UN PO' DI CHIAREZZA SUI COSIDDETTI TERRITORI "OCCUPATI" DI ISRAELE
Nicolò Montarini
Quando si parla d’Israele ci siamo oramai abituati a leggere e a sentir parlare di “territori illegalmente occupati secondo il diritto internazionale”.
Ritengo sia il caso di “rompere” queste parole pseudo giuridiche che si sono insinuate nel linguaggio comune affermandosi, alla stregua di verità date per certe, per via di quel sottogenere di pregiudizio antiebraico, ormai socialmente sdoganato come antisionismo.
[...] alla fine della “Guerra dei sei giorni” Israele riottenne il controllo sui territori ad Ovest del fiume Giordano, ponendo fine all’occupazione illegittima araba iniziata con l’invasione della Palestina mandataria del 1948.
Formalmente la guerra tra Giordania ed Israele si concluse nel 1994, con la firma del relativo trattato di Pace nel quale vennero anche ristabiliti i precedenti confini mandatari tra le due Nazioni. Sempre nello stesso periodo, attraverso gli accordi di Oslo, il governo israeliano e l’organizzazione politica rappresentativa palestinese – l’ANP – sembravano convergere per una soluzione politica interna alla questione dell’autodeterminazione palestinese.
[...] questi accordi rappresentassero un primo passo compiuto da Israele per addivenire ad una soluzione pacifica della contesa sull’autodeterminazione palestinese. Per fare un paragone esemplificativo, possiamo pensare ad Oslo come ad un contratto preliminare a cui sarebbe dovuto seguire un definitivo che però, ad oggi, non è ancora stato concluso.
Tuttavia alcuni principi generali contenuti negli Accordi rimangono validi e soprattutto sono utili per chiarire i termini e il contesto relativo agli insediamenti. Uno di questi principi è che le parti non si vincolano ad una soluzione predefinita delle questioni di interesse ma convengono di sistemare la controversia attraverso delle negoziazioni future.
In questo senso nelle “Clausole Finali” del trattato del 1995, all’art. 31, viene stabilito:
“Nessuna delle Parti sarà ritenuta, in virtù della stipula del presente Accordo, rinunciataria rispetto a uno qualsiasi dei suoi diritti, rivendicazioni o posizioni esistenti”.
Un altro principio da tenere a mente è che Israele e ANP si sono accordate per attribuire alla Cisgiordania uno status giuridico temporaneo e si sono impegnate a non modificare tale status con atti unilaterali fino alla conclusione dei negoziati, infatti, sempre nello stesso articolo troviamo scritto:
“Le due Parti considerano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza come un’unica unità territoriale, la cui integrità e il cui status saranno preservati durante il periodo provvisorio. Nessuna delle due parti avvierà o intraprenderà alcuna iniziativa che possa modificare lo status della Cisgiordania e della Striscia di Gaza in attesa dell’esito dei negoziati sullo status permanente”.
Infine, sempre tra le clausole finali dell’Accordo del 1995, le parti elencano i temi di interesse che sarebbero dovuti essere discussi in un secondo momento, questi sono: Gerusalemme, rifugiati, insediamenti, accordi di sicurezza, confini, relazioni e cooperazione.
In molti oggi accusano Israele per il deragliamento delle trattative e la conseguente situazione di stallo ma le vicende di allora raccontano un’altra storia: mentre, in un gioco di maschere, Arafat interpretava Dr. Jekyll con i media occidentali e Mr. Hide con quelli musulmani, svariati membri dell’OLP non erano altrettanto accorti e lasciavano intendere più sfacciatamente il vero obiettivo della leadership palestinese. Così, mentre nei discorsi pubblici di “two-faced Yasser” vi erano raffinati e criptci parallellismi tra gli Accordi di Oslo e il trattato di Hudaybiyya, un altro influente leader palestinese, Faisal Husseini, nel 1996 affermava pubblicamente:
“Tutti i palestinesi concordano sul fatto che i giusti confini della Palestina sono il fiume Giordano e il Mediterraneo. Realisticamente, tutto ciò che si può ottenere ora dovrebbe essere accettato [nella speranza che, ndr.] gli eventi successivi, forse nei prossimi quindici o vent’anni, ci presentino l’opportunità di realizzare i giusti confini della Palestina”.
Anche Abu Mazen, attuale presidente palestinese, la pensava più o meno allo stesso modo, questa è una sua dichiarazione pubblica del 1996:
“Non abbiamo firmato un trattato di pace con Israele, ma accordi provvisori che ci sono stati imposti”.
Occorre anche ricordare che la stessa OLP (il Comitato per la Liberazione della Palestina), nel suo atto costitutivo del 1964 (quando in Cisgiordania non v’era un solo “insediamento illegale”) all’art. 2, dichiarava esplicitamente che:
“La Palestina, con i suoi confini al tempo del mandato britannico, è un’unità regionale indivisibile”
mentre, all’art. 24, i leader dell’OLP chiarivano che:
“Questa Organizzazione non esercita alcuna sovranità regionale sulla Cisgiordania nel Regno hashemita di Giordania, sulla Striscia di Gaza o nell’area di Himmah. Le sue attività saranno a livello popolare nazionale e di tipo organizzativo, politico e finanziario”.
Tradotto dal burocratese e depurato dai bizantinismi: non vogliamo insidiare il governo hashemita, ma organizzarci per continuare la guerra di attrito contro Israele fino alla completa “liberazione” della Palestina dai sionisti e dallo Stato ebraico.
Come se non bastasse, l’apparente apertura dell’ANP ad una soluzione pacifica del conflitto nel ’93, fu cinicamente sfruttata politicamente da Hamas che, proprio in concomitanza con l’inizio dei trattative sullo status permanente, iniziò a martoriare i civili israeliani per inceppare il processo di pacificazione ed accrescere la propria popolarità a discapito dei rivali interni dell’ANP. Una strategia sanguinaria che purtroppo diede i suoi frutti e che portò il gruppo terroristico al controllo della Striscia nel 2006, subito dopo il trasferimento forzato dei “coloni” israeliani da Gaza, per decisione del governo di Gerusalemme.
Possiamo concludere quindi che lo status quo a Gaza, sia per lo più il risultato delle reiterate scelte politiche della società palestinese e della sua leadership, della loro ostinazione nel perseguire i propri obiettivi tramite l’uso della guerriglia e della violenza terroristica invece di riconoscere la legittimità dell’esistenza di Israele accomodandosi tramite un compromesso politico.
Non solo, come ho scritto sopra, quello degli insediamenti era uno dei temi di discussione soggetto a negoziazione e rimasto insoluto. Nel merito occorre ricordare che l’ingiusta occupazione della Cisgiordania, terminata nel 1994, non aveva modificato i diritti civili dei profughi Ebrei e fondati sul sistema dei Mandati. L’art. 43 della IV Convenzione dell’AJA a questo proposito stabilisce la regola generale, ovvero:
“Quando l’autorità del potere legittimo sia effettivamente passata nelle mani dell’occupante, questi prenderà tutte le misure che dipendano da lui per ristabilire ed assicurare, per quanto è possibile, l’ordine pubblico e la vita pubblica, rispettando, salvo impedimento assoluto, le leggi vigenti nel paese”.
Nel caso specifico, tra le leggi vigenti nel paese, si potrebbe richiamare l’art. 6 del Mandato britannico del 1922, che riconosceva agli Ebrei il diritto di insediarsi e stabilirsi su tutto il territorio mandatario:
“L’Amministrazione della Palestina […] dovrà favorire l’insediamento degli Ebrei su il territorio compresi i terreni demaniali non destinati a scopi pubblici”.
Nel contesto descritto risulta evidente quanto siano peregrine le affermazioni che circolano in modo incontrollato sullo stato dell’arte del diritto internazionale in quella regione del mondo: non solo gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sarebbero effettivamente legali – o quantomeno oggetto di un negoziato pendente tra le parti – ma, soprattutto, questo genere di manipolazioni sono solo l’abboccamento al maldestro tentativo degli antisionisti di riscrivere la storia per associare gli Ebrei al colonialismo e trasformare, abusando del diritto, la loro presenza in Giudea e Samaria in un crimine internazionale.