lunedì 25 novembre 2024

IL SIPARIO Milan Kundera


IL SIPARIO

Milan Kundera


Recensione
Marco Cremonini,
https://2000battute.wordpress.com/2012/10/03/il-sipario-milan-kundera/
Tecnicamente questo è un saggio sull’arte del romanzo e una storia dell’arte del romanzo, ma è anche scritto da Milan Kundera, non un semplice saggio; sono pochissimi quelli che ancora sanno scrivere come lui e soprattutto quelli che ancora oggi, nel 2012, rimangono dei grandi scrittori del Novecento, con quelle radici Ottocentesche che profumano di arte in un mondo che inizia a correre verso un destino tumultuoso; radici però attraversate dalle cicatrici spesse del Novecento, grossi vermi carnosi che strisciano sotto l’epidermide di ogni ideale e quando escono alla luce stendono un velo di bava traslucida davanti allo sguardo.
L’uomo del Novecento ha memoria, è memoria; ricorda e crea impastando ricordi e immagini e riflessioni. L’uomo del Novecento è un uomo vecchio e un uomo libero.
La libertà di un giovane e la libertà di un vecchio, infatti, sono continenti che non si incontrano.
«Da giovane, sei forte in compagnia, da vecchio, in solitudine» diceva Goethe (il vecchio Goethe) in un epigramma.
e ancora
È così che vede il mondo un uomo adulto che ha alle spalle una grande esperienza della «natura umana» (che guarda la vita con la sensazione di rivedere pellicole cinematografiche già viste) e che, da tempo, ha smesso di prendere sul serio la serietà degli uomini.
Questo è un libro bellissimo, per chiunque ami i romanzi e l’arte del romanzo, per chiunque abbia amato quegli autori dei quali Kundera è figlio; quelli della grande tradizione mitteleuropea (definizione geopolitica che Kundera disdegna), Hermann Broch de I sonnambuli, Witold Gombrowicz di Ferdydurke e Robert Musil di Uomo senza qualità —sì lo so, ne ho appena parlato male commentando Tre donne, ma come ho scritto in quel commento, le Waterloo degli scrittori scivolano nell’oblio e solo i loro capolavori fanno la storia della letteratura—e da loro voglia risalire alle radici, Kafka, ancora prima Stifter, e poi ancora indietro verso la Francia, Flaubert, su in Russia dove scriveva Dostoevskij, ancora indietro lungo quelle radici lunghissime e frastagliate, verso Balzac e di nuovo su al Nord, a incontrare il grande vecchio Tolstoj e ancora indietro e indietro; l’arte del romanzo ha generato figli e discendenze, tutte partorite dalle parole dei predecessori e plasmati dal proprio tempo, ogni romanzo è figlio degli avi e del suo momento; Milan Kundera ripercorre questa linea di sangue che ha cambiato il volto degli uomini e del mondo scrivendo degli uomini e del mondo che hanno reso il romanzo quell’arte meravigliosa, fino ai primi, i capostipiti, i due dai quali tutti i romanzi discendono, quelli dalle cui penne prodigiose, poco meno di cinquecento anni fa, tutto è nato: François Rabelais col Gargantua e Pantagruel e Miguel de Cervantes col Don Chisciotte della Mancia.
Prima di loro il romanzo non esisteva. Prima c’erano solo le epopee e i versi.
Kundera ce la spiega così la grande differenza.
I personaggi romanzeschi non chiedono di essere ammirati per le loro virtù.
Chiedono di essere compresi, il che è completamente diverso. Gli eroi dell’epopea vincono o, se sono sconfitti, conservano sino all’ultimo respiro la loro grandezza. Don Chisciotte è sconfitto. E senza grandezza alcuna. Perché d’un tratto tutto è chiaro: la vita umana in quanto tale è una sconfitta. Di fronte all’ineluttabile sconfitta che chiamiamo vita non resta che cercare di comprenderla. In questo risiede la ragion d’essere dell’arte del romanzo.
Non si spaventi nessuno o si irrigidisca o qualche cosa d’altro se ho usato le parole “saggio” e “storia” per introdurre questo libro. Niente di più distante dal tomo aulico e barboso tipico degli studi letterari. Questo Il sipario è un racconto, avvincente e scritto in modo sublime: è il racconto della storia del Romanzo.
Il personaggio principale è lui, poi ci sono tutti gli altri, i grandi romanzieri, un po’ ve li ho citati, ma se ne incontrano ancora: Sterne, Joyce, Camus, Proust, passando perfino da Fellini, che anche se non c’entra coi romanzi c’entra con la libertà di espressione della propria arte, e pure Jaroslav Hašek con il suo unico grande libro Il buon soldato Sc’vèik.
Euripide non arrivava al punto di trovare comica la guerra di Troia. L’ha fatto un romanzo. Il soldato Švejk di Hašek aderisce così poco agli scopi della guerra che non li contesta neppure; non li conosce; non cerca di conoscerli. La guerra è spaventosa ma lui non la prende sul serio. Non si prende sul serio ciò che non ha senso. 
Milan Kundera racconta la storia dell’arte del romanzo rintracciando le svolte che ogni epoca o contesto ha impresso sul modo di scrivere in prosa, le invenzioni che hanno spalancato porte attraverso le quali la scrittura si è infilata con le generazioni successive, fino alla nuova porta e così via.
Per Kundera il romanzo non è un «genere letterario», “un ramo fra i rami di un albero.”
È impossibile capire il romanzo se gli si nega una sua specifica Musa, se non lo si considera un’arte sui generis, un’arte autonoma.
Kundera racconta e riflette in questo Il sipario, decora di luci l’arte del romanzo vista come una lunga e incessante marcia degli scrittori per andare «all’anima delle cose» attraverso le parole, via via aprendo nuovi squarci, svelando prospettive diverse, liberando la fantasia e rifiutando ogni canone interpretativo, il sipario della preinterpretazione, lo definisce lui.
Come con la storia del signor Engelbert, ambientata nel 1920 e scritta da Jaroslaw John, un romanziere cosiddetto minore, che è la condizione nella quale si trovano quasi tutti i romanzieri tranne pochissimi.
Nel suo romanzo, il signor Engelbert è ossessionato dal rumore dei «mostri a scoppio», quelle prime, poche automobili che avevano iniziato a circolare. È talmente ossessionato che inizia a fuggire, cerca scampo, sollievo in ogni dove, alla fine lo trova sui treni, cullato dallo sferragliare antico.
Con ciò il “modesto” Jaroslaw John ha strappato il sipario della preinterpretazione e ha svelato una verità. Anche un romanziere minore può essere un romanziere vero, come i grandi, perfino come Cervantes, come chi ha strappato sipari tanto vasti che neppure ci si rendeva conto della loro esistenza.
Bello bellissimo.
Ne possiamo dedurre una regola generale: la portata esistenziale di un fenomeno sociale si percepisce con la massima intensità non nel momento della sua espansione, ma quando è agli inizi, incomparabilmente più debole di quanto non sarà in futuro. Nietzche osserva che nel XVI secolo in nessun luogo al mondo la Chiesa era poco corrotta come in Germania, e che proprio per questo vi nacque la Riforma: infatti, solo «gli albori della corruzione erano sentiti come intollerabili». Paragonata a quella di oggi, la burocrazia dell’epoca di Kafka era un bambino innocente; eppure è stato Kafka a scoprirne la mostruosità, che da allora è diventata banale e non interessa più a nessuno. Durante gli anni Sessanta del XX secolo alcuni brillanti filosofi hanno sottoposto «la società dei consumi» a una critica che col trascorrere degli anni è stata superata dalla realtà in maniera così caricaturale che vi facciamo riferimento non senza un certo imbarazzo. Bisogna infatti ricordare un’altra regola generale: mentre la realtà si ripete senza alcuna vergogna, il pensiero, di fronte alla ripetizione della realtà, finisce sempre per tacere.
Nota: chi volesse un assaggio triplo-concentrato di quello che Kundera dice in questo libro può leggere (in inglese) il pezzo che scrisse per il New Yorker dell’8 gennaio 2007.
IL SIPARIO

Coscienza della continuità
Su mio padre, che era musicista, circolava un aneddoto. E con degli amici in un posto dove, da una radio o da un grammofono, risuonano gli accordi di una sinfonia. Gli amici, tutti musicisti o melomani, riconoscono immediatamente la Nona di Beethoven. Chiedono a mio padre: «Che cos’è questa musica?». E lui, dopo una lunga riflessione: «Si direbbe Beethoven». Tutti trattengono le risate: mio padre non ha riconosciuto la Nona sinfonia! «Ne sei sicuro?». «Sì, dice mio padre «Beethoven dell’ultimo periodo». «Come fai a sapere che è l’ultimo periodo?». A questo punto mio padre attira la loro attenzione su un certo passaggio armonico che un Beethoven più giovane non avrebbe mai potuto utilizzare.
L’aneddoto è senza dubbio solo un’invenzione maliziosa, ma chiarisce bene che cosa sia la coscienza della continuità storica, uno dei segni che distinguono l’uomo appartenente a quella che è (o era) la nostra civiltà. Ai nostri occhi, tutto assumeva il carattere di una storia, appariva come una sequenza più o meno logica di fatti, di atteggiamenti, di opere. Quando ero molto giovane, conoscevo, in modo del tutto naturale, senza alcuno sforzo, l’esatta cronologia delle opere dei miei autori preferiti. Impossibile pensare che Apollinaire abbia scritto Alcool dopo Calligrammi: in tal caso, infatti, sarebbe un altro poeta e la sua opera avrebbe un altro senso! Mi piace ogni quadro di Picasso preso di per sé, ma anche l’insieme dell’opera di Picasso intesa come un lungo cammino di cui conosco a memoria la successione delle tappe. Le celebri domande metafisiche: da dove veniamo?, dove andiamo? hanno, in arte, un senso chiaro e concreto, e non restano affatto senza risposta.