venerdì 29 novembre 2024

IL POPULISMO TRIBALE DELLE 5STELLE CADENTI Alessandra Libutti


 IL POPULISMO TRIBALE DELLE 5STELLE CADENTI
Alessandra Libutti

Il populismo è una questione di pancia, lo sappiamo. Quell’istinto naturale che fa reagire all’immediato. È la semplificazione della complessità del mondo. Tutti possono ragionare di pancia. È una roba fatta di emozioni, roba chimica del corpo che arriva dritta al cervello, senza filtri. Non occorre educazione, ragionamento o comprensione. È il terreno dove uno vale uno, perché, una volta estromessa la razionalità, il professore è uguale all’analfabeta, il politico al pescivendolo, il giornalista all’influencer. Ma proprio tale e quale: urla, blatera, insulta, si agita, talvolta viene pure alle mani.

Proprio ieri leggevo un pezzo bellissimo di Gustavo Micheletti che ci ricordava la differenza tra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità di Max Weber. Un excursus illuminante sul confine che divide chi si ferma all’immediato da chi ha una visione; chi si affida rigidamente alle regole e chi invece valuta il quadro generale; chi, nel tentativo di fare la cosa etica, ne fa una immorale e chi invece sa di dovere, talvolta, mettere da parte l’etica per agire moralmente.

Parrebbe quasi che l’etica della convinzione, con i suoi paraocchi e la sua inflessibilità, sia il peggio che ci possa capitare, mentre speriamo sempre in un qualche grande statista che emerga, facendosi portavoce di un’etica della responsabilità. Invece no. C’è molto di peggio. C’è il populismo. C’è quel deserto della ragione dove all’etica non si riesce neanche ad arrivare. Perché l’etica è una questione di testa, non di pancia. Ha bisogno del pensiero, della razionalità e della valutazione. Richiede la capacità di strutturare il mondo, l’umanità, la società, e l’individuo concettualmente. Per tanto, quell’etica un po’ limitativa della convinzione, quella del funzionario diligente, dell’ideologo o del militante si pone pur sempre su un gradino abbastanza alto dell’evoluzione umana.

Più giù della testa invece c’è la pancia, c’è la regressione, la rinuncia ad usare il cervello, scegliendo di affidarsi alle reazioni istintive, e alle pulsioni più primitive dell’essere umano. La pancia è il regno della semplicità brutale, dell’immediato, dell’appagamento istantaneo, senza la fatica di analizzare, comprendere, ponderare. È il luogo dove le complessità del mondo si dissolvono in slogan, dove le contraddizioni vengono ignorate e ogni problema ha una soluzione apparentemente ovvia e sbrigativa. È qui che il populismo trova il suo humus ideale, trasformando le emozioni in motore politico e le reazioni istintive in bandiere di lotta.

Ma c’è un punto su cui vale la pena soffermarsi: il populismo non è solo una questione di pancia in sé, è una strategia che sfrutta quella pancia per ottenere consenso. È alimentato da chi sa che la complessità allontana, che il ragionamento stanca, che la riflessione divide, mentre l’emozione unisce, semplifica e mobilita. Ed è per questo che il populista non solo si rivolge alla pancia, ma la eccita deliberatamente, accendendo rabbia, paura, rancore o speranza.

Questo processo crea un corto circuito pericoloso: il pensiero critico si spegne, sostituito da una narrativa polarizzante e spesso manichea, che vede solo amici e nemici, buoni e cattivi, noi contro loro. Non c’è spazio per la complessità, né per il dubbio, perché entrambi indeboliscono il messaggio e confondono la folla. La pancia non ha dubbi, non si interroga: reagisce.

A questo livello, il populismo si traduce in una sorta di tribalismo moderno, dove la fedeltà al “capo” o alla “causa” conta più della verità, della coerenza, o della razionalità. 

Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni, nel grande circo del Movimento Cinque Stelle, è l’apoteosi della rinuncia al pensiero, alla ragione, e all’etica. L’indecoroso spettacolo di un comico e un azzeccagarbugli che si azzuffano per accaparrarsi il potere, incapaci di gestire un congresso, smarriti in quesiti, ignari delle proprie normative, è il riflesso ultimo di quel populismo di pancia che ha sempre rifiutato la complessità per rifugiarsi nella semplificazione più estrema.

L’immagine di questo movimento, nato dalla protesta e dall’invettiva, oggi si sgretola sotto il peso delle stesse dinamiche che aveva elevato a metodo di lotta politica. Quel “vaffanculo” originario, che era il grido primordiale contro le istituzioni, contro la politica tradizionale e contro chiunque osasse proporre una riflessione strutturata, si è trasformato in un boomerang che li sta colpendo con tutta la forza della sua tribalità. Perché sì, quando tutto è ridotto a urla, insulti e istinti primordiali, non rimane spazio per costruire e per dialogare.

Il caos interno che emerge in ogni fase critica del loro percorso – dal conflitto sulle leadership, alle diatribe legali, ai pasticci procedurali – è la dimostrazione più lampante di quanto sia fragile una struttura politica costruita esclusivamente sull’emotività. La loro incapacità di affrontare il dissenso in modo razionale e costruttivo, il continuo scivolare in battaglie personali e ripicche puerili, non è solo uno spettacolo grottesco: è il prezzo inevitabile di una politica che ha scelto di abdicare al pensiero critico.

E ora, alla resa dei conti, emerge la grande verità: per sopravvivere alla lunga, per lasciare un segno duraturo, non basta solo urlare. Non basta indignarsi, gridare slogan o costruire capri espiatori. Talvolta, occorre anche pensare.