domenica 24 novembre 2024

INVITO A UNA DECAPITAZIONE Vladimir Nabokov



INVITO A UNA DECAPITAZIONE
Vladimir Nabokov 
Recensione
A proposito di quelli che sono per l'assoluta trasparenza.
Il mondo dell'assoluta trasparenza viene raccontato in un romanzo di Nabokov. La vicenda del romanzo si svolge, infatti, in un mondo dove si vive sotto la folle dittatura della "trasparenza". Il protagonista di questo romanzo, essendo «opaco», in quanto i suoi pensieri e le sue sensazioni non sono trasparenti agli occhi di coloro che lo circondano, rappresenta un ostacolo in un ambiente dove tutti gli altri sono reciprocamente trasparenti. In quel mondo capovolto, l'opacità non è solo un difetto, ma una grave colpa, in quanto segnale di «turpitudine gnostica» del singolo. Quindi succede che si viene condannati a morte non per ciò che si fa ma per ciò che si è. È per questo che il protagonista dovrà essere decapitato. In questo romanzo tutto è parodia. Salvo che, in quel mondo, le parodie uccidono. E uccidono mantenendo un'aria «di calda camaraderie», che non è altro che la perfezione della tortura. 

[...] Fin dai primi anni Cincinnatus, che per uno strano e fortunato caso aveva capito quali rischi correva, era riuscito a nascondere accuratamente una sua peculiarità. Era impenetrabile ai raggi altrui e pertanto, quando abbassava la guardia, produceva una strana impressione, come di un solitario, oscuro ostacolo in quel mondo di anime reciprocamente trasparenti; aveva imparato, tuttavia, a fingersi translucido ricorrendo a un sistema complesso di illusioni ottiche, per così dire – ma bastava che si distraesse, che si concedesse una pausa momentanea nel controllo che esercitava su di sé, nella manipolazione delle sfaccettature e degli angoli accortamente illuminati verso cui volgeva la sua anima, perché subito scattasse l'allarme. Nel pieno dell'eccitazione di un gioco, i suoi coetanei di colpo lo abbandonavano come se avessero sentito che il suo sguardo limpido e l'azzurro delle sue tempie costituivano solo un inganno scaltro e che Cincinnatus era, in realtà, opaco. Qualche volta, nel bel mezzo di un silenzio improvviso, l'insegnante, con afflitta perplessità, chiamava a raccolta tutte le riserve di pelle intorno agli occhi, lo fissava a lungo e infine diceva: «Che cosa c'è che non va, Cincinnatus?». Allora Cincinnatus riprendeva il controllo di sé e stringendosi quel suo sé al petto lo traferiva in un luogo sicuro"...."“A poco a poco Cincinnatus aveva smesso completamente di controllarsi e un giorno, durante una riunione all'aperto nel parco cittadino, vi fu un'improvvisa ondata di allarme, e qualcuno disse ad alta voce: «Cittadini, tra noi c'è un…». Era seguita una parola strana, quasi dimenticata, e il vento aveva frusciato tra le robinie, e Cincinnatus non aveva escogitato niente di meglio che alzarsi e andarsene, staccando con aria assente le foglie dai cespugli lungo la strada. Dieci giorni dopo era stato arrestato.[...]

INVITO A UNA DECAPITAZIONE 
1.
In conformità alla legge, la condanna a morte venne annunciata a Cincinnatus C. con un sussurro. Tutti si alzarono in piedi, scambiandosi sorrisi. Il giudice dai capelli bianchi accostò la bocca al suo orecchio, ansimò per un attimo, comunicò il responso e si allontanò a passo lento, quasi stesse scollandosi. Cincinnatus venne riportato immediatamente alla fortezza. La strada si snodava attorno al suo zoccolo roccioso e spariva sotto il cancello come un serpente in una crepa del terreno. Lui era calmo; tuttavia dovette essere sorretto lungo il percorso attraverso gli interminabili corridoi perché non si reggeva bene sulle gambe, simile a un bambino che abbia appena imparato a camminare, o quasi fosse sul punto di sprofondare come chi ha sognato di camminare sull'acqua solo per essere colto da un dubbio improvviso: ma è mai possibile? Rodion, il carceriere, impiegò molto tempo ad aprire la porta della cella – la chiave non era quella giusta – e ci fu il solito trambusto. Infine la porta cedette. All'interno c'era già l'avvocato, in attesa. Sedeva sulla branda, sprofondato nei suoi pensieri, senza la marsina (dimenticata su una sedia nell'aula del tribunale – era una giornata calda, una giornata assolutamente limpida); balzò in piedi impaziente quando fecero entrare il prigioniero. Ma Cincinnatus non si sentiva di parlare. Anche se l'alternativa era la solitudine in quella cella, con lo spioncino simile a una falla in uno scafo, non gl'importava e chiese di essere lasciato solo; tutti gli fecero un inchino e se ne andarono.

Così ci stiamo avvicinando alla fine. Il lato destro, la parte non ancora gustata del romanzo, che durante la deliziosa lettura tastavamo con delicatezza, verificandone in modo meccanico la consistenza (e le nostre dita erano sempre allietate dal placido, rassicurante spessore), improvvisamente, senza ragione alcuna, è diventato smilzo: qualche minuto di rapida lettura e già eccoci a valle – Oh, orribile! Il mucchio di ciliegie, la cui massa ci era sembrata di un vermiglio scuro tanto lucente, si è trasformato di colpo in singole drupe: quella laggiù con una tacca è un po' marcia, e questa qui si è raggrinzita e seccata intorno al nocciolo (e l'ultima è, inevitabilmente, dura e acerba). Oh, orribile! Cincinnatus si tolse il gilet di seta, indossò la vestaglia e cominciò a camminare tutt'attorno battendo un po' i piedi per far cessare il tremito. Sul tavolo riluceva un foglio di carta bianco e su quel candore spiccava nitida una matita ben temperata, lunga quanto la vita di chiunque, eccetto quella di Cincinnatus, con un luccichio di ebano su ciascuna delle sue sei sfaccettature. Un illuminato discendente del dito indice. Cincinnatus scrisse: «Nonostante tutto, io, in senso relativo, esisto. In fin dei conti ho avuto dei presentimenti, ho avuto dei presentimenti di questa fine». Rodion stava dal lato opposto della porta e guardava attraverso lo spioncino con la severa attenzione di un capitano di nave. Cincinnatus sentì freddo alla nuca. Cancellò quello che aveva scritto e prese a ombreggiare delicatamente il foglio; a poco a poco comparve l'embrione di un motivo ornamentale che si avvolse a spirale prendendo la forma di un corno di ariete. Oh, orribile! Attraverso l'oblò azzurro Rodion fissava l'orizzonte che ora si alzava ora si abbassava. Chi stava cominciando a soffrire il mal di mare? Cincinnatus. Si coprì di sudore, tutto diventò buio ed egli percepì la radice di ogni singolo capello. Un orologio batté le ore – quattro o cinque colpi – con le vibrazioni e le contro-vibrazioni e le riverberazioni proprie di una prigione. Le zampe affaccendate di un ragno – amico ufficialmente riconosciuto del carcerato – si calarono dal soffitto lungo un filo. Nessuno, tuttavia, bussò alla parete, perché Cincinnatus era, per il momento, l'unico prigioniero (in una così immensa fortezza!).

Un po' più tardi il carceriere Rodion entrò e gli propose di ballare insieme un valzer. Cincinnatus accettò. Presero a volteggiare. Le chiavi appese alla cintura di cuoio di Rodion tintinnavano; lui sapeva di sudore, tabacco e aglio; canticchiava a bocca chiusa, soffiando nella sua barba rossa; e le sue giunture arrugginite crocchiavano (non era più quello di un tempo, ahimè – adesso era grasso e aveva il fiato corto). Ballando, finirono in corridoio. Cincinnatus era molto più piccolo di statura rispetto al suo compagno. Era leggero come una foglia. Il vento del valzer faceva ondeggiare le punte dei suoi baffi lunghi ma sottili, e i suoi grandi occhi limpidi guardavano in tralice, come capita sempre ai ballerini timorosi. Era veramente molto piccolo per un uomo adulto. Marthe gli diceva sempre che le sue scarpe le andavano strette. Là dove il corridoio curvava c'era un altro guardiano, senza nome, con un fucile; indossava una maschera da cane con una garza in corrispondenza della bocca. Descrissero un cerchio intorno a lui per poi rientrare volteggiando nella cella, e allora Cincinnatus rimpianse che l'aamichevole abbraccio del deliquio fosse stato così breve.

Con deprimente monotonia, l'orologio batté ancora le ore. Il tempo avanzava in progressione aritmetica: adesso erano le otto. La brutta finestrella si rivelò accessibile alla luce del tramonto; sulla parete laterale apparve un parallelogramma di fuoco. La cella si riempì fino al soffitto dei colori a olio del crepuscolo, densi di straordinari pigmenti. Così che ci si sarebbe potuti chiedere se quello a destra della porta fosse il quadro di uno spericolato colorista, oppure un'altra finestra, una finestra arabescata, di un genere che già non esiste più. (Era, in realtà, un foglio di pergamena appeso alla parete, dove, su due colonne, era specificato il «regolamento per i carcerati»; l'angolo ripiegato, i caratteri rossi dell'intestazione, gli ornamenti, l'antico stemma della città – vale a dire una fornace con le ali – offrivano alla luce serale la superficie necessaria). I mobili in dotazione alla cella erano un tavolo, una sedia e la branda. La cena (i condannati a morte avevano diritto allo stesso pasto dei guardiani) era già stata allestita e da tempo si stava raffreddando sul vassoio di zinco. Ora il buio era assoluto. A un tratto la cella s'illuminò di una luce elettrica dorata, molto intensa.

Cincinnatus tirò giù i piedi dalla branda. Una boccia rotolò nella sua testa, in diagonale dalla nuca alla tempia si fermò e tornò indietro. Nel frattempo la porta si aprì ed entrò il direttore della prigione. Indossava, come sempre, la finanziera e assunto una posa perfettamente eretta, con il torace in fuori, una mano sul petto, l'altra dietro la schiena. Un parrucchino inappuntabile, nero come la pece, con una cerea scriminatura, aderiva liscio al suo cranio. Il viso, frutto di una selezione senza amore dalle spesse guance giallastre e con un reticolo di rughe piuttosto vieto, era ravvivato, in un certo senso, da due, e solo due, occhi sporgenti. Muovendo con cadenza regolare le gambe nei pantaloni simili a colonne, avanzò a grandi passi dalla parete verso il tavolo, fin quasi alla branda, ma, nonostante la sua maestosa solidità, svanì tranquillamente, dissolvendosi nell'aria. Un minuto dopo, tuttavia, la porta si riaprì, questa volta con il familiare cigolio, e, sempre in finanziera, il petto ben in fuori, quel medesimo soggetto rientrò nella cella.

«Avendo appreso da fonte degna di fede che il suo destino è stato, in certo qual modo, segnato,» esordì con voce profonda «ho ritenuto fosse mio dovere, caro signore…».

Cincinnatus disse: «Gentile. Lei. Molto». (Le parole dovevano ancora essere sistemate opportunamente).

«Lei è molto gentile» fece un Cincinnatus supplementare, dopo essersi schiarito la gola.

«Di grazia!» esclamò il direttore, senza curarsi della mancanza di tatto di quella parola. «Di grazia! Si figuri. Dovere. Lo faccio sempre. Ma perché, scusi la sfrontatezza, non ha toccato cibo?».

Il direttore tolse il coperchio e avvicinò alle proprie narici sensibili la scodella di stufato rappreso. Afferrò una patata con due dita e cominciò a masticare vigorosamente, già adocchiando con il sopracciglio qualche cosa in un altro piatto.

«Non so quale cibo migliore potrebbe desiderare» osservò contrariato e, tirandosi fuori i polsini della camicia, sedette al tavolo per mangiare più comodamente il budino di riso.

Cincinnatus disse: «Vorrei sapere se ora l'attesa sarà lunga».

«Eccellente sabayon! E lei vorrebbe anche sapere se l'attesa sarà lunga. Purtroppo non lo so nemmeno io. Mi informano sempre all'ultimo momento.

Ho protestato varie volte e posso mostrarle tutta la corrispondenza al riguardo, se le interessa».

«Dunque potrebbe essere domani mattina?» chiese Cincinnatus.

«Se le interessa…» disse il direttore. «… Sì, davvero squisito e più che appagante, mi creda. E ora, pour la digestion, lasci che le offra una sigaretta. Niente paura, al massimo è solo la penultima» soggiunse argutamente.

«Non lo chiedo per curiosità» replicò Cincinnatus. «E vero che i codardi sono sempre troppo curiosi. Ma le assicuro… Anche se non posso controllare i miei brividi e così via, questo non significa niente. Non è colpa del fantino se il cavallo freme. Se voglio sapere, una ragione c'è: il compenso per una condanna a morte sta nel conoscere l'ora esatta in cui si morirà. Un grande lusso, ma meritato. Invece, io vengo lasciato in questa incertezza, tollerabile solo per chi vive in libertà. E per giunta ho in mente molti progetti, iniziati e interrotti in varie occasioni… Solo che non potrò portarli avanti se il tempo che mi resta prima dell'esecuzione non sarà sufficiente al loro sistematico compimento. Ecco perché…».

«Oh, la smetta di borbottare, per favore» sbottò il direttore, irritato. «In primo luogo, è contro il regolamento e poi glielo dico chiaro e tondo, e per la seconda volta: non lo so. Tutto quello che posso dirle è che il suo compagno di sorte è atteso di giorno in giorno; quando sarà arrivato, e si sarà riposato, e si sarà assuefatto all'ambiente, dovrà ancora verificare lo strumento, sempre che, naturalmente, non abbia portato con sé il proprio, il che è molto probabile. Com'è il tabacco? Mica troppo forte?».

«No,» rispose Cincinnatus, con un'occhiata distratta alla sua sigaretta «ma mi sembra, secondo la legge… non lei forse, ma il governatore della città… dovrebbe…».

«Abbiamo fatto la nostra chiacchierata, ora basta» disse il direttore. «In effetti non sono venuto qui per ascoltare lamentele, ma per…». Sbattendo le palpebre si frugò prima in una tasca, poi in un'altra; infine da quella interna, all'altezza del petto, estrasse un foglio di carta a righe, chiaramente strappato da un taccuino.

«Qui non c'è un portacenere» osservò, facendo un gesto con la sigaretta. «Be', affoghiamola in quel che resta della salsa… Così. Direi che la luce è un po' troppo forte. Forse se… Oh, non importa; ci accontenteremo».

Spiegò il foglio e, senza inforcare gli occhiali con la montatura di corno, ma tenendoli davanti agli occhi, cominciò a leggere con voce limpida:

«"Prigioniero! In quest'ora solenne, mentre tutti gli sguardi…". Credo che dovremmo alzarci in piedi» disse, interrompendosi preoccupato, e si alzò. Cincinnatus si alzò a sua volta.

«"Prigioniero, in quest'ora solenne, mentre tutti gli occhi sono su di te, e i tuoi giudici esultano, e tu ti stai preparando a compiere quei movimenti involontari del corpo che fanno immediatamente seguito al taglio della testa, io ti rivolgo una parola d'addio. Vuole la sorte – e questo non lo dimenticherò mai – che io provveda al tuo soggiorno in prigione con tutti i molteplici agi consentiti dalla legge. Sarò quindi felice di dedicare la massima attenzione a ogni gesto con il quale vorrai manifestare la tua gratitudine, preferibilmente, tuttavia, in forma scritta e su una sola facciata del foglio"».

«Ecco,» concluse il direttore, ripiegando le stanghette degli occhiali «questo è tutto. Non la tratterrò più a lungo. Se avrà bisogno di qualche cosa, me lo faccia sapere».

Si sedette al tavolo e prese a scrivere rapidamente, lasciando intendere così che l'udienza era finita. Cincinnatus uscì.

Sulla parete del corridoio sonnecchiava l'ombra di Rodion, ingobbita sull'ombra di uno sgabello, solo una frangia di barba si profilava in rosso scuro. Più avanti, dove la parete curvava, l'altro guardiano si era tolto la maschera d'ordinanza e si stava strofinando la manica sulla faccia. Cincinnatus cominciò a scendere le scale. I gradini di pietra, stretti e scivolosi, erano affiancati dall'impalpabile spirale di una fantasmatica ringhiera. Arrivato in fondo, percorse altri corridoi. Una porta, con la scritta «ufficio» a rovescio come in uno specchio, era spalancata; la luce della luna scintillava su un calamaio, e un cestino della carta straccia frusciava e si muoveva furiosamente sotto il tavolo: con ogni probabilità c'era caduto dentro un topo. Dopo aver superato molte altre porte, Cincinnatus incespicò, saltellò e si ritrovò in un cortiletto cosparso dei pezzi di una luna demolita. Quella notte la parola d'ordine era silenzio – il soldato al cancello rispose con il silenzio al silenzio di Cincinnatus e lo fece passare; lo stesso avvenne agli altri cancelli. Lasciandosi alle spalle la mole brumosa della fortezza, Cincinnatus prese a scivolare lungo uno scosceso terrapieno erboso bagnato di rugiada, arrivò a un pallido sentiero tra le rupi, tagliò due o tre volte le curve della strada principale – che, scrollatasi finalmente di dosso le ultime propaggini d'ombra della fortezza, correva più dritta e libera –, e un ponte di filigrana su un rivolo in secca lo condusse in città. Salì in cima a un ripido pendio, svoltò a sinistra per Via dei Giardini e superò velocemente una macchia di arbusti dai fiori grigiastri. Da qualche parte balenò una finestra illuminata; al di là di uno steccato un cane scosse la catena, ma senza abbaiare. La brezza faceva del suo meglio per rinfrescare il collo nudo del fuggiasco. A tratti un'onda di fragranze gli diceva quanto fossero vicini i Giardini di Tamara. Come conosceva bene quel parco pubblico! Là dove Marthe, ancora fresca sposa aveva paura delle rane e dei maggiolini… Là dove, ogniqualvolta la vita sembrava insopportabile, si poteva vagabondare, con in bocca una poltiglia di fiori di lillà masticati e lacrime di lucciole negli occhi… Quel parco di larici dal verde tappeto erboso, il languore dei suoi laghetti, il tum-tum-tum di una banda in lontananza… Svoltò in Via della Prosaicità, passò accanto alle rovine di una vecchia fabbrica, l'orgoglio cittadino, ai tigli bisbiglianti, alle villette bianche dall'aria festosa abitate dagli impiegati del telegrafo sempre intenti a celebrare il compleanno di qualcuno, e arrivò in Via del Telegrafo. Da lì saliva una stretta viuzza, e di nuovo i tigli presero a mormorare con discrezione. Due uomini, seduti presumibilmente su una panchina, chiacchieravano nell'oscurità di un giardino pubblico. «Secondo me lui si sbaglia» diceva uno. L'altro rispose qualche cosa di inintelligibile ed entrambi emisero una sorta di sospiro che si confuse in modo del tutto naturale con il fruscio del fogliame. Cincinnatus si allontanò correndo e arrivò in una piazza circolare, dove la luna vegliava sulla statua familiare di un poeta che sembrava un pupazzo di neve – la testa era un cubo, le gambe un tutto unico –, e, fatto ancora qualche passo frettoloso, si ritrovò nella strada in cui abitava. Sulla destra la luna proiettava motivi diseguali di rami sui muri di case eguali, così fu solo dall'espressione delle ombre, dalla piega interciliare tra due finestre che Cincinnatus riconobbe la propria abitazione. La finestra di Marthe, all'ultimo piano, era buia, ma aperta. I bambini probabilmente dormivano sul balcone dal naso adunco – lassù s'intravedeva un che di bianco. Cincinnatus salì di corsa i gradini d'ingresso, spalancò la porta ed entrò nella sua cella illuminata. Si guardò intorno, ma l'avevano già chiuso dentro a chiave. Oh, orribile! La matita luccicava sul tavolo. Il ragno era acquattato sulla parete gialla.

«Spegnete la luce!» gridò Cincinnatus.

Colui che lo osservava attraverso lo spioncino la spense. Buio e silenzio cominciarono a fondersi, ma si intromise l'orologio; batté undici colpi, ci pensò su un momento, ne batté un altro, mentre Cincinnatus, disteso supino, guardava il soffitto disseminato di puntini luminosi che a poco a poco sparivano. Buio e silenzio si fusero completamente. Fu allora, e solo allora (cioè disteso supino sulla branda di una prigione, passata la mezzanotte, dopo una giornata orribile, orribile, non so dirvi quanto orribile), che Cincinnatus C. valutò con chiarezza la propria situazione.

Dapprima, sullo sfondo di quel velluto nero che di notte fodera l'interno delle palpebre, il viso di Marthe apparve come in un medaglione; l'incarnato roseo simile a quello di una bambola; la fronte splendente dalla convessità infantile; le sopracciglia rade, leggermente oblique, alte sopra i tondi occhi nocciola. Batté le palpebre volgendo la testa, e c'era un nastro di velluto nero sul suo morbido collo di un bianco cremoso, e la calma vellutata del suo abito andava svasandosi in fondo e si perdeva nell'oscurità. Così l'aveva vista quel giorno tra il pubblico, mentre lo conducevano alla panchina degli imputati dipinta di fresco dove non aveva osato sedersi; era invece rimasto lì accanto in piedi (e tuttavia si era sporcato le mani di vernice color smeraldo, e i giornalisti avevano avidamente fotografato le impronte lasciate sullo schienale). Poteva vedere la loro fronte in tensione, poteva vedere i pantaloni vistosi dei bellimbusti, gli specchi da borsetta e le sciarpe cangianti delle signore alla moda; ma le facce erano indistinte – di tutti gli spettatori, ricordava solo gli occhi tondi di Marthe. L'avvocato difensore e il pubblico ministero, entrambi truccati e molto somiglianti tra loro (la legge richiedeva che fossero fratelli uterini, ma non sempre era possibile, e allora si ricorreva al trucco), avevano pronunciato con virtuosistica rapidità le cinquemila parole concesse a ciascuno. Parlavano a turno e il giudice seguiva quel veloce alternarsi ruotando il capo ora a destra ora a sinistra e tutte le teste dei presenti facevano altrettanto; solo Marthe, per metà di spalle, sedeva immobile come un bambino sbalordito, lo sguardo fisso su Cincinnatus che stava in piedi vicino alla panchina da giardino pubblico di uno smagliante verde smeraldo. L'avvocato della difesa, fautore della decapitazione classica, ebbe facilmente la meglio sul pubblico ministero ricco d'inventiva, e il giudice fece una ricapitolazione del processo.

Frammenti di quei discorsi, in cui parole come «translucido» e «opaco» affioravano e scoppiavano simili a bolle, presero a echeggiare nelle orecchie di Cincinnatus, e il flusso del sangue diventò un applauso, e la faccia da medaglione di Marthe rimase nel suo campo visivo e sbiadì solo quando il giudice – avvicinatosi tanto che egli potè vedere sul suo grosso naso dalla pelle scura i pori dilatati, da uno dei quali, proprio in punta, sbucava un pelo solitario, ma lungo – disse, in tono lacrimoso, «con il cortese consenso dei presenti, le verrà fatto indossare il cappello a cilindro rosso» – una frase convenzionale elaborata dai tribunali e della quale anche uno scolaro conosceva il significato.

«Eppure sono stato foggiato con tanta accuratezza» pensò Cincinnatus, piangendo nell'oscurità. «La curvatura della mia spina dorsale è stata calcolata così bene, in modo così misterioso. Sento, arrotolati strettamente attorno ai miei polpacci, tutti i chilometri che ancora potrei percorrere nella mia esistenza. La mia testa è così confortevole…».

L'orologio batté un solo colpo, la metà di un'ora sconosciuta.
2.
I giornali del mattino – che Rodion gli portò con una tazza di cioccolata tiepida –, il foglio locale, «Buongiorno, gente!», e un quotidiano più serio, «La voce del pubblico», abbondavano, come sempre, di fotografie a colori. Sul primo trovò la facciata della sua casa: i bambini che guardavano dal balcone, suo suocero che guardava dalla finestra della cucina, un fotografo che guardava dalla finestra di Marthe; sul secondo compariva la familiare veduta da quella finestra, che dava sul giardino, con il melo, il cancello aperto e il fotografo che riprendeva la facciata. Trovò, inoltre, due istantanee che risalivano al tempo della sua mite giovinezza.

Cincinnatus era figlio di un tizio di passaggio e aveva trascorso l'infanzia in un grande istituto di beneficenza al di là del fiume Strop (solo intorno ai vent'anni aveva conosciuto per caso la cinguettante, minuta e ancora così giovanile Cecilia C., che lo aveva concepito una notte agli Stagni, quando era ancora adolescente). Fin dai primi anni Cincinnatus, che per uno strano e fortunato caso aveva capito quali rischi correva, era riuscito a nascondere accuratamente una sua peculiarità. Era impenetrabile ai raggi altrui e pertanto, quando abbassava la guardia, produceva una strana impressione, come di un solitario, oscuro ostacolo in quel mondo di anime reciprocamente trasparenti; aveva imparato, tuttavia, a fingersi translucido ricorrendo a un sistema complesso di illusioni ottiche, per così dire – ma bastava che si distraesse, che si concedesse una pausa momentanea nel controllo che esercitava su di sé, nella manipolazione delle sfaccettature e degli angoli accortamente illuminati verso cui volgeva la sua anima, perché subito scattasse l'allarme. Nel pieno dell'eccitazione di un gioco, i suoi coetanei di colpo lo abbandonavano come se avessero sentito che il suo sguardo limpido e l'azzurro delle sue tempie costituivano solo un inganno scaltro e che Cincinnatus era, in realtà, opaco. Qualche volta, nel bel mezzo di un silenzio improvviso, l'insegnante, con afflitta perplessità, chiamava a raccolta tutte le riserve di pelle intorno agli occhi, lo fissava a lungo e infine diceva: «Che cosa c'è che non va, Cincinnatus?». Allora Cincinnatus riprendeva il controllo di sé e stringendosi quel suo sé al petto lo trasferiva in un luogo sicuro.

Con il passare del tempo i luoghi sicuri divennero sempre più rari; la zelante luce solare della sollecitudine pubblica penetrava ovunque, e lo spioncino sulla porta era collocato in modo tale che non c'era punto della cella in cui l'osservatore, dal lato opposto, non riuscisse a penetrare con lo sguardo. Cincinnatus pertanto non accartocciò i variopinti giornali, non li scagliò lontano come faceva il suo doppio (il doppio, il fantasma che accompagna ciascuno di noi – te, me, quell'altro laggiù – e fa ciò che in quel preciso momento noi vorremmo, ma non possiamo fare…). Cincinnatus, con molta calma, mise da parte i giornali e finì la sua cioccolata. La pellicola bruna che ammantava la cioccolata divenne una schiuma vizza sulle sue labbra. Poi Cincinnatus indossò la vestaglia nera (troppo lunga per lui), le pantofole nere con i pompon, la papalina nera, e si mise a camminare per la cella, come aveva fatto ogni mattina fin dal primo giorno di prigionia.

L'infanzia sui prati della periferia. Giocavano a palla, alla lippa, alla settimana, alla cavallina, ai cerchietti… Cincinnatus era agile e svelto, ma a loro non piaceva giocare con lui. D'inverno, in città, le strade in discesa erano coperte da un lenzuolo uniforme di neve, e com'era divertente sfrecciare giù sulle slitte Saburov, le famose slitte «di vetro». Come scendeva presto la sera, quando si tornava a casa dopo quelle corse… Quante stelle, quanti pensieri e quanta tristezza lassù in alto, e quanta ignoranza quaggiù. Nel gelido buio metallico le finestre eduli scintillavano di luci ambra e cremisi; donne con pellicce di volpe sugli abiti di seta attraversavano di corsa la strada da una casa all'altra; il «vagoncino» elettrico sollevava fugaci bufere di neve luminescente sfrecciando sulle rotaie incipriate.

Una vocina: «Arkadij Il'ic, da' un'occhiata a Cincinnatus…».

Non ce l'aveva con gli informatori, ma questi si moltiplicavano e, crescendo, diventavano temibili. Cincinnatus, che a loro sembrava nero come la pece, quasi fosse stato tagliato in un cubo di buio notturno, l'opaco Cincinnatus si voltava di qui e di là, cercando di acchiappare i raggi, cercando, con furia disperata, di stare in piedi in modo da apparire translucido. Quelli intorno a lui si capivano subito tra loro perché non avevano parole che finissero in modo inatteso, magari con una lettera arcaica, un upsilamba, ossia una izica – V(3) –trasformandosi in un uccello o in una fionda, con conseguenze mirabili. Nel piccolo museo polveroso del Secondo Viale, dove lo portavano da bambino e dove lui stesso, più tardi, avrebbe condotto i suoi allievi, c'era una raccolta di oggetti rari, meravigliosi, ma tutti gli abitanti della città, eccetto Cincinnatus, li trovavano limitati e trasparenti esattamente come ciascuno di loro lo era per gli altri. Ciò che non ha un nome non esiste. Purtroppo ogni cosa aveva un nome.

«Esistenza indefinibile, sostanza inattingibile» lesse Cincinnatus sul muro, in un punto che restava nascosto quando la porta era aperta.

«Celebratori sempiterni di onomastici, io posso solo…» era scritto da un'altra parte.

Più avanti, sulla sinistra, in una grafia decisa e nitida, senza un solo tratto superfluo, si leggeva: «Osserva che quando si rivolgono a te…». Il resto della frase era stato cancellato.

E accanto, a goffe lettere infantili: «Multerò gli autori delle scritte». Firmato: «Il direttore della prigione».

Si riusciva ancora a decifrare una frase che risaliva a molto tempo prima, enigmatica: «Misuratemi finché sono vivo – altrimenti sarà troppo tardi».

«In ogni caso, io sono stato misurato» disse Cincinnatus, mentre riprendeva il viaggio e batteva leggermente con le nocche delle dita contro i muri. «Ma non voglio affatto morire! La mia anima si è rintanata sotto il cuscino. Oh, non voglio! Avrò freddo quando verrò fuori dal mio corpo caldo. Non voglio… aspettate un attimo… lasciatemi sonnecchiare ancora un po'».

Dodici, tredici, quattordici anni. A quindici, Cincinnatus andò a lavorare nell'officina dei giocattoli, cui era stato assegnato in ragione della sua minuscola statura. La sera si deliziava con antichi libri, al pigro, magico sciabordio dell'acqua increspata, nella Biblioteca Galleggiante dedicata al dottor Sineokov che era affogato proprio in quel punto del fiume cittadino. Il cigolio delle catene, la piccola galleria con i paralumi color arancio, i lievi tonfi nell'acqua, l'uniforme superficie liquida che la luna rendeva oleosa, e, in lontananza, il tremolio delle luci filtrate dalla nera ragnatela di un ponte maestoso. Più tardi, tuttavia, quei libri preziosi avevano cominciato a patire l'umidità, tanto che alla fine era stato necessario prosciugare il fiume, deviando l'acqua nello Strop tramite un canale appositamente scavato.

Nell'officina si era dato da fare per un pezzo con una congerie di sciocchezze e aveva messo insieme bambole di cenci per le bambine; eccolo lì, un piccolo Puskin capelluto con una lunga finanziera orlata di pelliccia, un Gogol' simile a un topo, con un vistoso gilet, un piccolo, vecchio Tolstoj dal naso prominente con un caffettano contadino di ruvido panno, e molti altri ancora, Dobroljubov, per esempio, con gli occhiali senza lenti e la giacca tutta abbottonata. Cincinnatus, che aveva artificialmente coltivato una passione per quel mitico Diciannovesimo Secolo, era pronto a immergersi appieno nelle nebbie del passato per trovarvi un ingannevole riparo, ma qualcos'altro era venuto a distogliere la sua attenzione.

In quella piccola officina lavorava Marthe; infilava un filo nella cruna di un ago, le labbra umide appena socchiuse. «Ciao, Cincinnatik!». E così era cominciato quell'estatico vagabondare nei vasti, davvero vasti (tanto che persino le colline distanti erano caliginose per via dell'estasi generata dalla loro stessa lontananza) Giardini di Tamara dove, senza motivo alcuno, i salici piangono dentro tre ruscelli, e i ruscelli, con tre cascate, ciascuna dotata del suo minuto arcobaleno, ruzzolano dentro il lago, dove un cigno nuota sottobraccio al proprio riflesso. I prati pianeggianti, i rododendri, i boschetti di querce, i giardinieri che, allegri nei loro stivaloni verdi, giocano a nascondino tutto il giorno; alcune grotte, alcune panchine idilliache su una delle quali tre burloni hanno lasciato tre accurati mucchietti (è uno scherzo – sono imitazioni fatte con latta dipinta di marrone), qualche cerbiatto che balza sul viale e davanti ai vostri stessi occhi si trasforma in tremolanti macchie di sole – ecco che cos'erano quei giardini! Laggiù, laggiù c'è il cicalio un po' bleso di Marthe, ci sono le sue calze bianche e le pantofole di velluto, il suo seno fresco e i suoi baci rosei, dal sapore di fragole selvatiche. Se solo si potesse vedere da qui… almeno la cima degli alberi, almeno il profilo lontano delle colline… Cincinnatus si avvolse più strettamente nella vestaglia. Si avvicinò al tavolo e cominciò a trascinarlo all'indietro, ma il tavolo strillava incollerito: quanto era riluttante, e con quali fremiti di raccapriccio si muoveva sul pavimento di pietra! I fremiti si trasmisero alle sue dita e al suo palato mentre egli arretrava verso la finestra (cioè verso la parete dove in alto, molto in alto, c'era la cavità obliqua della finestra). Cadde rumorosamente un cucchiaio, la tazza prese a ballare, la matita a rotolare, un libro a scivolare sopra un altro. Cincinnatus mise sul tavolo la sedia recalcitrante. Infine vi salì lui stesso. Ma non potè vedere nient'altro che il cielo affocato con radi capelli bianchi pettinati all'indietro, scampoli di nuvole che non potevano tollerare l'azzurro. Cincinnatus riuscì a malapena a protendersi fino alle sbarre dietro le quali saliva la strombatura della finestra con altre sbarre sul fondo mentre il loro duplicato di ombre si proiettava sulla parete scrostata della pendenza in pietra. Là, di lato, con la stessa chiara, sprezzante grafia delle frasi cancellate a metà che aveva letto prima, era scritto: «Non si vede niente, ho provato anch'io».

Cincinnatus stava in punta di piedi, stringendo le sbarre di ferro con le sue piccole mani, bianche per lo sforzo, e metà della sua faccia era coperta da una grata di sole, e l'oro del suo baffo sinistro brillava, e in ciascuna delle sue pupille, simili a specchi, vi era una minuscola gabbia dorata, mentre dietro, in basso, i talloni sporgevano dalle pantofole troppo larghe.

«Manca poco che cada» disse Rodion, in piedi lì vicino da un buon mezzo minuto, e, con solida presa, afferrò la gamba della sedia traballante. «Tutto a posto, tutto a posto. La tengo. Adesso può scendere».

Rodion aveva gli occhi color fiordaliso e, come sempre, la sua splendida barba rossa. Quella bella fisionomia russa si volse all'insù, verso Cincinnatus che vi premette sopra la pianta del piede nudo – vale a dire che il suo doppio la premette, mentre Cincinnatus si era già calato dalla sedia sul tavolo. Rodion lo prese in braccio come un bambino, lo depose a terra con cautela, dopo di che riportò il tavolo al suo posto, con un suono simile a quello di un violino, e si sedette sul bordo, con un piede che dondolava nell'aria e l'altro appoggiato a terra, nella posa fintamente spavalda di un libertino da teatro dell'opera nella scena della taverna, mentre Cincinnatus si mordicchiava il cordone della vestaglia e cercava di non piangere.

Rodion cantava con la sua voce da basso-baritono, roteando gli occhi e brandendo il boccale vuoto. Un tempo anche Marthe era solita cantare quella trascinante canzone. Dagli occhi di Cincinnatus sgorgarono le lacrime. Su una nota acuta, Rodion gettò il boccale a terra, di schianto, e scivolò dal tavolo. Il suo canto si mutò in un coro, anche se non c'era nessuno insieme a lui. All'improvviso alzò entrambe le braccia e uscì.

Seduto a terra, Cincinnatus guardò verso l'alto attraverso le lacrime; l'ombra delle sbarre si era già spostata. Cercò – per l'ennesima volta – di muovere il tavolo, ma da secoli, ahimè, le gambe erano state fissate con bulloni. Mangiò un fico secco e riprese a camminare nella cella.

Diciannove, venti, ventuno. A ventidue anni era stato trasferito in un giardino d'infanzia, come insegnante nella divisione F, e a quell'epoca aveva sposato Marthe. Quasi subito dopo aver assunto il suo nuovo incarico (che consisteva nel tenere occupati bambini zoppi, gobbi o strabici), un personaggio importante mosse contro di lui un'accusa di secondo grado. Con prudenza, sotto forma di congettura, si suggeriva la sostanziale illegalità di Cincinnatus. Unitamente a questo memorandum i padri della città avevano esaminato le vecchie lagnanze avanzate di quando in quando dai più perspicaci tra i suoi colleghi di lavoro all'officina. Il presidente del comitato per l'istruzione e alcuni altri personaggi ufficiali si erano chiusi a turno con lui in una stanza e lo avevano sottoposto alle prove previste dalla legge. Per parecchi giorni di fila non gli avevano permesso di dormire, lo avevano costretto a seguire rapidi discorsetti senza senso, ai limiti del delirio, a scrivere lettere indirizzate a disparati oggetti e fenomeni naturali, a rappresentare scene di vita quotidiana, e a imitare molteplici animali, mestieri e malattie. Eseguì tutto, superò tutto perché era giovane, intraprendente, pieno di energie fresche, desideroso di vivere, di vivere per qualche tempo con Marthe. A malincuore lo avevano rilasciato, concedendogli di continuare a lavorare con i bambini di un livello più basso, che erano sacrificabili, per vedere quali sarebbero stati i risultati. Cincinnatus li conduceva a fare delle passeggiate, in fila per due, mentre lui girava la manovella di un piccolo carillon portatile che sembrava un macinino da caffè; nei giorni di vacanza andava in altalena con loro nel cortile della ricreazione – l'intero gruppo restava immobile trattenendo il respiro quando l'altalena si librava nell'aria, e strillava quando piombava giù. A qualche bambino Cincinnatus aveva insegnato a leggere.

Marthe, intanto, già durante il primo anno di matrimonio aveva cominciato a tradirlo; dovunque e con chiunque. In genere, quando Cincinnatus tornava a casa, lo fissava con un sorrisetto sazio stampato sulla faccia, mentre abbassava il mento tondo sul collo, come se si rimproverasse da sola, e, guardando in su con i suoi schietti occhi color nocciola, tubava dolcemente: «La piccola Marthe oggi l'ha fatto ancora». Lui la osservava per qualche secondo, premendosi il palmo della mano contro la guancia come una donna, e poi, gemendo in silenzio, si allontanava da tutte le stanze dov'erano i parenti di lei e si chiudeva in bagno e lì pestava i piedi, faceva scorrere l'acqua, tossiva perché non si sentisse che stava piangendo. Qualche volta, per giustificarsi, lei gli spiegava: «Lo sai che sono gentile: una cosa tanto da niente e tanto di sollievo per un uomo».

Rimase presto incinta – e non di lui. Diede alla luce un maschio e subito dopo rimase di nuovo incinta – anche questa volta non di lui – e nacque una bambina. Il maschio era zoppo e malvagio, la femmina ottusa, obesa e quasi cieca. A causa di questi loro difetti, tutti e due i bambini erano finiti nell'asilo di Cincinnatus, ed era strano vedere l'agile, levigata, rosea Marthe riportare a casa quel piccolo storpio e quella bimbetta tarchiata. A poco a poco Cincinnatus aveva smesso completamente di controllarsi e un giorno, durante una riunione all'aperto nel parco cittadino, vi fu un'improvvisa ondata di allarme, e qualcuno disse ad alta voce: «Cittadini, tra noi c'è un…». Era seguita una parola strana, quasi dimenticata, e il vento aveva frusciato tra le robinie, e Cincinnatus non aveva escogitato niente di meglio che alzarsi e andarsene, staccando con aria assente le foglie dai cespugli lungo la strada. Dieci giorni dopo era stato arrestato.

«Domani, è probabile» disse Cincinnatus, mentre camminava lentamente su e giù per la cella. «Domani, è probabile» soggiunse e si mise a sedere sulla branda, massaggiandosi la fronte con il palmo della mano. Un raggio del sole al tramonto ripeteva effetti che già gli erano familiari. «Domani, è probabile» fece Cincinnatus con un sospiro. «Oggi è stata una giornata troppo tranquilla, mentre domani, di buon'ora…».

Per un po' tutti restarono in silenzio – la brocca di terracotta con l'acqua sul fondo che aveva offerto da bere a tutti i prigionieri del mondo; le pareti, ciascuna con le braccia sulle spalle dell'altra come un quartetto che discutesse un segreto quadrato in un impercettibile bisbiglio, il ragno vellutato, somigliante in qualche modo a Marthe, i grandi libri neri sul tavolo…

«Che malinteso» disse Cincinnatus, e all'improvviso scoppiò a ridere. Si alzò in piedi, si tolse la vestaglia, la papalina, le pantofole. Si tolse i pantaloni di tela e la camicia. Si tolse la testa come fosse una parrucca, si tolse le clavicole come fossero bretelle, si tolse la gabbia toracica come fosse un usbergo. Si tolse le anche e le gambe, si tolse le braccia come fossero guanti di un'armatura e le gettò in un angolo. Quel che restava di lui a poco a poco si dissolse, colorando appena l'aria. Sulle prime Cincinnatus godette della frescura; poi, del tutto immerso nel suo habitat segreto, cominciò liberamente e felicemente a…

Risuonò il ferreo rombo di tuono del catenaccio e a Cincinnatus ricrebbe in un istante tutto quello che aveva dismesso, compresa la papalina. Il carceriere Rodion portò un cestino rotondo foderato di foglie di vite con una dozzina di prugne gialle, regalo della moglie del direttore.

Cincinnatus, il tuo criminoso esercizio ti ha procurato ristoro.

1. V, ìzica, lettera dell'alfabeto cirillico in vigore prima della riforma ortografica del 1971-18. Variante della ipsilon greca [N.d.C].
3.
Svegliò Cincinnatus un funesto frastuono di voci che risaliva dal corridoio.

Anche se il giorno prima si era preparato a un simile risveglio, ancora non riusciva a controllare il proprio respiro e il battito del cuore. Accostò i lembi della vestaglia sul cuore affinché nessuno potesse vederglielo – sta' calmo, non è niente (come si dice a un bambino nell'istante in cui avviene un'incredibile sciagura) – e, coprendosi il cuore, si sollevò leggermente sulla branda restando in ascolto. C'era uno scalpiccio di molti piedi, udibile a vari livelli; c'erano voci, anche quelle di intensità diverse; una pose una domanda; un'altra, più vicina, rispose. Qualcuno gli sfrecciò accanto – veniva frettoloso da lontano – e cominciò a scivolare sul pavimento di pietra quasi pattinasse sul ghiaccio. In mezzo a quel baccano, la voce da basso del direttore pronunciò alcune parole – indistinte, ma senz'altro imperiose. Più di ogni cosa incuteva paura il fatto che tutto quel trambusto fosse perforato da una voce infantile – il direttore aveva una figlia. Cincinnatus riconobbe sia il timbro tenorile e lamentevole del suo avvocato sia il borbottio di Rodion… E di nuovo qualcuno, di corsa, domandò qualche cosa con voce tonante, e qualcun altro rispose con voce altrettanto tonante. Un ansare, crepitare, sbattere, come se qualcuno stesse tastando con un bastone sotto una panchina. «Non riuscite a trovarlo?» domandò con voce chiara il direttore. Scalpiccio di passi in corsa. Scalpiccio di passi in corsa. Avanti e indietro. Cincinnatus non resse oltre; posò i piedi sul pavimento: dopotutto non gli avevano lasciato vedere Marthe… Dovrei cominciare a vestirmi o verranno loro a mettermi il costume? Oh, smettetela, entrate…

Invece lo torturarono almeno per altri due minuti. A un tratto la porta si aprì e il suo avvocato volteggiando si precipitò dentro.

Era agitato e sudato. Giocherellava con il polsino sinistro della camicia e si guardava intorno.

«Ho perso un gemello» esclamò, ansimando affannosamente come un cane. «Devo aver… scontrato da qualche parte… mentre ero con la piccola Erri mie… combina sempre birichinate… mi tira per le falde del frac… ogni volta che faccio un salto qui… veramente ho sentito qualcosa… ma non ho prestato alcuna… guardi, la catenella deve essersi… ci tenevo tanto… be', adesso è troppo tardi… ma può darsi ancora che… ho promesso a tutte le guardie… è un peccato, però…».

«Un errore assurdo, ero ancora assonnato» disse Cincinnatus a bassa voce. «Ho interpretato male quell'agitazione. Sono cose che non fanno bene al cuore».

«Oh, grazie, non stia a preoccuparsi per questo, non importa» bofonchiò distratto l'avvocato. E intanto con gli occhi perlustrava – alla lettera – ogni angolo della cella. Era chiaro che la perdita di quell'oggetto prezioso lo aveva sconvolto. Era chiaro. Quella perdita lo aveva sconvolto. Un oggetto prezioso. Era sconvolto perché aveva perso quell'oggetto.

Con un lieve gemito Cincinnatus tornò a letto. L'altro sedette ai piedi della branda.

«Mentre stavo venendo da lei,» disse l'avvocato «ero tutto arzillo e allegro… Adesso questa sciocchezza mi ha addolorato – perché, dopotutto, si tratta di una sciocchezza, lei ne converrà; ci sono cose più importanti. Bene, come si sente?».

«Incline a una chiacchierata confidenziale» rispose Cincinnatus con gli occhi chiusi. «Voglio comunicarle alcune conclusioni cui sono pervenuto. Sono circondato da una sorta di squallidi spettri, non da persone. Mi tormentano come possono farlo solo visioni insensate, brutti sogni, sedimenti di delirio, assurdità da incubo e tutto quello che qui passa per vita vera. In teoria uno avrebbe voglia di svegliarsi. Ma svegliarsi per me è impossibile senza un aiuto dall'esterno, e io ho un terrore atroce di questo aiuto, la mia stessa anima si è impigrita, si è assuefatta alle sue strette fasce. Tra tutti gli spettri che mi circondano, lei, Roman Vissarionovič, è forse il più squallido, ma d'altra parte – vista la sua posizione logica nel nostro habitus inventato – lei è, per così dire, un consigliere, un difensore…».

«A sua disposizione» disse l'avvocato, lieto che Cincinnatus fosse finalmente diventato loquace.

«Ecco quello che voglio chiederle: per quale motivo si rifiutano di dirmi la data esatta dell'esecuzione? Aspetti, non ho ancora finito. Il cosiddetto direttore evita una risposta franca e allude al fatto che… aspetti un momento! Io voglio sapere, prima di tutto, chi ha l'autorità di fissare il giorno. In secondo luogo, che senso ha mai quell'istituzione, che si tratti di un individuo o di un gruppo di individui…».

L'avvocato, che solo un attimo prima era stato impaziente di parlare, ora, inspiegabilmente, taceva. Il suo viso truccato, con le sopracciglia blu e il lungo labbro leporino, non rivelava una particolare attività mentale.

«Lasci stare quel polsino,» esclamò Cincinnatus «e cerchi di concentrarsi».

Roman Vissarionovič cambiò posizione di scatto e intrecciò le dita irrequiete. Con voce querula disse: «E proprio per questo tono…».

«Che sto per essere giustiziato» disse Cincinnatus. «Lo sapevo già. Vada avanti!».

«Cambiamo argomento, la supplico» gridò Roman Vissarionovič. «Non riesce neanche adesso a restare nei giusti limiti? E davvero terribile. Va al di là della mia sopportazione. Sono passato da lei solo per chiederle se avesse qualche legittimo desiderio… per esempio» (a questo punto il suo viso si illuminò) «le farebbe piacere avere le copie stampate degli interventi pronunciati al processo? In tal caso deve immediatamente presentare l'istanza necessaria che potremmo stendere insieme adesso, specificando nel dettaglio quante copie lei richiede e a quale scopo. Ho per caso un'ora libera. Oh, per favore, per favore, facciamolo! Ho addirittura portato una busta speciale».

«Solo per curiosità…» disse Cincinnatus «ma prima… Insomma non è davvero possibile ottenere una risposta?».

«Una busta speciale» ripeté l'avvocato per allettarlo.

«E va bene, vediamo» disse Cincinnatus, e lacerò la spessa busta rigonfia riducendola in pezzetti di carta arricciolati.

«Non doveva strapparla!» gridò l'avvocato quasi piangendo. «Non doveva proprio! Lei non si rende neppure conto di ciò che ha fatto! Forse c'era la grazia lì dentro. Non sarà più possibile averne un'altra!».

Cincinnatus raccolse una manciata di frammenti di carta e cercò di ricomporre almeno una frase coerente, ma tutto era mescolato, distorto, sconnesso.

«Ecco il genere di cose che lei immancabilmente combina» piagnucolò l'avvocato camminando avanti e indietro per la cella e premendosi le dita sulle tempie. «Forse aveva tra le mani la salvezza e… E orribile. Insomma, che cosa devo fare con lei? Ora tutto è perduto… Ed ero così contento! La stavo preparando con tanta cura!».

«Posso?» chiese il direttore con voce sonora, aprendo appena un poco la porta. «Non vi disturbo?».

«Prego, entri, Rodrig Ivanovič, prego, entri» disse l'avvocato. «Prego, entri, caro Rodrig Ivanovič. Solo che qui non è molto allegro…».

«Bene, come sta oggi il nostro caro condannato?» chiese con arguzia l'elegante, solenne direttore stringendo tra le sue carnose zampe violacee la piccola mano di Cincinnatus. «Tutto a posto? Nessun malanno o fastidio? Sta ancora chiacchierando con il nostro instancabile Roman Vissarionovič? Oh, a proposito, caro Roman Vissarionovič, ho buone notizie per lei – la mia monella ha appena trovato il gemello della sua camicia sulle scale. Là voici. E oro francese, vero? Molto, molto raffinato. Di solito non faccio complimenti, ma devo dire che…».

Si spostarono tutti e due in un angolo della cella, fingendo di esaminare il delizioso ornamento, e discutere della sua origine e valore, e rimanerne incantati. Cincinnatus colse l'occasione per tirare fuori di sotto la branda e, con un tintinnio acuto, che da ultimo si fece incerto, un…

«Sì, davvero di un gusto squisito» andava ripetendo il direttore, nel lasciare, con l'avvocato, l'angolo della cella. «Sicché lei si sente bene, giovanotto» disse in modo insulso, volto a Cincinnatus che stava rimettendosi a letto. «Tuttavia, non deve comportarsi come un bambino. Il pubblico e tutti noi, quali rappresentanti del pubblico, siamo interessati solo al suo benessere – questo deve essere evidente, ormai. Noi siamo pronti a renderle tutto più facile alleviando la sua solitudine. Tra qualche giorno verrà a vivere in una delle nostre celle di lusso un altro prigioniero. Vi conoscerete e questo servirà a farle passare il tempo».

«Tra qualche giorno?» chiese Cincinnatus. «Allora manca ancora qualche giorno?».

«Sentitelo» ridacchiò il direttore. «Vuole sapere tutto. Lei che ne pensa, Roman Vissarionovič?».

«Oh, amico mio, lei ha perfettamente ragione» sospirò l'avvocato.

«Sissignore,» proseguì il direttore, facendo tintinnare le chiavi «lei dovrebbe collaborare di più, caro il mio signore. E sempre altezzoso, arrabbiato, malevolo. Ieri sera gli ho portato delle prugne, sa, e che cosa crede? Sua eccellenza ha preferito non mangiarle, sua eccellenza è troppo superba. Sissignore! Avevo cominciato a parlarle del nuovo prigioniero. Ne avrà fino alla nausea di chiacchierare con lui. Non è il caso di avvilirsi come fa lei. Non è vero, Roman Vissarionovič?».

«E così, Rodion, è così» convenne l'avvocato, con un involontario sorriso.

Rodion si accarezzò la barba e proseguì:

«Mi è dispiaciuto davvero per questo povero signore – entro, guardo, e lui è sul tavolo, in cima alla sedia, che cerca di raggiungere le sbarre con quelle manine, con quei suoi piedini, come una bertuccia malandata. Con il cielo di un bell'azzurro e le rondini tutte un volo e le nuvolette lassù – che felicità, che benedizione! Lo tiro giù, questo signore, dal tavolo, come un bambino piccolo, e mi metto a sbraitare – sì, stando proprio lì, in piedi – e sbraito, sbraito… sono davvero crollato, mi spiaceva talmente per lui».

«Be', se lo portassimo su? Che ne dice?» suggerì, incerto, l'avvocato.

«E perché no? Possiamo farlo» fece Rodion con contegnosa benevolenza, strascicando le parole. «Possiamo sempre farlo».

«Si metta la vestaglia» acconsentì Roman Vissarionovič.

Cincinnatus rispose: «Vi ubbidisco, spettri, lupi mannari, parodie. Vi ubbidisco. Tuttavia, esigo – sì, esigo» (e l'altro Cincinnatus si mise a pestare istericamente i piedi, perdendo le pantofole) «che mi venga detto quanto tempo mi resta da vivere… e se avrò il permesso di vedere mia moglie».

«Probabilmente sì» replicò Roman Vissarionovič, scambiando un'occhiata con Rodion. «Basta che non parli troppo. Va bene, andiamo».

«Prego» disse Rodion spingendo con la spalla la porta, che non era stata chiusa a chiave.

Uscirono tutti e tre: per primo Rodion, con le sue gambe arcuate, i vecchi, scoloriti pantaloni alla zuava, sformati sul sedere; dietro di lui l'avvocato, in finanziera, con il colletto di celluloide macchiato e un bordino di mussola rosata sulla nuca, dove finiva la parrucca nera; da ultimo Cincinnatus, che perdeva le pantofole e si avvolgeva più strettamente nella vestaglia.

All'altezza della curva nel corridoio, l'altra guardia, quella senza nome, fece un cenno di saluto. La pallida luce riflessa dalla pietra si alternava a zone buie. Camminarono e camminarono. A una curva seguiva un'altra curva. Diverse volte superarono la stessa macchia di umidità sul muro, simile a uno spaventoso cavallo con le costole sporgenti. Fu necessario, qua e là, accendere la luce, una lampadina polverosa, appesa al soffitto o alla parete, che divampava in una cruda luce gialla. Talvolta capitava anche che le lampadine saltassero e allora dovevano trascinarsi in una fitta oscurità. In un tratto di corridoio, dove un inatteso e inesplicabile raggio di sole cadeva dall'alto e risplendeva polveroso infrangendosi sui lastroni di pietra corrosa, Emmie, la figlia del direttore, con un vivace vestito a quadretti e calzettoni a scacchi – solo una bambina, ma con i polpacci marmorei di una piccola danzatrice –, lanciava ritmicamente una palla contro il muro. Si voltò, scostandosi dalla guancia, con l'anulare e il mignolo, un ricciolo biondo, e seguì con lo sguardo la piccola processione. Rodion, passando, fece scherzosamente tintinnare le chiavi; l'avvocato le accarezzò di sfuggita i capelli luminosi, ma lei guardava Cincinnatus, che le rivolse un sorriso impaurito. Arrivati alla curva successiva, tutti e tre si voltarono. Emmie li stava osservando, mentre faceva rimbalzare leggermente tra le mani la lucida palla rossa e blu.

Camminarono ancora a lungo nel buio finché non arrivarono in un vicolo cieco, dove una lampadina color rubino brillava sopra la manichetta arrotolata di un idrante. Rodion aprì con una chiave una bassa porta di ferro; al di là di essa saliva ripida a spirale una scala di pietra. L'ordine di marcia cambiò alquanto: Rodion segnò il passo e si lasciò precedere dall'avvocato e da Cincinnatus; dopo di che si mise silenziosamente in coda alla processione. Non era facile inerpicarsi su per quella ripida scala immersa in un'oscurità che solo via via si diradava, ed essi salirono per tanto di quel tempo che Cincinnatus, annoiato, cominciò a contare i gradini, arrivò a un numero di tre cifre, poi inciampò e perse il conto. A poco a poco la luce aumentava. Cincinnatus, sfinito, saliva come un bambino, sempre con lo stesso piede. Ancora una svolta ed ecco all'improvviso una compatta folata di vento, il dilatarsi abbagliante di un mattino estivo, e l'aria fu trafitta dal garrito delle rondini.

I nostri viaggiatori si ritrovarono su un'ampia terrazza in cima a una torre da cui si godeva una vista che toglieva il respiro perché non solo la torre era imponente, ma l'intera fortezza si stagliava enorme sulla cresta di un'altrettanto enorme rupe di cui pareva una germinazione mostruosa. Molto più in basso si vedevano i vigneti quasi perpendicolari e la strada color crema che si snodava fino al letto del fiume in secca; una minuscola figura vestita di rosso stava oltrepassando il ponte convesso; il puntino che le correva davanti molto probabilmente era un cane.

Più in là ancora, la città inondata di sole descriveva un ampio emiciclo: alcune delle case multicolori procedevano in file uniformi, accompagnate da alberi tondi, mentre altre si arrampicavano di sbieco lungo i pendii calpestando le proprie ombre; si riusciva a distinguere lo scorrere del traffico sul Primo Viale e uno scintillio d'ametista al fondo, là dove zampillava la famosa fontana; e più lontano ancora, verso le caliginose ondulazioni delle colline che definivano l'orizzonte, c'era la scura incisione a retino di boschetti di querce e, qua e là, uno stagno che luccicava come uno specchio da borsetta – mentre altri luminosi ovali d'acqua si univano, sfavillanti nella morbida foschia, proprio là, a ovest, dove aveva origine il tortuoso Strop. Cincinnatus, con il palmo della mano premuto contro la guancia, in preda a una immota, ineffabilmente indistinta e forse addirittura beata disperazione, guardava il baluginio e la foschia dei Giardini di Tamara e, più oltre, le colline sfumate di un azzurro tortora – oh, passò del tempo prima che potesse distogliere gli occhi…

A pochi passi da lui, l'avvocato stava appoggiato sui gomiti al largo parapetto di pietra la cui sommità era ricoperta da qualche specie di intraprendente vegetale. Aveva la schiena sporca di gesso. Fissava pensoso lo sguardo davanti a sé, la scarpa di vernice, la sinistra, accavallata sulla destra, e si tirava a tal punto le guance con le dita che le palpebre inferiori si rovesciavano. Rodion aveva trovato da qualche parte una scopa e in silenzio spazzava il lastricato della terrazza.

«Come è affascinante tutto questo» disse Cincinnatus, rivolto ai giardini, alle colline (e per qualche ragione sembrava gli piacesse ripetere la parola «affascinante» nel vento, come i bambini quando si coprono le orecchie per poi scoprirle all'improvviso, divertiti a questo rinnovarsi del mondo sonoro). «Affascinante! Non ho mai visto quelle colline esattamente come sono ora, così misteriose. Da qualche parte tra le loro ondulazioni, nelle loro ombrose vallate, non potrei, forse… No, avrei fatto meglio a non pensarci».

Fece un giro completo della terrazza. Pianure si estendevano a nord, percorse da ombre di nuvole in fuga; prati si alternavano a campi di grano. Oltre un'ansa dello Strop si intravedevano fra le erbacce il tracciato del vecchio aeroporto e l'edificio dove veniva custodito il venerabile, decrepito aeroplano, con le rappezzature variopinte sulle ali arrugginite, che qualche volta, nei giorni di festa, veniva ancora usato soprattutto come svago per gli storpi. Il metallo era usurato. Il tempo trascorreva sonnolento. C'era un uomo, in città, un farmacista, il cui bisnonno, si diceva, aveva lasciato scritte certe memorie che narravano come i mercanti fossero soliti andare in Cina in aeroplano.

Cincinnatus completò il giro intorno alla terrazza e tornò al parapetto sud. I suoi occhi compivano escursioni estremamente illegali. Ora gli sembrava di distinguere proprio quel cespuglio in fiore, quell'uccello, quel sentiero che spariva sotto un baldacchino d'edera…

«Adesso basta» disse il direttore in tono affabile, gettando la scopa in un angolo e indossando di nuovo la finanziera. «Forza, torniamo a casa».

«Sì, è ora» rispose l'avvocato, dando un'occhiata all'orologio.

E la medesima piccola processione tornò indietro. Davanti il direttore Rodrig Ivanovič, dietro di lui l'avvocato Roman Vissarionovič e, da ultimo, il prigioniero Cincinnatus che, dopo tanta aria fresca, era stato colto da un accesso di sbadigli. La finanziera del direttore era sporca di gesso sulla schiena.
4.
Entrò, approfittando della visita mattutina di Rodion; guizzò sotto le sue mani che reggevano il vassoio.

«Ehi-ehi-ehi» fece lui, esorcizzando una tempesta di cioccolata. Con una spinta leggera del piede richiuse la porta alle sue spalle e brontolò tra i baffi: «Che birichina sei…».

Emmie intanto si era nascosta, accovacciandosi dietro il tavolo.

«Legge un libro, eh?» osservò Rodion, raggiante di gentilezza. «E un passatempo utile».

Senza alzare lo sguardo dalla pagina, Cincinnatus emise un giambico assenso, ma i suoi occhi già non afferravano più il significato del testo.

Rodion, terminate le sue semplici incombenze, inseguì con uno straccio la polvere che danzava in un raggio di sole, diede da mangiare al ragno e se ne andò.

Emmie stava ancora accovacciata, ma si controllava meno, oscillando un poco come su una molla, le braccia lanuginose incrociate sul petto, la bocca rosea leggermente aperta, e sbatteva le lunghe ciglia pallide, quasi bianche, mentre guardava la porta al di là del piano del tavolo. Un gesto ormai familiare: rapidamente, con un moto casuale delle dita, si scostò dalla tempia i capelli color lino, e sbirciò con la coda dell'occhio Cincinnatus che aveva messo da parte il libro, in attesa di vedere che cosa sarebbe successo dopo.

«Se n'è andato» disse Cincinnatus.

La bambina rinunciò alla sua posizione accovacciata, ma sempre restando curva continuò a guardare verso la porta. Era a disagio, non sapeva che fare. A un tratto mostrò i denti e, con un guizzo dei suoi polpacci da ballerina, volò alla porta – che naturalmente era chiusa a chiave. La sua fusciacca moirée mosse l'aria della cella.

Cincinnatus le rivolse le solite due domande. Con fare lezioso, lei disse il proprio nome e dichiarò che aveva dodici anni.

«E ti dispiace per me?» chiese Cincinnatus.

Non rispose. Sollevò all'altezza del viso la brocca di terracotta che stava in un angolo. Era vuota, mandava un suono cavo. Lei lanciò alcune volte un richiamo dentro le sue profondità e un istante dopo saettò via; ora stava appoggiata al muro solo con le scapole e i gomiti, scivolando ogni tanto in avanti sui piedi in tensione nelle scarpe basse e tornando quindi a raddrizzarsi. Sorrise tra sé, e poi, dal momento che continuava a scivolare in avanti, lanciò uno sguardo a Cincinnatus con un'espressione un po' accigliata, come quando si fissa il sole basso sull'orizzonte. Tutto lasciava pensare che fosse una bambina turbolenta e irrequieta.

«Davvero non ti dispiace nemmeno un poco per me?» chiese Cincinnatus. «Non è possibile. Non riesco a crederlo. Vieni qui, piccola cerbiatta sciocca, e dimmi in quale giorno morirò».

Emmie tuttavia non rispose, ma si lasciò scivolare sul pavimento. Restò lì seduta, in silenzio, con il monto premuto contro le ginocchia piegate sulle quali tendeva l'orlo della gonna.

«Dimmi, Emmie, ti prego… Tu certo sai tutto al riguardo, sono sicuro che lo sai… Tuo padre ne ha parlato a tavola, tua madre ne ha parlato in cucina… Tutti ne parlano. Nel giornale di ieri c'era una finestrella ritagliata con cura – vuol dire che la gente ne discute, e io sono l'unico…».

Come se fosse stata presa in un turbine, Emmie saltò in piedi, corse di nuovo verso la porta e cominciò a battervi contro, non con i palmi ma piuttosto con la parte superiore del polso. I capelli sciolti, biondi e serici, finivano in una cascata di riccioli.

«Se tu fossi più grande,» meditava Cincinnatus «se la tua anima avesse anche solo un pizzico della mia patina, tu, come nei tempi antichi intrisi di poesia, daresti da bere una pozione al mio carceriere, in una notte tenebrosa. Emmie!» esclamò. «Ti imploro – e non desisterò – dimmi, quando morirò?».

Mordicchiandosi un dito, ella si avvicinò al tavolo dove torreggiava una pila di libri. Ne aprì uno d'impeto, sfogliò rumorosamente le pagine, quasi strappandole, lo richiuse di colpo, ne prese un altro. Qualcosa percorse il suo viso, increspandolo: dapprima arricciò il naso lentigginoso, poi con la lingua gonfiò la guancia all'infuori.

La porta sbatté con fragore metallico. Rodion, che probabilmente aveva guardato dallo spioncino, entrò piuttosto inquieto.

«Sciò sciò, signorina! Mi buscherò una sgridata per questo!».

Lei scoppiò in un riso stridulo, schivò la sua mano simile a un granchio e corse verso la porta aperta. Là, sulla soglia, si fermò bruscamente, con la magica precisione di una danzatrice e – forse mandando un bacio o forse concludendo un patto silenzioso – voltò il capo verso Cincinnatus; dopo di che, con la stessa ritmica subitaneità, corse fuori con una falcata ampia, slanciata, elastica, già pronta alla fuga.

Rodion, brontolando, tintinnando, si trascinò pesantemente dietro di lei.

«Aspetti un momento!» gridò Cincinnatus. «Ho finito tutti i libri. Mi porti di nuovo il catalogo».

«Libri…». Rodion lo schernì stizzito e chiuse a chiave la porta alle proprie spalle con un frastuono ostentato.

Che angoscia! Cincinnatus, che angoscia! Un'angoscia di pietra, Cincinnatus – e lo spietato rintocco dell'orologio, e il ragno obeso, e le pareti gialle, e la ruvida coperta di lana nera. La pellicola sulla cioccolata. Tirala su proprio al centro con due dita e toglila via tutta intera dalla superficie, non più una liscia patina, ma un gonnellino marrone increspato. Sotto, il liquido è tiepido, dolciastro e stagnante. Tre fette di pane tostato, anzi bruciacchiato, simili a un guscio di tartaruga. Un tondo panetto di burro con il monogramma del direttore impresso in rilievo. Che angoscia, Cincinnatus, quante briciole nel letto!

Si lamentò per un po', gemette, fece crocchiare tutte le giunture, poi si alzò dalla branda, indossò l'aborrita vestaglia e cominciò a girellare. Di nuovo esaminò tutte le scritte sui muri, sperando di scoprirne una nuova da qualche parte. Come un corvo implume sul ceppo di un albero, rimase a lungo sulla sedia, guardando, immobile, la sua misera razione di cielo. Fece ancora qualche passo. Ancora una volta lesse le otto regole per i detenuti che sapeva già a memoria:

È assolutamente vietato uscire dall'edificio del carcere.
La docilità del prigioniero è il vanto del carcere.
È rigorosamente richiesto di mantenere il silenzio tra le due e le tre pomeridiane.
Non è permesso ricevere visite femminili.
Cantare, ballare e scherzare con le guardie è consentito solo in caso di mutuo accordo, e nei giorni stabiliti.
È opportuno che il detenuto non abbia affatto – o in caso contrario provveda immediatamente a eliminare – sogni notturni il cui contenuto possa risultare incompatibile con la condizione e lo stato di prigioniero, quali: paesaggi splendenti, gite con amici, pranzi familiari, così come rapporti sessuali con persone che nella vita reale e in stato di veglia non sopporterebbero la vicinanza di detto individuo, il quale sarà pertanto considerato dalla legge colpevole di stupro.
Giacché gode dell'ospitalità del carcere, il prigioniero, a sua volta, non deve mancare di collaborare con il personale della prigione alle pulizie e ad altri lavori, nella misura in cui detta collaborazione gli viene proposta.
L'amministrazione non è responsabile in nessun caso dello smarrimento di beni del detenuto, come pure del detenuto medesimo.
Angoscia, Cincinnatus, angoscia. Passeggia ancora un po', Cincinnatus, sfiorando con la tua vestaglia prima i muri, poi la sedia. Angoscia! I libri ammucchiati sul tavolo li aveva già letti tutti. E anche se sapeva di averli già letti tutti, Cincinnatus frugò, rovistò, sbirciò in un grosso volume… Senza mettersi a sedere, sfogliò le pagine ormai familiari.

Era una rivista rilegata, uscita tanto tempo prima, in un'epoca di cui a stento si conservava il ricordo. La biblioteca della prigione, considerata la seconda in città per le sue dimensioni e per i volumi rari, ospitava parecchie curiosità siffatte. Era un mondo remoto, dove gli oggetti più semplici sfavillavano di giovinezza e di un'innata insolenza dovute al rispetto che circondava gli sforzi dedicati alla loro fabbricazione. Quelli erano anni di fluidità universale; metalli ben lubrificati compivano silenziose, mute acrobazie; le linee armoniose degli abiti maschili erano dettate da un'agilità senza precedenti di corpi muscolosi; vetrate scorrevoli di finestre immense si curvavano attorno agli angoli degli edifici; una ragazza in costume da bagno volava come una rondine così alta sopra una piscina da farla sembrare non più grande di un piatto volante; un campione di salto restava supino nell'aria, avendo ormai compiuto uno sforzo tanto estremo che, se non fosse stato per le pieghe a bandiera dei calzoncini, sarebbe parso cullarsi in un pigro riposo; e l'acqua scorreva, fluiva senza fine; la leggiadria dell'acqua che ricade, gli abbaglianti dettagli delle stanze da bagno; le increspature satinate dell'oceano con un'ombra bi-alata che vi incombe. Tutto era lucente e scintillante; tutto gravitava appassionato verso un tipo di perfezione definibile solo come assenza di attrito. Rivelando in ogni cosa le tentazioni della circolarità, la vita roteava fino a raggiungere uno stato di tale vertigine che il terreno veniva a mancare, ed essa inciampando, cadendo, indebolita dalla nausea e dal languore – è il caso di dirlo? –, finiva per ritrovarsi in una specie di nuova dimensione… Sì, la materia si è fatta vecchia, stanca, e poco è rimasto di quei giorni leggendari – un paio di macchine, due o tre fontane – e nessuno rimpiange il passato, e il concetto stesso di «passato» non è più lo stesso.

«Ma allora, forse,» pensò Cincinnatus «io interpreto male queste immagini. Attribuendo all'epoca le caratteristiche della fotografia che la ritrae. La dovizia di ombre, i torrenti di luce, il lucore di una spalla abbronzata, un insolito riflesso, le transizioni fluide da un elemento all'altro – forse tutto questo pertiene solo all'istantanea, a un particolare tipo di eliotipia, a forme speciali di quell'arte, e il mondo in realtà non è mai stato così sinuoso, così umido e rapido – proprio come oggi le nostre elementari macchine fotografiche registrano a modo loro il nostro mondo frettolosamente assemblato e dipinto.

«Ma allora, forse,» (Cincinnatus prese a scrivere rapidamente su un foglio a righe) «la mia interpretazione è sbagliata… Attribuendo all'epoca… Questa dovizia… Torrenti… Transizioni fluide… E il mondo in realtà non è mai stato… Esattamente come… Ma come possono queste elucubrazioni alleviare la mia angoscia? Oh, angoscia, che fare di te, di me stesso? Con che coraggio tengono nascosto a me… A me che devo subire la prova tremenda di un dolore supremo, a me che, per serbare una parvenza di dignità (in ogni caso non andrò al di là di un muto pallore – non sono comunque un eroe…), dovrò, durante quella prova, controllare continuamente tutte le mie facoltà, a me, a me… mi vado a poco a poco indebolendo… l'incertezza è orribile – bene, perché non mi dite, ditemi… ma no, mi fate morire daccapo ogni mattina… D'altra parte, se io sapessi quanto tempo è rimasto, potrei fare… un breve lavoro… annotare pensieri suffragati da prove… Un giorno qualcuno potrebbe leggerli e all'improvviso proverebbe la sensazione di essersi svegliato per la prima volta in un paese sconosciuto. Voglio dire che all'improvviso lo farei scoppiare in lacrime di gioia, da fargli struggere gli occhi, e, dopo questa esperienza, il mondo gli sembrerebbe più pulito, più fresco. Ma come posso cominciare a scrivere quando non so se mi basterà il tempo, e la tortura inizia quando dici a te stesso: "Ieri ci sarebbe stato tempo sufficiente" e di nuovo pensi: "Se solo avessi cominciato ieri…". E invece del lavoro chiaro e preciso che si richiede, invece di una preparazione graduale dell'anima per quella mattina in cui ella dovrà alzarsi, in cui – in cui a te, anima, sarà offerto il secchio del carnefice affinché ti ci lavi… Tu, invece, indulgi involontariamente a banali, insensati sogni di fuga – ahimè, di fuga… Oggi, quando lei è entrata di corsa, battendo i piedi e ridendo – cioè, voglio dire… – No, dovrei tuttavia prendere nota, lasciare dopo di me qualcosa. Io non sono uno qualunque – io sono l'unico vivo tra voi… Non solo sono diversi i miei occhi, e il mio udito e il mio senso del gusto – non solo il mio odorato è come quello di un cervo e il mio senso del tatto è pari a quello di un pipistrello, ma, più importante ancora, ho il dono di saper congiungere tutto ciò in un solo nesso… No, il segreto non è ancora stato rivelato – persino questo, altro non è che la pietra focaia – e io non ho neppure cominciato a parlare degli sterpi che servono per accendere il fuoco, del fuoco medesimo. La mia vita. Una volta, quando ero bambino, durante una gita scolastica in una località lontana, allorché rimasi separato dagli altri – e tuttavia potrei averlo sognato –, mi ritrovai, sotto il sole opprimente di mezzogiorno, in una sonnacchiosa cittadina, così sonnacchiosa che quando un uomo, che si era appisolato su una panchina a ridosso di un lucente muro imbiancato a calce, finalmente si alzò per aiutarmi a trovare la strada, la sua ombra azzurrina proiettata sul muro non lo seguì subito… Oh lo so, lo so, deve essere stato uno sbaglio da parte mia, e l'ombra non aveva affatto indugiato, ma semplicemente, diciamo così, era stata catturata dalla scabrosità del muro… ma ecco quello che voglio spiegare: tra il suo movimento e il movimento dell'ombra indolente – un secondo, una sincope – si trova quel singolare tipo di tempo in cui io vivo, la pausa, lo iato, quando il cuore è come una piuma… E vorrei anche scrivere del tremito incessante, e di come parte dei miei pensieri si affolli sempre intorno all'invisibile cordone ombelicale che unisce questo mondo a qualcosa – di che si tratta, ancora non lo dirò… Ma come posso scrivere di tali cose quando temo di non avere il tempo di finire, quando temo di risvegliare inutilmente questi pensieri… Quando lei oggi è entrata (orrendo – soltanto una bambina, ecco quello che voglio dire, soltanto una bambina, con certe vie d'uscita per i miei pensieri – mi sono chiesto, al ritmo di un'antica poesia: non potrebbe dare alle guardie una pozione drogata, non potrebbe salvarmi? Se solo restasse la bambina che è, ma al tempo stesso maturasse e capisse, allora sarebbe fattibile: le sue guance accese, una buia notte ventosa, la salvezza, la salvezza… E io sbaglio quando seguito a ripetere che al mondo non c'è riparo per me. C'è! Lo troverò. Un burrone lussureggiante nel deserto! Una chiazza di neve all'ombra di una rupe alpina! È morboso, tuttavia, ciò che sto facendo: in effetti sono così debole, ed ecco che mi sto eccitando, sto dissipando quel poco di forza che mi resta. Che tormento, oh, che tormento… Ed è evidente ai miei occhi che non ho ancora rimosso l'ultima pellicola dalla mia paura».

Si perse nei suoi pensieri. Poi lasciò cadere la matita, si alzò, cominciò a camminare. Sentì battere le ore. Servendosi dei rintocchi come di una piattaforma, dei passi salirono in superficie, la piattaforma volò via, ma i passi restarono e due persone entrarono nella cella: Rodion con la zuppa e il bibliotecario con il catalogo.

Quest'ultimo era un uomo enorme, ma dall'aria malaticcia, pallido, con le occhiaie e una calvizie circondata da una scura corona di capelli, con un lungo torso infilato in un maglione azzurro qua e là stinto e guarnito di toppe violacee sui gomiti. Teneva le mani nelle tasche dei pantaloni, che erano stretti da morire, e serrato sotto il braccio un grosso libro dalla rilegatura in pelle nera. Cincinnatus aveva già avuto una volta il piacere di incontrarlo.

«Il catalogo» disse il bibliotecario, il cui eloquio si distingueva per una laconicità insolente.

«Bene, lo lasci qui,» replicò Cincinnatus «sceglierò qualcosa. Se preferisce aspettare, si sieda un momento, per favore. Altrimenti, nel caso preferisca andare…».

«Vado» rispose il bibliotecario.

«D'accordo. Allora le restituirò il catalogo tramite Rodion. Queste qui può riprenderle… Le riviste dei tempi andati sono meravigliosamente commoventi… Con questo ponderoso volume sono disceso, sa, come con una zavorra, al fondo del tempo. Una sensazione affascinante».

«No» disse il bibliotecario.

«Me ne porti altre, ricopierò le annate che mi interessano. E un romanzo qualsiasi, recente. Se ne va già? Ha preso tutto?».

Rimasto solo, Cincinnatus cominciò a mangiare la zuppa e intanto sfogliava il catalogo. Il nucleo originario era stampato con accuratezza ed eleganza; nel testo a stampa erano stati inseriti numerosi titoli scritti a mano con l'inchiostro rosso, in caratteri minuti ma chiari. Era difficile per chi non fosse un esperto orientarsi nel catalogo, perché i titoli non erano disposti in ordine alfabetico ma secondo il numero delle pagine di ciascun volume, con annotazioni (per evitare duplicati) di quante pagine in più erano state incollate in questo o quel libro. Per tale ragione Cincinnatus sfogliò il catalogo senza cercare niente in particolare, ma scegliendo a caso qualsiasi cosa gli sembrasse interessante. Il catalogo era tenuto con cura esemplare; apparve perciò ancora più strano che, sul rovescio bianco di una delle prime pagine, una mano infantile avesse tracciato una serie di disegni a matita, il cui significato sfuggì, in un primo tempo, a Cincinnatus.

5.
«La prego di accettare le mie più sincere congratulazioni» disse il direttore, con la sua untuosa voce da basso, entrando nella cella di Cincinnatus la mattina seguente. Rodrig Ivanovič appariva ancora più azzimato del solito: la sua finanziera migliore, che aveva un'imbottitura di cotone sul dorso, ricordava quella di un cocchiere russo, e faceva sì che la schiena apparisse larga, liscia e grassoccia; la sua parrucca riluceva come nuova; la pasta frolla del mento sembrava fosse stata spolverata di farina, mentre all'occhiello spiccava un roseo fiore di cera dalle fauci picchiettate. Dietro la sua figura maestosa – si era fermato sulla soglia – sbirciavano incuriositi gli impiegati della prigione, anche loro agghindati con gli abiti migliori, anche loro con i capelli impomatati. Rodion si era persino appuntata sul petto una piccola medaglia.

«Sono pronto. Mi vesto immediatamente. Sapevo che era per oggi».

«Congratulazioni» ripeté il direttore, senza badare all'agitazione convulsa di Cincinnatus. «Ho l'onore di informarla che d'ora in avanti avrà un vicino – già, già, si è appena trasferito qui. Scommetto che lei era stanco di aspettare. Bene, non stia a preoccuparsi, adesso ha un confidente, un compagno con cui divertirsi e lavorare, non le sembrerà più tanto noioso, qui. E per giunta – ma questo, ovvio, deve restare strettamente confidenziale – posso informarla che è arrivata l'autorizzazione per il colloquio con la sua sposa, demain matin…».

Cincinnatus si lasciò cadere sulla branda e disse:

«Sì, ottimo, la ringrazio, bambola di pezza, cocchiere, porco imbellettato… Mi scusi, sono un po'…».

A questo punto le pareti della cella iniziarono a gonfiarsi e infossarsi, come i riflessi nell'acqua mossa; il direttore prese a incresparsi, la branda diventò una barca. Cincinnatus si aggrappò al bordo per non perdere l'equilibrio, ma lo scalmo gli restò in mano e, immerso fino al collo, tra mille fiori picchiettati, iniziò a nuotare, rimase aggrovigliato, cominciò ad andare a fondo. Con le maniche rimboccate, si misero a dargli colpetti con pertiche e rampini per agganciarlo e portarlo a riva. Lo ripescarono.

«Nervi, nervi, una donnetta bell'e buona» disse il medico della prigione – alias Rodrig Ivanovič – con un sorriso. «Respiri liberamente. Può mangiare di tutto. Si è mai svegliato la notte in un bagno di sudore? Continui così e, se sarà obbediente, forse le permetteremo di dare una sbirciatina rapida al nuovo acquisto… ma intendiamoci, solo una sbirciatina rapida…».

«Per quanto… quel colloquio… quanto tempo mi verrà concesso?…» proferì Cincinnatus a fatica.

«Un momento, un momento. Non abbia tanta fretta, non si agiti. Abbiamo promesso di farglielo vedere e così sarà. Si metta le pantofole, si ravvii i capelli. Credo che…». Il direttore rivolse uno sguardo interrogativo a Rodion, che annuì. «Ma, per favore,» disse di nuovo a Cincinnatus «mantenga un silenzio assoluto e non arraffi niente con le mani. Venga, si alzi, si alzi. Lei questo non se l'è meritato – lei, amico mio, si sta comportando male, ma ormai il permesso ce l'ha. Adesso, non una parola, zitto come un topolino…».

In punta di piedi, bilanciandosi con le braccia, Rodrig Ivanovič uscì dalla cella, e con lui Cincinnatus, strascicando i piedi nelle pantofole troppo grandi. In fondo al corridoio Rodion era già curvo davanti a una porta con chiavistelli imponenti: aveva scostato lo sportello dello spioncino e stava guardando dentro. Senza voltarsi, fece un movimento con la mano esigendo ancora più silenzio e poi, in modo impercettibile, trasformò il gesto in un cenno di richiamo. Il direttore si alzò viepiù sulla punta dei piedi e si girò con una smorfia minacciosa, ma Cincinnatus non potè fare a meno di strascicare un poco le pantofole. Qui e là, nella penombra dei corridoi, le silhouette confuse degli impiegati della prigione si radunavano, si chinavano schermandosi gli occhi con la mano come per distinguere qualche cosa in lontananza. L'assistente di laboratorio, Rodion, lasciò che il capo guardasse attraverso l'oculare messo a fuoco. Con un secco cigolio della schiena, Rodrig Ivanovič si chinò a guardare… Intanto, tra le ombre grigie, figure indistinte cambiavano silenziosamente posizione, silenziosamente si convocavano a vicenda, si mettevano in fila, e già tutti i loro piedi silenziosi segnavano il passo come pistoni, preparandosi ad avanzare. Infine il direttore si scostò con lentezza e tirò leggermente per la manica Cincinnatus invitandolo, come farebbe un professore con un profano capitato da quelle parti per caso, a esaminare il vetrino. Cincinnatus applicò docile l'occhio al cerchio luminoso. Dapprima vide solo bolle di sole e strisce di colore, ma poi riuscì a distinguere una branda, identica a quella che aveva nella sua cella; impilate lì accanto due belle valigie dalle serrature luccicanti e una cassa oblunga, simile alla custodia di un trombone.

«Allora, vede qualche cosa?» bisbigliò il direttore, chinandosi a guardare accanto a lui; puzzava come puzzano i gigli in una tomba aperta. Cincinnatus annuì, anche se non aveva ancora visto l'attrazione principale; si spostò con lo sguardo verso sinistra e allora vide, in effetti, qualche cosa.

Seduto su una sedia, di fianco al tavolo, immobile come se fosse di zucchero candito, c'era un omino grasso, rasato, sui trent'anni, con un pigiama del carcere dall'aria fuori moda ma pulito e stirato di fresco; era tutto a righe, con calzini a righe e pantofole di marocchino nuove di zecca che, mentre lui si sedeva con una gamba tozza accavallata sull'altra stringendosi uno stinco tra le mani grassocce, rivelavano una suola vergine; una limpida acquamarina scintillava al suo mignolo; i capelli biondo miele erano divisi da una scriminatura al centro della testa marcatamente tonda, le lunghe ciglia ombreggiavano guance da cherubino, e il biancore della sua meravigliosa dentatura regolare balenava tra le labbra color lampone. Sembrava tutto ricoperto di una glassa scioltasi solo un poco nel raggio di sole che calava su di lui dall'alto. Non c'era niente sul tavolo, tranne un elegante orologio da viaggio in una custodia di cuoio.

«Ora basta,» disse il direttore con un sorriso «voglio guardare anch'io» e si attaccò di nuovo al foro luminoso. Rodion fece capire a segni a Cincinnatus che era venuto il momento di tornare indietro. Le silhouette confuse degli impiegati avanzavano rispettosamente in fila indiana: dietro il direttore c'era già un'intera fila di persone in attesa di dare un'occhiata; qualcuno aveva portato con sé i figli più grandi.

«La stiamo certamente viziando» concluse Rodion con un borbottio, e per un pezzo non riuscì ad aprire con la chiave la cella di Cincinnatus, pur onorandola con una dose potente di imprecazioni che infine raggiunsero lo scopo.

Tutto tornò silenzioso. Tutto era come sempre.

«No, non tutto, domani tu verrai» disse Cincinnatus a voce alta, tremando ancora per lo svenimento di poco prima. «Che cosa ti dirò?» continuò a pensare, mormorando, rabbrividendo. «Che cosa mi dirai? Nonostante tutto io ti amavo e continuerò ad amarti – in ginocchio, con le spalle tirate all'indietro, mostrando i talloni al boia e protendendo il mio collo da oca, anche allora. E dopo – forse soprattutto dopo –, ti amerò, e un giorno avremo una vera, esauriente spiegazione, e poi forse, in un modo o nell'altro, staremo bene insieme, tu e io, e ci modificheremo così da formare un tutto unico, e risolveremo il rompicapo: tracciate una linea dal punto A al punto B… senza guardare, o senza staccare la matita… o in qualche altra maniera… collegheremo i punti, tracceremo la linea, e tu e io formeremo quell'unico disegno che desidero così ardentemente. Se mi faranno una cosa del genere ogni mattina, mi addestreranno alla perfezione e io diventerò assolutamente un pezzo di legno».

Cincinnatus ebbe un accesso di sbadigli – le lacrime gli scendevano lungo le guance, e tuttavia una gibbosità via l'altra continuava a gonfiarsi sotto il suo palato. Era la tensione nervosa – non aveva sonno. Doveva trovare qualche cosa che lo tenesse occupato fino all'indomani – i libri nuovi non erano ancora arrivati. E lui non aveva ancora restituito il catalogo… Ah sì, quei disegnini! Ma adesso, alla luce del colloquio atteso per il giorno dopo…

Una mano infantile, certamente quella di Emmie, aveva tracciato una serie di scenette che formavano (come a Cincinnatus era parso il giorno prima) una narrazione coerente, una promessa, un saggio di idea fantastica. Per cominciare una linea orizzontale – cioè il pavimento di pietra; sopra c'era una sedia rudimentale, alquanto simile a un insetto, e più in alto una grata fatta di sei riquadri. Poi si ripeteva lo stesso disegno, ma con l'aggiunta, al di là della grata, di una luna piena con gli angoli della bocca rivolti rabbiosamente all'ingiù. Accanto, uno sgabello abbozzato con tre tratti di matita, su cui sedeva un carceriere senza occhi (quindi addormentato) e, per terra, un anello con sei chiavi. Poi lo stesso portachiavi, solo un po' più grande, e una mano, straordinariamente pentadattila, che emergeva da una corta manica e cercava di afferrarlo. E qui la cosa si fa interessante. Nel disegno successivo la porta è socchiusa e dietro c'è qualche cosa che assomiglia allo sperone di un uccello – tutto quel che è visibile del prigioniero in fuga. Poi lui stesso, con tante virgole in testa al posto dei capelli, avvolto in una vestaglietta scura, resa al meglio della capacità dell'artista con un triangolo isoscele; egli è condotto per mano da una bambina: gambe a denti di forchetta, gonna ondosa, capelli a linee parallele. Quindi la stessa scena ma vista come in planimetria: un quadrato per la cella, una linea ad angolo per il corridoio, con un tratto punteggiato a indicare la direzione e, in fondo, una scala a fisarmonica. E finalmente l'epilogo: la torre tetra sovrastata da una luna soddisfatta, con gli angoli della bocca rivolti all'insù.

No – era solo autoinganno, un'assurdità. La bambina aveva scarabocchiato senza alcuno scopo… Meglio copiare i titoli dei libri e mettere da parte il catalogo. Sì, la bambina… Con la punta della lingua che fa capolino all'angolo destro della bocca, tiene stretto il mozzicone di matita, premendovi sopra un dito, bianco per lo sforzo… E poi, dopo aver tracciato una linea particolarmente ben riuscita, si protende all'indietro, ruotando la testa prima da una parte poi dall'altra, dimena le spalle e, rimettendosi al lavoro sul foglio, sposta la lingua all'angolo sinistro della bocca… con una tale diligenza… Assurdo, meglio non rimuginarci sopra ulteriormente…

Cercando di escogitare un modo per animare quelle ore fiacche, Cincinnatus decise di fare toeletta in vista dell'incontro con Marthe, l'indomani. Rodion acconsentì a trasportare nella cella un'altra tinozza come quella in cui Cincinnatus aveva sguazzato la vigilia del processo. Mentre aspettava l'acqua, Cincinnatus sedette al tavolo; quel giorno il tavolo era un po' traballante.

«Il colloquio» scrisse Cincinnatus «significa, con ogni probabilità, che la mia terribile mattina si sta ormai avvicinando. Dopodomani, esattamente a quest'ora, la mia cella sarà vuota. Ma io sono felice al pensiero di vederti. Salivamo ai laboratori da due scale diverse, gli uomini da una parte, le donne dall'altra, noi però ci incontravamo sul penultimo pianerottolo. Non riesco più a evocare Marthe com'era la prima volta che l'ho vista, ma posso ricordarmi di avere notato subito quel suo modo di aprire un poco la bocca un istante prima di ridere, e gli occhi tondi color nocciola, e gli orecchini di corallo – oh, quanto vorrei poterla far rivivere così com'era, tutta nuova e ancora soda – e poi quel graduale ammorbidirsi – la piega tra la guancia e il collo quando voltava la testa verso di me, già fattasi calda e quasi palpitante. Il suo mondo. Il suo mondo consiste di componenti semplici, semplicemente collegate; credo che la più semplice ricetta di un libro di cucina sia più complicata del mondo che lei cuoce nel forno, canticchiando a labbra chiuse: ogni giorno per sé, per me, per chiunque. Ma da dove – anche allora, in quei primi giorni –, da dove vennero fuori la cattiveria e l'ostinazione che all'improvviso… così morbida, così divertente e appassionata e poi all'improvviso… All'inizio pensavo che lo facesse di proposito, forse per dimostrare come un'altra, al suo posto, avrebbe potuto diventare bisbetica e testarda. Si può immaginare il mio stupore quando mi resi conto che lei in realtà era così! A causa di quali inezie… sciocchina mia, com'era piccolo il tuo capo a tastarlo sotto tutta quella folta massa ramata di capelli, quella massa che lei sa come rendere innocentemente liscia, con un puerile luminoso riflesso adolescenziale proprio sulla sommità. "La sua mogliettina sembra così tranquilla e gentile, ma morde, glielo assicuro" mi disse il suo primo, indimenticabile amante, e quello che conta è che non si trattava di un linguaggio figurato… perché era vero che a un certo punto… uno di quei ricordi che bisognerebbe scacciare subito, altrimenti prendono il sopravvento e ti annientano. "La piccola Marthe l'ha fatto ancora…". E una volta ho visto, ho visto, ho visto – dal balcone ho visto – e da quel giorno non sono più entrato in una stanza senza prima annunciare da lontano il mio arrivo con un colpo di tosse, o un'esclamazione senza senso. Orribile intravedere quel contorcimento, quella foga ansimante, tutto ciò che era stato mio nei recessi ombrosi dei Giardini di Tamara e che poi avevo perduto. Conta pure quanti ne ha avuti… una tortura senza fine: parlare, a cena, con questo o quello dei suoi amanti, mostrarsi allegro, schiacciare noci e masticare barzellette, e intanto avere una paura folle di chinarsi e vedere per caso la parte inferiore di quel mostro la cui metà superiore era assolutamente presentabile sotto le sembianze di una giovane donna e di un giovane uomo che a tavola, visibili fino alla vita, erano intenti a mangiare in tutta tranquillità, chiacchierando; mentre la metà inferiore era un furioso quadrupede in preda a contorcimenti… Ero sceso all'inferno per raccogliere un tovagliolo che era caduto. Più tardi Marthe mi avrebbe detto di sé (ricorrendo sempre alla prima persona plurale): "Ci vergogniamo tanto di essere stati visti" e avrebbe fatto il broncio. Eppure io ti amo. Inevitabilmente, fatalmente, incurabilmente… Finché ci saranno le querce in quei giardini, io… Quando ti diedero la prova ufficiale che non mi volevano, che dovevo essere evitato, ti sei meravigliata di non esserti accorta di niente – eppure era così facile nascondertelo! Ricordo come mi implorasti di emendarmi, senza realmente capire che cosa in me avrebbe dovuto essere emendato e come si sarebbe potuta affrontare la cosa, e anche adesso non capisci niente, non ti fermi per un momento a riflettere se hai capito o no, e se ti stupisci, il tuo stupore è quasi confortante. Nonostante ciò, quando l'ufficiale giudiziario ha cominciato ad andare in giro per l'aula del tribunale con il cappello, pure tu ci hai buttato dentro il tuo pezzo di carta».

Mentre la tinozza oscillava all'ormeggio, un vapore innocente, allegro, invitante salì nell'aria. Impulsivamente, con due rapidi gesti, Cincinnatus sospirò e mise da parte i fogli. Tirò fuori dal suo modesto bauletto un asciugamano pulito. Cincinnatus era così piccolo ed esile che riuscì a immergersi completamente nella tinozza. Se ne stette lì seduto come in una canoa, abbandonandosi a un placido fluttuare. Un raggio serale rossastro, mescolandosi al vapore, fece levare un variopinto tremolio nel piccolo mondo di pietra della cella. Giunto a riva, Cincinnatus si alzò e mise piede a terra. Mentre si asciugava lottò con vertigini e palpitazioni. Era molto magro, e ora, mentre la luce del sole al tramonto accentuava le ombre delle sue costole, la struttura della sua gabbia toracica sembrava un trionfo di colorazione criptica nella misura in cui riproduceva la natura a sbarre dell'ambiente circostante, della sua prigione. Mio povero, piccolo Cincinnatus. Mentre si asciugava, cercando di trovare qualche distrazione nel proprio corpo, continuava a guardarsi le vene e non poteva fare a meno di pensare che presto sarebbero state stappate e il loro contenuto si sarebbe riversato fuori. Le sue ossa erano fragili e sottili; le mansuete unghie dei piedi (sì, voi care, voi innocenti) lo guardavano con attenzione fanciullesca; e mentre se ne stava seduto sulla branda – nudo, con la sua schiena gracile, dal coccige alle vertebre cervicali, interamente esposta agli sguardi di chi osservava dall'altro lato della porta (poteva sentire bisbigli, fruscii, una discussione su qualche cosa, non importa, che guardino pure), Cincinnatus sarebbe potuto sembrare un giovane malaticcio – anche la parte posteriore del capo, con l'incavo della nuca e una ciocca di capelli umidi, era adolescenziale – e straordinariamente malleabile. Dallo stesso bauletto da viaggio Cincinnatus prese un piccolo specchio e una fiala di liquido depilatorio che gli ricordava sempre quel meraviglioso neo irsuto sul fianco di Marthe. Si strofinò la sostanza sulle guance ispide per eliminare la sensazione di ruvido, evitando con cura i baffi.

Adesso era in ordine e pulito. Con un sospiro s'infilò la fredda camicia da notte, che sapeva ancora di bucato domestico.

Si fece buio. Disteso sul letto, Cincinnatus continuò a fluttuare. All'ora solita Rodion spense la luce e portò via il secchio e la tinozza. Il ragno si calò fino a Rodion lungo il filo e si posò sul dito che egli offriva alla bestiolina pelosa, parlandole come avrebbe fatto con un canarino. Intanto la porta che dava sul corridoio era rimasta socchiusa e, a un tratto, qualcosa laggiù si mosse… per un istante le punte arricciate di boccoli chiari si chinarono, quindi scomparvero quando Rodion si spostò mentre alzava lo sguardo verso il minuscolo acrobata nero che indietreggiava risalendo sotto il tendone del circo. La porta era sempre aperta per un quarto. Il corpulento Rodion, con il suo grembiulone di cuoio e la barba fulva e crespa, si mosse pesantemente nella cella e quando la pendola (ora più vicina perché in comunicazione diretta) avviò il suo rauco crepitio prima dei rintocchi, cavò un grosso orologio dai recessi della cintura e controllò l'ora. Poi, pensando che Cincinnatus dormisse, lo osservò piuttosto a lungo, appoggiato alla scopa come a un'alabarda. Giunto a chi sa quale conclusione, si rimise in moto… Proprio allora, in silenzio e non troppo velocemente, una palla rossa e blu rotolò attraverso la fessura della porta, seguì il lato di un triangolo rettangolo fin sotto la branda, scomparve per un attimo, andò a sbattere contro il vaso da notte e rotolò ancora lungo l'altro cateto – cioè verso Rodion che, senza aver notato nulla, nel fare un passo le diede casualmente un calcio; così, seguendo l'ipotenusa, la palla se ne andò attraverso la stessa fessura da cui era entrata. Messa la scopa in spalla, Rodion uscì dalla cella. La luce si spense.

Cincinnatus non dormiva, non dormiva, non dormiva – no, dormiva, ma con un gemito si inerpicò di nuovo fuori – e ora, di nuovo, non dormiva, dormiva, non dormiva, e tutto si mischiava – Marthe, il ceppo del carnefice, il velluto di lei – e come avverrà… che cosa succederà? Una decapitazione o un convegno amoroso? Tutto si confuse definitivamente ma egli aprì gli occhi per ammiccare ancora una volta quando si accese la luce e Rodion entrò in punta di piedi, prese dal tavolo il catalogo rilegato in nero, uscì, e calò l'oscurità.
6.
Che cos'era – in tutta quella confusione tremenda, notturna, torpida –, che cos'era quella cosa? Era stata l'ultima a farsi da parte, cedendo con riluttanza agli enormi, pesanti vagoni del sonno, e adesso era la prima ad affrettarsi a tornare indietro – così piacevole, così assolutamente piacevole – dilatandosi, facendosi più definita, permeando di una calda sensazione il suo cuore: oggi verrà Marthe!

Proprio allora Rodion portò una lettera color lilla su un vassoio, come nelle commedie. Cincinnatus si appollaiò sul letto e lesse quanto segue: «Un milione di scuse! Uno sbaglio imperdonabile! Consultato il testo della legge, si è scoperto che un colloquio viene consentito solo allo spirare della settimana successiva al processo. Di conseguenza il colloquio è rimandato a domani. Stia bene, vecchio mio, ossequi. Qui non cambia mai niente, un fastidio dopo l'altro, la vernice spedita per le garitte delle sentinelle anche questa volta è inutilizzabile, e già avevo scritto una lettera in proposito, ma senza risultato».

Rodion, cercando di non guardare Cincinnatus, sparecchiava la tavola del giorno prima. Doveva essere una giornata tetra: la luce che arrivava dall'alto era grigia e gli scuri indumenti di cuoio del compassionevole Rodion sembravano umidi e rigidi.

«Oh, bene,» disse Cincinnatus «come volete, come volete… Io, comunque, non posso farci niente». (L'altro Cincinnatus… un po' più piccolo, piangeva, tutto raggomitolato su se stesso). «Benissimo, vada per domani. Ma vorrei chiederle di chiamare…».

«Subito» sbottò Rodion, con tale solerzia che pareva non avesse aspettato altro; stava per scappare via, ma proprio in quel momento il direttore, che era rimasto in attesa accanto alla porta con impazienza incontenibile, fece la sua comparsa una frazione di secondo troppo presto, così finirono per urtarsi.

Rodrig Ivanovič aveva in mano un calendario da muro e non sapeva dove appoggiarlo.

«Un milione di scuse!» gridò. «Uno sbaglio imperdonabile! Consultato il testo della legge…». Dopo aver ripetuto parola per parola il contenuto della lettera, si sedette ai piedi di Cincinnatus e soggiunse precipitosamente: «In ogni caso lei può presentare un reclamo, ma ritengo mio dovere avvertirla che la prossima riunione avrà luogo in autunno e per allora molta acqua – e non solo acqua – sarà passata sotto i ponti. Sono stato chiaro?».

«Non intendo reclamare,» disse Cincinnatus «ma vorrei chiederle se, nel cosiddetto ordine delle cosiddette cose di cui è fatto il vostro cosiddetto mondo, esiste mai anche una sola cosa che possa essere presa a garanzia del fatto che lei manterrà una promessa».

«Una promessa?» chiese il direttore sorpreso, e smise di farsi vento con il supporto di cartone del calendario (che rappresentava la fortezza al tramonto, un acquerello). «Quale promessa?».

«Che mia moglie verrà domani. Così lei non vuole garantirmelo – ma io formulerò la domanda più in generale: esiste a questo mondo, può esistere un qualsiasi genere di certezza, un qualsiasi impegno per qualche cosa, o qui anche il concetto stesso di garanzia è sconosciuto?».

Una pausa.

«Non è forse un guaio questa faccenda di Roman Vissarionovič,» disse il direttore «ha sentito? E a letto con una infreddatura, e piuttosto seria a quanto pare…».

«Ho la sensazione che lei non mi risponderà in nessun caso; il che è logico, in quanto persino l'irresponsabilità alla fine sviluppa una sua logica. Ho vissuto per trent'anni fra spettri che sembrano dotati di consistenza al tatto, celando loro che io sono vivo e reale – ma ora che sono stato catturato, non c'è motivo perché debba sforzarmi con lei. Almeno verificherò personalmente tutta l'inconsistenza di questo vostro mondo».

Il direttore si schiarì la gola e proseguì come se nulla fosse accaduto: «… così seria, in effetti, che, come medico, non sono affatto certo che sia in grado di presenziare – cioè che possa riprendersi in tempo – bref, non so se sarà in grado di intervenire al suo spettacolo…».

«Se ne vada» disse Cincinnatus a denti stretti.

«Non si abbatta» proseguì il direttore. «Domani, domani la cosa che lei sogna diventerà realtà… Carino questo calendario, non è vero? Un'opera d'arte. No, non è per lei».

Cincinnatus chiuse gli occhi. Quando li riaprì, il direttore era in piedi al centro della cella e gli voltava le spalle. Il grembiule di cuoio e la barba rossa, senza dubbio dimenticati da Rodion, giacevano alla rinfusa sulla sedia.

«Oggi dovremo fare una pulizia particolarmente accurata della sua dimora,» disse il direttore, senza voltarsi «in modo che lei possa prepararsi al colloquio di domani… Quando laveremo il pavimento, le chiederò di…».

Cincinnatus chiuse di nuovo gli occhi e la voce, fattasi più smorzata, proseguì: «… le chiederò di uscire nel corridoio. Non ci vorrà molto. Sforziamoci davvero, così che domani, in modo confacente, con nitore, eleganza, festosità…».

«Vada via!» gridò Cincinnatus, alzandosi e tremando dalla testa ai piedi.

«Assolutamente impossibile» annunciò Rodion in tono grave, trafficando con i lacci del grembiule. «Dobbiamo darci da fare qui. Guardi quanta polvere… Vedrà che ci ringrazierà».

Si esaminò in uno specchietto da tasca, con un gesto rese più ariosi i favoriti sulle guance e infine si fece dappresso alla branda porgendo a Cincinnatus le sue cose. Le pantofole erano state provvidenzialmente imbottite con carta appallottolata, mentre l'orlo della vestaglia era ripiegato con cura e puntato con gli spilli. Cincinnatus, un po' malfermo sulle gambe, si vestì e, appoggiandosi leggermente al braccio di Rodion, uscì in corridoio. Là si mise a sedere su uno sgabello, a braccia conserte, le mani infilate dentro le maniche della vestaglia, come un malato. Rodion iniziò le pulizie lasciando aperta la porta della cella. La sedia fu sistemata sul tavolo; il lenzuolo fu tolto dalla branda; il manico del secchio tintinnava; la corrente d'aria sollevò le carte sul tavolo e un foglio volò sul pavimento. «Perché quel muso lungo?» gridò Rodion, alzando la voce per coprire lo sciacquio dell'acqua versata e i tonfi del secchio. «Dovrebbe farsi una passeggiatala giù di là, per i corridoi… Vada, non abbia paura – qualsiasi cosa accada io non mi muoverò da qui – deve solo lanciarmi un urlo».

Cincinnatus si alzò obbediente dallo sgabello, ma aveva appena cominciato a muoversi lungo la gelida parete – indubbiamente a diretto contatto della roccia sulla quale sorgeva la fortezza –, aveva appena fatto qualche passo (e che passi! fiacchi, senza gravità, da agnello mansueto), aveva appena relegato Rodion, la porta aperta, i secchi in una visuale prospettica che si andava allontanando, quando avverti i marosi della libertà. Che montarono vieppiù quando egli svoltò l'angolo del corridoio. Tranne le macchie che trasudavano umidità e le crepe, nulla adornava i muri spogli; solo in un punto qualcuno aveva scarabocchiato in ocra, con una pennellata da imbianchino, «Prova pennello, prova pen…» che finiva in una ripugnante colatura di vernice. Per l'insolito sforzo di camminare da solo, i muscoli divennero flaccidi e Cincinnatus avvertì una fitta al fianco.

Fu allora che egli si fermò e, guardandosi intorno come se avesse appena fatto il suo ingresso in quella solitudine di pietra, chiamò a raccolta tutta la sua forza di volontà, evocò l'intero percorso della sua esistenza e tentò di capire la situazione con la massima chiarezza possibile. Accusato del più spaventoso dei crimini, la turpitudine gnostica così rara e indicibile da rendere necessario il ricorso a circonlocuzioni quali «impenetrabilità», «opacità», «occlusione»; condannato per quel crimine alla decapitazione; imprigionato nella fortezza in attesa della data ancora ignota, ma vicina e inesorabile (che egli nitidamente immaginava come lo strappo, lo strattone, lo scricchiolio di un dente mostruoso, tutto il suo corpo era la gengiva infiammata e la sua testa quel dente); ora, in piedi nel corridoio della prigione, sentendosi mancare – ancora vivo, ancora intatto, ancora cincinnatico –, Cincinnatus C. provò una bramosia selvaggia di libertà, la libertà più comune, la più fisica, la più fisicamente attuabile, e all'istante, con sensuale chiarezza, come se il tutto fosse una corona solare fluttuante che emanava da lui medesimo, immaginò la città oltre il fiume poco profondo, la città dove, da ogni parte, si poteva vedere – ora sotto questo ora sotto quello scorcio prospettico, ora a matita ora a inchiostro – l'alta fortezza in cui egli si trovava. E così possente e dolce era quell'ondata di libertà da fare apparire ogni cosa migliore di quanto in sostanza non fosse: i suoi carcerieri, vale a dire chiunque, sembravano più accomodanti; nei fenomeni restrittivi dell'esistenza la sua ragione cercava un percorso possibile, una sorta di visione danzava davanti ai suoi occhi – come mille iridescenti aghi di luce intorno al riflesso abbacinante del sole su una sfera rivestita di nichel… Fermo nel corridoio della prigione e ascoltando le sonorità piene dell'orologio che aveva appena iniziato il suo pigro contare, immaginò la vita della città com'era di solito in quella fresca ora mattutina: Marthe, a occhi bassi, esce di casa con un cesto vuoto e cammina lungo il marciapiede azzurro, seguita a distanza di tre passi da un bellimbusto con i baffi neri; i vagoncini elettrici a forma di cigno o di gondola, dove ci si accomoda come nella culla di una giostra, scivolano silenziosamente, al pari di un fiume interminabile, lungo il viale; divani e poltrone sono stati portati fuori dai magazzini di mobili per prendere aria, e gli scolari di passaggio ne approfittano per riposarsi, mentre il piccolo inserviente, con la carriola carica di tutti i loro libri, si asciuga la fronte come un vero manovale; le «svegliette» a due posti – così le chiamano qui in provincia –, azionate a molla, ticchettano sulla pavimentazione stradale appena spruzzata d'acqua (e pensare che sono le discendenti degenerate delle macchine del passato, di quelle splendide automobili laccate dalla linea aerodinamica… che cos'è che mi ci ha fatto pensare? ah sì, le fotografie della rivista); Marthe sceglie della frutta; decrepiti, spaventosi cavalli, che da tempo hanno smesso di stupirsi di fronte agli spettacoli infernali, trasportano le merci dalle fabbriche ai dettaglianti della città; venditori di pane ambulanti, in camicia bianca, dalle facce dorate, gridano mentre fanno giochi di destrezza con i loro sfilatini, lanciandoli, riprendendoli e facendoli di nuovo volteggiare; a una finestra sepolta dal glicine un allegro quartetto di telegrafisti fa cincin con i bicchieri e brinda alla salute dei passanti; un famoso freddurista, vecchio damerino ingordo con pantaloni di seta rossa, si sta ingozzando di moscardini frìtti al padiglione degli Stagni Minori; le nuvole si disperdono e, con l'accompagnamento di una banda di ottoni, raggi di sole screziati corrono lungo le strade in discesa e rendono visita ai vicoli laterali; i pedoni camminano di buon passo; nell'aria c'è odore di tigli, di nafta e di ghiaia umida; la fontana perenne al mausoleo del Capitano Somnus innaffia copiosamente con i suoi spruzzi il capitano di pietra, il bassorilievo posto ai suoi piedi elefantini e le rose tremolanti; Marthe, a occhi bassi, cammina verso casa con il cesto pieno, seguita a tre passi da uno zerbinotto biondo… Erano queste le cose che Cincinnatus vedeva e sentiva attraverso i muri, mentre l'orologio batteva le ore e, anche se, in effetti, tutto in quella città era sempre morto e orribile a confronto della vita segreta di Cincinnatus e della sua colpevole fiamma, anche se egli sapeva perfettamente ciò, e sapeva anche che non c'era speranza, pure, in quel momento, desiderava ancora, con tutte le sue forze, di trovarsi in quelle luminose strade così familiari… ma poi cessarono i rintocchi dell'orologio, il cielo immaginario si rannuvolò e la prigione tornò in vigore.

Cincinnatus trattenne il respiro, mosse qualche passo, si fermò di nuovo, restò in ascolto: un po' più avanti, a una distanza che era impossibile determinare, si sentivano tonfi leggeri.

Era un suono ritmico, rapido, smorzato e Cincinnatus, con i nervi a fior di pelle, vi percepì un invito. Seguitò a camminare, molto attento, molto etereo e lucido; svoltò per chissà quante volte. Il rumore cessò, ma poi sembrò che gli fosse volato vicino, come un invisibile picchio. Tap, tap, tap. Cincinnatus affrettò il passo e ancora il corridoio buio svoltò. All'improvviso ci fu più luce – anche se non come di giorno – e ora il rumore divenne definito e quasi compiaciuto. Lontano, in un torrente di pallida luce, Emmie faceva rimbalzare una palla contro il muro.

In quel tratto il corridoio era ampio, e a tutta prima Cincinnatus credette che sulla sinistra, nel muro, si aprisse una finestra larga e profonda, attraverso la quale penetrava quel flusso di strana luce addizionale. Emmie, chinandosi per recuperare la palla e al contempo tirarsi su una calzina, lo guardò maliziosa e timida. La corta peluria bionda stava dritta sulle braccia e sulle tibie nude. Gli occhi scintillavano tra le ciglia quasi bianche. Si raddrizzò, si scostò dal viso i riccioli color lino con la stessa mano che reggeva la palla.

«Lei non dovrebbe passeggiare qui» gli disse – aveva qualche cosa in bocca che le rotolò all'interno della guancia e andò a urtare contro i denti.

«Che cos'è che stai succhiando?» chiese Cincinnatus.

Emmie tirò fuori la lingua; sulla punta, dotata di una sua vita indipendente, c'era un pezzetto di caramella sfolgorante, rosso come una bacca di crespino.

«Ne ho delle altre» disse Emmie. «Ne vuoi una?».

Cincinnatus scosse la testa.

«Non dovrebbe passeggiare qui» ripeté Emmie.

«Perché?» domandò Cincinnatus.

Lei alzò una spalla e, con una smorfia, arcuando la mano in cui teneva la palla, tendendo i polpacci, si diresse verso quel punto del corridoio dove Cincinnatus aveva creduto che ci fosse una nicchia, una finestra, e, irrequieta, fattasi improvvisamente tutta gambe, si sistemò su una sporgenza di pietra simile a un davanzale.

No, era soltanto una parvenza di finestra; in realtà si trattava di una rientranza chiusa da un vetro, di una bacheca che, nella sua falsa profondità, mostrava una veduta – sì, naturale, come si poteva non riconoscerli, i Giardini di Tamara. Quel paesaggio, malamente dipinto nei piani prospettici, reso con pasticciate sfumature di verde e illuminato da lampadine nascoste, ricordava non tanto un terrario o un modellino di scena teatrale quanto uno di quei fondali davanti a cui sudano sette camicie ansanti orchestre di fiati. Tutto era riprodotto con una certa precisione per quanto riguardava i raggruppamenti di oggetti e la prospettiva e, se non fosse stato per i colori cupi, la cima senza vita degli alberi e la luce torpida, si sarebbe potuto socchiudere gli occhi immaginando di fissare, attraverso una strombatura, e da quella stessa prigione, proprio i veri giardini. Lo sguardo indulgente riconosceva quelle strade, la verzura riccioluta dei boschetti, il portico sulla destra, i pioppi isolati e, al centro dell'improbabile azzurro del lago, una macchia chiara, verosimilmente un cigno. Lontano, in una foschia stilizzata, le colline inarcavano il dorso tondeggiante, e sopra di esse, in quella sorta di firmamento blu ardesia sotto il quale vive e muore il popolo di Tespi, svettavano immobili ammassi cumuliformi di nubi. E tutto questo insieme aveva un che di poco fresco, antiquato, polveroso, e il vetro attraverso il quale Cincinnatus stava guardando recava tracce di sporco, mettendo insieme alcune delle quali si poteva ricostruire l'impronta di una mano infantile.

«Non vorresti portarmi là, per favore?» bisbigliò Cincinnatus. «Ti supplico».

Stava seduto vicino a Emmie sulla sporgenza di pietra ed entrambi fissavano lo sguardo nella lontananza artificiale al di là del vetro; lei, enigmatica, continuava a seguire con un dito i sentieri serpeggianti, e i suoi capelli avevano un profumo di vaniglia.

«Sta arrivando papà» disse all'improvviso, con voce roca, concitata; quindi saltò a terra e scomparve.

Era vero: Rodion si stava avvicinando, con un tintinnio di chiavi, dalla direzione opposta a quella da cui era venuto Cincinnatus (che per un istante pensò si trattasse di un riflesso in uno specchio).

«A casa, a casa» disse Rodion, scherzosamente.

La luce dietro il vetro si spense e Cincinnatus mosse un passo con l'intenzione di tornare per la stessa strada da cui era venuto.

«Ehi, ehi, dove se ne sta andando?» esclamò Rodion. «Vada dritto, si fa prima».

Solo allora Cincinnatus capì che le curve del corridoio non lo avevano portato da nessuna parte, ma avevano formato, invece, un grande poliedro – ora, infatti, girato l'angolo, vide da lontano la porta della sua cella e, prima di raggiungerla, passò davanti a quella dov'era rinchiuso il nuovo prigioniero. La porta era spalancata e all'interno l'amabile piccoletto che aveva visto in precedenza, con il suo pigiama a righe, in piedi su una sedia stava attaccando il calendario al muro: tap, tap – come un picchio.

«Non si sbircia, mia bella madamigella» disse Rodion, affabile, a Cincinnatus. «A casa, a casa. E che pulizia abbiamo fatto a casa sua, eh? Non dobbiamo più vergognarci di avere ospiti, adesso».

Sembrava particolarmente orgoglioso del fatto che il ragno troneggiasse in una ragnatela pulita, impeccabilmente regolare, tessuta, era chiaro, solo un momento prima.
7.
Una mattinata incantevole! Che liberamente, senza più l'attrito di prima, filtrava attraverso il vetro protetto da sbarre che Rodion aveva lavato il giorno precedente. Niente avrebbe potuto apparire più festoso del giallo delle pareti. Sul tavolo c'era una tovaglia pulita, che non aderiva perfettamente per via dell'aria sottostante. Il pavimento di pietra, su cui era stata gettata acqua in abbondanza, emanava una freschezza di fonte.

Cincinnatus indossò gli abiti migliori che aveva con sé e, mentre s'infilava le calze di seta bianca a cui, come insegnante, aveva diritto in occasione degli spettacoli di gala, Rodion portò un vaso di cristallo ancora bagnato con un mazzo di paffute peonie colte nel giardino del direttore: lo mise sul tavolo, al centro… no, non esattamente al centro; uscì camminando all'indietro e un attimo dopo tornò con uno sgabello e un'altra sedia che dispose non a casaccio, ma con giudizio e buon gusto. Andò avanti e indietro varie volte. Cincinnatus non osò chiedergli «manca ancora molto?» e – come capita in quel momento di particolare inattività, quando, tutti in ghingheri, si è in attesa degli ospiti – prese a gironzolare, ora appollaiandosi in angoli inconsueti, ora aggiustando i fiori nel vaso, affinché da ultimo Rodion provasse pietà di lui e gli dicesse che ormai non mancava molto.

Alle dieci in punto comparve Rodrig Ivanovič, con la sua finanziera migliore, la più monumentale, pomposo, distante, eccitato eppure composto; depose sul tavolo un portacenere massiccio e ispezionò ogni cosa (fatta eccezione per il solo Cincinnatus), comportandosi come un maggiordomo tutto preso dal proprio lavoro, che riserva attenzione esclusivamente all'assetto dell'inventario inanimato, lasciando che la parte animata si sistemi per conto suo. Tornò con un flacone verde provvisto di una pompetta di gomma e cominciò a spruzzare nella cella una fragranza di pino, facendo spostare Cincinnatus, senza tanti complimenti, ogniqualvolta se lo trovava davanti. Rodrig Ivanovič dispose le sedie in modo diverso da Rodion e fissò a lungo, strabuzzando gli occhi, gli schienali scompagnati – uno a forma di lira, l'altro squadrato. Gonfiò le guance ed emise un fischio, quindi si rivolse finalmente a Cincinnatus.

«E lei? E pronto?» chiese. «Ha trovato tutto quello che le serviva? Sono a posto le fibbie delle sue scarpe? Perché qui è spiegazzato, o roba del genere? Vergogna – vediamo le zampe. Bon. Adesso cerchi di non sporcarsi. Credo che ormai non manchi molto…».

Uscì e la sua voce da basso, succulenta e autoritaria, rimbombò nel corridoio. Rodion aprì la porta della cella, la fermò perché non si richiudesse e srotolò sulla soglia una passatoia a strisce color caramello. «Arrivano» sussurrò ammiccando e sparì di nuovo. Da qualche parte una chiave schioccò tre volte in una serratura, si udirono voci confuse e una folata scompigliò i capelli di Cincinnatus.

Era molto agitato e le sue labbra tremanti si atteggiavano di continuo al sorriso.

«Da questa parte. Siamo già arrivati» poteva udire i commenti sonori del direttore e un attimo dopo questi apparve sostenendo cavallerescamente per il gomito il piccolo prigioniero grassottello nella sua divisa a righe, che, prima di entrare, indugiò sullo stuoino, silenziosamente unì i piedi calzati di marocchino e s'inchinò con garbo.

«Mi permetta di presentarle M'sieur Pierre» disse il direttore a Cincinnatus, in tono giubilante. «Entri, entri, M'sieur Pierre. Lei non può immaginare quanto sia stato atteso qui… Fate conoscenza, signori… L'incontro tanto atteso… Uno spettacolo istruttivo… Sia indulgente con noi, M'sieur Pierre, non trovi da ridire…».

Non sapeva neppure più quello che diceva – non stava più nella pelle, abbozzava brevi saltelli impacciati, si strofinava le mani, sprizzava da tutti i pori un raggiante imbarazzo.

M'sieur Pierre, assolutamente calmo e composto, entrò, s'inchinò di nuovo, e Cincinnatus meccanicamente si avvicinò stringendogli la mano; l'altro trattenne nella sua zampetta soffice le dita di Cincinnatus, già pronte a ritrarsi, un attimo più del necessario – come un anziano medico garbato prolunga una stretta di mano in modo così gentile, così invitante –, poi le lasciò andare.

Con una voce melodiosa e acuta che saliva dalla gola M'sieur Pierre disse:

«Anch'io sono lietissimo di fare finalmente la sua conoscenza. E ho l'audacia di sperare che potremo stringere rapporti più stretti».

«Proprio così, proprio così» e il direttore scoppiò in una fragorosa risata. «Oh, la prego, si sieda… Faccia come se fosse a casa sua… Il suo collega è così felice di vederla qui che è rimasto senza parole».

M'sieur Pierre si mise a sedere e a quel punto fu evidente che non arrivava a toccare il pavimento con i piedi; tuttavia ciò non sminuiva affatto la sua dignità o quella grazia speciale che la natura elargisce a pochi e distinti ometti grassi. I suoi occhi, lucenti come il cristallo, fissavano educatamente Cincinnatus, mentre Rodrig Ivanovič, che si era seduto al tavolo con loro, ridacchiando nervoso ed elargendo esortazioni, volgeva lo sguardo dall'uno all'altro, ebbro di compiacimento, per spiare con avidità l'impressione prodotta da ogni parola dell'ospite su Cincinnatus.

M'sieur Pierre disse:

«Lei assomiglia in modo eccezionale a sua madre. Non ho mai avuto il piacere di conoscerla di persona, ma Rodrig Ivanovič mi ha gentilmente promesso di mostrarmela in fotografia».

«Al suo servizio,» rispose il direttore «ce ne procureremo una per lei».

«Comunque, a parte questo, ho sempre avuto una passione per la fotografia, sin da quando ero giovane» proseguì M'sieur Pierre. «Adesso ho trent'anni, e lei?».

«Lui ne ha trenta giusti» disse il direttore.

«Vede, ho indovinato. E allora, dal momento che è anche il suo hobby, lasci che le mostri…».

Senza indugio tirò fuori dal taschino della giacca del pigiama un portafoglio rigonfio e da lì una ricca serie di istantanee di piccolo formato. Girandole come avrebbe fatto con un mazzo di minuscole carte da gioco, cominciò a disporle via via sul tavolo, e Rodrig Ivanovič le agguantava l'una dopo l'altra con esclamazioni di entusiasmo, esaminava a lungo ciascuna, e lentamente, soffermandovi ancora lo sguardo ammirato, o altrimenti protendendosi verso la successiva, la passava al vicino – anche se lì tutto era immobilità e silenzio. Le fotografie mostravano M'sieur Pierre, M'sieur Pierre in varie pose – ora in un giardino, con in mano un pomodoro gigante da primo premio, ora appoggiato con una natica a una ringhiera (di profilo, con la pipa), ora mentre leggeva, seduto su una sedia a dondolo, con accanto bicchiere e cannuccia…

«Eccellente, meravigliosa» commentava untuoso Rodrig Ivanovič, annuendo, deliziandosi alla vista di ogni fotografia, oppure reggendone tra le dita due contemporaneamente e volgendo lo sguardo dall'una all'altra. «Santo cielo, che bicipiti ha in questa! Chi l'avrebbe mai detto – con il suo fisico così aggraziato. Sconvolgente! Oh, com'è deliziosa questa, mentre parla con l'uccellino!».

«E addomesticato» fece M'sieur Pierre.

«Molto divertente! Ma sa che… E questa qui? Non mi dica che mangia un'anguria?!».

«Infatti» replicò M'sieur Pierre. «Queste le ha già guardate, qui ce ne sono delle altre».

«Un incanto, lasci che glielo dica. Mi passi l'altra serie – lui non le ha ancora viste…».

«Qui faccio il giocoliere con tre mele» disse M'sieur Pierre.

«Cosa non è questa!» commentò il direttore schioccando la lingua.

«A colazione» proseguì M'sieur Pierre. «Questo sono io, e questo è la buonanima di mio padre».

«Sì, sì, naturalmente lo riconosco… Che nobile fronte!».

«Sulle rive dello Strop» disse M'sieur Pierre. «Ci è mai stato?» chiese, rivolto a Cincinnatus.

«Non credo» rispose Rodrig Ivanovič. «E questa dove è stata scattata? Che soprabitino elegante! Sa una cosa, qui lei sembra più vecchio. Un attimo solo, voglio rivedere quella con l'innaffiatoio».

«Ecco… Sono tutte quelle che ho portato» disse M'sieur Pierre, e di nuovo si rivolse a Cincinnatus. «Se solo avessi saputo che lei era così interessato, ne avrei prese di più – ho una dozzina e passa di album».

«Meraviglioso, sbalorditivo» andava ripetendo Rodrig Ivanovič, mentre si asciugava con un fazzoletto lilla gli occhi fattisi umidi per tutte quelle risatine ed esclamazioni di giubilo.

M'sieur Pierre riordinò il contenuto del portafoglio. Improvvisamente nelle sue mani comparve un mazzo di carte.

«Pensate a una carta, per favore, una qualsiasi» propose, disponendo il mazzo sul tavolo; con il gomito spinse da parte il portacenere e continuò nell'operazione.

«Fatto» disse baldanzoso il direttore.

Indulgendo un po' al gusto per i giochi di prestigio, M'sieur Pierre portò il dito indice alla fronte; quindi raccolse rapidamente le carte, fece crepitare il mazzo con mano esperta e ne estrasse un tre di picche.

«Strabiliante» esclamò il direttore. «Semplicemente strabiliante!».

Il mazzo di carte scomparve all'improvviso, così com'era apparso e, con un'espressione imperturbabile, M'sieur Pierre disse: «C'è una vecchietta che va dal medico e fa: "Ho una malattia spaventosa, signor dottore, ho una terribile paura di morirne…". "E quali sono i sintomi?". "Mi tentenna la testa, signor dottore"» e M'sieur Pierre, biascicando e tremolando, imitò la vecchietta.

Rodrig Ivanovič ebbe un accesso di ilarità sfrenata, batté il pugno sul tavolo, per poco non cadde dalla sedia; poi venne colto da un convulso di tosse; gemette; e solo con un grande sforzo riprese il controllo di sé.

«M'sieur Pierre, lei è l'anima della festa,» disse continuando a lacrimare «la vera anima della festa! In tutta la mia vita non mi era mai capitato di sentire una storiella così divertente!».

«Ma come siamo malinconici, come siamo sensibili» disse M'sieur Pierre a Cincinnatus, protendendo le labbra come se cercasse di far ridere un bambino imbronciato. «Ce ne stiamo così silenziosi, e i nostri baffetti tremolano tutti e le vene del collo pulsano e gli occhietti sono velati…».

«E per la gioia» intervenne subito il direttore. «N'y faites pas attention».

«Sì, è davvero un giorno felice, un giorno memorabile» disse M'sieur Pierre. «Io stesso scoppio dall'emozione… Non faccio per vantarmi, ma in me, caro collega, lei troverà una rara combinazione di socievolezza esteriore e di delicatezza interiore, l'arte della causerie e la capacità di mantenere il silenzio, la giocosità e la serietà… Chi consolerà un bambino che singhiozza e incollerà il suo giocattolo rotto? M'sieur Pierre. Chi intercederà a favore di una povera vedova? M'sieur Pierre. Chi fornirà un consiglio avveduto, chi raccomanderà una medicina, chi porterà liete notizie? Chi? Chi? M'sieur Pierre. Tutto farà M'sieur Pierre».

«Straordinario! Che talento!» esclamò il direttore come se stesse ascoltando una poesia; ma intanto, da sotto un sopracciglio che si contraeva nervosamente, continuava a osservare Cincinnatus.

«Ritengo, pertanto…» proseguì M'sieur Pierre. «Ah già, a proposito,» s'interruppe «è soddisfatto del suo alloggio? Non ha freddo la notte? Le danno abbastanza da mangiare?».

«Mangia quello che mangio io» rispose Rodrig Ivanovič. «Il vitto è eccellente».

«Allora, tutti dentro» scherzò M'sieur Pierre.

Il direttore si accingeva a scoppiare in un'altra fragorosa risata, ma proprio in quel momento la porta si aprì e il tetro, allampanato bibliotecario comparve con una pila di libri sotto il braccio. Aveva una sciarpa di lana avvolta intorno al collo. Senza salutare nessuno buttò i libri sulla branda, e per un istante i fantasmi stereometrici di quegli stessi volumi si librarono nell'aria sotto forma di polvere, ondeggiarono e si dispersero.

«Aspetti un momento» disse Rodrig Ivanovič. «Non credo che vi conosciate».

Il bibliotecario annuì senza guardare, mentre il compito M'sieur Pierre si alzava dalla sedia.

«La prego, M'sieur Pierre,» implorò il direttore, mettendosi una mano sullo sparato della camicia «la prego, gli mostri il suo trucco».

«Oh, non ne vale la pena, è… è veramente una sciocchezza» buttò lì con modestia M'sieur Pierre, ma il direttore insisteva.

«E un miracolo! Una magia bellissima! Tutti noi la imploriamo! Oh, lo faccia per noi… Aspetti, aspetti un attimo» gridò al bibliotecario, che già si stava avviando alla porta. «Solo un attimo, M'sieur Pierre le farà vedere una cosa straordinaria. Per favore, per favore! Non se ne vada…».

«Pensi a una di queste carte» proferì M'sieur Pierre con finta solennità; mescolò il mazzo; tirò fuori il cinque di picche.

«No» disse il bibliotecario e uscì.

M'sieur Pierre alzò le sue piccole spalle rotonde.

«Torno subito» bofonchiò il direttore e uscì a sua volta.

Cincinnatus e il suo ospite rimasero soli.

Cincinnatus aprì un libro e s'immerse nella lettura, o meglio, seguitò a leggere e rileggere la prima frase. M'sieur Pierre lo guardò con un sorriso gentile, una zampetta a palmo in su sopra il tavolo, come se gli stesse offrendo di fare la pace. Il direttore tornò. Stretta saldamente nel suo pugno c'era una sciarpa di lana.

«Forse potrà esserle utile, M'sieur Pierre» disse; quindi gli porse la sciarpa, si mise a sedere, espirò rumorosamente, come un cavallo, e cominciò a esaminarsi il pollice dalla cui estremità l'unghia semispezzata sporgeva come un falcetto.

«Di che cosa stavamo parlando?» esclamò M'sieur Pierre con tatto squisito, come se non fosse successo niente. «Ah sì, stavamo parlando di fotografie. Un giorno porterò la mia macchina fotografica e le farò una fotografia. Sarà divertente. Che cosa sta leggendo? Posso dare un'occhiata?».

«Dovrebbe metterlo via quel libro,» osservò il direttore con una stridula nota di esasperazione nella voce «in fin dei conti lei ha un ospite».

«Oh, lo lasci stare» disse sorridendo M'sieur Pierre.

Ci fu una pausa.

«Si sta facendo tardi» commentò il direttore, dopo aver gettato uno sguardo all'orologio.

«Sì, tra un attimo andiamo… Santo cielo, che brontolone… Lo guardi, le sue labbruzze sono tutte un tremito… da un momento all'altro il sole darà una sbirciatina da dietro le nuvole… Brontolone, brontolone…».

«Andiamo» disse il direttore, alzandosi.

«Un istante solo… Mi piace tanto stare qui dentro che faccio fatica a staccarmi… In ogni caso, mio caro vicino, approfitterò del suo permesso per farle visita di frequente, di frequente – cioè, s'intende, se lei mi accorderà il permesso – e sarà così, non è vero?… Arrivederci, dunque, per ora. Arrivederci! Arrivederci!».

Inchinandosi in modo buffo, come se stesse imitando qualcuno, M'sieur Pierre arretrò; il direttore lo prese di nuovo per il gomito, emettendo voluttuosi suoni nasali. Uscirono, ma all'ultimo si sentì una voce che diceva: «Mi scusi, ho dimenticato una cosa. La raggiungo subito» e il direttore si precipitò di nuovo nella cella; si avvicinò a Cincinnatus e per un istante il sorriso abbandonò la sua faccia paonazza: «Mi vergogno,» sibilò tra i denti «mi vergogno di lei. Si è comportato come… Vengo, vengo» urlò, raggiante come non mai; poi afferrò il vaso con le peonie che era sul tavolo e, spargendo acqua dappertutto, uscì dalla cella.

Cincinnatus continuò a fissare il libro. Sulla pagina era caduta una goccia. Sotto la goccia alcune lettere passarono dal corpo otto al corpo dodici, essendosi gonfiate come se vi fosse stata appoggiata sopra una lente di ingrandimento.
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