliardo all’inferno, una cosa verde dove fa caldo.»

«Non era mica diretta ad Angela.»

«È chiaro che io lo sapevo che mia figlia, con venticinquemila dollari esenti da tasse a disposizione, ovviamente qualche divertimento se lo concedeva. Era una cosa che avevo calcolato, e fin tanto che si comportava da persona matura e assennata io non avevo nessuna obiezione. Tutto questo, in teoria, va benissimo. Uno adopera le parole “matura” e “assennata”, e ci si sente soddisfatti. Ma poi ti metti a guardare un po’ più da vicino, e quando guardi da vicino, caro mio, vedi qualcosa di diverso. Tu vedi una donna che l’ha fatto in troppi modi con troppi uomini. A questo punto probabilmente non sa neppure il nome dell’uomo che le sta fra le gambe. E ha un’aria… Gli occhi – ha gli occhi di chi si è fottuta l’anima sua.»

«Mi dispiace.»

Qualcosa di molto strano nell’espressione di Elya. Da qualche parte, lì intorno, ci dovevano essere delle lacrime, ma la dignità non le permetteva. Forse si trattava di severità verso se stessi, non di dignità. Ma in tutti i casi non venivano fuori. Erano state avviate su un’altra rotta, assorbite dall’organismo. Erano state soggiogate, convertite in toni. Erano presenti nella voce, nel colore della pelle, nella luce degli occhi.

«Debbo andare, Elya. Porto Wallace con me. Torno a vederti domani.»

V

Emil nella sua Rolls Royce forse aveva avuto una vita invidiabile. La limousine argentata era il suo rubinetto. Aveva tutta quella potenza da sprigionare. E inoltre lui era al di fuori dell’ansiosa, miseranda rivalità, al di fuori dell’odio, del rancore, della guerra continua tra gli autisti normali di automobili meno pregiate. Parcheggiato in doppia fila, non veniva mai molestato dalla polizia. In piedi accanto alla sua macchina grandiosa, le natiche, che sporgevano rettilinee per via dei pantaloni dell’uniforme, erano più vicine alla terra di quelle della maggioranza della gente. Emil sembrava anche possedere uno spirito calmo, serio; grosse pieghe nella faccia; labbra curvate all’indentro che non mettevano mai in mostra i denti; i capelli con la riga in mezzo simili a un cappuccio che gli scendeva fino alle orecchie; un nasone alla Savonarola. Sulla targa della Rolls c’era ancora la scritta MD, Dottore in medicina.

«Emil ha guidato per Costello, per Lucky Luciano» disse Wallace, sorridendo.

Nella luce dell’interno grigio della macchina, la barba appena un po’ lunga di Wallace faceva l’effetto del puntinismo. I grandi occhi scuri nelle immense orbite desideravano offrire un garbato intrattenimento. Se si considerava con quale intensità Wallace si lasciava assorbire e prendere dagli affari, da problemi di carattere, dalla morte, si riconosceva quanto fosse generoso e difficile tutto ciò per lui – quanto fosse penoso, sconvolgente, irritante, quale sforzo gli si richiedesse. Per mettere insieme un sorriso gentile per il vecchio zio.

«Luciano? L’amico di Elya? Sì. Mafia di spicco. Angela me l’ha nominato.»

«Contatti di tempi ormai lontanissimi.»

Presero la West Side Highway, lungo lo Hudson. Ecco l’acqua – quant’era bella, impura, insidiosa! e i cespugli e gli alberi, copertura per stupri, rapine col coltello puntato, aggressioni e assassinii. Sull’acqua la luce del ponte e la luce della Luna giacevano lievi, deliziosamente brillanti. E quand’anche ci staccassimo da tutto questo e portassimo la vita umana fuori, fuori della Terra? Mr. Sammler era disposto a credere che ciò avrebbe potuto avere un effetto calmante sulla specie, in quel momento eccezionalmente travagliata. La violenza si sarebbe forse chetata, le idee esaltate avrebbero potuto riacquistare importanza. Una volta che gli uomini si fossero emancipati dalle condizioni telluriche.

Nella Rolls c’era un elegantissimo bar: aveva una lucina all’interno del mobile rivestito di specchi. Wallace offrì al vecchio del liquore o della Seven Up, ma lui non voleva niente. Stringendo l’ombrello fra le ginocchia alte, stava riprendendo in esame alcuni dei fatti. I viaggi nello spazio erano resi possibili dalla collaborazione tra specialisti. Mentre sulla Terra l’ignoranza sensibile sognava tuttora di essere separata e “intera”. “Intera”? Ma quale “intera”? Un’idea puerile. Portava a tutta questa follia, folli religioni, LSD, suicidio, delinquenza.

Chiuse gli occhi. Espirò dall’anima un po’ di male, e inspirò un po’ di bene. No, grazie, Wallace, niente whisky. Wallace ne versò un poco per sé.

Come poteva l’ignorante non-specialista essere forte di una forza adeguata per affrontare questi miracoli tecnici che facevano di lui uno sprovveduto selvaggio del Congo? Per visione, per arcaica purezza interiore pre-alfabetismo, per forza naturale, nobilmente intero? I ragazzi appiccavano il fuoco alle biblioteche. Indossavano pantaloni persiani e si lasciavano crescere le basette. Questa era la loro simbolica interezza. Un’oligarchia di tecnici, di ingegneri, gli uomini che facevano funzionare le formidabili macchine, infinitamente più sofisticate di questa automobile, sarebbero poi giunti a governare vaste bidonvilles formicolanti di adolescenti bohémiens, narcotizzati, infiorati, e “interi”. Lui stesso era un frammento, deduceva Mr. Sammler. Ed era pure fortunato a esserlo. La totalità era ugualmente al di là dei suoi poteri quanto costruire una Rolls Royce, pezzo per pezzo, con le proprie mani. E quindi forse, forse! le colonie sulla Luna avrebbero ridotto la febbre e l’edema di qui, e la passione per l’illimitatezza e per l’interezza avrebbe potuto trovare maggior appagamento materiale. Il genere umano, ubriaco di terrore, avrebbe potuto calmarsi, diventare più sobrio.

Ubriaco di terrore? Sì, e i frammenti (un frammento come Mr. Sammler) capivano: questa Terra era una tomba; la nostra vita le veniva data in prestito attraverso i propri elementi e doveva essere restituita; giungeva un momento in cui i semplici elementi sembravano bramare di essere liberati dalle complicate forme della vita, un momento in cui ciascun elemento di ciascuna cellula diceva: «Basta!». Il pianeta era la nostra madre e la nostra terra di sepoltura. Sfido io che lo spirito umano desiderava andarsene. Abbandonare questa pancia prolifica. Abbandonare anche questa grande tomba. La passione per l’infinito causata dal terrore, dal timor mortis, aveva bisogno di appagamento materiale. Timor mortis conturbat me. Dies irae. Quid sum miser tunc dicturus.

La Luna era così grande quella sera che catturò l’occhio di Wallace, seduto a bere nel sedile posteriore, nel lusso sconfinato dei rivestimenti interni e dei tappeti. Le gambe accavallate, appoggiato allo schienale, col dito fece segno verso la Luna, oltre Emil, al di sopra della superstrada levigata, a nord del George Washington Bridge.

«Non è fantastica la Luna? E tutti quei tizi che si danno tanto da fare, girandole intorno» disse.

«Chi?»

«Navicelle spaziali. Moduli.»

«Ah già. L’ho visto sui giornali. Tu ci andresti?»

«Se ci andrei? Ma anche subito» disse Wallace. «Fuori, fuori? Ci puoi scommettere che ci andrei. Al volo ci andrei. Anzi, ti dirò, che mi sono già messo in lista con la Pan Am.»

«Con chi?»

«Con le linee aeree. Mi sa che sono la cinquecentododicesima persona ad aver telefonato per prenotarsi.»

«Ma come, accettano già le prenotazioni per le escursioni sulla Luna?»

«Ma certamente, eccome. Centinaia di migliaia di persone ci vogliono andare. Anche su Marte e Venere, saltando come paracadutisti dalla Luna.»

«È davvero strano.»

«E che cosa c’è di strano? Andarci? Non è strano affatto. Te l’assicuro, le compagnie aeree ricevono tonnellate di domande. E tu? Lo faresti il viaggio, Zio?»

«No.»

«Dici per l’età, forse?»

«Probabilmente l’età. No, i miei viaggi sono finiti.»

«Ma la Luna, Zio! Naturalmente, dal punto di vista fisico, non saresti in grado di farlo; ma un uomo come te? Non posso credere che una persona della tua fatta non muoia dalla voglia di andarci.»

«Sulla Luna? Ma io non voglio nemmeno andare in Europa» disse Mr. Sammler. «E poi, se avessi la possibilità di scegliere, preferirei il fondo dell’oceano. Nella batisfera del dottor Piccard. Mi sembra di essere più un uomo da profondità che da altezza. Personalmente l’illimitabile non mi piace granché. L’oceano, per quanto profondo, ha una superficie, una sommità, insomma, e un fondo, mentre il cielo non ha un soffitto. Credo di essere un orientale, Wallace. Gli ebrei, dopotutto, sono orientali. Io mi contento di starmene qui sul West Side, e guardare, ammirare queste favolose partenze faustiane per gli altri mondi. Personalmente, io ho necessità di un soffitto, per quanto alto esso sia. Già, mi piacciono i soffitti, e quelli alti più di quelli bassi. In letteratura credo si possa dire che esistono dei capolavori a soffitto basso – Delitto e castigo, per esempio –, poi ci sono i capolavori a soffitto alto, Alla ricerca del tempo perduto

Claustrofobia? La morte è imprigionamento.

Continuando a sorridere, garbatamente ma risolutamente Wallace esprimeva disaccordo, tuttavia provava un sottile interesse per le opinioni di Sammler. «Naturalmente,» disse «a te il mondo sembra diverso. Letteralmente. A causa degli occhi. Quanto riesci a vedere?»

«Soltanto parzialmente. Hai ragione.»

«E malgrado tutto hai descritto quel negro e il suo coso.»

«Ah, te l’ha detto Feffer. Il tuo socio. L’avrei dovuto immaginare che si sarebbe precipitato a raccontarlo. Spero che non dica sul serio a proposito della faccenda di scattare fotografie sull’autobus.»

«Mah, lui crede che sia possibile, con la sua Minox. È un po’ picchiato, sai. Quando la gente è giovane e piena d’entusiasmo, si dice: “Tutta questa gioventù e quest’entusiasmo”, ma quando s’invecchia, a proposito dello stesso modo di comportarsi, si dice: “Che pazzo”. Feffer era tutto eccitato dalla tua esperienza. Ma cos’ha fatto, in verità, quell’uomo, Zio? Si è esibito. Si è abbassato i pantaloni?»

«No.»

«Se li è aperti. E poi si è tirato fuori l’arnese. Ma com’era? Mi stavo domandando… Gli sarà venuto in mente che la tua vista non era abbastanza buona da consentirti di vedere bene?»

«Non so che cosa gli è venuto in mente. Non me l’ha detto.»

«Be’, allora dimmi un po’ del suo coso. Non era nero, vero? Dev’essere stato una specie di color cioccolato un po’ violaceo; oppure, forse, dello stesso colore del palmo delle mani?»

L’obiettività scientifica di Wallace!

«Non ho voglia di parlarne, a dire il vero.»

«Oh, Zio, fa’ finta che io sia uno zoologo che non ha mai visto un leviatano, ma che tu invece conosca Moby Dick di prima mano, dalla baleniera. Quant’era lungo? Quaranta, quarantacinque centimetri?»

«Non saprei.»

«Quanto diresti che pesava, un chilo, un chilo e mezzo, due?»

«Non ho alcun modo di far calcoli simili. E tu non sei uno zoologo. Lo sei diventato in questo preciso momento e basta.»

«Non era circonciso, vero?»

«Questa è stata la mia impressione.»

«Chissà se le donne preferiscono sul serio quel genere di cosi.»

«Presumo che abbiano altri interessi oltre a questo.»

«Così dicono. Ma tu lo sai che non ci si può fidare di loro. Sono animali, o no?»

«In questo momento si enfatizza il lato animalesco.»

«Io non ci casco nella storiella della donna dolce e graziosa. Le donne sono lussuriose. A mio parere sono più porcaccione degli uomini. Con tutto il rispetto per la tua esperienza e conoscenza della vita, Zio Sammler, questo è un campo in cui non sono troppo incline a prendere per buona la tua parola. Angela dice sempre che se un uomo ha un bel pisello grosso… scusa, Zio.»

«Forse Angela è un caso particolare.»

«Tu preferisci pensare che Angela sia uscita dal continuum. E se non fosse così?»

«Wallace, preferirei lasciar perdere questo argomento.»

«No, è veramente troppo interessante. E questa è pura obiettività, non è mica una conversazione oscena. Ora, per esempio, Angela riferisce ottime cose sul conto di Wharton Horricker. Sembra che sia un uomo longilineo e forte. Lei però dice che fa troppa ginnastica, è troppo muscoloso. È difficile ricevere o provare delle emozioni tenere da un uomo con braccia che sembrano cavi di acciaio e con pettorali imponenti, grossi, proprio tipici dei sollevatori di pesi. Un uomo di ferro. Lei dice che tutto questo interferisce con il flusso di sentimenti teneri.»

«Non ci avevo pensato.»

«Ma che cosa ne sa lei di sentimenti teneri? Basta che abbia un tizio fra le gambe – ogni uomo è il suo amante. No, qualsiasi uomo. Dicono che gli uomini che ce la mettono tutta per diventare muscolosi come tori, in quel modo, sai, tipo “Oh, ero un mingherlino di quarantadue chili” – che questi tipi sono dei pederasti narcisisti. Io non voglio giudicare nessuno. E se anche fossero omosessuali? Oggigiorno queste cose non hanno più alcuna importanza. Io non credo che l’omosessualità sia semplicemente una maniera diversa di essere umani: in realtà credo si tratti di una malattia. Non so perché gli omosessuali la fanno tanto lunga e si proclamano normalissimi. Persone così perbene, educate. Naturalmente ci siamo noi a cui loro possono guardare – e noi non siamo poi dei gran bei campioni. Io sono convinto che questo boom dei froci sia stato causato dalla guerra dei tempi moderni. Uno dei risultati del 1914, quel massacro nelle trincee. Gli uomini scoppiavano in aria. Ovviamente era più sano essere donna che uomo. Era meglio essere un bambino. Meglio di tutti è essere un artista, una combinazione di bambino, donna o derviscio – un momento, è derviscio che voglio dire? Uno sciamano? No, probabilmente quel che voglio dire è un negromante. E in più milionario. Ci sono un sacco di milionari che vogliono essere artisti o bambini o donne e negromanti. Di che cosa stavo parlando? Ah, Horricker. Stavo dicendo che malgrado tutta quella cultura fisica e sollevamento pesi non è un finocchio. Ma cionondimeno ha un’immagine fantastica della forza maschile. Una persona che compie un risolutissimo sforzo su se stesso. Il compito di Angela sembra essere stato quello di fargli abbassare un pochino la cresta. Oggi lei piagnucola per lui, però è una porca, e domani lo avrà dimenticato. Io credo che mia sorella sia una maiala. Se lui ha troppi muscoli, lei ha senz’altro troppo grasso. Che dire di tutto quel grasso che interferisce col flusso dei sentimenti teneri? Cosa stavi dicendo, scusa?»

«Io non ho detto una parola.»

«A volte la notte, come ultima cosa prima di addormentarmi, passo in rivista tutta una lista di persone e le chiamo tutte porci. Trovo che sia una terapia meravigliosa. Così mi libero la mente per affrontare la notte. Se ti trovassi nella stanza con me non faresti altro che sentirmi dire “Porco, porco, porco!”. Non i nomi. Ciascun nome è mentale. Non convieni anche tu che domani si sarà già dimenticata di Horricker?»

«È probabile. Ma ho fiducia che non sia poi da considerarsi addirittura perduta.»

«Angela è il tipo di potere-femmina, la femme fatale. Ciascun mito ha i propri nemici naturali. Il nemico del mito del maschio superiore è la femme fatale. Tra quelle cosce, la concezione che un uomo ha di se stesso viene semplicemente assassinata. Se lui è convinto di essere tanto speciale allora glielo farà vedere lei. Nessuno è così speciale. Angela rappresenta il realismo della razza, che sta sempre a indicare che la saggezza, la bellezza, la gloria, il coraggio negli uomini non sono che vanità, e quindi è suo compito abbattere il mito che l’uomo ha di se stesso. È per questo che per lei e Horricker non c’è più niente da fare, è per questo che si è fatta scopare da quel fessacchiotto in Messico, davanti e di dietro, sempre sotto gli occhi di Wharton, con chissà che altra prestazione offerta gratis da lei. In uno spirito di partecipazione.»

«Non sapevo che Horricker avesse un’immagine tanto presuntuosa di se stesso.»

«Torniamo a quell’altra faccenda. Che altro ha fatto quell’uomo, te l’ha sventolato davanti?»

«No, affatto. Ma quest’argomento sta diventando sgradevole. Voleva avvertirmi di non difendere quel povero vecchio che aveva derubato. Di non informare la polizia. Io avevo già tentato d’informarla.»

«Tu, naturalmente, ti sentivi dispiaciuto per le persone che questo tizio deruba.»

«È una cosa tremenda. E non si può dire che io abbia il cuore tanto tenero.»

«Probabilmente ne hai viste troppe. Non ti avevano invitato a testimoniare al processo Eichmann?»

«Si misero in contatto con me. Ma io non me la sentivo.»

«Scrivesti quell’articolo su quel pazzo di Łódź – Re Rumkowski?»

«Sì.»

«Spesso penso che le parti genitali di un uomo abbiano un’aria espressiva. Anche quelle delle donne. Penso che siano sempre lì lì per dire qualche cosa, attraverso quelle barbe.»

Sammler non rispose. Wallace sorseggiava il suo whisky come un ragazzo avrebbe fatto con la Coca-Cola.

«Naturalmente,» disse Wallace «i neri parlano un’altra lingua. Un ragazzo li ha supplicati di non ucciderlo…»

«Quale ragazzo?»

«Stava sui giornali. Un ragazzino che si è trovato circondato da una gang di neri quattordicenni. Li ha pregati di non sparare, ma quelli semplicemente non capivano le parole che diceva. Letteralmente: non è la stessa lingua. Non sono gli stessi sentimenti. Non c’è comprensione. Né concetti comuni. Non esiste punto di contatto.»

Anche io sono stato supplicato. Sammler, tuttavia, non lo disse.

«Il bambino è morto?»

«Il ragazzino? Dopo qualche giorno è morto per la ferita. Ma quei ragazzi non sapevano neppure quello che stava dicendo.»

«C’è una scena in Guerra e pace a cui, ogni tanto, penso» disse Sammler. «Il Generale francese Davout, che era molto crudele, e che, a quanto si dice, credo, strappò i baffi a un uomo estirpandone le radici, mandava la gente davanti al plotone d’esecuzione, a Mosca; ma quando Pierre Bezuchov gli si avvicinò, i due si guardarono negli occhi. Venne scambiato uno sguardo umano, e Pierre fu risparmiato. Tolstòj dice che non lo uccidi un altro essere umano con cui hai scambiato uno sguardo così.»

«Oh, ma è meraviglioso! Cosa ne pensi, tu?»

«Io comprendo un tale desiderio per una tale convinzione.»

«Tu ti limiti a comprendere.»

«No, comprendo profondamente. Comprendo tristemente. Quando uomini di genio pensano al genere umano, sono quasi obbligati a credere in questa forma di unità psichica. Vorrei che fosse vero.»

«Perché rifiutano di pensare a se stessi come interamente eccezionali. Questo sì che lo capisco. Ma tu non credi che questo scambio di sguardi funzioni? Non accade così?»

«Oh, probabilmente di tanto in tanto accade pure. Pierre Bezuchov ha avuto una fortuna incredibile. Naturalmente era un personaggio di un libro. E naturalmente la vita stessa è una specie di fortuna, per l’individuo. Molto simile a un libro. Ma Pierre è stato eccezionalmente fortunato a incontrare lo sguardo del suo boia. In quanto a me, non mi è mai capitato di vederlo funzionare. No, non l’ho mai visto accadere. È una cosa per cui vale la pena di pregare. E ha un fondamento. Non è un’idea arbitraria. È basata sulla convinzione che esista la stessa verità nel cuore di ogni essere umano, o uno sprazzo dello spirito stesso di Dio, e che questa sia la cosa più ricca che abbiamo in comune. E fino a un certo punto io ne converrei. Ma sebbene non sia un’idea arbitraria, io personalmente non ci conterei.»

«Dicono che tu un tempo sia stato nella tomba.»

«Ah sì?»

«Com’era?»

«Già, com’era. Cambiamo discorso. Siamo già sull’autostrada Cross County. Emil è molto veloce.»

«A quest’ora, di notte, niente traffico, capisci. Una volta, mi hanno salvato la vita. Fu prima di New Rochelle. Marinai la scuola e andavo in giro, a zonzo, per il parco. La laguna era ghiacciata, però io vi caddi dentro lo stesso. C’era un ponticello tipo giapponese, e io stavo arrampicandomi sulle travate, di sotto, e ho fatto un bel capitombolo. Era dicembre, e il ghiaccio era grigio. La neve era bianca. L’acqua era nera. Io mi tenevo attaccato al ghiaccio, con una paura da cacare, e la mia anima mi sembrava una di quelle biglie di vetro, che rotolava giù, lontano lontano. È venuto un ragazzino più grande e mi ha salvato. Pure lui aveva fatto sega a scuola e strisciò pian piano sul ghiaccio, reggendosi a un ramo. Io l’ho afferrato, e il ragazzino mi ha trascinato a riva. Poi andammo al gabinetto degli uomini nel galleggiante, e io mi spogliai completamente. Lui mi strofinò col suo cappotto foderato di agnellino. Poi misi i vestiti sul termosifone, ma non c’era verso che si asciugassero. Allora lui disse: “Per la miseria, qui tu ti prendi un accidenti”. L’accidenti me lo fece prendere la mia cara mamma. Mi tirò le orecchie perché avevo i vestiti bagnati.»

«Molto bene. Avrebbe dovuto farlo più spesso.»

«Vuoi sapere una cosa? Sono d’accordo. Hai ragione. Quel ricordo mi è prezioso. È molto più vivido della torta al cioccolato, e molto più ricco. Però, Zio Sammler, il giorno dopo, a scuola, quando rividi quel ragazzino decisi di dargli la mia paghetta settimanale, che consisteva di dieci centesimi.»

«E lui li prese?»

«Certo che li prese.»

«Queste storie mi piacciono. Che ti disse?»

«Nemmeno una parola. Fece semplicemente un cenno con la testa e si prese la monetina da dieci centesimi. Se la mise in tasca e se ne tornò dai suoi compagni più grandi di me. Suppongo che abbia pensato che se li era guadagnati, là sul ghiaccio. Erano la sua giusta ricompensa.»

«Vedo che questi ricordi li hai.»

«Be’, mi servono. Tutti hanno bisogno dei propri ricordi. Tengono lontano il lupo dell’insignificanza.»

E tutto ciò continuerà. Continuerà, semplicemente. Altri sei miliardi di anni prima che esploda il sole. Sei miliardi di anni di vita umana! Ci si sente vacillare il cuore a contemplare una cifra simile. Sei miliardi di anni! Che cosa sarà di noi? Delle altre specie, sì, e di noi? Come potremo mai farcela? E quando dovremo abbandonare la Terra e lasciare questo sistema solare per un altro, te l’immagini che giornata di trasloco sarà quella! Ma per allora il genere umano sarà diventato molto diverso. L’evoluzione continua. Olaf Stapledon ha calcolato che ogni individuo nelle età future vivrà migliaia di anni. La persona futura, una figura colossale, di un bellissimo color verde, con una mano che si sarà evoluta in un nécessaire di strumenti straordinari, arnesi forti e malleabili, pollice e indice capaci di manovrare migliaia di chili di pressione. Ciascun cervello apparterrà a un meraviglioso collettivo analitico, che si sarà creato la propria, originale matematica, la propria fisica, quale parte di un “intero” sublime. Una corsa di giganti semi-immortali, i nostri ingenui e freschi discendenti, cari consanguinei e fratelli, contenenti ancora, inevitabilmente, alcune delle nostre acide peculiarità come pure alcuni dei poteri dello spirito. La rivoluzione scientifica aveva soltanto trecento anni. Aggiungiamoci un milione, aggiungiamoci un altro miliardo. E Dio? Sempre nascosto, persino a questa possente fratellanza mentale, sempre irraggiungibile?

Ma la Rolls ormai percorreva i vialetti della zona residenziale. Si potevano sentire le foglie di primavera agitarsi e sfiorare quell’automobile argentea che passava. Dopo tanti anni, Sammler non sapeva ancora la strada per arrivare a casa di Elya, attraverso i boschetti suburbani, con le stradine che serpeggiavano in quel modo. Ma ecco l’edificio, stile Tudor, per metà costruito in legno, dove il rispettabile chirurgo e la sua signora, dedita alla cura della casa, avevano allevato due figli e avevano giocato a volano su quell’erba deliziosa. Nel 1947, come profugo, Sammler era rimasto trasecolato di fronte a tutta quella voglia di giocare – adulti con racchette e volani. Ora il prato davanti alla casa, che a Sammler sembrava rasato di fresco, era illuminato dalla Luna; la ghiaia, fine, bianca e minuscola, produceva un gradevole suono di macinatura sotto le ruote dell’auto. Gli olmi erano folti, antichi – più antichi di tutti i Gruner messi insieme. Occhi di animali apparvero nella luce dei fanali, o erano riflettori molati che erano stati incassati nei bordi dei sentieri: topi, talpe, marmotte, gatti o pezzi di vetro spiavano dall’erba o dai cespugli. Non c’era nessuna finestra illuminata. Emil accese gli abbaglianti e proiettò la luce sul portone d’ingresso. Scendendo in fretta dalla macchina, Wallace rovesciò il whisky sulla moquette. Sammler, a tentoni, cercò il bicchiere e lo diede allo chauffeur, spiegando: «È caduto». Poi seguì Wallace sulla ghiaia scricchiolante.

Appena Sammler fu entrato, Emil inserì la retromarcia e si diresse al garage. Nelle stanze, perciò, rimase soltanto il riflesso della Luna. Una casa malconcepita, come sempre era parso a Sammler, dove nulla realmente funzionava salvo le apparecchiature meccaniche. Ma Gruner se ne era sempre occupato coscienziosamente, in modo particolare da quando era morta la moglie, in uno spirito di reverenza per una persona scomparsa. Proprio come Margotte faceva nei riguardi di Ussher Arkin. Era ghiaia fresca, quella nel vialetto. Non appena finiva l’inverno, Gruner ordinava che ve ne spargessero in abbondanza. La Luna risciacquava le tende e schiumava come acqua ossigenata sulla lanuggine dei pesanti tappeti bianchi.

«Wallace?» Sammler credeva di averlo sentito giù nella cantina. Se non accendeva la luce, evidentemente non voleva che Sammler scoprisse i suoi movimenti. Il poverino era proprio un deficiente. Obbligato dalla vita, dal destino, da quello che vi pare, a essere disinteressato, a pensare con il massimo della sua abilità in termini universali, Mr. Sammler non aveva alcuna intenzione di mettersi a fare il poliziotto con Wallace in casa di suo padre, di impedirgli di scovare quei soldi – immaginari o reali dollari di aborti criminali.

Esaminando la cucina, Sammler non trovò alcuna prova che qualcuno vi fosse stato di recente. Le credenze erano chiuse, il lavello e i piani di lavoro di acciaio inossidabile, asciutti. Come fosse in esposizione. Le tazze appese ai loro uncini: non ne mancava nessuna. Ma in fondo alla pattumiera foderata con una busta di carta da pacchi c’era una scatoletta di tonno vuota; preparato al naturale, a bagno nell’acqua, di marca Geisha, odorava di pesce fresco. Sammler se la portò al naso. Ah ah! Qualcuno aveva fatto colazione? Forse Emil, lo chauffeur? O Wallace stesso, direttamente dalla scatoletta, senza aceto o altro condimento? Wallace avrebbe lasciato delle briciole sul piano di lavoro, e la forchetta sporca, tracce disordinate di qualcuno che ha mangiato. Sammler rimise al suo posto la scatoletta di latta aperta, staccò il piede dal pedale della pattumiera e andò nel soggiorno. Qui toccò la reticella del parafuoco, poiché Shula amava molto i caminetti. Era fredda. Ma la serata era calda. Questo non provava niente.

Quindi salì al primo piano, ricordandosi come lui e lei avevano giocato a nascondino a Londra trentacinque anni prima. Lui era bravo in quel gioco, a parlare da solo, a voce alta. «Dov’è Shula? In questo sgabuzzino? Vediamo un po’. Ma dove può essere? No, nello sgabuzzino non c’è. Ma è una cosa misteriosa! Sarà forse sotto il letto? No. Però, che bambina furba questa Shula. Come si nasconde bene. Non c’è che dire: è semplicemente scomparsa.» Mentre la bambina, che aveva appena compiuto cinque anni, eccitatissima dalla febbre del gioco, bianca come un lenzuolo, stava rannicchiata dietro la cassetta del carbone dove lui faceva finta di non vederla, con il sederino vicino al pavimento, la grande testa dai capelli crespi col fiocchetto rosso – tutta una vita in quel luogo. Malinconia. Anche se non ci fosse stata la guerra.

In ogni modo, furto! Quella era una cosa grave. E furto di proprietà intellettuale – perfino peggio. E nel buio egli cedette un po’ alla debolezza dell’età avanzata. Era troppo vecchio per quelle faccende. Arrancava lungo la ringhiera sul lusso stancante della moquette. Avrebbe dovuto trovarsi all’ospedale. Un vecchio parente nella sala d’aspetto. Molto più acconcio. Al primo piano, le camere da letto. Si mosse prudentemente nel buio. Nell’aria rinchiusa c’erano vecchi odori di sapone e di acqua di colonia. Nessuno, di recente, aveva rinfrescato un po’ gli ambienti.

Udì un rumore d’acqua, un leggero movimento in una vasca piena. Uno sciacquio. La sua mano avanzò, il polso piegato, scivolando sulla parete di maiolica fino a quando trovò l’interruttore. Nella luce vide Shula che cercava di coprirsi i seni con un quadrato di spugna. L’enorme vasca era soltanto per metà occupata dal suo corpo basso. Le piante dei suoi piedi bianchi, lui vide, e il nero triangolo femminile e le bianche protuberanze con grandi cerchi di un marrone violaceo. Le vene. Sì, sì, anche lei era socia del club. Il club del genere. Questa era una femmina. Quello era un maschio. Per l’importanza che aveva per lui…

«Papà. Ti prego. Per favore spegni la luce.»

«Ma che sciocchezze. Aspetterò in camera da letto. Mettiti qualche cosa addosso. E fai presto.»

Si sedette nella vecchia camera da letto di Angela. Di quando era ragazzetta. O apprendista puttana. Be’, la gente andava in guerra. Prendeva ogni sorta di arma che aveva a disposizione e avanzava verso il fronte.

Sammler stava seduto in una poltroncina di cretonne color pesca. Non udendo alcun movimento nella stanza da bagno, gridò: «Sto aspettando», e lei emerse dall’acqua. Sammler udì i suoi piedi, solidi, rapidi. Quando camminava urtava sempre contro qualche cosa. Non si limitava mai semplicemente a camminare. Toccava le cose e le reclamava. Come sua proprietà. Poi entrò, a passo veloce, con indosso una vestaglia di lana da uomo e un asciugamano intorno alla testa, e sembrava senza fiato, scioccata di essere stata veduta nella vasca dal padre.

«Be’, allora dove sta?»

«Papà!»

«No, sono io che sono scandalizzato, non tu. Dov’è quel documento che hai rubato per ben due volte?»

«Non è stato rubare.»

«Altri possono anche formulare nuove regole a seconda dei casi, ma io no, e non accetterò che tu mi metta in questa posizione. Stavo per restituire il manoscritto al dottor Lal, e invece è stato portato via dalla mia scrivania. Esattamente com’è stato portato via dalle sue mani. Identico metodo.»

«Ma non è così che si deve guardare a questa faccenda. Non ti agitare a quel modo, papà.»

«Dopo tutto quello che è successo, non cercare di proteggere il mio cuore o accennare al fatto che sono vecchio e che posso morire di un colpo apoplettico. Non riuscirai a spuntarla con nessuna di queste mosse, stai bene attenta. Allora, dov’è questo oggetto?»

«È al sicuro, perfettamente al sicuro.» Lei cominciò a parlare polacco. Gravemente, lui le negò il permesso di parlare quella lingua. Shula stava tentando di farsi forte dei periodi tremendi in cui era stata nascosta – il convento, l’ospedale, il reparto per malattie infettive allorché giunsero i tedeschi a perquisire il suo rifugio.

«Lascia perdere quella roba. Rispondimi in inglese. L’hai portato qui?»

«Ne ho fatta fare una copia. Papà, sono andata allo studio di Mr. Widick…»

Sammler si trattenne. Visto che lui non le permetteva di parlare polacco, la figlia ricorreva a qualche altra cosa, all’infantilismo. Con la tenerezza di una bambina, abbassò il suo viso maturo, già definitivamente quello di una donna di mezza età. Adesso stava cercando di incontrare lo sguardo del padre, da un lato, con un solo occhio sgranato, come quello di un bimbo, e il mento timidamente, timidamente affondava nella vestaglia di lana.

«Ah sì? Be’, che cosa hai fatto nello studio di Mr. Widick?»

«Sai, ha una di quelle macchine per riprodurre gli stampati. L’ho usata per il Cugino Elya. E Mr. Widick non va mai a casa. Si vede che la odia casa sua. È sempre in ufficio, così l’ho chiamato e gli ho domandato se potevo adoperare la macchina, e lui ha detto: “Ma certo”. E così ho fatto una fotocopia di tutto.»

«Per me?»

«O per il dottor Lal.»

«Tu hai pensato che io avrei potuto volere l’originale?»

«Se per te è più comodo.»

«Oh, adesso veniamo al punto: che cosa ci hai fatto con questi manoscritti?»

«Li ho chiusi a chiave in due armadietti di sicurezza alla Grand Central Station.»

«Alla Grand Central. Buon Dio. Le chiavi ce le hai, o le hai perdute?»

«Ce le ho, papà.»

«Dove sono?»

Shula si era preparata a quella probabile visita. Gli presentò due buste sigillate e affrancate. Una era indirizzata a lui e l’altra al dottor Govinda Lal presso la Butler Hall.

«E tu volevi mandare queste per posta? L’armadietto di sicurezza si può tenere solamente per ventiquattro ore. Queste invece potrebbero metterci una settimana per arrivare. E allora cosa sarebbe successo? E ti sei scritta i numeri degli armadietti? No. E allora come avrebbe fatto uno a sapere dove si trovano, se le lettere si fossero smarrite? Ti toccherebbe presentare un reclamo fornendo prove di proprietà del materiale, prove per dimostrare che tu sei l’autore. Ce ne sarebbe abbastanza da far uscire un uomo pazzo.»

«Non mi sgridare così. Ho fatto tutto per te. Tu avevi della proprietà rubata in casa. Il detective ha detto che si trattava di proprietà rubata, e chiunque ne fosse stato in possesso era un ricettatore di proprietà rubata.»

«Senti, da ora in poi, non mi fare più favori simili. È addirittura impossibile discuterne con te. Sembra che tu non riesca neppure ad afferrare la gravità della questione.»

«Io te l’ho portato per mostrarti la mia fede nelle memorie di H.G. Wells. Volevo ricordarti quanto fossero importanti. A volte te ne dimentichi tu stesso. Come se H.G. Wells non fosse niente di speciale. Be’, forse non per te, ma per tanta gente Wells è ancora importante e molto, molto speciale. Sto aspettando che tu finisca il tuo lavoro e che appaiano le recensioni sui giornali. Volevo vedere la fotografia di mio padre nelle librerie, invece di tutte quelle facce da cretini e tutti quei libri stupidi e senza importanza.»

Le chiavi degli armadietti, sporche, nelle buste. Mr. Sammler le osservò accuratamente. Così com’era esasperante, una combina-guai, era anche, s’intende, una donna tristemente divertente. Purché gli armadietti contenessero i manoscritti e non montagne di scartafacci raccolti in cartelle. No, Sammler pensò di no. Era soltanto un pochino pazza. La sua povera bambina. Una creatura generata da lui e alla deriva in un mondo privo di forma o delimitazione. Come aveva fatto a diventare così? Forse la vita interiore, importante, intima – la cosa che siamo noi stessi dai primissimi giorni –, allorché scopre che esiste la morte, spesso impazzisce. E qui debbono venire in aiuto i poteri magici, per lenire, consolare e, per una donna, quei poteri meravigliosi tanto spesso sono i poteri di un uomo. Come nel caso di Cleopatra che, Antonio morente, gridò che non avrebbe abitato in questo triste mondo che «senza di te non è che un porcile». E poi? Un porcile, e poi? Ah, ecco, ora si ricordava la fine, molto adatta per quella notte. «Ogni confronto è sparito e nulla troverà di notevole la Luna nella sua prossima visita.»

E lui sarebbe dovuto essere la cosa notevole, lui che seduto su quella fodera lucida sentiva sotto di sé il tedio di quel color pesca e di quegli spampanati fiori rossi. Un oggetto simile, inteso per opprimere e affliggere l’anima, anche in quel momento ci riusciva. Lui era rimasto vulnerabile, sensibile alle piccolezze. Nondimeno Mr. Sammler riceveva tuttora messaggi primordiali. E il messaggio immediato, fondamentale era che lei, questa donna con la sua forma sessuale femminile che la copertura aderente della vestaglia di lana non riusciva a nascondere (soprattutto sotto la vita, dove una cosa doveva far rantolare di piacere un amante), questa donna matura non dovrebbe chiedere adesso al suo papà di rendere notevoli degli oggetti sublunari. Tanto per cominciare, lui non aveva mai attraversato il mondo a cavallo come un Colosso con eserciti e flotte, lasciando cadere corone dalle tasche. Lui era soltanto un vecchio ebreo a cui avevano inflitto un colpo dopo l’altro, a cui avevano sparato, ma che in qualche modo non erano riusciti a uccidere, assassinando, con le loro raffiche, tutti gli altri. Nella loro peculiare trasformazione: un popolo cambiato in uniforme, mascherato con stoffa militare e con elmetti, che arrivava con macchine d’ogni sorta allo scopo di ammazzare bambini, bambine, uomini, donne, facendo scorrere il sangue, seppellendo, e infine esumando e bruciando i cadaveri decomposti. L’uomo è assassino. L’uomo ha una natura morale. L’anomalia può essere risolta esclusivamente con la pazzia, con sogni pazzi in cui le illusioni della consapevolezza vengono conservate dall’organizzazione, in stati di folle perdizione aggrappati a forme di amministrazione commerciale. Trasformandola in “lavoro governativo”. Tutta quanta. Ma in questo mondo a lui, ora a lui, Signore benedetto! si richiedeva di fornire alla sua sbalestrata, squinternata figliola, delle nobili finalità. E naturalmente, dal punto di vista di Shula, lui era diventato troppo delicato per la vita terrestre, troppo assorto in universali non condivisi da altri, escludendone lei. E con la stravaganza, con istrionismi animaleschi, con la sottrazione di documenti, con un sacco di stramberie – quelle sue borse della spesa –, nevrosi da cestini dei rifiuti, cucina esotica da far venire l’acidità di stomaco, desiderava coinvolgere lui e riportarlo qui, legarlo e tenerlo nel mondo, accanto a lei. Te lo raccomando il mondo! Te la raccomando lei! La loro elevazione sarebbe stata un’elevazione in comune. Lei l’avrebbe sostenuto, e lui avrebbe conseguito grandi risultati nel mondo della cultura. Poiché lei era kulturnaja. Shula era tanto kulturnaja. Niente le si adattava di più di questa filistea parola russa. Kulturny. Lei poteva piegarsi lentamente sulle ginocchia e pregare come una cristiana; poteva fare uno scherzo del genere al padre; poteva intrufolarsi in oscuri confessionali; poteva correre da Padre Robles e invocare protezione cristiana contro la sua collera ebrea; ma nella sua svitata devozione per la cultura Shula non avrebbe potuto essere più ebrea di così.

«Benissimo, la mia fotografia nelle librerie. Grande idea. Ottima. Ma rubare…?»

«Non è stato veramente rubare.»

«Be’, comunque tu lo voglia chiamare, che importanza ha? Come in quella vecchia barzelletta: che cosa apprendo di più su un cavallo se so che in latino si chiama equus

«Ma io non sono una ladra.»

«Molto bene. Nella tua mente non sei una ladra. Solamente nei fatti.»

«Pensavo che se tu realmente, realmente prendessi sul serio H.G. Wells, dovresti sapere se lui ha fatto delle predizioni esatte sulla Luna, o su Marte, e che avresti pagato qualunque prezzo per avere le più recenti, le più aggiornate informazioni scientifiche su quest’argomento. Una persona creativa non si fermerebbe davanti a niente. Per i creativi non esistono delitti. E tu non sei forse una persona creativa?»

A Sammler sembrava che dentro di lui (faute de mieux, nella sua mente) ci fosse un campo in cui molti cacciatori in disaccordo l’uno con l’altro sparavano pallini da caccia all’apparizione di una piuma che pensavano fosse un uccello. Shula aveva inteso metterlo alla prova. Suo padre era o non era ciò che lei definiva «la cosa vera»? Era creativo, era una forza della natura, un originale autentico, o no? Sì, era un test attitudinale, e questo era molto americano da parte di Shula. Esisteva un americano che non fosse moralmente didattico? Era mai stato commesso un delitto che non punisse la vittima in funzione del “bene più alto”? C’era mai stato un peccatore che non peccasse pro bono publico? Così grande era il male dell’utilità, e così immenso lo spirito liberale della spiegazione. La psicopatologia dell’insegnamento negli Stati Uniti. Allora, papà era un vero creativo intransigente – capace di un audace furto per il bene dei mémoires? Poteva rischiare tutto per H.G.?

«Sinceramente, bambina mia, tu l’hai mai letto un libro di Wells?»

«Sì, l’ho letto.»

«Dimmelo – ma la verità, soltanto fra te e me.»

«Ho letto un libro, papà.»

«Uno? Un libro di Wells è come cercare di fare il bagno in un’unica e sola onda del mare. Che libro era?»

«Parlava di Dio.»

«Dio il re invisibile

«Ecco, quello lì.»

«L’hai finito?»

«No.»

«Nemmeno io.»

«Oh, papà… tu?»

«Non ci sono riuscito. L’evoluzione umana con Dio come Intelligenza. Ho immediatamente capito qual era il punto e perciò il resto era noioso, prolisso.»

«Ma era così intelligente. Io ne ho letto qualche pagina ed ero talmente elettrizzata. Sapevo che era un grand’uomo, anche se non sono stata capace di leggere tutto il libro. Lo sai che non riesco a leggere un libro per intero. Sono troppo impaziente. Ma tu li hai letti tutti, gli altri libri suoi.»

«Nessuno potrebbe leggerli tutti. Io ne ho letti molti. Probabilmente troppi.»

Sorridendo, Sammler vuotò le buste e gettò la palla di carta accartocciata nel cestino di cuoio fiorentino con i disegnini d’oro. Acquistato dalla madre di Angela durante uno dei suoi viaggi. Le chiavi se le mise nella tasca della giacca, piegandosi tutto da una parte sulla poltroncina per arrivarci.

Osservandolo in silenzio, Shula sorrideva a sua volta, tenendosi i polsi con le dita, le braccia incrociate sul petto per impedire che la vestaglia si aprisse. Sammler, malgrado il quadrato di spugna, le aveva visto i capezzoli marroni-viola, appesantiti dalle vene sporgenti. All’angolo della bocca, ora che aveva fatto la sua marachella, c’era una casta piega di trionfo. I capelli neri spettinati e piatti erano coperti, avvolti nell’asciugamano, salvo, come sempre, per i boccoletti kosher che le uscivano fuori, lungo le orecchie. Sorrideva come se avesse mangiato una scodella di minestra divina e proibita: e che cosa ci si poteva fare adesso che ormai era andata? Dietro, la nuca bianca era forte. Forza biologica. Sotto il collo aveva un rigonfiamento dorsale, da persona matura. Una donna fatta. Ma le braccia e le gambe non erano proporzionate. La sua unica creatura. Non dubitava mai che lei compisse atti che avevano origine in un passato lontanissimo, di inconscia derivazione ancestrale. Era consapevole di quanto ciò fosse vero di se stesso. Particolarmente nelle questioni religiose. Va bene, lei era una matta che pregava, ma lui, dopotutto, anche lui aveva l’abitudine di pregare, spesso si rivolgeva a Dio. In quel preciso momento per esempio domandava di capire perché mai amasse tanto quella donna sciocca con la pelle color crema, spessa, inutilmente sensuale, la bocca dipinta e quel turbante di asciugamani.

«Shula, lo so che hai fatto questo per me…»

«Tu sei più importante di quell’uomo, papà. Tu ne avevi bisogno.»

«Ma da ora in poi, non ti servire di me come scusa. Per i tuoi exploits…»

«C’è mancato poco che ti perdessimo in Israele, in quella guerra. Avevo una gran paura che non finissi la tua opera, il tuo lavoro di una vita.»

«Ma che sciocchezze, Shula. Quale opera? E venire ucciso? Laggiù? La migliore morte che potrei immaginare. E per di più, non c’era nessun pericolo. Che stupidaggini!»

Shula si alzò. «Sento il rumore di una macchina» disse. «Qualcuno deve essere appena arrivato qua sotto.»

Lui non aveva udito nulla. Lei era dotata di sensi acutissimi. Animale ingenuo e idiota, aveva le orecchie di una volpe. Si era alzata così all’improvviso, in piedi, zitta ad ascoltare, maestosa, lenta di cervello, attenta. E i piedi bianchi. I suoi piedi non erano stati deformati dalle scarpe alla moda.

«Probabilmente è Emil.»

«No, non è Emil. Bisogna che mi vesta.»

Corse via dalla stanza.

Sammler scese al pianterreno chiedendosi dove fosse finito Wallace. Il campanello di casa cominciò a squillare e continuò a squillare. Margotte non sapeva come si suona un campanello, quando smettere di premere un bottone. Lui poteva vederla, attraverso il lungo e stretto vetro della porta d’ingresso, col suo cappello di paglia, e il Professor V. Govinda Lal era con lei.

«Abbiamo preso un’auto della Hertz» disse Margotte. «Il professore non ce la faceva più a sopportare l’attesa. Abbiamo parlato al telefono con Padre Robles. Sono giorni che non vede Shula.»

«Professor Lal. Imperial College. Biofisica.»

«Io sono il padre di Shula.»

Vi furono dei piccoli inchini, una stretta di mano.

«Possiamo sederci nel soggiorno. Faccio un po’ di caffè? Shula è qui?» disse Margotte.

«Sì, è qui.»

«E il mio manoscritto?» disse Lal. «Il futuro della Luna

«È al sicuro» disse Sammler. «Non è proprio qui in casa, però è sotto chiave e al sicuro. Le chiavi le ho io. Professor Lal, La prego di accettare le mie scuse. Mia figlia si è comportata molto male. Le ha causato della sofferenza.»

Sotto la luce dell’ingresso, Sammler vide la faccia inorridita e delusa di Lal: guance marroni, capelli neri, ordinati, vividi, divisi graziosamente, e un’enorme barba spiegata al vento. L’inadeguatezza delle parole – la necessità di svariate lingue simultanee per rivolgersi contemporaneamente a tutte le parti del cervello, e in modo speciale a quelle parti lasciate libere dalla manchevole comunicazione che funzionavano furiosamente per conto proprio. Viceversa era come se uno dovesse fumare dieci sigarette tutte in una volta; bevendo, nel frattempo, anche del whisky; essendo anche impegnato, sessualmente, con altre tre o quattro persone; ascoltando, allo stesso tempo, bande musicali; ricevendo, anche, contemporaneamente, annotazioni scientifiche – e in siffatto modo engagé fino alla massima capacità… l’illimitatezza, la pressione delle aspettative moderne.

Lal gridò: «Oh mio Dio! Questo è intollerabile! Intollerabile! Perché mi viene mandato un castigo così duro?».

«Margotte, versa un cognac al dottor Lal.»

«Io non bevo! Io non bevo!»

Nella buia cornice della barba i denti di Lal erano serrati. Poi, consapevole della propria sonorità, disse in un tono più appropriato: «Normalmente non bevo».

«Ma, dottor Lal, Lei ha raccomandato che ci fosse la birra sulla Luna. Tuttavia… io sono illogico. Dài, avanti, Margotte, non stare semplicemente lì con quell’aria preoccupata. Prendi il cognac. Ne berrò un po’ io, se il professore non ne vuole. Sai dove stanno i liquori, no? Porta due bicchieri. E ora, Professore, presto questa angoscia sarà finita.»

Il soggiorno era quello che chiamavano «affondato». Ci si doveva scendere. Un pozzo, una piscina, una vasca foderata di moquette. Era ammobiliato o arredato con completezza professionale, in modo denso e organizzato. Ciò, se uno tanto tanto glielo permetteva, provocava sofferenza. Sammler l’aveva conosciuto, l’arredatore della fu Mrs. Gruner. O l’invalidatore. Croze. Croze era piccoletto, ma aveva la forza di una personalità da artista. Stava ritto in piedi come un tordo. La sua pancettina sporgeva bene in fuori e faceva sì che i pantaloni fossero sollevati di un bel po’ al di sopra delle caviglie. La faccia aveva un bellissimo colorito, i capelli erano tagliati alla perfezione per la sua testina leggiadra, aveva una boccuccia a bocciolo di rosa, e dopo che gli avevi stretto la mano, a Croze, la mano poi ti rimaneva profumata tutto il giorno. Era un tipo creativo. Capace di atti criminali, probabilmente. Tutte le cose lì intorno erano opera sua. Qui erano state trascorse parecchie ore noiose, soprattutto dopo i pranzi di famiglia. Non sarebbe una cattiva usanza mandare questi arredamenti e mobili giù nella tomba insieme all’estinto, stile egizio. Comunque, erano tutte lì, queste spoglie di seta, cuoio, vetro e legno da antiquariato. Qui Sammler guidò il peloso dottor Lal, un uomo piccolo, molto scuro. Non nero, col naso aguzzo, il tipo dravidico, dolicocefalo, ma con i lineamenti rotondi. Probabilmente veniva dal Punjab. Aveva polsi sottili e pelosi e così pure le caviglie e le gambe. Era un dandy. Un damerino, o meglio un macaroni (Sammler non poteva abbandonare le vecchie parole che, a Cracovia, aveva provato tanto piacere a pescare qua e là nei libri del diciottesimo secolo). Sì, decisamente Govinda era un beau. Era anche un uomo sensibile, bello, intelligente, nervoso, smanioso, elegante, un eccentrico. Una sola incongruenza ma di massima importanza: il viso rotondo ingrandito da una barba morbida ma forte. Dietro, due scapole sottili sporgevano attraverso il blazer di lino. Era un po’ curvo.

«Posso chiederLe dov’è sua figlia?»

«Sta scendendo. Dirò a Margotte di andare a cercarla. Si è spaventata quando ha visto il detective.»

«È stato bravissimo a trovarla. Lavoro ingegnoso. Il detective ha svolto bene la sua missione.»

«Indubbiamente, ma con mia figlia i metodi alla Pinkerton erano fuori luogo. Per via della Polonia, capisce, e la guerra… la polizia. Stava nascosta. E così è stata presa dal panico. È molto brutto che abbia dovuto risentirne Lei. Ma cosa si può fare se questa donna è un pochino…»

«Psicopatica?»

«Be’, questo sarebbe calcare troppo la mano. Non è che sia del tutto scervellata. Ha fatto una copia del Suo manoscritto e poi è andata alla Grand Central Station, ha preso due armadietti di sicurezza, in uno ha messo l’originale e nell’altro la fotocopia. Ecco le chiavi.»

La mano di Lal, lunga e sottile, le prese. «Come faccio a essere certo che sia veramente là, il mio libro?»

«Dottor Lal, io mia figlia la conosco. In questo caso, non ho il minimo dubbio. Tutto al sicuro in metallo a prova di fuoco. Anzi, Le dirò che sono contento che non si sia portata il libro in treno. L’avrebbe potuto perdere – dimenticarselo sul sedile. La Grand Central è bene illuminata, sorvegliata dalla polizia, e seppure uno degli armadietti dovesse venir manomesso dai ladri, ci sarebbe sempre il secondo. La prego di non preoccuparsi più. Lo vedo, Lei sta sulle spine. Ma può considerare questa spiacevole disavventura come ormai finita. Il manoscritto è salvo.»

«Spero di sì, signore.»

«Prendiamo un goccetto di cognac. Abbiamo passato delle giornate snervanti.»

«Un’agonia. In qualche modo è stato il tipo di terrore che mi ero immaginato pensando all’America. La mia prima visita. Avevo avuto un presentimento.»

«L’America è stata tutta così?»

«Non del tutto. Ma quasi.»

Rumorosa, in cucina, Margotte apriva scatolette, tirava fuori scodelle, sbatteva la porta del frigorifero, sbatacchiava pentole e posate. Le faccende di casa di Margotte erano in trasmissione continua.

«Potrei prendere il treno per New York» disse Lal.

«Margotte non sa guidare. Cosa ne farà dell’auto presa a noleggio alla Hertz?»

«Oh, accidenti! L’automobile! Dannate macchine!»

«Mi rincresce di non saper guidare neanch’io» disse Sammler. «Non guidare è la snobberia più recente, mi dicono. Ma io sono innocente, con quella roba non c’entro. È solo per la mia vista.»

«Dovrei tornare indietro a prendere Mrs. Arkin.»

«Può restituire la Sua Hertz qui a New Rochelle, ma dubito che rimangano aperti tutta la notte. Ci dev’essere un orario della Penn Central. In tutti i casi, manca poco alla mezzanotte. Potremmo chiedere a Wallace di accompagnarLa al treno, se non se l’è squagliata dalla porta posteriore… Wallace Gruner» spiegò. «Ci troviamo appunto in casa Gruner. Un mio parente – nipote attraverso una sorellastra. Ma prima mangiamoci quel che ci sta preparando Margotte. Quanto diceva poco fa mi ha interessato… i suoi presentimenti riguardo agli Stati Uniti. Ventidue anni fa il mio arrivo qui fu un gran sollievo.»

«Naturalmente in un certo senso tutto il mondo adesso è Stati Uniti. Ineluttabile» disse Govinda Lal. «È come un grande corvo che ci ha portato via il futuro dal nido, e noi, gli altri, siamo come fringuellini che lo rincorriamo per cercare di beccarlo. Ad ogni modo, i voli dell’Apollo sono americani. Io sono stato assunto dalla NASA. Per un altro tipo di ricerca. Ma è qui che le mie idee conteranno, se serviranno poi a qualche cosa… Se Le sembro strano, mi scusi. Sono stato veramente molto in ansia.»

«E per un motivo più che giusto. Mia figlia Le ha fatto davvero del male.»

«Ora comincio a sentirmi un po’ più disteso. Non credo che proverò più alcun risentimento al riguardo.»

Attraverso le lenti colorate e mentre aspirava i fumi del cognac, Sammler, provvisoriamente, approvò Govinda Lal, che gli ricordava, per certi aspetti, Ussher Arkin. Molto spesso, assai più spesso di quanto si rendesse conto, e con gran vividezza, pensava a Ussher sotto terra in una posizione o in un’altra, con questo o quel colore, in una o in un’altra condizione fisica. Esattamente come pensava ad Antonina, la moglie. A quanto gli risultava la grande fossa non era stata più toccata. Dalla quale lui stesso, scrostandosi di dosso tutto quel sudiciume, spingendo i cadaveri, era uscito soffocato dal sangue, ed era strisciato via, sulla pancia. Quindi, quel tipo di pensiero profondo, c’era da aspettarselo.

Ora Margotte stava tagliando delle cipolle in una terrina. Qualcosa da mangiare. La vita nelle sue cellule a goccioline luminose continuava le sue promulgazioni. Povero Ussher in quell’apparecchio all’aeroporto di Cincinnati. Sammler sentiva la sua mancanza e riconobbe di essersi trasferito nell’appartamento, insieme a Margotte, per il contatto con Ussher che esso poteva offrirgli.

Ma notava alcune delle stesse qualità, le qualità di Arkin, in quel Lal così diverso, più tenebroso, più piccolo, più cespuglioso, con un polso non più largo di un righello.

Poi Shula-Slawa scese al piano di sotto. Lal, che fu il primo a vederla, fece un’espressione tale che costrinse Sammler a voltarsi immediatamente. Si era vestita con un sari, o qualcosa di simile, aveva trovato un pezzo di stoffa indiana in un cassetto. Non doveva averlo indossato correttamente. Le copriva anche la testa. E soprattutto sul petto si notava un errore. (Sammler quella sera era molto preoccupato per la delicatezza di quella parte del corpo di lei; se c’era pericolo di esibizione o di dolore fisico, lui lo sentiva nei suoi stessi organi.) Non era sicuro che Shula portasse della biancheria intima. No, non c’era proprio nessun Büstenhalter. Era straordinariamente bianca – pelle spessa come un cedro, guance color crema – e le labbra, più morbide e più turgide del solito, erano dipinte di uno stranissimo color arancio. Come i ciclamini napoletani che Sammler aveva ammirato al giardino botanico. E poi si era messa le ciglia finte. Sulla fronte c’era una macchia indù marcata con il rossetto. Esattamente dove era stato lo sbaffo del Mercoledì delle Ceneri. L’idea era di affascinare e placare quell’incollerito Lal. I suoi occhi, mentre a passi veloci e senza guardare scendeva nel pozzo della stanza, erano accesi e (nelle parole che il vecchio disse a se stesso) dilatati in modo bizzarro, inclini alla sensualità. Benché cercasse di fare la signora, compiva troppi gesti, si faceva troppo avanti, esageratamente sollecita, avendo di gran lunga troppo da dire.

«Professor Lal!»

«Mia figlia.»

«Già, lo pensavo.»

«Mi dispiace. Mi dispiace terribilmente, dottor Lal. C’è stato un malinteso. Lei era circondato da tante persone. Lei deve aver pensato che io volessi solo dare uno sguardo al manoscritto. Mentre io ho creduto che Lei mi permettesse di portarlo a casa, a mio padre. Come Le ho detto, si ricorda? Stava scrivendo il libro su H.G. Wells.»

«Wells? No. Ma la mia impressione è che sia decisamente sorpassato.»

«Comunque, per il bene della scienza, della scienza, e per il bene della letteratura e della storia, poiché mio padre sta scrivendo questa storia importante, e Lei capisce, io l’aiuto nel suo lavoro intellettuale, culturale. Non c’è nessun altro che lo faccia. Non avrei mai voluto provocare dei guai.»

No. Nessun guaio. L’idea era solo quella di scavare una fossa, coprirla di arbusti e fogliame, e quando un uomo ci cadeva dentro, stendersi sulla nuda terra e conversare amorosamente con lui. Giacché Sammler adesso sospettava che lei fosse fuggita via con Il futuro della Luna proprio per creare quell’opportunità, quell’incontro. Lui e Wells erano sul serio secondari, allora? Dunque era stato fatto per suscitare interesse? Non era quello uno stratagemma familiare? Con lui, Sammler ricordava, le donne qualche volta agivano in maniera insolente per attrarre la sua attenzione, e dicevano cose mordaci e pungenti credendo di diventare, in tal modo, affascinanti ai suoi occhi. Era per questo che Shula aveva preso il libro? In un tentativo di seduzione femminile? Un’unica specie: ma i sessi come due diverse tribù selvagge. Dipinti con la pittura di guerra. Sorprendendosi e mettendosi paura a vicenda nei boschi. Questo Govinda, quest’uomo leggero, energico, baffuto, scuro, fragile, volante – un intellettuale. E lei per gli intellettuali andava pazza. Essi contribuivano a mantenere “notevole” il mondo sotto la Luna in visita. Accendevano il suo grembo. Anche Eisen, forse, per riconquistare la sua stima (fra le tante ragioni), aveva lasciato la fonderia e si era dato all’arte. Probabilmente si era dimenticato del motivo originario, per dimostrare che, come il padre di lei, era un uomo di cultura. E ora faceva il pittore. Povero Eisen.

Ma Shula stava seduta molto vicino a Lal sul sofà: ci mancava poco che lo prendesse per mano, per il braccio, come se intendesse toccare una delle sue membra. Gli stava assicurando che aveva riprodotto il suo manoscritto con la massima attenzione. Era preoccupata che l’apparecchio Xerox portasse via l’inchiostro e lasciasse le pagine bianche. Aveva fotocopiato la pagina Uno morendo di paura. «Lei adopera un inchiostro così speciale, cosa sarebbe accaduto se si fosse verificata una reazione negativa? Io sarei morta.» Ma tutto era andato benissimo. Mr. Widick aveva detto che era una riproduzione bellissima. E adesso si trovava in quei due armadietti di sicurezza. La copia l’aveva messa in un raccoglitore tipo quelli che usano gli avvocati. Mr. Widick aveva detto che uno poteva perfino lasciare i soldi per un riscatto, alla Grand Central. Perfettamente al sicuro. Shula voleva che Govinda notasse che il cerchio arancione tra i suoi occhi aveva un significato lunare. Non faceva che piegare il viso da una parte, offrendogli la fronte.

«E adesso, Shula, mia cara» disse Sammler. «Margotte ha bisogno di un po’ di aiuto in cucina. Vai da lei.»

«Oh, Papà.» Parlandogli, un po’ in disparte, in polacco, provò a dirgli che voleva restare.

«Shula! Vai! Avanti – su, vai!»

Mentre obbediva, le sue guance avevano un’aria accaldata e risentita. Davanti a Lal voleva far vedere la sua sottomissione filiale, ma mentre si allontanava il didietro esprimeva rabbia e impazienza.

«Non l’avrei mai riconosciuta, non l’avrei mai identificata» disse Lal.

«Ah sì? Eh già, senza la parrucca. Spesso si mette la parrucca.»

Tacque. Govinda stava pensando. Presumibilmente al recupero del suo manoscritto nell’armadietto alla stazione. Sì. Dal basso tastò le tasche del blazer, assicurandosi che le chiavi ci fossero.

«Lei è polacco?» disse.

«Ero polacco.»

«Artur?»

«Sì. Come Schopenhauer, che mia madre leggeva. Arthur, in quel periodo, era il nome più internazionale, non molto ebreo, ma più illuminato che si potesse dare a un maschio. Lo stesso in tutte le lingue. Ma a Schopenhauer gli ebrei non piacevano molto. Li chiamava volgari ottimisti. Ottimisti? Vivendo vicino al cratere del Vesuvio, è meglio essere ottimisti. Per il mio sedicesimo compleanno mia madre mi regalò Il mondo come volontà e rappresentazione. Naturalmente fu un complimento molto gradito che io potessi essere così serio e profondo. Come il grande Arthur. E così studiai il sistema, e ancora lo ricordo. Ho imparato che soltanto le Idee non possono essere sopraffatte dalla Volontà – la forza cosmica, la Volontà, che spinge tutte le cose. Un potere accecante. L’intrinseca furia creativa del mondo. Ciò che vediamo sono soltanto le sue manifestazioni. Come la filosofia indù – Maya, il velo delle apparenze che sta sospeso su tutta l’esperienza umana. Sì, e pensandoci bene, secondo Schopenhauer, la sede della Volontà negli esseri umani è…»

«Dove si trova?»

«Gli organi del sesso sono la sede della Volontà.»

Il ladro nell’atrio di casa sua era d’accordo. Lui aveva tirato fuori lo strumento della Volontà. Aveva scostato non il velo di Maya, ma uno dei suoi filati e aveva mostrato a Sammler il proprio mandato metafisico.

«E Lei è stato amico del famoso H.G. Wells – questo perlomeno è vero, no?»

«Non mi piace attribuirmi l’amicizia di un uomo non più vivo per confermarla o negarla, ma c’è stato un tempo, quando lui era sui settant’anni, che lo vedevo spesso.»

«Ah, allora Lei deve aver vissuto a Londra.»

«Eh già, a Woburn Square vicino al British Museum. Io facevo delle passeggiate col vecchio Wells. In quei giorni le mie idee personali non erano granché e di conseguenza ascoltavo le sue. Umanesimo scientifico, fede in un futuro emancipato, nella benevolenza attiva, nella ragione, nella civiltà. Oggigiorno idee non popolari. Naturalmente la civiltà l’abbiamo, ma in quanto tale viene sdegnata. Credo che Lei comprenda ciò che voglio dire, Professor Lal.»

«Penso di sì. Sì.»

«Eppure, sa, Schopenhauer non avrebbe mai chiamato Wells un volgare ottimista. Wells aveva molti pensieri neri. Prenda per esempio La guerra dei mondi. In quel libro i marziani vengono per eliminare il genere umano. Trattano la nostra specie come gli americani trattarono il bisonte e altri animali o, se è per questo, gli indiani americani. Sterminio.»

«Ah, sterminio. Immagino che Lei abbia una personale conoscenza del fenomeno.»

«Sì, un po’ ne ho.»

«Davvero?» disse Lal. «Anch’io. Come panjabi.»

«Lei è un panjabi?»

«Sì, e nel 1947 studiavo all’Università di Calcutta e sono stato presente a quei terribili tumulti, i combattimenti fra indù e musulmani. Da allora denominata la Grande strage di Calcutta. Temo di aver veduto dei maniaci omicidi.»

«Ah.»

«Sì, gente che ammazzava con grandi randelli pesanti e sbarre di ferro taglienti. E i cadaveri. Stupri, incendi, saccheggi.»

«Capisco.» Sammler lo guardò. Questo era un uomo sensibile e intelligente, con una faccia espressiva. Naturalmente quell’espressività alle volte era segno di soggettività e di abitudini mentali interiori. Non di un’immaginazione volta all’esterno. Cominciava a pensare, tuttavia, che questo Lal era, come Ussher Arkin, un uomo con cui lui poteva parlare. «Quindi per Lei non è una questione teorica. Nemmeno per me. Ma uomini eccellenti, di buon cuore, Mr. Arnold Bennett, Mr. H.G. Wells, che facevano colazione al Savoy… Olimpici di origine plebea. Così simpatici. Così seri. Così inglesi… Mr. Wells. Ero lusingato che mi avesse scelto perché ascoltassi i suoi monologhi. Gli volevo anche bene. Naturalmente, dalla Polonia in poi, 1939, i miei giudizi sono cambiati. Alterati. Come la mia vista. Io vedo che Lei sta cercando di osservare cosa c’è dietro queste lenti colorate. No, no, per carità, non me ne dispiace affatto. Un occhio funziona regolarmente. Come il vecchio detto del re dall’occhio solo nel paese dei ciechi. Wells scrisse un racconto su questo argomento. Non un buon racconto. Comunque, io non sono nel paese dei ciechi, sono semplicemente un “monocolo”. Quanto a Wells… era uno scrittore. Scriveva, scriveva, scriveva.»

Sammler credette che Govinda stesse per parlare. Quando fece una pausa, passarono svariate ondate di silenzio, contenenti tacite domande: Lei? No, Lei, signore: Parli Lei. Lal stava ascoltando. La sensibilità di una creatura pelosa; il marrone animale dei suoi occhi; la buona educazione della sua posizione attenta.

«Desidera che Le parli ancora di Wells, dato che Wells, in un certo senso, è dietro a tutta questa faccenda?»

«Sarebbe così gentile? La prego» disse Lal. «Lei ha dei dubbi circa il valore degli scritti di Wells.»

«Sì, naturalmente ne ho. Dei gravi dubbi. Per mezzo dell’istruzione universale e delle pubblicazioni a basso prezzo, dei poveri ragazzini sono diventati ricchi e potenti. Dickens, ricco. Shaw, pure. Si vantava che aver letto Karl Marx aveva fatto di lui un uomo. Io non saprei in questo caso, però il marxismo tramite il grande pubblico ne ha fatto un milionario. Se uno scriveva per un’élite, come Proust, non diventava ricco, ma se il tema che lui trattava era la giustizia sociale e le sue idee erano estremiste, veniva ricompensato dalla ricchezza, dal potere, dalla celebrità.»

«Estremamente interessante.»

«Le sembra? Mi deve scusare, questa sera mi sento angustiato. Contemporaneamente angustiato e loquace. E quando conosco qualcuno che mi piace, al principio mi può succedere di essere prolisso.»

«No, no, La prego di continuare questa spiegazione.»

«Spiegazione? Sono un po’ contrario alle spiegazioni estese. Ce ne sono troppe. Ciò rende ingovernabile la vita mentale dell’umanità. Ma ho riflettuto sulla questione Wells – la questione Shaw, e su gente come Marx, Jean-Jacques Rousseau, Marat, Saint-Just, parlatori, scrittori formidabili, che hanno cominciato senza alcun capitale salvo quello mentale e hanno ottenuto un’immensa influenza. E tutti gli altri, avvocatucci, lettori, bluffatori, libellisti, scienziati dilettanti, bohémiens, librettisti, chiromanti, ciarlatani, reietti, buffoni. Un pazzo avvocato provinciale che esige la testa del Re, e che oltre tutto la ottiene. In nome del popolo. Oppure Marx, uno studente, uno che frequenta l’università, scrive libri che travolgono il mondo. Era davvero un ottimo giornalista e pubblicista. In quanto ex giornalista, posso giudicare la sua abilità. Come molti giornalisti, s’inventava le cose, basandosi su altri articoli di giornale, la stampa europea, ma le inventava estremamente bene, scrivendo sull’India o sulla Guerra civile americana, questioni di cui non sapeva assolutamente nulla. Ma era meravigliosamente arguto, geniale nelle intuizioni, un polemista e retore di grandissima forza. Il suo hashish ideologico era molto potente. In ogni modo, capisce quel che voglio dire – la gente diventa autorevole e i plebei di genio dapprima si elevano alla nobiltà e in seguito alla gloria universale, e tutto perché hanno avuto quello che tutti i bambini poveri hanno ricevuto dal saper leggere e scrivere: l’ABC, il dizionario, le grammatiche, i classici. Fino a quando, elevandosi dalle loro bidonville o dai loro salottini piccolo-borghesi, indirizzano le loro parole a milioni di uomini in tutto il mondo. Sono questi gli individui che stabiliscono i termini, che creano il discorso, e poi la storia segue il loro verbo. Pensi alle guerre e alle rivoluzioni in cui ci siamo venuti a trovare a causa dei loro geroglifici.»

«Indubbiamente la stampa indiana ha avuto molta responsabilità in quei tumulti» disse Lal.

«Una cosa a favore di Wells era che, a causa di delusioni personali sue, lui se non altro non esigeva il sacrificio della civiltà. Non è diventato una figura-culto, una personalità regale, un grande eroe dell’arte o un leader attivista. Lui non si sentiva disonorato dalle parole. Molti invece sì, e non soltanto allora, anche adesso.»

«Cosa vuol dire, signore?»

«Ebbene, vede,» disse Mr. Sammler «nel grande periodo borghese, gli scrittori diventavano degli aristocratici. Ed essendo diventati aristocratici attraverso la loro destrezza con le parole, si sentivano obbligati a lanciarsi nell’azione. Evidentemente è una vergogna per la vera nobiltà sostituire agli atti le parole. Lei può riscontrare quanto sto dicendo nella carriera di Monsieur Malraux, o Monsieur Sartre. Lo può osservare, dottor Lal, molto più lontano nel tempo, in Amleto, quando prova, appunto, questa umiliazione e dice: “Io… debba come una puttana scaricarmi l’anima con le parole”.»

«“E darmi a bestemmiare come una vera baldracca.”»

«Già, questa è la citazione completa. Oppure a Polonio: “Parole, parole, parole”. Le parole sono per gli anziani, o per i giovani vecchi di cuore. Naturalmente qui si tratta dello stato d’animo di un principe il cui padre è stato assassinato. Ma quando la gente per disprezzo dell’impotenza e della paralisi della parola si lancia in nobili azioni, lo sa davvero quello che fa? Quando cominciano a reclamare il sangue e a patrocinare il terrore, o a proclamare una generale rottura di uova per farne un’enorme omelette storica, sanno veramente quello che reclamano? Quando hanno preso a colpi di martello uno specchio, nell’intento di ripararlo, possono rimettere insieme i frammenti di quello specchio? Ebbene, dottor Lal, non so quanto possano giovare questo esame e questo rimbrotto. Non è che sia convinto della possibilità di controllare gli esseri umani quale che sia il livello della complessità. Non giurerei che l’umanità sia governabile. Tuttavia Wells era incline a credere che lo fosse. Egli pensava, sostanzialmente, che la civiltà di minoranza potesse essere trasmessa alle grandi masse, e che condizioni giuste per una tale trasmissione fossero possibili. Condizioni eque, stile britannico, vittoriano-edwardiane, non-reiette, non-folli, condizioni riconoscenti. Ma durante la Seconda guerra mondiale si disperò. Paragonava l’umanità a dei ratti in un sacco, che lottavano disperatamente e mordevano. In verità la situazione era simile a un ratto e simile a un sacco. Realmente. Ma ora ho esaurito il mio interesse per Wells. E anche il Suo, spero, dottor Lal.»

«Ah, Lei lo conosceva davvero molto bene» disse Lal. «E con quanta chiarezza sa esporre le cose. Lei è un condensatore di gran classe. Vorrei averlo io il Suo talento. Mi è mancato penosamente quando ho scritto il mio libro.»

«Il Suo libro, per la parte che ho avuto tempo di leggere, è molto chiaro.»

«Spero che potrà leggerlo tutto. Mi scusi, Mr. Sammler, sono confuso. Non so con precisione dove mi abbia condotto Mrs. Arkin, e di chi sia questa casa. Lei me l’ha spiegato, ma io non sono riuscito a seguire.»

«Questa è la Westchester County, poco lontana da New Rochelle, e la casa è di mio nipote, il dottor Arnold Elya Gruner che in questo momento è all’ospedale.»

«Ho capito. È molto malato?»

«Ha una perdita di sangue nel cervello.»

«Un aneurisma. E non lo si può raggiungere chirurgicamente?»

«No.»

«Santo cielo. E Lei ne è terribilmente turbato.»

«Morirà fra un giorno o due. Sta morendo. Un brav’uomo. Ci ha portati via da un campo profughi, Shula e me, e da ventidue anni si occupa di noi, con gentilezza e generosità. Ventidue anni senza averci mai trascurato un giorno, senza mai una parola di rabbia.»

«Un gentiluomo.»

«Sì, un vero gentiluomo. Lei può vedere che mia figlia e io non abbiamo vere e proprie competenze. Io ho fatto del giornalismo fino all’incirca a quindici anni fa. Ma è sempre stata poca cosa. Recentemente ho scritto un rapporto in polacco sulla guerra in Israele. Ma è stato il dottor Gruner a pagarmi il viaggio.»

«Insomma Le ha dato modo di essere una specie di filosofo?»

«Se è questo che sono. Ho una certa dimestichezza con molte spiegazioni delle cose. A dirLe la verità, sono stanco della maggioranza di queste spiegazioni.»

«Ah, Lei quindi ha un punto di vista escatologico. Molto interessante.»

Sammler, che non aveva molta simpatia per la parola “escatologico”, scrollò le spalle. «Dottor Lal, Lei crede che dovremmo andare nello spazio?»

«Lei è molto triste per Suo nipote. Forse preferirebbe non parlare.»

«Una volta che si comincia a parlare, una volta che la mente si mette a girare in questa direzione, continua a girare, e si tuffa in tutti gli avvenimenti. E forse a lasciarla girare le cose diventano leggermente più tollerabili. Sebbene non veda perché poi dovrebbero essere tollerabili. È veramente un momento spaventoso. Ma cosa si può fare? I pensieri continuano a girare.»

«Come la ruota panoramica dei lunapark» disse il fragile, nero-barbuto Govinda Lal. «Io dovrei dire che ho fatto del lavoro per la Worldwide Technics, in Connecticut. Le mie sono mansioni altamente sofisticate e teoretiche che hanno a che fare con l’ordine nei sistemi biologici, come, cioè, meccanismi complessi si riproducono. Sebbene quanto Le sto per dire probabilmente significherà poco per Lei, ecco, mi si associa con l’ipotesi del Bang-Bang, connessa all’esplosione di impulsi simultanei, teorie atomiche della conduttività cellulare. Poiché Lei ha menzionato Rousseau, l’uomo può o non può essere nato libero. Ma io posso dire con certezza che non esisterebbe senza le sue catene di polimeri. Spero molto che a Lei piacciano le mie battute. Io amo molto il Suo spirito, la Sua intelligenza. Se non è reciproco, sarebbe un gran peccato. Mi riferisco a quelle strutture a catena della cellula. Sono questioni di ordine, Mr. Sammler. Malgrado non abbia il progetto completo da poter presentare. Non sono ancora quel genio universale. Ah! Ah! In tutta serietà, comunque, la scienza biologica è in uno stato di evoluzione straordinario. Oh, è bellissimo, e così stupendo! Parteciparvi è un privilegio. Quest’ordine chimico, che è un fondamento della vita, è di grande bellezza. Oh, sì, grandissima. E quale alto privilegio! Mi è venuto in mente, mentre Lei parlava di un’altra questione, che desiderare di vivere senza ordine equivale a desiderare di allontanarsi dal fondamentale principio biologico che ci governa. Il quale principio, un’infinità di individui presume esista soltanto al fine di liberarci, una piattaforma di lancio per l’impulso. Siamo pazzi, o che cosa? Dall’ordine, dal principio governatore, l’essere umano si può staccare per esprimere il suo immenso privilegio di semplice e pura libertà o dell’inesplicabilità dell’impulso. I fondamenti biologici sono come i contadini, mentre l’individuo intero si considera un principe. Si tratta della cigale e della fourmi. La formica un tempo era l’eroe, ma adesso è la cicala che trionfa su tutto. Mio padre mi ha insegnato la matematica e il francese. La più grande preoccupazione della sua vita era che gli studenti potessero tagliare le pagine dell’Encyclopædia Britannica con le lamette e si portassero gli articoli a casa per studiarseli con calma. Mio padre era una persona semplice. Per merito suo, io ho amato la letteratura francese. Prima a Calcutta, e poi a Manchester, l’ho studiata fino al momento in cui sono maturati i miei interessi scientifici. Ma per rispondere alla Sua domanda riguardante lo spazio. Ci sono, naturalmente, molte obiezioni a queste spedizioni. Accuse secondo le quali sono soldi tolti alle scuole, agli slum, e così via, si capisce. Esattamente come il denaro del Pentagono viene sottratto ai miglioramenti di ordine sociale. Che sciocchezze! È tutta contro-propaganda da parte della burocrazia social-scientifica. Loro sì che i fondi se li accaparrerebbero subito. Inoltre, il denaro in se stesso, da solo, non cambia necessariamente la situazione, giusto? Io credo di no. Gli americani hanno sempre avuto le mani bucate. Male, senza dubbio, ma esiste una cosa che si chiama gaspillage fruttuoso. Lo sperpero può essere giustificato qualora consenta l’inventività, l’originalità, l’avventura. Sfortunatamente i risultati sono per lo più solitamente immorali, corrotti, creando profitti odiosi, ricreazioni da playboy e ammassando fortune reazionarie. Per ciò che riguarda Washington, una spedizione sulla Luna costituisce senza dubbio una superba operazione di pubbliche relazioni. È un puro showbiz. Può darsi che il mio argot non sia aggiornato.» La voce orientale e pastosa era molto piacevole.

«Io non sono un’autorità in materia.»

«Lei sa, ad ogni modo, a che cosa sto pensando. Circhi. Abbacinamento. Gli Stati Uniti che diventano i più grandi dispensatori di spettacoli fantascientifici. Per quanto riguarda gli organizzatori e gli ingegneri, è un’opportunità grandissima, ma questo non è di alto valore teoretico. Eppure, allo stesso tempo, qualcosa di serio si verifica all’interno. L’anima sicurissimamente avverte la grandiosità di questa conquista. Non andare dove uno è in grado di andare può provocare un arresto. Io credo che l’anima lo senta, e di conseguenza diventa una necessità. Può portare a un nuovo equilibrio. Ovviamente la tecnologia farà più colpo sulle menti che non sulle personalità. Gli astronauti possono non sembrare tanto degli eroi. Semmai dei super-scimpanzé. Soprattutto se non si esprimono in bello stile. Ma dopotutto, questa è la funzione dei poeti. Se una funzione ce l’hanno. Tuttavia oserei dire che persino i tecnici ne usciranno nobilitati. Ma Lei è d’accordo, signore, che dovremmo andare nello spazio?»

«Be’, perché no? Fino a un certo punto, sì. Benché io non creda che si possa giustificare razionalmente.»

«Perché no? A me vengono in mente moltissime giustificazioni. Io la vedo come una necessità razionale. Lei avrebbe dovuto finire di leggere il mio libro.»

«In tal caso avrei trovato la prova inconfutabile?» Sammler sorrise attraverso gli occhiali colorati, e l’occhio cieco tentò di partecipare. Nel vecchio abito nero e impeccabile, il suo corpo snello e rigido ben eretto, e le sue dita, particolarmente tremolanti quand’era teso o affaticato, che reggevano, lievemente, le ginocchia. Una sigaretta (ne fumava solamente tre o quattro al giorno) bruciava fra le sue nocche goffe e pelose.

«Voglio semplicemente dire che, in tal caso, sarebbe stato al corrente della mia tesi, che in parte baso sulla storia degli Stati Uniti. Dopo il 1776 esisteva un continente dove potersi espandere, e questo spazio assorbì tutti gli errori. Naturalmente io non sono uno storico. Ma se uno non si può lanciare in supposizioni audaci, allora non può far altro che cedere il tutto agli esperti. L’Europa, dopo il 1789, non aveva spazio sufficiente per tutti i suoi errori. Risultato: guerra e rivoluzione, con le rivoluzioni che finiscono in mano ai pazzi.»

«L’ha detto De Maistre.»

«Ah sì? Non so molto di lui.»

«Può essere sufficiente sapere che lui è d’accordo. Le rivoluzioni in effetti finiscono in mano ai pazzi. Naturalmente di pazzi ce ne sono sempre in abbondanza per soddisfare ogni finalità. Inoltre, se il potere è di dimensioni notevoli, con la sua pressione, produce i propri pazzi personali. Il potere indubbiamente corrompe, ma questa affermazione è incompleta sotto l’aspetto umano. Non è troppo astratta? Ciò che bisognerebbe sicuramente aggiungere è la verità specifica che l’avere in mano il potere distrugge la sanità mentale dei potenti. Permette alle loro irrazionalità di abbandonare la sfera dei sogni e di entrare a far parte del mondo reale. Ma… mi scusi, io non sono certo uno psicologo. Come dice Lei, nondimeno, bisogna che ci venga concesso di avanzare supposizioni audaci.»

«Forse è naturale che un indiano debba essere ipersensibile nei riguardi di un surplus di umanità. Calcutta è così formicolante di vita, così vulcanica. Un cinese sarebbe altrettanto sensibile. Qualsiasi nazione di vaste moltitudini. Adesso noi siamo gremiti, ammassati, e gli esseri umani debbono sentire che una via d’uscita esiste, e che il potere intellettuale e l’abilità della loro stessa specie aprono loro questa via. L’invito al viaggio, il desiderio di Baudelaire di uscir fuori – uscir fuori dalle circostanze umane – o la bramosia di essere un battello ebbro, o un’anima il cui ardente desiderio è di spalancare un universo chiuso, è tuttora reale, soltanto che l’impulso non deve essere attribuito alla stanchezza e alla vanità della vita, e non deve necessariamente essere un viaggio della morte. Il guaio è che soltanto specialisti addestrati saranno in grado di fare questo viaggio. L’anima agognante non può farlo semplicemente in virtù dell’impulso diretto, perché ne ha una necessità incommensurabile o perché ne ha voglia o perché è dotata del potere della sofferenza. Bisognerà che conosca l’ingegneria e che indossi quelle stranissime tute e che accetti di sopportare imbarazzi organici, personali. Forse il problema delle radiazioni si dimostrerà insuperabile, oppure in altri mondi si contrarranno malattie sconosciute. Cionondimeno esiste un universo dove possiamo riversarci. Ovviamente un solo pianeta non ci basta più. Né possiamo rifiutare il fascino, la sfida insiti in un nuovo tipo di esperienza. Dobbiamo riconoscere l’estremismo e il fanatismo della natura umana. Se non accettassimo quest’opportunità la Terra ci sembrerebbe sempre più una prigione. Poter spiccare il volo e non farlo significherebbe condannare noi stessi. Saremmo irritati più che mai con la vita. Già adesso la specie si sta mangiando viva. E ora il Regno A Venire è direttamente sopra di noi in attesa di ricevere i frammenti di un’esplosione finale. Molto meglio la Luna.»

Sammler non pensava che ciò dovesse necessariamente accadere.

«Lei crede che la specie non voglia vivere?» disse.

«Molti desiderano farla finita» disse Lal.

«Ebbene, se, come dice Lei, noi siamo il tipo di creatura obbligata a fare ciò che è capace di fare, ne conseguirebbe che dobbiamo autodistruggerci. Ma questo non dev’essere deciso dalla specie? Potremmo affermare che a questo punto la politica non è altro che pura biologia? In Russia, in Cina, e qui, gente molto mediocre ha il potere assoluto di porre fine alla vita. Tali rappresentanti – non rappresentanti dei migliori, ma Calibani o, nel gergo, leccapiedi – decideranno per noi tutti se dobbiamo vivere o morire. L’uomo adesso interpreta il dramma della morte universale. Non dovrebbero morire tutti insieme, subito, come in una sola grande morte individuale, esprimendo liberamente tutte le passioni dell’uomo per il proprio fato? Molti dicono che desiderano finirla. Naturalmente questa potrebbe essere soltanto retorica.»

«Mr. Sammler,» disse Lal «credo che Lei voglia suggerire che vi sia un’implicita moralità nella volontà di vivere e che queste mediocrità ai posti direttivi compiano il loro dovere nei confronti della specie. Io non ne sono sicuro. Nella biologia non vi è dovere. Non c’è alcun obbligo sovrano verso la propria razza. Allorché il destino biologico viene realizzato nella riproduzione, il desiderio è spesso di morire. Noi troviamo piacere nell’estrarre delle idee di dovere dalla biologia. Ma il dovere è dolore. Il dovere è odioso – angoscia, oppressiva.»

«Sì?» disse Sammler, dubbioso. «Quando sai che cosa è il dolore, sei perfettamente d’accordo che non essere nati è meglio. Ma, essendo nati, rispettiamo i poteri della creazione, obbediamo alla volontà di Dio – con qualsivoglia riserve interiori la verità ci imponga. Quanto al dovere, Lei ha torto. La sofferenza del dovere rende la creatura retta, e questa rettitudine non è cosa trascurabile. No, io continuo a sostenere quanto ho detto all’inizio. C’è anche un istinto contro il lanciarsi nel Regno A Venire.»

La scena, per una conversazione di tale natura, era di per sé curiosa: la moquette verde, i grandi vasi, le tende di seta del soggiorno della fu Hilda Gruner. Qui Govinda Lal, piccolo, curvo, scuro, con la sua carnagione ruggine o oro, la faccia piena e la barba, era come un ornamento o un dipinto orientale. Sammler stesso sottostava a quell’influsso, simile a una figura dai colori indiani – le guance rosse, i capelli bianchi che gli sventolavano dietro la testa, i cerchi degli occhiali e il fumo della sigaretta intorno ai capelli. Con Wallace aveva insistito di essere orientale, e ora sentiva di assomigliarci.

«Quanto allo stato attuale delle cose,» disse Govinda «io vedo che l’insoddisfazione personale, che è tanto grande, può fornire energia all’impresa più grandiosa che il fato ha segretamente preparato – la partenza dalla Terra. Potrebbe essere la compressione che precede la nuova espansione. Per lanciarsi verso la Luna, possiamo aver bisogno di un’inerzia eguale e opposta. Un’inerzia profonda perlomeno duecentocinquantamila miglia. O anche di più. E inoltre sembra che ne siamo in possesso. Chi può sapere come funzionano queste cose? Lei conosce il famoso Oblomov? Non riusciva ad alzarsi dal letto. Quel fantasma dell’inerzia o della paralisi. Allora l’opposto sarebbe l’attivismo frenetico – lancio di bombe, guerra civile, culto della violenza? Lei ne ha parlato. Ma noi, fino al punto di cadere nell’infelicità, facciamo sempre, sempre, qualche cosa? Persistiamo fino all’esaurimento completo? Forse. Prenda il mio temperamento personale, ad esempio. Le confesso, Mr. Sammler (e quanto sono lieto che le peculiarità della sua figliola ci abbiano fatti incontrare – penso che diventeremo amici)… io confesso di avere, originariamente – originariamente, Lei mi comprende – un carattere malinconico, depresso. Da bambino non potevo sopportare di essere separato da mia madre. Né, se è per questo, da mio padre, che era, come ho detto, un insegnante di francese e di matematica. E tantomeno dalla casa, dai compagni di gioco. Quando coloro che ci venivano a far visita stavano per andarsene, facevo delle scenate violente. Ero un bambino dal singhiozzo facile. Qualunque separazione produceva un tormento emotivo così acuto che veramente mi sentivo male. Devo aver provato dolore per la separazione in modo così profondo e interno da raggiungere le mie molecole costitutive, e tremavo in miliardi di nuclei. Iperbole? Forse, mio caro Mr. Sammler. Ma dai primi studi compiuti in biofisica sui letti vascolari (non La importunerò con i particolari) mi sono convinto che la natura, più che un ingegnere, è un’artista. Il comportamento è poesia, è ordine metaforico, è metafisica. Dalle reazioni ad alta frequenza del cervello di decimi di millisecondo nelle reti corticotalamiche ai fenomeni ecologici più vistosi e più rozzi, tutto è un grafico, in un codice misterioso, di una sublime metafora. Io parlo delle mie passioni personali all’epoca della mia infanzia, e il corpo di un individuo è elettronicamente più denso di quanto la foresta pluviale tropicale sia densa di organismi. E tutte queste esistenze sono, come spesso ci viene suggerito, poesia. Io non ci provo nemmeno più a superare questa impressione di poesia universale. Ma per tornare alla questione della mia personalità, ora sono in grado di vedere che mi ero prefissato di allontanarmi dagli oggetti di più intimo attaccamento. In cui, Mr. Sammler, lo spazio esterno è un opposto – personalmente, un polo emotivo. Uno nasce fra le gambe della propria madre, e in seguito persiste a muoversi verso l’esterno. Una cosa è vedere gli arcipelaghi siderali e un’altra tuffarcisi dentro, in un universo senza giorno e senza notte; be’, quello, vede, fa della profondità marina una cosa meschina, del leviatano non più che un girino…»

Entrò Margotte – gambe corte, robuste, rapide, efficienti, ma asciugandosi le mani inettamente sia sulla gonna che sul grembiule – dicendo: «Ci sentiremo tutti meglio quando avremo mangiato qualcosa. Per te, Zio, abbiamo un’insalata di aragosta, della zuppa alla cipolla della Crosse and Blackwell, Bauernbrot e burro, e caffè. Dottor Lal, immagino che Lei non sia un mangiatore di carne. Le piacciono i fiocchi di latte?».

«Se non Le dispiace, niente pesce.»

«Ma dov’è Wallace?» disse Sammler.

«Oh, è andato su con degli arnesi per accomodare non so che cosa in soffitta.» Sorrise mentre tornava in cucina, sorrise in modo particolare a Govinda Lal.

Lal disse: «Provo molta simpatia per Mrs. Arkin».

Sammler pensò: Lei voleva, a scatola chiusa, che tu provassi simpatia per lei. Io ti posso dare delle dritte su come essere felice con lei. Forse perderò il mio santuario, ma ci posso anche rinunciare se si tratta di una cosa seria. Con una prospettiva dello spazio, forse le urgenze immediate e l’egoismo vengono ridimensionati, e il matrimonio potrebbe essere una buona forma di associazione – sub specie aeternitatis. E inoltre, benché piccolo, Govinda in qualche aspetto era simile a Ussher Arkin. Alle donne non piacciono troppi cambiamenti.

«Margotte è un’ottima persona» disse Sammler.

«Questa è anche la mia impressione. Ed estremamente, immensamente attraente. È molto tempo che è morto il marito?»

«Tre anni, poveretto.»

«Poveretto davvero, morire giovane e con una moglie tanto desiderabile.»

«Su, io ho fame» disse Sammler. Stava già riflettendo su come fare a togliere di mezzo Shula da tutto questo. Era innamorata cotta di quell’indiano. Anche lei aveva i suoi desideri. Bisogni. Era una donna, dopotutto. Cosa si poteva fare per una donna? Poco, molto poco. O per Elya, con quello spruzzo che gli gorgogliava in testa? Tremendo. Elya riappariva stranamente e continuamente, come se la sua faccia descrivesse un’orbita – come se fosse un satellite.

Comunque sia, si sedettero a consumare una piccola cena nella cucina di Elya, e la conversazione continuò.

Ora che Sammler era rimasto affascinato da Govinda e aveva veduto, o immaginato, una rassomiglianza con Ussher Arkin, ed era compromesso affettivamente, per abitudine mentale lo vedeva anche, sotto un altro aspetto, come una curiosità orientale, un demonietto asiatico cespuglioso e ronzante intorno a un pianeta, che mentalmente rimbalza dai limiti come un moscone dal vetro. Chiedendosi se quell’uomo potesse essere un ciarlatano, in qualche misura. No, no, quello no. Non c’era tempo per fare delle osservazioni strambe o meschine; bisognava essere decisi e fidarsi dei propri istinti. Lal era autentico. La sua conversazione era conversazione, non era una buffonata. Quello non era un ciarlatano, era semplicemente una bizzarria umana. Era un uomo eccellente, solido. La sua unica debolezza, immediatamente riconoscibile, era il desiderio che le sue credenziali fossero rese note. Snocciolava titoli e nomi – l’Imperial College, il Professor Waddington, suo amico intimo, il suo incarico di consulente ufficioso del Professor Hoyle, il suo rapporto con il dottor Feldstein della NASA e la sua partecipazione al Convegno di Bellagio sulla biologia teoretica. Cose perdonabili in un piccolo straniero. Il resto era perfettamente limpido. Naturalmente Sammler era divertito dal fatto che lui e Lal parlassero un tipo d’inglese “straniero” così diverso l’uno dall’altro, ed era anche simpatico che fossero uno alto e uno basso. Per lui l’altezza significava iperattività pituitaria e forse deterioramento vitale. I grandi e grossi a volte sembravano avere menti ristrette, come se quello spigare in alto dovesse costare qualche cosa al cervello. Fatto stranissimo nell’ottava decade della vita di un uomo, comunque, era provare uno spontaneo sentimento di amicizia. Alla sua età? Quelle erano cose per i giovani, che ancora sognavano di innamorarsi, d’incontrare qualcuno dell’altro sesso che li guarisse di tutti i loro problemi, cuore e anima, e per cui loro avrebbero fatto lo stesso. Da ciò nasceva una disposizione per gli attaccamenti improvvisi come ora si vedeva in Lal, in Margotte e in Shula. Ma per se stesso, in quel momento della vita, e poiché vi era tornato dall’altro mondo, non si verificavano connessioni rapide, subitanee. I suoi primi germogli di affetti erano stati consumati. La sua vita, un tempo umana, un tempo preziosa, era stata bruciata via. Un ulteriore verde germoglio che scaturisse dal nero bruciato non poteva che essere semplice persistenza naturale, la Forza Vitale al lavoro, che tentava di ricominciare.

In tutti i modi, per la durata di questa piccola cena in cucina (servita con la generosità maldestra di Margotte), il vecchio uomo triste provò anche la massima gioia. Gli sembrava che pure gli altri sentissero ciò che sentiva lui: Shula-Slawa nel suo sari approssimativo che seguiva la conversazione con occhi devoti, riproducendo ogni parola a bocca chiusa con labbra morbide dipinte di arancione, inclinando il capo sul palmo della mano; Margotte, compiaciutissima, naturalmente: quel piccolo indù l’aveva conquistata in pieno; l’occasione era intellettuale e, per di più, le era capitato di dar da mangiare, di nutrire, tutti i presenti. Poteva essere più piacevole di così un istante della vita? A Sammler queste stramberie femminili facevano tenerezza.

Il dottor Lal stava dicendo che non ne ricavavamo granché dal cervello, considerando il cervello da un punto di vista elettronico, con i suoi miliardi di connessioni istantanee. «Quello che si verifica nella testa di un uomo» disse «è di gran lunga al di là della sua comprensione, è chiaro. Molto similmente, come una lucertola o un ratto o un uccello non possono comprendere il fatto di essere degli organismi. Ma un essere umano, a motivo di uno sprazzo improvviso di percezione, può facilmente capire di essere un ratto che vive in un tempio. Nel suo sviluppo esterno, come cosa, come creatura, in elettronica cerebrale, egli viene a godere di un adattamento, di un’idoneità che gli fanno toccare con mano l’inadeguatezza dei propri sforzi umani personali. Di conseguenza, all’indice più basso, un ratto in un tempio. All’indice più alto, una cosa goffa, con un bagliore di consapevolezza di quanto sia sottile e raffinata l’organizzazione interna impiegata in volgarità, grossolanerie.»

«Sì,» disse Mr. Sammler «questo è un modo molto simpatico e carino di descrivere il fenomeno, sebbene io non sia certo che esistano tante persone consapevoli di essere molto di più di quanto riescano a capire.»

«Sarei estremamente interessato a sentire le Sue opinioni» disse Lal.

«Le mie opinioni?»

«Oh, sì, Papà.»

«Sì, caro Zio Sammler.»

«Le mie opinioni.»

Accadde una cosa strana. Egli sentì che stava per dire tutto quello in cui credeva. A voce alta! Quella era la parte più straordinaria. Non il solito ragionare tra sé e sé di una persona anziana e stramba. Stava per dire quello che pensava, a viva voce.

«Shula ha una gran passione per le conferenze, io no» disse. «Io sono estremamente scettico sulle spiegazioni, sulle pratiche razionalistiche. Ho in antipatia la religione moderna delle categorie vuote e le persone che compiono i movimenti della conoscenza.»

«Lo consideri un recital anziché una conferenza» disse Lal. «Consideri la cosa da un punto di vista musicale.»

«Un recital. È il dottor Lal che dovrebbe darlo – lui ha una voce musicale. Un recital – in effetti è più invitante» disse Sammler posando la tazza sul tavolo. «I recital sono per esecutori ben addestrati. Io non sono pronto per le luci della ribalta. Ma non c’è molto tempo. Sicché, pronto o no… Io sono troppo portato a tenere le mie idee per me, e devo dire che sono tentato di comunicare alcune delle mie opinioni. Ovviamente i vecchi temono sempre di essersi deteriorati senza accorgersene. Come faccio a sapere che non sia accaduto anche a me? Shula, la quale crede che il suo papà sia un mago di grande potenza, e Margotte, a cui le discussioni delle idee piacciono tanto, lo negheranno.»

«Ma certo» disse Margotte. «Le cose non stanno così, è molto semplice.»

«Be’, l’ho veduto capitare ad altri, quindi perché non a me? Uno deve convivere con tutte le possibili combinazioni dei fatti. Ricordo un famoso aneddoto su un demente: C’è un tipo che dice: “Tu sei un paranoico, caro amico”, e l’altro risponde: “Può darsi, ma questo non impedisce alla gente di tramare contro di me”. A mio avviso si tratta di un importante raggio di luce proveniente da una fonte oscura. Non posso dire di aver avvertito alcuna debolezza nel cervello, però può esserci ugualmente. Per fortuna, le mie opinioni sono brevi. Dottor Lal, suppongo che Lei abbia ragione. Biologicamente, chimicamente, la sottigliezza della creatura è al di là della comprensione stessa della creatura. Ne abbiamo una vaga idea, e sentiamo come, in confronto, lo stato interiore sia così caotico, un guazzabuglio di odi et amo. Dicono che il nostro protoplasma sia come l’acqua del mare. Il nostro sangue ha una base mediterranea. Ma ora noi viviamo in un mare sociale e umano. Invenzioni e idee bagnano i nostri cervelli che, a volte, come spugne, devono ricevere qualsiasi cosa portino le correnti e digerire i protozoi mentali. Non dico che non ci sia alternativa a tale passività, che, in parte, è comica, ma ci sono dei momenti, delle situazioni, in cui noi sentiamo l’orrendo volume della consapevolezza cumulativa, vi soggiacciamo, sentiamo il peso del mondo. Il che non è uno scherzo. Il mondo, certamente, è un terrore, e l’umanità in uno stato rivoluzionario diventa, come si dice, moderna, sempre più mentale, il reame della natura, come si chiamava un tempo, che si trasforma in un parco, un giardino zoologico, un giardino botanico, una fiera mondiale, una riserva indiana. E poi ci sono sempre degli esseri umani che si assumono la responsabilità di rappresentare o interpretare la vecchia selvaticità, il tribalismo, la ferocia primitiva del feroce, per timore che ci dimentichiamo la preistoria, lo stato selvaggio, le origini animali. Si sente persino dire, qua e là, che il vero scopo della civilizzazione è quello di permettere a tutti noi di vivere come i popoli primitivi e condurre un’esistenza neolitica in una società automatizzata. Questo è un punto di vista ameno. Tuttavia, non voglio tenervi una concione. Se uno vive nella propria stanza, come faccio io, benché Shula e Margotte si prendano così bene cura di me, in modo eccellente devo dire, s’immagina di rivolgersi a un pubblico che non può sottrarsi alle sue parole. Pochissimo tempo fa ho cercato di tenere una conferenza alla Columbia. Non è andata bene. Credo di aver fatto una figura da cretino.»

«Oh, ma La prego di continuare» disse il dottor Lal. «Noi siamo attentissimi.»

«Le opinioni di una persona sono o necessarie o superflue» disse Sammler. «Quelle superflue mi irritano terribilmente. Io sono un individuo estremamente impaziente. La mia impazienza a volte sconfina nella rabbia. È un fatto clinico.»

«No, no, Papà.»

«Tuttavia, qualche volta è necessario ripetere ciò che tutti sanno. Ogni cartografo dovrebbe porre il Mississippi nello stesso punto, ed evitare l’originalità. Può essere noioso, ma uno deve sapere dove si trova. Non possiamo trovarci di fronte un Mississippi che fluisca verso le Montagne Rocciose così, tanto per dilettarci di un cambiamento. Ora, come ciascuno di noi sa, è stato solamente negli ultimi due secoli che la maggioranza della gente nei Paesi civilizzati ha rivendicato il privilegio di essere degli individui. Precedentemente erano schiavi, contadini, operai, anche artigiani, ma non persone. È chiaro che questa rivoluzione, un trionfo della giustizia in molti modi – gli schiavi dovrebbero essere liberi, il lavoro duro e massacrante dovrebbe finire, l’anima dovrebbe godere della libertà –, ha anche introdotto nuovi tipi di dolori e di infelicità, e fino a questo momento, su una scala più ampia, non è stato, nell’insieme, un successo, un successo pieno. Non parlerò neppure dei Paesi comunisti, dove la rivoluzione moderna ha subìto la massima frustrazione. Per noi i risultati sono mostruosi. Consideriamo soltanto la nostra parte di mondo. Siamo caduti in una profonda abiezione. Si rimane trasecolati a vedere quanti di questi nuovi individui soffrono, con tutto il loro tempo libero e la loro libertà. Sebbene io a volte mi senta decisamente come incorporeo, provo in me poco rancore e moltissima comprensione e simpatia. Spesso sento il desiderio di fare qualcosa, ma è un’illusione pericolosa pensare che si riesca a fare molto per più di due o tre persone.»

«Che cosa si dovrebbe fare?» disse Lal.

«Forse la cosa migliore è di avere un po’ d’ordine entro noi stessi. Meglio di ciò che molti chiamano amore. Forse è amore.»

«Per piacere di’ qualcosa a proposito dell’amore» disse Margotte.

«Ma non ho intenzione di farlo. Quello che stavo dicendo… vedete sto diventando vecchio. Stavo dicendo che questa liberazione a favore dell’individualità non è stata un grande successo. Per uno storico, è cosa di grande interesse, ma per qualcuno che è consapevole della sofferenza, è spaventoso. Cuori che non ricevono compensi reali, anime che non trovano alcun nutrimento. Falsità, illimitate. Desiderio, illimitato. Possibilità, illimitate. Esigenze impossibili imposte a realtà complesse, illimitate. Rifiorimento in forma puerile e volgare di antiche idee religiose, misteri, assolutamente inconsci, è ovvio – sbalorditivo. Orfismo, mitraismo, manicheismo, gnosticismo. Quando il mio occhio è in forze qualche volta leggo l’Enciclopedia della religione e dell’etica di Hastings. Ne emergono molte rassomiglianze affascinanti. Ma quello che si nota di più è una peculiare rappresentazione di sé, una maniera elaborata e a volte assai artistica di presentare se stesso come individuo e uno strano desiderio di originalità, distinzione, interesse – sì, interesse! Una forte derivazione da altri modelli, contemporaneamente al ripudio dei modelli. L’antichità accettava i modelli, anche il Medio Evo – non è che voglia trasformarmi in un libro di storia innanzi ai vostri occhi –, ma l’uomo moderno, forse per via della collettivizzazione, ha la febbre dell’originalità. L’idea dell’unicità dell’anima. Un’ottima idea. Un’idea vera. Ma in queste forme? In queste scadentissime forme? Dio Onnipotente! Con i capelli, i vestiti, le droghe e i cosmetici, con i genitali, con viaggi di andata e ritorno attraverso il male, la mostruosità, e l’orgia, e addirittura con Dio avvicinato per mezzo dell’oscenità? Come dev’essere terrorizzata l’anima in questa veemenza, quanto poco che le stia veramente a cuore può vedere, tale anima, in questi esercizi sadici. E persino qui, il Marchese de Sade nel suo modo folle era un filosofo dell’Illuminismo. Proponeva principalmente la dissacrazione. Ma per coloro che (inconsapevolmente) seguono le pratiche da lui raccomandate, l’idea non è più quella della dissacrazione, ma piuttosto dell’igiene, del piacere che è anch’esso igiene, e di una vita stregata e interessante. Una vita interessante è il concetto supremo dei deficienti.

«Forse non sto pensando con sufficiente chiarezza. Oggi sono molto triste e tormentato. E inoltre, mi rendo conto dell’anormalità della mia esperienza personale. A volte mi chiedo se abbia veramente un posto qui, fra altra gente. Suppongo di essere uno di voi. Ma allo stesso tempo non lo sono. Sospetto dei miei stessi giudizi perché la mia sorte è stata “estrema”. Ero una persona giovane e studiosa, non ero tagliato per l’azione. Improvvisamente, è stata tutta azione – sangue, fucili, tombe, carestia. Chirurgia molto drastica. Uno non ne può uscire intatto. Per molto tempo ho continuato a vedere le cose con peculiare durezza. Quasi come un criminale – una persona che lascia da parte, scarta, comuni flebili scusanti e accomodamenti, e semplifica ogni cosa brutalmente. Non esattamente come ha detto il signor Brecht, Erst kommt das Fressen, und dann kommt die Moral.1 Quella è una sbruffonata. Aristotele ha detto qualcosa di simile e non faceva lo sbruffone, né si comportava da prepotente. Comunque sia, le circostanze mi hanno costretto a pormi delle domande semplici: “Lo uccido? Mi ucciderà?”. “Se mi addormento, mi sveglierò mai? Sono realmente vivo, o non è rimasto più nulla se non un’illusione di vita?” E ora so che l’umanità contrassegna certi individui per la morte. In faccia a loro si chiude una porta. Shula e io siamo stati in questa categoria dei “cancellati”. Se tu, per caso, vivi comunque, l’essere scampato ti lascia con delle idiosincrasie. I tedeschi hanno cercato di uccidermi. Poi anche i polacchi mi hanno sparato addosso. Sarei morto senza il signor Cieslakiewicz. Lui era l’unico per cui non ero stato cancellato. Aprendo quella tomba per me, lui mi ha fatto vivere. Un’esperienza di tale genere deforma. Chiedo perdono a tutti voi per questa deformità.»

«Ma lei non è deforme.»

«Certo che sono deforme. E ossessionato. Potete vedere anche voi che parlo continuamente del ruolo che uno si sceglie da interpretare, dell’originalità, dell’individualità istrionica, della teatralità nella gente, delle forme assunte dalla lotta spirituale. Tutto questo mi gira perpetuamente nella testa, di continuo. Non vi dico, per esempio, quanto spesso io pensi a Rumkowski, il folle re ebreo di Łódź.»

«Chi sarebbe?» disse Lal.

«Una persona che si è trovata in un posto eminente a Łódź, il grande centro tessile. Quando arrivarono i tedeschi, nominarono quest’individuo a capo del ghetto. Ancora adesso si discute di lui in alcuni circoli di rifugiati. Si chiamava Rumkowski. Era un uomo d’affari fallito. Anziano. Un individuo rumoroso, corrotto, direttore di un orfanotrofio, un propagandista per la raccolta di fondi, un cattivo attore, una figura antipatica e grottesca nella comunità ebraica. Un uomo che aveva un qualcosa da recitare, come tanti individui moderni. Ne avete mai sentito parlare?»

Lal non aveva mai sentito parlare di lui.

«Be’, adesso qualche cosetta la sentirete. I nazisti lo nominarono Judenältester. La città era tutta recintata. Il ghetto diventò un campo di lavoro. I bambini vennero catturati e deportati per essere sterminati. La fame era in ogni dove. I morti venivano portati sui marciapiedi e rimanevano là in attesa che arrivasse un carretto per i cadaveri. In mezzo a tutto questo, Rumkowski era Re. Aveva la sua corte personale. Stampava le banconote e i francobolli con la propria effigie. Si organizzavano spettacoli teatrali in suo onore. C’erano delle cerimonie alle quali lui partecipava indossando vesti regali, e viaggiava in una carrozza sgangherata del secolo scorso, riccamente ornata, dorata, tirata da un bianco ronzino morente. In un’occasione mostrò del coraggio, protestando contro l’arresto e la deportazione, in poche parole contro l’assassinio, del suo comitato di consiglio. E per questo fu percosso brutalmente e scagliato in mezzo alla strada. Ma nondimeno lui era un terrore per gli ebrei di Łódź. Era un dittatore. Era il loro Re Ebreo. Una parodia dell’essere reale – un folle Re Ebreo che presiedeva alla morte di mezzo milione di persone. Forse il suo pensiero segreto era quello di salvarne un rimasuglio. Forse il suo pazzo modo di agire si prefiggeva di divertire o distrarre i tedeschi. Queste buffonate di identità fallita, il grand seigneur o le assurdità dittatoriali, questo bislacco rancore contro l’evoluzione della consapevolezza umana portavano alla ribalta da ogni angolo e buco questi io che si dibattevano, questi orribili clown. Eh già, era una cosa che avrebbe fatto presa su quella gente. Raramente l’umorismo era assente dai loro programmi di assassinio. Questa asprezza verso goffe pretese, verso la barzelletta mal riuscita del proprio io che tutti noi sentiamo. L’immaginaria grandezza degli insetti. Senza contare che a questi ebrei avevano sbattuto la porta in faccia: essi appartenevano alla categoria dei “cancellati”. Questa teatralità del Re Rumkowski evidentemente faceva piacere ai tedeschi. Gli ebrei, con un re fantoccio, si sentivano ancora più degradati. E questo ai nazisti piaceva. Avevano una speciale predilezione per tali farse dell’assassinio alla Ubu Roi. Giocavano a fare della Patafisica. Ciò alleggeriva o mitigava l’orrore. Qui, ad ogni modo, possiamo distinguere con peculiare chiarezza la questione delle forme che potevano trovarsi per le azioni della consapevolezza liberata, e dell’odio intriso di sangue, della gioia degli uccisori davanti al suo fallimento e alla sua degradazione.»

«Mi perdoni, ma non sono riuscito a trovare il nesso» disse Lal.

«Già, effettivamente potrei essere più esplicito. Questo fa parte dell’ossessione del mio rimuginare tra me e me. Ma nel Libro di Giobbe c’è la lamentela che Dio chieda troppo all’uomo. Giobbe protesta che di lui si è fatto troppo conto, in maniera insopportabile – “Che è quest’uomo che tu nei fai tanto conto e a lui rivolgi la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e a ogni istante lo metti alla prova? Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva?”. Dicendo anche: “Non vivrò più a lungo. Ben presto giacerò nella polvere”. Questo esigere troppo dall’umana coscienza e dalle umane capacità ha messo a prova durissima e ha logorato la resistenza umana. Non parlo soltanto di quanto si chiede a livello morale, ma anche dell’aspettativa nei confronti dell’immaginazione affinché produca una figura umana di statura adeguata. Qual è la vera statura di un essere umano? È questo, dottor Lal, che intendevo dire parlando della gioia degli assassini nell’assistere alla degradazione nella parodia – in Rumkowski, Re di stracci e di sterco, Rumkowski, governatore di cadaveri. Ed è questo che mi arrovella nella teatralità dell’episodio Rumkowski. Naturalmente il commediante era già condannato. Molti altri commedianti, con agonia minore, hanno anch’essi la percezione dell’ineluttabile condanna. Quanto agli altri, per la grande massa dei condannati immagino che, mentre morivano di fame, abbiano, gradualmente, sentito sempre di meno. Persino le madri affamate non riuscivano a sentire per più di un giorno o due lo strazio dei bambini che erano stati strappati dalle loro braccia. I dolori della fame soffocano la sofferenza. Erst kommt das Fressen, capisce.

«Può darsi che la mia capacità di mettere in relazione ogni cosa sia difettosa. La prego di dirmi se ha quest’impressione. Il mio scopo è di tracciare un quadro – sebbene quell’uomo fosse pazzo da sempre probabilmente, forse lo shock lo rese addirittura più equilibrato; in ogni caso, alla fine, di sua volontà salì sul treno diretto ad Auschwitz – per portare in superficie la debolezza delle forme esteriori che attualmente la nostra umanità ha a disposizione, e la penosa mancanza di fiducia in esse. Il risultato iniziale del nostro moderno boom individualistico. In una figura del genere noi abbiamo il peggiore caso immaginabile. Il tipo più mostruoso dell’esagerazione. Vediamo la disintegrazione delle peggiori idee dell’ego. Idee dell’ego estratte da poesia, storia, tradizione, biografia, cinema, giornalismo, pubblicità. Come fece notare Marx…» Ma non disse ciò che Marx aveva fatto notare. Lui pensava, e gli altri non parlarono. La sua cena non era stata toccata. «Mi dicono che quel vecchio fosse molto lascivo» disse. «Palpava le ragazzette. Le sue orfane, forse. Sapeva che tutti sarebbero morti. Poi tutto sembrò venir fuori come un’efflorescenza, un rigurgito della sua “personalità”. Forse quando la gente è tanto disperatamente impotente, si mette a suonare quello strumento, la personalità, a un volume sempre più forte e con un ritmo sempre più scatenato. Mi sembra di aver veduto spesso questo fenomeno. Ricordo di aver letto in un libro, ma non riesco a rammentarmi quale, che quando gli individui avevano trovato un nome per se stessi, Umano, dedicavano un sacco di tempo ad Agire Umanamente, ridendo, e piangendo, e facendo ridere e piangere gli altri, cercando occasioni, provocando, godendo da morire a torcersi le mani, a spremere lacrime dalle loro ghiandole, e nuotando e navigando in quell’elemento nuvoloso, contaminato, sconcertante e fluttuante dei sentimenti umani, bevendo le acque della passione, inveendo sul loro fato. Il libro condannava quest’esercizio, e in modo particolare la mancanza di originalità. L’autore preferiva la severità intellettuale, odiava l’emozione, esigeva esclusivamente lacrime intense, lacrime piante all’ultimo istante possibile, dopo averle a lungo trattenute, frutto del riconoscimento del più nobile e alto livello spirituale.

«Ma supponiamo che a uno non piaccia tutta questa teatralità dell’anima. Anch’io trovo stancante incontrarla con tanta frequenza e sotto forme così familiari. Ho letto molti spiacevoli resoconti di questo fenomeno. L’ho visto descrivere come un mucchio di detriti delle varie epoche, come scarto storico, come peso morto, e anche come proprietà borghese, come deformità ereditaria. L’io può pensare di avere indosso un nuovo ornamento gioioso, colorato deliziosamente, ma da fuori noi vediamo che non è altro che una pietra da macina intorno al collo. Oppure ancora, questa personalità di cui il proprietario va tanto fiero è roba che si trova ai magazzini Woolworth, latta da quattro soldi o plastica del bon marché delle anime. Vedendola in questo modo, un uomo potrebbe pensare che non valga poi tanto la pena essere umani. Dov’è il desiderabile io che si potrebbe avere? Dove sia, come la domanda viene cantata nell’opera? Dipende. Dipende in parte dalla volontà di chi pone la domanda scorgerne il pregio. Dipende dal suo talento e dal suo disinteresse. È giusto che proviamo antipatia per l’individualità contraffatta, per il pastiche fatto male, per la banalità e tutto il resto. È ripugnante. Ma l’individualismo, a mio parere, non è di nessun interesse se non approfondisce la verità. Quale distinzione personale, gloria, elevazione, per me è assolutamente privo di interesse. Lo considero soltanto un mezzo per ottenere la verità» disse Sammler. «Ma mettendo questo da parte per il momento, credo che possiamo riassumere quanto intendo più o meno in questi termini: che molti, nella storia moderna, hanno fatto un balzo in avanti, dopo lunghissimi periodi di anonimità e amara oscurità, per reclamare e godere (come la gente gode le cose oggi) di un nome, una dignità di persona, una vita simile a quella che apparteneva in passato solamente ai patrizi, alla nobiltà, ai re o agli dèi del mito. E che questo balzo in avanti ha, come tutti i grandi movimenti consimili, portato infelicità e disperazione, che i suoi successi non sono chiaramente visibili, ma che la pena che a causa sua molte persone provano è incalcolabile, che la maggior parte delle forme di vita personale sembrano essere screditate, e che esiste un peculiare desiderio di non-essere. Fino a quando non ci sarà una vita etica e tutto continuerà a essere riversato così barbaramente e avventatamente nel gesto personale, tutto ciò bisognerà sopportarlo. Ed esiste un peculiare desiderio di non-essere. Forse è più esatto dire che gli uomini vogliono visitare tutti gli altri modi di essere in un diffuso stato di consapevolezza, senza desiderare di essere alcuna cosa determinata, ma di diventare, invece, inclusivi, completi, liberi di andare e venire a loro piacimento. Perché dovrebbero essere umani? Nella maggioranza delle forme a disposizione il raggio è troppo breve per le grandi forze della natura esistenti nell’individuo, le forze abbondanti, generose. Negli affari, nelle professioni, nel lavoro manuale; come membro del pubblico; come abitante delle città, questi strani pozzi; come sperimentatore di compulsioni, di manipolazioni; come sopportatore della fatica; come padre, marito che soddisfa la società realizzando la sua quota di azioni – l’individuo sembra sentire queste forze sempre meno, sempre meno. E quindi a me sembra indubbio che egli voglia un divorzio da tutti gli stati a lui già noti.

«Il Cristiano è stato accusato di volersi liberare di sé. Coloro che mossero l’accusa lo incitarono a trascendere la sua umanità insoddisfacente. Ma la trascendenza non è forse il medesimo disordine? Non significa forse liberarsi dell’essere umano? Be’, forse davvero l’uomo dovrebbe liberarsi di se stesso. Naturale. Sempre che possa. Ma entro di sé egli ha anche qualche cosa che sa che è importante far continuare. Qualcosa che merita di andare avanti. È qualcosa che deve andare avanti a tutti i costi, e tutti noi lo sappiamo. Lo spirito si sente imbrogliato, oltraggiato, profanato, corrotto, frammentato, ferito. Eppure sa quel che sa, e di quella conoscenza non ci si può sbarazzare. Lo spirito sa che il suo ampliamento è il vero scopo dell’esistenza. Così a me sembra. Inoltre, l’umanità non può essere un’altra cosa. Non può liberarsi di se stessa se non attraverso un atto di universale autodistruzione. Ma non spetta neppure a noi votare Sì o No. E non ho dichiarato le mie argomentazioni, perché non contesto nulla. Ho dichiarato i miei pensieri. Mi sono stati domandati, e io ho voluto esprimerli. La cosa migliore, ho scoperto, è essere disinteressati. Non come i misantropi si distaccano dagli altri – giudicando –, bensì col non giudicare. Col volere ciò che Dio vuole.

«Durante la guerra non avevo alcun credo, e non mi erano mai piaciute le pratiche degli ortodossi. Vedevo che a Dio non faceva alcun effetto la morte. L’Inferno era la sua indifferenza. Ma l’incapacità di spiegare non può costituire la base per il non credere. Non lo è, perlomeno, fin tanto che persiste il senso di Dio. Io potrei desiderare che non persistesse. Le contraddizioni sono troppo dolorose. Nessuna preoccupazione per la giustizia? Nessuna pietà? Dio è dunque solo un pettegolezzo dei vivi? Poi osserviamo questi vivi che sfrecciano come uccelli sulla superficie dell’acqua, e uno si tuffa o si lancia dentro, ma non ritorna mai su e nessuno mai più lo vedrà. E a nostra volta non saremo visti mai più, quando avremo attraversato quella superficie. Ma è anche vero che non abbiamo nessuna prova che non ci sia alcuna profondità sotto quella superficie. Non possiamo neppure dire che la nostra conoscenza della morte è poco profonda. Tale conoscenza non esiste. Esistono il desiderio, la sofferenza, il lutto. E queste cose ci vengono dalla necessità, dall’affetto, e dall’amore – le necessità di una creatura viva, perché è una creatura viva. Implicita, vi è anche la stranezza. Ci sono anche dei segni premonitori. Si avverte la presenza di altri stati. Non tutto è conoscibile agevolmente. Non sarebbe mai esistita alcuna ricerca senza questi segni premonitori, non ci sarebbe mai stata alcuna conoscenza senza di essi. Ma io non sono un esaminatore della vita, o un esperto, e non ho niente da discutere. Indubbiamente un uomo, se potesse, offrirebbe consolazione. Però questo non rientra nei miei scopi. I consolatori non possono essere sempre veritieri. Ma molto spesso, e quasi giornalmente, io provo una fortissima impressione di eternità. Ciò può essere dovuto alle mie curiose esperienze, o all’età avanzata. Io dirò che per me questo non ha il carattere della vecchiaia. Né mi dispiacerebbe che non ci fosse nulla dopo la morte. Se dev’essere soltanto come era prima della nascita, perché dovrebbe importarcene? Là non si riceverebbe nessun’altra informazione. La nostra caparbietà di scimmie si dissolverebbe. Io credo che ciò che mi mancherebbe di più è questo presagio di Dio nelle molte forme quotidiane. Sì, è questo che mi mancherebbe. E perciò, dottor Lal, se la Luna fosse vantaggiosa per noi metafisicamente, io sarei completamente favorevole all’idea. Come progetto d’ingegneria, colonizzare lo spazio, salvo per la curiosità, l’ingenuità della cosa in sé, è di pochissimo reale interesse per me. Naturalmente la spinta interiore, la volontà di organizzare questa spedizione scientifica dev’essere una di quelle necessità irrazionali che costituiscono la vita – questa vita che noi crediamo di poter comprendere. E quindi immagino che dobbiamo saltare, spiccare il volo, poiché è nostro destino di uomini farlo. Se si trattasse di una questione razionale, allora sarebbe razionale avere prima la giustizia su questo pianeta. Poi, quando avessimo una terra di santi, e i nostri cuori fossero rivolti verso la Luna, potremmo entrare nelle nostre macchine e librarci nell’aria…»

«Ma che cosa c’è sul pavimento?» disse Shula. Tutti e quattro si alzarono dal tavolo per guardare. Dalla scala sul retro scorreva giù abbondante acqua sulla superficie a mosaico pompeiano di plastica bianca. «Tutto a un tratto mi sono sentita i piedi bagnati.»

«C’è un bagno che trabocca?» disse Lal.

«Shula, hai chiuso il rubinetto?»

«Ma certo, ne sono assolutamente sicura.»

«Credo che scorra troppo veloce per essere acqua di un bagno» disse Lal. «Presumibilmente è scoppiato un tubo.» In ascolto, udirono il rumore di un grande sciacquio al piano di sopra, e il cadere veloce, gocciolante, a cascata, di acqua che picchiettava e scivolava sui gradini. «Un tubo aperto. A sentirla sembra un allagamento.» Si staccò dal tavolo e attraversò di corsa la grande cucina, i sottili polsi pelosi sul petto, la testa abbandonata all’indietro fra le spalle gracili.

«Oh, Zio Sammler, che cos’è?»

Le donne seguirono Lal. Di necessità più lento, anche Sammler salì al piano di sopra.

La teoria di Wallace che nella soffitta vi fossero delle tubature posticce zeppe di denaro illegale era stata messa alla prova. Sammler immaginò che, dato che Wallace era tanto incline alla matematica, adorava le equazioni, trascorreva nottate intere a calcolare le probabilità di vincita al gioco, si fosse preparato un disegno dell’impianto idraulico prima di prendere in mano la chiave inglese.

Fare attenzione a dove mettere i piedi divenne completamente inutile, una volta arrivati al primo piano. La moquette del corridoio era come un praticello intriso d’acqua che inzuppava le scarpe rotte di Sammler. La porta della soffitta era chiusa, ma da sotto scorreva l’acqua.

«Margotte,» disse Sammler «corri subito giù. Chiama l’idraulico e i vigili del fuoco. Chiama prima i pompieri e avvertili che immediatamente dopo farai intervenire l’idraulico. Non star lì, dài. Fai presto.» La prese per il braccio e la diresse verso la porta.

Evidentemente Wallace aveva cercato di tamponare la falla con la camicia. Quando il suo calcolo si era dimostrato sbagliato, aveva perduto la testa. La camicia giaceva in terra, fra i piedi, e lui e Lal stavano tentando di ricongiungere le due estremità aperte del tubo.

«C’è qualche cosa che non funziona nel manicotto. Si vede che ne ho rovinato il filetto» disse Wallace. Stava a cavalcioni sopra il tubo. Nel tentativo di ricongiungere i due pezzi staccati, il dottor Lal veniva abbondantemente spruzzato, barba e petto. Shula stava in piedi molto vicino a lui. Se i grandi occhi avessero potuto essere strumenti meccanici – se lo sguardo fisso e la prossimità potessero condurre all’unione!

«Ma non c’è una saracinesca centrale? Non c’è una valvola?» disse Sammler. «Shula, non t’infradiciare tutta. Tirati indietro, cara, sei d’intralcio.»

«Dubito che riusciremo a combinare qualcosa in questo modo» disse Lal. L’acqua schizzava e frizzava rumorosamente.

«Secondo Lei no?» disse Wallace.

Si parlavano con grande educazione.

«Mah, non credo. Per cominciare la pressione dell’acqua è troppa. E, come vede, questo manicotto non si può portare più avanti di così» disse Lal. Abbassò il tubo e si spostò da un lato. I suoi pantaloni grigi erano neri d’acqua fino alla vita. «Lei conosce l’impianto idraulico di quest’abitazione?»

«In che senso, lo conosco?»

«Voglio dire, è fornita dall’amministrazione cittadina, o avete una sorgente privata? Se è acqua municipale, bisognerà chiamare le autorità. Tuttavia, se è un pozzo, la soluzione può trovarsi facilmente in cantina. Se esiste un pozzo, esiste una pompa.»

«La cosa strana è che non l’ho mai saputo.»

«E l’impianto fognario è municipale?»

«Eh, anche qui, non posso esserLe d’aiuto.»

«Se è un pozzo e c’è una pompa, allora c’è anche una saracinesca. Andrò giù io. C’è una torcia?»

«La conosco io la casa» disse Shula. «Vengo con Lei.» Col sari, lento e sciolto, i sandali che le scivolavano dai piedi troppo impazienti, si affrettò dietro a Lal, che correva giù per le scale.

Sammler disse a Wallace: «Ma non ci sono dei secchi? Verranno giù i soffitti».

«Siamo assicurati. Non ti preoccupare dei soffitti.»

«Ciononostante…»

Sammler scese.

Sotto il lavello di cucina e nell’armadio delle scope trovò dei secchi di plastica gialli, e rifece le scale. Riconobbe di avere le preoccupazioni tipiche del parente povero. Certamente quella casa non gli era mai piaciuta, anzi. Trovava difficile comportarsi in modo disinvolto in quel posto, mentre mangiava il pane del suo benefattore. E poi, tutta quella densa comodità, quelle stanze piene zeppe di quadri, soprammobili e attrazioni varie, poggiavano su fondamenta di nullità. L’opera di Mr. Croze, con la sua bocca a bocciolo di rosa, narici visibili, capigliatura alla Oscar Wilde, la pancetta elegante e discreta e le dita profumate, che inviava, come Elya una volta aveva detto, incollerito, rendiconti spese cinici e duri come mai ne aveva visti in vita sua. Elya concedeva di aver ottenuto un arredamento adeguato, di essere stato trattato bene, ma non gli andava giù di essere superato da Mr. Croze, che aveva a che fare con meravigliosi premi, con ducati dei suburbi per ex ragazzini di strada che ce l’avevano fatta! E ciò malgrado – un allagamento! Sammler non poteva sopportarlo. Inoltre, era una tipica impresa di Wallace, come l’affondamento della limousine nel bacino di riserva di Croton, il pellegrinaggio a cavallo nell’Armenia sovietica, l’allestimento di uno studio legale per farci le parole incrociate – proteste contro il successo «privo di valore» del padre. In questo non c’era nulla di nuovo. Regolarmente, adesso, per generazioni e generazioni, le famiglie prosperose davano alla luce figli anarchici – questi Bakunin in erba, geni della libertà, piromani, demolitori di prigioni, proprietà, palazzi. A Bakunin il fuoco era piaciuto da morire. Wallace lavorava con l’acqua, un elemento diverso. Ed era proprio curioso (Sammler con i due secchi di plastica, gialli e leggeri come foglie o piume, ebbe tempo per le scale, mentre l’acqua continuava a scorrere, d’intrattenere quella curiosità) che, parlando di suo padre quel pomeriggio, Wallace avesse detto che, come un pesce, era stato agganciato dall’aneurisma ed era stato scaraventato nella parte sbagliata dell’universo, e stava affogando nell’aria.

«Hai portato dei secchi. Vediamo un po’ se riusciamo a metterli giusti giusti sotto il tubo. Non è che servirà a molto.»

«A qualcosa servirà. Puoi aprire una finestra e far scendere l’acqua giù per la grondaia.»

«Giù per il tubo di scarico. Ok. Ma per quanto tempo possiamo continuare a scaricare secchi d’acqua?»

«Fino a quando arrivano i vigili del fuoco.»

«Hai chiamato i vigili?»

«Naturalmente. Li ho fatti chiamare da Margotte.»

«Così quelli fanno un verbale. La compagnia di assicurazione si baserà su quello. Meglio mettere via tutti questi arnesi. Insomma voglio che sembri un incidente.»

«Come, che questi tubi si sono rotti così, da soli? Che si sono aperti per conto loro? Sciocchezze, Wallace, i tubi scoppiano soltanto d’inverno.»

«Già, credo anch’io.»

«Sicché tu pensavi che fossero pieni di bigliettoni da mille dollari. Ah, Wallace!»

«Non mi sgridare, Zio. C’è un bottino qui, da qualche parte. C’è, te lo giuro. Io lo conosco mio padre. È uno che nasconde. E adesso a che gli servono i soldi? Non si potrebbe permettere di dichiararli nemmeno se…»

«Nemmeno se vivesse?»

«Appunto. Ed è come se ci voltasse le spalle. O come il can dell’ortolano.»

«E ti pare un’espressione adatta?»

«Non lo sarebbe in bocca tua. Ma io posso permettermela. Appartengo a una generazione diversa. Tanto per cominciare, io una dignità non l’ho mai avuta. Sono fatto in tutt’altro modo. Nessun sentimento naturale di rispetto. Be’, non c’è che dire: con questi tubi ho fatto un bel macello del cazzo.»

Sammler stava riflettendo su quanto fossero simili Wallace e Shula con le loro malefatte. Bisognava fermarsi, girarsi e aspettarli. Si rifiutavano entrambi di essere lasciati fuori. Sammler teneva il secondo secchio sotto il tubo che buttava acqua in abbondanza. Wallace era andato a vuotare il primo dalla finestra dell’abbaino, tornando con le mani tutte sporche e bagnate, a petto nudo, i peli neri e corti perfettamente simmetrici come la pettorina di un sacerdote. Le braccia erano lunghe, le spalle bianche, ben tornite senza alcuno scopo. E con una certa piega della bocca, sorridendo a se stesso, trasmetteva a Sammler, come aveva fatto altre volte, l’immagine che la madre aveva di quel ragazzino grazioso, il grande cranio da bambino e il collo lungo, le sopracciglia ben disegnate, sottili, i capelli vivi, un bel naso piccolo. Ma, come avveniva in certe antiche tele a olio, al di sopra di tutto ciò era rappresentato anche un altro mondo, e uno poteva immaginarsi, in una linea diritta al di sopra della testa di Wallace, vari simboli di turbolenza: fumo, fuoco, oggetti scuri in volo. Ordinanze arbitrarie. Un verdetto completo di sigillo e tutto.

«Se mi dicesse dove si trova la grana, perlomeno coprirebbe il danno dell’acqua. Ma tanto non lo fa, e tu non glielo chiedi nemmeno.»

«No, io non voglio averci nulla a che fare.»

«Secondo te io mi dovrei fare la grana da solo e basta.»

«Sì. Cataloga gli alberi e i cespugli. Guadàgnati i soldi da solo.»

«E lo faremo. Infatti, tutto quel che voglio dal vecchio è proprio questo, un piccolo capitale per l’attrezzatura. È l’ultima occasione che ha per dimostrare la sua fiducia in me. Per augurarmi buona fortuna. Come per darmi la sua benedizione, diciamo. Secondo te, lui mi ha voluto bene?»

«Certamente che ti ha voluto bene.»

«Quand’ero bambino. Ma mi ha voluto bene una volta che sono diventato un uomo?»

«L’avrebbe fatto.»

«Se mai fossi stato un uomo secondo i suoi parametri. È questo che vuoi dire, no?»

Avendo sempre la possibilità di ricorrere a uno dei suoi sguardi ciechi, Sammler poteva ugualmente esprimere il suo pensiero. O se tu gli avessi voluto bene, Wallace. Queste sono opportunità molto transitorie. Bisogna essere svelti.

«Mi dispiace che a quest’ora di notte tu debba star qui a svuotare secchi d’acqua. Devi essere stanco.»

«Eh, probabilmente sì. La gente vecchia e incartapecorita può andare avanti per ore e ore. Eppure, comincio a sentirla, la stanchezza.»

«Non è che mi senta tanto in forma neppure io. Com’è la situazione giù, brutta? Una valanga d’acqua?»

No comment.

«Le cose vanno sempre a finire così. È questo il messaggio che mando al mondo dal mio io inconscio?»

«Perché mandare tali messaggi? Censurali. Metti la tua mente inconscia dietro le sbarre, a pane e acqua.»

«No, è semplicemente il mio modo mortale di essere. Non lo puoi mica soffocare. Deve venir fuori per forza. Anch’io lo odio.»

Il sottile Mr. Sammler reggeva delicatamente il secchio leggero direttamente sotto al tubo, mentre l’acqua veloce schizzava di qua e di là.

«Io lo so benissimo che papà ha fatto venire quassù dei tizi che hanno installato tubature fasulle.»

«Se era una gran somma di denaro, ammettiamo pure, il tubo finto doveva essere molto grosso.»

«No, lui non è tipo da fare una cosa tanto ovvia. Tu hai un’idea sbagliata di lui. Papà fa le cose in modo scientifico. Potevano benissimo essere in questo tubo. Lui avrebbe potuto arrotolare i biglietti stretti stretti, renderli più piccoli. È un chirurgo, sai. Ha tutta l’abilità e la pazienza che ci vogliono.»

Improvvisamente lo sgorgo d’acqua si arrestò.

«Guarda! L’ha chiusa. Ormai ne scende solo un goccio. Urrah!» disse Wallace.

«Il dottor Lal!»

«Ah, che sollievo. Ha trovato un modo per fermarla. Ma chi è quel tizio?»

«Il Professor V. Govinda Lal.»

«E di che cos’è professore?»

«Biofisica, credo, è il suo campo.»

«Be’, la testa la sa adoperare, questo è poco ma sicuro. Mai una volta mi è saltato in mente di scoprire da dove veniva l’acqua di casa nostra. Si vede che c’è un pozzo. Te l’immagini! E abbiamo abitato qui fin da quando avevo dieci anni! L’8 giugno 1949. Io sono dei Gemelli. Il mughetto è il mio fiore. Lo sapevi che i mughetti sono molto velenosi? Traslocammo qui il giorno del mio compleanno. Niente festa. Il camion rimase incagliato fra i pali del cancello d’entrata proprio il giorno del trasloco. Ah, dunque non è acqua municipale – sono strabiliato.» Con il tono leggero che gli era consueto, introdusse delle riflessioni più generali. «Dicono che sia una caratteristica dell’Uomo Massa il fatto di non conoscere la differenza fra la Natura e le soluzioni umane. L’Uomo Massa crede che i beni di prima necessità a poco prezzo – l’acqua, l’elettricità, la metropolitana, gli hot dog – siano come l’aria, il sole e le foglie sugli alberi.»

«Ma come, semplice fino a questo punto?»

«Secondo Ortega y Gasset, evidentemente sì. Be’, sarà meglio che veda quanto è ingente il danno e faccia venire la donna di servizio.»

«Potresti passarci lo straccio e asciugare. Non lasciare queste pozzanghere sul pavimento tutta la notte.»

«Figurati, io non so neppure da dove cominciare per passare lo straccio. Dubito persino di aver mai tenuto in mano uno spazzolone in vita mia. Ma potrei stenderci dei giornali. Vecchi “Times” che stanno giù in cantina. Però ti prego di una cosa sola, Zio.»

«E quale cosa sarebbe?»

«Non me ne volere per questa faccenda.»

«No, no.»

«Be’, insomma, non pensare male di me – non mi disprezzare.»

«Senti, Wallace…»

«Lo so che non puoi farne a meno. Ecco, diciamo che questo è come un appello. Vorrei che tu avessi una buona opinione di me.»

«Ti senti depresso, Wallace, quando le cose ti vanno storte come stasera?»

«Sempre di meno.»

«Intendi dire che stai migliorando» disse Sammler.

«Vedi, se la casa la eredita Angela io perdo ogni chance d’impossessarmi dei quattrini. Visto che non è sposata metterà la casa in vendita. Lei non ha nessun attaccamento speciale per la vecchia casa di campagna. Le radici. Be’, se è per questo neppure io. In fondo neanche a papà piace sul serio questo posto. No, io non sento nessun rimorso per il danno provocato dall’acqua. Si può rimpiazzare qualunque cosa. A prezzi esorbitanti. Ma la proprietà servirà a pagare il conto, che sarà una bella fregatura. Poi c’è l’assicurazione. Le emozioni possessive si trovano in una fase di transizione. Davvero, lo dico sinceramente.» Wallace poteva, improvvisamente, diventare serio, appassionarsi a un argomento, ma la sua serietà mancava di peso. La serietà probabilmente rappresentava l’ideale di Wallace, il suo vero bisogno, peccato che il giovanotto fosse incapace di individuare le proprie essenze. «Ti dirò di che cosa ho paura, Zio» disse. «Se dovessi vivere su una rendita fissa di un trust, per me sarebbe la fine. In quel caso è certo che non troverò mai me stesso. Vuoi che vada in malora? Io ho bisogno di scaraventarmi fuori dal futuro che mio padre mi ha preparato. Altrimenti tutto continua semplicemente a essere possibile, e tutte queste possibilità saranno la mia morte. Io debbo avere le mie necessità, e non riesco a vederle da nessuna parte. Tutto quel che vedo sono diecimila dollari all’anno, come la condanna a vita di mio padre contro di me. Bisogna che mi giochi tutto mentre è ancora vivo. Quando morirà, mi verrà una tale malinconia che non mi riuscirà di muovere nemmeno un dito.»

«Vogliamo asciugare un po’ di quest’acqua?» disse Sammler. «Cominciamo a spargere per terra qualcuno di quei “Times”?»

«Oh, per quello c’è tempo. Al diavolo! Tanto con le riparazioni ci fregheranno lo stesso. Se lo vuoi sapere, Zio, io credo di essere intelligente solo metà di quanto lo dev’essere un uomo per risolvere queste cose; per cui non riuscirò mai a fare più della metà del percorso necessario.»

«E così tu non hai nessun rapporto con questa casa – nessun desiderio di avere delle radici, Wallace.»

«No, naturalmente no. Radici? Le radici non sono roba moderna. Sono un concetto da contadino, la terra e le radici. Il mondo, la tradizione contadina, sono destinati a scomparire. È questo il vero significato della rivoluzione moderna: preparare i contadini di tutto il mondo a una nuova esistenza. Io, certamente, non ho radici di sorta. Ma io stesso sono antiquato. Quello che ho io sono un’infinità di vecchi fili della luce, e persino quelli appartengono alla vecchia tecnologia. La cosa che vale è la telemetria. La cibernetica. Io praticamente ho deciso, Zio Sammler: se questa impresa con Feffer non va in porto, me ne andrò a Cuba.»

«A Cuba, dici? Ma tu non sarai anche comunista, no, Wallace?»

«Per niente. Comunque Castro lo ammiro. Ha uno stile sensazionale, è un radicale bohémien, e ha tenuto testa al superpotere di Washington. Lui e il suo gabinetto vanno in giro in jeep. S’incontrano nei campi di canne da zucchero.»

«E tu che cosa gli vuoi dire?»

«Potrebbe essere importante, non mi prendere in giro, Zio Sammler. Ho delle idee sulla rivoluzione. Quando i russi hanno fatto la loro rivoluzione, tutti dicevano: “Un passo in avanti in una nuova era della storia”. Niente affatto. La Rivoluzione russa è stata un’azione procrastinatrice – ah, Dio mio, che rumore! Le autopompe. Sarà bene che corra giù. Quelli mica ci mettono tanto a buttare giù la porta. Questi tizi, con le asce, si fanno un’orgia tutta loro. E io invece devo avere un alibi per l’assicurazione.»

Corse via.

Nello spiazzo avanti casa le luci roteanti fendevano gli alberi, rosse scuro sul prato, i muri e le finestre. La campana sbatacchiava, bangalang, e più in fondo, lungo la strada, trangugiando strida appassionate, si avvicinavano le sirene dal suono mortale. Stavano arrivando altre autopompe. Dalla finestra della soffitta Sammler stette a guardare mentre Wallace correva fuori, le mani alzate, dando spiegazioni agli uomini con gli elmetti che spuntavano fuori dai carri balzando nei morbidi stivali di gomma.

Acqua, avevano portato.

Quella notte Mr. Sammler trascorse alcune ore sveglio. Un risultato prevedibile della preoccupazione per Elya. Dell’allagamento. Anche della conversazione con Lal che l’aveva obbligato a dichiarare le sue opinioni – storiche, planetarie e universali. L’ordine probabilmente andava invertito: prima c’erano state le opinioni, planetarie o universali, e poi i dollari nascosti, le tubature dell’acqua, i vigili del fuoco. Sammler uscì e camminò per il giardino, dietro la casa, su e giù per il vialetto. Si sentiva insoddisfatto. Aveva spiegato, aveva assunto delle posizioni, aveva detto cose che non aveva voluto dire, aveva voluto dire cose che non aveva detto. Dentro casa c’erano attività, discussioni, spiegazioni, accordi, modifiche di accordi. Nella casa di un uomo che stava morendo. Era di nuovo il turno di certe faccende minori che la gente insisteva a ingrandire, ingigantire, a spostare al centro dell’attenzione: rapporti personali, arredamenti, alterchi di famiglia, fotografie di ladri su autobus scattate con la Minox, braccia di donne portoricane sull’Express per il Bronx, odi et amo – bisogno-e-ripudio, autoesami emozionali, faccende erotiche ad Acapulco, fellatio con cordiali sconosciuti. Questioni civili. Civili tutte quante! Le menti elevate, come Platone (ora non solo stava facendo una conferenza, ma addirittura ne faceva una a se stesso), desideravano sbarazzarsi di simili cose – baruffe, cause legali, isterie, tutta quella grettezza insignificante. Altri cervelli poderosi negavano che ciò potesse attuarsi. Essi sostenevano (come Freud) che gli istinti più potenti erano aggrovigliati proprio in quel genere di cose, ogni quisquilia il sintomo di una profonda malattia in una creatura il cui intero destino era la malattia. Cosa fare per quelle cose? Assurde nella forma, ma probabilmente reali? O probabilmente non reali? Sollevarsi da tutto ciò era ormai imperativo. E quello era il motivo per cui, durante la crisi di Aqaba, Mr. Sammler era dovuto andare in Medio Oriente.

In quel momento, camminando nella luce bianca della Luna sulla ghiaia lavata di Elya Gruner, tagliata dai neri solchi delle autopompe, riconobbe e ancora una volta identificò i propri motivi. Era tornato al 1939. Voleva riferirsi ancora alla Foresta di Zamość, a caratteristiche umane più fondamentali. Quand’è che le cose erano sembrate reali, vere? In Polonia, quand’era stato accecato, a Zamość quando moriva di freddo, nella tomba, quando aveva fame. Perciò aveva convinto Elya a lasciarlo andare, a mandarlo, e aveva rinnovato la propria familiarità con un certo tipo di fatti. Che, essendo lui più vecchio e più fragile, gli avevano fatto tremare ancora più le gambe; più tentava di irrigidirsi e più vacillava. Pochi altri segni esteriori di tutto questo si manifestarono. Ma non era troppo vecchio? Che c’entrava lui, da dover partire in volo per una guerra?

Sull’aereo, sopra ad Atene, venne annunciato che quel volo non sarebbe proseguito perché in Israele i combattimenti erano già cominciati. Riportato a terra! Doveva andarsene. Il caldo della Grecia, all’aeroporto, stordiva. La musica che si sentiva dappertutto circolava nella testa assai poco propensa di Sammler. Il caffè zuccheroso, le bevande appiccicose, anche quelle erano una tortura per lui. La suspense, il ritardo, gli rodevano il fegato intollerabilmente. Andò in città e si rivolse ad alcuni uffici di linee aeree, domandò a un amico d’affari di Elya nel settore del petrolio o benzina, di aiutarlo, si recò al consolato di Israele e riuscì a ottenere un posto sul primo volo dell’El Al. Attese ancora all’aeroporto fino alle quattro del mattino, fra giornalisti e hippy. Questi giovani – olandesi, tedeschi, scandinavi, canadesi, americani – erano stati accampati a Eilat, sul Mar Rosso. I Beduini, sull’antica strada che conduce dall’Arabia in Egitto, gli avevano venduto l’hashish. Era un posto allegro. Ora, con le loro chitarre, volevano tornarci. Reagire a un evento di primaria importanza. Sebbene non riconoscessero alcun governo.

Il jet era gremito. Non ci si poteva muovere. Per uomini anziani e magri, respirare era difficile. Un tizio della televisione, accanto a Sammler, gli offrì una sorsata dalla sua fiaschetta di whisky. «Grazie» disse Sammler, e accettò. Mandò giù un po’ di Scotch Bell. Esattamente in quel momento il sole balzò fuori dal mare come una volpe rossa. Non era rotondo, ma lungo, non lontano, ma vicino. Il metallo dei motori, quegli armoniosi barilotti in cui l’aria congelata stava urlando – luce nell’oscurità, oscurità nella luce – erano sospesi sotto le ali di fianco al finestrino di Sammler. Il whisky direttamente da una bottiglia – Sammler sorrise a se stesso – faceva di lui un vero corrispondente di guerra. Una persona ben strana per precipitarsi in questa guerra, sebbene non più strana di questi bohémiens dell’età della pietra con le loro solenni barbe. C’erano poi altre persone che a loro volta non sembravano tanto utili in una crisi. Sammler avrebbe inviato i suoi antiquati dispacci a Mr. Jerzy Zhelonski, a Londra, destinati a un gruppo molto eterogeneo di lettori polacchi.

Che diritto aveva Sammler, alla sua età, con un berrettino bianco e la giacca di cotone a righe, di seguire, a bordo di un autobus riservato alla stampa, quei carri armati diretti a Gaza, ad Al Arish e oltre? Ma lui si era organizzato tutto da sé. Non c’era nulla di accidentale in quella sua impresa. Con quegli indumenti così caratteristicamente americani, probabilmente era passato per un uomo più giovane. Gli americani e gli inglesi sembravano sempre un po’ più giovani. Comunque sia, era là. Era uno dei giornalisti. Camminò per le strade di Gaza conquistata. Stavano spazzando via dei vetri rotti. Nella piazza, carri blindati e fucili. Appena più in là, le mura del cimitero, le cupole di mausolei bianchi. Nella polvere, avanzi di cibo si arrostivano, rancidi; puzza d’immondizia che si scaldava, e di orina. Jazz orientale trasmesso dalle radio serpeggiante come la dissenteria negli intestini. Una musica così mortalmente comica. Le donne, solamente quelle più mature, anzianotte, andavano al mercato; o si avviavano in quella direzione; non poteva esserci stato granché da comprare. I veli neri erano trasparenti. Sotto a quei veli si vedevano le facce maschili dall’ossatura grossa – grandi nasi, le bocche rigide e severe sporgenti su denti di pietra. A Gaza non c’era niente che ti tentasse a rimanervi a lungo. L’autobus si fermò per Sammler; e il giovane Padre Newell, con addosso la sua uniforme da combattimento del Vietnam, lo salutò.

Conoscendo le tecniche della guerra moderna, il Padre fu in grado di indicargli cose che Sammler avrebbe potuto non notare quando passarono l’ultimo campo irrigato ed entrarono nel deserto del Sinai. E allora cominciarono a vedere i morti, i corpi non sepolti degli arabi. Padre Newell gli fece vedere il primo. Sammler avrebbe potuto non accorgersene mai, avrebbe potuto scambiare il cadavere per null’altro che un verdastro sacco di iuta, riempito fino agli orli, caduto giù da un camion sulla sabbia bianca.

Catapultati lontano dalla strada, affondati nella sabbia, naufragati sulle dune, molti bruciavano – tutti quei veicoli, trasporto-truppe, carri armati, camion, le automobili leggere schiacciate, piatte, ruote scaraventate lontano, libere, fuggite; e ammassati intorno a queste macchine, i morti. C’erano piazzuole, postazioni, trincee, e là dentro, pure, centinaia di cadaveri. L’odore che se ne sprigionava era come di cartone bagnato. Gli abiti dei cadaveri, maglioni verdastro-marroni, giubbe militari, camicie, erano tutti tesi dal gonfiore, dai gas, dai fluidi. Gigantesche braccia gonfie, gambe arrostivano al sole. I cani mangiavano arrosto di carne umana. Nelle trincee i corpi erano appoggiati ai parapetti. I cani arrivavano tenendosi acquattati, appiattiti. Gli abitanti erano fuggiti dagli accampamenti che si scorgevano qua e là – le tende basse, stile beduino, ma fatte di involucri di plastica scaricati dalle navi, pezzi di polistirolo, sudici fogli di cellulosa simili a mute d’insetti, grossi tegumenti di scarafaggi. Povera gente! Ah, povere creature!

«Be’, hanno fatto le cose sul serio, eh?» disse Padre Newell. «Quante vittime ci saranno secondo lei?»

«Non ho idea.»

«Questo, a parer mio, è stato un piccolo esperimento russo» disse Padre Newell. «Adesso sanno come stanno le cose.»

Nel sole le facce si afflosciavano, si annerivano, si liquefacevano e fluivano via. La carne affondava nel cranio, la cartilagine del naso si accartocciava, le labbra si restringevano, gli occhi si dissolvevano, i liquidi riempivano le fessure e rilucevano sulla pelle. Uno strano sapore, odore di grasso umano. Di pasta di legno fradicia. Mr. Sammler combatteva la nausea. Mentre lui e Padre Newell camminavano insieme, furono messi in guardia affinché non abbandonassero la strada, a causa delle mine. Sammler lesse e interpretò a voce alta, per il prete, le lettere russe dipinte in bianco sul verde dei carri armati e dei camion: GORKISKIJ AUTOZAVOD, dicevano la maggioranza. Sembrava che Padre Newell fosse molto ben informato sui calibri dei fucili, la potenza dei mezzi corazzati, la portata delle varie armi da fuoco. A voce bassa, per rispetto degli israeliani che ne negavano l’uso, identificò il napalm. Vede tutta quella zona rossiccia, tutto quel lilla laggiù? Il rosa salmone con una sfumatura di verde nelle scorie era un’indicazione irrefutabile. Senza alcun dubbio napalm. Era una guerra vera. Questi ebrei erano dei duri. Parlava a Sammler da americano ad americano. Le lunghe righe blu sulla giacca di cotone, il berretto bianco e sporco di Kresge, il quadernetto a spirale in cui Sammler teneva i suoi appunti per gli articoli polacchi, anch’esso comprato da Kresge, giustificavano tutto ciò. Era una guerra vera. Tutti rispettavano la necessità di uccidere. Perché non il prete? Camminava con i suoi scarponi americani da combattimento come se non fosse affatto un prete. Non era un cappellano. Era un giornalista. Non era quel che si supponeva che fosse. E Sammler nemmeno. Ciò che Sammler era non poteva neppure lui formularlo chiaramente. Umano, in qualche modo alterato. Quell’essere umano che stava tentando di ottenere il rilascio, la dispensa dall’essere umani. Non era questo a cui Sammler aveva voluto arrivare parlando in quella cucina, a Lal e alle signore, di divorzio da ogni stato umano? Facendo appello a Dio per ottenere un rilascio dalla sua attenzione? I miei giorni sono vanità. Io non vivrò per sempre. Lasciami in pace. Ricevere una visita ogni mattina, venire chiamato, essere magnificato. Lasciami in pace.

Camminava per la strada angusta con Padre Newell, raccogliendo oggetti curiosi, bossoli, fasce, fumetti e lettere in arabo, scansandosi da un lato per lasciar passare camion zeppi di pane, che appesantivano le balestre, sporgendo in fuori la parte posteriore. Ma in realtà l’argomento principale non si poteva cambiare, l’argomento dei morti. Spuntavano nelle lane verdi-marrone e color sugo di carne. I fumi soffocanti di cartone bagnato che emanavano. Nell’aria bollente, nella luce formidabile, nella persistenza vetrosa e nella distorsione della luce del deserto, quelle forme enfiate erano la cosa principale da vedere. Erano l’unico argomento che l’anima era certa di prendere sul serio. E questo forse era ciò che l’istinto di Sammler l’aveva guidato a fare. Andare al Kennedy, prendere un jet, atterrare a Tel Aviv, farsi fare delle fotografie, ottenere una tessera stampa, trovare un autobus per Gaza, visitare la grande ruota del sole del bianco deserto in cui questi cadaveri egiziani e queste macchine erano incastrate, stabilire in tal modo il suo contatto primario. Venivano così ad attuarsi certi desideri per i quali non poteva trovare giustificazione. E questa guerra era, per come andavano le vicende umane, un affare della minima importanza. Nell’esperienza moderna, una cosa minuscola. Assolutamente da nulla. E tutta la gente che in essa era implicata, i ragazzi, dopo i combattimenti, giocavano a calcio ad Al Arish. Ripulivano uno spiazzo togliendo di mezzo quello che ingombrava, e là davano calci al pallone e cozzavano tra di loro, si lanciavano alti nell’aria, trottavano sulla sabbia. Oppure all’ombra degli hangar tiravano fuori i loro libri e leggevano testi di biologia o chimica, filosofia, preparandosi, forse, agli esami. Poi lui e Padre Newell vennero chiamati per andare a vedere dei franchi tiratori che erano stati catturati: giacevano sul fondo di un camion, con mani e piedi legati e gli occhi bendati. Sotto quegli stracci che servivano da bende, le facce disperate, come se non si trattasse affatto di un affare della minima importanza. Uno vedeva quegli uomini, e poi le cose che seguivano, e dopo, altre cose ancora. Ed evidentemente Mr. Sammler aveva un suo proprio bisogno di quegli spettacoli, per i quali imparò a dominare il tremito delle gambe o il desiderio di piangere che lo trafisse quando vide le facce bendate dei franchi tiratori. Alcuni uomini lo condussero giù, al mare. Entrarono nell’acqua per rinfrescarsi. Anche lui entrò e rimase nell’acqua, in piedi. Nella vasta striscia che correva lungo la spiaggia la spuma si mischiava al bagliore dell’aria calda per chilometri e chilometri, in profonde curve, diverse fra loro, di un bianco ribollente fra la sabbia e il grande mare. Per un poco, nell’acqua, non avvertì l’odore della carne in putrefazione, ma presto dovette legarsi un fazzoletto intorno al viso. Il fazzoletto assorbì velocemente quel puzzo. I suoi abiti ne vennero contaminati. La saliva aveva lo stesso sapore.

Passando per Londra, dieci giorni dopo tornò in volo a New York. Come se fosse stato a compiere qualche sorta di missione auto-assegnata, alla scoperta di fatti. Osservò che la Londra moderna era molto gaia. Andò a vedere il suo vecchio appartamento a Woburn Square. Notò che il traffico era molto intenso. Vide che per le strade c’erano più ubriachi, che l’industria pubblicitaria inglese aveva scoperto il nudo femminile, e che la maggior parte dei manifesti sulle pareti lungo le scale mobili della metropolitana ritraevano donne in biancheria intima. Trovò i suoi conoscenti vecchi come lui. Poi la British Airways lo ricondusse all’aeroporto Kennedy, e subito dopo era alla biblioteca della Quarantaduesima Strada, a leggere, come sempre, Meister Eckhart.

«Beati sono i poveri di spirito. Povero è colui che non ha nulla. Colui che è povero di spirito è ricettivo di tutto lo spirito. Ora Dio è lo Spirito degli spiriti. Il frutto dello spirito è l’amore, la gioia, la pace. Bada a liberarti di tutte le creature, di tutta la consolazione che dalle creature può venirti. Poiché con certezza, fin tanto che le creature confortano e hanno la capacità di confortarti, mai troverai il vero conforto. Ma se nulla può confortarti salvo Dio, Dio veramente sarà il tuo consolatore.»

Mr. Sammler non poteva dire di credere letteralmente a ciò che stava leggendo. Poteva, comunque, dire che non gli interessava leggere altro che questo.

Sul prato davanti alla casa costruita per metà in legno, la terra era umida, l’erba fragrante. O era il suolo stesso che aveva quell’odore così fresco? Nell’aria rischiarata, purgata dalla Luna, egli vide Shula che veniva a cercarlo.

«Perché non sei a letto?»

«Ora ci vado.»

Gli diede la coperta di lana di Elya, fatta all’uncinetto, e Sammler si sdraiò.

Conscio della strana specie a cui apparteneva anche lui, alla specie che aveva organizzato il proprio pianeta fino a quel livello. Di questa massa di creature ingegnose, circa la metà erano entrate nello stato del sonno, fra cuscini, lenzuola, avvolti, rincalzati, imbacuccati, protetti dalle coperte. L’altra metà, sveglia, come un equipaggio metteva in funzione le macchine del mondo, e tutti andavano su e giù e in cerchio con calcoli accurati fino al miliardesimo grado, rimossa la pelle dei motori, sostituita, traiettorie segnate per milioni di chilometri. Da questi geni, dalla metà sveglia. I dormienti, bruti, fantasiosi, sognavano. Poi costoro si svegliavano e l’altra metà andava a letto.

Ed è così che la brillante razza umana fa girare questo globo roteante.

Per un po’ anche lui si unì a coloro che dormivano.

1. «Prima viene lo stomaco, poi viene la morale» (dall’Opera da tre soldi, secondo finale).

VI

Il lavandino del piccolo gabinetto vicino allo studiolo era di onice scuro, gli accessori d’oro, i rubinetti a forma di delfino, il portasapone a forma di conchiglia, l’asciugamano spesso e morbido come visone. Nelle quattro pareti ricoperte di specchi Mr. Sammler vedeva riflesse diverse, troppe immagini di sé. Il sapone era al legno di sandalo e olio di balena. La lametta bisognava affilarla sulla porcellana. Con molta probabilità le signore ogni tanto sgattaiolavano là dentro a radersi le gambe con quel rasoio. Mr. Sammler non voleva andare al piano di sopra alla ricerca di un’altra lametta. La stanza da letto padronale era stata gravemente danneggiata dall’acqua. Le donne avevano tolto i materassi dai letti gemelli e li avevano portati in un angolo asciutto. Il dottor Lal aveva dormito nella stanza degli ospiti. Wallace? Forse aveva passato la notte poggiato sulla testa, come uno yogi.

Improvvisamente Sammler smise di radersi, si fermò e fissò la propria immagine allo specchio: la sua faccia asciutta, piccola, “in salamoia”, stava avvampando di colore. Perfino l’occhio sinistro, gonfio, opaco, occhio da pesce, ne trasse un po’ di luce. Ma dov’erano tutti gli altri? Aprendo la porta, si mise in ascolto. Nessun rumore. Scese in giardino. La macchina del dottor Lal non c’era più. Guardò nel garage, ed era vuoto. Andati, fuggiti!

Trovò Shula in cucina. «Sono partiti tutti?« disse. «E adesso come ci vado io a New York?»

Shula stava versando il caffè attraverso il filtro a forma di cono, avendo prima bollito la polvere, alla francese.

«Hanno preso il volo» disse lei. «Il dottor Lal non riusciva ad aspettare. Per me non c’era posto. Aveva preso in affitto un’automobile a due posti. Una piccola Austin Healy favolosa, l’hai vista?»

«E Emil, dove sta?»

«Ha dovuto accompagnare Wallace all’aeroporto, Wallace deve volare – fare prove di volo. Per la sua impresa, capisci, no? Faranno delle fotografie eccetera eccetera.»

«E così io sono rimasto bloccato. C’è un orario dei treni qui? Devo assolutamente andare a New York.»

«Be’, sono quasi le dieci adesso, e non ci sono mica tanti treni. M’informerò per telefono. E poi Emil dovrebbe essere di ritorno presto, e allora ti ci porterà lui a New York. Stavi dormendo. Il dottor Lal non voleva disturbarti.»

«Estremamente irrispettoso. Tu sapevi, e anche Margotte lo sapeva, che dovevo tornare.»

«Quella macchinetta era davvero bellina. Margotte ci soffriva un po’, a stare là dentro.»

«Sono adirato.»

«Margotte ha delle gambone, papà. Forse tu non te ne sei mai neppure accorto. Be’, in automobile non si vedranno. Il dottor Lal chiamerà più tardi, nel pomeriggio. Lo vedrai, non ti preoccupare.»

«Chi, Lal? Perché? Il documento sta là, no?»

«Là?»

«Non mi irritare ripetendo tutte le domande. Sono già irritato. Perché non mi hai svegliato? Il documento nell’armadietto alla stazione c’è, vero?»

«Ce l’ho messo io stessa e l’ho chiuso con la moneta da 25, e ho portato via la chiave. No, dico che lo vedrai perché Margotte si è presa una cotta per lui. Forse non ti sei accorto neppure di questo. Ho veramente bisogno di parlare con te di questa faccenda, papà.»

«Sì, certo, ne sono sicuro. L’ho notato, sì, per dire la verità. Be’, è vedova, e ormai il lutto lo ha osservato per un tempo sufficientemente lungo, e Margotte ha bisogno di qualcuno come lui. Noi non possiamo offrirle gran conforto. Non so cosa ci veda in quel tipetto nero e cespuglioso. Sarà la solitudine, immagino.»

«Io cosa ci possa vedere, lo so. Il dottor Lal è molto distinto, un uomo intelligentissimo. Lo sai. Non fingere, dopo il modo in cui hai parlato qui in cucina. Era stupendo.»

«Be’, insomma… Che cosa devo fare? Questa faccenda di Elya è molto brutta, sai.»

«Molto brutta?»

«Bruttissima. E io avrei dovuto capire che ritornare in città avrebbe potuto presentare dei problemi.»

«Papà, lascia fare a me. Poi non hai nemmeno finito di farti la barba. No, su, vai, ti porto una tazza di caffè di sopra.»

Andò, pensando a come era stato scalzato. Battuto da un altro generale. Come Pompeo o Tito Labieno da Cesare. Non avrebbe dovuto lasciare la città. Ora si trovava tagliato fuori dalla propria base. E adesso come avrebbe fatto a raggiungere Elya, che aveva bisogno di lui proprio oggi? Sollevando il ricevitore del telefono nello studiolo per chiamare la clinica, udì il suono di occupato che Shula stava ricevendo dalla Penn Central. La pazienza, l’attesa erano ora cose necessarie: cose per le quali Mr. Sammler non era portato. Ma aveva studiato, si era addestrato. Uno cominciava sempre con la compostezza esteriore. Perciò si sedette sul puf, guardando il sofà e la sontuosa lana serica della coperta verde di Elya sotto la quale aveva dormito. Era anche una bellissima giornata. Il sole entrò mentre sorseggiava il caffè che Shula gli aveva portato. Tavoli di vetro su gambe e puntoni semicircolari di ottone spruzzavano di luce il tappeto orientale, mettendo in risalto i colori e i disegni.

«Occupato» disse Shula.

«Sì, lo so.»

«Comunque, ci sono le linee telefoniche sovraccariche in tutta New York. Gli esperti se ne stanno occupando.»

Shula andò in giardino, e Sammler ancora una volta cercò di telefonare in clinica. Le linee erano tutte occupate in quel malinconico posto, e lui riappese lo strumento che continuava a ripetere i propri gracidii. Pensando al colossale numero di conversazioni, a tutti quegli scambi. Utilizzando gli invisibili poteri dell’universo. Fuori, in giardino, anche Shula s’intratteneva in conversazione. Faceva caldo. I tulipani, i narcisi, le giunchiglie, e un paradiso di effluvi. Evidentemente stava chiedendo ai fiori come si sentivano quel giorno. Non pretendeva alcuna risposta. Qualche esempio eccezionale le bastava. Lei stessa era un esempio eccezionale di qualcosa di organicamente strano. La fugace visione di Shula nuda, la sera avanti, ora gli faceva sentire il peso specifico di lei mentre saltellava sull’erba. L’intero corpo di femmina ne veniva così evocato, pelle bianca dappertutto, le cosce, il tronco, i piedi stessi, la pancia con i suoi organi, insieme ai capelli crespi che uscivano fuori dal foulard. Tutti visibili e quasi palpabili. E anche delle piante, chi è che sapeva tutta la verità? Al canale culturale della televisione una sera, lui e Margotte avevano visto un singolare botanico che aveva collegato una macchina poligrafica – una macchina della verità – ai fiori, e registrava le reazioni delle rose a stimoli sia delicati che violenti. Lo stridore le faceva rimpicciolire, chiudere su se stesse, diceva lo scienziato. Un cane morto posto davanti a una di esse provocava avversione. Un soprano che cantava ninne nanne otteneva l’effetto opposto. Sammler si sarebbe immaginato che il ricercatore stesso, il suo pallido sogghigno, il suo naso assertivo da poliziotto, avrebbe gettato le rose nella più profonda malinconia, e anche le violette africane. Pur non avendo nervi, questi organismi avevano una facoltà di discernimento. Noi, con la nostra super-attrezzatura di ricettori, eravamo in uno stato di caos nervoso. In mezzo alle ombre degli alberi, elastiche e flessibili, alle ombre delle intelaiature delle finestre, rigide, e ai riflessi dell’ottone e del vetro, semistabili, Mr. Sammler si pulì le scarpe con il quadrato di carta assorbente che Shula aveva messo sotto la tazza del caffè. Le scarpe erano ancora umide. Erano sformate, bagnate, in modo sgradevole. Anche Margotte aveva le sue piante, e Wallace stava per mettere in piedi un’attività collegata alle piante. Sarebbe stato un peccato che i primi contatti delle piante si fossero verificati esclusivamente con persone dementi. Forse sarebbe meglio che dicessi loro una parolina anch’io. Mr. Sammler aveva una gran pena in cuore e cercava di distrarsi. Quella pesantezza d’animo era, però, persistente, brutale.

E arrivò al punto. Innanzitutto, quanto fosse significativo che Wallace avesse allagato la soffitta. Ma certo, non era che una metafora dello stato in cui si trovava Elya. E in connessione a quello stato affiorarono altre immagini: un rigonfiamento nel cervello, una schiuma o brodaglia rugginosa di sangue su quell’altra pianta che giaceva nella testa di una persona. Qualcosa di simile al convolvolo. No, a un cavolfiore grasso e pieno. La vite sull’arteria non poteva ridurre la pressione, e là dove il vaso era varicoso e più debole di una tela di ragno, si sarebbe spaccato. Un orribile allagamento! Uno avrebbe potuto cercare di pensare a cose meno angoscianti… Be’ quello, oh! La vita! Tutti coloro che l’avevano dovevano per forza perderla. Oppure che quello era il grande momento di Elya il quale ora faceva appello alle proprie qualità migliori. Andava tutto benissimo fino a quando la morte volgeva in pieno il suo sguardo sull’individuo. Allora tutte quelle idee non erano nulla. Il fatto era che lui, Sammler, in quel momento avrebbe dovuto trovarsi in clinica; per fare quel che poteva esser fatto; per dire quanto si poteva dire, e quello che si doveva dire. Che cosa si doveva o poteva dire, Sammler, con esattezza, non lo sapeva. Non riusciva a individuare la cosa precisa. Vivendo come faceva lui, in quello stile interiore, elaborando le proprie condensazioni o contrazioni, si perdeva la comunicabilità. Spiegare o estendere i propri pensieri lo stancava e lo affliggeva, come aveva compreso, infatti, la sera prima. Però con Elya non provava quel senso d’impossibilità a comunicare. Anzi, desiderava dire tutto ciò che era possibile. Voleva andare in clinica e dire qualche cosa! Voleva molto bene al nipote, e lui aveva qualche cosa di cui Elya aveva bisogno. Tutti gli interessati avrebbero dovuto esserne in possesso. Il primo posto al capezzale di Elya spettava a Wallace o ad Angela, ma loro, loro non erano lì vicino, pronti a prenderlo, quel posto.

Elya era un medico e un uomo d’affari. Con la propria famiglia – e questo andava a suo credito – non si era comportato nel modo classico dell’uomo d’affari. Cionondimeno, aveva avuto l’atteggiamento mentale di chi si occupa di affari. E gli affari, nell’America degli affari, erano anche un sistema di addestramento per l’anima. La paura di non comportarsi come ci si aspetta da un uomo d’affari era grande. Mentre stava morendo, non era escluso che Elya traesse forza dal continuare a combinare affari. Anzi era proprio quello che aveva fatto. Non faceva che parlare con Widick. E Sammler non aveva in sé nulla da offrirgli che avesse il minimo sapore di affari. Ma alla fine vera e propria, per Elya gli affari non avrebbero funzionato. Alcuni, molti, continuerebbero a tenere la testa immersa negli affari sino all’ultimo respiro, ma Elya non era così, non era così limitato. Elya, in ultima analisi, non si lasciava governare da considerazioni di ordine affaristico. Non era allo stato insetto né allo stato meccanico – una tale capitolazione, un tale disastro a livello insetto per gli esseri umani. Persino ora (ora forse più che mai) Elya era accessibile. Anzi Sammler non se n’era accorto in tempo. Il giorno avanti, quando Elya aveva cominciato a parlare di Wallace, quando aveva accusato Angela, lui, Sammler, gli sarebbe dovuto rimanere accanto. Qualsivoglia grado di franchezza sarebbe stato possibile. Secondo la frase di moda, il momento della verità. Con ciò significando, naturalmente, che la maggioranza delle conversazioni era una compilation di menzogne. Ma quello di Elya non era uno di quei sistemi sigillati, completati e impenetrabili; non era, lui, uno dei vostri mostruosi cristalli o ghiaccioli. Palpando, o accarezzando le lunghe fibre verdi della coperta all’uncinetto, Sammler si era detto che poiché lui e Antonina erano stati designati, parte di una dimostrazione dell’insignificanza di questo vivido trascinarsi, con le proprie fitte di intuizione superiore da un lato, e il continuo risucchio fangoso della tomba sotto i piedi dall’altro – si era detto che a causa di ciò, lui stesso, Artur Sammler, aveva eretto una ostinata resistenza. E anche Elya era devoto a idee di comportamento che sembravano aver perduto prestigio, ormai difese esplicitamente da poche persone. Non era il modo di comportarsi che era sparito. Ciò che era sparito erano le antiche parole. Forme e segni erano assenti. Non l’onore, ma la parola onore. Non l’impulso virtuoso, ma i termini schiacciati e appiattiti in formule prive di senso. Non la compassione; ma qual era un’espressione di compassione? E l’espressione della compassione era una necessità dell’uomo. L’espressione, suoni di speranze e di desiderio, esclamazioni di dolore. Tali cose erano state soppresse, come fossero illecite. A volte espresse in cifre, in vaghi numeri scarabocchiati sulle vetrine di edifici condannati (il negozio vuoto del sarto di fronte alla clinica). A questo punto delle cose regnava un terribile mutismo. Sugli elementi essenziali, quasi nulla poteva venir detto. Ciò malgrado, dei segni potevano essere fatti, dovevano essere fatti, devono essere fatti. Uno dovrebbe dichiarare qualcosa come: «Per quanto vero ed effettivo io possa sembrare a te e tu a me, non siamo poi tanto veri ed effettivi. Noi moriremo. Nonostante questo esiste un legame. Esiste un legame». Mr. Sammler credeva che, se ciò non veniva detto esplicitamente, avrebbe dovuto esser detto tacitamente. E anzi veniva continuamente asserito, in molte forme. E in ogni caso, noi sappiamo come stanno le cose. Ma Elya in quel momento aveva un particolarissimo bisogno di un segno, e lui, Sammler, doveva essere là per appagare quel bisogno.

Telefonò di nuovo all’ospedale. Con sua grande sorpresa, si trovò a parlare direttamente con Gruner. Aveva chiesto della sua infermiera privata. Ma come, uno poteva mettersi in contatto diretto, così? Elya sarà stato disturbato da quelle telefonate. Con il gonfiore letale in testa era ancora in gioco, combinava affari.

«Come stai?»

«E tu come stai, Zio?»

Il significato effettivo di ciò poteva essere: «Dove sei?».

«Come ti senti?»

«Non ci sono stati cambiamenti. Pensavo che ci vedessimo, noi due.»

«Sto venendo. Mi dispiace. Quando c’è in ballo qualcosa d’importante capita sempre qualche ritardo. Mai una volta che non accada, Elya.»

«Quando te ne sei andato ieri, è stato come se avessimo lasciato una faccenda in sospeso, io e te. Siamo stati sviati da Angela e da questioni così futili e senza speranza. C’era una cosa che volevo domandarti. Di Cracovia. Dei vecchi tempi. E a proposito, mi sono vantato di te, ho tessuto le tue lodi con un medico polacco di qui. Era molto ansioso di vedere gli articoli in polacco che inviasti dalla Guerra dei sei giorni. Ne hai qualche copia?»

«Certamente, a casa. Ne ho parecchie.»

«Adesso non sei a casa?»

«No, in verità no.»

«Mi domando se ti dispiacerebbe portarmi i ritagli. Ti dispiacerebbe fermarti là un momento?»

«No, naturalmente. Però non voglio perdere tempo.»

«Può darsi che debba scendere di sotto per qualche esame.» La voce di Elya era piena di toni inidentificabili. L’abilità interpretativa di Sammler era insufficiente. Si sentiva a disagio. «Perché non dovrebbe esserci tempo?» disse Elya. «C’è tempo abbastanza per tutto.» Queste parole avevano un suono strano, e gli accenti erano strani.

«Sì?»

«Ma certo. Sono contento che hai telefonato. Poco fa ho provato io a chiamarti a casa. Non ha risposto nessuno. Sei uscito presto.»

Il disagio in qualche modo interferiva con la respirazione di Sammler. Lungo e sottile, teneva in mano il telefono, concentrandosi, conscio dell’ansiosa intensità che gli si condensava in viso. Stava zitto. Elya disse: «Angela è per la strada; sta per venire qui».

«Sarò lì anch’io.»

«Sì.» Elya si soffermava un poco sulle parole più brevi. «E allora, Zio?»

«Arrivederci, per adesso.»

«Arrivederci, Zio Sammler.»

Picchiettando sul vetro della finestra Sammler cercò di attirare l’attenzione di Shula. Tra i fiori dondolanti era vistosamente bianca. La sua Primavera. In capo aveva un foulard rosso scuro. Si copriva, afflitta, sempre, dai suoi pochi capelli. Forse era la naturale abbondanza, il potere di crescita, l’esuberanza, che lei ammirava nei fiori. Vedendola in mezzo ai narcisi dalla bocca aperta, sospinti avanti e indietro dal vento, il padre pensò che fosse innamorata. Dall’abbandono delle spalle, dalla curva all’insù delle labbra arancioni, egli vide che era già preparata ad accettare una passione non corrisposta. Il dottor Lal non era per lei; non gli avrebbe mai afferrato la testa e mai avrebbe tenuto la sua barba tra i propri seni. Raramente si riusciva a instradare la gente in modo da farle desiderare ciò che era possibile – era quella la crudeltà di tutta la faccenda. Sammler aprì la portafinestra.

«Dov’è l’orario dei treni?» disse.

«Non riesco a trovarlo. I Gruner non prendono il treno. Ma in ogni caso, arriverai molto più velocemente a New York con Emil. Deve andare in clinica.»

«Non credo che aspetterà Wallace all’aeroporto. Non oggi.»

«Perché hai detto quella cosa di Lal, che era un ometto nero e cespuglioso?»

«Spero che tu non abbia un interesse personale per lui.»

«Perché no?»

«Non è assolutamente adatto, non ti darei mai il mio consenso.»

«Non me lo daresti?»

«No, no. Non sarebbe assolutamente un buon marito per te.»

«Perché è asiatico? Ma tu non sei tipo da avere certi pregiudizi. Non tu, Papà.»

«Non ho la minima obiezione a che tu sposi un asiatico. I matrimoni esotici possono rappresentare una grande ricchezza. Se tuo marito è una noia, ci vogliono molti più anni per accorgersene, in francese. Ma gli scienziati sono cattivi mariti. Sedici ore al giorno in laboratorio, tutti presi dalle ricerche. Tu verresti trascurata. Soffriresti. Io non lo permetterei.»

«Neppure se lo amassi?»

«Tu pensavi anche di amare Eisen.»

«Ma lui non amava me. Non abbastanza per perdonare la mia educazione cattolica. E non potevo discutere di niente con lui. E poi, sessualmente, era una persona molto grossolana. Cose che non mi piacerebbe raccontarti, Papà. Ma è un uomo estremamente ordinario e schifoso. È a New York adesso. Se mi viene vicino, lo pugnalo.»

«Tu mi fai trasecolare, Shula. Veramente, tu, pugnaleresti Eisen con un coltello?»

«Oppure con una forchetta. Spesso mi rammarico di essermi fatta pestare da lui a Haifa e di non aver fatto niente per vendicarmi. Mi picchiava da farmi veramente male, e io mi sarei dovuta difendere.»

«Mi sembra una ragione in più perché tu eviti errori in futuro. Io ti devo proteggere da sbagli che posso prevedere. Un padre deve, capisci.»

«Ma se io l’amassi davvero il dottor Lal? E poi l’ho visto io per prima.»

«Rivalità – pessima motivazione. Shula, noi dobbiamo badare l’uno all’altra. Così come tu pensi a me per ciò che riguarda H.G. Wells, io devo pensare alla tua felicità. Margotte è una persona molto meno sensibile di te. Se un uomo come il dottor Lal fosse mentalmente assente per settimane intere, lei non se ne accorgerebbe neppure. Non ti ricordi come le parlava Ussher?»

«Le diceva di chiudere il becco e basta.»

«Appunto.»

«Se un marito mi trattasse così io non lo sopporterei.»

«Precisamente. Anche Wells pensava che quelli che si occupano della ricerca scientifica sono cattivi mariti.»

«Non è vero!»

«Eppure io mi ricordo che lo diceva. Ma Wallace sa veramente dove mettere le mani per scattare delle fotografie aeree?»

«Sa tante di quelle cose, Wallace. Che ne pensi della sua idea commerciale?»

«Lui non ha idee – lui ha delle illusioni, degli accessi di pazzia. In tutti i modi, non sarebbe certo il primo maniaco che riesce a far soldi. E il suo progetto ha un certo qual fascino, a cercare i nomi delle piante… be’, certe piante hanno realmente dei nomi bellissimi. Prendine una come la Gazania pavonia.»

«Gazania pavonia è un amore. Be’, vieni fuori al sole e goditi questo caldo. Io mi sento molto meglio quando tu t’interessi a me. Sono contenta che hai capito che ho preso quell’affare sulla Luna per te. Non rinuncerai mica al tuo progetto, vero? Sarebbe un peccato mortale. Tu sei nato per scrivere il libro su Wells, e ne verrebbe fuori un capolavoro. Ti capiterà qualche cosa di terribile se non lo scrivi. Porta sfortuna. Me lo sento dentro.»

«Potrei provarci di nuovo.»

«Devi farlo.»

«Trovare un po’ di spazio anche per quello fra tutti i pensieri che ho.»

«Ma tu non dovresti avere altro pensiero che quello. Soltanto pensieri creativi.»

Profumato di sapone al legno di sandalo, Mr. Sammler decise di andare a sedersi in giardino e aspettare lì Emil. Forse l’odore del sapone sarebbe svaporato al sole. Non gli andava proprio di sciacquarsi un’altra volta in quel bagno di onice. Ci si sentiva troppo chiusi là dentro.

«Ti porto il caffè qua fuori.»

«Eh, sì, mi piacerebbe, Shula.» Le diede la tazza e s’inoltrò nel prato. «E ho le scarpe ancora bagnate da ieri notte.»

Fluido nero, luce bianca, terra verde, il suolo riscaldato e soffice, penetrato da nuove crescite. Nell’erba, un brillare ammassato di particelle, un biancore sepolto nelle zolle, e da questa rugiada, ovunque il sole potesse raggiungerlo, lo spettro solare brillava: come città notturne viste da un jet, o lo sperma galattico dei mondi.

«Ecco. Siediti. Togliti un po’ quelle cose. Ti prenderai un raffreddore. Le posso asciugare nel forno.» Inginocchiata, gli tolse le scarpe bagnate. «Ma come fai a portarle? Ti vuoi prendere una polmonite?»

«Emil torna qui direttamente o deve aspettare quel folle?»

«Non lo so. Ma perché seguiti a chiamarlo folle? Perché mai Wallace sarebbe un folle?»

A una persona folle, come definireste un altro folle? E lui stesso era poi un esempio perfetto di equilibrio mentale? Certamente no. Quella era la sua gente – lui era il loro Sammler. Condividevano gli stessi elementi fondamentali.

«Lo dici perché ha allagato la casa?» disse Shula.

«Perché l’ha allagata. Perché adesso sta volando per aria con le sue macchine fotografiche.»

«Cercava dei soldi. Questa non è mica una cosa pazza, no?»

«E tu come lo sai di quei soldi?»

«Me l’ha detto lui. È convinto che qui ci sia una fortuna. Tu che cosa ne pensi?»

«Oh, non saprei. Ma Wallace è proprio il tipo che coltiva fantasie di questo genere… Alì Babà, il Capitano Kidd, o Tom Sawyer, tutte fantasie su tesori nascosti.»

«Ma lui dice – guarda, sul serio – che in questa casa c’è una montagna di quattrini. Fin quando non li scopre non troverà pace. Ma non sarebbe un po’ meschino da parte del Cugino Elya se…»

«Morisse senza dire dove si trovano?»

«Sì.» Ora che quanto intendeva dire era esplicito, sembrava che Shula se ne vergognasse un po’.

«Dipende da lui. Elya farà quel che vuole. Suppongo che Wallace ti abbia chiesto di aiutarlo a trovare questo bottino nascosto.»

«Sì.»

«E che cos’ha fatto, ti ha promesso una ricompensa?»

«Sì, appunto.»

«Non voglio che tu t’immischi in queste storie, Shula. Stanne fuori.»

«Ti porto una fetta di pane tostato, Papà?»

Sammler non rispose. Lei se ne andò, portandosi via le scarpe bagnate del padre.

Sopra a New Rochelle russavano e ronzavano parecchi piccoli aerei. Probabilmente Wallace stava pilotando proprio uno di quelli. Per lui, un centro ruggente. Per noi, un coleottero infuocato, una zanzara che si lanciava attraverso ettari di azzurro. Sammler spostò la sedia indietro, all’ombra. Quella che nel sole era parsa una massa confusa di chioma di pino ora era fatta di aghi e alberi, separati e distinti. Poi la Rolls grigio-argento girò l’angolo delle alte siepi. Il radiatore geometrico, dignitoso e monogrammato, irradiava luce dalle sue righe verticali. Emil scese e guardò in su. Un aeroplano giallo stava volando sopra la casa.

«Quello è Wallace di sicuro. Ha detto che avrebbe pilotato un Cessna.»

«Immagino che sia Wallace.»

«Voleva provare l’attrezzatura su un posto che conosce lui.»

«Emil, sono qui che aspetto di andare alla stazione.»

«Naturalmente, Mr. Sammler. Ma a quest’ora non è che ci siano molti treni. Come sta il dottor Gruner, lo sa?»

«Gli ho parlato» disse Sammler. «Nessun cambiamento.»

«Io La porterei volentieri anche in città.»

«Quando?»

«Tra pochissimo.»

«Si risparmierebbe tempo. Mi devo fermare a casa. Ma Lei non deve tornare all’aeroporto a prendere Wallace?»

«No, voleva atterrare a Newark e di lì prendere l’autobus.»

«Emil, secondo Lei, Wallace ha un’idea di quel che sta facendo?»

«Senza brevetto non lo farebbero volare.»

«Non è questo che voglio dire.»

«Sa, lui è il tipo di ragazzo che le cose se le vuole combinare da solo, come piace a lui.»

«Non sono sicuro che saprà mai…»

«Ma ci arriverà strada facendo. Dice che è quello che fanno gli “Action painters”.»

«Il loro modo di procedere m’ispirerebbe più fiducia. Io non credo che oggi dovrebbe andarsene in giro a volare. I suoi sentimenti, quali che siano – rivalità col padre, dolore, o qualunque altra cosa –, lo possono far sbandare.»

«Se si trattasse di mio padre, io in questo preciso momento sarei all’ospedale. Adesso le cose sono diverse. Noi vecchi dobbiamo cercare di adattarci ai modi loro.»

Sollevandosi il berretto per far sì che l’ombra gli cadesse anche sugli occhi, Emil guardò attentamente il Cessna che sfrecciava in aria. Mise in mostra il suo naso lombardo, lungo e rotondo alla base. Aveva quell’aria rapace tipica degli italiani del Nord. La pelle tirata. Forse era stato, come del resto insisteva a dire Wallace, un feroce piccolo autista per la mafia di nome Emilio. Ma adesso si trovava nella fase della vita in cui quella che un tempo era stata una persona compatta, solida, cominciava a mostrare la fragilità dell’uomo anziano. Lo si poteva notare nelle spalle e dietro al collo, dove le pieghe erano profonde. Lo s’identificava con il più elegante, il sommo, il supremo di tutti i veicoli da terra. Nessuna competizione con i velivoli, per lui. Stava appoggiato al parafango, le braccia incrociate, assicurandosi che nessuno dei bottoni dell’uniforme scalfisse la vernice. Prese in mano il berretto fragrante dell’odore dei suoi capelli, e si diede dei colpettini. Colpì leggermente quelle sue terrazze degradanti, le grandi rughe della fronte.

«Evidentemente gli servono delle riprese da ogni altitudine possibile. Certo che adesso vola basso assai.»

«Se non viene a sbattere contro la casa, ne sarei lietissimo.»

«Potrebbe benissimo farsi una fortuna, dopo che ha allagato tutta la villa. C’è proprio da domandarsi, ma non gli basta neppure questo?»

Mr. Sammler tirò fuori il fazzoletto piegato e lo passò sotto le lenti degli occhiali prima di toglierseli, coprendo agli occhi di Emil la sua deturpazione. Non riusciva più a guardare lassù, gli occhi gli bruciavano.

«E come si fa a immaginarlo?» disse Sammler. «Ieri ha detto che è stato il suo io inconscio ad aprire il tubo sbagliato.»

«Eh già, pure con me parla in quel modo. Ma io sono diciotto anni che sto con i Gruner e quel tipo lo conosco. È molto, molto turbato per il dottore.»

«Sì, credo anch’io. Ma quella macchinetta… Come una tavola da stiro con un frullatore. E lei, Emil, ha famiglia – ha figli?»

«Sì. Due. Sono grandi, laureati tutti e due.»

«Le vogliono bene?»

«Mah, almeno da come si comportano, direi di sì.»

«Questo è già molto.»

Stava cominciando a pensare che forse non sarebbe arrivato in tempo a New York. Anche la richiesta dei ritagli da parte di Elya avrebbe portato altro, troppo ritardo. Però – una cosa alla volta. Poi il motore di Wallace si fece sentire più forte. Il rumore ti aggrediva al cranio. A Sammler fece venire il mal di testa. Era come se sull’occhio ferito il peso fosse intollerabile. L’aria era divisa in due. Da un lato il fastidio, dall’altro una corrente particolarissima, un’insidiosa luminosità primaverile.

Esplodendo, rilucendo, giallo vivace, il colore del becco di un uccello, il Cessna compì un altro, basso passaggio sulla casa. Gli alberi ne vennero sferzati.

«Quello va a sbattere. La prossima volta urterà il tetto.»

«Io non credo che possa sorvolare tanto più basso mentre scatta delle fotografie» disse Emil.

«Dev’essere indubbiamente al di sotto del limite consentito.»

L’aereo, sollevandosi, virando, rimpicciolì; adesso si udiva appena.

«Ma non stava per colpire il fumaiolo?»

«Eh, sembrava ci mancasse poco, ma soltanto da dove guardavamo noi» disse Emil.

«Non gli dovrebbero permettere di volare.»

«Be’, non c’è più. Forse ha finito.»

«Vogliamo partire?» disse Sammler.

«Io dovrei andare a prendere la donna di servizio alle undici – mi pare di aver sentito il telefono.»

«La donna di servizio? C’è Shula, a casa. Risponderà lei.»

«No, non c’è» disse Emil. «Mentre arrivavo l’ho vista per la strada che camminava, con la borsetta e tutto.»

«E dove andava?»

«Mah, non glielo saprei dire. Al negozio, forse. Vado a rispondere al telefono.»

Volevano Sammler. Era Margotte.

«Pronto, Margotte. E allora…?»

«Abbiamo aperto gli armadietti di sicurezza.»

«Che cosa avete trovato, quello che ha detto lei?»

«Non esattamente, Zio. Nel primo armadietto c’era una delle borse per la spesa di Shula, e dentro c’erano le solite cose. Copie del “Christian Science Monitor” di chissà quanto tempo fa, ritagli di stampa, e qualche vecchio numero di “Life”. Anche una gran quantità di materiale sulla rivolta degli studenti, dell’organizzazione “Students for a Democratic Society”. Il dottor Lal è rimasto impietrito. Era molto turbato.»

«Su, andiamo, e nel secondo armadietto?»

«Grazie a Dio! In quello il manoscritto c’era.»

«Intatto?»

«Credo di sì. Lo sta guardando in questo momento.» La voce di Margotte si allontanò dalla cornetta. «Ci sono delle pagine strappate? No, Zio, il dottor Lal pensa di no.»

«Oh, sono molto contento. Per lui, e per me. E persino per Shula. Ma dov’è la copia che ha fatto da Widick? La deve aver perduta o l’avrà messa da qualche altra parte. Comunque il dottor Lal dev’essere molto felice.»

«Oh, certo. Mi sta aspettando al bar. C’è un tale caos qui alla Grand Central Station.»

«Avresti dovuto bussarmi alla porta, prima di andartene. Lo sapevi che dovevo tornare in città.»

«Caro Zio Sammler, ci abbiamo anche pensato, ma nella macchina non c’era posto. Mi sbaglio, o sei irritato? Mi sembri seccato. Avremmo potuto accompagnarti alla stazione.» Ciò che Sammler si frenò dal dire era che semmai lui e Lal avrebbero potuto lasciarci lei, alla stazione. Eccome se era seccato! Ma perfino allora, con quella pressione sul cranio, le fitte agli occhi, non voleva essere troppo duro con Margotte. No. Lei aveva i propri, femminili, scopi vitali. Nessuna consapevolezza degli scopi vitali degli altri. Della tensione di Sammler, in quel momento. «Govinda era così impaziente di partire. Ha insistito tanto. In ogni caso, i treni sono veloci. E poi, ho telefonato io stessa in clinica e ho parlato con Angela. Non c’è niente di nuovo; le condizioni di Elya sono stazionarie.»

«Lo so. Gli ho parlato.»

«E allora, vedi? In più gli devono fare degli esami, per cui tu non potresti far altro che aspettare, se fossi qui a New York. Ora porto il dottor Lal a casa per fare colazione. Ci sono tante di quelle cose che non mangia, e Grand Central è un vero manicomio. E c’è un tale puzzo di hot dog. Per via di lui, me ne accorgo adesso per la prima volta.»

«Ma naturale. A casa è meglio. Non ci sono dubbi.»

«Angela mi ha parlato in un modo molto maturo. Era triste, però aveva un tono così calmo, così consapevole.» Le opinioni gentili e rispettose che Margotte aveva della gente per Sammler erano una tortura. «Mi ha detto che Elya ha chiesto di te. Ha molto desiderio di vederti.»

«Eh, sarei potuto essere lì in questo preciso momento…»

«Be’, comunque lui è giù di sotto, ora» disse lei. «Perciò non ti affannare. Vieni a fare colazione con noi.»

«Ho bisogno di fermarmi a casa. Ma niente colazione.»

«Non disturberesti affatto. Govinda ti trova così simpatico. Ti ammira. E in ogni caso, tu sei la mia famiglia. Ti vogliamo bene come a un padre. Tutti noi. Lo so che per te io sono una peste. Lo sono stata pure per Ussher. Ma ciò malgrado, ci amavamo.»

«Ok, ok, Margotte. Va bene. Chiudiamo, adesso.»

«Lo so che vuoi scappare. E che le conversazioni lunghe non ti piacciono. Ma Zio, non mi sento sicura della mia capacità di interessare un uomo come il dottor Lal, al livello mentale, capisci.»

«Oh, che sciocchezze, Margotte. Non fare la stupida. Non lo toccare il livello mentale. Tu lo affascini. Lui ti trova esotica. Non le fare, le discussioni lunghe. Lascia che sia lui a parlare.»

Ma Margotte continuò a parlare. Non faceva che introdurre altre monetine. Si sentivano tonfi e tintinnii. Sammler non riattaccò. Ma neppure ascoltò.

Gli ulteriori esami per Elya, lui li interpretò come una tattica dei medici. Proteggevano il proprio prestigio dando mostra di fare qualcosa di concreto. Ma Elya stesso era medico. Lui aveva vissuto compiendo tali gesti e ora vi si doveva sottomettere e senza protestare. Cosa che lui faceva di certo. E che cos’era la faccenda lasciata in sospeso da Elya? Prima che la parete del vaso sanguigno cedesse, voleva davvero continuare a parlare di Cracovia? Parlare di Zio Hessid, che macinava il granoturco e portava una bombetta e un gilet sgargiantissimo? Sammler non riusciva a ricordare un individuo che rispondesse a quella descrizione. No. Elya, con forti sentimenti famigliari che non riusciva a soddisfare, voleva che Sammler fosse là per rappresentare la famiglia. La sua presenza sottile, magra, la sua faccetta rubizza, rugosa su un lato. Era ancora di più che pietas per il legame di sangue, legame che l’età, agendo attraverso i figli («un figlio fesso con il Q.I. alto, e una figlia con gli occhi di chi si è fottuta l’anima»), aveva preso di mira con la derisione e aveva quindi distrutto. E Gruner si rivolgeva a Sammler come a qualcosa di più di un vecchio zio, mono-oculare, peculiarmente farfugliante in polacco-oxoniense. Doveva credere che egli fosse dotato di qualche inusitato potere, magico forse, che gli consentiva di affermare il legame umano. Cosa aveva fatto, Sammler, per generare quella convinzione? Come l’aveva indotta? Facendo ritorno dai morti, probabilmente.

Margotte aveva molte cose da dire. Non fece caso al silenzio di lui.

Per il fatto di essere tornato, per il pensiero di quell’argomento, per il morire, per il mistero di morire, per lo stato di morte. E anche per essere stato dentro alla morte. Per il fatto che gli avevano dato la pala e gli avevano detto di scavare. Per aver scavato accanto alla moglie che scavava a sua volta. Quando lei vacillava lui cercava di aiutarla. Scavando, non parlando, aveva tentato di trasmettere qualcosa a lei e di darle forza. E invece, visto come era andata a finire, l’aveva preparata alla morte senza dividerla con lei. Lei fu uccisa, lui no. Lei era passata oltre, lui no. La fossa diventava più profonda, l’argilla sabbiosa e le pietre della Polonia, il loro Paese di nascita, si aprivano. Lui era stato appena accecato, la faccia tramortita, e non si era reso conto che il sangue gli scendeva giù fino a quando era stato costretto a spogliarsi e lo aveva visto sugli abiti. Allorché furono tutti nudi come bambini appena usciti dal grembo materno, e la fossa fu abbastanza profonda, i fucili cominciarono a esplodere, e poi dal terreno giunse un suono differente. Il cadere pesante della terra. Una, due tonnellate, buttate dentro. Un suono di metallo di pala, stridente. In modo eccezionale e strano per lui, Mr. Sammler era riuscito a risalire in superficie. Gli accadeva di rado di considerarla una vittoria. Dov’era la vittoria? Si era scavato un varco con le unghie. Se si fosse trovato sul fondo sarebbe rimasto soffocato. Se ci fosse stata un’altra trentina di centimetri di sabbia. Forse altri erano stati sepolti vivi in quella fossa. Non c’era alcun merito speciale, non c’era alcuna magia. Era solo sfuggito al soffocamento. E se la guerra fosse durata qualche altro mese, sarebbe morto come gli altri. Non un solo ebreo avrebbe evitato la morte. Ma allo stato attuale delle cose, aveva ancora la sua consapevolezza, la sua terrenità, la sua consistenza umana: si alzava al mattino, inspirava ed espirava i suoi gas terreni, beveva il suo caffè, consumava la sua parte di beni materiali, mangiava il suo panino da Zabar, si dava determinate arie – tutti gli esseri umani si danno determinate arie –, prendeva l’autobus che lo conduceva alla Quarantaduesima Strada come se avesse un’occupazione, s’imbatteva in un borsaiolo nero. In poche parole, un uomo vivente. O uno che era stato rimandato in coda alla fila. In attesa di qualche cosa. Incaricato di comprendere certe cose, di condensare, in brevi constatazioni, opinioni, una qualche essenza dell’esperienza, e per questo gli era stata ascritta una certa dose di stregoneria. C’era, in effetti, qualche faccenda in sospeso. Ma come finivano le faccende? Entravamo al centro della faccenda e in qualche modo ci convincevamo che dovevamo concluderla. Come? E poiché era riuscito a durare – a sopravvivere – con un mal di testa da far venire la nausea – non si formalizzava sulle parole – esisteva un incarico implicito? Ci si aspettava che facesse qualcosa?

«Non vorrei mai infastidire Lal» disse Margotte. «È dolce e piccolo. A proposito, Zio, è venuta la donna di servizio?»

«Chi? Servizio?»

«Tu dici la donna delle pulizie. Allora è lei che fa quel rumore? Sento l’aspirapolvere fin da qui.»

«No, mia cara, quello che senti è il nostro parente Wallace col suo aeroplano. Non mi chiedere altro. Ci vediamo più tardi.»

Trovò le sue scarpe sformate e molli che arrostivano in cucina. Shula le aveva messe sullo sportello aperto del forno elettrico e, in punta, fumavano. Ci mancava pure quella! Quando le ebbe raffreddate un pochino, riuscì faticosamente, con il manico di un cucchiaio, a infilarsele. Il ritrovamento del manoscritto lo aiutava a essere paziente con Shula. Se non altro la figlia non aveva oltrepassato i limiti. L’utilità di quelle scarpe, comunque, era ormai perduta. Non rimaneva altro che buttarle nella pattumiera. Neppure Shula avrebbe voluto andarle a ripescare. E il problema immediato non erano le scarpe; a New York poteva arrivarci senza. Emil era già andato a prendere la donna delle pulizie. C’era un elenco dei posteggi di taxi sulle pagine gialle, ma Sammler non sapeva a quale società rivolgersi, né quanto sarebbe costato il viaggio. Lui aveva soltanto quattro dollari. Per non mettere in imbarazzo i Gruner, al tassista bisognava dare una mancia perlomeno di cinquanta centesimi. Poi c’era la tariffa speciale per le corse in città. La bocca penzoloni, in silenzio, con un colorito acceso, cercò di fare i calcoli fino all’ultimo penny. Ebbe una visione di se stesso da qualche parte, con otto centesimi in meno del necessario, mentre cercava di convincere un vigile che non era un accattone. Meglio aspettare. Forse Emil avrebbe incontrato Shula per la strada, l’avrebbe portata indietro con lui, in macchina, insieme alla donna delle pulizie. Shula, in genere, soldi ne aveva.

Ma Emil tornò e con lui c’era soltanto la donna croata, e dopo averle fatto vedere i danni causati dall’allagamento, si rimise il berretto e, comportandosi con Sammler come uno chauffeur, senza trattarlo affatto come un parente povero, gli aprì la portiera d’argento.

«Vuole l’aria condizionata, Mr. Sammler?»

«Grazie, Emil.»

Scrutando il cielo, Emil disse: «A quanto pare Wallace ha fatto tutte le fotografie che gli servivano. Ormai dev’essere sulla strada per Newark».

«Sì, grazie a Dio se ne è andato.»

«So che il dottore vuole vederLa.» Sammler si era già seduto. «Ma che gli è successo alle scarpe?»

«Ho avuto difficoltà a infilarmele, e adesso non me le posso allacciare. A casa ce n’è un altro paio. Ci possiamo fermare un secondo laggiù?»

«Il dottore non fa che parlare di Lei.»

«Veramente?»

«È un uomo affettuoso. Non è che voglia dir male di Mrs. Gruner, però Lei sa che tipo era.»

«Per nulla espansiva.»

Emil chiuse la portiera, e con gran correttezza girò dietro all’auto e andò a sedersi al volante. «Be’, era una persona molto organizzata» disse. «Come padrona di casa, di prim’ordine. Come se fosse stata squadrata col compasso. Riservata. Giusta. Ok. Mandava avanti quella casa che sembrava una macchina IBM – il giardiniere, la donna del bucato, la cuoca, me. Il dottore gliene era grato, venuto su, com’era lui, in un quartiere un po’ violento, diciamo. Lei ne aveva fatto un vero aristocratico. Un gentiluomo.» Emil fece lentamente marcia indietro con quella macchina d’argento, elegante, la macchina del povero Elya, e uscì sulla strada. Diede a Sammler le opportune possibilità di parlare o stare zitto. Sammler scelse di star zitto, di rimanere con i propri pensieri, e chiuse il vetro divisorio.

La sensazione radicata di Mr. Sammler (un pregiudizio, se volete) era che le donne con le gambe eccessivamente secche non potevano essere mogli amorevoli o amanti appassionate. E in particolare se, insieme a quelle gambe, avevano pure delle pettinature gonfie. Hilda era sempre stata una persona gradevole, allegra, amabile, agitata, a volte addirittura spigliata. Ma assolutamente corretta. Spesso il dottore l’abbracciava, pieno di calore, e diceva: «La moglie migliore del mondo. Oh! Ti amo, Hil». La stringeva a sé di fianco e la baciava sulla guancia. Questo era permesso. Era concesso in base a una nuova dispensa che riconosceva l’alto valore dell’espansività e dell’impulsività. Indubbiamente i sentimenti di Elya erano forti, diversamente da quelli di Hilda. Ma impulsivi? Nel suo modo di comportarsi c’era un prepotente elemento di propaganda. Forse, chissà, gli veniva dal sistema americano nel suo complesso, e quella sua sottomissione ne era una prova. Ciascuno, nei confronti di ciascuno, aveva modo di fare propaganda per il bene degli altri. La democrazia era propagandistica nel proprio stile. La conversazione spesso non era altro che una ripetizione dei princìpi liberali. Ma Elya era stato sicuramente deluso dalla moglie. Sammler sperò che avesse avuto delle relazioni extraconiugali. Con un’infermiera, forse? O una paziente che era poi diventata sua amante? Sammler non avrebbe raccomandato una cosa del genere a tutti, ma nel caso di Elya sarebbe stato di giovamento. Ma no, probabilmente il dottore era un tipo rispettabile. Ed è un uomo condannato colui che è sempre in cerca di affetto in tal misura.

Presto sarebbe stata primavera. La Cross County, il Saw Mill River, lo Henry Hudson formicolanti di erba e soffioni che resuscitavano, la fornace del sole che arrostiva ancora una volta la vita verde. Uno si sentiva nauseato e rafforzato a un tempo, da questo turbinio, questa ruvidezza e questa dolcezza. Poi – il gomito di Mr. Sammler appoggiato sul cuscino grigio, tenendosi il dorso di una mano nel palmo dell’altra –, poi c’erano le grigie, gialle, omogenee autostrade, così straordinarie dal punto di vista dell’ingegneria, e ben diverse da quello morale, estetico, politico. Miliardi, miliardi, da far girar la testa solo a pensarci, stanziati per quelle autostrade. Ma come qualcuno aveva detto a proposito degli statisti, essi sono i primi fra i porci della regione dei Geraseni. Chi era stato a dirlo? Non riusciva a ricordarlo. Tuttavia non era cinico a proposito di quelle cose. Non era contro la civiltà né, tantomeno, contro la politica, le istituzioni, né contro l’ordine. Quando la fossa era stata scavata, le istituzioni e tutto il resto non erano state in suo favore. Nessuna politica, nessun ordine erano intervenuti per Antonina. Ma non c’era alcun bisogno di lanciarsi personalmente in ogni questione di carattere generale – di scagliarsi contro Churchill, Roosevelt, per aver saputo (e lo sapevano di certo) quel che accadeva e non aver bombardato Auschwitz. Perché non bombardare Auschwitz? Ad ogni modo non lo fecero. Be’, non lo fecero. Non volevano farlo. Emozioni di giustificato rimprovero, supremazia nell’attribuire le colpe, non toccavano in alcun modo Sammler. L’individuo era il giudice supremo di nulla. Dato che doveva scoprire le cose da solo, era, di necessità, il giudice intermedio. Ma mai quello definitivo. L’esistenza non doveva rendere conto a lui. Assolutamente no. Né avrebbe mai messo insieme lui, l’inorganico, l’organico, il naturale, il bestiale, l’umano e il sovrumano in un qualsiasi ordinamento affidabile, ma lo avrebbe fatto, per quanto affascinante e originale il suo genio, soltanto in modo idiosincratico, producendo una struttura traballante, insicura, principalmente decorativa o ingegnosa. Naturalmente al momento di lanciarsi da questo pianeta su un altro a qualcosa si poneva fine, si esigevano delle conclusioni, dei sommari. Sembrava che tutti avvertissero questa necessità. Unanimemente tutti, e ognuno a modo suo, sentivano il sapore della fine delle cose così come erano conosciute. E forse, attraverso il sommario, ciascuno accentuava con maggior forza il proprio stile soggettivo e le pratiche per le quali era conosciuto. Così Wallace, nel giorno del destino di suo padre, ruggiva e ringhiava nel Cessna scattando fotografie. Così Shula, nascondendosi da Sammler, stava senza dubbio andando alla ricerca del tesoro, per i supposti dollari degli aborti. Così Angela, compiendo altri esperimenti nella sensualità, nella sessuologia, macchiava tutto con i suoi fluidi di femmina. Così Eisen con la sua arte, il negro col suo pene. E, nella serie, ma non definitivamente, lui stesso con le proprie opinioni e giudizi condensati. Eliminando il superfluo. Identificando il necessario.

Guardando dal finestrino, passando in pompa magna per le strade, a bordo di un’automobile che costava oltre ventimila dollari, Mr. Sammler vedeva tuttora che, insieme alla fine delle cose-così-come-conosciute, la sensazione e l’attrazione per nuovi inizi era nondimeno molto forte. Matrimonio per Margotte, America per Eisen, affari per Wallace, amore per Govinda. E lontano da questa terra appesantita di morte, in putrefazione, rovinata, insudiciata, esasperante, peccaminosa, ma già con lo sguardo puntato verso la Luna e Marte con piani per fondare delle città. E quanto a se stesso…

Con una moneta picchiò leggermente sul vetro divisorio. Si stavano avvicinando al casello autostradale.

«Non importa, Mr. Sammler.»

Sammler insistette: «Su, Emil, prenda, prenda».

Misurato dalle lancette dell’orologio il viaggio era breve. Non essendoci il traffico dell’ora di punta ci si muoveva rapidamente sulle strade capolavoro grigie-e-gialle. Emil sapeva guidare alla perfezione. Era l’impeccabile autista dell’impeccabile automobile. Entrò in città alla Centoventicinquesima Strada, sotto l’altissimo ponte ferroviario che attraversava il quartiere dei grossisti di carne. Sammler aveva un certo affetto per quel ponte intricato e per le ombre strutturali che proiettava. Riflesse nel luccichio dei furgoni della carne. I quarti di manzo e maiale avvolti nella garza, macchiata di sangue. I commestibili sarebbero sempre stati rispettati da un uomo che per poco non era morto di fame. Anche i garzoni, col camice bianco, robusti e grossi, lavoratori forti, muscolosi, erano macellai. Vicino al fiume l’odore era aggressivo e ambiguo. Non si era sicuri se provenisse dall’acqua di marea o dal sangue. E in quel punto Sammler una volta aveva visto un ratto e l’aveva scambiato per un bassotto. Il venticello che si sollevava da quell’angolo illuminato elettricamente aveva il profumo dolciastro dei detriti di carne, una sorta di polvere: veniva dalle seghe a nastro che penetravano nel grasso congelato, attraverso il rosso marmorizzato o il porfido ghiacciato, e passava sibilando attraverso gli ossi. Prova a fare quattro passi da queste parti. Dal grasso di carne il fondo stradale era lucidato a cera.

Poi una svolta a destra, verso la parte bassa della città sulla Broadway. La strada si sollevava mentre la metropolitana si abbassava. Su, le pietre marroni; e giù, l’ombra nera e le rotaie di acciaio. Poi le case popolari, lo squallore portoricano. Poi l’università, squallida in un modo diverso. Faceva già troppo caldo in città. La primavera perdeva il tocco dell’inverno e acquistava la rancidità dell’estate. Fra le colonne dell’università, nella Centosedicesima Strada, Sammler guardò dentro alle corti quadrangolari di mattone. Quasi quasi si aspettava che da un momento all’altro comparisse Feffer, o il barbuto con i jeans Levi’s il quale aveva detto che lui, Sammler, non poteva venire. Vide del verde che cresceva. Ma il verde nella città aveva perduto la propria associazione con un pacifico santuario. La poesia dei parchi dei vecchi tempi era stata messa al bando. Obsoleta densità di ombra che conduce alla meditazione privata. Adesso la verità era più squallida, più sporca, ed esigeva che dello scenario venissero a far parte anche i rifiuti fatti cadere in terra – rêverie di foglie? Una cosa del passato.

Tranne che in occasioni speciali (la conferenza di Feffer, ventiquattro, quarantott’ore fa?), Sammler non veniva più da quelle parti. Camminando per fare un po’ di esercizio fisico, non si avventurava fino a quelle distanze. E ora, dalla Rolls Royce di Elya, ispezionò la subcultura dei sottoprivilegiati (una terminologia adottata di recente dal «New York Times»), la sua frutta caraibica, i suoi polli spelacchiati fino alla nudità, con i colli snodati e le palpebre blu, i fumi ondeggianti dei Diesel e del lardo bollente. Poi la Novantaseiesima Strada, con tutti i suoi angoli in pendenza, i chioschi e i cinema, i bastioni di giornali affastellati e legati col filo di metallo, e i colori del panico che ondeggiava. Broadway, anche quando c’era qualche motivo urgente – far presto per vedere Elya forse per l’ultima volta – non mancava mai di mettere Sammler alla prova. E lui non era mai all’altezza di quella prova. E perché poi doveva esserci una competizione? Eppure c’era, ogni volta. Perché lì qualcosa veniva dichiarato. Dalla convergenza di tutti i cervelli e di tutti i movimenti la convinzione trasmessa da quella folla sembrava essere che la realtà era una cosa terribile, e che la verità finale sul genere umano era soverchiante. Questa conclusione volgare e codarda, ripudiata da Sammler con tutta l’anima sua, era l’implicita ortodossia locale, essendo il popolo stesso metafisico e impegnato a rappresentare dal vivo questa interpretazione della realtà e questa visione della verità. Sammler non poteva giurare che ciò fosse effettivamente esatto, ma Broadway, là dove s’incrociava con la Novantaseiesima Strada, gli dava un tale senso delle cose. La vita, quand’era così, tutta domande-e-risposte dalla sommità dell’intelletto sino al fondo più inattingibile, era veramente uno stato di singolare, sporca infelicità. Quando era tutta domande-e-risposte non aveva alcun fascino. La vita quando non aveva fascino era interamente domande-e-risposte. La cosa funzionava nei due sensi. E poi, le domande erano brutte. E le risposte, anche, erano orribili. Questa povertà dell’anima, il suo stato astratto, si potevano vedere sulle facce per la strada. E anche lui aveva un’ombra della stessa malattia – la malattia del singolo sé che spiega chi è chi e che cosa è che cosa. I risultati si potevano prevedere, predire. Così, quindi, condotto in pompa magna giù per Broadway, Sammler visitò il suo (come l’aveva definito Wallace?) – il suo “territorio”. Da turista. E poi Emil, girando per Riverside Drive, lo depositò davanti al grande, sudicio, sfruttato ammasso di comodità dove lui e Margotte abitavano. Erano le dodici e mezza.

«Non dovrebbe volerci molto. Elya mi ha chiesto dei ritagli di giornale.»

Si sentiva il cuore come stretto in una morsa. Il rimedio consisteva nel respirare a pieni polmoni, ma non riusciva a sollevare e ad abbassare il petto. Qualcosa lo aveva immobilizzato. Margotte e Govinda non erano rientrati. La lampada appesa nell’ingresso, sopra al sofà con i braccioli di acero e i foulard che lo ricoprivano, ardeva inutilmente. C’era una certa pace in casa. O forse gli sembrava così perché non aveva tempo di sedersi? Si cambiò le scarpe, rovesciò il barattolo dove teneva i soldi, prese qualche dollaro, mise i ritagli dei giornali nel portafoglio. Sulla sua scrivania c’era una bottiglia di vodka. Era Shula che pensava a quello con lo stipendio che le pagava Elya. Era ottima, Stolichnaya, importata dall’Unione Sovietica. Sammler ne beveva un poco all’incirca una volta al mese. Ora stappò la bottiglia e ne bevve un bicchiere. Gli scese giù bruciando, e lui fece una smorfia. Pronto soccorso per i vecchi. Poi aprì la sua porta che dava sulle scale di servizio, tirando il chiavistello nell’eventualità che una corrente troppo forte facesse sbattere la porta e lo chiudesse fuori di casa. Buttò le vecchie scarpe giù per la canna pattumiera. Non voleva che Shula si mettesse a discutere dicendo che lei non gli aveva arrecato alcun danno mettendole nel forno elettrico. Ormai erano partite.

Una volta tanto la telecamera nell’atrio del palazzo funzionava. Figure grigie e bianchicce, instabili sul sostegno verticale, ondeggiavano e sfrigolavano. Sammler vide se stesso nello schermo, mortalmente pallido. L’immagine tremante di un uomo anziano. Quell’atrio era come certe stanze coperte di moquette nel piano interrato di qualche teatro in disuso – spazi da evitare. Era stato meno di due giorni prima che il borsaiolo l’aveva costretto, pancia-contro-schiena, a percorrere lo stesso tappeto dalle borchie di ottone, fino all’angolo accanto al tavolo fiorentino. Sbottonandosi il cappotto color puma in un silenzio di puma, per esibirsi. Era quello il tipo d’uomo che Goethe chiamava eine Natur? Una forza primaria?

Impedì a Emil di scendere dalla macchina per aprirgli la portiera.

«Posso aprirmela da solo.»

«Allora si va. Apra il bar, si versi qualcosa da bere.»

«Spero che il traffico non sia troppo intenso.»

«Andremo dritti dritti giù per Broadway. Accenda la televisione.»

«Grazie, niente televisione.»

Di nuovo Sammler avvertì l’odore di chiuso, l’aria che sapeva di stoffa. Non cercò di mettersi comodo. Quella morsa al cuore era ancora più forte. Continuava a stringere; pensava che peggio non potesse essere: e invece peggiorò. Il traffico era straordinariamente intenso, intasato ai semafori. I furgoni delle consegne merci erano parcheggiati in doppia, in tripla fila. L’uso delle automobili private a Manhattan non era mai sembrato così irrazionale e dannoso. Sammler venne travolto dall’impazienza contro i guidatori di quelle grandissime, inutili macchine, ma poi quel senso di sopraffazione se lo lasciò dietro le spalle. Condotto dalla potenza muta del motore, immerso nella silenziosa aria condizionata, stava seduto in avanti con le cosce poggiate sopra il dorso delle mani. Evidentemente Elya pensava che lo dovesse a se stesso, di mantenere quella Rolls. Non poteva avere poi tanto bisogno di una macchina così prestigiosa. Non era che fosse un produttore di Broadway, un banchiere internazionale, un milionario del tabacco. Dove lo conduceva? Allo studio legale di Widick. Alla Hayden, Stone Incorporated, dove aveva un conto. Per le feste solenni andava al tempio sulla Quinta Avenue. Nella Cinquantasettesima Strada c’erano i suoi sarti, Felsher e Kitto. Il tempio e i sarti erano stati scelti da Hilda. Sammler l’avrebbe mandato da un altro sarto. Elya aveva una figura alta e spalle larghe, rigide, troppo larghe, considerando la piattezza del resto del corpo. Le natiche erano troppo sollevate. Come le mie, se è per questo. Sammler, nell’abitacolo della Rolls ove ogni rumore era soffocato, vide la rassomiglianza. Felsher e Kitto facevano di Elya un tipo troppo azzimato. I pantaloni erano troppo aderenti. Il gonfiore virile che si formava quando si sedeva era sconveniente. Completava il suo abbigliamento con cravatte e fazzoletti abbinati della Countess Mara, e con scarpe appuntite e vistose, che lo collocavano non tanto fra medici e dottori quanto a Las Vegas, tra corse dei cavalli, femmine di gran lusso e cantanti legati alla mafia. Cose ambiguamente collegate alla sua gentilezza. L’oscillare le spalle come un pistolero. L’indossare giacche con doppio spacco posteriore. Giocare a ramino e a canasta con poste altissime, parlando dall’angolo della bocca. Detestare i medici Kulturnyj che volevano discutere di Heidegger o Wittgenstein. I dottori veri non avevano tempo per quella roba fasulla. Elya annusava i tipi fasulli in un batter d’occhio. Poteva permettersi facilmente quella macchina, però non aveva nulla della vita che vi si accompagnava. Niente musical a Broadway, niente jet privato. La sua eccentricità più fascinosa e chic consisteva nel prendere un aereo per Israele così, su due piedi, ed entrare con aria placida e disinvolta all’Hotel King David senza bagaglio, con le mani in tasca. Quella, a lui, sembrava una cosa chic. Naturalmente, pensò Sammler, Elya era anche un tipo peculiare; la chirurgia era psichicamente peculiare. Penetrare un corpo in stato d’incoscienza con un coltello? Tirare fuori organi, cucire carne umana, schizzare sangue da tutte le parti? Mica tutti potevano fare una cosa del genere. E forse continuava a tenere la macchina per fare un favore a Emil. Che cosa avrebbe fatto Emil se non ci fossero state più le Rolls? Ora era arrivato alla risposta più verosimile di tutte. Elya aveva un forte senso di protezione. Fare del bene segretamente era per lui un piacere. Aveva molti stratagemmi per esercitare la sua bontà. Io ho le mie buone ragioni per dirlo. Ma quant’è strano – sorprendente, il suo desiderio di darci sollievo e protezione. Era sorprendente perché Elya il chirurgo allo stesso tempo disprezzava l’incompetenza e la debolezza. Soltanto gli istinti grandi e potenti operavano con tanta profondità e tanto tortuosamente, emergendo dal lato delle cose disprezzate. Ma come poteva permettersi, Elya, di avere delle idee rigide sulla forza? Lui stesso era un uomo schiavo. Hilda era stata di gran lunga più forte di lui. In quel suo passato di mafioso c’erano pretese di libertà senza legge. Ma era la piccola Hilda, con le sue gambette da stecchino e i capelli cotonati e l’orlo perfetto delle gonne e le squisite raffinatezze, la vera criminale. E lei aveva in pugno Elya. E per Elya non c’era mai stato nessun aiuto. Chi c’era ad aiutarlo? Lui era il tipo di individuo da cui l’aiuto emanava. Non esisteva nessun accordo per restituire l’aiuto ricevuto. Ad ogni modo, presto sarebbe finita. Stava per essere tutto spazzato via.

Quanto al mondo, era veramente sul punto di cambiare? Perché? Come? Per il fatto di lanciarsi nello spazio, di allontanarsi dalla Terra? Vi sarebbero stati ripensamenti? Vi sarebbe stato un nuovo comportamento? Perché? Perché eravamo stanchi del vecchio modo di comportarci? Quella non era una ragione sufficiente. Perché? Perché il mondo si stava sfasciando? Be’, se non il mondo, l’America. Be’, barcollando, se non proprio sfasciandosi del tutto.

Emil aveva ricominciato a guidare spedito, adesso, sotto alla Settantaduesima Strada. Il traffico si era un po’ snellito. Non c’erano più furgoni per la consegna della merce a ostacolarlo. Si stavano avvicinando a Lincoln Center, a Columbus Circle, allo Huntington Hartford Building, che Bruch chiamava il Taj Mahole. Ma non era buffo?! diceva Bruch. Si sbellicava dalle risate alle sue stesse battute. Come una scimmia, si portava le mani sul grosso ventre e chiudeva gli occhi, facendo penzolare la lingua fuori dalla sua testa cieca. Che palazzo! Tutto buchi. Però accidenti che bella colazione ti rifilavano per soli tre dollari. Si entusiasmava, non si stancava di lodare il menu – pollo alla hawaiana e riso con zafferano. Alla fine era riuscito a portarci anche il vecchio Sammler. Non c’era niente da dire: una colazione con i fiocchi. Ma il Lincoln Center, Sammler l’aveva visto soltanto da fuori. Non provava alcun interesse per le arti performative, e le grandi folle le evitava. Le mostre, di giochi di luce o di nudo, le era andate a vedere perché Angela si divertiva a tenerlo à la page. Ma le pagine del «Times» che si occupavano di pittori, cantanti, violinisti, o attori di prosa, le saltava a piè pari. Si teneva da conto il suo occhio idoneo alla lettura per cose migliori. Aveva notato con ostile interesse alcune squadre di operai che abbattevano i bei vecchi palazzi popolari e le trattorie di quinta categoria, e aveva visto i nuovi teatri ergersi al loro posto.

Ma ora, mentre si avvicinavano al Center, Emil fermò la macchina e aprì il vetro divisorio.

«Perché si ferma?»

Emil disse: «Là, dirimpetto a noi, sta succedendo qualcosa». E guardò, aggrinzando profondamente la faccia, come se quella spiegazione dovesse essere presa davvero sul serio. Ma perché comunque, in un momento simile, si era dovuto fermare? «Non le riconosce quelle persone, Mr. Sammler?»

«Quali? Hanno tamponato qualcuno? È un problema di traffico?» Naturalmente Sammler non aveva l’autorità per dire a Emil di andare avanti in ogni modo, ma col dorso della mano fece ugualmente un gesto. Voleva che Emil proseguisse.

«No, io penso che Lei voglia fermarsi, Mr. Sammler. Laggiù c’è Suo genero, lo vedo di qui. Non è lui, con quella grande borsa verde? E quell’altro non è il socio di Wallace?»

«Feffer?»

«Quel ciccione. Con la faccia rosa, la barba. Sta prendendo a botte qualcuno. Non vede?»

«Ma dov’è questa cosa? Per la strada? È Eisen veramente?»

«Ma è quell’altro che sta nei guai. Quello giovane, la barba. Mi sa che gli stanno facendo male sul serio.»

Sul lato est della strada in pendenza, un autobus si era fermato mettendosi di fianco al marciapiede, di sbieco, ostruendo il traffico. Ora Sammler vedeva che c’era qualcuno che si dibatteva, in mezzo alla folla.

«Uno di quelli è Feffer?»

«Sì, Mr. Sammler.»

«Sta facendo a botte con qualcuno – con chi, l’autista dell’autobus?»

«No, non è l’autista. Non credo. È qualcun altro.»

«Allora devo andare a vedere che cosa succede.»

La pazzia di questi ritardi! Quasi deliberati, quasi intenzionali, abbattevano ogni barriera di pazienza. Alla fine ti acciuffavano ed eri finito. Perché proprio questo, perché Feffer? Ma adesso capiva di che cosa parlava Emil. Feffer era inchiodato al frontale di un autobus. Quello era Feffer contro l’enorme parafango. Sammler cominciò a tirare la maniglia della portiera.

«No, in mezzo alla strada no, Mr. Sammler. La investiranno.»

Ma Sammler, la pazienza ormai esaurita completamente, stava già facendosi strada in fretta in mezzo al traffico.

Feffer, al centro della folla, stava lottando con il negro, il borsaiolo. Ci saranno state almeno venti persone, e molte altre si fermavano, ma nessuno aveva intenzione d’intromettersi. Dibattendosi nella morsa del criminale, Feffer era tenuto a forza contro il grosso automezzo ingombrante. La testa gli veniva sbattuta sul parabrezza, sotto il sedile vuoto dell’autista. L’uomo lo stava strizzando, e Feffer era spaventato. Resisteva, si difendeva, ma era inetto. Il suo rivale era di gran lunga più forte di lui. Naturale. Come sarebbe potuto essere diversamente? La sua faccia barbuta era impaurita. Rivolte all’insù, le grosse guance in fiamme, i grandi occhi marroni distanziati tra loro, imploravano aiuto. O pensavano a cosa fare. Che cosa doveva fare? Come un uomo che cerchi a tentoni in un ruscello un oggetto perduto, mentre guardava fisso in aria la bocca era spalancata in mezzo alla barba. Ma la Minox non voleva mollarla. Un braccio era sollevato, in alto, irraggiungibile. Il peso del grosso corpo nero nell’abito color fauno lo schiacciava. Aveva avuto la sfortuna di farsi riprendere in un’istantanea. Stava cercando di afferrare la Minox. Impossessarsi di quella macchinetta, dare un po’ di calci nelle costole di Feffer, nella pancia – a che cos’altro poteva aver pensato? Andandosene poi, senza fretta se possibile, prima che arrivasse la polizia. Però Feffer, quasi in preda al panico, si ostinava ancora. Cambiando la presa, il negro lo agguantò per il colletto e glielo torse, tenendo Feffer con l’avambraccio così come aveva tenuto Sammler contro il muro. Lo strozzava, Feffer, con la sciarpetta che aveva al collo. Gli occhiali di Dior, rotondi e viola scuro, non si erano mossi dal basso setto nasale. Feffer aveva afferrato la cravatta rossa svolazzante, ma ciò non gli dava alcun vantaggio.

Come facciamo a salvare questo impiccione, quest’idiota cretino di un ragazzo? Può farsi male seriamente. E io devo assolutamente andare. Non c’è tempo. «Ehi! Qualcuno di voi» ordinò Sammler. «Su, avanti! Aiutatelo. Fateli smettere.» Ma naturalmente “qualcuno di voi” non esisteva. Nessuno era disposto a far nulla, e tutto a un tratto Sammler si sentì immensamente straniero – voce, accento, sintassi, modi, faccia, cervello, tutto, straniero.

Emil aveva visto Eisen. Ora Sammler si mise a cercarlo. Ed eccolo là, sorridente e pallidissimo. Evidentemente stava aspettando di venire scoperto. E allora sembrò molto compiaciuto.

«Che cosa fai qui?» disse Sammler in russo.

«E tu, Suocero – che cosa fai?»

«Io? Io mi sto precipitando in clinica a vedere Elya.»

«Sì. E io ero col mio giovane amico sull’autobus quando ha scattato la fotografia. Di una borsetta che veniva aperta. L’ho visto io stesso.»

«Che cosa stupida da fare!»

Eisen aveva in mano la sua borsa di panno verde. Conteneva le sue sculture, i medaglioni. Quei pezzi di Mar Morto – piriti di ferro, o quel che diavolo erano.

«Digli che rinunci alla macchina fotografica. Ma perché non gliela dà?» disse Sammler.

«Ma come facciamo, noi, a convincerlo?» disse Eisen col tono di chi vuol discutere.

«Va’ a chiamare un poliziotto» disse Sammler. Gli sarebbe piaciuto anche aggiungere “E smettila con quel sorriso”.

«Ma io non conosco l’inglese.»

«E allora aiuta quel ragazzo.»

«Aiutalo tu, Suocero. Io sono straniero, e menomato per giunta. Tu sei più vecchio, è vero. Ma io ci sono appena arrivato in questo Paese.»

Sammler disse al borsaiolo: «La smetta. Lo lasci andare».

La grossa faccia dell’uomo si girò. New York era riflessa nelle lenti, sotto le curve rigide del cappello. Forse riconobbe Sammler. Ma nulla fu detto.

«Dagli la macchina fotografica, Feffer. Consegnagliela» disse Sammler.

Feffer, con uno sguardo fisso di shock e supplica, sembrava che da un momento all’altro dovesse perdere conoscenza. Non abbassò il braccio, comunque.

«Ti dico, dagli quella stupida macchina. Vuole la pellicola. Non fare l’idiota.»

Poteva darsi che Feffer avesse resistito fino a quell’istante in attesa di un’auto della polizia, aspettando che questa lo salvasse. Altrimenti era difficile spiegarsi quella ostinazione. Considerando la forza fisica del negro – la sua incredibile forza animalesca, schiacciante, pressante, di attacco, lo straordinario gonfiarsi del collo e la tensione delle natiche quando si alzava in punta di piedi. Tutto questo con scarpe di coccodrillo messe a durissima prova! Con pantaloni color gazzella! Con la cinta accompagnata al colore della cravatta – una cinta scarlatta! Come veniva sferzata la consapevolezza di sé da un fatto del genere!

«Eisen!» disse Sammler, imbestialito.

«Sì, Suocero.»

«Ti sto chiedendo di fare qualche cosa.»

«Che la facciano loro qualche cosa.» E con la borsa di panno indicò gli astanti. «Io sono arrivato soltanto quarantott’ore fa.»

Sammler si rivolse ancora una volta alla folla, guardando tutti fisso negli occhi. Nessuno voleva aiutare? Quindi persino adesso – adesso, ancora! – uno credeva in cose come l’aiuto degli altri. Dove c’era della gente, poteva trovarsi l’aiuto. Era un istinto e un riflesso. (Una speranza affatto esasperata?) Quindi, esaminando brevemente una faccia dopo l’altra, passando in rassegna le facce della gente raccoltasi lungo il marciapiede – rosse, pallide, olivastre, con lineamenti duri o morbidi, torve o sognanti, occhi di un azzurro essenziale, rosso iodio, neri come carbone – quale strano carattere aveva la loro inazione! Si aspettavano una gratificazione, oh! finalmente! di necessità solleticate, ingannate, affamate. Qualcuno le avrebbe prese! Sì. E le facce nere? Un desiderio simile. Un altro lato. Però il medesimo. Sebbene non ci fosse nulla da udire, Sammler ebbe la sensazione che qualcosa stesse abbaiando, urlando. Poi capì che ciò che univa tutti era una beatitudine di presenza. Come se si trattasse di – sì – beati sono i presenti. Sono qui e non sono qui. Sono presenti mentre assenti. E quindi stavano aspettando in quello stato d’estasi. Quale supremo privilegio! E c’era soltanto Eisen che poteva far smettere quella scazzottata! Che era, dopotutto, una specie strana di scazzottata. Sammler non credeva che il negro avrebbe strozzato Feffer fino a farlo svenire: avrebbe semplicemente continuato a premere, a torcere il colletto stringendolo sempre di più fino a quando Feffer non gli avesse dato la Minox. Naturalmente c’era sempre la possibilità che lo colpisse, che tirasse fuori un coltello, che lo pugnalasse. Ma in campo c’era qualcosa di peggio dell’avvenimento in se stesso; vale a dire, il sentimento che s’impossessò di Sammler.

Era un sentimento di orrore e acquistava sempre più forza, s’ingigantiva, s’ingigantiva. Che cos’era? Come poteva definirsi? Lui era un uomo che aveva fatto ritorno. Si era ricongiunto alla vita. Era vicino ad altri. Ma in qualche modo essenziale era anche privo di compagni. Era vecchio. Non aveva forza fisica. Sapeva cosa fare, ma non possedeva sufficiente vigore per mettere in atto la sua idea. Doveva rivolgersi a qualcun altro – a un Eisen! un uomo a sua volta molto bizzarro che percorreva un binario completamente diverso, orbitando attorno a un centro straniero molto differente. Sammler era impotente. Essere così impotente significava la morte. E improvvisamente vide se stesso non dritto in piedi, ma stranamente inclinato, appoggiato a qualcosa e singolarmente di profilo, e come una persona passata. Quello non era lui. Era qualcuno – e ciò lo colpì molto – povero di spirito. Qualcuno a mezza strada fra lo stato umano e quello non-umano, fra il contenuto e il vuoto, fra il pieno e il vacuo, significante e non-significante, fra questo mondo e nessun mondo. In volo, liberato dalla gravitazione, leggero nell’abbandono e nel terrore, in dubbio sulla propria destinazione, spaventato che non ci fosse nulla che potesse accoglierlo.

«Eisen, separali» disse. «Ormai l’ha strozzato abbastanza. Verrà la polizia e ci saranno degli arresti. E io devo andare. Rimanersene qui è da pazzi. Ti prego. Prendi la macchina fotografica e basta. Prendila. Così smetteranno subito.»

Allora il bellissimo Eisen, sorridendo, scrollando e scuotendo le spalle, liberandole dalla stoffa di cotone troppo aderente, si staccò da Sammler come se stesse facendo una cosa molto divertente su speciale richiesta del vecchio. Si tirò su la manica del braccio destro. Era coperto di una fitta peluria scura. Poi, allentando la presa sulle corde della borsa, la brandì facendola girare ad ampio raggio, la roteò a tutta forza e colpì il borsaiolo sul lato della faccia. Fu un colpo tremendo. Gli occhiali volarono via. Il cappello. Feffer non venne rilasciato immediatamente. Sembrava che l’uomo si appoggiasse a lui. Ovviamente stordito. Eisen era un operaio, un lavoratore di fonderia. Aveva la forza non soltanto del suo mestiere, ma anche della pazzia. C’era qualcosa d’illimitato, di sconfinato, nel modo in cui prendeva la mira, misurava l’uomo che gli stava davanti, una specie di ostinata malvagità. In quel colpo c’era dentro tutto, disciplina, assassinio, tutto. Oh, che cosa ho fatto! Questo è molto peggio! Questa è la cosa peggiore di tutte. Sammler credeva che Eisen gli avesse sfracellato il viso, a quell’uomo. E ora stava per colpirlo di nuovo, con i medaglioni. Il negro tolse le mani di dosso a Feffer e si stava girando. Le labbra gli si scostarono dai denti. Eisen gli aveva spaccato la pelle e la guancia sanguinava e si stava gonfiando. Eisen fece tintinnare i pesi che gli pendevano dai polsi, allargò le gambe. «Ma adesso l’ammazza quel paraculo!» disse qualcuno nella folla.

«Eisen, non lo colpire. Io non ti ho mai detto di colpirlo. Te lo ripeto, no!» disse Sammler.

Ma la borsa di pesi stava arrivando a tutta velocità dal lato opposto, molto da lontano e però centratissima. Colpì più forte di prima, e l’uomo fu mandato al tappeto. Non cadde. Si abbassò come se avesse deciso di sdraiarsi per terra. Gli colava il sangue dalla guancia. Quel metallo micidiale l’aveva tagliato anche se ricoperto dalla stoffa della borsa.

Ora Eisen si gettò l’arma sopra la spalla, pronto a scaraventarla sul cranio dell’uomo. Sammler lo afferrò per il braccio e lo tirò via con violenza. «Ma tu lo ucciderai. Gli vuoi spaccare il cervello?»

«Tu l’hai detto, Suocero!»

Litigarono in russo dinanzi alla folla.

«Tu hai detto che dovevo fare qualcosa. Tu hai detto che dovevi andartene. Che dovevo fare qualcosa. E così l’ho fatta.»

«Io non ti ho detto di colpirlo con questi dannati pezzi di ferro. Io non ti ho nemmeno detto di colpirlo. Tu sei pazzo, Eisen, pazzo abbastanza da ucciderlo.»

Il borsaiolo aveva tentato di sollevarsi sui gomiti. Il suo corpo, adesso, era appoggiato alle braccia che teneva incrociate. Sanguinava copiosamente sull’asfalto.

«Sono orripilato!» disse Sammler.

Eisen, sempre bello, ricciuto, sempre col sorriso stampato in faccia, benché fosse un po’ affannato ormai, e con quella singolare posa dei piedi privi di dita, sembrava divertito dalla ridicola incoerenza di Sammler. Disse: «Non si può colpire un uomo in questo modo una volta sola. Quando gliele dai gliele devi dare di santa ragione. Se no è lui che ammazza te. Tu lo sai questo. Abbiamo combattuto tutti e due in guerra. Tu eri un partigiano. Avevi un fucile. E allora non lo sai?». La sua risata, la sua logica, mentre rideva e ragionava sulle assurdità di Sammler, lo obbligavano a ripetere, fino a balbettare: «Se uno ci sta – ci sta. No? Se uno sta fuori – sta fuori. Sì. No? E allora rispondimi».

Fu per quel ragionamento che Sammler si sentì completamente mancare il cuore. «Dov’è Feffer?» disse, e si girò allontanandosi.

Feffer, con la testa appoggiata contro l’autobus, stava cercando di riprendere fiato. Una commedia, senza dubbio. Per Sammler quel tipo di esagerazione era rivoltante.

Maledette queste – queste occasioni! stava pensando. Maledette. Era Elya che aveva bisogno di lui. Era soltanto Elya che lui voleva vedere. Al quale c’era qualcosa da dire. Qui non c’era nulla da dire.

Sentì qualcuno che chiedeva: «Dove sono gli sbirri?».

«Hanno da fare. A prendere le bustarelle. Staranno facendo le multe da qualche parte. Quegli stronzi. Quando uno ha bisogno di loro…»

«C’è un sacco di sangue. È meglio che chiamino l’ambulanza.»

La luce sui riccioletti opachi, la pasta porosa color carbone della testa dell’uomo, che tuttora perdeva sangue, metteva in mostra un occhio chiuso. Però voleva rialzarsi in piedi. Fece dei tentativi.

Eisen disse a Sammler: «È questo qui l’uomo, no? L’uomo che hai detto che ti ha seguito? Che ti ha fatto vedere il pisello?».

«Sta’ lontano da me, Eisen.»

«Ma che devo fare?»

«Vattene. Scappa da qui. Sei nei pasticci, sai» disse Sammler. Parlò a Feffer: «Adesso che cos’hai da dire?».

«L’ho colto sul fatto. La prego, aspetti un secondo, mi ha fatto male alla gola.»

«Sciocchezze, non fare la commedia dell’agonizzante con me. Sì, l’uomo è questoLui sì che si è fatto male sul serio.»

«Le giuro che stava sfilando i soldi da una borsa, e io ho scattato due fotografie.»

«Ah!? ma davvero?»

«Lei sembra arrabbiato, Mr. Sammler. Perché è tanto arrabbiato con me?»

Fu allora che Sammler vide la macchina della polizia, la sirena vorticante sul tetto e i poliziotti che uscivano fuori con aria pigra, dondolandosi sulle gambe, spingendo indietro la folla. Emil condusse via Sammler, fermandosi di fianco all’autobus, poi disse: «È meglio che Lei lasci perdere questa faccenda. Dobbiamo andarcene».

«Sì, Emil, certamente.»

Attraversarono la strada. Evitare di immischiarsi con la polizia. L’avrebbero potuto trattenere per ore. Non si sarebbe mai dovuto fermare a casa. Sarebbe dovuto andare direttamente in clinica.

«Credo di volermi sedere davanti, insieme a lei, Emil.»

«Ma certo. Si sente scombussolato, eh?» Lo aiutò a entrare in macchina. La mano dello stesso Emil tremava, e così anche le braccia e le gambe di Sammler. Una debolezza straordinaria gli assalì le gambe, da dietro.

Il grosso motore si accese. L’aria fresca usciva dal condizionatore. Poi la Rolls s’inoltrò nel traffico.

«Ma che cos’era successo?»

«Ah, lo vorrei sapere anch’io» disse Sammler.

«Chi era quel tizio nero?»

«Poveretto, non lo so proprio.»

«Si è preso due sgrugnoni da far paura.»

«Eisen è brutale.»

«Ma che cosa aveva in quella borsa?»

«Pezzi di metallo. Io mi sento responsabile, Emil, perché mi sono rivolto a Eisen, l’ho pregato di intervenire, perché ero così impaziente di arrivare dal dottor Gruner.»

«Be’, forse quel tizio ha la capoccia dura. Immagino che Lei non abbia mai visto nessuno colpire con l’intenzione di ammazzare. Si vuole sdraiare per dieci minuti sui sedili qui dietro? Mi posso fermare, se vuole.»

«Ho l’aria di star male? No, Emil. Però penso che chiuderò gli occhi per un po’.»

Sammler si sentiva male dalla rabbia contro Eisen. Il nero? Il nero era un megalomane. Ma in lui c’era una certa – una certa dignità principesca. Gli abiti, gli occhiali scuri, i colori sontuosi, i modi di una maestà primitiva. Probabilmente era uno spirito folle. Ma folle con un’idea di noblesse. E quanto lo capiva, lo compativa, Sammler – cosa non avrebbe fatto per impedire quelle atroci percosse! Com’era rosso quel sangue, e quant’era denso – e quanto erano micidiali quegli gnocchi di metallo incrostati, irti di punte! E Eisen? Lui era da considerarsi una vittima della guerra, anche se probabilmente non era altro che un matto. Il suo posto era al manicomio. Un maniaco omicida. Se soltanto, pensò Sammler, Shula e Eisen fossero stati un pochino meno pazzi. Soltanto un pochino. Avrebbero continuato a giocare a carte a Haifa, quei due svitati, nella loro gabbia a calce sul Mediterraneo. Perché, quando non scandalizzavano il vicinato con le loro urla e i loro schiaffi, tiravano fuori le carte e giocavano. Ma no. Tali individui avevano il diritto di essere considerati normali. E per di più avevano libertà di movimento. Avevano passaporti, biglietti. E così il povero Eisen aveva preso un aereo ed era arrivato dall’altra parte del mondo con le sue opere. Povera creatura, povero Eisen con la sua risata da ebete.

Si divertivano tutti in un modo tale! Wallace, Feffer, Eisen, Bruch pure, e Angela. Ridevano così tanto. Cari fratelli, lasciate che siamo umani tutti insieme. Entriamo tutti nel grande parco di divertimenti, e giochiamoci questa comica mortalità insieme, l’uno con l’altro. Intrattenete il vostro prossimo e i vostri cari. Cacce al tesoro, circhi volanti, furti da commedia, medaglioni, parrucche e sari, barbe. Carità, tutta la carità, pura e semplice carità, quando si riflette sullo stato delle cose, la cecità dei viventi. Fa paura! Non si riesce a sopportare! Intollerabile! Distraiamoci a vicenda mentre siamo vivi!

«Parcheggio qui e salgo su con Lei» disse Emil. «Se mi vogliono dare la multa, facciano pure.»

«Il dottore non è tornato?» disse Emil.

Evidentemente no. Angela stava seduta, da sola, nella stanza d’ospedale.

«Allora, va bene. Starò qui, se Lei ha bisogno di me.»

«A quanto pare fumo tre pacchetti al giorno. Sono rimasta senza sigarette, Emil. Non riesco neppure a concentrarmi su un giornale.»

«Benson and Hedges, vero?»

Quando se ne fu andato, Angela disse: «Non mi piace mandare una persona anziana a far commissioni».

Sammler non le rispose nulla. Il cappello all’Augustus John lo teneva in mano. Non lo posò sul letto pulito, appena rifatto.

«Emil fa parte della banda di papà. Sono molto legati.»

«Che cosa succede?»

«Chi lo sa. L’hanno portato giù per degli esami, ma due ore sono un bel po’ di tempo. Suppongo che il dottor Cosbie sappia bene quello che fa. A me è antipatico. I modi fascinosi non mi dicono niente. Si comporta come se dirigesse un’accademia militare nel Sud. Ma io non sono certo uno dei suoi soldati. Le esercitazioni non fanno per me. È ingrugnato, freddo e repellente. Uno di quei begli uomini che non si rendono conto di non piacere alle donne. Prendi la sedia con lo schienale dritto, Zio. Ti ci trovi meglio, tu. Ti devo parlare.»

Sammler prese una sedia e si sedette lontano dalla luce – non poteva soffrire di avere delle finestre davanti attraverso cui non si vedeva altro che il cielo azzurro. Vedeva guai. Eccitato egli stesso, era sensibile a tutti i segni. Un’altra donna sarebbe stata accesa in volto: Angela era bianca come un lenzuolo. La voce roca e divertente, che forse copiava quella di Tallulah Bankhead, aveva ormai esaurito tutta la carica di divertimento. La gola sporgeva in fuori, sembrava gonfia, e le sopracciglia castane chiaro, ripassate a matita, simili ad ali, non facevano che sollevarsi. In certi momenti provava a lanciare uno sguardo implorante. Era arrabbiata, anche. Stava passando un momento bruttissimo. Persino corrugare la fronte sembrava risultarle difficile. Qualcosa era come bloccato, ostacolato. Indossava una camicetta di raso con la scollatura profonda, e una minigonna. No, Sammler cambiò termine, era una microgonna, una striscia verde intorno alle cosce. I capelli con le loro mèches erano pettinati indietro, tirati; la pelle era piena di qualità femminili (gli ormoni). Sulle guance posavano dei grandissimi orecchini d’oro. Una donna grande, formosa, vestita in modo infantile, una donna che giocava eroticamente a fare la ragazzina: era improbabile che la si potesse scambiare per un soldato. Seduto accanto a lei, Sammler non sentiva il solito profumo di muschio arabo. Invece il suo effluvio femminile era molto forte, un odore di sale, simile alle lacrime o all’acqua di marea, qualcosa che veniva dall’interno di quella donna. Le parole di Elya avevano prodotto un fortissimo effetto – «Troppo sesso». Persino il rossetto bianco suggeriva perversione. Ma tutto ciò era curiosamente privo di pregiudizio. Sammler non nutriva alcun pregiudizio contro la perversione, contro le abitudini e i costumi sessuali. Niente. Si era troppo avanti nella giornata per quelle cose. C’era già troppa tensione. Poteri di distorsione assai più grandi erano entrati in azione. L’urto violento dei medaglioni di Eisen contro la faccia del borsaiolo, Sammler non riusciva a toglierselo dalla testa. I suoi nervi, nel modo elementare in cui agiscono i nervi, avevano messo quell’episodio in relazione al frantumarsi del suo occhio sotto il calcio del fucile trent’anni prima. La sensazione di stare per soffocare e cadere – allora si poteva riviverla, e uscirne. Se ne valeva la pena, poi. Aspettava di sentire il rumore della barella a rotelle di Elya che avrebbe urtato contro la porta.

«Wallace si è fatto vedere? Avrebbe dovuto atterrare a Newark.»

«No. Bisogna appunto che ti parli di mio fratello, Zio. Quando l’hai visto? Margotte mi ha raccontato dei tubi.»

«Di persona? L’ho visto ieri sera. E stamattina in cielo.»

«Ah, allora l’hai visto fare tutte quelle giravolte, a quell’idiota.»

«Ha avuto un incidente?»

«Oh, non ti preoccupare, non si è fatto niente. Magari si fosse fatto male sul serio, ma quello è come un cascatore di Hollywood.»

«L’aereo non si è mica abbattuto, vero?»

«Ma naturale! Alla radio parlano solo di quello. Si è scorticato le ruote sul tetto di una casa.»

«Oh, Signore! Si è dovuto lanciare col paracadute? Era casa vostra?»

«Si è andato a fracassare mentre atterrava. È successo su una di quelle grandi ville del Westchester. Dio solo lo sa perché quel disgraziato se ne deve andare in giro a volare a un centimetro dalle case quando ci troviamo in questo momento così critico. Mi fa diventare pazza quest’idea.»

«Non mi vorrai dire che Elya lo è venuto a sapere per radio?»

«No, non l’ha sentito. Stava già scendendo giù in ascensore.»

«Dici che Wallace non si è fatto male?»

«Wallace è al settimo cielo. Pieno di gioia. Gli hanno dovuto dare qualche punto alla guancia.»

«Ah, ho capito. Gli rimarrà una cicatrice. Tutto questo è terribile!»

«Tu hai troppa comprensione per lui.»

«Ammetto che tutta questa compassione per la gente a un certo punto può essere stancante. Anche a me fa venire rabbia, Wallace.»

«Lo credo bene. Lo dovrebbero proprio rinchiudere, il mio fratellino. Rinchiuderlo in manicomio. L’avresti dovuto sentire come barbugliava.»

«Allora gli hai parlato?»

«Prima ha fatto parlare un tizio che ha descritto il suo magnifico atterraggio. Poi ha preso il telefono lui in persona. Una cosa inimmaginabile. Come se avesse raggiunto il Polo Nord in bicicletta. Tu lo sai che ci faranno causa per i danni alla casa. L’aeroplano è completamente sfasciato. L’aeronautica civile gli toglierà il brevetto. Ah, magari togliessero di mezzo anche lui. Ma lui era tutto euforico! Ha detto: “Non lo dovremmo dire a papà?”.»

«No!»

«Sì» disse Angela. Era furiosa. Con il dottor Cosbie, con Wallace, con Widick, Horricker. Ed era invelenita anche con Sammler. E lui stesso era ben lungi dal sentirsi normale. Ben lungi! Il nero ferito. Il sangue. E ora, faccia a faccia con tutta quella super-femminilità, sensualità, vedeva ogni cosa con accentuata chiarezza. Come aveva visto Riverside Drive, perversamente illuminata, dopo aver osservato quella borsa alleggerita dei suoi soldi, in autobus. Era così che adesso vedeva. Vedere era delizioso. Oh, ma naturale! Un piacere estremo! Il sole può splendere, e può essere una benedizione, ma a volte mette in luce la furia del mondo. Anche un chiarore come questo, la vividezza di ogni cosa, anche ciò gli procurava sgomento. Il delicato biancore del viso di Angela, lo sforzo delle sue sopracciglia – la traboccante mistura di finezza e volgarità che vi scorgeva. E il sole che inondava la finestra. Il vetro striato gocciolava di luce come miele. Uno sbarramento di dolcezza e d’intollerabile bagliore. Sammler davvero non voleva provare quelle sensazioni. Tutto si sollevava contro di lui, troppo vertiginoso, troppo turbolento.

«Vedo che tu e Elya avete continuato a parlare di quel fatto.»

«Non c’è verso che lo lasci da parte. È una cosa crudele. Sia per lui che per me. Non riesco a farlo smettere.»

«Ma cos’altro puoi fare se non cedere? È lui che deve affrontare la cosa più difficile. Non dovrebbero esserci discussioni, bisticci. Forse il giovane Mr. Horricker dovrebbe venire qui. Perché non viene? Così fa vedere che non ci tiene molto. Fra parentesi, le cose stanno così o no?»

«Lui dice di sì.»

«Forse ti ama.»

«Lui? E chi lo sa. Ma io comunque non glielo chiederei mai di venire. Sarebbe come servirsi della malattia di papà.»

«Non vuoi che ritorni?»

«Se voglio lui? Può essere. Non ne sono sicura.»

C’era un successore in vista? Essendo gli affetti umani così flebili, c’erano probabilmente liste intere di candidati di riserva, riserve pre-consce – uomini incontrati nel parco mentre si portava a spasso il cane; persone con cui si erano scambiate alcune parole al Museum of Modern Art; quel tizio con le basette; quell’altro con gli occhi scuri, sexy; quel tale con il bambino in sanatorio, la moglie con la sclerosi multipla. Per un’infinità di idee e scopi c’era un’infinità di gente con cui fare il paio. E tutto questo scaturiva dai discorsi di Angela. Lui udiva e ricordava tutto, ogni fatto grigio, ogni accenno scarlatto. Lui non voleva ascoltare, però lei gliele raccontava le cose. Lui non aveva alcun desiderio di ricordare, tuttavia ricordava tutto. E Angela era veramente una bellezza. Era grande e grossa, ma una bellezza, una giovane donna sana. Le giovani donne sane hanno i loro bisogni. Le sue gambe erano… le cosce praticamente si vedevano tutte da quel nastro di gonna verde: Angela lo era, bella. Horricker avrebbe sofferto sapendo di averla perduta. Sammler stava ancora riflettendo sulle varie cose. Stanco, stordito, disperato, ancora pensava. Ancora in contatto. Con la realtà, vale a dire.

«Wharton non è mica un bambino. Lo sapeva bene in che consisteva la faccenda, laggiù in Messico» disse Angela.

«Ah, io di questo non capisco assolutamente nulla. Presumo che lui abbia letto qualcuno di quei libri che hai prestato a me – Bataille e altri teorici – sulla trasgressione e il dolore e il sesso; lussuria, crimine e desiderio; assassinio e piacere erotico. Per me non è che avesse molto senso, tutta quella roba.»

«Lo so che non è il tuo genere. Ad ogni modo Wharton se l’è spassata anche lui con quella troietta. Gli piaceva. Molto di più di quanto piacesse a me quell’altro uomo. Lui, stai pur certo, non lo rivedrò mai. Ma poi sull’aereo Wharton perversamente è diventato geloso. Non la finiva più.»

«Il mio solo pensiero è che Elya si potrebbe sentire più sereno nei tuoi riguardi, se vedesse Horricker.»

«Sono imbestialita se penso che Wharton è andato a spiattellare tutto a Widick, e poi Widick a papà.»

«Non posso credere che Mr. Widick parlerebbe a Elya di questa faccenda. È una persona sostanzialmente perbene sotto moltissimi aspetti. Io, naturalmente, non lo conosco a fondo. La mia impressione è che sia un avvocato con i piedi per terra, risoluto. Non è cattivo. Una gran faccia morbida.»

«Quel ciccione d’un figlio di puttana. Appena lo vedo gliene dico quattro. Gli strappo i capelli.»

«Non essere tanto sicura che si tratti di una persona malvagia. Puoi sbagliarti. Elya è straordinariamente intelligente e veloce nell’afferrare le cose, anche piccole allusioni.»

«E chi può esser stato, allora? Wallace? Emil? Ma chiunque sia stato a far cadere l’allusione, deve esser partito tutto da Wharton, troppo debole per tenere la bocca chiusa. Be’, se lui vuole fare una visita a papà, niente in contrario. Ma io mi sento insultata. Sono furiosa.»

«In effetti hai un’aria febbricitante, Angela. Io non voglio agitarti. Ma tenendo presente la pena di tuo padre per tutto questo, per il Messico, pensi proprio che ti dovresti presentare con quel costume indosso?»

«Questa gonna, vuoi dire?»

«È molto corta. La mia opinione può non avere alcun valore, ma a me sembra una cattiva idea mettersi addosso quel tipo di vestitino sessuale.»

«Ah, adesso sono i miei vestiti! Tu parli per lui, o per te?»

La luce del sole era gialla, dolce. Era orribile.

«Oh sì, so benissimo che posso essere arretrato, con i deplorevoli atteggiamenti puritani di un passato morboso che hanno arrecato tanto danno alla civiltà. I tuoi libri li ho letti. Ne abbiamo parlato, di tutto questo. Ma in verità, come puoi aspettarti che tuo padre non si agiti, non si senta irritato, quando vede questo vestito provocante da Baby Doll?»

«Ma sul serio? La mia gonna? Non mi è mai neppure venuto in mente. Mi sono vestita in fretta e sono corsa via. È ben strano tirare in ballo queste cose, con me, adesso. Le portano tutte, le minigonne. Non mi piace molto il modo in cui hai inquadrato la questione, se vuoi saperlo.»

«Indubbiamente, avrei potuto farlo meglio. Non intendo fare l’antipatico. Ci sono altre cose a cui pensare.»

«Ecco, appunto. E io mi sento addosso un peso terribile. È terribile.»

«Ne sono certo.»

«Sono disperata, Zio.»

«Sì, ci credo. È naturale che tu lo sia. Sì.»

«Sì, che cosa? Sembra che ci sia qualcos’altro.»

«E c’è. Anch’io sono molto turbato per tuo padre. È stato un grande amico per me. Anch’io sono angustiato per lui.»

«Non c’è bisogno di menare il can per l’aia, Zio.»

«No. Morirà.»

«Be’, questo sì che vuol dire pane al pane vino al vino» disse. Angela era per parlar chiaro; era troppo chiaro quello?

«È altrettanto tremendo sentirlo quanto dirlo.»

«Io sono sicura che tu vuoi bene a papà» disse lei.

«È vero.»

«A parte le ragioni pratiche, voglio dire.»

«Certo Shula e io siamo stati mantenuti da lui. Non ho mai tenuta nascosta la mia gratitudine. Spero che non sia stata mai un segreto» disse Sammler. Poiché era asciutto e vecchio, il battito del suo cuore, anche un battito violento, non era evidente. «Se fossi pratico, se fossi molto pratico, farei attenzione a non contrastarti. Io credo che esistano ragioni diverse da quelle pratiche.»

«Be’, spero che non ci metteremo a bisticciare.»

«Appunto» disse Sammler. Angela era arrabbiata con Wallace, con Cosbie, Horricker. Lui non voleva aggiungersi alla lista. Non aveva alcun bisogno di uscire vittorioso su Angela. Voleva soltanto persuaderla di qualcosa, e non sapeva se almeno quello fosse fattibile. Ma certamente non aveva alcuna intenzione di dare guerra a femmine sofferenti. Cominciò a parlare. «Mi sento agitatissimo, Angela. Ci sono determinati nervi che sono stati danneggiati di cui non senti più notizie per anni, e poi si mettono a far capricci, s’infiammano. In questo preciso momento stanno bruciando, e fanno un gran male. Ora io vorrei dire qualcosa che riguarda tuo padre, visto che tanto lo dobbiamo aspettare. All’apparenza, io non ho molto in comune con Elya. Lui è un sentimentale. Lui ci tiene troppo, direi, a far tesoro di certi vecchi sentimenti. Fa parte di un vecchio sistema e in base a quello funziona. Personalmente io sono stato sempre scettico in questo senso. Uno potrebbe chiedere: dov’è il nuovo sistema? Ma non è necessario affrontare pure questo tema. Io non ho mai avuto troppa simpatia per le persone che fanno aperte dichiarazioni di affetto. Essere un “britannico” è stata una delle mie fissazioni. Freddo? Ma tuttora apprezzo un certo riserbo. Non mi è mai piaciuto il modo in cui Elya faceva la corte a tutti, cercava di creare un contatto con la gente, conquistandosi i loro cuori, attirando il loro interesse, comportandosi confidenzialmente perfino con cameriere, assistenti tecniche di laboratorio, manicure. È stato sempre troppo facile per lui dire: “Ti voglio bene”, “Ti amo”. Non faceva che dirlo, continuamente, a tua madre, in pubblico, mettendola in imbarazzo. Non intendo discutere di tua madre con te. Aveva anche lei le sue qualità. Ma così come io ero uno snob riguardo agli inglesi, lei era un’ebrea tedesca che coltivava lo stile dei WASP (adesso, tra parentesi, sorpassato), e io lo riconoscevo. Lei intendeva raffinare tuo padre, un Ostjude. Da lui ci si aspettava che fosse espansivo, l’uomo di cuore. Non credi che fosse più o meno così? E quindi a tuo padre venne dato l’incarico di essere espansivo. Certo che, con tua madre, Elya aveva il suo bel da fare. Io credo che sarebbe stato più facile amare un teorema di geometria che la tua povera mamma. Scusami, Angela, per quello che mi permetto di dire.»

Lei disse: «Tanto è come se fossimo seduti sull’orlo di un dirupo in ogni modo, qui ad aspettare».

«Va bene, Angela. Tanto vale parlare, allora. Non è che voglia aggravare oltre le tue difficoltà… Ma ho appena visto qualcosa di eccezionalmente brutto mentre venivo in clinica. In parte è colpa mia. Mi sento abbattuto. Ma stavo dicendo che tuo padre ha ricevuto i suoi incarichi. Marito, uomo di medicina – era un buon dottore –, padre di famiglia, di successo, americano, ricchissima pensione con Rolls Royce al seguito. Tutti noi abbiamo i nostri incarichi. Sentimenti, comunicativa, espansività, gentilezza, bontà – tutte queste belle cose umane che per una peculiare svolta di opinione adesso la gente vede come losche attività. Il candore e la più completa franchezza sui vizi sembrano molto più facili. In tutti i casi, quello è stato l’incarico di Elya. È questo che si vede sul suo viso buono. È per questo che ha un’aria così umana. Ha fatto qualcosa di se stesso. Non si è comportato male. La chirurgia non gli piaceva. Questo lo sai. Aveva il terrore di quelle operazioni che duravano tre, quattro ore. Però le faceva. Faceva quello che non gli piaceva. Aveva una lealtà insicura nei riguardi di certi stati puri. Sapeva che prima di lui c’erano stati degli uomini buoni, che altri uomini buoni sarebbero seguiti, e lui voleva essere uno di loro. Io credo che abbia fatto un ottimo lavoro. Personalmente io non posso vantarmi di essermela cavata altrettanto bene. Fino a quarant’anni circa sono stato semplicemente un ebreo polacco intellettuale anglofilo, una persona di cultura – relativamente inutile. Ma Elya, per mezzo della ripetizione sentimentale e, se vuoi, per mezzo di formule, in parte per mezzo della propaganda, ha fatto qualcosa di buono. Ha tenuto duro ed è arrivato dove voleva arrivare. Lui ti vuole bene. Sono sicuro che vuol bene anche a Wallace. Credo che voglia bene a me. Io ho imparato molto da lui. Non è che abbia delle illusioni su tuo padre, questo lo capisci, vero. È suscettibile, vanaglorioso, si ripete. È fatuo, orgoglioso, scontroso. Ma si è comportato bene, e io lo ammiro.»

«Insomma è umano. Va bene, è umano.» Forse, lo seguiva soltanto a metà, benché lo guardasse diritto negli occhi, di fronte, ginocchia discoste così che egli vedeva la stoffa rosa delle mutandine. Guardando quella striscia rosa, Sammler pensò: “Ma perché discutere? A cosa serve?”. Invece rispose.

«Ebbene, tutti sono umani solo fino a un certo punto. Alcuni più di altri.»

«Alcuni molto poco?»

«Così sembrerebbe. Molto poco. In modo manchevole. Scarso. Pericoloso.»

«Io pensavo che tutti nascessero umani.»

«Non si tratta assolutamente di un dono naturale. Solamente la capacità è naturale.»

«Insomma, Zio, perché mi fai questo genere di discorsi? Dove vuoi andare a parare? Tu hai in mente qualcosa.»

«Già, suppongo di sì.»

«Mi stai criticando.»

«No, sto lodando tuo padre.»

Lo sguardo di Angela era dilatato, scintillante, imbrattato, incollerito. Niente litigi, per l’amor di Dio, con una donna disperata. Pur tuttavia, Sammler a qualcosa stava arrivando. Teneva il corpo esile ben eretto, rigido; le sopracciglia grigio-zenzero piovevano sulla fievole luce colorata dei suoi occhiali.

«Non mi piace l’opinione che credo tu abbia di me» disse lei.

«E perché dovrebbe avere importanza in un giorno come questo? Be’, forse, in effetti mi sembra che oggi dovrebbe essere diverso. Forse se ci trovassimo in India o in Finlandia il nostro umore non sarebbe esattamente lo stesso. New York fa pensare al collasso della civiltà, a Sodoma e Gomorra, alla fine del mondo. La fine, qui, non costituirebbe una sorpresa per nessuno. Molte persone ci contano. E io non so se il genere umano sia poi realmente tanto peggio. In una sola giornata Cesare massacrò i Tencteri, quattrocentotrentamila anime. Persino Roma ne fu atterrita. Non sono sicuro che il nostro sia il peggiore di tutti i tempi. Ma è nell’aria adesso che le cose si stanno sfasciando, e anch’io ne vengo intaccato. Ho sempre odiato la gente che dichiarava che la fine era giunta. Cosa ne sapevano loro della fine? Da quanto ho potuto sperimentare personalmente, dalla tomba, se posso dire così, io ne sapevo qualche cosa. Ma mi sbagliavo del tutto, nel modo più assoluto. Chiunque può sentire la verità. Ma supponi che sia vero – vero, e non uno stato d’animo, non ignoranza o piacere distruttivo o il fato avverso auspicato da coloro che hanno impasticciato tutto. Supponi che sia così. Esiste ancora una cosa chiamata uomo – o comunque c’era. Esistono ancora delle qualità umane. La nostra debole specie ha combattuto la propria paura, la nostra specie mentecatta ha combattuto la propria criminalità. Noi siamo animali di genio.»

Questa era una cosa a cui pensava spesso. Per il momento era soltanto una formula. Non la sentiva interamente.

«Ok, Zio.»

«Ma noi non dobbiamo decidere se il mondo stia per finire o no. Il fatto è che per tuo padre è la fine.»

«Ma perché lo ribadisci, come se io non lo sapessi? Che cosa vuoi da me?»

In effetti, che cosa? Da lei, seduta là, con i seni in mostra, emanante odori di donna, occhi grandi praticamente diventati tutt’uno, tormentata e in quel momento stranamente tartassata da Cesare e i Tencteri, da idee. Ma lasciamola stare, povera creatura. Poiché ora lei pretendeva di essere una povera creatura. E lo era. Però lui non poteva lasciarla stare – non ancora.

«Di regola questi aneurismi provocano una morte istantanea» disse Sammler. «Con Elya si è verificato un ritardo, che ci offre un’opportunità.»

«Un’opportunità? Che vuoi dire?»

«Una possibilità di risolvere determinate cose. E ha reso tuo padre realistico, gli ha fatto guardare in faccia fatti che erano oscuri.»

«Fatti riguardanti me, per esempio? Non voleva sapere sul serio le cose che mi riguardano.»

«Sì invece.»

«Ma dove vuoi arrivare?»

«È necessario che tu faccia qualcosa per lui. È un bisogno che lui ha.»

«E che cosa sarebbe questa cosa che dovrei fare?»

«Dipende da te. Se gli vuoi bene, puoi trasmettergli qualche segnale. È addolorato. È imbestialito. È deluso. E io non credo veramente che sia la faccenda del sesso. In questo momento quella può benissimo essere una considerazione trascurabile, banale. Ma non vedi, Angela? Non dovresti fare molto. E tuo padre avrebbe un’ultima possibilità di riaversi.»

«Da quanto posso capire, sempre che abbia senso quello che dici, tu vorresti una di quelle scene all’antica sul letto di morte.»

«Che importanza ha il nome che le dai?»

«Gli dovrei chiedere di perdonarmi? Ma dici sul serio?»

«Nel modo più assoluto.»

«Ma come potrei farlo – è un controsenso. Tu stai parlando con la persona sbagliata. Anche per mio padre sarebbe troppo sfacciatamente melodrammatico. Non vedo come potrebbe funzionare.»

«È stato un buon uomo. E adesso verrà spazzato via. Non puoi pensare a qualche cosa da dirgli?»

«Che cosa c’è da dire? E tu non riesci a pensare ad altro che alla morte?»

«Ma è questo che ci aspetta.»

«E tu non la smetterai. Lo so che adesso dirai qualcos’altro. Be’, dillo, allora.»

«Senza peli sulla lingua?»

«Senza peli sulla lingua. Meno sono, meglio è.»

«Io non so che cosa è avvenuto in Messico. I particolari non hanno importanza. Noto semplicemente la peculiarità del fatto che sia possibile essere allegri, amorosi e intimi con persone conosciute durante una vacanza. Ricreazioni, amplessi sessuali di gruppo, fellatio con degli sconosciuti – uno riesce a fare questo ma non a trovare un punto d’incontro col proprio padre quando ne ha solo un’ultima opportunità. Elya ha riversato una quantità immensa di amore su di te. È probabile che il grosso del suo amore sia andato a te. Se tu, in qualche modo, riuscirai a vedere questo e cercare di contraccambiare…»

«Zio Sammler!» Era fuori di sé.

«Ah, sei arrabbiata. Naturalmente.»

«Tu mi hai offeso. È da un po’ che ci provi. Be’, adesso ci sei riuscito: mi hai offeso, Zio Sammler.»

«L’obiettivo non era questo. Io credo soltanto che ci sono delle cose che tutti sanno, e che debbono sapere.»

«Per l’amor di Dio, smettila.»

«Non m’immischierò più negli affari degli altri.»

«Tu conduci una vita speciale in quella tua stamberghetta. Deliziosa, ma questo che cosa ha a che fare con tutto il resto? Io credo che tu le finalità e le esistenze delle altre persone non le capisca. Che cosa vuoi dire a proposito della fellatio? Che ne sai tu di una cosa del genere?»

Be’, non aveva funzionato. Quel che lei gli rinfacciava era proprio quello che gli aveva rinfacciato quel giovanotto della Columbia University, strillando come un ossesso. Era tagliato fuori. Un vecchio asciutto, alto, poco simpatico, censorio, che si dava delle arie. Ma chi cavolo si credeva di essere? Hors d’usage. Contro il muro. À la lanterne! Molto bene. Ne aveva abbastanza. Forse non avrebbe dovuto provocare Angela così dolorosamente. Ormai anche lui era scosso da un forte tremito.

L’infermiera grigia in quel momento entrò, e chiamò Sammler al telefono. «Lei è Mr. Sammler, vero?»

Sussultò. Si alzò in piedi di scatto. «Ah! Chi è che mi vuole? Chi è?» Non sapeva cosa aspettarsi.

«La telefonata è per Lei. Sua figlia. Può ricevere la chiamata fuori, all’ingresso.»

«Sì, Shula, sì?» disse il padre. «Parla, su, cosa c’è? Dove stai?»

«A New Rochelle. Dov’è Elya?»

«Lo stiamo aspettando. Che cos’è che vuoi adesso, Shula?»

«Hai sentito di Wallace?»

«Sì, ho sentito.»

«Ha fatto veramente una cosa strepitosa portando a terra quell’aereo senza ruote.»

«Sì, magnifica. Non c’è dubbio, è un ragazzo meraviglioso. Ora, Shula, ascoltami, voglio che tu venga via di lì. Non ti devi mettere a perquisire la casa, capito? Non ne hai alcun diritto. Volevo che tu tornassi in città con me. Non dovresti disobbedirmi.»

«Ma non me lo sogno neppure.»

«Però l’hai fatto.»

«Non è vero. Se non siamo dello stesso parere, è nel tuo interesse.»

«Shula, non fare questi giochetti con me. Basta adesso con questi miei interessi. Lasciali perdere. Tu hai chiamato la clinica con uno scopo. Ho paura di cominciare a capire.»

«Sì, Papà.»

«Ci sei riuscita!»

«Sì, Papà, non ne sei contento? Nel… indovina dove? Nello studiolo dove hai dormito tu. Nel puf dove ti sei seduto stamattina. Quando ti ho portato il caffè e ti ho visto, ho detto: “È lì che stanno i soldi”. Ero quasi sicura, quasi. E così quando tu te ne sei andato, sono tornata qui e l’ho aperto, ed era pieno, pieno di soldi. L’avresti mai pensato del Cugino Elya? Io sono rimasta sorpresa. Non ci volevo proprio credere. Il puf era imbottito di pacchi di bigliettoni da cento dollari. L’imbottitura era fatta di soldi.»

«Oh, Signore mio.»

«Non li ho contati» disse lei.

«Guarda che non ti permetto di dire bugie.»

«E va bene, li ho contati. Però io non me ne intendo molto di soldi. Non capisco gli affari, io.»

«Hai parlato al telefono con Wallace?»

«Sì.»

«E gliel’hai detto?»

«Non ho detto una parola.»

«Bene, molto bene, Shula. Pretendo che tu li consegni a Mr. Widick. Telefonagli e digli di venirseli a prendere, e digli anche che vuoi una ricevuta.»

«Papà!»

«Sì, Shula.»

Sammler aspettò. Sapeva che, reggendo stretto uno di quei telefoni bianchi di New Rochelle, Shula stava schierando i suoi argomenti, stava dominando il proprio risentimento per la sua antiquata ostinazione di padre di vecchi tempi e per la sua stupida rettitudine. A spese di lei. Lui sapeva benissimo quello che la figlia stava provando. «Ma di che cosa vivrai, Papà, quando Elya non ci sarà più?» disse lei.

Un’ottima domanda, una domanda astuta, pertinente. Con Angela lui aveva perduto, l’aveva infuriata. Sapeva ciò che gli avrebbe detto: «Non ti perdonerò mai, Zio». E per di più, davvero, mai lo avrebbe perdonato.

«Vivremo con quello che c’è.»

«Ma supponi che non lasci nessuna disposizione per noi?»

«Sarà quello che desidera lui. Dipende interamente da lui.»

«Ma noi facciamo parte della famiglia. Tu sei la persona che gli è più vicina.»

«Tu farai come ti dico.»

«Ascoltami, Papà. Bisogna che io abbia cura di te. Tu non mi hai detto neppure una parola a proposito del mio ritrovamento di questi soldi.»

«Sei stata davvero molto sagace, accidenti, Shula. Sì, sì. Congratulazioni. Sei stata in gamba.»

«Ma è vero, sai? sul serio. Ho osservato come si gonfiava il puf quando tu ci stavi seduto sopra, sai, non come tutti gli altri puf, e quando l’ho tastato di qua e di là ho sentito i soldi che frusciavano. Da quel rumore, ho capito subito di che cosa si trattava. Naturalmente a Wallace non gli ho detto niente. Quello li sperpererebbe in una settimana. Io pensavo di comprarmi qualcosa da vestire. Se mi vestissi da Lord and Taylor, forse sarei un tipo meno eccentrico, e avrei qualche possibilità con qualcuno.»

«Qualcuno come Govinda Lal.»

«Sì, perché no? Io ho cercato di rendermi più interessante possibile con i mezzi che avevo a disposizione.»

Suo padre era stupefatto da tutto questo. Un tipo eccentrico? Allora Shula aveva consapevolezza di se stessa? C’era, dopotutto, anche in lei, un grado di scelta. Parrucca, caccia ai rifiuti, borse per la spesa, in un certo senso erano intenzionali. Era quello che voleva dire? Che cosa affascinante!

«E penso» stava dicendo Shula «che noi ce li dovremmo tenere questi soldi. Credo che Elya sarebbe d’accordo. Io sono una donna senza marito, e non ho mai avuto figli, e questi soldi provengono dal fatto d’impedire ai figli di venire al mondo, e secondo me è più che giusto che li prenda io. Anche per te, Papà.»

«Ho paura di no, Shula. Elya probabilmente ne avrà già parlato a Mr. Widick, di questo denaro. Mi dispiace. Ma noi non siamo ladri. Non è denaro nostro. Dimmi quant’era la somma.»

«Ogni volta che li conto, è diverso.»

«Quanti erano l’ultima volta?»

«Sei o ottomila dollari. Li ho messi tutti sul pavimento. Ma ero troppo eccitata per contarli bene.»

«Immagino che siano parecchi, parecchi di più, e non posso permettere che tu ne tenga nemmeno un penny per te.»

«Va bene, non lo farò.»

Naturalmente l’avrebbe fatto, di questo era sicuro. Come collezionista di scarti, cacciatrice di tesori, non sarebbe stata capace di lasciarli andare tutti.

«Devi consegnare ogni centesimo a Widick.»

«Sì, Papà. È doloroso, ma lo farò. Li darò a Widick. Secondo me fai uno sbaglio.»

«Nessuno sbaglio. E non sparire come hai fatto col manoscritto di Govinda.»

Troppo tardi per essere tentato. Ancora un altro desiderio che svaniva. Ci mancò poco che non sorridesse a se stesso.

«Ciao, Shula. Sei una brava figlia. La migliore che si possa immaginare. Non c’è figlia migliore di te.»

Wallace, dunque, aveva avuto ragione sul padre. Aveva fatto dei favori alla mafia. Eseguito delle operazioni. I soldi esistevano sul serio. Non c’era tempo per pensare a tutto questo, ad ogni modo. Riagganciò il telefono e si allontanò dal piano di marmo per scoprire che il dottor Cosbie lo stava aspettando. L’ex divo del football nel suo camice bianco teneva il labbro superiore premuto contro quello inferiore. La faccia esangue e gli occhi azzurro gas erano stati addestrati a trasmettere messaggi da chirurgo. Il messaggio era chiaro. Era finito tutto.

«Quand’è morto?» disse Sammler. «In questo preciso momento?»

Mentre stavo stupidamente cercando di convincere Angela!

«Poco fa. L’avevamo fatto scendere nel reparto speciale, per non lasciare nulla d’intentato.»

«Non c’era nulla che poteste fare contro un’emorragia, capisco, sì.»

«Lei è suo zio. Mi ha chiesto di dirLe addio.»

«Vorrei tanto averlo potuto fare anch’io. E quindi non è accaduto tutto a un tratto?»

«Lui sapeva che stava cominciando. Era un medico. Lui lo sapeva. Mi ha chiesto di portarlo fuori dalla stanza.»

«Gliel’ha chiesto lui?»

«Era chiaro che voleva risparmiare la figlia. E così io ho detto che dovevamo fare degli esami. È la signorina Angela?»

«Sì, Angela.»

«Lui ha detto che preferiva il piano di sotto. Sapeva che tanto ce l’avrei portato lo stesso.»

«Naturale. Essendo un chirurgo, Elya lo sapeva. Indubbiamente sapeva che l’operazione era inutile, tutta quella tortura di mettergli una vite in gola.» Sammler si tolse gli occhiali. Gli occhi, uno dei quali una bolla priva di vista, sotto i peli delle sopracciglia spioventi erano alla stessa altezza di quelli del dottor Cosbie. «Naturalmente era inutile.»

«La procedura era corretta. Questo lui lo sapeva.»

«Mio nipote amava compiacere. Certo che lo sapeva. Forse, però, sarebbe stato il caso di non fargli passare tutte quelle pene.»

«Immagino che voglia entrare Lei a dirlo alla signorina Angela?»

«La prego di dirlo Lei alla signorina Angela. Quello che voglio è vedere mio nipote. Come faccio per trovarlo? Mi indichi dove devo andare.»

«Dovrà aspettare a vederlo nella cappella, signore. Non è permesso.»

«Giovanotto, è importante, e Le consiglio di permettermelo. Dia retta a me. Sono deciso a farlo. Non facciamo una scenata qui nel corridoio. La cosa non Le piacerebbe, no?»

«Perché, Lei la farebbe?»

«Certamente.»

«Manderò la sua infermiera ad accompagnarLa» disse il dottore.

Scesero in ascensore, la donna grigia e Mr. Sammler, e attraversando corridoi dal soffitto basso con pavimenti rivestiti di materiale picchiettato, attraverso tunnel, su e giù per rampe e piccole salite, oltrepassarono laboratori e magazzini dei medicinali. Ebbene, questa famosa verità che gli premeva tanto, adesso l’aveva, o era lei ad avere lui. Sentiva che qualcosa lo stava distruggendo, o perlomeno distruggeva ciò che di lui rimaneva. Pianse dentro di sé. Camminava con l’abituale andatura veloce, attendendo, ai punti d’incrocio, l’infermiera che lo accompagnava. In un’aria viva che odorava di cose del corpo, di malattia, di medicine. Sentiva che stava rompendosi, che grossi irregolari frammenti dentro di sé si stavano liquefacendo, mandando scintille di dolore, scomparendo. Ebbene, Elya se n’era andato. Sammler era stato privato di un’altra cosa ancora, spogliato di un’altra creatura ancora. Un’altra ragione per vivere sgocciolava via. Gli mancò il fiato. Poi la donna lo raggiunse. Altre centinaia di metri in questo sotterraneo serpeggiante che odorava di siero, di zuppa organica, di fungus, di miscela di cellule. L’infermiera gli prese il cappello e disse: «Là dentro». Sul cartello appeso alla porta si leggeva: P.M. Voleva dire post mortem. Erano pronti a eseguire l’autopsia non appena Angela avesse firmato le carte necessarie. E naturalmente le avrebbe firmate. Cerchiamo di scoprire che cos’è che è andato storto. E poi la cremazione.

«Per vedere il dottor Gruner. Dove?» disse Sammler.

L’inserviente indicò la lettiga su cui giaceva Elya. Sammler gli scoprì la faccia. Le narici, le pieghe erano molto scure, gli occhi chiusi, pallidi e pieni, la testa calva fortemente segnata da gradienti di rughe. Sulle labbra si scorgevano amarezza e risentimento unite a un’espressione di obbedienza.

Sammler, in un sussurro mentale, disse: “Be’, Elya. Be’, be’, Elya”. E poi nello stesso modo disse: “Ricorda, Dio, l’anima di Elya Gruner, che, con la maggior volontà possibile, e nel modo migliore di cui era capace, e al limite dell’intollerabilità, e persino nel soffocamento e persino mentre la morte giungeva vicina, era più che ansioso, anche infantilmente forse (che io possa essere perdonato per questo), persino con una certa servilità, di fare ciò che gli veniva richiesto. Nei suoi momenti migliori quest’uomo è stato molto più gentile di quanto io sia mai stato o sia mai stato capace di essere nei miei momenti migliori. Lui sapeva che doveva rispettare, e le ha rispettate – attraverso tutta la confusione e le abbrutite buffonate di questa vita in cui noi corriamo a precipizio –, ha rispettato le condizioni del suo contratto. Le condizioni che, nel più profondo del suo cuore, ogni uomo conosce. Come io conosco le mie. Come tutti conoscono le loro. Poiché tale è la verità di tutto questo – che tutti noi conosciamo, Dio, che conosciamo, che conosciamo, conosciamo, conosciamo”.

FINE