venerdì 15 novembre 2024

UCRONIA Emmanuel Carrère

 


UCRONIA

Emmanuel Carrère

 Recensione

Scritto tra il 1980 e il 1985 e pubblicato in Francia nel 1986, Ucronia è una riflessione che lo studente Emmanuel Carrère compone come tesi di laurea ma che, alla fine, si trasforma in un saggio meritevole di essere pubblicato, oggi di nuovo come quarant’anni fa. Che nasca dal rimpianto o dalla ribellione, da un credo filosofico-­religioso o dall’attrazione per gli infiniti possibili, ogni opera ucronica è destinata a distruggere certezze riguardo alla  nostra visio­ne del mondo, giacché insinua il dubbio che la sto­ria sia un gigantesco trompel'œil e che anche la più confortante realtà possa di colpo vacillare, spalan­cando abissi angosciosi. A questo sovversivo gene­re letterario, cui lo lega una  lunga passione, Em­manuel Carrère ha dedicato una interessante rifles­sione che, oltre a ripercorrerne le tappe salienti, ne addita le sconcertanti implicazioni: i regimi to­talitari non hanno del resto adottato la tecnica u­cronica per imporre una storia controfattuale?Oggi possiamo dire che non è proprio così. Ai tempi della sua scrittura, negli anni ’80, quando il ciclo delle notizie era quotidiano, la vita era un po’ diversa. Ci si fidava delle istituzioni, della versione raccontata dagli organi di potere. Nell’epoca della post verità, della scomparsa dei giornali locali, dell’informazione online, dell’opinionismo patologico e narcisista, insomma ai giorni nostri, le ucronie sono dappertutto e in tempo reale, alimentate dalle più spericolate teorie complottiste. Trump mente in continuazione, Salvini con le ampolle del Po alle, Netflix è il quarto grado di giudizio, spopola l’autofiction e molti di noi, attraverso strumenti all’epoca inediti tipo Instagram, danno a posteriori una vernice di spensieratezza a periodi dove, in realtà, stava andando tutto a ramengo. Forse alla fine, come dice Carrère, «la storia è un’arte del racconto, non una scienza esatta… L’ucronia è solo uno dei tanti mondi possibili, una traiettoria singola, immaginata da un individuo a partire da scelte arbitrarie. E l’universo in cui viviamo non vale molto di più. 

UCRONIA 

Giovanni Papini, qualche decennio fa, raccomandava l’istituzione di cattedre universitarie di Ignotica, ovvero la scienza di tutto ciò che non sappiamo. Se avessimo seguito il suo consiglio, oggi lo studio dell’Ucronia avrebbe fatto più progressi.

E invece è ancora tutto da scrivere. Il termine stesso è poco noto. Gli esperti di fantascienza lo utilizzano di rado, gli storici quasi mai, e se fino alla fine del XIX secolo figurava nel Grand Larousse, nelle edizioni recenti è scomparso. È stato coniato nel 1876 dal filosofo francese Charles Renouvier, sul modello di quell’Utopia a cui, trecentosessant’anni prima, il Cancelliere d’Inghilterra Tommaso Moro aveva dato un nome destinato a maggior fortuna. A Utopia – dal greco ou-tópos: che non è in nessun luogo – corrisponde quindi Ucronia – ou-chrónos: che non è in nessun tempo. A uno spazio e, di conseguenza, a una civiltà, a leggi, a usi e costumi che esistono soltanto nella mente di legislatori e urbanisti insoddisfatti, si contrappongono un tempo e, di conseguenza, una storia altrettanto arbitrari. Il prefisso privativo, tuttavia, è fonte di confusione, e l’analogia fra i due approcci meno scontata di quanto possa sembrare.


Il testo fondamentale di Renouvier, intitolato Ucronia, ha due sottotitoli, uno giusto, l’altro meno. Quello giusto definisce in modo molto chiaro la disciplina che vorrei esaminare: Schizzo storico apocrifo dello sviluppo della civiltà europea, non come è stato, ma come avrebbe potuto essere. Proprio di questo si tratta: della storia se le cose fossero andate diversamente.


Quello meno giusto è L’utopia nella storia, formula che mi è spesso tornata utile per spiegare di cosa mi stessi occupando («L’ucronia è grosso modo come l’utopia, ma riferita al tempo» – «Ah, sì?»), ma che si presta a diverse obiezioni. Proviamo a supporre che un uomo sia scontento della propria civiltà. Qualche secolo fa poteva immaginare che ne esistessero di migliori in un mondo che ancora offriva spazi inesplorati. Le utopie classiche, infatti, ricorrono quasi tutte allo stesso artificio narrativo: si presentano come resoconti di viaggio. Su un’isola remota, non segnata sulle carte, i navigatori si imbattono nella Repubblica ideale. È Utopia. Ma Tommaso Moro, nel momento stesso in cui inventa la parola, ci ammonisce e ci scoraggia: inutile farsi illusioni, la civiltà perfetta non esiste da nessuna parte.


Se, una volta esplorata l’intera superficie del globo e verificato che in nessun posto si sta poi tanto meglio che nel proprio paese, si vuole comunque continuare a far finta che quella comunità esista – non foss’altro che per portarla a esempio –, ci restano ancora due possibilità. Siccome non è di questa terra, può trovarsi altrove nello spazio interstellare. Siccome non è nel presente, può trovarsi altrove nel tempo. È esistita nel passato, e allora rimpiangiamo l’età dell’oro. Esisterà nel futuro, e allora l’utopia diventa anticipazione. Nessuna di queste affermazioni contraddice espressamente ciò che sappiamo del nostro mondo. Nessuno sente il bisogno di far coesistere due universi in uno stesso spazio. C’è abbastanza posto altrove perché si debba mettere a rischio il delicato equilibrio esistente tra reale e immaginario.


Tale equilibrio è compromesso soltanto se, per esempio, un parigino del 1985, anziché dire che tutto andava per il meglio nell’antica Grecia, o che tutto andrà per il meglio nel 2985, o che tutto va per il meglio in Nuova Guinea, in Cina o su Marte, si mette a descrivere una società completamente diversa dalla sua, conforme all’idea che si è fatto del meglio – o del peggio, poco importa – e si premura di datare il suo bel quadretto, dicendoci che quella è la Parigi del 1985. Ecco che nasce lo scandalo: entriamo in Ucronia.


Ci entriamo mossi da un altro tipo di insoddisfazione. Napoleone è stato sconfitto a Waterloo ed è morto a Sant’Elena. È intollerabile – almeno così pensa l’ucronista –, una sciagura di cui ancora subiamo le conseguenze. Bisogna correggere questa cantonata della storia. Annullare ciò che è stato, rimpiazzarlo con ciò che avrebbe dovuto essere (se, in nome di un saldo convincimento, ci assumiamo la responsabilità di dare lezioni alla Provvidenza), con ciò che avrebbe potuto essere (se ci limitiamo a sperimentare un’ipotesi astratta, senza partigianeria).


L’intento dell’utopia è quello di cambiare ciò che è, o almeno di elaborare un progetto finalizzato a questo cambiamento. Non è un’idea irragionevole, ed è lo scopo a cui si dedicano, nei modi più disparati, sia gli uomini che fondano le civiltà, sia quelli che le sognano migliori e affidano i loro sogni alla carta. L’intento, scandaloso, dell’ucronia è invece quello di cambiare ciò che è stato.


Un simile proposito dà corpo a un’ossessione al tempo stesso bislacca e banale. Immaginare come sarebbe il mondo se un certo evento, considerato decisivo, fosse andato diversamente è uno degli esercizi più naturali e frequenti messi in atto dal pensiero umano. Più naturale e più frequente, in definitiva, di quanto non sia l’edificazione mentale di una civiltà ideale. È un argomento collaudato nelle conversazioni da bar, durante le quali capita spesso di confrontare la situazione attuale con quella in cui ci troveremmo se... (di solito a tutto vantaggio di quest’ultima), e sono pronto a scommettere che l’uomo delle caverne, di ritorno da una caccia infruttuosa, già si divertiva a immaginarsela migliore e a trarne le dovute conclusioni (in primo luogo: stasera mangerei). Tanto che i bei proverbi tipo «con i se e con i ma la storia non si fa» hanno l’aria di essere stati inventati proprio per porre un freno a questa tendenza mentale comune a tutti.


 


 


Il mistero è che, a quanto pare, questo freno ha funzionato. Che una sorta di pigrizia intellettuale, di tabù forse, ha impedito alla congettura metodica in questo campo di assurgere alla dignità di genere letterario. L’utopia, invece, lo è diventata a pieno titolo, il che dimostra una certa lungimiranza: è sempre utile dedicarsi all’urbanistica e alla pedagogia civile, così come è sempre stupido rimpiangere ciò che non è stato. Aristotele afferma perentoriamente che chi indugia in riflessioni di tal fatta ragiona «come una pianta».


E in effetti nessuno vi indugia: le fantasticherie retrospettive restano perlopiù inespresse, o espresse solo a voce. Alimentano una logorrea da salotto, individuale o collettiva, che una sorta di pudore, la percezione dell’assoluta sterilità dell’impresa vietano di condividere attraverso la scrittura e la pubblicazione. Di tanto in tanto, tuttavia, un eccesso di risentimento nei confronti di una storia che si ritiene abbia, in un dato momento, imboccato la strada sbagliata, la malinconia nel vedere la fine dell’espansione dell’Impero napoleonico o Mozart morire a trentacinque anni ispirano un moto di rivolta scritto contro l’implacabile autorità di ciò che è stato. Di tanto in tanto, inoltre, una mente curiosa, incline alle vane astrazioni stigmatizzate da Aristotele, si sforza di porre in termini razionali l’interrogativo: «Che cosa sarebbe successo se...?» e, a partire dai dati di cui dispone, si abbandona al gioco delle congetture. A me piacerebbe, in questo libretto, prendere in esame alcuni di questi moti di rivolta e di questi esperimenti.


 


 


Nemmeno un minuto fa ho detto che, anche se praticamente tutti ci pensano, perlomeno a livello individuale, nessuno o quasi scrive ucronie. In realtà non ne ho idea. So soltanto che nessuno si è preso la briga di censirle in modo sistematico, che non c’è una bibliografia sul tema, che la parola non figura nel catalogo per materia della Bibliothèque Nationale de France e che a oggi – e per quanto ne so io – questo argomento è stato parzialmente studiato soltanto da Jacques Van Herp (che gli dedica un capitolo del suo Panorama de la science-fiction) e da Pierre Versins (un capitolo, magistrale, della sua Encyclopédie de l’utopie, des voyages extraordinaires et de la science-fiction). Per cui le mie fonti non sono altro che una serie di libri eterogenei, segnalati da questi due studiosi o trovati per caso nel corso delle mie letture, che si legano al tema per via di un dettaglio della trama e sono singolarmente circoscritti nel tempo e nello spazio. La prima ucronia, individuata da Pierre Versins, è della fine del XVIII secolo, ma tutti gli altri testi sono del XIX e del XX, e parlo solo di libri francesi e anglosassoni. Niente prova che non siano state scritte ucronie, o comunque opere che contengono elementi ucronici, prima del 1791 e in altre lingue. Solo che, a meno di mettermi a leggere tutta la letteratura portoghese del XVI secolo, non vedo come potrei scovare le ucronie portoghesi del XVI secolo, sempre che ne esistano. Occorrerà pertanto limitarsi alla parte emersa di questo iceberg letterario, in attesa di studi più consistenti.


In linea di massima, mi sembra strano che si scrivano così poche ucronie, e che queste siano così poco note, altrettanto strano che non si scriva sull’ucronia. Ammetto di aver provato una puerile vanità al pensiero di essere una sorta di pioniere in questo campo della conoscenza, sia pur trascurabile. Ho avvertito anche il timore lievemente paranoico che questo genere di vanità porta con sé: il sospetto che a mia insaputa il territorio fosse pattugliato da un plotone di studiosi pronti ad avventarsi su di me al momento della pubblicazione di questo mio lavoro dilettantesco. Avendo la sensazione, poi la convinzione, di aver fatto una scoperta, di aver portato alla luce un argomento importante, mi aspettavo di ricavare dal suo studio insegnamenti inediti. Insegnamenti indiretti, forse, insegnamenti da cogliere in filigrana, insegnamenti impartiti da gente male informata, ma pur sempre insegnamenti, sulla storia, sulla letteratura e sui sogni che le animano. Perché, se ci si riflette un istante, l’ucronia non è una questione trascurabile. Gli interrogativi che solleva, in ogni caso, non lo sono.


Che cos’è davvero determinante nella storia dell’umanità? In che modo l’uomo si rappresenta la concatenazione di cause ed effetti a cui la storia si riduce? E, a tal proposito, la storia si riduce davvero a questo? Ha un senso? E chi si occupa di farlo rispettare? E, se ce l’ha, è possibile cambiarne il corso? Di cosa sono fatti i nostri rimpianti, come si sfilano le maglie nel tessuto delle nostre vite? E adesso, dato che a questo punto si tratterebbe addirittura di mostrare all’opera le agili dita delle Parche, una domanda più modesta: quale contributo potrebbero mai offrire a dibattiti così impegnativi una decina di volumi scritti da romanzieri d’appendice, professori di filosofia o ex ufficiali che non riescono a rassegnarsi alla caduta di un impero, con l’aggiunta di un libretto che analizza questo smilzo corpus?


La risposta è: proprio nessuno. E il dottor Horeb Naim, portavoce di Papini, ci spiega perché:


«Dopo questo inventario l’Ignotica si propone un altro problema, cioè quello di spartire le cose non conosciute in due grandi classi: quelle che presentano una forte probabilità di essere scoperte in un futuro più o meno lontano e quelle che probabilmente non saranno conosciute mai, sia perché si riferiscono a questioni assurde o male impostate, sia perché mancano all’intelligenza umana i mezzi necessari a disoccultarle».


A causa di entrambe queste ragioni, l’ucronia appartiene alla seconda categoria. Tutt’al più può trasformare gli interrogativi che pone in regole di un gioco mentale, di un divertissement inutile e malinconico. Ci sono state persone che ne hanno fatto dei libri (ben poche), altre che li hanno letti (non molte di più, probabilmente) e altre ancora che a questi libri hanno dedicato un libro (e qui credo proprio di essere l’unico). Le seconde giustificano le prime, e tutte e due il terzo.


Nel mondo in cui viviamo, nella storia di cui siamo prigionieri, l’ucronia si riferisce a una questione assurda e male impostata. È soltanto – ha ragione Aristotele – una fantasticheria da vegetale. Non ci resta che leggerla per quello che è – neanche per il suo valore letterario. Non tanto per conoscere il nostro universo, quanto per conoscere i suoi. Per scoprire altre civiltà, altre battaglie, altri libri, altre gesta eroiche o quotidiane. La serietà dell’indagine non è sminuita dal fatto che il suo oggetto non ha avuto la fortuna di esistere. Abbiamo le stesse ragioni per intraprenderla e ci aspetta lo stesso risultato: la conoscenza disinteressata, che è poi una modalità intellettuale del piacere.