Recensione
Scrivere un romanzo fatto interamente di dialoghi, è un fatto abbastanza raro: "Il bacio della donna ragno" di Manuel Puig, "I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre?" di David Eggers, e non molto altro.
In Stella Maris non succede praticamente nulla, è il libro sul nulla di McCarthy, ma si parla di tutto.
Direttamente collegato al precedente "The passenger", Stella Maris è composto dai dialoghi che Alice Western, l’unico vero personaggio femminile della lunga carriera di McCarthy, intrattiene con un tale Dr. Cohen, che a mala pena pone delle domande, restando una figura del tutto marginale, un mero pretesto per dare libero sfogo alla mente di Alice, internata volontariamente all’ospedale psichiatrico che dà il titolo al romanzo.
Con Stella Maris, l’ultima parola di uno dei più grandi scrittori americani è affidata al ragionamento filosofico di una donna geniale e malata. Alice, infatti, incarna i grandi temi filosofici che hanno impegnato la riflessione di McCarthy degli ultimi decenni: la natura del linguaggio, dell’inconscio, la matematica, la fisica quantistica; aggrovigliandosi nei suoi discorsi, sul rapporto fra percezione soggettiva, coscienza umana e esistenza del mondo là fuori; sulla natura dei numeri; sull’impossibilità di razionalizzare l’esperienza estetica della musica.
Il livello filosofico si mescola, al racconto dei “personaggi”, così li definisce, con cui convive durante le sue allucinazioni, e il racconto del proprio passato e in particolare della propria famiglia.
I tre livelli si confondono e spesso si giustificano a vicenda: così l’ossessione per la violenza e la morte come tema di riflessione si lega inevitabilmente alla figura del padre, scienziato coinvolto nel progetto Manhattan e a quella del fratello Bobby, protagonista del romanzo precedente, che Alice crede in punto di morte. Allo stesso modo il tema amoroso è raccontato attraverso il filtro della malattia e a quello autobiografico tramite l’ammissione di un profondo desiderio incestuoso.
STELLA MARIS
STELLA MARIS
Black River Falls, Wisconsin
Fondata nel 1902
Dal 1950 struttura aconfessionale e casa di cura
per pazienti psichiatrici medicalizzati.
Unità ospiti
27 ottobre, 1972
Caso 72-118
La paziente è un’ebrea/caucasica di vent’anni. Di bell’aspetto, forse anoressica. Arrivata in questa struttura sei giorni fa apparentemente in autobus e senza bagaglio. Ammissione firmata dal dottor Wegner. La paziente aveva nella borsetta una busta di plastica piena di banconote da cento dollari – poco piú di quarantamila dollari in totale – che ha cercato di consegnare alla receptionist. La paziente è una dottoranda in matematica presso l’Università di Chicago e le è stata diagnosticata una schizofrenia paranoide con presenza ricorrente di allucinazioni visive e uditive. Già residente presso questa struttura in due precedenti occasioni.
I.
Salve. Sono il dottor Cohen.
Lei non è il dottor Cohen che aspettavo.
Mi dispiace. Forse aspettava il dottor Robert Cohen.
Sí. Immagino che i dottor Cohen non manchino.
Probabilmente no. Tutto bene? Come sta?
Come sto.
Sí.
Sono alla neuro.
Be’. A parte questo, intendo.
Da quanto tempo fa questo lavoro?
Circa quattordici anni.
Registrerà tutto.
L’accordo era questo mi pare. Va bene?
Presumo di sí. Allora pensavo che lei fosse un altro.
Non va bene.
No. È okay. Anche se dovrei precisare che io ho solo acconsentito a chiacchierare. Non a seguire terapie.
Certo. C’è qualcosa che vorrebbe chiedermi? Prima di iniziare.
Abbiamo già iniziato. Qualcosa tipo?
Forse potrebbe dirmi qualcosa di lei.
Oddio.
No?
E poi mi farà colorare seguendo i numerini?
Scusi?
Non importa. È solo che sono tanto ingenua da immaginare ancora che sia possibile lanciare questi scambi lungo un vettore non distorto all’inverosimile dall’ipocrisia.
Cos’è? Il mio tono di voce?
Non importa. Faremo come dice lei. Al diavolo.
Be’. Non vorrei partire col piede sbagliato. Pensavo solo che magari le andava di dirmi qualcosa sul motivo per cui è qui.
Non avevo nessun altro posto dove andare.
E perché qui.
Ci ero già stata.
Inizialmente perché, allora.
Perché non mi prendevano alla Coletta.
E perché la Coletta?
È dove hanno mandato Rosemary Kennedy. Dopo che suo padre le aveva fatto asportare il cervello.
Ha qualche legame con la famiglia?
No. Non ne sapevo niente di istituti psichiatrici. Ho semplicemente pensato che se loro l’avevano scelto con ogni probabilità era un ottimo indirizzo. In realtà credo che il cervello gliel’abbiano asportato altrove.
Sta parlando di lobotomia.
Sí.
Perché le hanno fatto una cosa simile?
Perché era strana e suo padre aveva paura che qualcuno se la scopasse. Non corrispondeva a quello che il vecchio aveva in mente.
È vero?
Sí. Purtroppo.
Perché ha sentito il bisogno di andare da qualche parte?
Intende stavolta?
Sí. Stavolta.
L’ho sentito e basta. Avevo lasciato l’Italia. Dove mio fratello era in coma. Cercavano continuamente di ottenere il mio consenso per staccare la spina. Di farmi firmare le carte. Per cui sono scappata. Non sapevo cos’altro fare.
Era una cosa cui non riusciva a risolversi? Smettere di tenerlo in vita artificialmente?
Sí.
È in morte cerebrale?
Non voglio parlare di mio fratello.
D’accordo. Mi dica solo perché è in coma.
Ha avuto un incidente. Era un pilota di auto da corsa. Davvero, non mi va.
D’accordo. C’è qualcosa che vorrebbe chiedermi?
A proposito di cosa?
Qualsiasi cosa. Anche di me se vuole. Posso chiamarla Alicia?
Vuole che le chieda di lei.
Se vuole. Sí.
Lei insegna all’università.
A Madison. Sí.
So dov’è l’università. Si veste piuttosto bene per un accademico.
Grazie.
Non era un complimento. Lei non è uno psicoanalista.
Sono uno psichiatra.
Non è un MD.
Lo sono. In effetti.
Cos’altro.
Sono sposato. Ho due figli. Mia moglie è responsabile di un programma per l’infanzia del Comune. Ho quarantatre anni.
Cosa fa quando nessuno la vede?
Non faccio. Lei?
Ogni tanto fumo una sigaretta. Non bevo e non faccio uso di droghe. Né di medicine. Sigarette non ne ha immagino.
No. Potrei portarne qualcuna.
Okay.
Cos’altro?
Ho delle conversazioni clandestine con dei personaggi a quanto pare inesistenti. Mi hanno dato dell’attizza quel-che-sa-lei ma secondo me non è vero. La gente ha l’aria di trovarmi interessante ma ho praticamente smesso di parlarci. Parlo solo con i miei colleghi svitati.
Non parla con altri matematici?
Non piú. Be’. Con alcuni.
Come mai?
È una storia lunga.
Si occupa ancora di matematica?
No. Non della matematica propriamente detta.
Che matematica faceva?
La topologia. La teoria dei topoi.
Ma adesso non se ne occupa piú.
No. Sono stata distratta.
Cos’è che l’ha distratta?
La topologia. La teoria dei topoi.
Forse per il momento dovremmo mettere da parte la matematica.
Come vuole. Comunque sia non sapevo cosa stessi facendo.
Questo mi sorprende. Non poteva chiedere aiuto ad altri matematici?
No. Non lo sapevano nemmeno loro.
Sicura che va bene se registro?
Sicura. E se dico cazzo o cose cosí? In realtà mi sa che l’ho già fatto. E di nuovo.
Non lo so. Se non sbaglio l’accordo era che non avrebbe avuto la facoltà di modificare alcunché.
Non dico proprio sul serio.
Ah.
Alicia è okay. Lo preferisco a Henrietta.
Nemmeno adesso dice sul serio.
No.
D’accordo. Su suo fratello non le va di dirmi niente?
Tutto ciò comincia a ricordarmi Eliza. No. Non. Mi. Va.
Il programma informatico di psichiatria.
Sí.
D’accordo. Di cosa le piacerebbe parlare?
Non lo so. Mi sa che ho solo voglia di fare la sbruffona. Se davvero vuole parlare con me come minimo dovremo ignorare qualche stronzata. Lei non crede? O no?
Lo credo. Penso che abbia assolutamente ragione.
Tipo questa.
È una stronzata?
Certo che è una stronzata. Col cavolo che pensa che ho assolutamente ragione.
Capisco.
E per favore non dica capisco.
Significa solo che sto cercando di comprendere il suo punto di vista. È in contatto con qualcuno?
Intende persone reali?.
Preferibilmente. Sí.
Non proprio.
Qualche matematico? Nessuno dell’università?
Credevo che non dovessimo parlare di matematica.
D’accordo.
Scrivo ancora a Grothendieck ma ha lasciato l’Ihes e non risponde alle mie lettere. E va bene cosí. Non mi aspetto che lo faccia.
È un matematico?
Sí. O era.
Dove vive?
Non so dove vive. Immagino che sia sempre in Francia.
Non è un nome molto francese.
Non è affatto un nome francese. Suo padre si chiamava Schapiro. Poi lui è diventato Tanaroff. Non aveva passaporto. Era un bambino sfollato durante la guerra. Che si nascondeva. Cercando di salvarsi la pelle. Suo padre morí ad Auschwitz.
Lei dove gli scrive?
All’Ihes. Non sa chi sia, vero?
No.
Non importa. Eravamo amici. Siamo amici. Condividiamo un certo scetticismo.
Su cosa?
Sulla matematica.
Non sono sicuro di seguirla.
Non importa.
È scettica sulla matematica?
Sí.
Si sente in qualche modo delusa dalla disciplina? Immagino che non si possa essere scettici sulla materia in toto.
Lo so.
Però l’ha delusa.
Volendo potremmo dire cosí.
Come ha fatto a deluderla?
Be’. In questo caso è stato per via di un gruppo di perfide e aberranti e assolutamente malvagie equazioni differenziali alle derivate parziali che avevano cospirato per sottrarre la loro stessa realtà ai discutibili circuiti cerebrali del loro ideatore in modo non dissimile dalla ribellione descritta da Milton e issare la loro bandiera di nazione indipendente svincolata da Dio quanto dagli uomini. Qualcosa del genere.
Pensa che le mie siano domande ingenue.
Mi scusi. No. Non lo penso. La falla non sta in colui che indaga.
È un matematico di spicco? Il suo amico.
Grothendieck. È comunemente considerato il piú importante matematico del ventesimo secolo. Se trascuriamo il fatto che Hilbert e Poincaré e Dedekind e Cantor sono tutti vissuti nel ventesimo secolo. Ed è bene farlo, visto che i loro lavori di maggior rilievo risalgono tutti al diciannovesimo. E non sono una grande fan di von Neumann.
Mi spiace ma sono nomi che non ho mai sentito.
Lo so. Non importa. Be’, fino a un certo punto. Ma va bene.
Grothendieck.
Sí.
Ha lavorato con lui?
Non so se potremmo definirlo lavoro. Abbiamo passato molto tempo a parlare. Veniva all’Istituto di martedí. E ho passato molto tempo a casa sua. Mangiavo con la sua famiglia. Poi le conversazioni si protraevano fino a notte fonda. In un certo senso eravamo semplicemente insieme nello stesso manicomio. L’Istituto fu fondato per lui e per un altro matematico di nome Dieudonné da un russo facoltoso di nome Motchane – sempre che questo fosse il suo vero nome – il quale era matto come un cavallo. Fu realizzato sul modello dell’Ias. A Princeton. Oppenheimer era uno dei consulenti. Io ci sono rimasta un anno, ma al tempo i fondi avevano cominciato a prosciugarsi. Alla fine i soldi della mia borsa non li ho mai visti tutti. Ero l’unica donna. All’inizio credevano che lavorassi in cucina.
Mi pare di capire che non è stata una bella esperienza.
È stato fantastico. Anche a Chicago avevo avuto parecchie difficoltà. Ma Grothendieck prestava attenzione a ogni singola parola che dicevi. Annuiva e scribacchiava sul suo blocco per appunti. Parlava. Ti poneva domande che tu non ti eri posto.
Lei quanti anni aveva?
Diciassette.
E non era un problema? La sua età.
Non gli sarebbe neanche passato per la testa.
Perché non risponde alle sue lettere?
Fondamentalmente perché ha mollato la matematica.
Come lei.
Sí. Come me.
È stata dura?
Be’. Direi che forse perdere una cosa sola è piú dura che perdere tutto.
Una cosa potrebbe essere tutto.
Sí. Potrebbe. La matematica era tutto quello che avevamo. Non è che abbiamo mollato la matematica per darci al golf. Adesso lo invitano a tenere dei seminari e lui si presenta e sproloquia a proposito di ambiente o di guerrafondai. I suoi genitori erano attivisti politici. È molto devoto alla loro memoria. Sulla sua scrivania ha un disegno a matita di suo padre e quella che mi dicono essere una maschera mortuaria di sua madre. Ma la verità è che l’hanno abbandonato da bambino per inseguire il loro sogno politico di un mondo che non esisterà mai e io sospetto che si sia sentito in dovere di abbracciare la loro causa per giustificare quel tradimento. È sposato e ha dei figli. E ho paura che farà la stessa cosa.
Sta piangendo?
Mi scusi.
Però ha mollato tutto.
Sí.
Perché?
Secondo i suoi amici è diventato via via sempre piú instabile mentalmente.
È cosí?
È complicato. Alla fine ci si ritrova a parlare di fede. Della natura della realtà. Comunque sia, tra i miei colleghi matematici c’è chi si divertirebbe a sentir descrivere l’abbandono della matematica come una prova di instabilità mentale.
Quanti anni ha?
Ne ha quarantaquattro.
E lei è andata in Francia per una fellowship presso il suo Istituto.
Sono andata in Francia per stare con mio fratello. Non sapevo se sarebbe tornato. Però sí. Volevo andare all’Istituto. Stavano facendo quello che volevo fare io.
Si era già laureata all’Università di Chicago.
Sí.
A sedici anni.
Sí. Ero iscritta al dottorato di ricerca. Lo sono ancora, immagino. Di fatto non avevo una vita. Non facevo altro che lavorare.
Se non fosse diventata una matematica cosa le sarebbe piaciuto essere?
Morta.
È una risposta seria?
Io ho preso sul serio la sua domanda. Lei dovrebbe prendere sul serio la mia risposta.
Si sente bene?
Sí. Forse in effetti ho un po’ snobbato la sua domanda. Quello che veramente volevo era un figlio. Quello che veramente voglio. Se avessi un figlio tornerei a casa la sera e me ne starei seduta lí. In silenzio. Ad ascoltare il respiro di mio figlio. Se avessi un figlio, della realtà non me ne importerebbe niente.
Lei mi sorprende.
Sí. Be’.
Vuole andare avanti?
Sto bene. Ad ogni buon conto Grothendieck e Motchane sono andati ai ferri corti. Motchane gli ha detto che l’Istituto accettava fondi militari il che voleva dire che ora si sarebbe licenziato. Cosa che ha fatto. Non sono neanche sicura che fosse vera. La storia dei soldi.
È veramente un grande matematico?
Sí.
C’è qualcosa che ha fatto che io possa comprendere?
Non lo so. Ha prodotto piú lui di quanto ci si aspetterebbe da cinque matematici messi assieme. Quasi quanto Eulero. Alla fine si era prefisso di riscrivere tutta la geometria algebrica. È arrivato soltanto a un terzo. Varie migliaia di pagine. Ma ha cambiato la matematica in modo sostanziale. Era alla testa del gruppo Bourbaki ma alla resa dei conti gli altri non sono riusciti a seguirlo. O non hanno voluto. La loro matematica si fondava sulla teoria degli insiemi – che ormai appariva sempre piú porosa – e lui si era spinto un bel po’ oltre. A un livello di astrazione logica completamente inedito. Un nuovo modo di guardare il mondo. Stava completando quanto iniziato da Riemann. Scalzare Euclide una volta per tutte. Per il momento ignorando il quinto postulato. L’ingerenza dell’infinito con cui Euclide non riusciva a venire a patti. Quando arrivi alla teoria dei topoi ti affacci su un altro universo. Hai trovato un posto da dove puoi voltarti a guardare il mondo dal nulla. Non è solo una configurazione qualsiasi. È basilare.
Lei si è fatta internare di sua volontà.
Alla Stella Maris.
Sí.
Se ti internano sei diagnosticato mentre se ti fai internare di tua volontà no. Immaginano che tu debba essere ragionevolmente sano di mente, altrimenti non ti saresti presentato. Spontaneamente. Per cui dal punto di vista della cartella clinica la sfanghi. Se sei abbastanza sano di mente da sapere che sei pazzo non sei cosí pazzo come se pensassi di essere sano di mente.
È già stata qui, quanto? Due volte?
Sí.
Perché stavolta? Suppongo che la mia domanda sia questa.
Continuavo a incontrare strane persone in camera mia.
A quanto pare non è niente di nuovo.
Volevo vedere alcune persone di qui.
Pazienti.
Sí. Credeva che fossi venuta per far visita al personale?
Intende i terapeuti.
Sí.
Non lo so.
Sí che lo sa.
Non sta prendendo nessun farmaco.
No.
Crede che sia giudizioso?
Non so cosa sia giudizioso. Non sono una persona giudiziosa.
Ma non crede di essere pazza.
Non lo so. No. O quantomeno non rientro nel suo libro dei matti.
Il Dsm.
Sí. Ovviamente non sono l’unica che manca in quel libro.
Ha ancora le allucinazioni?
Non ho mai detto che erano allucinazioni.
Si è riferita ai suoi visitatori definendoli persone inesistenti.
Personaggi.
D’accordo, personaggi.
Stavo citando dalla letteratura.
Quale letteratura?
La letteratura su di me. Comunque no. Ultimamente non li ho visti. Non amano venire in posti come questo. Li mette a disagio. Sta sorridendo.
Sembrerebbe quasi che stia dicendo che una struttura come questa favorisce di suo la sanità mentale. Come? Allo stesso modo in cui una chiesa allontana gli spiriti maligni?
Suppongo che possa essere una discreta analogia. Dei peccatori la Chiesa non si stanca mai di parlare. Dei salvati non fa praticamente menzione. Qualcuno ha fatto notare che gli interessi di Satana sono squisitamente spirituali. Chesterton, mi pare.
Non sono sicuro di seguirla.
Satana si interessa unicamente alla tua anima. Per il resto, della tua salute se ne frega.
Interessante. I suoi visitatori. Chiunque essi siano. Cosa mi può dire di loro?
A questa domanda non so mai come rispondere. Che cosa vuole sapere?
Hanno un nome?
Nessuno ha un nome. Glielo dai tu per poterli ritrovare al buio. So che ha letto la mia relazione ma i bravi medici fanno ben poco caso alle descrizioni delle figure allucinatorie.
A lei quanto reali sembrano? Cos’hanno? Qualcosa di onirico?
Non credo. Le figure oniriche mancano di coerenza. Ne intravedi dei pezzi e il resto ce lo metti tu. Un po’ come col punto cieco. Mancano di continuità. Si tramutano in altri esseri. Senza contare che il paesaggio in cui si muovono è un paesaggio onirico.
La figura principale è quella di un nano calvo.
Una persona di piccole dimensioni. Sí.
Il Kid.
Il Kid. Sí.
Ma non è come le figure che vediamo nei sogni.
No. È come una figura che vediamo in camera da letto.
Mi chiedo se abbia un’idea del perché queste figure assumano l’aspetto che assumono.
Vuole provare a riformulare la domanda? Assumono l’aspetto di cui il loro aspetto si compone. Immagino che in realtà quello che vuole sapere sia che cosa potrebbero simboleggiare. Non ne ho idea. Non sono una junghiana. La sua domanda inoltre tradisce la convinzione che ci possa essere qualche possibilità di orchestrare quell’assurdo serraglio. In un modo o nell’altro. Serraglio del quale ogni figura in pratica brilla di realtà. Intravedo i peli nelle narici e riesco a vedere dentro i buchi delle orecchie e i nodi alle stringhe delle scarpe. Se pensa che con tutto questo potrebbe allestire un’opera dei miei processi mentali disturbati le auguro buona fortuna.
Però è consapevole che altri non credono nell’esistenza di creature simili.
Mi definisca esistenza.
Prego?
In cosa credano gli altri non mi preoccupa granché. Non li considero qualificati per avere un’opinione.
Perché non le hanno viste.
Be’. Direi che questa si qualifica come un’impasse logica. Lei cosa ne dice?
Saprà certamente che le allucinazioni della portata da lei descritta sono di una rarità che rasenta lo zero. Piú di un terapeuta ha insinuato che se le stesse inventando.
Che me le stessi inventando.
Sí.
Mi sembra una formulazione assai curiosa, no?
Che si stesse inventando che se le stava inventando.
Sí, be’. Nemmeno loro sono legittimati a esprimere un parere.
I terapeuti?
I terapeuti.
Forse no. Quando è cominciata tutta questa storia? A che età?
Trova che mi presenti come una psicotica perfetta?
No. Non trovo. D’altra parte com’è ovvio non le piace sottoporsi ai test.
No. A lei sí?
No. Tranne se credo che avrò un buon risultato. Ma in generale lei dei test cosa crede? Che siano mal pensati? Invasivi?
Diciamo semplicemente che non mi piacciono.
Però qualche test l’ha fatto. Nelle matrici avanzate ha ottenuto un punteggio perfetto.
Come altri prima di me.
Non nel tempo che ci ha messo lei.
Le domande iniziali sono parecchio stupide. Devi solo inserire la figura mancante. Poi basta comporre le cose in modo piuttosto grossolano. Piú avanti i problemi diventano piú difficili ma non veramente diversi. E comunque, a prescindere da quanto complesse diventino le figure le regole non sono mai piú di sei.
Alla fine del test lei ha buttato giú un paio di matrici tridimensionali.
Reticoli. Sí. Uno era geometrico e l’altro computazionale. Niente di cosí difficile. Ma ho pensato che sembrassero promettenti. Ho visto che potevano diventare abbastanza rognosi abbastanza in fretta. Se sbagliavi la dimensionalità non riuscivi a seguire la progressione. Non ne ho piú saputo niente. Ma la mia idea era che se uno i test proposti se li mangiava a colazione probabilmente bisognava somministrargliene di piú tosti. Credevo volesse parlare delle orti.
Delle che?
Le orti. Le entità. Orti come diminutivo di coorti.
È una parola? Orti?
Al maschile sono dei verzieri. In tedesco sono dei posti, ma senza la i finale. E adesso esistono anche al femminile. Comunque, a che età. Per tornare alla sua domanda. All’insorgere del ciclo credo si dica nella relazione.
Mi chiedevo solo se l’informazione fosse corretta. È piuttosto presto.
Potrebbe perfino dire precoce.
Perdoni la domanda ma che età aveva?
Dodici anni.
Nei soggetti femminili la schizofrenia tende a manifestarsi intorno ai vent’anni.
Non mi hanno mai ufficialmente diagnosticato la schizofrenia.
No.
Magari escogiteranno un test per la stranezza generica. Che ne pensa?
Lei qui ha fatto il test Minnesota. Due anni fa.
D’accordo.
A proposito di stranezza generica. Lei è stata inquadrata come sociopatica deviante piú vari altri aggettivi piuttosto sgradevoli. Questo sulla scala quattro. Lo conosceva l’Mmpi?
No. Non passo il tempo a studiare i vostri test. Li trovo di una stupidità e di un’inutilità letali. Per cui ero sempre piú incazzata. Alla fine cercavo di qualificarmi come squilibrata con tendenze omicide.
Non temeva di essere rinchiusa?
Ero rinchiusa.
Nel test Minnesota non ci ha trovato niente di interessante.
No.
Ha ottenuto novantasei allo Stanford-Binet.
Io puntavo ai cento.
Perché?
Perché è quello che bisogna ottenere.
Di quant’è il suo QI?
Non ho un QI.
Non è una forma di superbia? Essere non testabili?
Non se non lo sei. Comunque sia, lo Stanford-Binet è razzista. Tra le altre cose.
Come può essere razzista?
Nel test non c’è neanche una domanda sulla musica. Per dire. A quanto pare la musica non conta. Cosí qua dentro c’è un nero con un QI stimato a ottantacinque che qualunque metro di misura si voglia adottare è un genio musicale. Semplicemente incommensurabile. Ma per quelli del QI è poco piú di un deficiente.
Suppongo che ai suoi occhi gli ideatori stessi dei test non siano delle aquile.
Non ho mai incontrato nessuno del campo che abbia la benché minima comprensione della matematica. E l’intelligenza sono i numeri. Non le parole. Le parole sono cose che abbiamo inventato. La matematica no. Nel test del QI le domande di matematica e logica sono una barzelletta.
Com’è che ci siamo arrivati? All’intelligenza come fatto numerico.
Forse lo è sempre stata. O forse in effetti ci siamo arrivati contando. Per un milione di anni prima che venisse pronunciata la prima parola. Se vuoi un QI superiore a centocinquanta ti conviene essere bravo coi numeri.
Tendo a pensare che sarebbe difficile mettere insieme le risposte che ha dato lei in alcuni di quei test senza avere familiarità con il test in questione.
Io avevo un certo allenamento. All’università nelle materie umanistiche ho dovuto ingegnarmi per prendere A senza leggere le dispense idiote che ci rifilavano.
Non leggeva le dispense per principio?
No. Semplicemente non avevo tempo.
Perché non aveva tempo?
Perché facevo matematica diciotto ore al giorno.
Alcuni direbbero che non è possibile.
Sí. Che lo dicano.
Cosa mi dice della scala otto?
Non so cosa sia.
Be’, tra le altre cose è uno strumento per rilevare la schizofrenia.
Ah sí? Come sono andata?
L’ha superato per il rotto della cuffia. Per cui se stava manipolando il test non potrebbe significare che è schizoide e che in qualche modo è riuscita a mentire in proposito? Naturalmente il test è concepito anche per individuare traumi cranici ed epilessia.
Sono caduta di testa da piccola.
Sul serio?
No.
Tutta questa matematica che faceva. Non sarà stato tutto materiale in programma.
Era tutta roba che esulava dal programma.
Cos’è che le interessava di piú?
Ho passato parecchio tempo sulla teoria dei giochi. Ha qualcosa di affascinante. Von Neumann ci è rimasto invischiato. Forse non è il termine giusto. Ma credo che alla fine ho cominciato a rendermi conto che prometteva spiegazioni che era incapace di fornire. È veramente una teoria dei giochi. Nient’altro. Conway o no. All’inizio hai sempre solo uno strumento, ma la speranza è che in realtà costituisca una teoria.
Ma la teoria dei giochi è una teoria, no?
Se lo dice lei.
Abitava nella soffitta della casa di sua nonna.
Sí. Dopo la morte di mia madre. Bobby me l’ha messa a posto.
Ed è lí che sono cominciate le apparizioni?
Sí.
Cosa facevano loro mentre lei faceva tutta quella matematica?
Non lo so. A un certo punto io perlopiú ho iniziato a ignorarle. Tranne il Kid. Lui era piuttosto difficile da ignorare.
Mi sorprende che non le trovasse piú inquietanti.
Be’. Avevo dodici anni. Come facevo a sapere che non era normale?
Però lo sapeva.
Sapevo che non era normale. Ma non sapevo che non era normale per me.
Perché lo chiama il Kid?
È un diminutivo di Talidomide Kid. Non ha le mani. Solo delle pinne.
È lui il nano.
La persona di piccole dimensioni.
Chi altri?
Una quantità di personaggi. Intrattenitori. In teoria.
La intrattenevano?
No.
E appaiono cosí. Dal nulla.
In contrapposizione a? Da qualche parte? Okay. Dal nulla. Diciamo pure dal nulla. Guardi. Questa conversazione la conosco praticamente a memoria.
Avuta con altri terapeuti.
Sí.
Cosa vorrebbe che facessi?
Che mi sorprendesse.
Sorprenderla.
Sí. Be’. Non mi farò illusioni. Col tempo i dati di fatto e gli indizi sono entrambi destinati alla stessa evanescenza. Nella memoria degli eventi c’è una sintesi che quanto a realtà non ha niente a che fare con la realtà. Ti risvegli da un incubo con un certo sollievo. Ma questo non lo cancella. L’incubo è sempre lí. Anche dopo che l’hai dimenticato. La sensazione che ci sia qualcosa che non hai capito continuerà a perseguitarti a lungo. Quello che stava cercando di chiedermi. La risposta è no. Sono arrivati e basta. Senza preavviso. Niente odori strani, niente musica. Io sto ad ascoltarli. A volte. Altre volte mi metto a dormire e basta.
Riesce a dormire con loro nella stanza?
Qui è un po’ come avere una conversazione con Zenone. Ci ha riflettuto su questa domanda? Non è buffo come la risposta sia sempre nell’ultimo posto in cui la cerchi?
D’accordo. Ma in generale non la spaventano.
No.
E questo a lei non sembra strano.
No. Avevo dodici anni. Probabilmente ho pensato che venivano con la pubertà. Lo pensavano tutti. In ogni caso, era la pubertà a spaventarmi, non i fantasmi. Piú la tua vita è innocente piú i tuoi sogni sono spaventosi. Il tuo subconscio continuerà a cercare di svegliarti. In tutti i sensi. L’insidia è senza fondo. Fintantoché respiri potrai sempre essere piú spaventato ancora. Però no. Loro erano quel che erano. Qualunque cosa fossero. Non li ho mai visti come soprannaturali. Alla fin fine non c’era niente di cui aver paura. Avevo già imparato che nella mia vita c’erano cose che era meglio non raccontare. Dall’età di sette anni circa non ho mai piú accennato alla sinestesia. Per dire. Pensavo fosse normale e ovviamente non lo era. Per cui ho smesso di parlarne. In ogni caso, sapevo che sarebbe successo qualcosa, solo che non sapevo cosa. La tua vita, che tu la comprenda o no, finirai comunque coll’accettarla. Se temevo i fantasmi non era per la loro essenza o per il loro aspetto ma per quello che avevano in mente. Quello sí che mi era incomprensibile. In realtà l’unica cosa che capivo di loro era che cercavano di dare un volto e un nome a quello che non ne aveva. E naturalmente non mi ispiravano fiducia. Forse dovremmo andare avanti.
Ma vanno e vengono a volontà?
A volontà?
Sí.
Gesú. Non so rispondere a questa domanda. L’unica volontà che sottendono sarebbe tipo la Volontà schopenhaueriana.
Stavo solo cercando di sottolineare che di rado i pazienti sono a loro agio con le allucinazioni. Di solito capiscono che sono la spia di una specie di interruzione della realtà e questo per loro non può che essere ragione di spavento.
Per loro.
Sí.
Be’. Direi che quello che ho capito io è che il nocciolo del mondo dei pazzi consiste nella consapevolezza che c’è un altro mondo e che loro non ne fanno parte. Vedono che poco è richiesto ai loro guardiani e molto a loro.
Secondo lei è vero?
No. Ma secondo loro lo è.
Queste creature che vengono a intrattenerla ma non sono granché brave. A intrattenere. A distrarre. Secondo lei cos’è che starebbero facendo?
Non so cos’è che starebbero facendo. Sono una palla inenarrabile.
Ma un’idea di quel che vogliono ce l’avrà.
Vogliono fare qualcosa col mondo cui lei non ha mai pensato. Vogliono metterlo in dubbio.
E per quale motivo?
Perché loro sono cosí. Sono questo. Se volessi soltanto una conferma del mondo non avresti bisogno di convocare strane creature.
È questo lo scopo dell’intrattenimento? Se cosí possiamo chiamarlo. Sollevare riserve sul mondo?
Perché no?
Cos’altro mi può dire di loro? Hanno un’ombra? Riescono a entrare in una stanza chiusa a chiave?
Non hanno nessun problema a metter su un’apparenza. Non le verrebbe mai in mente di chiedere se in un sogno una figura abbia un’ombra o meno.
No. Immagino di no. Ma lei mi dice che non sono come figure in un sogno.
No. E possiamo presumere che investano una certa energia solo per apparire plausibili. Ma non è altro che una farsa. Un diversivo.
A cosa?
In pratica siamo tornati alla casella di partenza. Suppongo che il primo dovere di un’allucinazione sia effettivamente di apparire reale, ma cercare di emulare una realtà in cui le tue credenziali sono scadute comporta un diverso ordine del giorno. Mettersi in fase con questo nuovo mondo nel migliore dei casi è solo una preparazione.
Le ha chiamate allucinazioni.
Sto solo cercando di assecondarla.
Adesso so che sta scherzando.
Vuole davvero entrare nel merito?
Non so bene nel merito di cosa.
Che a questo mondo la gioia scarseggi non è solo un punto di vista. Ogni gesto benevolo è sospetto. Finché non capisci che il mondo non ha in mente te. Né ti ci ha mai avuto.
La gente perlopiú riesce a trascorrere i giorni che le sono stati assegnati in qualcosa che non sia uno stato di disperazione.
Sí. Loro ci riescono.
Se dovesse dire qualcosa di definitivo sul mondo in una sola frase cosa sarebbe?
Sarebbe questo: Il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere.
Suppongo sia vero. Ma quindi? È tutto qui quel che il mondo ha in mente?
Se il mondo ha una mente allora è anche peggio di quello che pensavamo.
Ce l’ha? Lo è?
Non so se arriveremo a tanto.
In queste consultazioni.
Sí. Torniamo ai giorni assegnati.
D’accordo.
Dubito che ci sia chi rivivrebbe la propria vita. A stento ne rivivrebbero un giorno.
A me vengono in mente giorni che non mi dispiacerebbe rivivere.
Momenti di gioia o di grande acume forse. Ma ventiquattr’ore filate?
Non lo escluderei. Passa molto tempo a pensare alla morte?
Non so quanto sia molto. Contemplare l’idea della morte dovrebbe avere un certo valore filosofico. Addirittura palliativo. Banale dirlo, suppongo, ma il modo migliore per morire bene è vivere bene. Morire per un altro darebbe un senso alla tua morte. Trascurando provvisoriamente il fatto che l’altro morirà comunque.
Non so quante di queste siano frasi a effetto.
Diciamo tutte, va’.
Questa, per esempio. E vivere per gli altri?
Be’. Mettendo da parte gli altri amorfi delle ideologie sociali e limitandoci alle persone reali immagino che sarebbe una cosa abbastanza rara da poterla quantomeno definire nevrosi. Cosa ne dice?
O questa. Nella sua relazione c’è un appunto sul fatto che aveva l’impressione di decomporsi. Mi pare sia la parola che ha usato. Ricorda di aver espresso qualcosa del genere? Sembrerebbe la classica allucinazione somatica. La si ritrova cosí in letteratura. O stava solo prendendo per i fondelli i suoi sorveglianti?
Forse mi stavo semplicemente annoiando.
Be’. La gente si annoia.
Non direi.
Ah no?
No. Non hanno idea di cosa sia la noia.
Be’. Le credo sulla parola. Anche se si dice che l’intelligenza tenga di per sé lontano il tedio.
Credo lo faccia. Fino a un certo punto. Poi i serramenti cedono.
Forse quello che mi preoccupa è che lo scetticismo di questi specialisti – alcuni dei quali a quanto pare hanno finito col rifiutarsi di credere a qualunque cosa lei dicesse – rende arduo per non dire impossibile curarla. Non sanno bene che pesci pigliare con una persona che secondo loro si inventa le cose.
Che si inventa le cose.
Sí.
La solita frase insidiosa.
Sí.
Potrei chiedere per cosa credono di essere pagati. Vogliono spiegare i miei deliri o la mia inclinazione a mentire ma la verità è che non sanno spiegare niente. Pensano che sarebbe piú facile curare una mente delirante o una mente che crede solo di esserlo? Dovrebbe sentire come suona tutto questo. Comunque sia, ormai sono ben oltre le spiegazioni. Ho chiuso.
Si sente al suo posto qui? Alla Stella Maris?
No. Ma questo non risponde alla domanda. L’unica entità sociale di cui io abbia mai fatto parte era il mondo della matematica. Ho sempre saputo che il mio posto era quello. Credevo addirittura che avesse precedenza sull’universo. E lo credo ancora.
Precedenza sull’universo.
Sí.
Non si sta divertendo con me.
Non molto.
Intendevo nel senso di prendermi in giro.
So in che senso intendeva.
Forse mi stupisce solo che possa sentirsi a casa in una struttura psichiatrica.
Non so se sia questione di essere a casa. Forse è solo questione di approfittare della libertà d’azione accordata ai matti.
Con gli altri pazienti ci parla.
Sí. Ovvio.
Crede che le dicano la verità?
Su cosa?
In generale. Su qualsiasi cosa.
Non lo so. No. Però credo che qua dentro siano tutti abbastanza convinti che tutti gli altri siano qui perché devono esserci. Dove altro succede una cosa del genere?
Capisco.
Dovrebbe proprio cercare di smetterla di dirlo.
Vedrò cosa posso fare. I suoi famigli. Non so proprio come chiamarli.
Famigli può andare.
Godono di un certo ascendente? Questo non mi è chiaro. Le dicono cosa fare?
No. L’ascendente di cui godono consiste nel fatto che sanno chi sono io ma io non so chi sono loro.
Direbbe che è soprattutto questo a definire la relazione?
Forse è semplicemente un paradigma della relazione che ciascuno intrattiene col mondo.
Sarebbe a dire che il mondo sa chi siamo noi ma non il contrario. Crede che sia cosí?
No. Penso che la nostra esperienza del mondo sia sostanzialmente un proteggersi dallo sgradevole dato di fatto che il mondo non sa che siamo qui. E no, non so bene cosa voglia dire. Penso che secondo una visione piú spirituale la grazia si trovi nell’anonimato. Raggiungere la notorietà significa spianare la strada al cordoglio e alla disperazione. Lei cosa ne pensa?
Non lo so.
Non è una cosa che la gente domanda. È solo una cosa su cui si interroga: Se il mondo in realtà abbia coscienza di noi. Ma è in buona compagnia. Come domanda. Che ne dice di: Ci meritiamo di esistere? Chi l’ha detto che è un privilegio? L’alternativa all’essere qui è il non essere qui. Ma anche cosí, di fatto vorrebbe dire non essere piú qui. Non possiamo non essere mai stati qui. Non ci sarebbe un noi che non sia esistito. Cosa ne pensa, dottore?
Può chiamarmi Michael se preferisce.
No. Non preferisco.
Ma non le dispiace se io la chiamo Alicia.
No.
Originariamente il suo nome era Alice.
Il senso dell’umorismo di mio padre.
Mi scusi?
Bob ed Alice sono i nomi dei due personaggi nelle domande scientifiche in forma narrativa. L’ho cambiato. All’età di quindici anni.
Il suo nome.
Sí.
Se l’è fatto cambiare legalmente.
Sí.
Non bisognerebbe avere diciott’anni per farlo?
Infatti. Perciò prima ho cambiato il mio certificato di nascita.
E come ha fatto?
Tra gli amici di mio fratello c’era un delinquente di nome John Sheddan che aveva un amico titolare di una tipografia a Morristown Tennessee specializzato in contraffazione di documenti. Ad ogni modo, Alicia mi pareva piú aristocratico.
Voleva essere aristocratica?
Lei sembra davvero Eliza certe volte. Ero Alice Western di Wartburg Tennessee e invece volevo essere una principessa della dinastia Hohenzollern. Magari lo sono. Che bimba furba.
Forse dovremmo andare avanti. Come le piace dire.
D’accordo.
Lungo silenzio. Posso chiederle a cosa sta pensando?
Non sto pensando.
Se sia possibile o meno è questione dibattuta.
Sí, be’. Io mi c’impegno. Naturalmente uno può smettere di parlare tra sé e sé. Ma può farlo soltanto parlando tra sé e sé. Contando i propri respiri o recitando un mantra. Smettere di pensare è piú difficile.
Pensare e parlare sono due cose diverse.
Parlare è solo fare il verbale di quel che si pensa. Non è la cosa in sé. Mentre parlo con lei una parte distinta della mia mente compone quello che sto per dire. Ma non ancora in forma di parole. In che forma quindi? Di sicuro immaginarci che qualche omuncolo ci suggerisca le parole che stiamo per dire non ha nessun senso. Oltre a sollevare lo spettro di un regresso all’infinito – del tipo chi suggerisce al suggeritore – solleva la questione di un linguaggio del pensiero. Che rientra nel piú generico enigma del come avvenga il passaggio dalla mente al mondo. Cento miliardi di eventi sinaptici che ticchettano nel buio come cieche signore sferruzzanti. Quando uno dice: Mettiamola cosí, qual è il cosí che intende mettere? Forse dovremmo andare avanti. Come lei dice che mi piace dire.
Cosa cambierebbe se potesse cambiare una cosa?
Una cosa.
Sí.
Sceglierei di non essere qui.
In questa consultazione.
Su questo pianeta.
L’hanno già messa sotto sorveglianza per rischio suicidario. È un problema serio?
È un problema serio il suicidio?
No. Intendo se pensa di essere a rischio.
So cosa intendeva. Forse finché uno ci pensa è fuori pericolo. Dal momento che hai preso la decisione non c’è piú niente a cui pensare.
E lei di questo percorso a che punto è?
Preferirei non finire sotto sorveglianza.
Preferirei anch’io.
Se potessero sparire con uno schiocco di dita quante persone lo farebbero? Secondo lei. Ogni traccia dell’esistere e anche dell’essere esistiti.
Non lo so. A mio parere meno di quanto lei creda.
Desiderare di non essere mai esistiti. Di nuovo, non è lo stesso che non esistere piú. Chi era? Anassimandro? Lo stesso per chi?
Non ne ho idea.
Si deve fare i conti col fatto che all’ultimo sospiro il morente finisce non solo coll’accettare ma con il votarsi alla morte. Che si deve produrre una qualche epifania che perfino ai piú ottusi e ai piú illusi di noi consenta di accettare quanto è non solo inaccettabile ma anche inimmaginabile. L’assoluto capolinea del mondo. Mondo che nemmeno per un istante si soffermerà a chiedersi cosa ne sia stato di noi.
E il fatto che sia una cosa comune non è di nessun sollievo immagino.
Be’. Suppongo che si possa ricondurre i morti a qualche tipo di comunità. Anche se non assomiglia molto a una comunità dico bene? Sconosciuti gli uni agli altri e in breve tempo a chicchessia. Comunque. È solo che essere ipso cazzo facto dichiarato malato di mente e bisognoso di cure perché conduci una vita intellettuale in contrasto con quella del resto della popolazione a me sembra grottesco. La malattia mentale si distingue dalla malattia fisica in quanto a causare la malattia mentale è sempre e soltanto l’informazione.
L’informazione.
Sí. Qui il presupposto è sapere lo stretto necessario. L’evoluzione non prevede un meccanismo per informarci dell’esistenza di fenomeni che non impattano sulla nostra sopravvivenza. Di ciò di cui qui non sappiamo niente non sappiamo niente. Lo crediamo solo.
Sarebbe a dire il soprannaturale?
Direi semplicemente il di cui.
Il di cui.
Il di cui non si può parlare.
Wittgenstein.
Molto bene. Finirà coll’essere a corto di molliche di pane.
I famigli. Adesso che hanno preso licenza si sente sollevata?
Dio solo lo sa. Lei forse si immagina che sia sempre stato in mio potere licenziarli. O addirittura che fossero qui su mio invito. E anche se fosse chissà se lo saprei.
Perché no?
Forse perché invitare a casa delle chimere è una faccenda un po’ piú complessa che non invitare i vicini per un tè. O invitarli ad andarsene. Certo, dopo essersi sentiti chiedere di andarsene i vicini sanno che non torneranno piú. Il che gli concede una maggior libertà di scappare con l’argenteria. Con cosa può scappare una chimera? Non lo so. Cos’ha portato? Cos’ha portato che potrebbe benissimo dimenticare? Il fatto che potrebbe essere fatta di vapore non significa che quando se ne va da casa tua sarà la stessa di prima.
Ha mai chiamato Talidomide Kid il Talidomide Kid davanti a lui?
Sí. Una volta.
E lui cos’ha detto?
Ha detto: Gesú, Jessica. Se non esistessi bisognerebbe inventarti.
Ha detto veramente cosí?
Ha detto veramente cosí.
Rapporti con la famiglia ne ha ancora?
Ho soltanto mia nonna.
Non aveva uno zio?
Sí. Ma o è piú pazzo di me o non lo sono manco io. Mi sa che a mia nonna toccherà metterlo al ricovero. Ultimamente ha cominciato a defecare in posti strani e difficili da individuare. Non si sa come è riuscito a cacare nella plafoniera della cucina. Per dire. Con lei parlo al telefono. Anche se di rado. Lei lo considera uno spreco. È cresciuta nel Tennessee dove all’epoca il telefono ce l’avevano solo i ricchi. Ho dei parenti da parte di mio padre in Rhode Island ma non li conosco quasi.
Come mai?
Secondo loro mio padre aveva fatto un matrimonio non alla sua altezza. Secondo loro eravamo un branco di bifolchi.
E questo la indispone?
No. Sono un branco di imbecilli del cazzo. Mi sa che quindi mi indispone, giusto? Non lo so. Non penso mai a loro.
Quando ha visto sua nonna l’ultima volta?
Circa tre mesi fa.
Ha intenzione di rivederla?
La prende alla larga, eh?
Mi chiedevo solo se le fosse affezionata.
Molto. Ho perso mia madre quando avevo dodici anni e lei ha perso sua figlia. Un cordoglio comune dovrebbe unire le persone ma in me lei aveva già cominciato a vedere qualcosa per cui non aveva un nome. Di certo non sapeva che la parola prodigio deriva dalla parola mostro in latino. Ma i trucchetti mentali cui ricorrevo da bambina avevano smesso di essere carini. Le volevo bene. A volte però la sorprendevo a guardarmi in un modo abbastanza inquietante. Ero una tale rompicoglioni che a scuola le suore mi facevano saltare le classi. Non ho manco finito gli ultimi due anni di elementari. Avevo praticamente smesso di dormire. Camminavo per la strada a qualsiasi ora della notte. Era solo una strada asfaltata di campagna a due corsie e non ci passava mai nessuno. Una notte sono rientrata e in cucina la luce era accesa. Erano circa le tre del mattino e quando ho risalito il vialetto lei era in piedi sulla porta della cucina. Prima che arrivassi alla casa si è voltata ed è tornata di sopra. Sapevo che era forse una delle ultime possibilità che avevamo di parlare veramente e ho avuto la tentazione di chiamarla ma non l’ho fatto. Pensavo che forse quando sarei stata un po’ piú grande le cose sarebbero cambiate. Pensavo a lei e alla sua vita. Ai sogni che doveva aver sognato per sua figlia e a quelli che invece le erano toccati. So di aver pianto per lei piú di quanto lei abbia mai pianto per me. E so che voleva bene a Bobby piú di quanto ne avrebbe mai voluto a me ma andava bene cosí. Non le volevo meno bene per questo. Di lei sapevo cose che non avrei dovuto sapere. Ciononostante pensavo che se tua nipote dodicenne se ne va in giro per le strade alle tre del mattino probabilmente dovresti farla sedere e parlargliene. E sapevo che lei non ci riusciva.
Perché non ci riusciva? Non sono sicuro di capire.
Non so cosa dirle. Mettiamola cosí. Immagino che la spiegazione piú semplice sia che sapeva che le notizie sarebbero state cattive e non voleva sentirle. Dire che avesse paura di me mi pare un po’ forte. Ma forse no. Immagino anche che avesse paura che per quanto le cose sembrassero gravi probabilmente erano anche peggio. E naturalmente aveva ragione.
Ed è stata lei a crescerla dopo la morte di sua madre.
Sí.
Quanti anni aveva suo fratello? All’epoca.
Diciannove.
Suo padre era ancora vivo.
Sí.
Ma non lo vedeva granché.
No.
È venuto al funerale di sua madre?
No.
Davvero?
Davvero.
E questo l’ha fatta star male?
No. Non ci sono andata neanch’io.
Non è andata al funerale di sua madre?
No.
Cos’hanno detto i parenti? Suo fratello ci è andato?
Sí. Ovvio. Io avevo dodici anni. Stavo attraversando una crisi religiosa. Non mi andava di sorbirmi una messa solenne con la bara di mia madre nella navata centrale. Non avrei potuto.
Suo fratello cos’ha detto?
Mi ha dato un bacio sulla guancia e ha sussurrato che mi voleva bene e che andava bene cosí. Dopodiché cosí è stato.
Dopodiché cosí è stato.
Sí. Guardi. È un disco rotto. Sto facendo tutto questo per lei, non per me. Mi hanno dato una lettera da consegnare e mi hanno detto di non leggerla. E io l’ho letta. E non posso tornare indietro. Tempo scaduto.
Oh. Sí. Certo.
II.
Come andiamo?
Tutto okay.
Mi è mancata la settimana scorsa.
Sí, be’. Sa com’è. Avevo da fare.
Aveva da fare.
Sto scherzando.
Bene.
Bene.
E quindi cosa le ha occupato i pensieri?
Non lo so. Che tipo è sua moglie?
Mia moglie.
Sí.
È italiana. Che tipo è?
Sí.
È una bella donna. Le piace Bach. Le piace la cucina italiana. Lavora con i bambini sordi.
È una brava cuoca?
Sí.
Non è ebrea.
È ebrea.
È simpatica.
Molto simpatica.
Qualcosa che non mi sta dicendo.
Siamo stati divorziati. Per tre anni. Poi ci siamo risposati.
La trattava male.
Sí. Male.
Perché lo faceva?
Perché ero un idiota.
È quello che ha detto Oppenheimer. Durante l’udienza.
Come candidato all’idiozia mi sembra curioso.
Penso sia per questo che l’affermazione è memorabile. Gente che conosceva Einstein, Dirac, von Neumann, diceva che fosse l’uomo piú intelligente che avesse mai conosciuto.
Oppenheimer.
Sí.
Immagino che suo padre lo conoscesse.
Mio padre lavorava per lui.
Qual era il suo parere?
Su Oppenheimer.
Sí.
Lo trovava interessante, affascinante, erudito. Un ospite eccellente. Un filo spaventoso.
Spaventoso?
Sí.
In che senso?
Pensava che l’intelligenza di Oppenheimer non fosse del tutto sotto controllo. Lo riteneva capace di prendere decisioni sbagliate.
Lo era?
Sí.
Ma non sataniche.
Non mi spingerei a tanto.
Immagino che Satana non rientri nella sua visione del mondo. Anche se nell’ordine delle cose sembra ammettere qualcosa che si avvicina molto al male. Ha accennato al commento di Chesterton.
Be’. Non ho mai visto Satana. Il che non significa che non possa farsi vivo. Quelli su cui Chesterton non commenta sono gli interessi singolarmente materiali di Dio. Se sei un essere spirituale dalla testa ai piedi perché mai dovresti gingillarti col materiale? Nel giorno del giudizio i corpi si sollevano? Cosa vuol dire? Le anime sono disincarnate, non prive di corpo? Cristo presumibilmente sale in cielo come essere corporeo. Ingombrando la divinità con una cosa cui fino a quel momento non aveva dovuto far fronte. Difficile sapere come prendere una simile follia. Capirà perché Chesterton se ne teneva alla larga.
Questo rientrava nella crisi spirituale di cui mi ha parlato?
È solo un commentario. La natura spirituale della realtà è da sempre la principale preoccupazione del genere umano ed è ben lungi dallo smettere di esserlo. L’idea che tutto sia soltanto materia a quanto pare non ci sta bene.
A lei sta bene?
Eccolo qui l’ostacolo, eh?
È cresciuta a Los Alamos.
Sí. Abbiamo vissuto lí fino alla morte di mia madre. Cioè. In realtà lei è morta nel Tennessee.
Se la ricorda Los Alamos?
Sí. Ovvio.
Quanti anni aveva quando è andata via?
Undici.
Undici.
Sí.
E com’era?
Los Alamos.
Sí.
Durante la guerra credo fosse piuttosto incivile. Pare che ci fossero ottomila estintori e cinque vasche da bagno. Io ricordo soprattutto la gente a casa nostra a parlare fino alle tre del mattino.
Lei rimaneva sveglia fino alle tre del mattino.
Sí. La casa odorava di profumo e sigarette. Si sentiva il tintinnio dei bicchieri. Io me ne stavo distesa ad ascoltare finché l’ultimo ospite non se ne andava via.
Non poteva capire di cosa parlassero.
Quello che capivo era che dovevo scoprire di cosa parlavano.
Ricorda i suoi primi pensieri?
Non avevo altro.
Non sono sicuro di capire.
Ho capito che ero in un posto dove sarei rimasta a lungo e che dovevo decifrarlo. Che tutto dipendeva dal fatto che scoprissi dov’ero. Non che pensassi che ci potesse essere un altro posto in cui stare. Che il mondo fosse un assoluto mi era ben chiaro. Ma dovevo sapere cos’era.
Era mossa dalla paura?
Sí.
Che rapidità.
I bambini sono creature paurose.
Quanti anni aveva quando ha scoperto la matematica?
Direi piú di quanti ne ha la memoria. Inizialmente mi sono dedicata alla musica. Ero perfettamente intonata. Lo sono tuttora. Piú tardi suppongo di essere arrivata a vedere il mondo come assai impermeabile a qualsiasi descrizione esaustiva ne venga data. Ma la musica sembrava sempre fare eccezione a tutto. Sembrava inviolabile. Autonoma. Completamente autoreferenziale e coerente in ogni sua parte. Volendola descrivere come qualcosa di trascendente potremmo parlare di trascendenza ma dubito che andremmo lontano. Ero profondamente sinestesica e pensavo che se la musica aveva una realtà intrinseca – colore e sapore – che solo poche persone erano in grado di cogliere, magari aveva altri attributi ancora da individuare. Il fatto che fossero cose soggettive non le bollava in nessun modo come immaginarie. Potrei fare di meglio, vero?
La sto ascoltando.
Se stirassi – per cosí dire – un brano musicale, mentre il suono scema il colore sbiadirebbe. Non so proprio cosa dedurne.
Quindi la musica da dove viene?
Nessuno lo sa. Una teoria platonica della musica non fa che confondere le acque. La musica è fatta di niente se non un pugno di regole alquanto semplici. D’altra parte è vero che non le ha inventate nessuno. Le regole. Le note stesse non corrispondono praticamente a niente. Ma come mai una disposizione particolare di queste note possa influenzare cosí profondamente le nostre emozioni resta un mistero che va addirittura oltre ogni speranza di comprensione. La musica non è un linguaggio. Non allude a niente se non a se stessa. Se vuoi chiama pure le note con le lettere dell’alfabeto ma non cambia. Per quanto curioso possa sembrare, non sono astrazioni. Cosí come la conosciamo la musica è completa? In che senso? Esistono categorie quali maggiore e minore che dobbiamo ancora scoprire? Sembra poco probabile, vero? Eppure molte cose sono improbabili finché non appaiono. E cosa esprimono queste categorie? Da dove sono uscite? Che cosa significa che sono di due diverse sfumature di blu? Ai miei occhi. Se la musica era qui prima di noi, per chi lo era? Da qualche parte Schopenhauer dice che se l’intero universo svanisse l’unica cosa che rimarrebbe sarebbe la musica.
Piuttosto ardito. Lo credeva davvero?
Probabilmente no.
E lei?
Penso che stesse solo cercando di stabilirne il primato. Della musica. In quanto fenomeno trascendente forse? Una cosa che può esistere senza bisogno d’altro?
Può qualcosa esistere senza bisogno d’altro?
A rigor di logica no. Se lo spazio contenesse una sola entità tale entità non esisterebbe. Non esisterebbe niente che ne giustifichi l’esistenza.
Non capisco.
Non importa. Fatto sta che questo è un mondo classico.
Tutto ciò la preoccupa da quando?
Non lo so. Non so bene cosa significhi memoria. Per cominciare. Uno dei problemi è che ogni ricordo è il ricordo di un ricordo precedente. Impossibile ricordare la circostanza che ha occasionato il ricordo effettivo. Come si fa? Si può solo ricordare di averlo ricordato. E solo il ricordo piú recente, tra l’altro.
Non so se la seguo.
Quando sono arrivata al liceo il primo posto in cui sono andata è stata la biblioteca. Era un semplice stanzino con uno sportello e forse un migliaio di libri. Forse nemmeno. Ma tra i volumi c’era un libro di Berkeley. Non so cosa ci facesse lí. Probabilmente è perché Berkeley era un vescovo. Sí. È quasi certamente per questo. Fatto sta che mi sono seduta per terra e ho letto Saggio su una nuova teoria della visione. E mi ha cambiato la vita. Per la prima volta ho capito che il mondo visivo è nella nostra testa. Il mondo intero, in realtà. Non mi sono lasciata prendere dalle sue speculazioni teologiche ma la fisiologia era inconfutabile. Sono rimasta lí per un bel pezzo. Ad assimilare quello che leggevo. Era difficile aggirare l’idea che il mondo visivo sia la creazione di esseri provvisti di occhi con cui farlo. Non creato dal nulla ma da quel qualcosa la cui realtà oggettiva è per sempre inconoscibile. Kant. E non è che si possa accertare la realtà del mondo visivo allungando una mano e toccandola. Per dire. Come potrebbe avere una realtà antitetica? Se fossimo dotati di sensi che sono in disaccordo tra loro non saremmo nemmeno qui.
Mi sa che dovrò pensarci su. Intanto devo attirare la sua attenzione sul fatto che altri giungono alla stessa conclusione riguardo al luogo in cui il mondo visivo accade – nella corteccia visiva e non là fuori nel mondo – senza per questo perdere la realtà del mondo.
Non è stato cosí semplice. Quello a cui ha aperto la porta era un mondo rimasto in attesa dietro le quinte per dieci milioni di anni. Quando mi sono alzata dal pavimento della biblioteca ero un’altra persona.
Ha la sensazione di essere sola al mondo?
Sí. Lei no?
No. Io no. Questi intrattenitori che hanno cominciato a comparire nella sua stanza. Appartenevano a questo mondo?
Non lo so. Una teoria è che il loro intento fosse piú che altro di sviarlo, quel mondo.
Una teoria?
Esatto.
Cos’altro?
Da dove cominciare.
Dal principio.
In principio era il verbo.
Ma lei non ci crede.
Una delle cose di cui ho preso coscienza è che l’universo è evoluto per miliardi e miliardi di anni nell’oscurità e nel silenzio assoluti e che il modo in cui lo immaginiamo non corrisponde a quello che è. In principio c’è sempre stato il nulla. Le novae che esplodevano in silenzio. Nell’oscurità assoluta. Le stelle, le comete fugaci. Nel migliore dei casi tutto di un’esistenza ipotetica. Fuochi neri. Come i fuochi dell’inferno. Silenzio. Nulla. Notte. Soli neri a guidare i pianeti in un universo dove il concetto di spazio era privo di senso per mancanza di una fine. Per mancanza di una nozione cui contrapporlo. E di nuovo la questione della natura di quella realtà che non aveva testimoni. Tutto questo finché la prima creatura vivente dotata di vista ha acconsentito a che l’universo si imprimesse sul suo apparato sensorio primitivo e tremulo e poi a corredarlo con colore e movimento e memoria. Ha fatto di me una solipsista dalla sera alla mattina e in qualche misura lo sono ancora.
Quanti anni aveva?
Dodici.
Non si è mai diplomata.
No. Ho ottenuto una borsa di studio per l’Università di Chicago e ho fatto i bagagli e sono partita. Oggi mi stupisco della mia tranquillità. Mia nonna mi ha accompagnato in macchina alla stazione dei Greyhound a Knoxville. Piangeva e dopo che l’autobus è partito ho messo a fuoco che doveva aver pensato che non mi avrebbe rivista mai piú.
Ha l’aria triste mentre lo dice.
Sono triste mentre lo dico.
Al liceo aveva degli amici?
Un paio. Ragazzini a cui nessun altro faceva caso.
Desiderava degli amici?
Sí. Solo che non sapevo come procurarmeli. Pensavo che magari quando sarei approdata all’università quella sarebbe stata la mia finestra.
Lo è stata?
Qualche amicizia me la sono fatta. Comunque non ero granché socievole. Non ci ero portata. Non mi piacevano le feste e non mi piaceva essere baccagliata.
Baccagliata. Cioè corteggiata?
Sí.
Le interessavano i ragazzi?
Mi interessava un ragazzo. Ma la cosa non era reciproca.
Perché? Non era gay.
No. Il problema era di altra natura.
Era piú vecchio.
Erano tutti piú vecchi. Non era questo il punto.
Qual era il punto.
Qualcos’altro.
Okay. Che ne è stato dei suoi famigli quando è arrivata all’università?
Si sono fatti vivi circa due settimane dopo. Sono venuti in autobus.
Crede davvero che siano venuti in autobus?
Se credo davvero che siano venuti in autobus.
D’accordo. Ha mai parlato al Kid di questi problemi?
Gliene ho parlato.
Se capisco bene senza arrivare a nessuna conclusione.
No.
Immagino che non esista conclusione. Considera il Kid un amico?
Alla fin fine era praticamente l’unico amico che avevo. Poi non ne ho piú avuti. Ma il giorno in cui ho preso coscienza del fatto che se il Kid non ci fosse piú stato ne avrei sentito la mancanza sono rimasta sconvolta. Cosa sta scrivendo?
Solo un appunto per me. Posso?
Certo. Passare a prendere il latte. Chiamare mamma.
Vuole vederlo?
No.
Sicura? Non mi dà nessun fastidio.
Sicura.
Lei pensa che a volte non ascolto.
Penso che ascolta. Non sono sicura di cosa sente.
Ha degli amici qui. Alla Stella Maris. Che mi dice di loro?
Sí, be’. A volte scelgo qualcuno nella sala ricreazione e mi siedo e attacco a parlarci.
E loro cosa dicono?
Di solito niente. Ma a volte iniziano a parlare di quello che gli passa per la testa e nel bel mezzo della loro disquisizione accennano a qualcosa che ho detto io. Un po’ come quando incorpori i rumori della notte nel sogno che stai facendo. E devo dire che vedere i miei pensieri inseriti nel loro monologo può essere un tantino inquietante. Vorrei sentirmi al mio posto ma non è cosí. E loro lo sanno. Recentemente una dozzina di psichiatri si sono fatti ricoverare in vari istituti di salute mentale. Era un esperimento. Hanno detto soltanto che sentivano delle voci e gli hanno immediatamente diagnosticato una personalità schizoide. Ma gli altri ospiti hanno scoperto il trucco. Li hanno esaminati e gli hanno detto che non erano pazzi. Che erano dei reporter o qualcosa del genere. Poi hanno semplicemente preso le distanze.
Le piacerebbe sentirsi al suo posto?
Non sono qui per fare un esperimento. Posso girarla come mi pare ma alla fin fine qua sto.
Lo trovo un commento piuttosto strano.
Sono una ragazza piuttosto strana. Riascolti il nastro. Lo sentirà con un altro orecchio.
Quanto è consapevole di essere estremamente bella?
Sta cercando di fottermi, dottore?
No. Non ho mai avuto una relazione con una paziente. Comunque, l’infedeltà per me appartiene al passato. Ci sono molti terapeuti che hanno cercato di sedurla?
Direi che sedurre sarebbe una descrizione piuttosto fantasiosa dei loro tentativi.
C’è qualcuno che ha cercato di violentarla?
Sí. Uno.
Lei cos’ha fatto?
Gli ho detto che mio fratello sarebbe venuto ad ammazzarlo. Che era solo questione di ore.
È vera? La storia di suo fratello?
Sí.
Senza esitazioni.
Senza esitazioni.
Berkeley. Leggerlo ha rafforzato il suo scetticismo riguardo alla realtà?
Non so bene cosa voglia dire.
Sempre che voglia dire.
Sempre che. Mi ha spinta a interrogarmi sulla mia concezione di realtà, sí. Ma mi ha anche reso piú credibile la storia filosofica della ricerca. Ha reso l’epistemologia una disciplina legittima. Credo che mi abbia perfino permesso di vedere il dolo dei quesiti che essa stessa ha generato.
L’oggetto è sempre la realtà.
Sostanzialmente.
È conoscibile?
Oggesú.
Come non detto. Cos’è che non sappiamo che lei vorrebbe sapessimo?
Intende a parte i vecchi standard che non hanno risposte?
Chi siamo, perché siamo qui, perché c’è qualcosa anziché niente.
Sí.
Vuole provare con una di queste? Qualcosa anziché niente, magari?
Il concetto di niente è un concetto inconcepibile.
Studia ancora la fisica?
No.
Cos’è un gluone?
Un concetto concepibile.
È una forza o una particella?
Una particella. Anche se a quella scala di grandezza la distinzione non è cosí netta.
Che cosa fa?
Trasporta informazioni da un quark all’altro. Non è cosí complicato. Un atomo si compone di particelle piú piccole. I nucleoni. E queste particelle si compongono di quark. In genere tre. I quark hanno nomi stupidi. Quark top e quark bottom. Quark up e quark down. Un protone è fatto di due quark up e un quark down. Un neutrone è fatto di due quark down e un quark up. E via dicendo. Funziona alla perfezione. Nessuno sa bene perché. Ma è il gluone a mantenere informate le particelle.
Perché la meccanica quantistica si chiama meccanica quantistica?
Perché spiega i meccanismi. Per i fisici l’accento è su quantistica. Poiché specifica di che tipo di meccanica si tratta. Non è meccanica quantistica.
D’accordo.
Ha l’aria dubbiosa.
No. La seguo. Perché è cosí strana? A quel che si dice.
Nessuno lo sa.
In che modo è strana voglio dire.
Eh. Ci sono parecchie cose che si possono dire. Feynman sostiene che tutta la stranezza dei quanti è già presente nell’esperimento della doppia fenditura. E probabilmente ha ragione. Come al solito. L’esperimento, ripetuto ad quel che è, dimostra che una singola particella può passare attraverso due aperture contemporaneamente.
Lei ci crede?
Con tutta me stessa.
E questo rientra nella meccanica quantistica.
Sí.
Una teoria fisica ben congegnata.
Sí. È la teoria fisica piú fortunata che sia mai stata concepita. La teoria delle piccole particelle. Dagli atomi in giú. O cosí è comunemente considerata. Ma potrebbe anche essere solo cattiva matematica. Alcuni fisici sospettano che alla fine la teoria dovrà approdare all’idea che l’universo stesso è un fenomeno quantistico. Che in ultima analisi quello che la meccanica quantistica descrive è l’universo.
Lo sospetta anche lei?
Sí. Sono tra i sospettosi.
Cos’altro.
Cos’altro?
C’è di strano.
Gli esperimenti, gedanken o reali, sembrano richiedere un coinvolgimento attivo. Senza la nostra presenza non funzionano. L’amara verità è che a parte la teoria sui cammini di Feynman non c’è nessuna spiegazione plausibile della meccanica quantistica che non implichi la coscienza umana. Questo naturalmente solleva la questione del come abbia fatto a cavarsela senza di noi prima che venissimo inventati. Ma non è cosí semplice. A mio parere quel che si vuole sottolineare è che la coscienza umana e la realtà non sono la stessa cosa. E questo lo sappiamo da un pezzo. Anche se su Kant non siamo cosí sicuri. Nella fattispecie. Comunque, non si può ignorare la dimostrazione fornita dagli esperimenti. Dalle due fenditure su su fino a tutte quelle strane manovre con i magneti di Stern-Gerlach nelle quali scienziati tutt’altro che stupidi si scoprono incapaci di avere la meglio su una particella di sodio. In certi ambienti è convinzione comune che queste ricerche altro non siano che filosofia. La risposta comune a questi signori è di chiudere il becco e calcolare.
Lei non è tra quelli.
No. Tutti questi calcoli producono delle equazioni differenziali alle derivate parziali. La verità dell’universo sta all’altro capo di quelle equazioni.
I fisici di questo cosa dicono?
Niente di che. Perlopiú alzano gli occhi al cielo. Non sono tipi kantiani. Il problema con l’assoluto inconoscibile è che se si potesse dirne qualcosa non sarebbe piú l’assoluto inconoscibile. Si può passare dal noumenico al fenomenico stando comodamente seduti in poltrona. In altre parole, niente può essere estratto dall’assoluto senza essere reso percettivo. Tenendo presente che attribuire realtà all’inconoscibile è già glossolalia. Il guaio con il mondo perfetto e oggettivo – di Kant o di chiunque altro – è che è inconoscibile per definizione. Anche se amo la fisica io non la confondo con la realtà assoluta. È la nostra realtà. I concetti matematici hanno una durata a scaffale considerevole. Esistono nell’assoluto? È possibile? Mi sono chiesta. Ma poi la me che se l’è chiesto è diventata un’altra. Com’è giusto. E si è portata via la matematica. Il concetto. Un lungo periodo di incertezza. Quando sono tornata a connettere ero da un’altra parte. Quasi mi fossi sottratta al mio stesso cono luce. Fuggita in quello che un tempo chiamavano l’altrove assoluto.
Non capisco.
Lo so. Nemmeno io. È solo che allora credevo non si potesse cavare qualcosa dall’assoluto senza cavarlo dall’assoluto. Senza convertirlo in qualcosa di fenomenologico. Facendolo cosí diventare una nostra proprietà tutta ricoperta dalle nostre impronte digitali e a quel punto l’assoluto si è volatilizzato. Adesso non sono piú cosí convinta.
Possiamo parlare del Kid?
Certo. E che cazzo.
Ho toccato un nervo scoperto.
Non proprio. Mi andava di essere volgare, tutto qua.
Che aspetto ha?
Un metro di altezza. Faccia strana. Tutto un aspetto strano, immagino. Età indefinita. Calvizie incipiente se non conclamata. E poi ha queste pinne. Peserà una ventina di chili. Sta sorridendo.
Me lo figuravo mentre sale sulla barca di Caronte.
Sí. Ci ho pensato anch’io. Dante non ci pensa finché non sale sulla barca a sua volta e la sente assestarsi.
Non lo sapevo.
Sí be’. Scusi per il cazzo.
Non ci formalizzeremo. Come fa a sapere che è alto un metro?
L’ho misurato.
È riuscita a farlo star fermo?
No. L’ho misurato nel modo con cui Talete misurò le piramidi. Mi sono appuntata la lunghezza della sua ombra sul tappeto e l’ho raffrontata con la lunghezza della mia e le lunghezze relative delle nostre ombre equivalevano alle nostre rispettive altezze.
Perché voleva conoscere la sua altezza esatta?
Credo che volessi solo sapere se ne aveva una.
Cos’altro?
Non ha le sopracciglia. Sembra un po’ deturpato. Forse ustionato. Il cranio è coperto di cicatrici. Come se avesse avuto un incidente. O una nascita difficile. Qualunque cosa significhi. Porta una specie di kimono. E fa continuamente su e giú. Con le pinne dietro la schiena. Un po’ come un pattinatore su ghiaccio. Parla ininterrottamente e ricorre a frasi idiomatiche che sono certa non capisca. Quasi avesse trovato la lingua da qualche parte e non sapesse bene cosa farci. Ciononostante – o forse proprio per questo – ogni tanto dice cose abbastanza straordinarie. Ma è tutt’altro che una figura onirica. È coerente in ogni dettaglio. È perfetto. Una persona perfetta.
Personaggio. Mi pare che l’abbia chiamato.
E personaggio sia.
Andando indietro di qualche anno. Il fatto che il Thorazine ha interrotto le visite di questi famigli. Non le suggerisce qualcosa sulla natura della loro realtà?
O sulla mia capacità di percepirla.
Be’. Suppongo si possa dire cosí.
Suppongo si possa. Qualcuno l’ha appena fatto. I farmaci alterano la percezione. Per conformarsi a cosa? Un tempo sulla faccenda avevo convinzioni ben piú solide. Ma le nostre convinzioni circa la natura della realtà devono anche rispecchiare i limiti con cui la percepiamo. E poi ho semplicemente smesso di preoccuparmene. Ho accettato il fatto che sarei morta senza veramente sapere dov’ero stata e andava bene cosí. Insomma. Quasi. Ho detto a Leonard che nel migliore dei casi la realtà è un’intuizione collettiva. Ma era solo una battuta rubata a una cabarettista.
Leonard?
È un amico di qui.
E ha riso?
No. L’ha presa molto sul serio.
Il Kid una volta le ha detto che potevano vederlo anche altre persone? Sbaglio o mi ha detto cosí?
Alcune altre persone.
Cosa pensa che significhi?
Non lo so. È lei lo psichiatra.
Non lo rivedrà piú. Il Kid.
La sta di nuovo prendendo alla larga.
Però gli ha detto addio.
Sí.
E lui cos’ha detto?
Niente di che. Voleva sapere se mi sarebbe mancato.
Se le sarebbe mancato.
Sí. Mi ha recitato una poesia. Il che mi ha sorpresa. Non so cosa significhi.
Si ricorda come faceva?
Sí. Una parola dopo l’altra.
Intendevo se si ricorda la poesia.
Lo so cosa intendeva.
Forse dovrei limitarmi a chiederle se le va di dirmela.
No. Non mi va.
D’accordo. Quindi l’idea del Kid come una specie di djinn maligno – condivisa se capisco bene dalla maggior parte dei suoi terapeuti – non corrisponde alla sua visione. O forse lei direbbe che semplicemente non è il punto.
Non è il punto. No.
Ma invece potrebbe dirmi come lo vede lei?
Direi che il modo in cui lo vedo io è il punto. O no?
D’accordo.
Lei in realtà non mi sta chiedendo del Kid. Mi sta chiedendo di me. E quello che vuole sapere io non sono in grado di dirglielo. E anche se lo fossi probabilmente non glielo direi.
D’accordo. Mi scusi.
Di che. Lei conosce il Tractatus? Sapeva da dove veniva il di cui.
Gli ho dato un’occhiata. Non ci ho capito granché.
Quanto al Kid, penso che stesse solo facendo del suo meglio. Come chiunque altro.
Lei lo considera benigno?
Se lo considero benigno è perché so cos’altro c’è là fuori.
Mentre io – per esempio – è probabile che non me ne renda conto.
Diciamo soltanto che mi stupirebbe.
Cosa pensa delle persone? Cosí, in generale.
Aspetti, è una domanda?
Perché no?
Direi che cerco di evitarlo. Di pensare a loro.
Davvero?
No. Penso che il mio cuore sia pieno d’amore. Solo che questo amore si manifesta sotto forma di pietà. Io immagino di avere visto l’orrore del mondo pur sapendo che non è vero. Ma non possiamo cancellare quello che abbiamo visto. Non c’è mai stato un secolo altrettanto feroce di questo. C’è qualcuno che pensa seriamente che non ne vedremo altri? E però cosa possono significare i problemi del mondo per una che non è in grado di farsi carico dei suoi?
A volte tutto?
Sí. Credo che potrebbe avere ragione.
Mi dispiace. Non era mia intenzione turbarla.
Non sono turbata. Lei non ha ancora visto niente.
Forse dovremmo fare una pausa.
Okay.
Sta bene?
Tutto okay.
Abbiamo ancora venti minuti.
Lo so. Spari.
Cos’è che le piace fare? Cosa la diverte?
Questa sembra uscita dal manuale. Qual è la risposta piú strana che ha ricevuto?
Non sono sicuro di saperle rispondere. Ma i pazienti ti sorprendono sempre.
Sorprenderebbero Krafft-Ebing?
Intendevo in senso positivo. A volte hanno interessi piuttosto sofisticati. Anche se devo dire che spesso hanno la tendenza ad abbandonare quello che amano per quello che li rende infelici. Il suo principale interesse a parte la matematica direi che era la musica.
Sí.
Era una brava violinista?
Abbastanza. Ma non avrei mai potuto essere una concertista.
Non era cosí brava.
Non mi esercitavo. A volte non suonavo per settimane di fila. E non puoi permettertelo.
Non era cosí interessata.
No. Adoravo il violino. Ma piú ancora adoravo la matematica. Credo di averci passato ventimila ore, sulla matematica.
Sono un sacco di ore.
Sí.
Si ricorda tutto?
Sí. Non puoi fare altrimenti.
Cos’altro.
Non lo so. Scelga qualcosa dalla sua lista.
Crede che la sua relazione con sua madre potrebbe avere avuto qualcosa a che fare con tutto questo?
Sta facendo una battuta da Eliza.
Sí. Comunque, era da un po’ che volevo chiederle il suo parere sugli psichiatri. Leggi quanto è negativo.
È sulla lista?
Perché non dovrebbe?
Ho sempre pensato che per voler fare psichiatria uno debba essere un po’ instabile di suo. Se la tua visione dei pazzi è troppo clinica parti svantaggiato. D’altro canto non basta essere fuori di testa.
L’ha sempre pensato.
Sí.
E adesso?
A cosa serve?
Probabilmente li conosce meglio di me.
Non lo so. Direi che non me la vedo a bazzicare un branco di strizzacervelli. Dopodiché non ho idea di chi bazzichi.
Penso di poter dire che trovo i pazienti piú interessanti dei medici.
Anch’io.
Per lei quello che facciamo non è scienza.
No. I dottori le neuroscienze hanno tutta l’aria di evitarle. Vagano per le scissure armati di lanterna e portablocco. Non è difficile capire perché. Se una psicosi fosse solo una faccenda di sinapsi inceppate non dovresti avere semplicemente un’interferenza? Invece no. Ti ritrovi un mondo mai visto prima accuratamente confezionato e abbastanza eloquente. Chi è il responsabile? Chi è che corre di qua e di là a collegare i cavi penzolanti in modi nuovi e inusuali. Perché lo fa? Che algoritmo segue? Perché sospettiamo che ne esista uno?
Non ne ho idea.
I dottori non sembrano tener conto della cura con cui è assemblato il mondo dei matti. Un mondo che sono convinti di indagare mentre ovviamente non lo fanno. L’alienista percorre i contorni della pazzia come il prete quelli del peccato. Fermo sulla soglia del proprio mandato. A studiare con una smorfia una realtà che non sussiste. Alien nazione. Formula un’altra domanda. Concepisci una teoria. Il nemico della tua impresa è la disperazione. La morte. Proprio come nel mondo reale. Stavolta non la convinco.
Sto ascoltando.
Sedici minuti.
Sta cercando un modo per riempirli?
No. Posso smettere quando voglio.
E tutti noi parimenti.
Alquanto chauceriano. Tutti noi parimenti.
Lei non pensa che il terapeuta abbia chissà che facoltà di guarire.
Io penso quello che pensa la maggior parte della gente. Che a guarire è l’accudimento, non la teoria. Il bene sparso per il mondo. E in ultima analisi potrebbe addirittura darsi che tutti i problemi siano problemi spirituali. Per quanto svitato fosse, Carl Jung a questo proposito aveva probabilmente ragione. Tenendo presente che la lingua tedesca non distingue tra mente e anima. Quanto alle case di cura, l’impressione è che un posto come la Stella Maris sia stato progettato con una certa cognizione di causa. Solo che non sapevano chi ci sarebbe arrivato. Trovo che in termini di cura qui non sia niente male, ma qui come ovunque la cura non riesce mai a stare al passo con il bisogno. Dopo tutti questi anni perfino i mattoni sono intossicati. Esistono dei rimedi ma non il rimedio. Luoghi che hanno accolto sofferenze straordinarie alla fine saranno dati alle fiamme o trasformati in templi.
Ha una visione cosí cupa su ogni cosa?
Io non la considero cupa. Mi pare semplicemente realistica. La malattia mentale è una malattia. Come altro vorrebbe chiamarla? Ma è una malattia associata a un organo che per la conoscenza che ne abbiamo potrebbe anche appartenere ai marziani. È probabile che il comportamento deviante sia un mantra. Nasconde piú di quanto svela. Fra i tanti problemi che il terapeuta deve affrontare c’è che il paziente potrebbe non desiderare di essere curato. Mi dica, dottore, che tipo sarei in quel caso?
I pazzi hanno un senso della giustizia?
È una domanda seria? Non si danno pace. L’ingiustizia è la loro preoccupazione principale. Mi pare che i suoi occhi inizino a velarsi.
Sto bene. Lei non guarda mai l’orologio, vero?
Non ne ho bisogno.
Come siamo messi? In termini di tempo.
Un’idea meravigliosa, questa. Che il tempo termini. Abbiamo quattordici minuti. I giorni sono lunghi ma gli anni brevi.
C’è una parte della sua vita che potremmo definire instabile benché non abbia a che vedere con le… com’era? Le orti?
Vediamo se riesco a riformulare per lei.
Prego.
Lo faccio gratis. Sono sempre pazza o solo in presenza dei miei amichetti?
Okay.
Non so cosa significhi. Non penso che quando non lo vedo il Kid non esista. Per dire. Un Kid meccanico-quantistico. Forse dovremmo andare avanti.
Okay. Cosa c’è di importante che non so su di lei?
È sempre il manuale?
Non direi.
Sono lesbica.
Non direi.
Lei che ne sa?
Lo so e basta. Flirta con me. Per cominciare.
Crede che la trovi attraente.
Sí. Devo dire di sí.
Be’. Mi dispiace. In realtà non è questione di flirtare.
È questione di cosa?
Forse solo di non avere nessuno nella propria vita. Di rendersi conto che qualunque cosa sia quella a cui stai per dire addio non ricambierà l’addio.
Ha parlato a sua nonna di suo fratello?
Sí. Ho dovuto dirglielo.
Lei cos’ha detto?
Si è messa a piangere. Continuava a ripetere il suo nome.
Non ha detto nient’altro?
Mi ha chiesto se chiamavo dall’Italia.
Ha intenzione di andare in Italia?
No. Non saprebbe nemmeno come fare.
Potrebbe accompagnarla.
No. Non potrei.
D’accordo.
Però non è d’accordo. Giusto?
Se non vuole parlare di suo fratello posso capirlo. Non so. A lui ha detto qualcosa? Aveva l’impressione che potesse sentirla?
Gli ho detto che preferirei essere morta con lui piuttosto che viva senza di lui.
Lo prendo come un avvertimento.
La vita si avventa su di te come un cane.
È una citazione?
Non che io sappia.
Niente di ebraico in ogni caso.
No.
Ha qualche legame famigliare ebraico?
No. Non siamo cresciuti come ebrei.
Ma di essere ebrea lo sapeva.
No. Sapevo qualcosa. Comunque, i miei antenati che contavano le monetine nella ciotola del mendico sono quel che mi ha portato a questa situazione sociale. Gli ebrei rappresentano il due percento della popolazione e l’ottanta percento dei matematici. Se questi numeri fossero anche solo un pelo piú sbilanciati staremmo parlando di due specie distinte.
Non è un po’ una forzatura?
No. Non lo è abbastanza. Due storie diverse possono convivere sotto lo stesso tetto. Il quesito di Darwin rimane inevaso. Com’è che ci imbattiamo in facoltà mentali che sono prive di storia? Nessun’idea. Com’è che il cervello sembra prepararsi a quel che verrà? Quanti dei nostri circuiti cerebrali non hanno una finalità e sono semplicemente in attesa di nuove occasioni? Se ce ne sono. In che modo tirar su spiccioli al mercato preparerebbe dei nipoti alla meccanica quantistica? Alla topologia?
Nipoti?
Le lascio inserire i pro- pro- pro.
Non lo so. Non sono sicuro di seguirla. Perché non torniamo a lei?
Questa sono io.
Alla sua storia personale. Dov’era prima di arrivare qui?
Nella sala ricreazione.
Non faccia la spiritosa.
Ero in Italia. In attesa che mio fratello morisse.
Quanto ci è rimasta?
Due mesi. Poco di piú.
Hanno aspettato due mesi per chiederle l’autorizzazione a staccare la spina?
No. Sono solo diventati piú insistenti.
E lei parlava italiano?
Lo parlicchio. Comunque, forse è quello che lui avrebbe voluto. Non lo so. Sapevo solo che non potevo farlo. Mi sono messa in salvo.
E si sente a posto?
Oddio. No.
Quando è arrivata qui aveva con sé parecchi soldi.
Non cosí tanti. Io e mio fratello avevamo ereditato del denaro dalla nostra nonna paterna. Quando lui mi ha dato la mia parte non c’era qualcosa che volessi in particolare. Cosí ho comprato quell’Amati abbastanza straordinario. Conoscevo lo strumento. L’avevo visto in due libri e naturalmente nel catalogo di Christie’s. L’ultima volta che l’avevano venduto era il 1863 e mi sono detta che non sarebbe tornato sul mercato a breve.
Un violino.
Sí.
Quanto costano i violini di cui stiamo parlando?
Io l’ho pagato un pochino di piú di duecentomila dollari.
Però. Quanti soldi aveva ereditato?
La mia parte era qualcosa di piú di mezzo milione di dollari. Ho pensato che il violino fosse una buona idea. Anche se certo, lasciarlo nella mia camera mi preoccupava. Di norma lo tenevo sotto il cuscino. Per un po’ ho addirittura tenuto i soldi in una scatola da scarpe nell’armadio.
Era denaro in contanti?
Sí. Quando mio fratello l’ha scoperto mi ha obbligata ad affittare una cassetta di sicurezza.
Non ha pensato di investirlo?
Erano soldi ereditati e non dovevamo pagarci nessuna tassa. Ma non potevamo dimostrarlo. Erano sotterrati nella cantina di mia nonna. È stata lei a dirci dov’erano e che erano destinati a noi. Ma naturalmente non risultavano su nessun documento.
Aveva sotterrato i soldi in cantina.
Ci aveva pensato nostro nonno. Erano monete d’oro da venti dollari. Impilate in segmenti di tubo di piombo.
Questa storia sta prendendo una piega piuttosto curiosa.
La gente fa cose curiose.
Christie’s. Il violino l’ha comprato all’asta?
Sí. L’ho comprato tramite Bein & Fushi. A Chicago. Non avevano ancora aperto l’attività a dire il vero. Ma mi hanno fatto da agenti.
Difficile che avessero uno strumento del genere a catalogo.
No. Non avevano nessun catalogo. La ditta era nuova nuova.
Posso capire che stesse in pensiero.
Quando un Cremona viene rubato può sparire per sempre. È tra i pochi che potrebbero non essere mai piú ritrovati. Avevo pensato di dipingerlo. Una pittura solubile in acqua che sarebbe stato facile togliere senza rovinare le finiture. Dipingerlo d’oro, magari. Metterlo in una custodia a buon mercato. Ma poi ho pensato al motto citato da Quine. Salva la superficie e salvi tutto. Comunque sapevo bene che non sarei riuscita a farlo.
Chi è Quine?
Un filosofo. Secondo alcuni il piú grande filosofo vivente.
Secondo lei?
Può darsi. Naturalmente lui è convinto di capire la matematica. Si direbbe che non pensi ad altro.
Ma diceva che quella è una citazione.
Sí. È nel frontespizio di uno dei suoi libri.
Non dice di chi è?
Sí. Sherwin-Williams.
La ditta di vernici.
Sí.
Sta scherzando.
No. Affatto. Nemmeno Quine scherzava. Be’. Forse un pochino. Forse piú di un pochino adesso che ci penso.
Bein & Fushi. Ho capito bene?
Sí. Il giorno in cui sono andata a ritirarlo l’ho portato a casa in autobus. Ho salito le scale e sono entrata in camera mia e mi sono seduta sul letto con il violino sulle gambe. A guardare la custodia. Era una custodia tedesca. Probabilmente fine Settecento. Sembrava quasi nuova. Pelle di vitello nera con le chiusure di alpacca. Le ho fatte scattare a una a una con il pollice e ho sollevato il coperchio. Ricordo ogni respiro.
Ma l’aveva già visto. L’aveva visto dal venditore.
No. Non l’avevo visto. L’hanno posato sul bancone e hanno cominciato a far scattare le chiusure ma io li ho fermati. Avevo visto delle foto, certo. Le foto del catalogo di Christie’s erano probabilmente le migliori. Il legno d’acero era estremamente compatto e molto fiammato. La parte posteriore era composta da due pezzi montati quasi a spina di pesce. Una rarità. La finitura del manico era quasi andata, si vedeva il legno, e ho pensato che potesse perfino essere originale anche se questo il catalogo non lo menzionava. Ho pensato che era la cosa piú incredibile che avessi mai visto.
L’ha comprato a scatola chiusa.
Sí. Sono andata da Bein & Fushi con i soldi in un sacchetto.
In autobus.
Sí. Gli ho dato i soldi e loro li hanno portati nel retrobottega e li hanno contati. Non avevano idea di cosa farne e all’asta mancavano cinque giorni. Uno crede di poter comprare delle cose pagandole in contanti ma a quanto pare non è piú cosí facile. Non potevano credere che me ne andassi in giro con centinaia di migliaia di dollari in un sacchetto. Gli ho detto che li nascondevo alla luce del sole ma a quanto pare non ho fatto che confonderli.
Centinaia di migliaia di dollari.
Trecentomila, per la precisione.
Secondo quelli di Christie’s a quanto sarebbe stato battuto?
Non credo che lo sapessero. Era un pezzo talmente raro. Ipotizzavano un minimo di duecentomila dollari ma i miei uomini di Bein & Fushi erano convinti che sarebbe andato via a un prezzo piú alto.
Ma lei era pronta a metterci tutti i trecentomila.
Sí. Gli ho detto di procedere e comprarlo.
Sarebbe stato venduto per il suo valore. Per definizione.
Sí.
E quindi a quanto è andato via?
Due e trenta.
Dov’era l’asta? A New York?
Sí.
E lei gli ha detto che non voleva nemmeno vederlo.
Sí.
Immagino pensassero già che era un po’ strana.
Non so cosa pensassero. Si sono presi una bella commissione. Hanno cercato di farmi un assegno per il resto ma io gli ho detto solo contanti. La regola di Bobby.
E loro come hanno reagito?
Si sono rotolati sul pavimento scompisciandosi e chiamandosi l’un l’altro.
Okay. E lei non aveva voluto vederlo perché per vederlo voleva essere sola con lui.
Sí.
Cosí l’ha portato a casa in autobus.
Sí. Quando sono arrivata a casa mi sono seduta sul letto con la custodia sulle gambe e l’ho aperta. L’odore di un violino vecchio di trecento anni non assomiglia a nessun altro. Ho pizzicato le corde ed era sorprendentemente intimo. L’ho tolto dalla custodia e mi sono messa ad accordarlo. Mi chiedevo dove gli italiani fossero andati a prendere del legno d’ebano. Per i bischeri. E per la tastiera, naturalmente. La cordiera. Ho tirato fuori l’archetto. Fabbricato in Germania. Splendidi intarsi d’avorio. L’ho teso e poi ho semplicemente iniziato a suonare la Ciaccona di Bach. In re minore? Non ricordo. Un brano cosí crudo, tormentoso. L’aveva composto per sua moglie, morta mentre lui era lontano. Ma non sono riuscita ad arrivare in fondo.
Come mai?
Perché mi sono messa a piangere. Mi sono messa a piangere e non riuscivo a fermarmi.
Perché piangeva? Perché piange?
Mi scusi. Per piú motivi di quanti potrei dirle. Ricordo di aver asciugato le lacrime dal legno di abete e di aver messo da parte l’Amati e di essere andata in bagno a sciacquarmi la faccia. Ma il pianto è tornato. Continuavo a pensare al verso: Che capolavoro è l’uomo. Non riuscivo a smettere di piangere. E ricordo di aver detto: Cosa siamo? Seduta lí sul letto con l’Amati tra le mani, talmente bello da sembrare irreale. Era la cosa piú bella che avessi mai visto e non riuscivo a capire come una simile cosa fosse anche solo possibile.
Vuole fermarsi?
Sí. Mi scusi.
III.
Buongiorno. Come andiamo?
Mai stata meglio.
Scommetto che sta scherzando. Si sente bene?
Sí.
C’è qualcosa della nostra ultima seduta su cui le piacerebbe tornare?
No. Non ha la cartellina.
Ne conosco piuttosto bene il contenuto. Pensavo che potremmo semplicemente iniziare.
Okay.
Di cosa le piacerebbe parlare?
Delle disuguaglianze di Bell.
Prego?
Dica lei. Per me è uguale. Del tempo.
Mi parli di suo padre.
Eliza.
Scusi. È vero che perfino le persone che hanno sviluppato il programma si sottomettevano a sedute psicoterapeutiche?
Cosí ho sentito.
Suo padre è morto qualche tempo dopo sua madre.
Circa quattro anni.
Dopo una lunga malattia.
Lunga quanto basta per ammazzarlo.
Detto cosí sembra un po’ forte.
Guardi. Se lei mi cita dai necrologi del giornale io non reagisco bene.
Scusi. Cercherò di tenerlo presente. Lei quanti anni aveva?
Quindici.
A quel tempo lo vedeva spesso?
No. Viveva in una baita sulle montagne. Sopra il lago Tahoe.
Avevate litigato?
No.
Era un fisico che lavorava al Progetto Manhattan. Ne parlava mai?
Perlopiú con Bobby. Tutto ciò comincia a sembrare un’udienza del Congresso.
Forse dovrebbe limitarsi a raccontarmi quello che le viene in mente.
No. Continui. Suppongo che voglia sapere se si sentiva in colpa per aver fabbricato la bomba. Non si sentiva in colpa. Ma è morto. E mio fratello è in morte cerebrale e io sono in manicomio.
D’accordo. Cos’altro?
Cos’altro. Mio padre faceva parte di un gruppo di scienziati che dopo la guerra andarono a Hiroshima per riferire sui danni. Credo che quello che ha visto l’abbia fatto rinsavire. Ma non posso parlare per lui. Chiunque avesse fabbricato la bomba ci avrebbe fatto saltare in aria qualcosa e sono sicura che mio padre abbia pensato meglio noi che loro. Chiunque si fosse rivelato essere quel loro. In genere il dibattito intorno alla decisione di Truman s’incentra sulla perdita di vite in un’invasione di terra. Mio padre sulla questione era di un altro avviso. Pensava che se il Giappone fosse stato sconfitto con un’invasione di terra non ci sarebbe stato nessun miracolo della ricostruzione dopo la guerra. Che il Giappone sarebbe stato umiliato in quanto nazione e sarebbe entrato in un lungo declino. Cosí invece non furono sconfitti in battaglia. Furono sconfitti con la magia.
Non le sembra un punto di vista un po’ di parte?
Se vuole. Potrebbe anche essere vero.
Secondo lei è vero?
Non lo so. È una teoria. Inventata e brevettata da mio padre. Io di opinioni politiche non ne ho. E sono pacifista fino al midollo. Solo una nazione può fare la guerra – nel senso moderno del termine – e le nazioni non mi piacciono. Io credo nella fuga. Proprio come quando ti sposti dalla traiettoria di un autobus in arrivo. Se avessimo avuto un figlio l’avrei portato dove la guerra sembrava meno probabile. Anche se è difficile anticipare la storia. Ma si può sempre provare. No, io no, per rispondere alla sua prossima domanda.
Non biasima suo padre.
No.
Ha detto se avessimo un figlio.
Se io avessi un figlio.
Chi è questo noi?
Non sono fatti suoi.
Lei non crede che suo padre sulla bomba ci abbia perso il sonno.
Mio padre non dormiva prima della bomba e ha continuato a non dormire dopo. Credo che la maggior parte degli scienziati non si siano granché posti il problema di quello che sarebbe successo. Si divertivano e finita lí. Sul Progetto Manhattan hanno detto tutti la stessa cosa. Che non se l’erano mai spassata tanto in vita loro. Ma chiunque non capisca che il Progetto Manhattan è uno dei fatti piú significativi nella storia dell’umanità pecca di disattenzione. Quel programma se la gioca con la scoperta del fuoco e del linguaggio. È come minimo al terzo posto ma potrebbe anche essere al primo. Non lo sappiamo ancora, tutto qui. Ma è solo questione di tempo.
Lei pensa che suo padre non si sia veramente soffermato sulle conseguenze del progetto.
Io penso che ci si è soffermato eccome. E che in questo era diverso dagli altri. Non era molto d’accordo con tutto quello stracciarsi le vesti che c’è stato dopo Hiroshima. Era piú vecchio di gran parte dei suoi colleghi. Mi pare che l’età media fosse intorno ai ventisei o ventisette anni. Credo che un paio fossero addirittura sotto i venti. Quando di colpo sono diventati dei pacifondai mio padre ha pensato che erano solo un branco di ipocriti. Dopo la guerra lavorò con Teller. Facevano esplodere bombe capaci di ridurre considerevoli porzioni del mondo conosciuto in una sorta di caucciú inabitabile. Teller era odiato da tutti e mio padre pure. Peccato. Del suo sonno non so cosa dirle. Anch’io non ho mai dormito. E non ho bombardato nessuno.
Lei è nata a Los Alamos.
Sí. Boxing Day. Millenovecentocinquantuno.
Boxing Day? Che cos’è?
È il giorno dopo Natale.
Perché si chiama Boxing Day?
Si chiama Boxing Day perché è il giorno in cui inscatoli tutte le schifezze che hai ricevuto e che non vuoi e le riporti al negozio.
Non è vero.
No. Tradizionalmente era il giorno in cui ci si scambiava i regali. Scatole di biscotti o quel che è. Un sergente dell’esercito ha accompagnato mia mamma all’ospedale con una di quelle berline verde militare avanzate dalla guerra. In giro non c’era nessuno. Era previsto che andasse nel Tennessee ma alla fine non l’hanno lasciata viaggiare.
Suo padre dov’era?
Era a Providence. Providence in Rhode Island.
Perché a Providence? Era andato a trovare i parenti?
Era andato a sentire Kurt Gödel tenere la Gibbs Lecture all’American Mathematical Society della Brown University.
Non ha passato il Natale con sua madre.
No.
Erano separati?
Dovrebbe definirmi separati. Non del tutto, credo. Ma all’epoca non c’ero. Comunque non lo biasimo per essere andato a sentire Gödel. Io avrei fatto lo stesso. Anche se Gödel si limitò a leggere monotonamente il suo articolo. L’articolo verteva sui fondamenti della matematica. Era sostanzialmente una difesa del platonismo. Non credo che mio padre fosse chissà quanto interessato all’argomento ma era interessato a Gödel.
Lei ha letto l’articolo?
Sí. Ovvio.
Ovvio?
Di Gödel ho letto praticamente tutti gli articoli. E gran parte degli appunti. Inclusi quelli scritti in Gabelsberger.
Che cos’è?
È la scrittura stenografica che Gödel usava. In linea con le altre sue manie. È tedesco del diciannovesimo secolo. O forse diciottesimo, non lo so.
Lei quanto tempo ci ha messo a impararla?
Piú di quanto avrei creduto. Gödel era brillante, ma tra le altre cose era un matematico platonico e io volevo capire perché. Per me l’idea era semplicemente illogica. Ma d’altra parte non sapevo quanto brillante fosse davvero Gödel.
Io non sono neanche sicuro di sapere cosa significhi. Un matematico platonico.
Come le suona? Oggi solitamente lo chiamano realismo. A quanto pare esprimerebbe una fede nell’esistenza di entità matematiche indipendenti dalla mente umana. Tra i matematici piú anziani è un credo diffuso mentre a me sembrava parecchio lacunoso. Se gli oggetti matematici esistono indipendentemente dal pensiero umano da cos’altro sono indipendenti? Dall’universo, suppongo. Quando risolvi un problema hai sempre quell’impressione elettrizzante che la soluzione fosse lí e che tu l’hai trovata. E oltretutto ha una certa qual importanza empirica in quanto altri matematici converranno che la risposta è corretta. Se lo è.
E suppongo che tutto ciò abbia come minimo qualcosa a che fare con la sua concezione della realtà in generale.
Be’. Si può passare molto tempo a classificare le varie realtà. Le loro corrispondenze. Non credo sia il caso d’inoltrarci su questo terreno.
D’accordo. Non ne so molto di Gödel. So che ha messo a punto una famosa teoria secondo cui la matematica non può risolvere tutti i quesiti che pone. O qualcosa del genere.
Qualcosa del genere, sí. Due teoremi. Nel 1931.
È una teoria che condivide?
Certo. L’articolo che li illustra è eccellente. Impossibile contestarlo. Nei suoi ultimi anni Gödel si è allontanato dalla matematica per accostarsi alla filosofia. Poi è impazzito.
Come impazzito?
Una cosa piuttosto pesante. Non mangiava. Pensava che il cibo fosse avvelenato. Quando è morto pesava poco piú di trenta chili. All’epoca Oppenheimer era direttore dell’Ias e andava a trovarlo all’ospedale. Un giorno il medico è entrato nella stanza. Non sapeva chi fosse Gödel – un qualche matto che insegnava all’università – e Oppenheimer gli ha detto di prendersi cura di lui perché era il piú grande logico dai tempi di Aristotele. E il medico ha annuito e ha fatto per dirigersi verso la porta e Oppenheimer ha intuito che stava pensando: Dio buono, adesso sono in due.
La sua teoria. È vero che mette in dubbio la validità della matematica? È per questo che è famosa?
No. Sono tutte sciocchezze. Forse partite da von Neumann. Il quale era presente alla presentazione di Gödel al Circolo di Vienna e quando Gödel arrivò in fondo alla sua relazione disse: È tutto finito.
Von Neumann ha detto cosí.
Sí.
Ma non lo era.
No. Non lo era. Be’, in effetti qualcosa di finito c’era. Non da ultimo diversi dei problemi di Hilbert risalenti al 1900.
Von Neumann era un matematico famoso.
Questo fu prima che lo diventasse. Ma moriva dalla voglia di essere famoso. Se fece quel commento fu perché tutti capissero che aveva compreso la relazione.
Ma il commento era… Cos’era? Sbagliato?
Probabilmente tra i presenti non era l’unico a pensare che a essere stata messa in dubbio fosse la matematica stessa. A volte ci vuole un po’ per mettere a fuoco le cose. La matematica viene costantemente messa in discussione. È fatta per quello. Diversi buoni matematici hanno abbandonato la disciplina. Addirittura piú di quanti siano finiti alla neuro.
Come mai?
Credevo fosse il motivo per cui siamo qui.
Lei di matematica non ne fa piú.
No. Be’, a parte il problema dei problemi forse. Che non passerà.
Che sarebbe?
Il problema originario. Cosa fare di Frege. I Grundlagen. Il principio e la fine. Cosa facciamo e come facciamo a saperlo. Un’intuizione. Esiste qualcosa che lo sa? È possibile? E se sí cosa dobbiamo diventare perché ce lo dica? Il programma Langlands. Cose che non mi diranno mai quello che voglio sapere.
Capisco.
Non credo. In ultima analisi la matematica è un’impresa basata sulla fede. E la fede è una faccenda aleatoria.
Non sono sicuro di capire. La matematica come cosa? Una specie di progetto spirituale?
È solo che non saprei come altro chiamarla. Da molto tempo penso che le verità fondamentali della matematica debbano trascendere il numero. Dopotutto è una questione un po’ traballante. Nonostante la sua notevole bellezza. In teoria le leggi della matematica deriverebbero dalle regole della logica. Ma non ci sono argomenti riguardo alle regole della logica che non le presuppongano. Una cosa che potrebbe evocare l’analogia con lo spirituale suppongo sia la constatazione che le piú grandi intuizioni spirituali sembrano derivare dalle testimonianze di gente che barcolla nel buio.
Non vedo come le verità matematiche potrebbero trascendere il numero.
Lo so.
Cionondimeno è una fan di Gödel.
Sí. Una grandissima fan. Sono d’accordo con Oppenheimer.
I suoi eroi sono perlopiú dei matematici?
Sí. O eroine.
Chi altro ammira?
La lista è lunga.
Okay.
Cantor, Gauss, Riemann, Eulero. Hilbert. Poincaré. Noether. Ipazia. Klein, Minkowski, Turing, von Neumann. Ed è una lista a dir tanto parziale. Cauchy, Lie, Dedekind, Brouwer. Boole. Peano. Church è ancora vivo. Hamilton, Laplace, Lagrange. E naturalmente gli antichi. Guardi questi nomi e il lavoro che rappresentano e ti rendi conto che in confronto gli annali della letteratura e della filosofia contemporanee sono di una desolazione senza pari.
A me quei nomi non dicono niente.
Lo so.
Tra loro ci sono delle donne?
Emmy Noether. Era una grande matematica. Una delle piú grandi. Una dei fondatori della fisica matematica. Ce ne sono altre. Di donne. Ma di medaglie Fields naturalmente ancora nessuna.
È la massima onorificenza per la matematica.
Sí.
Mi sorprende che il suo amico Grothendieck non sia sulla sua lista. L’ha dimenticato?
Non dimentico Grothendieck. Quelli che ho menzionato sono morti.
È un requisito per la grandezza?
È un requisito per evitare di svegliarsi domattina e dire qualcosa di incredibilmente stupido. Mi chiedeva perché Grothendieck avesse abbandonato la matematica. Probabilmente l’idea che c’entri la pazzia, per quanto seducente, non è del tutto corretta. È certamente plausibile che riscrivere gran parte della matematica degli ultimi cinquant’anni non abbia aiutato a mitigare il suo scetticismo. Wittgenstein amava dire che nessuna cosa può essere spiegazione di sé. Non so bene quanto sia diverso dal dire che in definitiva le cose non contengono nessuna informazione che le riguardi. Ma potrebbe essere vero che occorre avere uno sguardo esterno. Ci si può addirittura chiedere cosa si intenda per descrizione. Esiste un modo migliore di descrivere un cubo che non sia la descrizione della sua costruzione? Non lo so. Cosa si può dire di un attributo se non che richiama certe cose e non altre? Colore. Forma. Peso. Quando ti trovi di fronte a qualcosa che fa classe a sé il problema lo vedi. Non per forza dev’essere qualcosa di grandioso come il tempo o lo spazio. Può anche essere qualcosa di abbastanza ordinario. Le componenti della musica. Esistono oggetti musicali? La musica si compone di note? Giusto? La complessità della matematica l’ha traslata da una descrizione di cose ed eventi alla potenza di operatori astratti. Quand’è che le origini dei sistemi smettono di essere rilevanti per la loro descrizione, il loro funzionamento? Nessuno, per quanto incline al platonismo, crede davvero che i numeri siano necessari al funzionamento dell’universo. Sono solo utili per parlarne. Giusto?
Non lo so.
Se la matematica funziona – direbbero alcuni – è perché sei alla frutta. Non puoi matematicizzare la matematica. Ha l’aria dubbiosa.
Scusi.
Anche gli animali abbastanza elementari sono in grado di contare. Capiscono che tre è piú di due. Non sanno cosa significa? Nemmeno io. Mi chiedeva di Grothendieck. La teoria dei topoi che ha messo a punto è un intruglio magico di topologia, algebra e logica matematica. Non ha nemmeno un’identità chiara. La forza di questa teoria è ancora in potenza. Ma c’è. L’impressione è che stia aspettando buona buona con delle risposte a domande che nessuno ha ancora formulato.
Suona vagamente platonico.
Eppure. Con l’inedita prospettiva rinfrancante e infelice che la nostra specie abbia creato qualcosa che ancora dobbiamo scoprire. Il Kid pensava che il nome di Dirac fosse Pamela.
Pamela?
A volte capitava che si firmasse PAM Dirac. Per Paul Adrien Maurice. Ad ogni modo questa è la mia famiglia. Non ho nessun altro.
Ha l’aria triste. Mentre lo dice.
Sono triste mentre lo dico.
Ha a che vedere con l’intelligenza.
Sí. E di nuovo, quando parliamo di intelligenza parliamo di numeri. Un’affermazione che i profani di matematica si affrettano a condannare. È un fatto di calcolo e di natura del calcolo. Con l’intelligenza verbale si arriva solo fino a un certo punto. Poi c’è un muro, e se non capisci i numeri non vedi nemmeno il muro. La gente che sta dall’altra parte ti sembrerà bizzarra. E non capirai mai la libertà d’azione che ti offrono. Saranno cordiali – o forse no – a seconda della loro natura. Qualcuno ovviamente potrebbe far notare che l’intelligenza è una componente essenziale del male. Piú si è stupidi meno si è capaci di nuocere. Salvo forse in modo maldestro e involontario. La parola cretino deriva dal francese chrétien. A quanto pare quando non si aveva niente di positivo da dire di una testa di legno si diceva che era un buon cristiano. D’altra parte diabolico è pressoché sinonimo di ingegnoso. Quel che Satana aveva da vendere nel giardino era la conoscenza.
La bellezza nella matematica.
Sí.
È parte della sua definizione? È questo che la rende vera?
Le equazioni profonde sono spesso considerate belle. Maxwell mi pare. Se guardiamo oltre il potenziale vettore di E e B al posto di A. Se analizziamo il principio di minima azione è abbastanza probabile che rimarremo solennemente ammutoliti.
Le equazioni sono belle di per sé?
A condizione di sapere cosa significano.
Quindi E = mc² è una cosa bella?
Dovrebbe vederla a colori.
Avanti.
Avanti.
Suo padre era una persona perbene?
Direi di sí. Con me era gentile.
Di fatto ha lavorato sulla bomba che hanno sganciato su Hiroshima.
Sí. E mia madre pure.
A Oak Ridge. Sua madre.
Sí. All’Y-12.
Ma non sapeva davvero cosa stava facendo.
Probabilmente no. Stava seduta davanti a un misuratore per otto ore al giorno. Nessuno aveva il permesso di parlare. Il giorno dopo Hiroshima lo vennero a sapere. Se a quel punto qualcuno ha espresso un’opinione negativa su quel loro lavoro di guerra a me non ne è mai giunta voce. Credo che ne fossero piuttosto fieri. Ma se lei crede che qualcosa di tutto questo possa avere a che fare coi nani edoardiani che ballavano il charleston in camera mia alle due del mattino sarei felice di ascoltare la sua esposizione.
Forse dovremmo proseguire.
Okay.
È okay?
Certo. Ha di nuovo quell’espressione dubbiosa. Cosa va dicendo questa? Cosa nasconde? E se fosse peggio di quel che pensavo?
Lo è?
Peggio?
Sí.
Probabile. Continuiamo a tornare a mio padre. Non è che non veda il punto. Ma per il momento forse dovremmo accantonarlo. È morto e vorrei che non lo fosse.
La sua famiglia ha vissuto a Wartburg per quanto tempo?
Dal 1943. Siamo stati buttati fuori dalla nostra fattoria per via del Progetto.
Oak Ridge.
Sí. La fattoria era appena fuori Clinton Tennessee. Sul fiume Clinch. Abitavamo lí dai tempi della guerra civile.
Quindi lei la fattoria non l’ha mai vista.
Quando sono venuta al mondo era già in fondo a un lago. Mia nonna ne parlava spesso. La casa era una di quelle vecchie costruzioni a graticcio. I pavimenti erano di un noce tagliato in una segheria a vapore costruita da loro e lei diceva che nella stanza di soggiorno – cosí la chiamava – c’erano delle tavole larghe un metro.
E che fine ha fatto la casa?
È stata condannata dal governo federale. Rasa al suolo con i bulldozer. Per costruirci una fabbrica per l’arricchimento del combustibile nucleare.
E lei ci soffre.
Presumo di sí. Tempo fa. Tempo fa potevo immaginarmi di viverci. L’aveva costruita il mio bisnonno. Ho visto delle foto ed era molto bella. Non avevano mai costruito una casa prima. Non sono neanche sicura che ne avessero vista costruire una. Pensi se avessero potuto dare un’occhiata di lí a ottant’anni. Non è poi tanto tempo. Anche l’impresa piú semplice si basa su un futuro senza garanzia.
Diceva che il Progetto Manhattan è stato un evento storico di rilievo. È possibile guardarlo in qualche sorta di prospettiva? È un pezzo che non viviamo una guerra nucleare.
Sí. Be’, probabilmente è come per qualsiasi bancarotta. Piú riesci a rimandarla e peggio sarà. La prossima grande guerra non arriverà finché quelli che ricordano la precedente non saranno morti tutti.
Lei pensa che la guerra nucleare sia inevitabile.
Io concordo con Platone, solo i morti hanno visto la guerra finire. E la gente non combatte con le pietre quando ha dei fucili. E via dicendo.
Viviamo in un paradiso degli stolti.
Non so in cosa viviamo.
D’accordo. Storia famigliare. Deduco che sua madre sia cresciuta in quella casa.
Sí. Esatto.
Ma quando le ho chiesto di parlarmene mi ha raccontato quello che ricordava sua nonna.
Quando la guerra è arrivata in città mia madre andava al liceo. Forse avrà pensato che il mondo stesse finendo. Non lo so. Mia nonna era solita abbandonarsi ai ricordi, mia madre alle lacrime. Tutta la storia recente è una storia di morte. Se guardiamo le fotografie scattate alla fine del diciannovesimo secolo quello che viene in mente è che quelle persone sono tutte morte. Se andiamo indietro un altro po’ sono ugualmente tutti morti ma non importa. Quelli per noi sono morti minori. Le figure seppiate delle fotografie però sono qualcos’altro. Perfino i loro sorrisi sono dolenti. Pieni di rimpianto. Accusatori.
Non crede che questa sia solo una sua visione malinconica?
No.
In questa tragedia suo padre in famiglia non era considerato il cattivo?
Sí. Ovvio. Quando mia madre andò a lavorare all’Y-12 mia nonna è inorridita. Non sapeva di cosa si trattasse ma pensava che le probabilità che fosse qualcosa di buono erano praticamente nulle. Quelli però non erano solo i lavori pagati meglio nel raggio di ottocento chilometri. Erano gli unici lavori pagati. Mia madre era fresca di liceo e lavorava come cameriera in un drive-in. Era veramente sveglia e avrebbe dovuto essere all’università ma non c’erano soldi. Aveva sperato di ottenere una borsa di studio tramite il concorso statale di bellezza ma era arrivata terza. Il che creò un certo imbarazzo perché tutti sapevano che il concorso era truccato. Mia madre era dispiaciuta per la vincitrice che ricevette dei complimenti poco convinti e cercò di esserle amica senza riuscirci davvero. Era una studentessa da massimo dei voti e alla cerimonia dei diplomi fu lei a tenere il discorso di commiato ma al concorso di Miss Tennessee si ritrovò terza classificata. Mancando per un soffio i soldi della borsa. E questo è quanto. Mi ha raccontato che l’ufficio di collocamento del Tennessee era in una baracca di compensato e che quando arrivò lí al buio delle cinque del mattino la fila era già lunga quanto un campo di football e il fango le arrivava alle caviglie. Però ha ottenuto il lavoro.
Cosa faceva?
Era un’addetta ai calutroni.
Cos’è un calutrone?
Fin dove vuole sapere?
Non lo so. Veda lei.
D’accordo. Per fabbricare una bomba all’uranio bisogna innanzitutto separare l’U-238 presente in natura dall’U-235. In quattrocentocinquanta chili di uranio naturale ci sono solo qualcosa come tre chili di U-235, quindi per cominciare c’è da lavorare di vanga. Ci sono vari modi per separarlo – o arricchirlo, come amano dire – e il sistema elettromagnetico non è il migliore, era semplicemente il primo. Il calutrone fu inventato da E. O. Lawrence e in sostanza era uno spettrometro di massa che fungeva da dispositivo di raccolta per l’uranio arricchito. Cal è l’abbreviazione di California. Tron viene dal greco. Una scala di misurazione, o forse uno strumento. L’uranio era dapprima combinato con il cloro e il risultante tetracloruro di uranio veniva poi ionizzato e condotto da una serie di elettromagneti sulla cosiddetta pista. La pista era lunga piú di trenta metri e i magneti erano alti sei. Deve pensare in grande. A causa della guerra non erano in grado di rimediare una quantità di rame sufficiente a fabbricare le spire per i magneti, i conduttori, cosí andarono al dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e presero in prestito quattordicimila tonnellate d’argento e lo trasportarono al laboratorio e lo utilizzarono.
In prestito.
In prestito. Lo restituirono dopo la guerra. Le prime piste che progettarono, le Alpha, non si rivelarono granché efficienti, quindi presero la materia prodotta e la ripassarono in un nuovo modello chiamato Beta e in effetti quella che uscí era idonea alla fabbricazione di armi nucleari. Questo Beta in realtà non era molto diverso. Era addirittura piú piccolo – circa la metà di Alpha, con magneti di tre metri. Gli stessi calutroni venivano inseriti lateralmente nelle piste e i collettori periodicamente rimossi e svuotati. Ovviamente a rendere funzionale l’intero sistema era il fatto che l’U-238 è di tre neutroni piú pesante dell’U-235 per cui in un campo magnetico segue un arco piú grande.
Ovviamente.
Gesú.
Mi scusi. Per favore continui.
Sicuro?
Sí. Per favore.
Alla fine tutto ciò era installato in nove enormi fabbricati di mattoni. Per quel che ne so potrebbero ancora essere lí. Sembravano gigantesche fabbriche di scarpe. Cinque piste Alpha e quattro Beta. Millecentocinquantadue calutroni in tutto. Erano costantemente in funzione e ogni ragazza monitorava un unico calutrone. Nessuno parlava. Le ragazze sedevano su degli sgabelli in lunghi corridoi e monitoravano gli indicatori e regolavano le manopole in modo da massimizzare la corrente del fascio. Era un processo lento. L’U-235 per la bomba Little Boy che rase al suolo Hiroshima fu trasportato in treno a Santa Fe pochi chili per volta in una valigetta da un ufficiale dell’esercito in giacca e cravatta. Arrivati a sessantaquattro chili erano a posto.
Non si beccava le radiazioni? Il tizio in giacca e cravatta.
No.
Sarebbe in grado di spiegare la topologia con la stessa chiarezza?
Fa lo spiritoso?
No. Affatto.
Non credo. Il processo di separazione elettromagnetica è un’operazione meccanica molto semplice. Si potrebbe spiegarla a un bambino di dieci anni. La topologia riguarda la matematica delle forme. Potrei dirle che la congettura di Poincaré ha a che vedere con la natura intrinsecamente sferica delle forme che sembrano avere altra forma. Quasi. Ma forse non è un buon esempio. Specie se la congettura è sbagliata. Insomma. Per Poincaré non era neanche una congettura. Piú che altro era un interrogativo.
Lei crede che sia sbagliato?
No. Ma potrebbe essere difficile da dimostrare.
E suo padre stava facendo un giro di ispezione dell’Y-12 quando ha visto sua madre.
Sí. Le ha allungato un biglietto.
Perché lo chiamasse.
Sí.
E lei l’ha fatto?
No. Due giorni dopo lui è tornato e le ha passato un pezzo di carta e una matita e lei è rimasta un attimo a guardarli e poi ci ha scritto il suo numero. E il suo nome. Era solo il numero del telefono nell’atrio del dormitorio. Ma il giorno dopo lui l’ha chiamata.
E.
Ed eccomi qui.
Lawrence è l’uomo che ha inventato il ciclotrone.
Sí. Era solito andare all’Y-12 e sedersi e aumentare il guadagno su un calutrone per mostrare a tutti quanto di piú poteva produrre e poi si alzava e se ne andava. Cinque minuti circa e tutto l’aggeggio faceva faville. Mio padre diceva che quando a Berkeley Lawrence lavorava sul ciclotrone azionava questo grosso interruttore di rame ed era come un film di Frankenstein. Una cortina di fuoco invadeva il laboratorio finché l’intero complesso rimaneva al buio. Oak Ridge per loro era un parco divertimenti, lo chiamavano Dogpatch. Come nelle strisce di Li’l Abner. Verso la fine della guerra l’impianto di diffusione gassosa del K-25 era in piena attività e le piste Alpha furono dismesse ma continuavano a far girare tutto nel K-25 con le apparecchiature Beta.
Sua madre per quanto ci ha lavorato?
Due anni. Un po’ meno.
Quanti anni aveva quando ha incontrato suo padre?
Diciannove. Credo. Forse venti.
E lui?
Poco piú di trenta. Di preciso non so neanche bene quando sia nato. Non parlava volentieri della sua infanzia. Era già stato sposato. È stato Bobby a scoprirlo.
Sua madre era al corrente?
No. Lui sapeva che se lo fosse stata non l’avrebbe sposato.
Dalla prima moglie non aveva avuto figli.
Aveva avuto un maschietto. Che era morto di polio intorno ai quattro anni. Penso spesso a lui.
Pensa spesso a lui.
Sí. Era mio fratello.
Quando hanno divorziato i suoi?
Sono andata a trovarla. Non le ha fatto granché piacere.
Mi scusi?
Sono andata a trovarla. La sua prima moglie. Viveva in California.
È stata sorpresa di vederla?
Non credo. Aveva sentito parlare di me e immaginava che prima o poi mi sarei fatta viva.
Questo dopo la morte di suo padre.
Sí.
Che cos’ha detto?
Ha detto: Be’. Sei venuta niente male. Neanche lei era niente male.
Cos’altro?
Niente di che. Ha detto qual buon vento. Mio fratello si chiamava Aaron.
Era ebrea.
Sí.
Aveva una predilezione per le donne ebree. Suo padre.
Non sapeva che mia madre fosse ebrea.
Era una fisica? La sua prima moglie.
No. Era medico. Una cardiologa. Ma lavorava in un laboratorio. Non so perché mio padre abbia divorziato.
Due volte.
Due volte. Sí. Non era stata un’idea loro.
Delle mogli.
Delle mogli. Sí.
Posso chiederle se era un farfallone?
Non lo so. Non so cosa non era. Mi ha portato le sigarette?
Sí. Sono nella mia valigetta. Da qualche parte. Eccole.
Grazie.
Ho portato un accendino ma non ho pensato al posacenere.
Userò il bicchiere.
Bene. I suoi genitori litigavano?
No. Verso la fine lui a casa c’era poco. Passava molto tempo nel Pacifico del Sud a far saltare in aria roba.
Sembrerebbe una critica.
Non è una critica. Ai maschi far saltare in aria roba piace.
Dice sul serio.
Sí.
Quanti anni aveva quando si sono separati?
Non lo so. Credo sia stata una cosa piuttosto graduale.
Cos’altro è successo? Nessuno dei due si è piú risposato.
No. Credo che si amassero. Solo che era sempre piú difficile. Guardala, ha l’aria nervosa. Fuma piú in fretta. Ovviamente potrebbe essere tutto un bluff. È solo una subdola stronzetta.
Sarei di nuovo io suppongo. Tutto un bluff.
Non importa. L’altro che è successo è che mia madre ha avuto quello che allora chiamavano un esaurimento nervoso.
Un esaurimento nervoso.
Nel gergo dell’epoca. È stata ricoverata. Un paio di volte. Noi siamo andati a vivere con mia nonna. Non se n’è mai parlato.
Lei quanti anni aveva?
Quattro. Quando ho iniziato le elementari al St Mary di Knoxville dovevo ancora compiere i sei. Nel giro di una settimana ero la prima della classe e questo li ha zittiti tutti.
Se non ci sono state discussioni come faceva a sapere cosa stesse succedendo?
Non è stato difficile ricostruire. Ricordo mia madre priva di sensi sul pavimento della sala da pranzo e io che non sapevo cosa fare ma poi Bobby si è messo a piangere quindi mi sono messa a piangere anch’io, pur non sapendo bene cosa provavo.
Bobby si è messo a piangere?
Sí.
Quanti anni aveva?
Avrà avuto dieci anni.
Questo era a Los Alamos.
Sí.
Secondo lei qual era la natura dei problemi emotivi di sua madre?
Non lo so. Quando le hanno diagnosticato un cancro gli altri sintomi sono spariti. Poi è morta.
Gliel’ha mai chiesto?
Una volta. Ha negato tutto. In pratica.
Eppure non doveva essere facile da negare.
Da quanto tempo mi diceva che fa questo mestiere?
D’accordo. Ne ha parlato con suo fratello?
Sí.
Lui cos’ha detto?
Ha detto che aveva avuto un esaurimento nervoso. Immagino stia cercando una predisposizione genetica a una malattia non meglio specificata e forse inesistente.
Magari voglio solo farmi un’idea dei sentimenti che nutre nei confronti della sua famiglia.
Dove posso metterla?
Ha fatto solo qualche tiro.
Lo so.
La dia a me. Mi colpisce il fatto che questi suoi episodi anomali siano cominciati piú o meno alla morte di sua madre. Eravate molto legate?
Andavamo discretamente d’accordo. Ma lei dava retta ai medici ed è finita sottoterra convinta che sua figlia fosse pazza.
E lei ci soffriva?
Sí. Ci ho sofferto. Piú ancora dopo la sua morte. Mi rendevo conto della vita che aveva avuto e mi faceva star male. Avevo bisogno di mia nonna e non ho veramente considerato che io non ero affatto quello di cui aveva bisogno lei. Non ho considerato il fatto che aveva appena perso sua figlia. Poco tempo dopo l’ho sognata. Mia madre. Nel sogno era morta e la folla la portava a spalle dentro una barca per le strade. La barca traboccava di fiori e c’era musica. Quasi una musica da banda. Trombe. Quando il corteo girava l’angolo intravedevo tra i fiori la sua faccia pallida come una maschera. E quando scendeva la strada passandomi accanto. E poi proseguivano. E poi mi sono svegliata.
Ha idea di cosa significhi, quel sogno?
No.
Tutto okay?
Sí. Tutto okay.
Non l’ha mai rifatto quel sogno.
No.
Sogni ricorrenti ne ha?
Sí. Immagino che a volte su certi sogni l’inconscio continui a lavorare, a ritoccarli, nella speranza che tu capisca. Ma la cosa interessante non è questa.
Qual è la cosa interessante?
La cosa interessante è che sa che non hai capito. Non ha veramente qualcosa su cui basarsi. Legge nel pensiero? A volte si limita a riproporti la stessa storia ancora e ancora. È bloccato. Non ha dove andare. Il sogno ricorrente che facevo io è anche quello piuttosto insolito – anzi, inaudito – nella misura in cui la sognatrice non c’è.
Lei c’è sempre nei sogni che fa?
Sí.
Crede che la gente non faccia sogni in cui non c’è.
Le persone si interessano agli altri. Ma non il loro inconscio. O solo se gli altri potrebbero avere un’influenza diretta su di loro. L’inconscio è stato ingaggiato per svolgere un lavoro ben preciso. Non dorme mai. È piú affidabile di Dio.
Cos’era il sogno?
Perché dovrei dirglielo?
Sta scherzando.
Forse. O forse no.
L’ha mai raccontato a qualcuno?
No.
Quindi io e lei saremmo gli unici a conoscere questa storia subliminale.
Sei cosí dolce dall’arrivo della piccola.
Mi scusi?
Scusi. L’ha detto un amico di mio fratello. Non so neanche bene cosa voglia dire. Comunque. Su di me il sogno non contiene nessun segreto. O perlomeno non credo. È solo un sogno. Parole fatidiche. È piú come una vecchia fiaba. O forse una vecchia storia. Ripetuta ad eccetera.
In cui però lei non c’è.
No. Anche se potrei essere la sognatrice di una futura generazione che ricostruisce i fatti seduta accanto a un suo antenato davanti al fuoco.
Lei crede in un inconscio collettivo?
Sarei piú propensa a dar credito a una cosa del genere se non fosse diventata appannaggio del dottor Jung.
Forse dovremmo andare al sogno.
Non ho detto che glielo racconto.
Sa anche lei che lo farà.
Okay. Le donne alzano gli occhi dal bucato e di colpo capiscono che tutto quello che hanno amato e cresciuto è stato vanificato. In un attimo hanno perso passato e futuro. Tutto quello che hanno insegnato ai loro figli è stato cancellato dal mondo e adesso sono vedove e schiave. Hanno visto un’armata a cavallo uscita dal nulla e schierata sulle colline sopra il paese. I cavalieri sono vestiti di pelli e i loro cavalli hanno armature di pelle grezza dipinte a motivi circolari e bianche di polvere. Gli uomini del paese sono usciti dalle loro casupole armati di asce e lance ma a breve giaceranno nel sangue comune e le donne verranno stuprate e il paese dato alle fiamme e allora le donne piangenti e sanguinanti e aggiogate come bestie marceranno verso una terra che non hanno mai visto, mai immaginato.
Sembra molto elaborato per essere un sogno.
A furia di rifarlo uno coglie i particolari.
Secondo lei quindi cosa significa?
Non so cosa significa. Ho sempre pensato che una delle donne fosse mia madre.
Lei invece nel sogno non c’è.
No.
Cos’altro?
A meno che non sia dentro mia madre, certo. Non ci avevo pensato. Cos’altro? Non lo so. È un sogno che finora non avevo mai raccontato a nessuno.
Crede abbia a che fare con qualcosa che ha letto?
Quand’è l’ultima volta che ha sognato una cosa che aveva letto?
Secondo lei non succede.
No. Secondo lei?
Non lo so. Dovrei pensarci. Ricorda la prima volta che l’hanno portata dal medico?
Perché ero pazza?
Ammettiamo.
Sí. Mi hanno portata a Knoxville. A quattro anni.
Pazza a quattro anni.
Un caso acuto. Mi hanno portata dall’oculista. Ero strabica.
Non l’hanno portata dall’oculista perché era pazza.
No. È stato l’oculista a dirgli che lo ero. Loro pensavano che fossi bizzarra ma non gli era mai venuto in mente di portarmi dal medico per quello. Forse avevano paura che non sarei tornata a casa. O che ci tornassi. Fatto sta che quello è stato l’inizio della mia vita fra gli strizzacervelli.
Cosa ricorda di quel giorno?
Tipo?
Cosí in generale.
Cosí in generale.
Sí.
D’accordo. Mi sono alzata verso le sette e sono scesa di sotto e mia nonna era in cucina e mi ha dato un bicchiere di succo d’arancia e poi mi ha detto di andare di sopra a svegliare mia madre.
Come faceva a sapere che erano le sette?
Ho guardato l’orologio della cucina.
Sapeva leggere l’ora.
Sí.
A quattro anni.
Sí.
Continui.
Avevo il mio pigiama coi cani e sono andata di sopra a svegliare mia madre e lei mi ha chiesto che ora era e io gliel’ho detto e poi sono tornata di sotto in cucina e Granellen mi ha sistemato sulla mia sedia.
Sua nonna.
Sí. Stava preparando la colazione e la radio era accesa e io vedevo fuori dalla finestra. Vedevo la macchina di Granellen parcheggiata nel vialetto. Era una macchina blu e l’aveva appena comprata. Credo fosse solo la seconda macchina della sua vita. Era inverno e c’era il fuoco nella stufa e gli alberi fuori erano spogli e le mucche erano venute fino al recinto in fondo al vialetto e gli alberi lungo il torrente erano grigi e sembravano morti. Ho mangiato una ciotola di cornflakes e mia madre è scesa e ha bevuto un po’ di caffè e poi mi ha portata di sopra e mi ha vestita. Mi sono messa la gonna verde di velluto a coste con le bretelle e una maglia verde e le scarpe Poll-Parrot con i cinghietti. Siamo partite per Knoxville poco prima delle otto.
Okay. Credo di capire. Magari mi racconti solo cos’ha detto il medico.
Ha detto Ciao come ti chiami?
Questo l’optometrista.
L’oftalmologo. E io ho pensato che era strano perché dopotutto non è che passassimo di lí per caso. Mia madre aveva telefonato e aveva preso un appuntamento. Cosí ho capito che l’intera faccenda era una montatura ma gli ho comunque detto come mi chiamavo e gli ho chiesto chi stesse aspettando.
E lui cos’ha detto?
Non ha detto niente. La gente non dà retta ai quattrenni. Ha guardato mia madre e ha sorriso ma era un sorriso che mi puzzava e avrei solo voluto tagliare la corda.
Pensava che avrebbe dovuto sapere chi era perché sua madre aveva preso un appuntamento.
Sí.
E lui pensava che in lei ci fosse qualcosa di strano.
Be’. La conversazione si è un po’ deteriorata. Però sí. Pensava che avevo qualcosa che non andava.
Quella è stata la prima volta in cui ne ha avuto coscienza?
No. Era solo la prima volta che qualcuno lo diceva a mia madre.
Cosa le ha detto il medico?
Non lo so. Niente di buono.
Sua madre ha fatto commenti in proposito?
Ha detto che ero stata maleducata con il dottore. Quando siamo salite in macchina. Diceva sempre che bisognava farmi esaminare il cervello. Ma era solo una specie di espressione famigliare. In realtà significava non sono d’accordo con te. Ma quel giorno ha detto che l’avremmo fatto. Che l’avremmo fatto esaminare. Era alterata.
Per via della sua maleducazione con il dottore?
Era convinta che il dottore sapesse quello che diceva. Non so perché. Era un cazzo di oftalmologo. Ma quando siamo uscite ho visto che era preoccupata. Soprattutto per se stessa, immagino. Immagino che si vedesse costretta a portare la croce di una bambina cieca e pure pazza.
Ha pensato tutto questo?
Perlopiú. Ci rifletti a mente piú adulta. Ma le idee sono quelle. La memoria ha una sostanza. È tutt’altro che inconsistente.
L’ha portata da uno psichiatra.
Uno psicologo in realtà.
E cos’è successo?
Non è successo niente. Avevo quattro anni. Complicato diagnosticare malattie mentali ai quattrenni.
È stato un periodo difficile per lei?
No. Solo per loro. Io adoravo mia nonna. La mattina me ne stavo seduta in cucina mentre lei faceva i biscotti. Li spianava con un matterello di marmo e io me ne stavo lí a disegnare e colorare. Adoravo l’inverno. C’era la neve per terra e il fuoco nella stufa.
In tutto quel tempo suo padre dov’era?
Mio padre era nel Pacifico del Sud a far saltare in aria roba.
Le è stato diagnosticato l’autismo da piú di un analista. E questo prima che fosse compreso a fondo. Anzi, prima che fosse compreso e basta. Perché ancora non lo è.
Certo. Se hai un paziente con una patologia non compresa perché non attribuirgli un disturbo ugualmente non compreso? L’autismo si manifesta piú nei maschi che nelle femmine. Lo stesso dicasi per l’intuizione matematica di ordine superiore. Pensiamo: Di cosa si tratta? Boh. Cosa c’è alla base? Boh. Io posso solo dirle che mi piacciono i numeri. Mi piacciono le loro forme e i loro colori e gli odori e il sapore che hanno. E non mi piace credere alla gente sulla parola. Alla fine durante gli ultimi mesi della malattia di mia madre mio padre con noi ci è stato. Aveva uno studio nell’affumicatoio sul retro. Aveva fatto un grande buco quadrato nel muro e ci aveva montato una finestra cosí da poter guardar fuori i campi e il torrente piú in là. La sua scrivania era una porta di legno poggiata su due cavalletti e c’era un vecchio divano di pelle imbottito di crine di cavallo. Era tutto incartapecorito e crepato con i crini di cavallo che fuoriuscivano ma lui ci ha buttato sopra una coperta. Un giorno sono entrata e mi sono seduta alla sua scrivania e ho guardato il problema a cui stava lavorando. Sapevo già qualcosa di matematica. Piú che qualcosa, in realtà. Ho cercato di decifrare gli appunti ma era difficile. Adoravo le equazioni. Adoravo i sigma maiuscoli delle sommatorie. Adoravo la narrazione che veniva sviluppata. È arrivato mio padre e mi ha trovata lí e ho pensato che ero nei guai e sono scattata in piedi ma lui mi ha presa per mano e mi ha riportata alla sedia e mi ha fatta sedere e ha riesaminato il problema con me. Le sue spiegazioni erano chiare. Semplici. Ma non solo. Erano piene di metafore. Ha disegnato un paio di diagrammi di Feynman e io ho pensato che erano abbastanza fichi. Mappavano il mondo delle particelle subatomiche che mio padre stava cercando di spiegare. Le collisioni. I cammini pesati. Ho capito – capito davvero – che le equazioni non erano un’ipotesi della forma la cui vita era relegata nei simboli che le descrivevano sulla pagina ma che erano lí davanti ai miei occhi. A tutti gli effetti. Erano negli appunti, nell’inchiostro, dentro di me. Nell’universo. La loro invisibilità non avrebbe mai potuto confutare né loro né la loro esistenza. O la loro età. Che era l’età della realtà stessa. Che a sua volta era ed era sempre stata invisibile. Non ha mai mollato la mia mano.
Sta bene?
Sí. Mi scusi.
Vuole un’altra sigaretta?
No. Non mi piacciono nemmeno. Fermiamoci.
Va bene. Posso chiederle una cosa?
Certo.
Solo qualche ricordo di suo fratello.
Mio fratello.
Sí.
Oddio. Va bene. La casa al mare nella Carolina del Nord. Quando mi sono alzata la mattina e sono andata in camera sua lui era già uscito e io ho preparato un thermos di tè e sono scesa in spiaggia al buio e lui era lí seduto sulla sabbia e abbiamo bevuto il tè aspettando il sole. Attraverso gli occhiali scuri l’abbiamo guardato salire rosso e grondante dal mare. La sera prima avevamo camminato sulla spiaggia e c’erano una luna e una finta luna che attraversavano gli anelli luminosi e noi avevamo ragionato del paraselenio e io avevo detto che parlare di cose composte di sola luce quali sono quelle descrivendole come problematiche o magari viste se non addirittura conosciute in modo distorto o come cose di discutibile realtà mi era sempre sembrato un po’ un tradimento. Lui mi aveva guardata e aveva detto tradimento? E io avevo detto sí. Cose composte di luce. Bisognose della nostra protezione. Poi la mattina ci siamo seduti sulla sabbia a bere il nostro tè e a guardar spuntare il sole.