giovedì 14 novembre 2024

IL CODINO DEL BARONE DI MÜNCHHAUSEN Paul Watzlawick

 


IL CODINO DEL BARONE DI MÜNCHHAUSEN 

Paul Watzlawick 

Il Barone di Münchhausen in groppa al suo destriero sta per sprofondare nella palude: "senza fallo vi sarei dovuto morire, se la forza del mio braccio, afferrandomi per il codino, non mi avesse estratto dalla melma assieme al cavallo, che stringevo forte tra le ginocchia". Così scriveva Rudolf Erich Raspe nel suo classico per ragazzi “Le avventure del barone di Münchhausen”, che tanto mi era piaciuto da piccolo e di cui, verosimilmente, le nuove generazioni hanno perso traccia. Per questa ragione non ho potuto che mettermi a leggere questo libro.

E' possibile tirarsi fuori dalla propria particolare prospettiva e vedere il mondo "con nuovi occhi", per così dire dall'esterno?.

I capitoli di questo libro, che raccoglie saggi e relazioni di Paul Watzlawick, si occupano di "stili di vita" che rendono ciechi non solo gli individui, ma interi sistemi relazionali umani (famiglia, aziende, sistemi sociali e politici) nei confronti di possibilità alternative. L'autore mostra, con molti esempi, come attraverso una nuova formulazione di vecchie immagini del mondo possano sorgere "nuove realtà".

“Se i fatti non concordano con la teoria, allora tanto peggio per i fatti”, avrebbe detto Hegel. In altri termini: se una teoria viene a un certo punto accettata come “vera”, i fatti che la contraddicono devono essere senza significato oppure sbagliati, o – cosa ancora più pericolosa – possono condurre a un raffinamento della teoria ma non alla sua verifica “dai fondamenti”. Si dedica molto tempo e si scrivono tanti libri e articoli per dimostrare inoppugnabilmente che una determinata teoria è giusta e tutte le altre sono quindi sbagliate. Ma lo scopo della ricerca scientifica non è e non può essere la scoperta della verità. Per la verità eterna non vi è posto nella scienza – soprattutto non in un campo tanto enigmatico come quello dell’esperienza psichica e spirituale. L’unico criterio plausibile è se un approccio è più o meno efficace di un altro…

L'autore affronta e indaga in profondità ma con un linguaggio accessibile anche a chi sia completamente profano in materia, il tema centrale, ossia la natura e le forme delle relazioni umane, la regolarità e le patologie dei sistemi relazionali, le forme patogene di comunicazione, la trasformazione dell’immagine umana nella psichiatria, il trattamento delle patologie e via discorrendo. E lo fa prendendo simbolicamente le mosse da un noto personaggio reale del diciottesimo secolo, celebre per i suoi inverosimili racconti e ispiratore di tantissima letteratura e filmografia oltre che del nome di un disturbo psichiatrico in cui le persone colpite fingono una malattia o un trauma psicologico per attirare attenzione e simpatia. Si tratta, di uno dei titoli più conosciuti di Paul Watzlawick,  seguace del costruttivismo, che ritiene che la conoscenza sia una costruzione dell'esperienza personale e non la rappresentazione di una realtà indipendente, e fautore della psicologia fondata sul concetto di sistema, ossia un insieme di parti che costituiscono tra loro relazioni tali che il comportamento di esse risulti determinato dal legame in cui sono coinvolte, è uno dei maggiori sociologi, psicologi, filosofi e studiosi della comunicazione della storia.

[...]È reale ciò che viene definito tale da un numero sufficientemente alto di essere umani. In questa occasione estrema la realtà è una convenzione interpersonale, proprio come l'uso di una lingua si basa sull'accordo tacito e per lo più assolutamente inconscio che determinati suoni e segni abbiano un ben preciso significato. La realtà di una banconota, per esempio, non consiste tanto nel fatto di essere un pezzo di carta stampato a vari colori, bensì nell'accordo interpersonale secondo cui tale oggetto rappresenta un valore specifico.[...]

[...]Noi siamo nati in una certa realtà, e ingenuamente supponiamo che sia la realtà reale, magari fino al momento in cui esperiamo un’altra cultura, che bruscamente ci strappa dalla nostra supposizione troppo semplicistica. Riconosciamo allora con sorpresa – e nella maggior parte dei casi con disprezzo – che in altri paesi vi sono altri modi di vedere la realtà, e di solito finiamo per concludere: “È una follia!”, proprio come gli abitanti di quei paesi considerano folle, per parte loro, la nostra visione della realtà. Nell’antica Grecia l’omosessualità era considerata una forma particolarmente sublime dell’amore umano; in India può essere considerato santo un uomo al quale in Occidente verrebbe fatta una diagnosi di catatonia. Da ciò deriva che l’eccentricità, la malvagità, la follia, non sono più attributi della monade, ma il risultato di inconciliabili realtà di secondo ordine e della impossibile riduzione del conflitto al singolo individuo, escludendo il contesto interpersonale.[...]


IL CODINO DEL BARONE DI MÜNCHHAUSEN 

1. Natura e forme delle relazioni umane

Il capitolo 1 si basa sui risultati della collaborazione all’interno del cosiddetto “Palo Alto Group”, cui si è fatto cenno nella prefazione, ma si riferisce anche all’ulteriore sviluppo degli aspetti cibernetici, sistemico-teorici e pragmatici della comunicazione umana e dei suoi problemi.


Cibernetica, teoria generale dei sistemi e pragmatica come base dello studio dei rapporti umani

Poniamo che una persona assolutamente inesperta di scacchi osservi in un paese straniero altre due persone intente in un’attività chiaramente simbolica: muovere delle figure su di una tavola. Poiché questa persona non parla la lingua locale, non può chiedere ai due spiegazioni del loro comportamento. Gli è però possibile dedurre, tramite un’osservazione sufficientemente lunga del decorso comportamentale tra i due giocatori (presumibilmente dopo parecchie partite) tutte le regole del gioco degli scacchi e riconoscere lo scaccomatto come suo traguardo. Egli giungerà a ciò attraverso il riconoscimento delle leggi che regolano il comportamento dei giocatori e la constatazione che certe forme comportamentali (mosse) compaiono spesso con certe figure e mai con altre. Gli è in altre parole chiaro che i giocatori seguono determinate regole deducibili dall’osservazione.


Dobbiamo tenere presente questo fatto: l’osservatore ha tratto le proprie conclusioni senza poter chiedere informazioni dirette. Ha raggiunto questo risultato senza la necessità di attribuire al gioco stesso un qualunque profondo significato o di dare una spiegazione anche solo a livello di senso comune. Il risultato delle sue osservazioni è piuttosto una serie di semplici regole (una “grammatica” o un algoritmo, un calcolo, un codice, un programma o pian) (Miller, Galanter e Pribram 1984), valida per la miriade di possibili varianti comportamentali tra i giocatori. E, infine, l’osservatore è stato in grado di dedurre le regole del gioco indipendentemente da qualsiasi comprensione dei motivi, delle intenzioni, dei sentimenti o della personalità dei giocatori. Si può cercare di inquadrare questo procedimento sulla base di tre punti di vista che si completano a vicenda:


1. Per quanto si consideri qui la totalità delle possibili forme comportamentali e si esamini l’esistenza di leggi nella comparsa o meno di queste forme, il metodo è cibernetico. Ciò che vi è di fondamentalmente nuovo nella cibernetica è proprio il fatto che essa non analizza le proprietà di elementi isolati, bensì le interazioni tra queste componenti. Così, per esempio, Ashby (1956) nella sua discussione sulle trasformazioni (cambiamenti di stato), rimanda al fatto che, da un punto di vista cibernetico, non è importante né definire in che cosa consistano “realmente” i cambiamenti, né esaminare i motivi del cambiamento subentrato; essenziali sono soltanto l’enunciazione di una serie di operandi e la descrizione dei loro cambiamenti di stato. Con ciò il cambiamento fa riferimento a ciò che si verifica e non al perché ciò si verifichi.


2. Per quanto l’osservatore colga come totalità i due giocatori e il loro reciproco comportamento, il suo procedere è sistemico. Ovunque delle totalità diventino oggetto di analisi, ne risulta che esse soggiacciono nella loro struttura, effetto ed eventuale fallimento all’esistenza di leggi che sono più complesse e di natura diversa rispetto a quanto si possa dedurre dalla somma delle qualità delle loro singole componenti. Il biologo von Bertalanffy (1950) ha basato su questa constatazione fondamentale la sua teoria generale dei sistemi, il cui intento è chiaramente la ricerca di isomorfismi nel comportamento di totalità, comunque esse siano composte: di atomi, molecole, cellule, aggregati cellulari, organismi, individui, società, civiltà, ecc.


3. Ma l’ordine che risiede in tutti i sistemi presuppone che in essi tutte le parti, reciprocamente, si trovino in rapporti determinati e che quindi comunichino tra loro. Per quanto egli abbia indagato il comportamento comunicazionale dei giocatori (le loro mosse) e cioè l’uso di segni (le figure degli scacchi) e la loro azione su coloro che usano i segni (i giocatori), il comportamento dell’osservatore ricade nell’ambito della pragmatica.


Delle tre discipline appena citate la pragmatica è senza dubbio la più importante per la comprensione dei rapporti umani. Morris l’ha definita come quel settore specifico della semiotica (la teoria generale dei segni e delle lingue), che tratta dell’uso dei segni e del loro effetto su coloro che li utilizzano. Morris si richiama, tra gli altri, a Peirce (1966), Gallie (s.d.), James (1966), Dewey (1968) e Mead (1986) mentre la sua opera ha influito, a sua volta, sul Circolo di Vienna dei positivisti logici (Kraft 1969), tra i quali si deve citare soprattutto Carnap (19522, 1966). Anche per Carnap la ricerca su un linguaggio non si limita allo studio della sua struttura formale (la sintassi) ma si estende anche al suo rapporto con gli oggetti individuati per suo mezzo (semantica) e con gli individui che la usano (pragmatica). Per quanto riguarda l’interdipendenza di questi tre campi, a causa della sua facilità a essere ricordata, è utile la formulazione della semiotica proposta da George (1962), secondo cui “è per molti versi corretto affermare che la sintassi corrisponde alla logica matematica, la semantica alla filosofia oppure alla teoria della scienza e la pragmatica alla psicologia; tuttavia questi campi non sono chiaramente separabili l’uno dall’altro”. Sullo stesso tema Cherry (1967) osserva nel suo libro sulla ricerca comunicazionale che questi tre settori specifici non sono completamente indipendenti l’uno dall’altro, “ma si incrociano invece, così come si incrociano, per esempio, la chimica, la geologia e la fisica”.


Purtroppo la scarsa letteratura sulla pragmatica si occupa quasi esclusivamente del rapporto tra l’utente di un segno (quindi il mittente o il destinatario) e il segno stesso. Ci sembra tuttavia non solo lecito, ma indispensabile considerare la triade mittente-segno-destinatario come la più piccola unità di ogni ricerca pragmatica e trattarla quindi come indivisibile. L’intento di questo studio non è quello di rispondere al buon vescovo Berkeley che si chiedeva se l’albero che cade nella foresta solitaria provochi un fragore anche quando non vi sia nessuno a udirlo. Crediamo che sia inutile dal punto di vista della ricerca di base (per non parlare poi della ricerca pratica sulla comunicazione) esaminare il rapporto tra mittente e segno senza tener conto del destinatario e della sua reazione, o esaminare quello tra destinatario e segno tralasciando il mittente – esattamente come non varrebbe la pena di studiare il comportamento di gioco (le mosse) di un giocatore di scacchi, senza considerare le mosse del suo avversario. Già Peirce (1966) sottolineava il fatto che i segni non esistono, per così dire, in uno spazio vuoto, ma che ogni segno scatena nel destinatario come reazione un altro segno, questo, a sua volta, ne induce un terzo nel mittente originario e così via. Con ciò si compie però un passo decisivo: il nostro punto di osservazione si sposta dall’individuo al rapporto tra individui come fenomeno sui generis; stando così le cose, entriamo in conflitto con le concezioni tradizionali dell’uomo e del suo comportamento. (Come il lettore noterà, ci occupiamo qui quasi esclusivamente di rapporti diadici. Ciò si deve intendere unicamente come semplificazione dei nostri assunti e non deve significare che quanto si è detto non sia opportunamente applicabile anche a rapporti multipli. Ciò vale anche per la pressoché totale mancanza di riferimenti alla comunicazione non verbale. Se a causa di ciò dovesse sorgere l’impressione che la pragmatica tratti solo di forme di comunicazione verbale, è essenziale chiarire che in ogni struttura possono comparire modi di comunicazione sia verbali sia non verbali. Si tenga infine presente che i nostri assunti si basano principalmente su materiale angloamericano. Siamo consapevoli di questa unilateralità, a motivo della quale autori e fonti europee vengono considerati in modo insufficiente.)


In linea di massima due e molto diversi sono i contenuti della percezione umana: oggetti e rapporti. Per quanto concerne gli oggetti nel senso più lato, quindi oggetti nel mondo esterno, è sensato considerarli più o meno nell’accezione delle monadi di Leibniz e indagare le proprietà che li caratterizzano. Qualora nel corso di tale indagine dovessero sorgere delle divergenze di opinioni, queste potranno in molti casi esser composte mediante ricerche oggettive, nonostante tali ricerche possano talvolta rivelarsi estremamente difficili. È allora sensato dire che, se si verifica una tale diversità di opinioni, un parere è giusto e l’altro è sbagliato. Su questo fondamento monadico poggia la tradizione del pensiero occidentale; essa divide il mondo in soggetto e oggetti, si riflette nella struttura delle lingue indoeuropee ed è, a partire da Aristotele, lo schema base della logica classica. Al contrario degli oggetti, le relazioni umane non sono però dei fenomeni che esistono oggettivamente, per così dire come cose in sé, sulle cui qualità è altrettanto possibile raggiungere un consenso. Soprattutto non è assolutamente vero che, in caso di diversità di opinioni sulla peculiarità di un rapporto umano, uno dei partner abbia ragione e l’altro torto oppure, per sfiorare sin d’ora uno dei nostri argomenti principali, uno dei partner sia “normale” e l’altro “pazzo”. I rapporti, cioè i contenuti della nostra realtà interpersonale pragmatica, non sono reali nello stesso senso degli oggetti; posseggono piuttosto una realtà solo nella visione dei partner e proprio questa realtà viene condivisa, nella migliore delle ipotesi, in misura maggiore o minore dai partner. Se A tratteggia la sua visione del rapporto con B affermando “So che tu non mi puoi soffrire” e B risponde obiettando “Pensi sempre il peggio di me”, per definire la sua visione del rapporto, allora, in base alla natura della comunicazione umana, non vi è alcuna possibilità di risolvere questa controversia tramite l’impiego di prove oggettive. I dati di fatto pragmatici non si lasciano determinare monadicamente. Se, tuttavia, si tenta di fare ciò e se i fenomeni relazionali non vengono minimamente presi in considerazione o sono considerati alla stregua di epifenomeni, si finirà inevitabilmente con l’attribuire alla monade caratteristiche ipotetiche che essa non ha affatto o che sono indimostrabili. Per le nostre riflessioni è particolarmente significativo che questo problema attraversi come un filo rosso le concezioni dell’uomo e del suo comportamento, non importa quanto inconciliabili siano queste concezioni sotto ogni altro aspetto. Poiché l’anima è oggettivamente impenetrabile, la monade umana si presta estremamente bene all’attribuzione di caratteristiche indimostrabili, in cui insulsaggini puramente logiche, linguistiche e semantiche possono troppo facilmente imperversare. Questo pericolo è presente persino nelle scienze esatte: si pensi solo alla semplice e apparentemente così innocente assunzione postulata dall’astronomia classica della contemporaneità di due eventi come punto di partenza di deduzioni teoriche fondamentali, ma prive di valore. Per noi profani è difficile accettare che una simile assunzione debba essere scientificamente inutilizzabile, in quanto indimostrabile. Ayer, vicino al Circolo di Vienna, in Linguaggio, verità e logica mette in evidenza come proprio la definizione di Einstein della contemporaneità abbia reso evidente “quanto sia necessario al fisico sperimentale essere provvisto di analisi chiare ed esaurienti dei concetti che impiega. E il bisogno di analisi siffatte è anche maggiore nelle scienze meno avanzate. Per esempio l’odierno insuccesso degli psicologi nell’emanciparsi dalla metafisica e nel coordinare le ricerche è principalmente dovuto all’uso di simboli come ‘intelligenza’, ‘empatia’ o ‘subconscio’, non ancora definiti con precisione. In particolare le teorie degli psicanalisti sono piene di elementi metafisici che la chiarificazione filosofica dei simboli impiegati toglierebbe di mezzo”.


Una volta attribuite certe caratteristiche alla monade umana, sembra del tutto sensato impiegarle come principi chiarificatori del comportamento. Nella visione monadica il comportamento ha un senso poiché sottende una causa (per esempio un impulso, un bisogno, un atto di volontà, una repressione, un tratto del carattere). Avendo questi concetti la natura di un miraggio, diventano sempre meno chiari quanto più da vicino li si esamina, e ciò ha provocato, soprattutto negli ultimi anni, sempre maggiore scetticismo. La ricerca sul comportamento animale ha dimostrato invece che, in linea di principio, è possibile sistematizzare decorsi comportamentali senza ricorrere a siffatti concetti, applicando invece un modo di osservazione che si basa esclusivamente su ridondanze di comportamento e che nulla “spiega” in senso tradizionale, ma corrisponde all’analogia degli scacchi da noi citata all’inizio. Il nostro osservatore immaginario avrebbe naturalmente potuto attribuire al gioco nel suo complesso e a ogni singola figura in particolare un senso ben definito, “più profondo” o “simbolico”; per la comprensione del comportamento dei giocatori una tale esplicazione mitologica o metafisica del gioco servirebbe altrettanto poco quanto le interpretazioni astrologiche per la comprensione dell’astronomia.


Con ciò pensiamo di aver delineato una differenza basilare tra il modo di vedere monadico e quello pragmatico. Nella visione monadica ci domandiamo il motivo, l’origine, la causa, quindi il perché, nella visione pragmatica ci chiediamo ciò che accade qui e ora.


Con quanto detto fin qui sembra che ci siano condannati a essere i rappresentanti di una concezione superficiale e senz’anima che nega la dignità e la libertà dell’uomo e, con ciò, la realtà e la ricchezza del suo mondo interiore. Ma non era certamente questa la nostra intenzione. Si parlava piuttosto di un procedimento che tenta di non perdere di vista le limitazioni imposte dalla natura. Esattamente come nella fisica moderna, anche qui è decisivo il punto di vista dell’osservatore. Nella auto-esperienza il punto di vista monadico sarà sempre l’unico possibile, e rimarranno determinanti la predisposizione, le esperienze precedenti, i sentimenti, le convinzioni e così via. Anche i più radicale pragmatico sarà profondamente convinto, nella sua sfera privata, della propria libertà soggettiva e, con questo, dei suoi doveri etici. A ciò hanno sempre rimandato i filosofi, per esempio Sartre, per il quale l’unica libertà che non abbiamo è quella di non essere liberi. Agli scopi di una ricerca scientifica sul comportamento, però, tutti i concetti citati non sono utilizzabili, nonostante la loro venerabilità, poiché si sottraggono a un’analisi oggettiva. Il ricercatore deve quindi accontentarsi di un punto di vista completamente diverso: egli deve esaminare il comportamento umano, rinunciando a tutti quei criteri che gli suggerisce di continuo la sua autoesperienza soggettiva. Questa limitazione non solo ci aiuta a evitare le conseguenze fatali della confusione tra soggetto e oggetto, fra principi monadici e pragmatici, ma ci apre – come si indicherà – nuove e feconde prospettive, in analogia a quanto già succede da tempo in tutte le altre discipline che hanno compiuto il passo dal monadico al campo dell’interazione tra monadi. Già Morris (1938) osservava che non è necessario per la semiotica disconoscere “le esperienze private” dei decorsi semiotici, ma che si deve negare, dal punto di vista dell’etologia, “che tali esperienze siano determinanti o che la loro esistenza renda impossibile o anche solo incompleto lo studio oggettivo della semiosi (e con essa dei segni, dei designata e degli interpretanti)”.


Regolarità e patologie dei sistemi relazionali

Lo stato attuale delle nostre conoscenze sulla natura dei rapporti è frammentario. Se da un lato ciò è comprensibile, dato che la mancanza di una lingua non monadicamente orientata rende molto più difficile qualunque esame dei rapporti e persino il pensare ai fenomeni relazionali, dall’altro, quando si consideri che le relazioni umane sono uno degli aspetti più immediati dell’esistenza umana, sorprende il grado della nostra ignoranza, dimostrando una volta di più come i dati più immediati sono la cosa più ardua da comprendere. Nell’ambito di questo lavoro non sarà possibile esaminare quanto poco la nostra concezione della realtà poggi sui “fatti”, e in quale ampia misura ciò che noi definiamo “reale” sia invece il risultato di accordi interpersonali di volta in volta stipulati o già esistenti nell’ambito in cui noi, in senso letterale, siamo nati e a cui apparteniamo come membri di una civiltà, di uno strato sociale, di una famiglia e così via. In ultima analisi, reale è ciò che viene definito tale da un numero sufficientemente alto di esseri umani. In questa accezione estrema la realtà è una convenzione interpersonale, proprio come l’uso di una lingua si basa sull’accordo tacito e per Io più assolutamente inconscio che determinati suoni e segni abbiano un ben preciso significato. La “realtà” di una banconota, per esempio, non consiste tanto nel fatto di essere un pezzo di carta stampato a vari colori, bensì nell’accordo interpersonale secondo cui tale oggetto rappresenta un valore specifico. Bateson, in una comunicazione personale, riferisce che gli abitanti di una certa località costiera della Nuova Guinea si servivano, per transazioni di una certa importanza, di pesanti pietre a forma di macina (come moneta corrente utilizzavano conchiglie). Un giorno una di queste pietre per il pagamento di un grosso acquisto venne trasportata da un villaggio a un altro, situato su di un ampio estuario fluviale. Nel viaggio l’imbarcazione si capovolse e la pietra scomparve nell’acqua profonda per non essere mai più ritrovata. Poiché il fatto era noto a tutti, questa pietra, anche in seguito, venne usata come mezzo di pagamento, sebbene esistesse ancora, per così dire, solo nella mente degli interessati.


Già Epitteto aveva stabilito che non sono le cose in sé a turbarci, bensì le opinioni che nutriamo su di esse. Tuttavia, nella misura in cui queste opinioni sono di natura interpersonale, ne è stata fornita una documentazione molto convincente grazie alle ricerche svolte, da Durkheim in poi, dall’antropologia moderna.


Nonostante queste difficoltà è possibile perlomeno abbozzare le norme di una pragmatica della comunicazione umana – quindi di una dottrina dei rapporti umani – e documentare da un punto di vista clinico i disturbi che vi sono connessi (una esauriente presentazione della documentazione in oggetto si trova in Watzlawick [1964], dal quale sono stati tratti gli esempi qui utilizzati).


I tratti basilari qui esposti non pretendono di essere completi, né di essere formulati nel migliore dei modi.


1. Mentre non vi possono essere dubbi sul fatto che il comportamento nel presente venga determinato dalle esperienze fatte nel passato, l’essenza di un rapporto umano – e precisamente nell’accezione di Wertheimer – è qualcosa di più e di diverso della somma di tutti gli atteggiamenti, i comportamenti, le predisposizioni, le aspettative, ecc., che i partner portano con sé nel rapporto dal proprio passato individuale. L’essenza di un rapporto si dimostra come un fenomeno complesso sui generis che ha regolarità e patologie le cui caratteristiche non sono quindi imputabili né a un partner né all’altro. Altre discipline offrono delle analogie: l’acqua è qualcosa di più e di diverso della semplice somma delle caratteristiche dell’idrogeno e dell’ossigeno; i biologi lavorano basandosi sul concetto di qualità emergenti, gli economisti hanno da tempo rinunciato al tentativo di comprendere il comportamento economico di grandi gruppi di popolazione mediante l’addizione o la moltiplicazione del comportamento dei singoli.


Ora, nell’essenza della natura sovrapersonale dei fenomeni relazionali è presente il fatto che la loro struttura è accessibile in modo relativamente semplice a chi sta al di fuori del rapporto, ma non ai partner stessi. Così come è impossibile percepire il proprio corpo nella sua totalità, perché gli occhi, in quanto organi della percezione, sono parte del corpo da percepire. Ma ciò porta inevitabilmente, ad attribuire la colpa, quando insorgono conflitti relazionali, alla cattiva volontà o alla pazzia del partner, dato che “ovviamente” non è possibile attribuirla a se stessi, e dato che tra i due partner non sembra esserci una terza possibilità. Se questa visione unilaterale dei conflitti umani è comprensibile da parte dei partner stessi, essa diventa tuttavia molto arrischiata quando viene presa a fondamento di spiegazioni psicopatologiche. Ma finché il comportamento umano verrà visto in un’ottica monadica, questo sarà inevitabile, e continueremo quindi a parlare di “pazienti”, di “malattie mentali” e così via. Una delle nostre tesi è che esistano effettivamente rapporti disturbati, ma non individui disturbati o, per meglio dire, che i disturbi di comportamento siano una funzione dei rapporti umani, non l’espressione di una psiche malata. (Non occorre sottolineare in modo particolare che questa tesi si applica solo ai cosiddetti disturbi funzionali e non a quelli condizionati anche organicamente.) A questo proposito, due esempi:


Se tanto il partner A che il partner B trovano nel “dare” la loro soddisfazione fondamentale, il loro rapporto sfocerà molto probabilmente in un conflitto ben determinato. Poiché chiunque “dia” dipende da un recettore, che solo col suo esistere fa di lui un donatore, entrambi tenteranno di indurre l’altro a “prendere”, mentre entrambi vedranno nel tentativo dell’altro di contendere il monopolio del dare una dimostrazione di insensibilità e di rifiuto. Questa forma di conflitto interpersonale verrà aggravata in particolare dal fatto che nella visione di entrambi i partner la “mancanza d’amore” dell’altro non compare chiaramente, ma è diabolicamente mascherata da un inattaccabile facciata di benevolenza e di premure. In “realtà” entrambi avvertono quanto poco l’altro li ami.


Un rapporto che si basi più o meno esclusivamente sull’aiuto di A a B lascia aperte, per la sua stessa indole, solo due possibilità di sviluppo. Gli sforzi di A restano infruttuosi, nel qual caso il rapporto naufragherà perché A prima o poi si sentirà sfruttato da Be si ritirerà scoraggiato dal rapporto. Se invece A riuscirà nei suoi sforzi e B non avrà più bisogno del suo aiuto, allora il rapporto sarà privato delle proprie basi e si spezzerà.


In entrambi gli esempi è importante ricordare che, per la comprensione e, come si illustrerà, per l’influenza su tali disturbi comportamentali è secondario come, quando e perché i suddetti comportamenti di base di entrambi i partner si siano formati nel passato. Inoltre è ovvio che i conflitti descritti non sono riducibili all’uno o all’altro partner. Come nella chimica, si tratta qui di una combinazione di due elementi; di per sé, o anche in relazione a partner diversi, i disturbi in questione non potrebbero insorgere. Purtroppo esorbita dall’ambito di questo lavoro mostrare a quali disturbi di carattere interpersonale debbano necessariamente condurre strutture relazionali fondamentalmente simili ma più complesse.


2. In presenza di un’altra persona ogni comportamento – attivo o passivo, volontario o involontario – ha un carattere partecipativo ed è quindi comunicazione. Poiché non esiste un non-comportamento non è quindi possibile non comunicare. Questa constatazione apparentemente banale ha un significato pragmatico fondamentale. Non è difficile immaginare situazioni interpersonali nelle quali sarebbe estremamente auspicabile che ci si potesse astenere da qualsiasi partecipazione. Ma proprio questa possibilità non è data, in virtù della natura della comunicazione umana, il che porta a determinate soluzioni di ripiego, che noi definiamo disconferme. Con ciò si intendono tutte quelle forme di comportamento il cui scopo è di sottrarre alle proprie affermazioni, o a quelle del partner, una chiarezza di significato, così che non si possa venir inchiodati dall’altro a un significato preciso ed esserne resi responsabili. Questi meccanismi (come le contraddizioni, le insulsaggini, gli improvvisi cambi di argomento, le frasi incomplete, gli equivoci, le espressioni oscure o idiosincrasiche, le generalizzazioni che alterano il senso, le concretizzazioni di metafore o, al contrario, le metaforizzazioni di espressioni intese concretamente ecc.) sono stati fatti da noi oggetto di una precedente descrizione (Watzlawick 1964; Watzlawick et al. 1969). Molti individui diagnosticati come schizofrenici ne offrono un esempio estremo. Se osserviamo il loro comportamento nel qui e ora, indipendentemente dalle ipotesi eziologiche tradizionali, può sembrare che queste persone tentino di non comunicare. Poiché tuttavia anche il gergo incomprensibile, il mutismo, l’immobilità (il silenzio del comportamento) e praticamente ogni altro modo di evitare o di negare la comunicazione è a sua volta comunicazione, esse si trovano davanti a un regresso di negazioni praticamente insolubile e teoricamente senza fine. Di nuovo non è necessario chiedersi quali meccanismi psichici e quali motivi fondati nel passato personale spingano l’interessato a un tale comportamento; nella visione pragmatica ciò che conta è il suo attuale comportamento, e che un tale comportamento debba condurre a questo specifico dilemma.


3. Un’ulteriore importante caratteristica della realtà interpersonale emerge dal fatto che ogni comunicazione ha inevitabilmente due aspetti. In primo luogo ogni comunicazione (verbale o non verbale) trasmette una determinata informazione che rappresenta il suo contenuto. Essa contiene inoltre un aspetto metacomunicativo, cioè una comunicazione su come la comunicazione debba essere intesa dal destinatario. Talvolta questo secondo aspetto è rafforzato da un’ulteriore osservazione, per esempio “questo è un ordine”, oppure “naturalmente sto scherzando”. Come mostrano questi due esempi, la metacomunicazione definisce contemporaneamente anche il modo in cui il mittente intende il suo rapporto con il destinatario; lo chiamiamo quindi aspetto relazionale. “Questo è un ordine” significa chiaramente che il mittente vede il destinatario in un rapporto di sottomissione a sé; solo raramente ci serviamo di tali espressioni rafforzative, perlopiù è sufficiente la definizione di rapporto contenuta nella comunicazione. Così le due frasi “è importante innestare la frizione dolcemente e rapidamente” e “rilascia semplicemente la frizione, fa molto bene al cambio” hanno praticamente lo stesso contenuto, ma definiscono evidentemente rapporti molto diversi tra istruttore di guida e allievo.


È facilmente comprensibile che entrambi questi aspetti della comunicazione umana sono di fondamentale significato per l’essenza dei rapporti. A seconda che vi sia accordo o disaccordo, e su quale dei due livelli, scaturiscono forme e disturbi relazionali del tutto specifici e chiaramente definibili. Esaminiamo una delle possibili varianti.


Supponiamo che i partner siano d’accordo sul livello di contenuto ma non su quello relazionale. Il rapporto rimarrà stabile finché le necessità esterne richiederanno questo accordo. Non appena le necessità verranno meno, i due non potranno più, trascurare il loro conflitto relazionale fino allora latente. È il caso di quei matrimoni che si rompono appunto quando vengono superate le difficoltà esterne che fino a quel momento hanno costretto i coniugi a uno sforzo comune. Lo stesso vale per le coalizioni politiche o internazionali tra partiti o stati di diverso orientamento ideologico, come per esempio la coalizione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, durata fino alla comune vittoria nel 1945. E infine non si può non citare, in questo contesto, il ruolo di capro espiatorio, spesso così importante per l’equilibrio delle famiglie, svolto da un bambino il cui problema (difficoltà scolastiche, nevrosi, psicosi, criminalità giovanile) costringe i genitori a un’azione comune, conferendo così alloro rapporto una parvenza di solidità che in realtà non possiede. Nella pratica clinica si osserva continuamente come al miglioramento nel comportamento del bambino faccia seguito una crisi matrimoniale dei genitori, che molto spesso sembra respingere il bambino nel suo ruolo di paziente designato.


4. Benché si sia appena dichiarato che ogni comunicazione possiede due aspetti, l’aspetto relazionale ha un significato ampiamente dominante. È un dato di fatto basato sull’esperienza che nelle nostre comunicazioni quotidiane scambiamo molte meno informazioni che definizioni relazionali e questo ci induce a chiederci quale sia lo scopo di tale comportamento comunicativo. Sia la psicologia evolutiva sia i moderni esperimenti basati sulla riduzione degli stimoli sensoriali (sensory deprivation) ci insegnano che gli esseri umani non possono sopravvivere né fisicamente né psichicamente alla totale mancanza di comunicazione con gli altri. Le dichiarazioni del misterioso Kaspar Hauser,* che, a sua memoria, sarebbe stato sempre confinato da solo, in un luogo buio, sono semplicemente inattendibili. Al contrario suona del tutto credibile la descrizione di quel primo esperimento psicolinguistico riportato dalle cronache nonostante o forse proprio in virtù del fatto che va oltre quel fenomeno del marasma e ospitalismo descritto da Spitz (1960): nella sua Chronica, Salimbene da Parma narra che l’imperatore Federico II tentò di stabilire quale fosse la lingua primigenia dell’uomo facendo allevare alcuni bambini fin dalla nascita da balie che dovevano accudirli in ogni modo ma non rivolgere loro la parola o parlare in loro presenza per nessuna ragione. In questo modo l’imperatore sperava di scoprire se essi avrebbero cominciato a parlare spontaneamente in ebraico, in greco o in latino. Purtroppo l’esperimento, nonostante l’eccellente disposizione sperimentale, non portò ad alcun risultato, “fu fatica vana perché i piccoli morirono tutti”. Secondo Frey (1965) già Erodoto riferisce di un analogo esperimento in Egitto.


Alla domanda perché gli esseri umani (e presumibilmente fino a un certo livello tutti i mammiferi) debbano ricorrere nella buona e nella cattiva sorte alla comunicazione, non si può rispondere in modo univoco allo stato attuale delle nostre conoscenze. Che noi dipendiamo da essa è tuttavia fuori dubbio. Se esaminiamo il nostro comportamento comunicativo quotidiano sotto questo aspetto, risulta trattarsi, a livello del rapporto, di un alternarsi senza fine di offerta, accettazione, rifiuto, disconferma, riformulazione. Le nostre ricerche confermano i risultati raggiunti da molti altri ricercatori (per esempio Bateson 1960; Johnson et al. 1956; Laing 1980; Laing e Esterson 1972; Laing et al. 1983; Lidz et al. 1958; Wynne et al. 1958), secondo i quali il riconoscimento delle nostre percezioni interpersonali, quindi l’accettazione e la conferma delle nostre definizioni relazionali da parte dei nostri partner, è di grandissima importanza per la nostra salute psichica. Essere capiti da un altro significa che l’altro condivide la nostra visione della realtà interpersonale e, in un certo qual modo, la ratifica. Nei rapporti sani, solidi, i partner sembrano aver trovato un’ampia e tacita concordia; nei rapporti “malati”, conflittuali, essi si oppongono disperatamente al fatto di essere soggetti alla definizione dell’altro e in questa situazione sembra che le parti in causa vivano il cedimento come legato alla paura della morte. Le dichiarazioni degli schizofrenici di sentirsi “vuoti”, “burattini” o “robot” lo esprimono in una lingua fin troppo eloquente.


5. Come già accennato, le definizioni relazionali non sono né vere né false, ma vengono, nel migliore dei casi, condivise in misura maggiore o minore dai partner. Questo “in misura maggiore o minore” ha però un profondo significato. Non è un caso che conosciamo meglio le caratteristiche patologiche che non quelle positive della comunicazione umana a livello metacomunicativo, “ove la realtà è questione di fede”, per riprendere l’indovinata formulazione di Bateson (1951, cap. 8). Nei paragrafi seguenti tenteremo di suddividere in tre gruppi le forme di comunicazione patogene che svalutano l’Io; ciò non significa tuttavia che riteniamo questa suddivisione esaustiva, né che vi sia una differenza qualitativa tra queste forme di comunicazione e quelle “più normali”; come in altri campi, anche qui vi sono solo sfumature e nessun confine preciso.


a) Se il partner B reagisce a una comunicazione di A con un’affermazione che da un lato conferma di aver recepito la comunicazione di A, ma dall’altro bistratta sia il suo contenuto come pure il suo aspetto relazionale, allora parliamo di tangenzializzazione nel senso inteso da Ruesch (1957). In uno dei suoi esempi, un bambino mostra orgoglioso alla propria madre un verme appena trovato. La madre lo guarda e dice con voce fredda e sprezzante: “Lavati subito le mani.” Alla vista delle mani sporche del bambino, la madre lascia, per così dire, in sospeso la comunicazione da lui fatta e introduce a sua volta un nuovo decorso comunicativo che non si riferisce a quello del bambino. Ruesch nota a questo proposito: se la madre avesse detto “Sì, è un bel verme” e avesse fatto una pausa, avrebbe potuto poi introdurre la nuova comunicazione, “Adesso però va’ a lavarti le mani”.


Una serie di strutture comunicative simili sono state descritte da un gruppo di ricercatori argentini sotto la guida di Sluzki (1966) e definite come svalorizzazioni interpersonali (transacciones descalificadoras). Il loro denominatore comune consiste nel fatto che la comunicazione di un partner viene squalificata da una comunicazione dell’altro il cui aspetto relazionale è ambiguo oppure oscuro e si contrappone al contenuto dell’affermazione del primo o alla situazione nella quale si svolge in quel momento il decorso comunicativo. Queste squalifiche possono indurre ilarità o rabbia, ma più probabilmente perplessità poiché rimane oscuro al partner A se B sia d’accordo con il contenuto della sua affermazione, se lo rifiuti, se ne provi risentimento, se se ne faccia beffe o se lo conosca già. In uno degli esempi il figlio si lamenta: “Mi tratti come un bambino”, e la madre risponde: “Ma tu sei il mio bambino.” Una tale risposta può in alcuni casi avere un effetto decisamente paralizzante; si tratta qui in pratica di una forma della “tecnica della confusione’ di solito utilizzata nell’ipnosi (Erickson 1964). Per superare l’effetto di questa squalifica e ricondurre in certo qual modo il colloquio alle solide basi della logica, il figlio dovrebbe intraprendere una spiegazione non poco complicata, metacomunicativa e sottolineare il fatto che lui ha usato “bambino” nel senso di “immaturo”, mentre la madre lo ha usato nel senso di “figlio”. Ma specie quando il figlio sia un paziente designato, questa rettifica potrebbe essergli molto difficile, mentre sarebbe semplice per la madre interpretare questo tentativo come un ulteriore dimostrazione del suo squilibrio mentale e ignorarlo per pura bontà. Un esempio analogo, che proviene dalla nostra ricerca, è quello di una madre il cui figlio psicotico cominciò un giorno a sparare qua e là per l’appartamento. Alla domanda cosa avesse lei fatto in una situazione così pericolosa, la donna rispose: “Gli ho detto per la centesima volta di non mettersi a giocare dentro casa.”


b) Nel secondo gruppo, quello delle mistificazioni, il contrasto non è tra comunicazione e risposta bensì tra la comunicazione e il contesto in cui ha luogo il decorso comunicazionale. Nella sua forma più astratta una mistificazione significa: “Quello che vedi (o pensi, senti o avverti) è sbagliato. Io ti dico cosa è veramente (oppure cosa tu dovresti vedere, sentire o avvertire).” Su esseri umani che abbiano imparato a fidarsi delle proprie sensazioni ciò avrà un effetto limitato. In rapporti di importanza vitale, tuttavia (specialmente tra figlio e genitori), o in situazioni estreme (come la persecuzione politica e il lavaggio del cervello) una mistificazione pone il destinatario della comunicazione in una situazione insostenibile. Se non gli è possibile, o non gli è permesso, demistificare la situazione attraverso una metacomunicazione corrispondente, egli sarà prigioniero di questa situazione e la trappola potrà infine essere resa assolutamente ineludibile da fatto che la mistificazione venga estesa alla sua percezione della mistificazione stessa. Come ha osservato lo psichiatra londinese Laing (1965), che ha introdotto questo concetto nella psicopatologia, “ogni persona mistificata è, per definizione, confusa; il che non significa, tuttavia che questa persona debba anche sentirsi confusa.


Nei loro studi presso la Mayo Clinic, Johnson et al. (1956) hanno riscontrato una struttura comunicativa praticamente identica nelle famiglie di pazienti schizofrenici da loro osservate.


Se, come spesso accadeva, i figli avvertivano l’ira o l’ostilità di uno dei genitori, allora il genitore negava subito la propria ira e insisteva perché anche il figlio la negasse, così che i figlio si trovava di fronte al dilemma se credere ai genitori o alle proprie percezioni sensoriali. Se il figlio si fidava dei propri sensi, conservava un contatto sicuro con la realtà; se invece si fidava dei genitori rinsaldava bensì questo importante rapporto, ma alterava in quel modo la propria percezione della realtà.


In altre parole, le comunicazioni dei genitori pongono il figlio in una situazione d’emergenza per il fatto di creare un dilemma irrisolvibile tra il contenuto e l’aspetto relazionale delle loro comunicazioni. Come, in un contesto analogo, il tentativo di mistificazione della madre (in questo caso respinto) lasci alla figlia schizofrenica solo la scelta tra pazzia e cattiveria, è dimostrato da Laing (1965):


Madre: Non ti rimprovero di parlare in quel modo. So che non dici sul serio.


Figlia: Ma io dico sul serio.


Madre: No, so che non dici sul serio; solo che non puoi fare altrimenti.


Figlia: Certo che posso.


Madre: No, so che non puoi fare altrimenti perché sei malata. Se pensassi anche solo per un momento che non sei malata, sarei molto in collera con te.


Un’importante variante di questo tema risulta quando A prima definisce in un certo modo il proprio rapporto con B, e non appena B accetta questa definizione la cambia improvvisamente e accusa B di pazzia o di cattiveria perché egli non ha sempre visto in questo modo il loro rapporto. Non appena B si sottomette a questa seconda definizione, A può nuovamente rimproverarlo per non aver accettato la definizione originaria del rapporto. Decorsi di questo genere sono stati descritti per la prima volta da Searles (1959). Egli enuncia sei varianti di cui ha rilevato la grande diffusione nel suo lavoro con gli schizofrenici, coi loro genitori o i loro partner, e talvolta anche con i loro psicoterapeuti. Così A, per esempio, può trattare lo stesso tema prima in modo scherzoso e poi in modo estremamente serio e alternativamente biasimare B per il fatto di mancare di humour o di non dimostrare la serietà necessaria. Oppure A si può comportare in modo sessualmente provocante in una situazione che esclude ogni approccio sessuale, e accusare l’altro, a seconda della sua reazione, di inibizione o di scostumatezza.


c) Esistono infine comunicazioni che portano in sé la propria contraddizione. Esse equivalgono sostanzialmente ai paradossi classici della logica. Wittgenstein (1971) è stato probabilmente il primo a richiamare l’attenzione sul significato pragmatico dei paradossi:


I diversi e svariati rivestimenti semiseri del paradosso logico sono interessanti solo nella misura in cui ricordano che per comprendere veramente la funzione del paradosso è indispensabile presentarlo in una forma seria. Sorge la questione: Quale parte può avere, in un gioco linguistico, un siffatto errore logico?


Esaminiamo innanzitutto il paradosso classico del mentitore, nella forma dell’enunciazione “Io mento” (una forma semplificata della famosa autodefinizione di Epimenide il Cretese che, a quel che si dice, sosteneva che tutti i Cretesi fossero bugiardi). Questa frase ha una struttura insolita; infatti, da un lato dichiara qualcosa (“io mento”), dall’altro tuttavia dichiara al tempo stesso qualcosa su se stessa e cioè: “io mento e quindi mento anche quando dico: ‘io mento’ “. In questo senso non è difficile comprendere che un’ingiunzione di identica struttura possa essere eseguita solo con la sua non-esecuzione, o che in base a una definizione di rapporto formulata in modo ugualmente paradossale il rapporto corrisponda alla definizione solo se non le corrisponde e viceversa – e con ciò la realtà interpersonale si apre alla più ampia confusione. Purtroppo è impossibile fornire qui esempi di tali conflitti relazionali molto complessi, tuttavia si dovrebbe almeno citare il paradosso più frequente nei rapporti umani: l’esortazione “Sii spontaneo!”, un’esortazione a un comportamento ben preciso che per sua natura può essere solo spontaneo. Il destinatario della comunicazione viene posto così in una situazione insostenibile; dovrebbe fare spontaneamente ciò che viene preteso, il che è impossibile sia da un punto di vista puramente logico, sia per la natura stessa della comunicazione umana.


Un esempio tipico di questa dinamica è la situazione coniugale, assai diffusa, in cui la moglie è insoddisfatta della passività e della scarsa iniziativa del marito anche nei suoi confronti e gli rivolge, in un modo o nell’altro, la richiesta: “Vorrei che tu fossi più attivo nei miei confronti.” A prima vista questo sembra essere un desiderio comprensibile, in realtà una simile richiesta costringe entrambi i partner in una situazione insostenibile. Le alternative che si pongono sono infatti solo due, ed entrambe insoddisfacenti: se il marito mantiene il suo atteggiamento passivo, lei continuerà a essere ovviamente insoddisfatta; se invece diventa più dominante, lei sarà ugualmente insoddisfatta perché lui le ha ceduto anziché asserirsi. Lei desidera questo comportamento, ma esso avrebbe dovuto nascere “spontaneamente”, e non perché lei glielo ha ingiunto. In altre parole, l’uomo fa la cosa giusta per il motivo sbagliato.


Un esempio un po’ diverso di un paradosso interpersonale è il seguente: un matrimonio minaccia di fallire per l’irragionevole gelosia della moglie. Strano a dirsi, il marito è una persona rigida, moralista e ascetica dal punto di vista monadico, individuale, quindi un oggetto oltremodo improbabile di gelosia femminile. Egli attribuisce un particolare valore all’affermazione, spesso reiterata, di non aver mai dato motivo, in tutta la sua vita, di dubitare della sua parola. La moglie, una persona visibilmente molto più libera e soddisfatta della vita, sembra esser venuta a patti con l’atteggiamento del marito, tranne che per un’unica cosa: non intende assolutamente rinunciare a un certo consumo (molto moderato) di alcool, un fatto che fin dall’inizio del matrimonio, che dura ormai da anni, ha sempre condotto a delle liti. Circa due anni prima, in un momento di rabbia, il marito aveva detto che si sarebbe procurato a sua volta un vizio, se lei non avesse rinunciato al suo, e aveva fatto capire di intendere con questo relazioni con altre donne. Poiché la minaccia non ebbe l’effetto sperato, alcuni mesi più tardi egli decise di permettere a sua moglie ufficialmente i cocktail. A questo punto era esplosa la gelosia della moglie, perché, ella sosteneva, lui è assolutamente degno di fede, e quindi deve per forza attuare la sua minaccia e diventare indegno di fede (cioè infedele).


La comunicazione paradossale è stata studiata per la prima volta negli anni cinquanta da un gruppo di ricercatori capeggiati da Bateson, che le ha attribuito il nome di doppio legame (double bind). Il risultato di questa ricerca è stato pubblicato nel 1956 in un rapporto dal titolo Verso una teoria della schizofrenia. Nella sua forma più astratta, il doppio legame si lascia ridurre alle seguenti componenti:


1) un rapporto complementare (per esempio fra genitori e figlio);


2) una comunicazione la cui struttura mostra un’autoreferenza negativa, nega, cioè, ciò che afferma e afferma ciò che nega;


3) una situazione inevitabile, come l’incapacità o l’impossibilità a risolvere il paradosso tramite la metacomunicazione. Per quanto riguarda le strutture comunicative patogene che ho appena descritto in modo estremamente sommario e aneddotico, occorre tener presente soprattutto questo, al fine di evitare malintesi: si tratta non di “strade a senso unico” bensì di circoli viziosi, in cui tutti i partecipanti sono imprigionati. A seconda della punteggiatura della continuità della loro interazione nasce l’illusione di un inizio che un circolo ovviamente non ha. Non solo le strutture descritte provocano nel partner una reazione ben determinata, ma questa stessa reazione contribuisce a sua volta a perpetuare la struttura. Come dimostrano gli ultimi due esempi, una volta che la comunicazione paradossale sia stata fatta, annullare il suo effetto pragmatico è difficile, se non impossibile, ed entrambi i partner ne sono quindi prigionieri.


Forme patogene di comunicazione

Qualunque tentativo di agire su sistemi relazionali patogeni e patologici si scontra con la tenace forza di inerzia di queste strutture, forza che pare beffarsi di ogni ragione e che, in una visione monadica, ha dato luogo a ipotesi come bisogno sadomasochistico o manifestazione dell’istinto di morte. Perché molti rapporti continuano a mantenersi in vita, nonostante i partner siano profondamente infelici e insoddisfatti; perché non solo il rapporto non si interrompe ma la sua continuità è anzi resa possibile per mezzo di continui adattamenti dolorosi? Ma ecco che ci si chiede nuovamente “perché?”, e con questa domanda il nostro pensiero viene condotto quasi inevitabilmente al passato su strade monadiche. Due concezioni moderne contraddicono tuttavia questo modo di pensare. Von Bertalanffy (1962) postula l’equifinalità come una delle caratteristiche tipiche dei sistemi aperti (cioè di quei sistemi che si trovano in interazione continua con il loro ambiente). Egli cioè sostiene che, in questi sistemi, situazioni iniziali o condizioni di partenza molto diverse possano condurre a situazioni finali identiche. In base alla nostra esperienza con i sistemi relazionali umani, è possibile anche il contrario: identiche condizioni iniziali possono condurre a condizioni finali molto diverse. (A questo proposito è impossibile ignorare che accettando questa visione si mette in discussione la validità di molte indagini psicologiche di massa e comparate, standardizzazioni, calibrazioni ecc.) La seconda concezione che qui entra in gioco è l’introduzione (Jackson 1957) del concetto di omeostasi nei sistemi relazionali umani. Un sistema, una volta costituitosi, mantiene cioè la sua stabilità con l’ausilio di processi di regolazione che presentano numerose isomorfie con i processi omeostatici studiati in fisiologia da Claude Bernard, Cannone molti altri; questi processi hanno, per così dire, una vita propria e un’autonomia e non necessitano di alcun rapporto causale dimostrabile con l’evoluzione storica del sistema.


Come abbiamo più volte sottolineato, in quest’ottica è affatto inutile voler accertare quando, come e perché uno qualsiasi di questi processi di regolazione sia stato introdotto nel sistema; sia per la ricerca delle basi, sia per la possibilità di influenzare praticamente il sistema è anzi fondamentale il fatto che il suo andamento, visto empiricamente, sembri essere determinato da regole, e che un’infrazione a queste regole ipotetiche scateni reazioni che sono specifiche del sistema e che dopo un tempo di osservazione sufficientemente lungo è anche possibile prevedere. Per quanto riguarda le regole, i sistemi ben funzionanti si distinguono chiaramente dal fatto che presentano una maggiore flessibilità e un repertorio di regole più ampio, mentre i sistemi “malati”, cioè conflittuali, dispongono di poche regole rigide – la qualcosa non è assolutamente in contrasto con le manifestazioni esteriori spesso caotiche di tali sistemi.


Ma, oltre a questa differenza basilare, i sistemi patologici mancano di un’ulteriore proprietà importante che sembra far parte della struttura dei sistemi funzionali: essi non dispongono di metaregole, cioè di regole per il cambiamento delle proprie regole. È quindi chiaro che un tale sistema, da un lato non può risolvere una situazione per la quale le sue regole (il suo repertorio comportamentale) sono inadeguate, e dall’altro non è neppure in grado di produrre autonomamente nuove regole né di cambiare le regole esistenti in modo che la situazione in oggetto possa essere superata. Un tale sistema si impiglierà piuttosto in un circolo vizioso, che noi chiamiamo un gioco senza fine. In questo fenomeno si evidenzia nuovamente una qualità sistemica generale che non è assolutamente limitata ai sistemi umani; e si evidenzia in forma analoga nel cosiddetto “problema di arresto” che si verifica nelle procedure decisionali matematiche quando un computer debba calcolare un valore che non si trova nel campo del programma. Il calcolatore passa in rassegna continuamente tutti i tentativi di soluzione a lui possibili senza mai giungere a un risultato e – fatto che ci sembra ancora più importante – senza d’altro canto segnalare che il problema non è risolvibile (Davis s.d.). Problemi del tutto analoghi si evidenziano nelle relazioni internazionali, come illustra per esempio Osgood (1962): “I nostri capi politici e militari sono praticamente concordi nell’affermare pubblicamente che si debba conseguire e mantenere il primato nella corsa agli armamenti; su quel che accadrà in seguito mantengono un silenzio altrettanto concorde. Ma anche ammesso che si raggiunga un’ideale condizione di intimidazione reciproca, quali potranno essere gli sviluppi della situazione? Nessun essere umano raziocinante può pensare che il nostro pianeta rimanga per sempre diviso in due blocchi armati pronti ad annientarsi a vicenda e che chiamino questa situazione di ‘pace’ e ‘sicurezza’. Il punto saliente è che la politica dell’intimidazione reciproca non contiene alcun presupposto per la propria soluzione.”


Vi è motivo di sperare che prima o poi la ricerca sulla comunicazione aprirà al clinico nuove strade per la comprensione dei giochi senza fine dei sistemi umani. A proposito dell’insorgere della mistificazione, della squalifica e del doppio legame nel contesto familiare avanzerei sostanzialmente tre ipotesi. Semplificando molto, forse troppo e dando inevitabilmente l’impressione che esista un punto di partenza ben preciso, le tre ipotesi sono le seguenti.


1. Chi viene biasimato per la propria percezione di se stesso o della realtà da altri esseri umani per lui importanti (frequentemente un bambino dai propri genitori) tenderà a diffidare dei propri sensi. A causa di questa insicurezza, potrebbe in seguito essere esortato dagli altri a sforzarsi maggiormente di vedere le cose “nel modo giusto”, e prima o poi potrebbe anche essere accusato: “Devi essere pazzo se hai simili idee.” Troverà quindi sempre più difficile raccapezzarsi, sia nei contatti impersonali sia in quelli interpersonali e tenderà a non individuare dei nessi logici che gli altri vedono apparentemente con molta chiarezza, ma lui no. Nella visione monadica ed escludendo la situazione pragmatica, il suo comportamento corrisponderà al quadro clinico della schizofrenia.


2. Chi viene rimproverato da persone per lui importanti per il fatto di provare sentimenti che non dovrebbe provare (o al contrario di non provare sentimenti che dovrebbe provare) si sentirà alla fine in colpa per la propria incapacità di avere i sentimenti “giusti” per essere accettato dagli altri. Questo stesso senso di colpa potrebbe quindi diventare uno di quei sentimenti che egli non dovrebbe provare. Un dilemma di tale fatta sorge molto frequentemente quando i genitori interpretano la normale tristezza (o avvilimento o stanchezza) di un figlio come una critica silenziosa alloro operato di genitori. I genitori tenderanno quindi a contestare il diritto del figlio a questi stati d’animo; un po’ come dire: “Con tutto quello che facciamo per te, dovresti essere felice e contento.” La tristezza viene così collegata alla mancanza di riconoscenza e alla cattiveria. Nei suoi vani tentativi di provare ciò che “dovrebbe” provare, l’interessato manifesterà un comportamento che corrisponde nell’ottica monadica, ed escludendo la situazione pragmatica, al quadro clinico della depressione. Similmente, la depressione sembra anche attecchire laddove si renda qualcuno responsabile di qualcosa su cui non ha alcuna influenza (per esempio liti coniugali dei propri genitori, malattia o insuccesso dei familiari o aspettative parentali che vanno al di là delle capacità fisiche, intellettuali o emotive del figlio).


3. Chi riceve da persone per lui importanti delle istruzioni di comportamento che prescrivono e al tempo stesso proibiscono determinati atti, viene posto in una situazione paradossale nella quale egli può obbedire solo con la disobbedienza. Il prototipo di una tale direttiva d’azione è: “Fai ciò che dico e non ciò che vorrei che facessi.” Un esempio è fornito dai genitori che si aspettano che il proprio figlio sia rispettoso della legge e dell’ordine e al tempo stesso un tipo spavaldo. Oppure considerano il successo economico così importante che per loro qualsiasi mezzo è buono per guadagnare, ma al tempo stesso inculcano nel figlio l’idea che si debba sempre essere onesti. O potrebbe essere il caso di una madre che comincia a mettere in guardia la propria figlia, ancora in età molto precoce, dai pericoli e dal disgusto di tutto ciò che ha a che fare col sesso, ma nello stesso tempo insiste sul fatto che la ragazza sia sempre “popolare” fra i ragazzi. Il comportamento che ne risulta corrisponde, nella visione monadica, ed escludendo la situazione pragmatica, alla definizione sociale di delinquenza o di instabilità.


Fin qui le ipotesi. Esse sono un tentativo di applicare la prospettiva pragmatica alla nosologia clinica. Questo tentativo è tuttavia discutibile, perché è probabile che una nostra comprensione più approfondita dei fenomeni relazionali possa rendere in futuro necessaria una totale revisione del concetto di disturbo comportamentale e della sua terapia.


Che si sia ancora ben lontani da questo obiettivo lo dimostra il fatto stesso che nella nostra esposizione siamo costretti a mutuare continuamente i vocaboli dalla terminologia monadica (psicopatologia, schizofrenia, nevrosi ecc.).


Conclusioni finali sull’influenza del comportamento

Ed eccoci arrivati all’aspetto forse più affascinante della pragmatica dei rapporti umani: alle tecniche per influenzare determinati comportamenti. Se è vero che un sistema è patologico nella misura in cui non può produrre autonomamente le regole per il cambiamento delle proprie regole, il compito manifesto di una terapia efficace è quello di introdurre nel sistema queste regole dall’esterno. Quando gli appartenenti a un sistema entrano in comunicazione con una persona che ne sia al di fuori, che non sia coinvolta nel loro gioco senza fine, il sistema così ampliato potrà allora, per così dire, acquisire dall’esterno una visione d’insieme della propria struttura originaria e modificarsi. Ciò che fa di un gioco senza fine un circolo vizioso è proprio l’impossibilità di vedere, rimanendo all’interno del circolo, le alternative che non vi sono contenute. Sembra che ancora Wittgenstein (1971) sia stato il primo a descrivere questo stato di cose, benché in un contesto completamente differente:


Ma supponiamo che il gioco sia fatto in modo che chi comincia possa, usando un trucco particolarmente semplice, vincere sempre. Però mai nessuno se ne è reso conto; – dunque è un gioco. Ora qualcuno richiama la nostra attenzione su ciò – e cessa di essere un gioco.


Come posso rigirarlo perché mi diventi chiaro? – In altre parole, voglio dire: “e cessa di essere un gioco” – non: “e ora vediamo che non era un gioco”.


Questo, voglio dire, significa senza dubbio che la cosa può anche essere intesa in questo modo: che l’altro non ha attirato la nostra attenzione su qualcosa; ma che ci ha insegnato un altro gioco in luogo del nostro. – Ma come può il nuovo gioco aver fatto cadere in disuso quello vecchio? Ora vediamo qualcosa di diverso e non possiamo più continuare a giocare ingenuamente, come prima.


È chiaro che Wittgenstein non si occupa qui dei problemi dell’influenza sul comportamento, tuttavia ciò che egli sostiene nell’ultimo paragrafo della citazione ha un significato immediato per le nostre riflessioni: che l’altro non ha attirato la nostra attenzione su qualcosa, ma che ci ha insegnato un altro gioco in luogo del nostro – e ora non possiamo continuare a giocare ingenuamente al vecchio gioco. Del resto, per quanto le scuole classiche di psicoterapia possano essere tra loro diverse, esse possiedono tuttavia un elemento in comune, e cioè il fatto di attribuire un effetto terapeutico alla ricerca del significato, al confronto, alla spiegazione – in breve al “richiamare l’attenzione” nel senso della citazione suddetta – e all’“insight” che presumibilmente ne deriva. Questa pietra angolare di tutte le teorie psicodinamiche del comportamento umano manca tuttavia di qualunque prova pratica – è un dogma e quindi una componente di una dottrina dell’essere umano, non una caratteristica della natura umana.


Come ho già accennato, nella visione pragmatica non è messo in discussione solo il supposto nesso causale tra determinati fattori nel passato (patogenesi) e determinati altri nel presente (sintomatica), ma altresì, in particolar modo, il postulato dell’insight come precondizione di ogni cambiamento. Nella vita quotidiana, l’insight raramente accompagna il cambiamento o la maturazione, e men che mai li precorre. Nel migliore dei casi ci risulterà chiaro, in un determinato momento e in questa situazione, che solo sei mesi prima avremmo reagito, in questa situazione, in modo completamente diverso. Al contrario, si incontrano sempre nella pratica persone che, dopo una lunga psicoterapia, possiedono ogni grado di insight immaginabile, senza che riescano a trarne il benché minimo vantaggio. Naturalmente ciò si spiega sempre col fatto che l’interessato non ha ancora acquisito la giusta capacità di discernimento e necessita di un’analisi ancora più approfondita. Il seguente esempio, che abbiamo appreso solo di recente, dovrebbe illustrare in che modo fondamentalmente diverso possano prodursi dei cambiamenti spontanei della realtà interpersonale: il primo giorno di asilo, una bambina di quattro anni al momento di separarsi dalla madre scoppiò in un pianto così disperato che la madre fu costretta a trattenersi con lei. La stessa scena si ripeté tutti i giorni successivi: la madre non poteva allontanarsi, e la situazione divenne per lei notevolmente gravosa sia sul piano pratico sia sul piano emotivo. Dopo circa due mesi, e ancora prima che il servizio psicologico scolastico avesse la possibilità di occuparsi del caso, una mattina, per motivi a noi sconosciuti, il padre portò la bambina all’asilo, la consegnò e andò al lavoro. La bambina pianse un po’ ma si tranquillizzò ben presto. Il mattino seguente fu di nuovo la madre a portare la bambina all’asilo e, con sua grande sorpresa, non vi fu, come il giorno precedente, alcuna scena e tutto fu sistemato.


Sulla semplicità di questa soluzione spontanea si potrebbero fare tutte le speculazioni possibili: resta tuttavia il fatto fondamentale che il sistema aveva solo bisogno di un piccolo cambiamento, apparentemente del tutto casuale, delle proprie regole. Col senno di poi si potrebbe dire che “evidentemente” in quel caso non vi era, alla base, alcun disturbo serio e profondo. Non si può però dubitare che le cose avrebbero assunto un andamento del tutto diverso se fosse intervenuto l’apparato appositamente previsto per tali problemi. Il caso avrebbe ricevuto la diagnosi “fobia della scuola” e, a seconda dell’orientamento scientifico del terapeuta, sarebbero divenuti oggetto di analisi profonde e iatrogene la fissazione pregenitale della bambina, il bisogno nevrotico della madre di mantenere la figlia in uno stato di dipendenza o un qualsiasi altro aspetto intrapsichico, monadico. Nessuno avrebbe, molto probabilmente, pensato di far semplicemente accompagnare la bambina a scuola dal padre, perché questa misura sarebbe sembrata non illuminante sulle cause di un mancato sviluppo psichico già chiaramente diagnosticato.


Le influenze pragmatiche sul comportamento mirano, nel senso di Wittgenstein, a insegnare “un altro gioco” al posto del vecchio. Se nuove regole di comportamento vengono introdotte in un sistema relazionale umano dall’esterno, si rendono possibili cambiamenti comportamentali per i quali sarebbe necessario, nella concezione monadica, l’insight. Naturalmente in questi interventi si adottano misure più complesse della semplice enunciazione del cambiamento auspicato, come per esempio “siate reciprocamente gentili” o cose simili. In questa sede potrò solo accennare al fatto che, delle molte influenze possibili, i paradossi si offrono ancora una volta come gli esempi più tipici. Essi sono di fatto gli interventi più efficaci che noi conosciamo. Dal punto di vista della struttura, sono il contrario di quelli patogeni. In linea di massima nel doppio legame terapeutico viene “prescritto” proprio quel comportamento che i pazienti desiderano cambiare. Poiché si tratta di un comportamento sintomatico e ogni sintomo può essere interpretato come un comportamento spontaneo e quindi incontrollabile, queste cosiddette prescrizioni del sintomo rappresentano a tutti gli effetti dei paradossi del tipo “Sii spontaneo”. In altre parole, un doppio legame terapeutico è costituito in modo tale che: a) prescrive il comportamento (spontaneo, sintomatico) che deve essere cambiato; b) presenta questa istruzione come mezzo del cambiamento, e c) dà origine a un paradosso, poiché sollecita il paziente a essere spontaneo, per così dire, a comando. Se a dispetto di ogni considerazione di “senso comune”, si assegna per esempio come compito a una coppia di coniugi che si accaniscono in continue liti di avere una lite intenzionale ogni sera alle otto oltre ai loro litigi quotidiani, allora i partner, con tutta probabilità, non solo non potranno provocare questa lite ma troveranno anche molto più difficile litigare. Alcuni terapeuti hanno adottato e descritto da tempo tali tipi di intervento, come per esempio Frankl (1971), che li definisce intenzioni paradosse, Rosen (1953) in un saggio dal titolo Reenacting the psychosis e Jackson (1963).


Il mondo dei nostri rapporti è fittamente popolato di paradossi. Spesso si verifica, per esempio, che la stabilità di un rapporto sia assicurata proprio dal fatto che i partner considerano in modo realistico la possibilità della sua rottura. D’altra parte, chi crede di non poter vivere senza una determinata persona, di solito non può vivere nemmeno con lei. Il marito costretto a subire le continue minacce di suicidio della moglie contribuirà alla sua salute, e a quella del proprio matrimonio, in maniera più efficace se si informerà obiettivamente e dettagliatamente sui desideri della moglie in fatto di sepoltura anziché alimentarne col proprio panico la depressione.


Siamo venuti a conoscenza di una remissione spontanea da un’agorafobia che si verificò grazie al fatto che il paziente si impose da solo il doppio legame spezzando così il circolo vizioso del proprio gioco sintomatico senza fine.


La nevrosi di quest’uomo era diventata, nel corso di parecchi anni, un peso sempre più insopportabile. Qualunque tentativo di opporsi al progressivo restringimento dell’area in cui si sentiva libero da paure scatenava una vera e propria angoscia mortale. Nella sua disperazione egli decise un giorno di suicidarsi, e scelse, a questo scopo, di recarsi in macchina su un monte panoramico distante circa cinquanta chilometri – convinto che, se si fosse allontanato tanto da casa, un infarto o qualcosa di simile sarebbe venuto a liberarlo. Con sua indescrivibile sorpresa, non solo arrivò sano e salvo in cima al monte ma si sentì anche, per la prima volta in tanti anni, del tutto libero da paure. E non solo la sua fobia non è ricomparsa negli ultimi sei anni, né è stata sostituita da altri sintomi, ma è altresì riuscito nel frattempo (come assicura lo psichiatra che lavora con lui) ad aiutare con lo stesso metodo molti altri pazienti gravemente fobici. (Al lettore che conosce la letteratura zen non può sfuggire l’analogia tra questo esempio e la tesi secondo cui l’illuminazione arriva solo nel momento in cui il ricercatore rinuncia a ogni sforzo per raggiungerla.)


Uno sguardo sul futuro sviluppo della ricerca comunicativa

Per concludere, alcune considerazioni sul futuro sviluppo della ricerca comunicativa. Noi crediamo che nei prossimi anni un crescente interesse per i fenomeni relazionali ne accelererà enormemente l’approfondimento. Allo stato attuale delle nostre conoscenze si può supporre che questo aprirà nuove e feconde prospettive anche in ambito interdisciplinare. L’obiettivo ideale sarebbe ovviamente quello di una sistematizzazione della pragmatica tanto completa che se ne possa derivare una grammatica o un calcolo dei rapporti umani. Questo traguardo può essere utopico, soprattutto se pensiamo che già lo studio della sintassi di una lingua naturale pone grandi difficoltà, mentre la speranza di una sistematizzazione della semantica si scontra con uno scetticismo sempre maggiore. Quanto più irrealistica dev’essere quindi l’ipotesi di poter raggiungere questo traguardo nel campo molto più complesso della pragmatica! Noi riteniamo che il successo o il fallimento di questa ipotesi dipendano dalla soluzione di due problemi basilari. Il primo riguarda la comunicazione non verbale, la cui comprensione richiederà metodi molto più complicati e dispendiosi di quelli della comunicazione puramente verbale. Il secondo problema ha a che vedere col fatto già citato che non disponiamo di alcun linguaggio per esprimere e descrivere i fenomeni metacomunicativi. Questa difficoltà ha ripercussioni più gravi di quanto questo breve accenno lasci supporre. Inoltre ci si deve attendere che il problema dell’indecidibilità, nel senso inteso da Gödel (1931) si manifesterà sempre più. Come è noto, Gödel ha dimostrato che nessun sistema formale, la cui complessità corrisponda almeno a quella dell’aritmetica, può dimostrare la propria completezza e dimostrabilità senza l’ausilio di concetti che sono più generali del sistema stesso e quindi non sono più parte del sistema. Ma questo porta a un regresso teoricamente infinito.


Se queste difficoltà dovessero dimostrarsi insormontabili, si deve tuttavia supporre che anche delle soluzioni parziali darebbero risultati fruttuosi. Le osservazioni contenute in queste pagine sono un tentativo di mostrare come i principi pragmatici possano rivelarsi utili per comprendere e per gestire i rapporti umani. Ciò non significa che essi siano validi solo in quell’ambito. Tali principi devono piuttosto essere intesi come proprietà sistemiche, valide quindi anche in altri sistemi relazionali. La moderna disciplina nota col nome di ricerca del conflitto o ricerca della pace si fonda ampiamente su di essi. E infine non è forse troppo ottimistico supporre che la pragmatica possa schiuderei nuove prospettive sull’essenza della realtà che ci circonda e sul modo di porci nei confronti di questa realtà.


 


* Egli comparve il 26 maggio 1828 a Norimberga con una lettera di raccomandazione anonima per le autorità; disse di essere nato nel 1812 ma non poté fornire alcun dato sul suo passato a eccezione del ricordo della sua detenzione in completa oscurità. Egli divenne presto oggetto di molte teorie romantiche e l’enigma si fece ancor più indecifrabile il 14 dicembre 1833, quando tornò a casa con parecchie ferite di arma da taglio infertegli probabilmente da uno sconosciuto e morì tre giorni dopo.

2. La trasformazione dell’immagine umana nella psichiatria

Nel passaggio dall’impostazione monadica, introspettiva, retrospettiva, intrapsichica delle scuole terapeutiche classiche alla visione sistemica si sviluppa anche una nuova immagine dell’uomo. Il secondo capitolo tenta di far luce su questo passaggio e parallelamente sull’ampliamento storico dell’immagine scientifica del mondo che, partendo dal primitivo concetto di materia statica, si è straordinariamente arricchita con l’avvento del concetto di energia e assume nella nostra epoca una dimensione ulteriormente nuova per la presenza del concetto di informazione.


In un manuale pubblicato nel 1911 l’autore, uno dei più insigni rappresentanti della psichiatria europea del nostro secolo, riporta la lettera di uno schizofrenico alla propria madre:


Cara mamma, oggi mi sento meglio di ieri. Non mi va molto di scrivere. A te però scrivo molto volentieri. Lo posso fare persino due volte. Mi avrebbe fatto così piacere, ieri, domenica, se tu e Luise e io avessimo potuto andate nel parco. Dallo Stephansburg si gode un panorama così bello. È veramente molto bello al Burghölzli. Luise ha scritto Burghölzli sulle due ultime lettere, voglio dire sui couverts, cioè sulle buste, che ho ricevuto. Ma io ho scritto Burghölzli dove ho messo la data. Vi sono anche pazienti a Burghölzli che dicono Hölzliburg. Altri parlano di una fabbrica. Lo si può ritenere anche una casa di cura. [...] Tutti gli esseri umani hanno occhi. Ve ne sono anche alcuni che sono ciechi. I ciechi vengono allora condotti per un braccio da un ragazzino. Deve essere veramente terribile non vedere nulla. Vi sono anche persone che non vedono nulla e altre ancora che non odono nulla. Ma io conosco anche alcuni che odono troppo. Si può udire troppo. Si può anche vedere troppo. Vi sono molti malati al Burghölzli. Li si chiama pazienti. Uno mi è piaciuto molto. Si chiama E. Sch. Egli mi ha insegnato: al Burghölzli ci sono quattro tipi di persone: pazienti, residenti, infermieri. Poi ci sono anche quelli che non sono qui affatto. Sono tutte persone strambe.


L’autore del libro, Eugen Bleuler, così commenta il brano:


Uno scrivente non schizofrenico descriverebbe qualche aspetto dell’ambiente che influisca sul suo benessere, qualcosa che lo tocchi piacevolmente o spiacevolmente, oppure qualcosa che possa interessare il destinatario della lettera. Qui uno scopo del genere manca totalmente: l’elemento comune di tutte le espressioni del paziente è dato dal fatto che esse si riallacciano all’ambiente in cui vive, ma non hanno con lui un rapporto diretto. [...] Ma anche se le idee espresse sono tutte giuste, la lettera è ugualmente priva di senso. Lo scopo del paziente era di scrivere, non di scrivere qualcosa.


Settant’anni fa queste conclusioni erano plausibili e convincenti: la lettera è l’espressione di una mente alterata. Noi uomini d’oggi – esperti o profani – troviamo difficile intenderne il senso in questo modo. Nel nostro pensiero si è frattanto compiuta una trasformazione: piuttosto siamo pronti a vedere in questa lettera allusioni che trattano dei rapporti dello scrivente con la propria madre e, in un senso più ampio, con i propri simili e l’ambiente della casa di cura. Questa trasformazione emerge ancora più chiaramente nella seguente citazione:


In lui ci deve essere qualcosa che non va


perché non agirebbe come fa


se così non fosse


quindi agisce come fa


perché in lui c’è qualcosa che non va.


Non crede che in lui ci sia qualcosa che non va


perché


in lui una delle cose che non va


è il fatto che non creda che in lui ci sia


qualcosa che non va


quindi


dobbiamo aiutarlo a rendersi conto


che il fatto che non creda che in lui


ci sia qualcosa che non va


è una delle cose


che non va.


La citazione è tratta dal libro aforistico Nodi dello psichiatra londinese Ronald Laing (1975), che si potrebbe pure definire – con un po’ di humour – un manuale di psichiatria. Certo l’ambito di riferimento è qui totalmente diverso. Non si tratta di manifestazioni di una mente disturbata, bensì di una relazione disturbata o, per meglio dire, di personali supposizioni sulle supposizioni dell’altro. Queste supposizioni sono però anch’esse costruzioni, e non fatti accertabili o addirittura verità platoniche. Il modo in cui un rapporto viene visto dai partner stessi del rapporto si sottrae a ogni verifica oggettiva. Sono però accertabili il grado di armonia che deriva ai partner da una definizione più o meno concorde del loro rapporto; oppure la folie à deux, se tale definizione differisce troppo da quella che ne danno gli altri; o infine le conseguenze dei pesanti conflitti che scaturiscono dalla divergenza delle definizioni relazionali da parte dei singoli partner.


In queste poche frasi ho anticipato molto di ciò che dovrà essere provato più in dettaglio per soddisfare il tema di questa conferenza. Come è noto, l’immagine che la psichiatria ha dell’essere umano si fonda su una visione che per millenni è stata dominata da concezioni religiose, magiche, demoniache o superstiziose. Non ci occuperemo qui di tali concezioni arcaiche, per quanto sarebbe certamente stimolante per un cronista che conosca la materia tracciare paralleli innegabili, benché spiacevoli, tra certi metodi di trattamento” di quei tempi bui e certe prassi ancora vigenti.


Nel periodo dell’Illuminismo si compie una trasformazione decisiva, poiché ci si volge a ricercare le cause oggettive anche per i disturbi psichici. In luogo dei demoni regna ora la déesse raison e determina il discorso. Come conseguenza di questo insediamento della ragione come la più alta delle istanze umane nasce il desiderio di una aggettivazione del mondo, di una purificazione dell’immagine scientifica del mondo da dogmi, pregiudizi, credenze, miti e altri principi non dimostrabili. Il primo passo verso l’organizzazione di un ordine oggettivo nella confusione caleidoscopica della Natura è consistito nell’individuare comunanze, affinità, elementi di collegamento e nel suddividere gli oggetti delle osservazioni in gruppi e sottogruppi e trovar loro una definizione – in una parola: nel classificarli. Al fine di raggiungere questo scopo le cose furono considerate nei limiti delle loro qualità fisiche. E a rischio di una semplificazione eccessiva si potrebbe forse dire che la materia (nel senso che anticamente si attribuiva al termine) divenne l’oggetto della ricerca – almeno dal punto di vista delle sue già citate qualità e manifestazioni esteriori. Come ogni altra disciplina, anche la psichiatria si basa sull’immagine scientifica del mondo in vigore nell’epoca in questione. Sembra tuttavia evidente che essa non riesca mai a porsi all’avanguardia del progresso, ma che, al contrario, più a lungo di altre discipline resti fedele ai paradigmi già da esse superati. A prescindere da quale possa esserne la causa, troviamo, grosso modo, che in quell’epoca l’immagine che la psichiatria ha dell’uomo si basa sul concetto di predisposizione. Secondo questo punto di vista, l’uomo è dotato dalla natura, di determinate disposizioni che gradualmente nel corso della vita si esplicitano e si sviluppano. Ma esse vengono viste come date e quindi praticamente immutabili. Anche se in questo contesto si può parlare solo metaforicamente di materia, si tratta tuttavia di caratteristiche materiali, quali per esempio la costituzione. Per comprendere gli esseri umani, si pratica la fisiognomica: un procedimento di classificazione che probabilmente risale ad Aristotele e che è legato nei secoli XVIII e XIX ai nomi di Lavater, Carus e altri. All’inizio del XIX secolo Gall e il suo allievo Spurzheim sviluppano un metodo, la frenologia, in base al quale le predisposizioni, e quindi anche il carattere di un individuo, vengono dedotti dalla forma del cranio e in particolare dalle sue variazioni rispetto alla norma e da queste forme e variazioni vengono inoltre tratte delle congetture sulle parti cerebrali che vi si celano. Qualche tempo dopo Lombroso parla di reo nato, il delinquente nato con una menomazione organica; un essere umano il cui agire è stabilito in partenza come il colore dei suoi occhi.


Mentre ancora si cercava di definire l’immagine dell’uomo sulla base di tali qualità statiche, l’immagine del mondo che la scienza elaborava in altri campi aveva già da tempo superato questo punto di vista legato alla materia. La svolta decisiva, che tuttavia affonda le sue origini nell’antichità, ebbe luogo grazie all’introduzione del concetto di energia. Questo sviluppo, culminato nella formulazione del primo principio della termodinamica, è responsabile degli enormi progressi della tecnica negli ultimi tre secoli. Dall’interazione di materia ed energia, delle loro condizioni innate con le loro trasformazioni dinamiche, sono sorti concetti epistemologici sconosciuti all’immagine del mondo fondata sulla materia statica. Con Freud – prescindendo, per semplicità, da alcuni importanti predecessori – compare anche in psichiatria il concetto di energia. Gli stati psichici vengono ora concepiti come processi dinamici. Come il fisico, anche il medico della psiche inizia ora a pensare in base a concetti di un’energia (ovviamente ipotetica, metaforica): la libido. Freud parla di una carica libidica; l’energia psichica è quindi data in una certa misura, ma delle trasformazioni possono verificarsi nella forma in cui si manifesta. Non a caso una delle opere più significative prodotte da Jung in quel periodo si intitola I simboli della trasformazione. Al modello psicanalitico fa da madrina l’idraulica: la libido si comporta come un liquido di una certa densità che una volta raggiunta una posizione non la abbandona mai totalmente, ma il cui flusso rigidamente determinato può essere arrestato o deviato da ostacoli. Il ristagno che ne deriva può portare regressivamente alla rianimazione di bracci laterali da tempo inattivi: ma può anche, d’altro canto, attivare per sublimazione scariche su livelli superiori. La metafora è di inaudito valore euristico. Essa rende possibile l’immagine di un’energetica della psiche che amplia la nostra conoscenza dei motivi della condotta umana e apre possibilità terapeutiche finora sconosciute. L’essere umano si dimostra più profondo, più complesso, ma anche più lacerato e più determinato di quanto finora si osasse pensare. Il mondo sublunare di follia e sogno viene illuminato e interpretato scientificamente.


Come ogni metafora, anche quella della psicodinamica ha i propri limiti. L’immagine dell’uomo condizionato causalmente e mosso dai propri istinti (a cui Jung contrappone quella dell’individuo che avanza in direzione di un fine) si dimostra inevitabilmente insoddisfacente proprio là dove l’epistemologia che è alla base della psicanalisi comincia a esser debitrice a se stessa di alcune risposte. Le perplessità riguardano per esempio il fatto, empirico e innegabile, che da fattori organizzati e funzionali inferiori nascano strutture superiori. Da qualche parte si cela una contraddizione; manca un principio chiarificatore che la concezione scientifica classica non può fornire. Bergson tenta una risposta postulando l’esistenza di un élan vital; Jung riprende l’antica idea dell’entelechìa. Ancor più seducente è la tentazione di postulare di nuovo l’azione di un principio ordinatore superiore che non sia soggetto alle proprie leggi di causa ed effetto – proprio come l’onnipotenza di Dio non è messa in dubbio, nel toccante dilemma della Scolastica, sebbene Egli non sia in grado di creare quella roccia fatale tanto enorme che nemmeno Lui può sollevare.


Eppure la risposta non solo era già nota, ma da lungo tempo convertita in pratica, benché in un campo in apparenza del tutto estraneo. Quando James Watt lavorava nel XVIII secolo al suo progetto della macchina a vapore, molti gli opposero la convinzione che l’idea fosse inattuabile. Nel pensiero rigidamente lineare-causale della sua epoca un’istanza che stesse al di fuori della macchina, per così dire uno spiritus rector, avrebbe dovuto comandare l’approvvigionamento del vapore. Espresso in modo più prosaico: perché la macchina potesse funzionare sembrava necessaria la presenza di un operatore esterno che al momento giusto chiudesse una delle due valvole e aprisse l’altra, rendendo in tal modo possibile il movimento dello stantuffo. Come è noto, Watt risolse il problema ponendo il movimento dello stantuffo stesso, per mezzo de cassetto di distribuzione, al servizio dell’apertura e della chiusura dei condotti del vapore. Oggi questa soluzione ci sembra ovvia, tuttavia si tratta di un’applicazione molto precoce del principio oggi ben noto dell’autoregolazione, e cioè di una retroalimentazione dell’effetto sulla propria causa e quindi basato sul modello di causalità circolare. Per il pensiero causale deterministico, lineare dell’epoca era evidentemente incomprensibile il fatto che un effetto potesse influire sulla propria causa originando un meccanismo al quale non si può negare un comportamento in un certo qual modo “intelligente”. Questo principio trovò un’applicazione ancora più sorprendente nell’invenzione, a opera di Watt, del regolatore a masse centrifughe, che mantiene costante il regime e le prestazioni della macchina anche a carico variabile. Quando, dopo la seconda guerra mondiale, fu consentito l’accesso a risultati di ricerca fino ad allora tenuti segreti, si scoprì che lo sviluppo dei moderni sistemi bellici aveva condotto a un cambiamento ancora più profondo dell’epistemologia di quell’epoca. Se anche, come si spera, non è vero che la guerra sia la madre di tutte le cose, in questo caso tuttavia l’impulso è stato dato da problemi di carattere strettamente militare. Esempi in proposito sono: lo sviluppo di dispositivi di guida del fuoco per combattere aerei che volavano alti e veloci oppure la necessità di dotare i carri armati di un cannone, il cui affusto compensasse i movimenti irregolari del mezzo sul terreno accidentato e rendesse possibile il puntamento e il centramento di un obiettivo, anche ad andatura veloce. I relativi problemi di regolazione non hanno più nulla a che fare con l energia; in questi sistemi complessi, infatti, l’energia è a disposizione in tutti i punti necessari. Come già nel caso del regolatore a masse centrifughe, entra qui in gioco un principio del tutto nuovo. Come accennato, ciò che si produce è la rialimentazione di un effetto sulla propria causa o, per meglio dire, una piccola parte della conseguenza di un avvenimento viene ricondotta all’avvenimento stesso, non però sotto forma di un aumento o una diminuzione di energia, bensì come segnale, come informazione. Ma con questo la concezione scientifica classica della materia e dell’energia si arricchisce di un terzo concetto indipendente. Semplificando di nuovo grandemente, si può dire che la rivoluzione elettronica, i fondamenti della cibernetica e della teoria sistemica, nonché lo studio della comunicazione umana affondano qui le loro radici. Come abbiamo detto, la psichiatria accoglie il paradigma scientifico dell’epoca in questione con rispettoso ritardo. I presupposti per trarre le conclusioni necessarie sussisterebbero tuttavia da lungo tempo.


La psichiatria infantile sa da decenni che non solo il comportamento del bambino affetto da disturbi mentali rappresenta un grave problema per i genitori e influisce indirettamente su tutta la famiglia, ma che anche il comportamento dei genitori ha una innegabile e manifesta influenza sul grado di disturbo del bambino. Questo aspetto emerge chiaramente nel trattamento ambulatoriale, quando la madre porta in clinica il piccolo paziente, e lo aspetta per ricondurlo a casa. Molto più che nel caso dei pazienti adulti il medico curante ha così la possibilità, quasi fortuita, di osservare l’interazione tra madre e figlio e di constatare come molto spesso certi stimoli siano attivati dalla madre e non dal figlio. Questa osservazione ha portato, soprattutto in considerazione dell’estrema asimmetria del rapporto madre-figlio, in cui il figlio dipende molto dalla madre, alla logica conclusione che il comportamento della madre sia la causa delle difficoltà del figlio. In apparenza si è quindi adottato un nuovo punto di vista; ma in realtà non si è fatto che invertire la direzione dei decorsi causali, si sono cioè scambiate le direzioni di causa ed effetto.


Nulla è mutato nello schema di causa-effetto che sta alla base di questa concezione; nell’immagine dell’uomo che l’antipsichiatria ha proposto e che tanto ha furoreggiato negli anni sessanta, la causa era così semplicemente divenuta effetto e l’effetto causa: se prima il paziente era considerato pazzo e la società era ritenuta normale e senza colpa, ora la società e la famiglia venivano criminalizzate e il paziente designato era visto come l’unico individuo sano in un ambiente malato e patogeno. Nulla era dunque cambiato del modello fondamentale di pensiero, solo era stata invertita l’attribuzione della colpa originaria. Con l’irruzione nella scienza del concetto di informazione cominciò tuttavia a prodursi un cambiamento. Troppo chiari erano gli impulsi che da altri campi dello scibile arrivavano alla psichiatria. La concezione della monade umana, dell’individuo come misura di tutte le cose e quindi la concezione dei disturbi psichici come di natura puramente intrapsichica, divenne pian piano insostenibile. Posto che la causa del disturbo risieda esclusivamente nel gioco delle forze energetiche della psiche, anche allora le sue ripercussioni sarebbero, ciò nonostante, interumane; il disturbo si rivelerebbe cioè nel comportamento dell’interessato. Come perviene infatti il diagnosta a ipotizzare l’esistenza di un disturbo psichico? Esclusivamente attraverso l’osservazione del comportamento; intendendo ovviamente per comportamento anche la trasmissione di informazioni linguistiche: sogni, libere associazioni, risultati di test oggettivi quali il Rorschach, il TAT, la misurazione del quoziente di intelligenza e simili.* Ma nell’immagine dell’uomo in uso nella psichiatria classica questo comportamento viene ritenuto, da un lato materia prima e punto di partenza di tutte le esplorazioni, dall’altro mera conseguenza di una condizione interiore. Ciò che deve essere spiegato diventa a un tratto la spiegazione stessa. In qualche modo questo ricorda la metafora di Platone, in cui sulla parete della caverna si delineano le ombre di ciò che causalmente e primariamente si svolge all’esterno. Ma le ragioni per cui lo psichiatra, in qualità di osservatore di questo gioco delle ombre, non trae la conclusione di per sé evidente di voltarsi di 180 gradi e di abbandonare la caverna anziché limitarsi a speculare sugli elementi dati, sono chiaramente determinate dalla concezione dell’individuo come supremo oggetto della ricerca e come monade indipendente dal contesto. L’immagine dell’uomo come misura di tutte le cose rende inevitabile questa acrobazia epistemologica. Dove, se non nell’uomo può trovarsi l’essenza umana?


Ma proprio qui, con questa logica apparentemente ovvia di interno/esterno, ci si imbatte in un dominio completamente nuovo. Fin dove si estende l’essere umano? I suoi limiti sono nettamente definiti dalla sua pelle? Per usare un’analogia di Bateson (1976): qual è il punto di contatto del cieco col mondo esterno: la punta del suo bastone o piuttosto l’impugnatura? O non è forse a metà strada tra le due estremità? Il martello appartiene al mondo interno oppure esterno del calzolaio che lo usa? Questi semplici esempi mettono in evidenza la discutibilità della nostra concezione dell’individuo e dei suoi processi psichici. L’orientamento spaziale del cieco deve includere lo spazio stesso e anche il suo bastone come mezzo di collegamento tra lui e lo spazio. Ma questo semplice processo non si può certo spiegare coi concetti dell’immagine monadica dell’uomo. Si tratta piuttosto di un decorso informativo circolare costituito dal cieco, dal bastone, dal selciato del marciapiede, dalle informazioni fornite dal ripetuto andare a tastoni del bastone, e presumibilmente da molti altri elementi. A nessuno di questi elementi e processi spetta un primato; ognuno di essi è ugualmente essenziale. Insieme formano un circuito di feedback che sarà ininterrottamente attraversato da informazioni e in cui la minima variazione quantitativa o qualitativa in un qualsiasi punto sarà immediatamente trasmessa a tutti gli altri punti del circolo e cambierà la loro funzione. Nella concezione scientifica moderna questi circoli sono le più piccole unità inscindibili. Se si volesse suddividerle, ciò nonostante, in componenti “più semplici” sarebbe necessario attribuire a queste componenti qualità che non possiedono.


Ma non si sottolineerà mai abbastanza che fenomeni ai quali non si possono negare, per lo meno nel vocabolario della nostra lingua corrente, qualità psichiche o intelligenti, non necessitano della partecipazione dell’uomo né di un ipotetico spiritus rector. Tutto ciò che nei tempi passati era ritenuto scopo o direzionalità finalistica infusi da Dio nella materia inerte, viene oggi liberamente inteso come necessaria conseguenza di determinati processi di regolazione esistenti in natura nel senso più ampio. Norbert Wiener ha dato il nome di cibernetica a questo orientamento di pensiero e alle sue applicazioni tecniche. Ci sia concesso un esempio al riguardo, persuasivo proprio per la sua banalità: tutti conoscono certamente il regolatore di calore (termostato) delle moderne abitazioni. Dal punto di vista dell’elettronica moderna si tratta di un dispositivo della più banale semplicità. Il termostato misura la temperatura interna della casa; se questa sale sopra il livello desiderato, il termostato interrompe l’erogazione del riscaldamento; se la temperatura si abbassa sotto il valore fissato, questa deviazione dalla norma causa al contrario la riaccensione dell’impianto. Quello che a una riflessione più acuta è più sorprendente, è che questo strumento incredibilmente semplice è capace di compensare gli sbalzi di condizioni climatiche il cui insorgere è notevolmente complesso e condizionato da innumerevoli fattori imprevedibili, tanto che la meteorologia non è riuscita fino a oggi a sviluppare un modello matematico efficace di queste cause complesse e delle loro interazioni. Il pensiero genetico-causale in questo caso si rivela inadeguato. Il termostato al contrario, che non è esperto in condizioni meteorologiche né ha letto le ultime previsioni del tempo, riesce a realizzare qualcosa a cui non si possono negare, in senso tradizionale, capacità “psichiche’ intelligenti; capacità che, in senso fisiologico, del corpo limitato dalla pelle, vengono considerate del resto ovvie. E come riesce il termostato a far questo? Esso non cerca di comprendere causalmente l’astronomica complessità dei fattori che vi concorrono, ma coglie invece un’unica deviazione: la deviazione della temperatura dalla norma stabilita e – come già fece Watt – pone questa devianza al servizio della propria correzione.


La maggior parte di noi è disposta ad accettare senza problemi questo fatto finché si tratta di fisiologia, macchine a vapore, frigoriferi, ferri da stiro e centinaia di altre applicazioni quotidiane del medesimo principio. Ma quando questo si spinge fino a toccare la concezione stessa dell’uomo, ecco che allora cominciano a nascere vivaci controversie.


La concezione classica della psiche, nonché dei fenomeni psichici e mentali nell’individuo, la cui localizzazione aveva dato filo da torcere già ai filosofi greci e che nell’ambito di questa serie di conferenze è già stata trattata da oratori più competenti, deve in quest’ottica far posto all’immagine di una rete di informazioni che contiene la monade umana e che quindi le è superiore. Ma qui scoppia la controversia. La destituzione dell’individuo dal suo ruolo di centro e istanza suprema dell’umano è una dura prova per il nostro amor proprio, almeno come quando al tempo della rivoluzione eliocentrica ci trovammo a dover accettare che il nostro pianeta non si trovava al centro dell’universo, bensì nella posizione di un satellite di terza classe del sole. L’impressione insormontabile è quella di una degradazione e di una meccanizzazione di tutto ciò che consideriamo più specificamente umano. Sarebbe senza dubbio stimolante, per un filosofo della scienza, stabilire dei paralleli tra le argomentazioni dottrinarie alle quali Galilei oppose come unica risposta un mormorato “Eppur si muove”,** e quelle obiezioni che rifiutano con sdegno questa immagine dell’uomo come “meccanicistica”, “arida e “superficiale” e avvertono in essa la mancanza della veneranda “profondità” dell’anima.


Ma proprio di questo si tratta essenzialmente. La mia lunga introduzione può essere ricondotta a una semplice formula: la differenza tra le qualità della monade e quelle del rapporto. Anche a questo proposito un esempio banale: la frase “quella mela è rossa” si riferisce chiaramente a una qualità dell’oggetto mela. È così riconducibile nella sua totalità all’oggetto in questione. La frase “questa mela è più grande di quella” non è invece riconducibile all’una o all’altra mela; non definisce alcuna qualità individuale, bensì fa una enunciazione che ha senso solo in rapporto a entrambe le mele. L’ “essere più grande” fluttua, per così dire, nello spazio tra le due mele, si riferisce a entrambe e tuttavia non ha nulla a che fare né con la prima né con la seconda. Per ritornare al punto di partenza: Bleuler parla, nell’esempio citato, di una patologia che esiste isolata nella psiche monadica del paziente; Laing sottolinea il circolo vizioso che origina delle trappole di definizioni relazionali contraddittorie.


Che cosa sappiamo dei rapporti? Essenzialmente ancora molto poco. Alla psicologia della percezione dobbiamo la consapevolezza che solo i rapporti possono essere percepiti. Vediamo la figura perché essa si staglia sullo sfondo. Un tono invariante può facilmente non essere avvertito; di qui le sirene dei pompieri. Se impediamo ai movimenti pupillari di cambiare il punto prospettico, la percezione visiva diventa difficile, se non impossibile; di qui il fissare gli occhi su di un punto luminoso come tecnica tradizionale di induzione in trance. Quando esploriamo tastando le caratteristiche di una superficie, muoviamo i polpastrelli in varie direzioni; se tenessimo le dita ferme, non ne ricaveremmo alcuna informazione. Solo per differenze comprendiamo in primo luogo il mondo; e solo secondariamente reifichiamo le differenze in proprietà statiche dell’oggetto percepito.


Ma mentre la differenza di grandezza tra mele è oggettivamente misurabile, una definizione esatta dei rapporti in campo umano non è possibile. L’essenza di un rapporto umano è, come dicevamo inizialmente, una mera costruzione, una questione di punti di vista che, nella migliore delle ipotesi, sono variamente condivisi dai partner. È questo il tema di fondo della comunicazione umana, e l’origine della maggior parte dei conflitti. Questa affermazione può risultare sorprendente, poiché siamo troppo abituati a intendere la comunicazione essenzialmente come scambio di informazioni oggettive e reali. Purtuttavia, anche nella comunicazione apparentemente più impersonale, si cela sempre un’espressione del modo in cui il mittente vede il suo rapporto con il ricevente. In una famosa barzelletta viennese, la cameriera del conte Bobby guarda dalla finestra e dice: “Signor Conte, forse avremo la pioggia,” al che Bobby impettito si alza e la informa deciso: “Mizzi, io forse avrò la pioggia e lei forse avrà la pioggia.” In altre parole, con il troppo confidenziale “noi”, la ragazza contravviene alla definizione del rapporto, che Bobby intende in senso rigidamente formale, tra nobile e servitore. Con la pioggia tutto questo non ha nulla a che vedere.


Ma perché noi esseri umani (e del resto anche gli animali superiori) dedichiamo tanto tempo e tanti sforzi alla definizione dei nostri rapporti con gli altri? Proprio perché non siamo monadi in sé conchiuse. Come dimostreremo, gli scomodi risultati dello studio della comunicazione indicano che la nostra coscienza non siede come un ornino nell’ufficio direzionale dell’uomo, e che nel capo non abbiamo un ornino ancora più piccolo, che ha coscienza della propria coscienza e che non sa rispondere alla domanda su chi abbia la coscienza della propria coscienza della propria coscienza. No, proprio l’osservazione di un comportamento gravemente disturbato nel proprio contesto naturale – e cioè nella famiglia, non nell’ambiente totalmente alienato dell’istituto psichiatrico – non lascia dubbi sul fatto che noi esseri umani ci percepiamo come “reali”, e quindi “possediamo” una coscienza solo nella misura in cui le nostre definizioni relazionali nei confronti delle persone chiave del nostro ambiente vengono da queste accettate e per così dire ratificate. In questo momento mi definisco nei vostri confronti come relatore, e voi sembrate accettare questa definizione di rapporto comportandovi come ascoltatori. Se voi, signore e signori, iniziaste però ora a cantare la Marsigliese o a eseguire esercizi ginnici, la mia percezione di essere reale ne sarebbe completamente sconvolta. Il mio Io, la mia realtà non è quindi nel mio cranio monadico – benché sia lì che io la esperimento, o eventualmente nel mio plesso solare – bensì là fuori, tra voi e me, esattamente come il fatto che una mela sia più grande di un’altra, non è una sua qualità individuale.


Già Martin Buber (1957) rinviava a questo fenomeno:


A tutti i livelli sociali gli esseri umani si confermano vicendevolmente [...] nelle loro qualità e capacità umane e una società può essere definita umana proprio nella misura in cui i suoi membri si confermano a vicenda.


E William James avrebbe osservato una volta: “Non si potrebbe trovare punizione più disumana che essere abbandonati – se ciò fosse possibile – nella società e rimanere completamente ignorati da tutti gli esseri umani.” Tali conflitti tuttavia si producono nelle interazioni dei sistemi umani; soprattutto nelle famiglie, ma anche in sistemi allargati come l’ambiente di lavoro, nelle grandi associazioni sociali o politiche e persino nei rapporti internazionali. Nella buona e nella cattiva sorte dipendiamo, per la ratifica della nostra realtà, dagli altri, che a loro volta pretendono da noi l’accettazione della loro personale interpretazione della realtà. “L’enfer, c’est les autres” è la quintessenza dell’eterna maledizione nel dramma Huis clos di Jean-Paul Sartre.


Un esempio pratico. Nel classico esperimento dello psicologo Asch (1955) sette persone siedono in semicerchio davanti al tavolo del conduttore. Il loro compito consiste nell’indicare quale delle tre rette parallele disegnate su una tavola sia lunga quanto un’unica retta disegnata su una seconda. Nelle parole di Asch:


L’esperimento inizia senza incidenti. I soggetti danno le loro risposte secondo l’ordine in cui si sono accomodati nella stanza, e nel primo giro ogni persona sceglie la stessa linea corrispondente. Poi viene esposto un secondo insieme di tavole; di nuovo la scelta del gruppo è unanime. I membri sembrano pronti a subire educatamente un altro esperimento noioso. Al terzo giro si verifica un disturbo inatteso. Uno tra gli ultimi a rispondere è in disaccordo con tutti gli altri nella scelta della linea corrispondente. Appare sorpreso, anzi incredulo, circa il disaccordo. Al successivo giro il soggetto dissente di nuovo, mentre gli altri rimangono unanimi nella loro scelta. Il soggetto diventa sempre più preoccupato ed esitante man mano che il disaccordo continua nelle prove successive; esita prima di dare la sua risposta e parla a voce bassa, oppure sorride in modo imbarazzato.


La singolarità del suo strano comportamento è spiegata dal fatto che gli altri partecipanti erano stati istruiti, prima dell’inizio dell’esperimento, a fornire una risposta sbagliata a partire dal terzo giro. Il dissidente, l’unico vero soggetto dell’esperimento, si trova quindi nella strana situazione in cui cinque persone prima di lui e una dopo forniscono con disinvoltura e con tono di ovvietà una risposta che è in palese contrasto con le sue percezioni. Egli ha di fronte a sé due alternative: o egli confida nei propri sensi, ed entra perciò in conflitto col gruppo, o evita questo stigma sociale, ma perde la fiducia nei propri sensi e nella propria normalità. Asch fece rilevare che in simili circostanze il 36,8% dei soggetti si allinearono con l’opinione del gruppo, ma a prezzo di un forte senso di irrealtà, spersonalizzazione e paura. Secondo una voce non confermata ma credibile, sembra si sia giunti, in un caso, anche a un episodio schizofrenico. Si tenga presente che, a parte forse questo caso, tutti i soggetti coinvolti erano persone clinicamente normali. Dove risiede allora la patologia? Nella loro psiche, nelle risposte degli altri, nella sequenza dell’esperimento? Ovunque e quindi, puntualmente, in nessun luogo.


Un’altra caratteristica dei rapporti consegue naturalmente da quanto sopra e merita quindi di essere citata in questa sommaria descrizione. I rapporti hanno un carattere strutturale, sono cioè di natura più complessa e diversa dalla semplice somma degli elementi che i partner di una relazione vi recano. Al di fuori della psichiatria questo fenomeno è noto da lungo tempo. Esperti nel campo della ricerca cellulare, dell’endocrinologia, della biologia molecolare, della neurologia e di molte altre discipline sanno che l’interazione anche delle più semplici componenti del mondo organico porta a fenomeni di enorme complessità; fenomeni che si oppongono a qualsiasi riduzione alle loro componenti individuali. Se si vogliono tuttavia tentare simili aberranti semplificazioni, occorre allora attribuire agli elementi interessati qualità che essi non posseggono e il tutto sfocia in un’assurdità scientifica. Qui fallisce anche il pensiero causale riduzionistico classico, che riconduce i fenomeni alle loro cause. Anche nell’immagine che la psichiatria ha dell’uomo sta lentamente penetrando questa esperienza di disincanto. Ciò che nella visione monadica poteva essere considerato come una determinata forma di malattia di una psiche individuale, si dimostra, nelle categorie della nuova visione scientifica, come il risultato di complesse configurazioni interattive tra gli uomini, come una di molte possibili conseguenze della causalità circolare dei rapporti, che – una volta stabilitisi – perdono, in virtù della propria circolarità, il punto d’inizio e quello di fine. In essi ogni causa ha un effetto e ogni effetto è una causa.


Dov’è la “causa”, la “colpa”, quando un abitante dell’Europa centrale entrando in un ristorante, precede la sua accompagnatrice americana, aprendole la porta e tenendola per lei aperta dall’interno? Lei si sente offesa dalla di lui scortesia (anche in una simile circostanza in America l’uomo lascia alla donna la precedenza); lui si arrabbia per la di lei improvvisa e inspiegabile acrimonia. Entrambi vedono la colpa nell’altro (finché si arrabbiano in silenzio, cosa che con tutta probabilità faranno) e non nella natura sovrapersonale del loro sistema relazionale, e cioè nell’interferenza delle regole di comportamento, di per sé normali ma tra loro contrastanti, dato che provengono da ambienti culturali diversi. Oppure, in un altro caso: A raccomanda qualcosa a B per lettera; B risponde dichiarandosi d’accordo, ma la sua lettera va smarrita nella posta. Entrambi attendono con crescente irritazione la risposta dell’altro e ognuno di essi decide, alla fine, di ignorare per sempre l’altro a causa della sua maleducazione. Dal punto di vista clinico questi esempi sono irrilevanti; non così i seguenti, che hanno la stessa struttura di base.


Indipendentemente dai motivi che spingono il melanconico a vedere il mondo con i colori più cupi, il suo comportamento e quello della sua cerchia porteranno inevitabilmente alla creazione di un circuito di autoregolazione che mantiene e alimenta la depressione. La sua tristezza risveglia negli altri il desiderio di fargli coraggio, di fargli notare che il mondo e la vita non sono poi così tragici, di indurlo a superare un po’ se stesso. Questi consigli a fin di bene producono in lui l’effetto opposto a quello desiderato, rafforzando il senso di disperazione, di inferiorità e soprattutto di ingratitudine nei confronti dei suoi cari che si sforzano, così altruisticamente, di aiutarlo. Quando poi si rende conto che la loro incapacità di aiutarlo li rende disperati, alla sua malinconia si aggiunge il pesante senso di colpa che scaturisce dal timore di trascinare con sé anche gli altri nello stesso abisso di tristezza. Dov’è qui la patologia? Apparentemente nella monade paziente. Ma lo studio del modello di comunicazione in famiglie con un figlio affetto da depressione suggerisce che tale depressione non sia un fattore statico congenitamente esistente, e mette in rilievo il fatto che in questi sistemi umani anche la più normale manifestazione di tristezza o di irritazione passeggera è interpretata in forma del tutto idiosincratica. È come se il sistema avesse una regola sovrapersonale che attribuisce un valore particolarmente negativo a questi stati d’animo. Con ciò non si intende assolutamente negare che, proprio nel caso della depressione, la predisposizione e altri fattori fisiologici possano svolgere un ruolo decisivo. Solo che col termine predisposizione si intendono troppo spesso regole di comportamento trasmesse di generazione in generazione, che si sottraggono all’osservazione monadica (proprio perché sono regole sistemiche e non individuali). Per quanto riguarda i fattori fisiologici, metabolici o endocrinologici, si tratta anche qui di circuiti di regolazione a proposito dei quali non si può dire con sicurezza se siano i processi fisiologici ad avere effetti emotivi o se, al contrario, l’elemento psichico condizioni i processi fisiologici. Nella visione cibernetica questa domanda non ha alcuna importanza; la dicotomia corpo-psiche appartiene alla visione monadica.


Il secondo esempio è tratto da un saggio scritto più di cento anni fa, i cui autori anticipano la moderna concezione interattiva delle patologie psichiatriche ampliando l’ambito di osservazione al di là del singolo paziente. Si tratta dello studio classico sulla folie à deux di Lasègue e Falret (1877), che dopo aver descritto il paziente, proseguono così commentando:


La suddetta descrizione è quella del malato di mente che innesca la situazione del délire à deux. Il suo partner è molto più difficile da definire e tuttavia ricerche accurate ci permetteranno di riconoscere le regole che questo secondo partecipante osserva nella pazzia comunicata [...] Quando il tacito accordo che lega i due folli è quasi raggiunto, non vi è solo la necessità di studiare l’influenza del partner malato su quello presunto normale, ma anche, all’inverso, quale sia l’influenza del partner assennato su quello disturbato, e di dimostrare come la differenza tra i due venga cancellata dal reciproco cedimento.


Per evitare malintesi a proposito degli esempi citati, bisogna tener presente che essi non vanno intesi come “spiegazioni” della depressione o della schizofrenia. Si tratta piuttosto di una descrizione dei modelli di interazione che, solo se vengono ridotti al paziente designato, danno un senso alla definizione di depressione o schizofrenia e poi rendono necessaria la sua spiegazione genetico-causale. Della gravità di questo procedimento, e delle decisive conseguenze personali e sociali per il paziente designato, non abbiamo qui lo spazio di occuparci.


Se vogliamo trarre le conseguenze di quanto abbiamo detto, dovremmo ora chiederci in quale misura sia mai possibile definire il concetto di disturbo fisico o psichico. La psichiatria classica ha per questa domanda una risposta univoca: la salute o la malattia psichica risultano dal grado di adattamento alla realtà del soggetto. Ma noi sappiamo, quantomeno a partire da Kant, che la realtà reale non è accessibile all’uomo, e che esso vive sempre e soltanto con interpretazioni o immagini della realtà, che, certo ingenuamente, suppone essere oggettivamente reali. La sua presunta conoscenza della realtà oggettiva, e la deduzione, logicamente trattane, che le persone psichicamente normali, contrariamente ai pazzi, vedono il mondo come esso realmente è, e vivono in modo conforme alla realtà, è di conseguenza insostenibile. Questo tema è di grande importanza sia per il ricercatore sia per il clinico. Quando parliamo di realtà, intendiamo, quasi sempre senza rendercene conto, fondamentalmente due cose. In primo luogo percepiamo le qualità fisiche degli oggetti: forma, colore, aspetto e così via. Chiameremo questa realtà di primo ordine e daremo per vero che – almeno teoricamente – le diversità di opinione possono qui essere risolte in maniera oggettiva. Una balena non è un pesce perché, tra l’altro, è un mammifero e un animale che respira coi polmoni. Se un oggetto è rosso o verde lo si può accertare spettroscopicamente, sulla base della lunghezza d’onda della luce riflessa dall’oggetto in questione. Va da sé che tutto ciò è possibile solo fra esseri umani per i quali i suoni “pesce”, “balena”, “rosso”, “verde”, o la loro riproduzione simbolica tramite la parola scritta, abbiano lo stesso significato, cioè tra esseri umani che parlino la stessa lingua. In questa sede non indugeremo oltre su questa condizione imprescindibile di ogni comunicazione.


Oltre alle qualità puramente fisiche degli oggetti della nostra percezione, vi è però un ulteriore aspetto della realtà, e cioè il senso, il significato e il valore che noi attribuiamo a questi oggetti. L’universo dei significati attribuiti alle cose, del loro senso e valore lo chiameremo realtà di secondo ordine. E in questo universo non esistono – come già per le definizioni relazionali – criteri oggettivi. La realtà di secondo ordine è piuttosto il risultato di decorsi di comunicazione estremamente complessi (Watzlawick 1976). Noi siamo nati in una certa realtà, e ingenuamente supponiamo che sia la realtà reale, magari fino al momento in cui esperiamo un’altra cultura, che bruscamente ci strappa dalla nostra supposizione troppo semplicistica. Riconosciamo allora con sorpresa – e nella maggior parte dei casi con disprezzo – che in altri paesi vi sono altri modi di vedere la realtà, e di solito finiamo per concludere: “È una follia!”, proprio come gli abitanti di quei paesi considerano folle, per parte loro, la nostra visione della realtà. Nell’antica Grecia l’omosessualità era considerata una forma particolarmente sublime dell’amore umano; in India può essere considerato santo un uomo al quale in Occidente verrebbe fatta una diagnosi di catatonia. Da ciò deriva che l’eccentricità, la malvagità, la follia, non sono più attributi della monade, ma il risultato di inconciliabili realtà di secondo ordine e della impossibile riduzione del conflitto al singolo individuo, escludendo il contesto interpersonale. Ciò non significa che i disturbi psichici, in determinati momenti di crisi, non includano anche la realtà di primo ordine e non possano condurre a quel livello a una distorsione della percezione. Molto prima però che questo accada, vi sono già gravi discrepanze nella visione della realtà di secondo or dine, del sistema di interazione in oggetto. Inoltre si deve considerare che anche i disturbi della realtà di primo ordine non esistono in un vuoto, ma hanno inevitabilmente profonde ripercussioni interpersonali. E soprattutto non si deve trascurare il fatto che proprio quei sintomi che di norma sono considerati nettamente psicotici, quali allucinazioni positive o negative, sdoppiamenti della personalità, amnesie, disturbi dell’orientamento nello spazio e nel tempo e altri ancora, possono essere indotti, senza particolari difficoltà, mediante l’ipnosi, in soggetti umani clinicamente normali, maturi e capaci di contatti. Questa realtà è nota da gran tempo, e dovrebbe far riflettere, trattandosi, nel caso dell’ipnosi, dell’interazione tra due persone.


Un’altra obiezione che spesso viene sollevata contro questa concezione dell’essere umano è di natura etica: con essa non si corre forse il rischio di relativizzare ogni morale, di aprire nuovamente la strada al determinismo o al fatalismo? E che ne è della responsabilità umana e della libera volontà? Questa questione, tuttavia, non è affatto nuova, e si è posta molto prima che si profilasse l’immagine dell’uomo qui tracciata. Come molti pensatori prima di lui, anche Max Planck ne fornisce nel 1946 una chiara definizione:


Considerata dall’esterno, la volontà è causalmente determinata, considerata dall’interno la volontà è libera. Con la constatazione di questo dato di fatto si risolve il problema della libera volontà. Esso è nato solo dal fatto che non ci si è preoccupati di stabilire con chiarezza e di mantenere il punto di osservazione.


Alla verità di questa osservazione sembra essersi aggiunto ben poco. Al contrario, l’approfondita comprensione dell’interazione fra gli uomini ci insegna che una differenza basilare è data dal fatto che l’osservatore si trovi all’interno o all’esterno del sistema da osservare. All’interno del rapporto la comprensione della sua totalità gli è impossibile, così come noi non possiamo cogliere il nostro corpo nella sua totalità, poiché l’occhio è parte del corpo e non solo non può vedere la nostra schiena ma neanche se stesso. “La vita è come un occhio che non può vedere se stesso, come una spada che non può ferire se stessa”, avrebbe detto un maestro zen. All’interno del rapporto, noi siamo quindi monadicamente responsabili e sempre lo saremo. Dall’esterno del contesto relazionale, tuttavia, il rapporto si lascia più o meno cogliere nella sua totalità. E lo psicoterapeuta si trova al di fuori del rapporto, o almeno dovrebbe mantenersene al di fuori per non perdere la visione d’insieme e la propria capacità di intervento.


Ora, a quale visione dell’uomo conducono queste considerazioni? Il solo tentativo di rispondere a questa domanda ci costringe ad ampliare l’ambito della ricerca portandoci inevitabilmente a invadere il campo dell’epistemologia, dottrina dell’essenza e dell’origine del sapere. In altre parole, non si tratta più della domanda classica sulla natura di un mondo oggettivamente esistente, dal quale deve essere bandito, in osservanza dei dogmi scientifici classici dell’oggettività assoluta, tutto ciò che è soggettivo. A partire da Heisenberg sappiamo che la separazione del soggetto osservatore dall’oggetto osservato è cosa impossibile, e che un universo totalmente oggettivo e privo di soggetti sarebbe del tutto inosservabile. La questione dell’essenza umana, che occupa un posto centrale nella psichiatria, è inoltre complicata dal fatto che in essa l’uomo è soggetto e oggetto, al tempo stesso osservatore e oggetto dell’osservazione, descrittore e oggetto della descrizione. Qui la psichiatria si trova immersa fino al collo nel problema dell’autoreferenza (vedi oltre pp. 140 sgg.), e la domanda non è più “Cosa sappiamo?” bensì “Come sappiamo?” – ed eccoci quindi nel campo dell’epistemologia.


Quanto fluidi siano i confini tra l’uomo e il mondo lo si è già accennato citando l’esempio del cieco e del suo bastone. L’epistemologia del nostro tempo, la cibernetica, ha il merito di avere ampiamente studiato questa complementarità. Il cibernetico Heinz von Foerster (1974) la tratteggia in questo modo:


E così arriviamo alla verità lapalissiana che la descrizione del mondo presuppone qualcuno che lo descriva. Ciò di cui quindi abbiamo bisogno è la descrizione del “descrittore” oppure, in altre parole, abbiamo bisogno di una teoria dell’osservatore. Poiché però, in base allo stato odierno delle nostre conoscenze, abbiamo solo degli esseri viventi come osservatori, questo compito sembra spettare al biologo. Ma egli stesso è un essere vivente e ciò significa che la sua teoria non solo deve includere lui stesso, ma anche la circostanza che egli enuncia la teoria.


E nelle frasi finali del suo A Calculus of Self-Reference il biologo e cibernetico cileno Francisco Varela (1975) scrive:


Il punto di partenza di questo calcolo [...] consiste nel porre una indicazione. Con questo atto originario tracciamo una separazione tra i fenotipi che costituiscono per noi il mondo. Di qui in avanti, il primato appartiene sempre al ruolo dell’osservatore, che fa le proprie distinzioni dove più gli pare. Tuttavia queste distinzioni, che da una parte creano il nostro mondo, rivelano dall’altra proprio il fatto che noi tracciamo delle distinzioni – ed esse danno conto piuttosto del punto di vista dell’osservatore che della vera natura del mondo, la quale, in seguito alla separazione tra osservatore e osservato, rimane sempre incomprensibile. Mentre percepiamo il mondo nella sua determinata essenza, dimentichiamo ciò che abbiamo fatto per percepirlo in questo modo, e se ricostruiamo come si è giunti a ciò, non troviamo quasi altro che un’immagine riflessa di noi stessi nel mondo e in quanto mondo. Al contrario di quanto generalmente si suppone, l’analisi accurata di un’osservazione rivela le qualità dell’osservatore. Noi, gli osservatori, ci distinguiamo proprio in base alle distinzioni che tracciamo in ciò che apparentemente non siamo, vale a dire il mondo.


Da queste considerazioni, provenienti da un campo che nulla ha a che fare con la psichiatria, emerge una nuova visione dell’uomo che è contemporaneamente anche una visione del mondo. In questa visione, l’uomo e il mondo sono aspetti complementari. Il mondo non è più oggetto nel senso originario del termine, cioè qualcosa che ci sta di fronte. Questa complementarità di uomo e mondo è così difficile da capire da un punto di vista intellettuale quanto la complementarità di onde e particelle formulata da Heisenberg.


Questa visione ci sembra tanto più inaccettabile a causa della sua natura quasi mistica. Finora era infatti toccato solo ai mistici di esperire l’unità di soggetto e oggetto, in particolari stati di coscienza, e di volerla poi descrivere nella lingua inadeguata di quel mondo che essi trascendevano nell’esperienza mistica. E tuttavia – dal Tractatus di Wittgenstein fino al Calculus di Varela – si profila una gamma di nuove possibilità espressive che si riprodurranno nella lingua e quindi nella visione dell’uomo adottata dalla psichiatria.


Certo ai poeti tale visione non fu mai estranea. In uno dei Quattro quartetti di T.S. Eliot troviamo questa semplice descrizione:


Continueremo a esplorare,


e alla fine delle nostre esplorazioni


ci troveremo al punto da cui siamo partiti


e conosceremo i posto per la prima volta.

* Così per esempio un sogno raccontato non è semplicemente il racconto di un sogno. È piuttosto il racconto del sogno di un essere umano che sa di dover raccontare i sogni al proprio psichiatra e che sa inoltre, o per lo meno suppone, che certi sogni vengono considerati in certo qual modo positivi e altri invece negativi, che lo psichiatra reagirà a essi in un modo piuttosto che in un altro; che lui, il sognatore, sarà costretto a reagire in base a questa reazione e così via. Il fenomeno era già ben noto a Freud, che chiamò questi sogni “sogni di compiacenza”. Non molto diversamente accade coi test proiettivi, che per lungo tempo furono considerati strumenti mediante i quali il mondo interiore poteva proiettarsi all’esterno. Ricerche più recenti (per es. Rosenthal 1966 e Mischel 1986) hanno dimostrato che le interpretazioni delle persone sottoposte a esame sono fortemente influenzate dalle condizioni relazionali in cui il test si svolge, e che le convinzioni, le aspettative e i pregiudizi del conduttore possono con estrema facilità trasformarsi in profezie che si autoavverano.


**In italiano nel testo. [N.d.T.]