ESPIAZIONE
Ian McEwan
Espiazione è un romanzo che conduce dentro il racconto attraverso la psicologia dei personaggi, i loro pensieri e le loro emozioni, permettendo di comprendere come questi elementi producano le azioni dei protagonisti. Lo stesso personaggio centrale, Briony, che porta in sè il rimorso di una colpa che ha cambiato definitivamente la sua vita e quella degli altri con cui ha avuto rapporti, una volta adulta scoprirà l'importanza del mettere in evidenza i pensieri più profondi dei personaggi in un suo romanzo. Attraverso questo contatto con la psiche dei protagonisti, non ci si sente di giudicarli perché si conosce il ragionamento in buona fede che sta dietro ogni loro singola azione.
Non solo è una storia raccontata nella sua tragicità, ma è anche, nell'ultima parte, una riflessione sull’artista scrittore nel rapporto con la sua opera: non solo romanzo sentimentale e di guerra, ma anche "metaromanzo".
Non solo è una storia raccontata nella sua tragicità, ma è anche, nell'ultima parte, una riflessione sull’artista scrittore nel rapporto con la sua opera: non solo romanzo sentimentale e di guerra, ma anche "metaromanzo".
Espiazione è tante cose, ma è soprattutto un romanzo in cui l’amore, come la letteratura, ha la forza di salvare la vita e il destino delle persone, una citazione non languida, non banale, su come dire l’amore senza bisogno di dirlo:
«E finalmente lui pronunciò le due semplicissime parole che nemmeno una montagna di arte e ideali scadenti riuscirà mai a screditare del tutto»
L’intreccio condotto, con una focalizzazione alternata sui diversi personaggi, e l’attenta analisi psicologica dei vari profili e stati d’animo fanno di questo romanzo un capolavoro fra i miei preferiti.
Ian McEwan
Parte prima
Capitolo primo
Lo spettacolo per il quale Briony aveva ideato locandine, programmi e biglietti, costruito il botteghino con un paravento sbilenco e foderato di carta rossa la cassetta dei soldi, era opera sua, frutto di due giornate di una creatività tanto burrascosa da farle saltare una colazione e un pranzo. Quando ebbe concluso i preparativi, non le restò altro da fare che contemplarne la stesura definitiva e aspettare di veder comparire i suoi cugini dal lontano nord. Ci sarebbe stato un solo giorno di tempo per le prove, prima dell’arrivo di suo fratello. A tratti pungente, spesso disperatamente triste, il dramma narrava una storia di cuore il cui messaggio, racchiuso nel prologo in rima, era che un amore non costruito su fondamenta di grande buonsenso ha il destino segnato. La sconsiderata passione dell’eroina per un malvagio conte straniero naufraga nella sventura allorché la protagonista, Arabella, contrae il colera durante una corsa precipitosa verso una cittadina di mare in compagnia del suo promesso. Abbandonata da lui come da quasi tutti gli altri, costretta a letto in una soffitta, la protagonista scopre in se stessa la forza dell’ironia. La sorte le offre una seconda occasione nella persona di un medico in ristrettezze economiche - in realtà, un principe sotto mentite spoglie che ha deciso di lavorare tra i bisognosi. L’uomo la guarisce e Arabella, che questa volta sceglie con giudizio, e ricompensata dalla riconciliazione con la sua famiglia e dalle nozze col principe-dottore in una «ventosa giornata di sole primaverile».
La signora Tallis lesse le sette pagine delle Disavventure di Arabella in camera sua, seduta alla toletta, con un braccio dell’autrice sulla spalla per tutta la durata della lettura. Briony scrutava il viso della madre per non lasciarsi sfuggire il passaggio fugace di un’emozione, ed Emily Tallis stette al gioco producendosi in espressioni di allarme, risatine di gioia e, alla fine, in sorrisi riconoscenti e avveduti cenni di assenso. Prese tra le braccia la figlia, se la sedette in grembo - ah, le tornava alla mente il bel corpicino caldo di quando era piccola, non ancora perduto, non del tutto - e definì la sua commedia«incantevole», acconsentendo subito, con un mormorio soffiato nella spirale stretta dell’orecchio della bambina, a che quell’aggettivo venisse utilizzato sulla locandina da esporre su un cavalletto in ingresso, accanto alla biglietteria.
Briony non poteva saperlo allora, ma quello sarebbe stato l’attimo di maggior successo della sua iniziativa. Niente poté eguagliarne il senso di soddisfazione, tutto il resto si ridusse a una serie di sogni e di delusioni. C’erano momenti nelle notti estive in cui, spente le luci e rintanata nel buio accogliente del letto a baldacchino, Briony lasciava battere il proprio cuore al pensiero di fantasticherie luminose e ardenti, di per sé brevi commediole che prevedevano immancabilmente la presenza di Leon. In un caso, la sua faccia grande e cordiale era sconvolta dalla sofferenza di fronte alla solitudine disperata di Arabella. In un altro, eccolo in qualche ritrovo alla moda della capitale mentre, con il bicchiere del cocktail in mano, si vantava con un gruppo di amici dicendo: «Sì, la mia sorellina, Briony Tallis, ne avrete senz’altro sentito parlare». In un terzo, Leon levava in aria un pugno di giubilo mentre il sipario calava, anche se non c’era nessun sipario, era stato impossibile realizzarlo. Il dramma non era destinato ai cugini, bensì al fratello, di cui intendeva festeggiare il ritorno a casa e suscitare l’ammirazione per poi strapparlo alla sventata sequela di fidanzate e indirizzarlo verso una moglie appropriata, quella che lo avrebbe convinto a tornare in campagna, e avrebbe cortesemente richiesto a lei di farle da damigella d’onore.
Briony era una di quelle bambine possedute dal desiderio che al mondo fosse tutto assolutamente perfetto. Mentre la camera della sorella maggiore era una baraonda di libri mai chiusi, vestiti mai ripiegati, un letto mai rifatto e posacenere mai svuotati, quella di Briony era il santuario del demone che la animava: nel modellino di fattoria disposto sul davanzale profondo della finestra figuravano gli animali consueti, ma tutti rivolti in un’unica direzione - quella della loro proprietaria -, quasi che fossero sul punto di levare un canto; perfino le galline erano sistemate rigorosamente in cerchio. In effetti quella di Briony era la sola camera ordinata al piano di sopra della casa. Le sue bambole, sedute erette nelle loro ville a più stanze, parevano obbedire al preciso ordine di non sfiorare mai le pareti; le file composte e spaziate delle varie figure alte un dito sulla sua toletta - cowboy, sommozzatori, topi umanoidi – davano l’impressione di un piccolo esercito sull’attenti.
Il gusto per le miniature rappresentava un aspetto della sua indole metodica. Un altro era la passione per i segreti: un suo prezioso stipetto laccato disponeva di un assettino segreto che si apriva spingendo l’estremità di un ingegnoso incastro a coda di rondine; qui Briony custodiva un diario chiuso con un lucchetto e un taccuino scritto in un codice di sua invenzione. In una cassaforte giocattolo da aprire con una combinazione di sei numeri segreti conservava lettere e cartoline. Una vecchia scatola di latta stava nascosta da un’assicella del pavimento, sotto il suo letto. La scatola conteneva tesori che risalivano a quattro anni prima, al suo nono compleanno, quando aveva deciso di inaugurare la collezione: una doppia ghianda mutante, un campione di pirite, un incantesimo per la pioggia comprato a una fiera, e un teschio di scoiattolo leggero come una foglia.
Ma cassetti segreti, diari provvisti di serratura e sistemi crittografici non potevano celare a Briony la semplice verità, e cioè che lei non aveva alcun segreto. Il suo desiderio di un mondo armonioso e ben organizzato le negava ogni possibilità di trasgressioni imprudenti. Confusione e violenza erano troppo caotiche per i suoi gusti, e la crudeltà non le si addiceva. La sua attuale condizione di figlia unica, e il relativo isolamento di villa Tallis, la tenevano lontana, almeno nel periodo delle vacanze estive, da complotti femminili con le amiche. Niente nella sua vita era sufficientemente interessante o scandaloso da meritare di essere tenuto segreto; nessuno era al corrente del teschio di scoiattolo sotto il letto, ma nessuno smaniava dalla voglia di scoprirlo. Nulla di tutto ciò le causava particolare sofferenza; o meglio, così le pareva solo a posteriori, dopo avere ormai trovato una soluzione.
All’età di undici anni scrisse la sua prima storia - sciocca imitazione di una mezza dozzina di racconti popolari, a cui mancava, come più tardi comprese, l’essenziale conoscenza del mondo, necessaria per guadagnarsi il rispetto del lettore.
Ma quel primo goffo tentativo le dimostrò come l’immaginazione sia di per se fonte di segreti: una volta iniziata una storia, non poteva raccontarla a nessuno. La finzione delle parole era una pratica troppo incerta, vulnerabile, imbarazzante per metterne al corrente chiunque. Perfino mentre scriveva gli «ella disse», gli «e poi», le capitava di trasalire, e si sentiva sciocca a far finta di conoscere le emozioni di un essere immaginario. Esporsi in prima persona era inevitabile quando descriveva le debolezze di un personaggio: il lettore non avrebbe potuto fare a meno di pensare che stava descrivendo se stessa. Quali altri potevano essere i suoi riferimenti? Solo quando tutti i destini apparivano risolti e l’intera vicenda era sigillata da un inizio e una fine, e la storia veniva ad assomigliare, almeno sotto questo aspetto, a tutte le altre storie del mondo, soltanto allora poteva sentirsi immune, e pronta a perforare i margini delle pagine, legare i capitoli con un filo, dipingere o disegnare la copertina e mostrare il lavoro finito alla madre, o al padre, se era a casa.
Le sue fatiche venivano incoraggiate. Anzi, accolte con entusiasmo da quando i Tallis incominciarono a rendersi conto che la piccola di famiglia possedeva un’intelligenza singolare e un dono per le parole. I lunghi pomeriggi trascorsi a curiosare tra le pagine di vocabolario e dizionario dei sinonimi producevano espressioni magari poco opportune, ma affascinanti: le monete che il cattivo della storia nascondeva in tasca erano definite «esoteriche», il malvivente sorpreso a rubare un’automobile frignava con «la spudoratezza del reo», l’eroina in groppa al suo stallone purosangue si lanciava in un viaggio «impetuoso» attraverso la notte, la fronte corrugata del re era il «geroglifico» del suo dispiacere. Briony leggeva quelle storie ad alta voce in biblioteca, e genitori e sorella maggiore si stupivano ascoltando la ragazzina timida che conoscevano recitare con tanta sicurezza, facendo ampi gesti, sollevando le sopracciglia, alterando la voce e distogliendo di quando in quando lo sguardo dalla pagina per parecchi secondi allo scopo di puntarlo negli occhi di uno o dell’altro, esigendo senza mezzi termini la totale attenzione dei familiari mentre lanciava il proprio incantesimo di narratrice.
Ma anche senza lodi, attenzione e palese compiacimento, Briony non sarebbe stata distolta dalla scrittura. In ogni caso andava scoprendo, come già molti autori prima di lei, che non tutte le forme di riconoscimento sono d’aiuto. L’entusiasmo di Cecilia, per esempio, pareva un po’ sopra le righe, viziato da un pizzico di condiscendenza, oltre che invadente; la sorella maggiore pretese di catalogare ogni singola storia rilegata e di sistemarla in ordine alfabetico sugli scaffali, tra Rabindranath Tagore e Quinto Tertulliano. Se voleva essere uno scherzo, Briony decise di non farci caso. Ormai era avviata, e aveva trovato soddisfazioni su altri livelli; scrivere storie non era solo una fonte di segretezza, le procurava anche il piacere della miniaturizzazione. Cinque pagine appena potevano contenere un mondo, oltretutto assai più gradevole di quello di un modellino di fattoria. Lo spazio di mezza pagina bastava a incorniciare l’infanzia viziata di un principe, una corsa sotto la luna attraverso villaggi addormentati diventava una frase ritmicamente enfatica, l’atto di innamorarsi poteva accadere nell’arco di una parola soltanto: uno sguardo. Le pagine di una storia appena finita parevano fremerle tra le mani per tutta la vita che vi palpitava. Anche la sua passione per l’ordine risultava soddisfatta, giacché un mondo caotico poteva essere trasformato in ordine perfetto.
Una crisi nell’esistenza della protagonista poteva coincidere con grandinate, tuoni, tempeste di vento, mentre l’atmosfera nuziale era di solito benedetta da luce tersa e brezze leggere. L’amore per l’ordine informava anche i principi della giustizia: morti e matrimoni costituivano i motori essenziali della gestione domestica, le prime, tenute in serbo a uso esclusivo dei personaggi moralmente ambigui, i secondi, utilizzati come ricompensa da rimandare fino all’ultima pagina della vicenda.
Il dramma che aveva scritto per il ritorno di Leon rappresentava la sua prima incursione nel mondo del teatro, un cambiamento di genere che Briony aveva trovato agevolissimo. Era stato un sollievo non dover scrivere tutti gli «ella disse», o le descrizioni del clima, o dell’inizio della primavera e del viso della protagonista; la bellezza, aveva scoperto, possedeva scarse variazioni di tono. La bruttezza, al contrario, ne aveva infinite. Un universo ridotto al dialogo era di per sé sinonimo di ordine, quasi fino a sfiorare l’evanescenza, e, per compensare, ogni frase doveva essere pronunciata enfatizzando al massimo l’emozione di volta in volta espressa, al servizio della quale si rendeva necessario l’uso del punto esclamativo. Le disavventure di Arabella potevano forse rientrare nel genere melodramma, ma la sua autrice ancora non si era imbattuta in quel termine. La pièce non intende va suscitare ilarità ma, nell’ordine, terrore, sollievo e consolazione, e l’ingenua intensità con la quale Briony si era dedicata al progetto - locandine, programmi, biglietteria - la rendeva particolarmente vulnerabile a un eventuale fallimento. Avrebbe potuto benissimo dare il benvenuto al fratello con una delle sue storie, ma la notizia dell’arrivo dei cuginetti dal nord l’aveva incoraggiata a cimentarsi in quella nuova forma di scrittura.
Il fatto che la quindicenne Lola e i due gemelli di nove anni Jackson e Pierrot fossero profughi di un’amara guerra civile tra le mura domestiche avrebbe dovuto impensierire Briony molto di più. Aveva udito sua madre criticare il comportamento impulsivo della sorella minore Hermione, commiserarne i tre figli e biasimare l’inconcludente mitezza del cognato Cecil, che aveva cercato salvezza presso l’All Souls College di Oxford. Briony aveva sentito madre e sorella analizzare i più recenti risvolti della tragedia, lanciando accuse e contro-accuse, perciò sapeva che quella visita si sarebbe protratta a tempo indeterminato allungandosi forse oltre l’inizio della scuola. Aveva sentito dire che la casa poteva ospitare senza problemi altri tre ragazzi, e che i Quincey si sarebbero potuti trattenere quanto volevano a condizione che i genitori si impegnassero, in caso di visite simultanee, a tenere le loro beghe fuori dalle pareti di villa Tallis. Si era provveduto a pulire due stanze accanto a quella di Briony, ad appendervi tende nuove e ad arredarle con mobili trasferiti da altre camere. Di norma avrebbe partecipato anche lei ai preparativi, ma il caso volle che coincidessero con i suoi due giorni di creatività febbrile nonché con l’inizio dell’allestimento teatrale.
Sapeva vagamente che un divorzio è causa di sofferenze, ma non lo considerava un tema adatto a lei e non vi dedicava i propri pensieri. Si trattava di una separazione banale di tipo irreversibile, e pertanto non aveva nulla da offrire a un narratore: apparteneva al regno del disordine. Il matrimonio si che funzionava, o meglio ancora, la cerimonia delle nozze, accompagnata dalla purezza formale della virtù ricompensata, dall’evento eccitante del corteo e del banchetto, e dalla promessa di un’unione indissolubile. Una buona cerimonia nuziale costituiva l’inconfessata rappresentazione della beatitudine sessuale, a lei ancora ignota. Nelle navate di chiesette di campagna o di solenni cattedrali cittadine, sotto gli occhi ammirati di schiere di amici e familiari, le sue eroine e i suoi eroi andavano innocenti incontro al momento culminante della vicenda senza bisogno di spingersi più in là.
Se il divorzio le si fosse presentato come l’antitesi infame di tutto questo, non sarebbe stato difficile gettarlo sull’altro piatto della bilancia insieme a tradimento, malattia, furto, aggressione e menzogna. Invece aveva mostrato il volto spento di complessità insensate e di liti inesauste. Non diversamente dalla corsa al riarmo, dalla questione abissina o dal giardinaggio, molto semplicemente non funzionava come soggetto, e quando, dopo una lunga attesa durata tutto il sabato mattina, Briony alla fine udì il rumore delle ruote sulla ghiaia sotto la finestra di camera sua e, afferrate le pagine del testo, si precipitò giù dalle scale, attraversò l’ingresso e si gettò nella luce accecante del mezzogiorno, non fu tanto l’insensibilità quanto piuttosto l’altissimo livello della sua ambizione d’artista a farle gridare agli intimiditi visitatori ammucchiati con i bagagli intorno al calesse: - Ho già le parti pronte, ho scritto tutto. Andiamo in scena domani! Le prove incominciano tra cinque minuti!
Immediatamente, madre e sorella si intromisero imponendo una tabella di marcia più tranquilla. Gli ospiti - tutti e tre rossi di capelli e lentigginosi - vennero accompagnati alle loro stanze. Danny, il figlio di Hardman, si occupò di portare di sopra le loro valigie; c’era della limonata ad aspettarli sul tavolo della cucina, un breve giro della casa, un bagno in piscina, e pranzo in giardino, sotto il pergolato. Per tutto il tempo, Emily e Cecilia Tallis mantennero un tono di voce meccanico e cantilenante che di sicuro derubava i destinatari di quelle parole del conforto che avrebbero dovuto trarne. Briony sapeva che dopo un viaggio di trecento chilometri verso una casa sconosciuta, tutte quelle domande spigliate, i commenti scherzosi e il sentirsi ripetere cento volte che si era liberi di fare come si voleva l’avrebbero gettata nello sconforto. Quello che di solito la gente non capisce è che perlopiù i bambini amano essere lasciati in pace. Ciononostante, i Quincey ce la misero tutta per dare l’impressione di essere contenti e disinvolti, il che non poteva non risultare di buon auspicio per Le disavventure di Arabella: il trio in questione mostrava un vero talento nel presentarsi per quello che non era, anche se la scarsa somiglianza con i personaggi del dramma era scoraggiante. Prima di pranzo Briony sgattaiolò nella sala destinata alle prove - la nursery - e misurò avanti e indietro le assi dipinte del pavimento, analizzando le possibilità che le si offrivano nell’assegnazione dei ruoli.
A giudicare dalle apparenze, Arabella, che aveva capelli scuri come quelli di Briony, ben difficilmente avrebbe potuto essere il frutto di genitori lentigginosi, o avere voglia di darsi alla fuga con un lentigginoso conte straniero, affittare una soffitta da un albergatore lentigginoso, innamorarsi di un principe lentigginoso e sposarsi davanti a un lentigginoso curato circondata da una folla di fedeli lentigginosi. Così invece sarebbe andata a finire. I suoi cugini avevano un colore di capelli troppo acceso - per non dire fluorescente! - per riuscire a mascherarlo. La cosa migliore che si poteva sostenere era che l’assenza di lentiggini sulla pelle di Arabella costituiva il segno - il geroglifico, avrebbe potuto scrivere Briony - della sua distinzione. La sua purezza di spirito non avrebbe mai lasciato spazio a dubbi, benché lei si muovesse in un mondo corrotto. C’era poi un ulteriore problema legato ai gemelli: erano indistinguibili agli occhi di qualsiasi estraneo. Poteva funzionare che il conte somigliasse in modo tanto disarmante al bel principe, o che entrambi dovessero essere identici al padre di Arabella, nonché al curato? E che a Lola venisse assegnata la parte del principe? Jackson e Pierrot davano l’idea di essere i tipici ragazzini entusiasti pronti a fare come gli si diceva. Ma la sorella avrebbe accettato la parte di un uomo? Aveva occhi verdi su un viso ossuto e guance incavate, e nella sua reticenza c’era un che di nervoso che suggeriva un carattere determinato e facile alla collera. Il semplice accenno alla possibilità di affidarle quel ruolo avrebbe potuto scatenare una crisi; del resto Briony era davvero disposta a darle la mano davanti all’altare, mentre Jackson recitava la formula solenne del rito anglicano?
Fu solo alle cinque di quel pomeriggio che Briony riuscì a radunare nella nursery tutto il cast. Aveva sistemato tre sgabelli in fila, riservando a se stessa il privilegio di strizza re il sedere su un vecchio seggiolone - tocco bohémien che le assicurava un vantaggio da arbitro tennistico: I gemelli avevano acconsentito con riluttanza ad abbandonare la piscina dove sguazzavano ormai da tre ore. Erano scalzi, e indossavano una canottiera e calzoncini da bagno che gocciolavano sul pavimento. Un rivolo d’acqua scendeva loro sul collo dai capelli arruffati; tutti e due tremavano battendo le ginocchia per riscaldarsi. La prolungata immersione aveva raggrinzito e scolorito la loro pelle tanto che, nella luce relativamente bassa della nursery, le lentiggini parevano nere. Seduta tra loro, la sorella aveva accavallato le gambe e, per contrasto, pareva molto distinta: si era generosamente profumata e aveva indossato un abito in percallina a quadretti verdi che restituiva equilibrio alla violenza dei suoi colori. I sandali rivelavano una catenina intorno alla caviglia e unghie smaltate di rosso vermiglio. La vista di quelle unghie procurò a Briony un senso di oppressione al petto, e la consapevolezza immediata che non avrebbe potuto chiedere a Lola di recitare nel ruolo del principe.
Erano tutti pronti, e l’autrice era sul punto di iniziare un breve preambolo per riassumere la trama dell’opera e ricordare ai presenti l’emozione di recitare davanti a un pubblico di adulti la sera dell’indomani, in biblioteca. Ma fu Pierrot a parlare per primo.
- Io li odio gli spettacoli e roba simile.
- Io pure, e anche i travestimenti, - disse Jackson.
A pranzo qualcuno aveva spiegato che per distinguere i gemelli bastava ricordare che a Pierrot mancava un triangolino di carne dal lobo sinistro, in seguito a un incidente con un cane che il bambino aveva tormentato all’età di tre anni.
Lola distolse lo sguardo. Briony replicò paziente: - Come si fa a odiare gli spettacoli?
- Perché è solo un mettersi in mostra -. Pierrot si strinse nelle spalle pronunciando questa verità inconfutabile.
Briony non poté dargli torto. Era precisamente la stessa ragione per cui lei amava il teatro, il suo, perlomeno; tutti l’avrebbero adorata. Osservando i ragazzini, sotto i quali si andavano raccogliendo due pozze d’acqua pronte a filtrare tra le fessure del pavimento, Briony seppe che non avrebbero mai compreso le sue ambizioni. L’indulgenza le addolcì il tono di voce.
- Secondo voi Shakespeare voleva solo mettersi in mostra?
Pierrot scambiò un’occhiata con Jackson, al di là della sorella. Quel nome guerresco, Shakespeare, aveva qualcosa di vagamente familiare, un remoto sentore di scuola e di certezze da adulti, ma i gemelli riuscivano a infondersi reciprocamente coraggio.
- Lo sanno tutti benissimo.
- Esatto.
Prendendo la parola, Lola si rivolse prima a Pierrot ma, a metà frase, ruotò su se stessa per finire rivolta a Jackson. Nella famiglia di Briony, non capitava che la signora Tallis dovesse comunicare qualcosa contemporaneamente a entrambe le figlie. Ora Briony si rendeva conto di come si procedesse in casi del genere.
- Voi due adesso recitate, se no vi tocca una sberla, e poi lo dico a Mamma e Papà.
- Se tu ci dai una sberla, noi lo diciamo a Mamma e Papà.
- Voi recitate, se no lo dico a Mamma e Papà.
Il drastico ridimensionamento della minaccia originale non parve smorzarne affatto la forza. Pierrot si mordeva il labbro.
- Ma perché siamo obbligati? - La domanda esprimeva una resa totale, e Lola cercò di scompigliare al fratello i capelli appiccicati alla fronte.
- Vi ricordate cosa hanno detto Mamma e Papà? Che siamo ospiti in questa casa e perciò dobbiamo essere... com’è già che dobbiamo essere? Avanti. Come dobbiamo essere?
- Disponibili, - replicarono in coro i gemelli affranti, incespicando appena su quella parola insolita.
Lola si rivolse a Briony e sorrise. - Per favore, raccontaci del tuo spettacolo.
Mamma e Papà. Qualunque potere istituzionale quel binomio contenesse, era sul punto di disgregarsi, se non l’aveva già fatto, ma non era ancora venuto il momento di riconoscerlo, perciò si pretendeva il massimo del coraggio anche dai più piccoli. All’improvviso Briony si vergognò di quanto aveva egoisticamente intrapreso, perché non le era nemmeno passato per la testa che i cugini potessero non aver voglia di recitare la propria parte nelle Disavventure di Arabella. Di fatto avevano già avuto le loro disavventure, la loro catastrofe personale e adesso, come ospiti in casa sua, si sentivano costretti a ubbidire. Come se non bastasse, Lola era stata chiara sul fatto che anche lei avrebbe recitato controvoglia. I vulnerabili Quincey stavano subendo una coercizione. Eppure (ma Briony faceva fatica ad afferrare la complessità del concetto), eppure, non era in atto anche una forma di manipolazione, Lola non stava forse usando i gemelli per far dire loro qualcosa in sua vece, qualcosa di ostile e di distruttivo? Briony sentì lo svantaggio di avere due anni in meno della cugina, due interi anni di esperienza che le pesavano addosso, facendo apparire la sua commedia imbarazzante e meschina.
Evitando con cura di incrociare lo sguardo di Lola, delineò l’intreccio dell’opera, la cui stupidità aveva ormai cominciato a sopraffarla. Non aveva certo più cuore di spacciarla ai cugini come il grande evento della loro prima serata insieme.
Non appena ebbe concluso, Pierrot disse: - Io voglio essere il conte. Voglio essere un cattivo. Jackson si limitò a ribattere: - Io sono un principe. Sono sempre un principe, io.
Aveva voglia di abbracciarseli e di baciare quei due faccini, ma disse solo: - Benissimo, siamo d’accordo.
Lola poggiò a terra la gamba che aveva accavallato, si lisciò il vestito e si alzò, come se stesse per andarsene. Quando parlò, lo fece dopo un sospiro di mesta rassegnazione. - Dal momento che sei l’autrice, immagino che tu farai Arabella...
- Oh no, - disse Briony. - No. Niente affatto.
Il suo no voleva dire sì. Ma certo che Arabella l’avrebbe fatta lei. L’obiezione le era uscita spontanea per quel «dal momento che». Non avrebbe fatto Arabella «dal momento che» era l’autrice, avrebbe recitato quel ruolo perché nessun’altra possibilità le aveva attraversato la mente, perché era così che Leon avrebbe dovuto vederla, perché lei era Arabella.
Ma aveva detto di no, e ora Lola replicava melliflua: - In questo caso, ti spiace se la faccio io? Secondo me potrei farla benissimo. Anzi, tra noi due...
Lasciò la frase in sospeso, e Briony la fissò, incapace di cancellare l’orrore dalla sua espressione, e incapace di proferire parola. La cosa le stava sfuggendo di mano, lo sapeva, ma non le veniva in mente nulla da dire per rimediare. Nel silenzio di Briony, Lola approfittò del vantaggio.
- Sono stata molto malata, l’anno scorso, perciò dovrei riuscire a far bene anche quella parte. In che senso, anche? Briony non riusciva a starle dietro, Lola era più grande. L’angoscia dell’inevitabile le annebbiava i pensieri.
Uno dei gemelli disse orgoglioso: - E noi abbiamo recitato nello spettacolo della scuola.
Come avrebbe potuto spiegare che Arabella non aveva le lentiggini? Che era pallidissima e aveva i capelli scuri e gli stessi pensieri di Briony? Ma come avrebbe potuto deludere una cugina tanto lontana da casa e con la famiglia a pezzi? Lola doveva averle letto nella mente, perché a quel punto giocò la sua ultima carta, l’asso nella manica.
- Ti prego, dimmi di sì. Sarebbe l’unica cosa bella che mi succede da mesi.
Sì. Incapace di forzare la lingua a pronunciare quella parola, Briony poté solo annuire, e mentre lo faceva, percepì un tetro brivido di autoannientamento e condiscendenza diffondersi sulla sua pelle e sollevarsi lento da lei come un pallone che, palpitando, oscurasse la stanza. Voleva fuggire, buttarsi da sola sul letto a faccia in giù e assaporare il dolore cocente di quel momento, e poi seguire con il pensiero il diramarsi di ogni possibile conseguenza fino al punto esatto che precedeva la devastazione. Aveva bisogno di contemplare a occhi chiusi la ricchezza di quello che aveva perso, di quello che aveva ceduto, e di prefigurarsi il nuovo stato delle cose. Non c’era solo Leon da considerare, ma che ne sarebbe stato dell’abito in raso color pesca e panna che sua madre stava cercando per lei, per le nozze di Arabella? L’avrebbe dato a Lola, adesso. Come avrebbe potuto sua madre rinnegare la figlia che l’aveva amata per tutti quegli anni? Immaginando il panneggio perfetto dell’abito intorno al corpo della cugina e prevedendo il sorriso spietato della madre, Briony seppe che l’unica scelta possibile per lei sarebbe stata la fuga, una vita all’addiaccio, a nutrirsi di bacche e a non parlare con nessuno, finché all’alba di una mattina d’inverno un boscaiolo barbuto l’avrebbe trovata rannicchiata ai piedi di un’enorme quercia, bellissima e morta, e scalza, o forse con ai piedi le scarpette da ballo, quelle coi lacci di fettuccia rosa...
Il suo vittimismo esigeva la massima attenzione, e soltanto in solitudine sarebbe riuscita a respirare lo strazio di ogni dettaglio dell’esistenza, ma nell’istante del suo cenno di assenso - strano come l’oscillazione di un cranio possa cambiare un’intera vita! - Lola aveva afferrato da terra il fascio di fogli del suo manoscritto e i gemelli erano scivolati giù dalle sedie per seguire la sorella nello spazio centrale della nursery che Briony aveva sgombrato il giorno prima.
Come poteva andarsene adesso? Lola misurava a passi la stanza, una mano alla fronte, bisbigliando rapidamente le prime righe del prologo. Annunciò che tanto valeva incominciare subito dal principio, e procedette ad affidare ai fratelli le parti dei genitori di Arabella e a ragguagliarli sull’inizio dell’opera, dando l’impressione di sapere tutto quel che c’era da sapere sulla scena in questione. L’avanzata del suo dominio era implacabile al punto da rendere irrilevante ogni forma di vittimismo. E se invece avesse accresciuto il piacere del suo annientamento? Briony infatti non era neppure stata scritturata come madre di Arabella, perciò quello era di sicuro il momento per allontanarsi furtivamente dalla stanza e buttarsi a faccia in giù nel buio del proprio letto. Ma a darle la forza di resistere fu la disinvoltura di Lola, la sua assoluta dimenticanza di tutto il resto, insieme alla certezza di Briony che i suoi sentimenti erano irrilevanti e, soprattutto, non avrebbero fatto sentire in colpa nessuno.
Avendo condotto fino a quel punto un’esistenza gradevole e ben protetta, non le era mai capitato di confrontarsi davvero con un altro. Ora però le toccava: era come tuffarsi in piscina all’inizio di giugno; dovevi semplicemente costringerti a farlo. Mentre si strizzava fuori dal seggiolone e raggiungeva la cugina, il cuore le batteva troppo forte e le mancava un po’ il respiro.
Le prese il manoscritto e, con una voce più contratta e acuta del solito, disse: - Se tu fai Arabella, allora io faccio il regista, grazie, e il prologo lo leggo io.
Lola si portò la mano lentigginosa alla bocca: - Scuuusa! - esclamò. - Volevo solo provare a incominciare.
Briony non sapeva bene come replicare, perciò si rivolse a Pierrot e disse: - Tu non mi sembri tanto la madre di Arabella.
La revoca delle decisioni di Lola riguardo ai ruoli, e la risata che ne scaturì, resero possibile uno spostamento negli equilibri di potere. Lola ostentò eccessiva indifferenza in una scrollata delle sue spalle ossute e se ne andò a fissare fuori dalla finestra. Forse anche lei lottava con la tentazione di abbandonare la stanza.
Benché i gemelli incominciassero ad azzuffarsi e la loro sorella temesse l’assalto di un’emicrania, in qualche modo le prove ebbero inizio. Briony lesse il prologo in un silenzio teso.
Ecco la storia di Arabella, fanciulla d’animo sincero Che un brutto giorno se ne fuggì di casa con un forestiero. Affranti padre e madre videro la figliola Partire e andarsene per il mondo sola E svaporare diretta verso il mare Senza consenso ne promessa di tornare...
Con la moglie al fianco, il padre di Arabella stava ai cancelli in ferro battuto della proprietà di famiglia, dapprima implorando la figlia di riconsiderare la propria decisione, e poi ordinandole disperato di non andare. Di fronte a lui, la mesta quanto ostinata eroina accanto al conte, mentre i loro cavalli, legati a una quercia vicina, nitrivano battendo gli zoccoli a terra, impazienti. L’affetto profondo e ferito del padre avrebbe dovuto fargli tremare la voce, mentre diceva: Tesoro mio, tu sei giovane e bella, Ma non conosci la vita, e se anche credi Di poter avere il mondo ai tuoi piedi Può sopraffarti, non te lo scordare.
Briony sistemò sulla scena gli attori; si piazzò al braccio di Jackson, mentre Lola e Pierrot stavano un paio di metri più in là, mano nella mano. Non appena gli sguardi dei gemelli si incrociarono, i due bambini furono colti da una crisi di ilarità che le ragazze tentarono di zittire. C’erano già stati abbastanza guai, e Briony incominciò a capire l’abisso che separa un’idea dalla sua realizzazione quando Jackson prese a leggere il foglio che aveva davanti con voce incerta e monotona, come se ogni parola fosse un nome di un elenco di caduti, e si dimostrò incapace di pronunciare il termine «sopraffarti», che pure gli venne ripetuto più e più volte, oltre a saltare piccole cose qua e là. Quanto a Lola, recitò la sua parte senza errori ma distrattamente, inserendo ogni tanto dei sorrisi del tutto fuori luogo, frutto di chissà quali pensieri suoi, decisa a dimostrare che la sua attenzione di persona ormai quasi adulta in effetti era altrove.
E così proseguirono, i cugini venuti dal nord, per una buona mezz’ora, a fare sistematicamente a pezzi la creazione di Briony. Ecco perché l’arrivo della sua sorella maggiore, che veniva a prelevare i gemelli per il bagno, fu accolto come una liberazione.
Capitolo terzo
Secondo la locandina appesa nell’ingresso, la prima delle disavventure di Arabella sarebbe andata in scena appena un giorno dopo le prove. Tuttavia, non fu semplice per l’autrice-regista recuperare il tempo necessario a svolgere un lavoro produttivo. Come già era avvenuto il pomeriggio precedente, il problema consisteva nel riuscire a radunare il cast.
Nella notte Jackson, il severo padre di Arabella, aveva bagnato il letto, come e normale che accada a un bambino turbato e perdipiù lontano da casa, e perciò fu costretto in base alla vigente teoria educativa a portare di sotto in lavanderia lenzuola e pigiama e a lavarseli personalmente, a mano, sotto lo sguardo vigile di Betty a cui era stato ordinato di mantenersi fredda e irremovibile. La cosa non venne presentata al ragazzo come un castigo; l’idea era piuttosto quella di educare il suo inconscio a ricordare che cedimenti futuri avrebbero comportato altro imbarazzo e fatica. Ma non era facile non sentirsi rimproverati standosene di fronte a un immenso acquaio di pietra che ti arriva fino al petto, con la saponata che ti sale sulle braccia nude e inzuppa le maniche arrotolate della camicia, mentre le lenzuola fradice si fanno pesanti come un cane morto e l’atmosfera di disastro cosmico che ti circonda paralizza la tua volontà. Briony scendeva a intervalli regolari per controllare l’andamento dei lavori.
Le era stato proibito di aiutare Jackson, che ovviamente non aveva mai fatto un bucato in vita sua; i due successivi lavaggi, gli innumerevoli risciacqui e la vigorosa strizzatura a due mani con il mangano, insieme al tremebondo quarto d’ora passato dopo al tavolo di cucina davanti a pane e burro e un bicchier d’acqua, sottrassero alle prove un buon paio d’ore.
Quando Hardman rientrò dalla calura del mattino per bersi la sua pinta di birra, Betty gli raccontò che le pareva già abbastanza dover preparare una cena a base di arrosto con quella temperatura, e che personalmente reputava eccessivo il trattamento riservato al ragazzo; lei avrebbe risolto la faccenda con quattro sonori sculaccioni, ma le lenzuola non gliele avrebbe fatte lavare. E questo avrebbe trovato perfettamente d’accordo anche Briony, che si vedeva sfuggire di mano la mattinata. Quando sua madre scese per controllare di persona che il compito fosse stato svolto, fu inevitabile che una sensazione di generale sollievo calasse su tutti i presenti, e che, nella mente della signora Tallis, si affacciasse anche un rimosso senso di colpa, così, quando Jackson domandò a mezza voce per favore il permesso di andare a nuotare in piscina con il fratello, il suo desiderio venne immediatamente esaudito e le obiezioni di Briony liquidate senza riserve, come se fosse stata lei a imporre faticosi tormenti a un piccolo individuo indifeso.
Perciò andarono tutti a nuotare, e poi dovettero pranzare.
Le prove erano proseguite anche senza Jackson, ma era insidioso non perfezionare la fondamentale scena d’avvio, quella del congedo di Arabella, e Pierrot si rivelò troppo nervoso per il destino del fratello, relegato laggiù nelle viscere della casa, per dare proprio il meglio di se nella parte di un vile conte forestiero; tutto ciò che succedeva a Jackson riguardava da vicino anche il futuro di Pierrot, che fece innumerevoli visite al bagno in fondo al corridoio.
Quando Briony rientrò da una delle sue puntate in lavanderia, lui le chiese: - Lo hanno picchiato?
- Non ancora.
Come suo fratello, Pierrot aveva un vero talento per sottrarre significato alle battute che doveva recitare. Più che altro intonava una sorta di appello, un elenco di parole: - Credi-forse-di-poter-sfuggire-alle-mie-grinfie -. Non mancava nulla, era tutto corretto.
- È una domanda, - lo interruppe Briony. - Non lo capisci? La voce sale alla fine.
In che senso? - Ecco. L’hai appena fatto. Si parte da giù e poi si sale. È una domanda.
Il bambino trangugiò, prese fiato e fece un secondo tentativo, modulando ora il solito appello su una scala cromatica ascendente.
- Alla fine. La voce sale alla fine.
Ed ecco di nuovo l’elenco monotono di prima concluso da un mutamento di registro, una specie di jodeln, sulla sillaba finale.
Quella mattina Lola si era presentata nella nursery nei panni dell’adulta che in cuor suo era convinta di essere. Indossava un paio di calzoni pieghettati in flanella che le si gonfiavano sui fianchi e svolazzavano intorno alle caviglie, e una maglia di cachemire a maniche corte. Tra gli altri emblemi di maturità si registravano un girocollo in velluto e perline, le trecce rosse raccolte alla nuca con un fermaglio color smeraldo, tre braccialetti d’argento intorno al polso lentigginoso, e il fatto che a ogni suo movimento l’aria tutto intorno profumava di acqua di rose. Dominando completamente il proprio sussiego, lo rendeva ancor più efficace. Ostentava una fredda obbedienza ai suggerimenti di Briony, recitava le sue battute, che pareva aver mandato a memoria durante la notte, con cortese rassegnazione, e si mostrava dolcemente incoraggiante nei riguardi del fratellino senza per questo sostituirsi mai all’autorità del regista. Era come se Cecilia, per non dire la loro madre, avesse acconsentito a passare del tempo con i bambini accettando un ruolo nello spettacolo, decisa a non tradire mai la più piccola ombra di noia. Una sola cosa mancava: un po’ di concitato entusiasmo infantile.
Quando Briony aveva mostrato ai cugini la biglietteria e la cassa dei soldi la sera prima, i gemelli avevano subito litigato per accaparrarsi le parti più prestigiose; Lola invece aveva incrociato le braccia ed espresso le proprie pacate congratulazioni da adulta, attraverso un mezzo sorriso dal quale non traspariva traccia di ironia.
- Magnifico. Ma che trovata geniale, Briony. Hai davvero fatto tutto quanto da sola?
Briony sospettava che dietro alle maniere ineccepibili della cugina si nascondesse un intento devastatore. Forse Lola contava sui gemelli per far naufragare lo spettacolo in modo innocente e le bastava perciò farsi da parte e stare a guardare.
Tali sospetti non dimostrabili, uniti a Jackson relegato in lavanderia, Pierrot che recitava come un cane e il caldo atroce della mattina, avvilirono Briony. La innervosì anche notare che Danny Hardman li guardava dalla porta. Dovette chiedergli espressamente di andarsene. Non riuscì a penetrare l’indifferenza di Lola e nemmeno a ottenere da Pierrot la normale inflessione della lingua di tutti i giorni. Che sollievo, dunque, ritrovarsi all’improvviso sola nella nursery. Lola aveva annunciato di doversi rifare i capelli e suo fratello si era allontanato nel corridoio, diretto al bagno, o chissà dove.
Briony sedette a terra con la schiena appoggiata a uno degli armadi a muro dei giocattoli e si fece aria con le pagine della commedia. Il silenzio in casa era assoluto: non una voce, un rumore di passi, uno sgocciolio dentro le tubazioni; una mosca imprigionata tra i vetri di una finestra a ghigliottina aperta aveva abbandonato la propria battaglia, e fuori il liquido canto degli uccelli era evaporato nella calura. Allungò le gambe davanti a sé e si concentrò sulle pieghe del vestito di mussola bianca e sulle sue amate grinze di pelle intorno alle ginocchia. Doveva cambiarsi d’abito quella mattina. Pensò che avrebbe dovuto badare di più al proprio aspetto, come Lola. Non farlo era da bambini. Che fatica, però. Il silenzio le fischiava nelle orecchie e la vista le si alterò un poco: si vedeva le mani in grembo insolitamente grandi e al tempo stesso distanti, come se le guardasse da molto lontano. Alzò una mano flettendo le dita e si chiese, come già le era capitato di fare altre volte, come fosse entrata in possesso di quella cosa, quella specie di morsa, di ragno carnoso al suo completo servizio. Che avesse un barlume di vita propria? Piegò un dito e tornò a distenderlo. Il mistero era sigillato nell’attimo prima del movimento, l’istante che separava la quiete dal moto, quando l’intenzione raggiungeva il suo effetto. Era come il frangersi di un’onda. Se fosse riuscita a tenersi sulla cresta, pensava, non era escluso che avrebbe scoperto il proprio segreto, quella parte di se responsabile del fenomeno. Si portò l’indice vicino alla faccia e prese a fissarlo, ordinandogli di muoversi. Il dito restava fermo, perché lei stava solo fingendo, non faceva sul serio, e perché volerlo muovere, o essere sul punto di muoverlo, non era la stessa cosa che muoverlo per davvero. E quando alla fine lo piegò, il gesto parve partire dal dito stesso, non da un punto ignoto della sua mente. Quando sapeva di doversi muovere? Quand’era che lei lo muoveva? Era impossibile cogliersi di sorpresa. Esistevano soltanto il prima e il dopo. Non c’erano segni di cuciture, linee di giunzione, eppure sapeva che al di là del tessuto liscio che la foderava si trovava la vera se stessa - la sua anima forse? - alla quale spettava la decisione di smettere di fingere, per dare l’ordine definitivo.
Quei pensieri le risultavano familiari e rassicuranti quanto la precisa configurazione delle sue ginocchia con la loro perfetta ma opposta, reversibile simmetria. Un secondo pensiero faceva immancabilmente seguito al primo, ogni mistero generava mistero; chissà se anche gli altri erano vivi quanto lo era lei. Per esempio, sua sorella era altrettanto importante per se stessa, si giudicava altrettanto preziosa? Essere Cecilia era un’esperienza forte quanto essere Briony? Anche sua sorella possedeva una vera se stessa nascosta sotto la cresta di un’onda, e passava del tempo a pensarci, tenendosi un dito davanti alla faccia? Era così per tutti gli altri, compresi suo padre, Betty, Hardman? Se la risposta era sì, allora il mondo, la società doveva essere complicata in modo insostenibile, con i suoi due miliardi di voci, e coi pensieri di tutti allo stesso livello e le pretese di una vita altrettanto intensa da parte di tutti, e con l’unanime convinzione di essere unici, quando nessuno lo era. Uno poteva annegare in tanta irrilevanza. Ma se la risposta era no, allora Briony si ritrovava circondata da macchine, intelligenti e gradevoli a vedersi, ma prive del genio intimo che lei si sentiva dentro. L’idea era lugubre e malinconica, oltre che improbabile. Perché, sebbene la cosa offendesse il suo senso dell’ordine, doveva ammettere che c’erano enormi probabilità che anche tutti gli altri avessero pensieri simili ai suoi. Lo sapeva, ma solo in termini di sterile teoria; non lo sentiva davvero.
Anche le prove offendevano il suo senso dell’ordine. Il mondo conchiuso che aveva disegnato con la chiarezza di parole perfette era stato snaturato dagli scarabocchi di altre menti, di altri bisogni; e perfino il tempo, così facile da segmentare sulla pagina in atti e in scene, nella realtà gocciolava via a poco a poco in modo incontrollabile. Forse non sarebbe riuscita a recuperare Jackson fin dopo pranzo. Leon e il suo amico arrivavano nel tardo pomeriggio, se non prima, e lo spettacolo era previsto per le sette. E tuttora non si erano fatte prove decenti, e i gemelli non sapevano recitare, e nemmeno parlare, e Lola le aveva rubato il ruolo che spettava a lei di diritto, e non c’era niente da fare, e faceva caldo, un caldo infernale. La ragazza si strinse nel proprio avvilimento e si alzò. La polvere accanto allo zoccolo le aveva sporcato le mani e il vestito. Senza pensarci, Briony si pulì nella gonna dell’abito, avviandosi verso la finestra. Il modo più semplice per fare colpo su Leon sarebbe stato quello di scrivergli un racconto e consegnarglielo personalmente, per poi restare a guardare mentre lui lo leggeva. Il titolo a grandi lettere, la copertina illustrata, le pagine rilegate - bastò quella parola a farle sentire il fascino della forma precisa e ben controllata a cui aveva deciso di rinunciare quando si era messa a scrivere un dramma. Un racconto era diretto e semplice, non ammetteva alcuna intrusione tra lei e il lettore - nessun intermediario con le proprie personali ambizioni e incompetenze, nessuna urgenza di tempo, nessun limite alle risorse disponibili. In un racconto bastava desiderare, e poi mettere per iscritto il desiderio, e potevi crearti un mondo; in un dramma invece ti toccava fare con quello che avevi a disposizione: niente cavalli, niente strade di un villaggio, niente mare. Niente sipario. Sembrava talmente ovvio, adesso che era troppo tardi: il racconto era una sorta di telepatia. Attraverso la trascrizione di segni sulla pagina, lei era in grado di trasferire pensieri e sentimenti dalla sua mente a quella del lettore. Era un processo magico, tanto comune che nessuno si soffermava a rifletterci. Leggere una frase coincideva con il comprenderla; come nel caso del gesto di piegare un dito, tra il prima e il dopo non c’era nulla. Non esisteva intervallo che precedesse la comprensione dei segni.
Vedevi la parola castello, ed eccolo là, in lontananza, circondato da frondosi boschi estivi, immerso nell’aria dolce e azzurrina tagliata dal filo di fumo che sale dalla bottega del fabbro, con una strada di ciottoli che sparisce serpeggiando nell’ombra verde.
Era arrivata a una delle finestre spalancate della nursery e doveva aver osservato quanto le stava di fronte per qualche secondo prima di registrarlo. Lo scenario si sarebbe adattato perfettamente, almeno di lontano, a quello di un castello medievale. A qualche miglio dalla proprietà Tallis si innalzavano le Surrey Hills con il loro affollamento immobile di querce fitte, un verde cupo addolcito dalla lattiginosa foschia di calore. Più vicino, nel vasto parco della proprietà, quel giorno arido e incolto, bruciato come una savana, si ergevano piante isolate che disegnavano ombre corte e inospitali sull’erba alta inseguita dal giallo leonino dell’estate piena.
Ancora più in qua, dentro i confini di cinta, si stendevano i vari roseti e infine, ecco la fontana del Tritone accanto alla cui vasca di pietra stavano sua sorella e, di fronte a lei, Robbie Turner. C’era un che di formale nella postura di lui, gambe divaricate, capo all’indietro. Una proposta di matrimonio. Briony non si sarebbe sorpresa. Lei stessa aveva scritto un racconto in cui un umile taglialegna salvava una principessa dall’annegamento e finiva poi per sposarsela. La vicenda che si presentava alla sua mente era più che plausibile. Robbie Turner, unico figlio di una modesta donna delle pulizie e di padre ignoto, Robbie che, mantenuto agli studi universitari dal padre di Briony, aveva scelto in un primo momento di diventare architetto di giardini, ma che adesso voleva intraprendere la carriera medica, aveva avuto la sfrontatezza ambiziosa di chiedere la mano di Cecilia. Non faceva una grinza. Simili trasgressioni dei limiti erano la stoffa di cui sono fatti i romanzi di tutti i giorni.
Meno comprensibile era invece la ragione per cui adesso Robbie alzava imperiosamente una mano, come a impartire un comando al quale Cecilia non osò disubbidire. Incredibile che non sapesse opporsi. Al suo ordine si stava infatti togliendo i vestiti, e con che velocità. Si era già sfilata la camicetta, ora lasciava cadere a terra la gonna e la scavalcava, mentre lui la osservava con impazienza, le mani sui fianchi.
Che strano potere esercitava su di lei. Ricatti? Minacce? Briony si portò le mani al viso e si ritrasse un poco dalla finestra. Avrebbe dovuto chiudere gli occhi, pensò, e risparmiarsi lo spettacolo della vergogna di sua sorella. Ma fu impossibile, perché le sorprese non erano ancora finite. Cecilia, per fortuna con addosso ancora la biancheria intima, entrava nella vasca e restava lì con l’acqua che le arrivava alla vita; poi si tappò il naso e sparì. Rimanevano soltanto Robbie, i vestiti sopra la ghiaia e, più in là, il silenzio del parco e in lontananza le colline azzurre.
La sequenza era illogica: la scena dell’annegamento, seguita dal salvataggio, avrebbe dovuto precedere la proposta di matrimonio. Questo fu l’ultimo pensiero che attraversò la mente di Briony, prima di ammettere che non capiva e doveva perciò limitarsi a guardare. Due piani più in alto, non vista e forte del vantaggio di una luce solare che non ammetteva dubbi, ebbe il privilegio di viaggiare avanti nel tempo verso il comportamento adulto, verso riti e convenzioni di cui era ancora del tutto all’oscuro. Evidentemente, erano situazioni di quel tipo che si verificavano. Nel preciso istante in cui la testa della sorella riaffiorò in superficie - grazie a Dio! - Briony ebbe la prima vaga premonizione che per lei non ci sarebbero più stati castelli da favola ne principesse, ma solo l’imperscrutabilità del presente, di quanto passava tra due individui, tra due persone qualsiasi che lei conosceva, del grande potere che uno era in grado di esercitare sull’altro, e di quanto fosse facile fraintendere tutto, ogni cosa.
Cecilia stava uscendo dalla fontana e si sistemava la gonna, infilandosi a fatica la camicetta sulla pelle ancora bagnata. Si voltò di scatto e raccolse dall’ombra scura della parete della vasca un vaso di fiori che Briony non aveva notato prima, poi si avviò spedita verso casa. Non una parola tra lei e Robbie, non uno sguardo diretto a lui. Che intanto fissava l’acqua della fontana e infine si allontanava a sua volta, soddisfatto senz’altro, e svoltava dietro l’edificio. All’improvviso la scena rimase vuota; la pozza bagnata là dove Cecilia era uscita grondante dalla vasca era l’unica prova che qualcosa fosse successo davvero.
Briony si appoggiò contro la parete e fissò imbambolata il pavimento della nursery. Era forte in lei la tentazione di sentirsi al centro di una magia, di un’azione drammatica, e di considerare la scena alla quale aveva assistito come se fosse stata allestita a suo beneficio esclusivo, con il doveroso messaggio morale avvolto dentro un mistero. Ma sapeva benissimo che se non si fosse trovata in quel luogo in quel momento, la scena sarebbe accaduta lo stesso, perché in realtà non la riguardava affatto. Soltanto il caso l’aveva portata a mettersi alla finestra. Quella non era una fiaba, era la vita vera, il mondo adulto, nel quale le rane non parlano alle principesse, e gli unici a scambiarsi messaggi sono gli esseri umani. Altra tentazione fu quella di precipitarsi in camera di Cecilia ed esigere una spiegazione. Ma Briony resistette, perché voleva inseguire in solitudine il brivido sottile della possibilità che aveva percepito prima, la fuggevole eccitazione nel riuscire a vedere con chiarezza una certa prospettiva, almeno sul piano emotivo. La chiarezza sarebbe cresciuta nel corso degli anni. Alla fine Briony sarebbe stata costretta ad ammettere di attribuire forse alla tredicenne di allora un’eccessiva consapevolezza. A quell’età magari non aveva ancora le parole esatte per dirlo; non era anzi escluso che tutto si risolvesse soltanto in una sorta di smania di rimettersi a scrivere.
Mentre restava nella nursery in attesa che i cugini tornassero, sentiva che avrebbe potuto narrare una scena come quella della fontana inserendovi anche il personaggio dell’osservatore nascosto, vale a dire il suo. Riusciva a vedere se stessa nell’atto di precipitarsi subito in camera, davanti a un blocco intatto di carta a righe e con in mano la penna stilografica di bachelite marmorizzata. Riusciva a immaginare le frasi, l’accumularsi di segni telepatici che andavano srotolandosi all’estremità del pennino. Poteva riscrivere la stessa scena tre volte, da altrettanti punti di vista diversi; l’eccitazione le proveniva dalla prospettiva della libertà, dall’essere esonerata dal dover risolvere l’imbarazzante conflitto tra bene e male, tra eroi e antieroi. Nessuno dei tre personaggi era malvagio, e nemmeno particolarmente virtuoso. Non c’era bisogno di giudicarli. Non occorreva che ci fosse una morale. Le era sufficiente mostrare menti diverse al lavoro, menti non meno vive della sua e in lotta con l’idea della presenza di altri cervelli pensanti. Soltanto una storia permetteva di entrare in più di una testa e dimostrare come ciascuna avesse eguale valore.
Ecco l’unica morale di cui un racconto aveva bisogno. Sei decenni più tardi avrebbe spiegato di quando a tredici anni aveva trovato la propria strada attraversando l’intera storia della letteratura, partendo da fiabe che affondavano le proprie radici nel folklore popolare europeo, per passare all’azione drammatica dal semplice intento morale, e infine approdare a un imparziale realismo psicologico scoperto tutto da sola, in una mattina molto speciale durante l’ondata di caldo del 1935. Ben consapevole del grado di mitizzazione di se, pronunciò quel discorso in tono autoironico, o scherzosamente eroico. I suoi libri erano noti per la loro amoralità, e come ogni autore tormentato da una domanda insistente, si sentì in dovere di fornire una spiegazione narrativa del fenomeno, una trama del proprio sviluppo che contenesse il momento in cui era diventata se stessa una volta per tutte. Sapeva che non era corretto riferirsi ai propri drammi al plurale, che quel tono di scherno la separava dalla bambina seria e pensosa di un tempo e che l’oggetto della sua commemorazione non era tanto quella mattina remota quanto le successive elaborazioni dell’episodio. Era possibile che la contemplazione di un dito piegato, l’idea intollerabile di altre menti pensanti e la superiorità dei racconti sui drammi fossero considerazioni fatte da lei in altri momenti. Sapeva inoltre che qualunque cosa fosse in effetti accaduta traeva significato dalla pubblicazione della sua opera, senza la quale sarebbe stata dimenticata. Comunque, non poteva ingannarsi del tutto; non c’era dubbio che una forma di rivelazione si fosse comunque verificata. Quando la ragazzina tornò alla finestra e guardò di sotto, la chiazza umida sulla ghiaia era evaporata. Non rimaneva più nulla della scena muta presso la fontana a parte il ricordo che sarebbe sopravvissuto nelle singole memorie, in tre ricordi sovrapposti e distinti. La verità era diventata non meno fantomatica di un’invenzione. Poteva iniziare subito, metterla giù come l’aveva vista, accogliendo la sfida di rifiutarsi di condannare la seminudità di sua sorella, in pieno giorno, e proprio davanti a casa. Poi la scena poteva essere riformulata, attraverso lo sguardo di Cecilia, e infine quello di Robbie. Ora però non era tempo di incominciare.
Il senso del dovere di Briony, unito alla sua passione per l’ordine, era potente; doveva concludere quanto aveva iniziato, erano in corso delle prove, Leon stava per arrivare, e tutta la famiglia si aspettava lo spettacolo per quella sera. Le toccava andare ancora una volta giù in lavanderia a controllare se i tormenti di Jackson avevano trovato fine. La scrittura avrebbe dovuto aspettare che lei fosse libera.
Capitolo quarto
Fu solo nel tardo pomeriggio che Cecilia giudicò riparato il vaso. L’aveva lasciato a cuocere per ore in biblioteca, su un tavolo davanti a una finestra esposta a meridione, e adesso tre sottilissime linee di sutura, convergenti come altrettanti fiumi su un atlante, erano tutto ciò che mostrava.
Non l’avrebbe mai scoperto nessuno. Mentre attraversava la biblioteca stringendo il vaso con entrambe le mani, udì un rumore che le parve di piedi nudi sulle piastrelle del corridoio antistante la porta. Avendo trascorso parecchie ore sforzandosi di non pensare a Robbie Turner, le sembrò oltraggioso che lui osasse ripresentarsi in casa, di nuovo scalzo per giunta. Uscì dalla stanza, decisa a mortificare la sua insolenza, o il suo sarcasmo, e si ritrovò invece di fronte la sorella, chiaramente disperata. Aveva le palpebre gonfie e arrossate, e si torturava il labbro inferiore tra pollice e indice, antico segnale, nel caso di Briony, di un grosso pianto in arrivo.
- Tesoro! Che c’è?
Invece gli occhi rimasero asciutti e si abbassarono impercettibilmente per posarsi sul vaso, poi Briony procedette spedita verso il cavalletto che sosteneva la locandina con il titolo chiassoso e colorato, circondato da una scena del dramma dipinta ad acquerello alla Chagall - i genitori in lacrime che salutano con la mano la loro figliola, la costa sotto il chiarore lunare, l’eroina costretta a letto dalla malattia, il matrimonio. La ragazza si fermò, poi con un violento strattone diagonale strappò via più di metà locandina e la gettò a terra. Cecilia depose il vaso e si buttò in ginocchio a recuperare il brandello di carta prima che la sorella lo calpestasse. Non sarebbe stata la prima volta che interveniva a salvare Briony dal suo autolesionismo.
- Sorellina. Sono stati i cugini?
Voleva consolarla; Cecilia aveva sempre amato coccolare la piccola di famiglia. Quando era piccina e aveva gli incubi - che grida terribili nella notte -, Cecilia andava in camera sua e la svegliava. Torna indietro, le bisbigliava. È solo un brutto sogno. Torna da me. E poi se la portava nel letto. Avrebbe voluto metterle un braccio intorno alla spalla adesso, ma Briony non si tormentava più il labbro; si era spostata davanti alla porta d’ingresso e aveva una mano appoggiata sulla maniglia della gran testa di leone in ottone che la signora Turner aveva lucidato proprio quel pomeriggio.
- I cugini sono degli stupidi. Ma non e solo quello. E che... - Si trascinò ancora di qualche passo, incerta se confidare o meno la sua recente rivelazione.
Cecilia distese il triangolo spiegazzato di carta e pensò quanto stesse cambiando la sua sorellina. Avrebbe preferito che Briony fosse scoppiata in lacrime e si fosse lasciata consolare sull’ottomana di seta in salotto. Carezze e parole dolci avrebbero dato sollievo anche a Cecilia dopo quella giornata snervante con le sue correnti incrociate di emozioni contrastanti che era meglio non analizzare. Occuparsi dei problemi di Briony con affettuosità e tenerezza le avrebbe restituito una forma di autocontrollo. Ma l’infelicità della ragazzina conteneva un elemento nuovo di autonomia. Le aveva infatti voltato le spalle e ora stava spalancando la porta.
- Allora, cos’è? - Cecilia percepì l’urgenza tradita dalla sua voce.
Al di là della sorella, ben oltre il lago, il viottolo svoltava nel parco e si restringeva per convergere sopra un’altura fino al punto in cui una minuscola forma, resa indistinta dal tremolio della canicola, andava crescendo, ondeggiava e pareva svanire di nuovo. Doveva essere Hardman che, ritenendosi troppo vecchio per imparare a guidare l’automobile, portava gli ospiti a casa in calesse.
Briony cambiò idea e si voltò verso la sorella. - È proprio la cosa in sé che non va. Ho fatto un errore di... - Emise un sospiro e distolse lo sguardo, segnale sicuro, intuì Cecilia, che un nuovo vocabolo fresco di dizionario stava per fare il proprio debutto nella conversazione. - Ho fatto un errore di genre! - Lo pronunciò secondo quella che ritenne potesse essere la corretta pronuncia francese, condensandolo in un monosillabo, senza riuscire tuttavia a prodursi in una buona erre di gola.
- Di Jean? - le fece eco Cecilia. - Ma di che parli?
Briony già si allontanava sulle morbide piante bianche dei piedi sfidando la ghiaia feroce.
Cecilia andò in cucina a riempire il vaso, e lo portò in camera sua per recuperare i fiori dal lavamani. Quando li lasciò cadere nell’acqua ancora una volta si rifiutarono di disporsi nello studiato disordine di suo gradimento, per andare invece a cercare un loro posto preciso, con tutti gli steli più alti equamente distribuiti intorno al bordo del vaso. Cecilia sollevò il mazzo intero e lo lasciò cadere di nuovo, solo per ottenere un’altra composizione ordinata. Del resto, che importanza aveva. Era difficile immaginare questo signor Marshall nell’atto di lamentarsi perché i fiori accanto al letto erano sistemati in modo eccessivamente simmetrico. Cecilia si trasferì al secondo piano, percorse il corridoio scricchiolante, e raggiunse la stanza nota come camera della zia Venus; qui depose il vaso sul cassettone accanto a un letto a baldacchino, portando così a termine il piccolo compito affidatole da sua madre quella mattina, otto ore prima.
Ma non se ne andò subito, perché la stanza era piacevolmente sgombra da ogni genere di effetto personale; anzi, escludendo quella di Briony, era l’unica camera da letto ordinata di tutta la casa. E poi faceva fresco qui, ora che il sole era passato sull’altro lato della villa. Ogni cassetto era vuoto, ogni ripiano libero e intatto, senza neppure il segno di una ditata. Sotto il copriletto di chintz, le lenzuola dovevano essere inamidate e bianchissime. Cecilia ebbe l’impulso di infilare una mano tra le coperte, ma cambiò idea e si addentrò ancora un poco nella camera del signor Marshall. Ai piedi del baldacchino, il sedile del divano Chippendale era sistemato con tanta cura che l’atto di utilizzarlo sarebbe parso sacrilego. L’aria era invasa da un diffuso aroma di cera e, nella luce color miele, le superfici scintillanti dei mobili sembravano palpitare. Per effetto dell’alterazione di prospettiva prodotta dal suo avvicinarsi, le figurette di gente in festa sul coperchio di una cassapanca antica presero a dimenarsi a passo di danza. La signora Turner doveva essere stata li quel mattino. Cecilia distolse il pensiero dal ricordo di Robbie.
La sua presenza in quel luogo era una forma di trasgressione, ora che il futuro ospite della stanza si trovava a poche centinaia di metri dalla casa. Dal punto in cui era arrivata accanto alla finestra vide che Briony aveva attraversato il ponte in direzione dell’isola e avanzava sulla sponda erbosa per poi sparire tra gli alberi sul la riva del lago intorno al tempietto. Più in là, Cecilia riusciva solo a distinguere le due figure con il cappello, sedute alle spalle di Hardman. Poi però scorse una terza figura che non aveva notato prima: avanzava sul viottolo verso il calesse. Di sicuro era Robbie Turner diretto a casa. Si fermò, e mentre i visitatori si avvicinavano, il suo profilo parve sovrapporsi parzialmente al loro. Non era difficile immaginare la scena: virili pacche sulle spalle, qualche battuta forte. Le seccava pensare che suo fratello non sapesse che Robbie era caduto in disgrazia e se ne andò dalla finestra con un sospiro di esasperazione, dirigendosi in camera sua in cerca di una sigaretta.
Gliene era rimasto soltanto un pacchetto, e solo dopo parecchi minuti di una rassegna frenetica in mezzo al caos, lo recuperò in una tasca della vestaglia di seta azzurra abbandonata sul pavimento del bagno. Accese la sigaretta mentre scendeva le scale diretta nell’atrio, sapendo che non avrebbe osato tanto se il padre fosse stato in casa. Aveva idee molto precise su dove e quando una donna potesse farsi vedere fumare: non in strada né in qualsiasi luogo pubblico, non entrando in una stanza, non in piedi, e solo accettando l’offerta di altri, mai attingendo a una scorta personale - regole indiscutibili dal suo punto di vista quanto le leggi della natura.
Tre anni in compagnia dei tipi sofisticati del Girton College non avevano procurato a Cecilia il coraggio necessario a tenergli testa. In presenza di lui, la leggiadra ironia che avrebbe saputo sfoderare coi suoi amici l’abbandonava, e Cecilia sentiva la propria voce farsi sottile ogni volta che si lanciava in un docile tentativo di replica. A essere sinceri, trovarsi in disaccordo con il padre su qualsiasi cosa, compreso un insignificante dettaglio domestico, la metteva a disagio, e per quanto lo studio dei grandi classici della letteratura potesse aver modificato la sua sensibilità, non c’era lezione di dialettica applicata in grado di esonerarla dall’obbedienza. Fumare sulle scale mentre il padre se ne stava tranquillo nel proprio ufficio ministeriale di Whitehall era il massimo della protesta che la sua educazione le permettesse, e non senza fatica.
Quando raggiunse il vasto pianerottolo che dominava l’atrio, Leon stava facendo accomodare in casa Paul Marshall attraverso l’uscio spalancato. Danny Hardman era dietro di loro con il bagaglio. Il vecchio Hardman era rimasto fuori e lo si scorgeva nell’atto di contemplare ammutolito il biglietto da cinque sterline che aveva in mano. La luce obliqua del pomeriggio, riflessa dal biancore della ghiaia e filtrata dalla lunetta sovrastante la porta, invadeva il salone d’ingresso con toni giallo-aranciati da stampa a inchiostro di seppia. Gli uomini si erano tolti il cappello e l’aspettavano sorridendo. Cecilia si domandò, come talora le capitava incontrando qualcuno per la prima volta, se quello poteva essere l’uomo che avrebbe sposato, e se avrebbe quindi ricordato quel particolare momento per il resto della vita, magari con gratitudine, o con amaro rimpianto.
- Sorellina, Cecilia! - esclamò Leon. Quando si abbracciarono, attraverso la stoffa della giacca di lui Cecilia sentì premerle contro lo sterno una grossa penna stilografica, e riconobbe tra le pieghe degli abiti un odore di fumo di pipa che le procurò un attimo di nostalgia per i pomeriggi passati a prendere il te nelle stanze dei giovanotti del college, occasioni piuttosto formali e all’insegna della prudenza in realtà, ma anche allegre, specie d’inverno.
Paul Marshall le strinse la mano e accennò un breve inchino. C’era un che di comicamente meditabondo nella sua espressione. La battuta d’esordio fu di una scoraggiante convenzionalità.
- Ho sentito parlare moltissimo di te.
- E io di te -. Al momento ricordava solo una conversazione telefonica con il fratello qualche mese prima, nel corso della quale si erano chiesti se avessero o se avrebbero mai mangiato una tavoletta di cioccolato Amo.
- Emily e a letto.
Non ci sarebbe stato bisogno di dirlo. Fin da bambini, si vantavano di essere in grado di stabilire dal fondo del parco se la mamma aveva o no un attacco di emicrania dalla posizione degli scuri alle sue finestre.
- E il vecchio e rimasto in città?
- Può darsi che arrivi più tardi.
Cecilia sapeva che Paul Marshall la stava fissando, ma prima di potersi voltare verso di lui doveva prepararsi qualcosa da dire.
- I bambini stavano mettendo su uno spettacolo, ma sembra che sia andato tutto a monte.
Marshall disse: - Sarà stata vostra sorella allora la ragazzina che ho visto vicino al lago. Stava dando una bella lezione alle ortiche.
Leon si fece da parte per lasciar passare Danny, il figlio di Hardman, con le valigie. - Dove sistemiamo Paul?
- Al secondo piano -. Cecilia aveva inclinato il capo rivolgendo quelle parole anche al giovane Hardman che, giunto ai piedi delle scale con una valigia di cuoio in ciascuna mano, si fermò voltandosi verso il trio raccolto al centro dello spazio a piastrelle bicolori. La sua espressione comunicava serena ottusità. Ultimamente lo aveva notato ronzare intorno ai ragazzi. Forse era interessato a Lola. Aveva sedici anni e di certo non era più un bambino. Le guance paffute che gli ricordava si erano affilate, mentre la curva infantile delle labbra si era andata distendendo in una linea di ingenua crudeltà. La costellazione acneica sulla sua fronte dava l’impressione di essere cosa recente, e solo la luce color seppia riusciva ad attenuarne un poco la vistosità. Cecilia si rese conto che fin dal mattino si era sentita strana, e che guardava alle cose in modo insolito, come se tutto fosse già passato da un pezzo ed esaltato da un’ironia postuma che lei non era in grado di afferrare appieno.
Gli disse in tono paziente: - La stanza grande, dopo la nursery.
- La camera della zia Venus, - commentò Leon.
La zia Venus era stata per quasi mezzo secolo un’attivissima infermiera su un’ampia fascia dei Northern Territories in Canada. Non era zia di nessuno in particolare, o meglio, era la zia di una defunta cugina in secondo grado del signor Tallis, ma quando interruppe l’attività, nessuno mise in discussione il suo diritto a occupare la stanza al secondo piano dove, per la maggior parte dell’infanzia di tutti loro, rimase.
Dolcissima invalida costretta in un letto, a poco a poco si consumò e si spense quando Cecilia aveva dieci anni. Una settimana dopo nasceva Briony.
Cecilia condusse i nuovi arrivati in salotto, e quindi fuori, passando dalle porte finestre, oltre il roseto, verso la piscina che stava dietro le scuderie, circondata sui quattro lati da un fitto canneto nel quale si apriva un piccolo tunnel di accesso. Vi si infilarono, piegando le teste per non sfiorare le canne più basse, e riemersero in una spianata di pietra bianchissima dalla quale il calore saliva in torride raffiche d’aria.
Nascosto nell’ombra, lontano dal bordo della vasca, c’era un tavolino in metallo dipinto di bianco apparecchiato con una caraffa di punch ghiacciato protetta da un tovagliolo di mussolina. Leon aprì le basse sedie di tela che dispose in cerchio e tutti si accomodarono con i bicchieri in mano, rivolti verso la piscina. Dalla sua posizione tra Leon e Cecilia, Marshall assunse il controllo della conversazione lanciandosi in un monologo della durata di dieci minuti. Disse loro quanto fosse meraviglioso trovarsi lontano dalla città a godersi tranquilli l’aria di campagna; da nove mesi a questa parte, non aveva passato un solo minuto, giorno dopo giorno, senza dannarsi l’anima a fare la spola tra la direzione, il consiglio di amministrazione e lo stabilimento. Aveva acquistato una grossa casa su Clapham Common e gli era mancato perfino il tempo di andarla a vedere. Il lancio del Rainbow Amo era stato un trionfo, ma ottenuto solo dopo una serie di catastrofi dovute ai distributori e per fortuna ormai risolte; la campagna pubblicitaria aveva offeso alcuni anziani vescovi, ed erano stati costretti perciò a idearne un’altra; dopodiché erano sorti i problemi legati al successo, all’incredibile mole di vendite, alle nuove quote di produzione, nonché le discussioni sui tempi di consegna, e la ricerca di un’area per la costruzione di un secondo stabilimento rispetto a cui i quattro rappresentanti sindacali si erano mostrati in genere assai poco disponibili, costringendo la direzione a lavorarseli e blandirli come bambini; e adesso che la fatica stava dando i suoi frutti, già si profilava la sfida più grande, quella dell’Army Amo, la tavoletta avvolta in carta grigio-verde con lo slogan Amo ti Amo!; l’idea di base era che investire sulle Forze Armate poteva rivelarsi vantaggioso, se il signor Hitler non abbassava la cresta; c’era perfino la possibilità che la tavoletta diventasse parte della razione alimentare dell’esercito; in quel caso, qualora si fosse andati alla chiamata alle armi, ci sarebbe stato bisogno di edificare altri cinque stabilimenti; alcuni membri del consiglio d’amministrazione erano persuasi che ci sarebbe stata, o che comunque si dovesse arrivare a una forma di accomodamento con la Germania, e che pertanto l’Army Amo si sarebbe risolto in un buco nell’acqua; uno di loro addirittura accusava Marshall definendolo un guerrafondaio; ma per quanto esausto, e vittima di calunnie, lui non avrebbe abbandonato il proprio scopo, il suo sogno.
Concluse ribadendo che era meraviglioso trovarsi quaggiù, dove finalmente poteva tirare il fiato.
Mentre lo osservava nei primi minuti della sua breve conferenza, Cecilia provò un piacevole trasalimento contemplando con delizioso autolesionismo la prospettiva di accasarsi con un uomo del genere: quasi bello, enormemente ricco e irrimediabilmente cretino. Le avrebbe dato una schiera di bei bambini pasciuti e chiassosi, ragazzini con la testa dura e una gran passione per i fucili, il calcio e gli aeroplani. Lo guardò di profilo mentre lui si voltava verso Leon. Un muscolo lungo gli tendeva la mandibola quando parlava. Alcuni peli neri più lunghi gli crescevano ribelli dalle sopracciglia, e dalle orecchie spuntavano ciuffetti scuri comicamente ricci come peli del pube. Avrebbe dovuto parlarne con il suo barbiere.
Con un impercettibile spostamento degli occhi inquadrò la faccia di Leon, che però era tutto impegnato a fissare educatamente il suo amico e pareva deciso a non incrociare il suo sguardo. Da bambini giocavano a tormentarsi reciprocamente così, ai pranzi della domenica dove i genitori invitavano sempre qualche anziano parente. Si trattava di occasioni solenni, degne del servizio di argenteria antico; i venerabili prozii e nonni erano gentiluomini vittoriani del ramo materno della famiglia, gente inamidata e severa, una tribù del passato che pareva approdare in casa loro avvolta in mantelli neri dopo aver vagato con aria stizzita per due decenni in un secolo frivolo e alieno. Cecilia, che aveva al tempo dieci anni, e suo fratello di dodici, ne erano terrorizzati, e la crisi di ridarella nervosa era sempre in agguato. Quello dei due che si beccava «l’occhiata» non aveva speranza, chi la faceva, ne risultava immune. Il più delle volte l’aveva vinta Leon, nel cui sguardo aleggiava uno scherno solenne, ottenuto con gli angoli della bocca rivolti all’ingiù e un moto rotatorio degli occhi. A volte si rivolgeva a Cecilia e nel più innocente dei modi le chiedeva ad esempio di passargli il sale; lei distoglieva lo sguardo porgendogli quanto richiesto, girava la testa e inspirava profondamente, ma le bastava sapere che lui stava facendo «l’occhiata» per finire vittima di un’ora e mezza di tremebonda tortura. Intanto, Leon era salvo, e aveva solo bisogno di «rabboccarla» ogni tanto, appena gli pareva che potesse essersi ripresa dalla crisi. In rare occasioni era lei a batterlo assumendo un’espressione di imbronciata arroganza.
Poiché i bambini venivano qualche volta messi a sedere in mezzo agli adulti, «l’occhiata» non era priva di rischi anche per chi la infliggeva: fare le smorfie a tavola poteva significare rimproveri e castighi come l’essere mandati a letto presto. Il trucco era procedere con un tentativo inserendolo, che so, tra una leccata di labbra e un ampio sorriso, catturando frattanto l’attenzione dell’altro. Una volta avevano alzato lo sguardo e si erano fatti «l’occhiata» contemporaneamente: Leon aveva spruzzato minestra dal naso giusto sul polso di una prozia. Vennero relegati tutti e due nelle loro stanze per il resto della giornata.
Cecilia non vedeva l’ora di prendere il fratello da parte e dirgli che il signor Marshall aveva i peli del pube che gli spuntavano dalle orecchie. Lui intanto descriveva l’alterco avuto con il membro del consiglio d’amministrazione che gli aveva dato del guerrafondaio. Cecilia accennò ad alzare un braccio, come se intendesse risistemarsi i capelli. Automaticamente, il movimento attrasse l’attenzione di Leon, e in quell’istante preciso Cecilia gli scoccò «l’occhiata» che non vedeva da più di dieci anni. Leon contrasse le labbra e abbassò lo sguardo trovando qualcosa da esaminare a poca distanza dalle proprie scarpe. Mentre Marshall si voltava verso Cecilia, il fratello si portò una mano a coppa sul viso, ma non riuscì a nascondere alla sorella il tremito che gli scuoteva le spalle. Fortunatamente per lui, Marshall stava ormai concludendo.
- ... dove uno può, finalmente, tirare il fiato.
Leon scattò subito in piedi. Si avviò verso il bordo della piscina e contemplò un fradicio telo rosso abbandonato nei pressi del trampolino. Poi, ricomposto, tornò dagli altri due, con le mani in tasca.
Disse a Cecilia: - Prova a dire chi abbiamo incontrato arrivando.
- Robbie.
- Gli ho detto di unirsi a noi questa sera.
- Leon! Dimmi che non è vero!
Ma lui aveva voglia di prenderla un po’ in giro. Vendetta, forse. Disse al suo amico: - Devi sapere che il figlio della nostra donna delle pulizie ha avuto una borsa di studio per il liceo, poi una borsa di studio per Cambridge ed è partito insieme a Cee, e sono tre anni che lei non gli rivolge più la parola. Non lascia nemmeno che si avvicini ai suoi raffinati compagni di scuola.
- Avresti dovuto chiedermelo.
Cecilia era sinceramente seccata, e rendendosene conto Marshall si inserì in tono conciliante: - A Oxford ne ho conosciuti di questi tipi da borsa di studio; certi erano proprio dei geni. Qualcuno però faceva pure il difficile, il che mi pareva eccessivo.
Lei chiese: - Hai una sigaretta?
Gliene offrì una da un astuccio d’argento, ne lanciò una a Leon e si servì a sua volta. Ora erano tutti e tre in piedi, e mentre Cecilia si chinava sull’accendino di Marshall, Leon disse: - Questo ha un cervello coi fiocchi, perciò non capisco che diavolo si sia messo in mente di fare perdendo tempo con le aiuole fiorite.
Cecilia andò a sedersi sul trampolino cercando di apparire rilassata, ma il tono di voce era teso. - Ora sta pensando a una laurea in medicina. Leon, preferirei che non lo avessi invitato.
- E il vecchio gli ha detto di sì?
Lei si strinse nelle spalle. - Senti, credo proprio che dovresti andare dai Turner adesso e chiedergli di non venire.
Leon aveva raggiunto il lato meno profondo della vasca e le stava di fronte al di là del riquadro oleoso di acqua azzurra che dolcemente ondeggiava.
- Come potrei fare una cosa simile?
- Non me ne importa. Trova una scusa.
- È successo qualcosa fra voi.
- No, niente.
- Ti sta dando fastidio?
- Santo cielo, Leon!
Cecilia si alzò spazientita e si diresse verso il piccolo padiglione della piscina, una struttura aperta sostenuta da tre pilastri scanalati. Si appoggiò a quello centrale e restò lì a fiutare osservando il fratello. Due minuti prima erano ancora alleati e adesso già litigavano; ecco l’infanzia che riaffiorava.
Paul Marshall stava a metà strada fra loro due e voltava la testa di qua e di là a seconda di chi parlava, come se stesse assistendo a una partita di tennis. Aveva un’aria neutrale, vagamente interlocutoria, e non pareva affatto contrariato da quella disputa tra fratelli. Un punto a suo favore, Cecilia dovette ammetterlo.
Suo fratello disse: - Sei convinta che non sia capace di tenere in mano forchetta e coltello.
- Smettila, Leon. Non era affar tuo invitarlo a cena.
- Quante scemenze!
Il silenzio successivo fu in parte mitigato dal ronzio della pompa del depuratore. Non c’era più nulla che lei potesse fare, ne che potesse far fare a Leon, e all’improvviso si rese conto dell’inutilità di quel litigio. Si dondolò contro la pietra tiepida, godendosi l’ultima nota della sigaretta e contemplando la scena che aveva di fronte: la lastra d’acqua clorata in prospettiva, la camera d’aria nera del pneumatico di un trattore appoggiata a una sedia a sdraio, i due uomini in completo di lino di sfumature impercettibilmente diverse della tinta panna, il fumo grigio-azzurro che saliva contro il verde chiaro del bambù. Pareva tutto scolpito, fisso, e Cecilia tornò a provare quella sensazione: era accaduto tanto tempo prima e tutte le conseguenze a ogni livello, dalla più insignificante alla più colossale, si erano già verificate. Qualunque osa fosse successa in futuro, per quanto superficialmente insolita o sconvolgente, avrebbe contenuto anche un che di noto e di familiare che le avrebbe fatto bisbigliare, ma solo tra se e sé: Ah già. Ma certo. Avrei dovuto saperlo.
Con voce spensierata disse: - Sapete che cosa penso?
- No, che cosa?
- Che dovremmo rientrare, e che tu dovresti prepararci qualcosa di speciale da bere.
Paul Marshall batté forte le mani e il suono riecheggiò tra le colonne e la parete di fondo del padiglione. - Ecco una cosa che so fare piuttosto bene, - esclamò. - Mi servono ghiaccio tritato, rum e cioccolato fondente.
La proposta produsse uno scambio di sguardi tra Cecilia e il fratello, e la loro discordia finì all’istante. Leon si stava già avviando, e mentre gli altri due lo seguivano convergendo verso il breve tunnel scavato in mezzo al canneto, Cecilia disse: - Io preferirei qualcosa di amaro. O magari di acidulo.
Lui sorrise, e poiché aveva raggiunto la breccia per primo, si fece di lato per farla passare come se si fosse trattato della porta d’ingresso a un salotto. Passando, Cecilia si sentì sfiorare un braccio.
Ma poteva anche essere stata una foglia.
Capitolo 5