domenica 10 novembre 2024

L'UMORISMO YIDDISH E L'ANTISEMITISMO IN OCCIDENTE Michele Magno

 


L'UMORISMO YIDDISH E L'ANTISEMITISMO IN OCCIDENTE 

Michele Magno

Molti intellettuali, da Walter Mehring a Heinrich Mann, da Bertolt Brecht a Charlie Chaplin e Ernst Lubitsch, già negli anni Trenta del Novecento avevano affilato le armi della satira contro il movimento delle camicie brune prima, e il regime nazista poi. Altri, che pure della satira erano maestri, ammutolirono di fronte all’ascesa di Hitler, ammettendo la sconfitta della loro arte. Karl Kraus si accomiatò dai suoi lettori nell’ottobre del 1933 con versi che, dalle pagine della sua rivista “Die Fackel” (La Fiaccola), formulavano la scelta del silenzio. Dopo la fine della guerra, Chaplin dichiarò che non avrebbe realizzato “Il grande dittatore” (1940) se fosse stato consapevole dell’incredibile mattanza che stava insanguinando in quegli anni l’Europa. L’umorismo, insomma, non era più ammissibile nella rappresentazione della Shoah.

Eppure nella Germania del Terzo Reich, nell’Austria dell’Anschluss, nei territori occupati dalla Wehrmacht ed esposti ai venti della deportazione e dell’annientamento, l’umorismo aveva assunto il ruolo di strumento -spesso unico- di resistenza all’oppressore. Hitler si dimostrò particolarmente sensibile nei confronti del potere invasivo del “witz”, della battuta di spirito in grado di spogliare la sua autorità dell’alone mitico di cui si ammantava. Contro un diffuso umorismo popolare che si manifestava nei “Flüsterwitze”, barzellette che venivano sussurrate a voce bassa spandendo un veleno mortale sulla propaganda del partito, la dirigenza nazionalsocialista combatté su più fronti, ammettendo implicitamente di trovare nel riso beffardo, demistificante e corrosivo un avversario assai temibile da sconfiggere ad ogni costo.

Le barzellette politiche diventarono pertanto reati perseguibili penalmente; raccontarle o anche semplicemente ascoltarle costituiva un atto di resistenza e di coraggio che poteva costare caro. I “Flüsterwitze” avevano bersagli diversi e un obiettivo comune: quello di schernire la tirannia, di ridicolizzarla per ridurla -con quel riso sovversivo che può capovolgere i rapporti di potere- a un nemico meno temibile e, in fin dei conti, vincibile. Nonostante le leggi razziali, il boicottaggio dei negozi, il brutale pogrom ribattezzato dagli aguzzini con il nome romantico di “Kristallnacht” (Notte dei cristalli), la reclusione nei ghetti e nei campi di sterminio, si affinò un umorismo ebraico intriso di speranza e insieme di disperazione, che rifletteva la caparbia volontà di non arrendersi, di non rinunciare a una scintilla di dignità anche di fronte a una totale disumanizzazione.

Questa capacità di reagire col sorriso alle inclemenze della vita era il frutto di una precisa realtà storica, sociale e culturale, quella delle comunità orientali degli ebrei ashkenaziti che, nella seconda metà dell’Ottocento, trascorrevano nei villaggi (“Shtetlakh”) un’esistenza quotidiana fatta di discriminazioni e persecuzioni, forzatamente isolata rispetto al mondo circostante. È in quei villaggi, sulla scia di importanti influenze mistico-religiose derivate dal Chassidismo, che si forma una generosa tradizione di risate sagge, amare e dissacranti persino sui profeti e sull’Altissimo, che rivelavano una vocazione ironico-introspettiva che Freud fu il primo a analizzare.

Subito dopo l’Olocausto, l’umorismo yddish è costretto a rivedere i suoi stilemi. Le stesse opere degli scrittori-testimoni sono come sospese tra parola e silenzio. Una condizione angosciosa, denunciata da Primo Levi nell’incipit di “Se questo è un uomo”, che oscillava tra l’impossibilità di trovare un linguaggio adeguato all’abominio del lager e l’imperativo categorico della sua descrizione. Al di là del Reno, solo più tardi Edgar Hilsenrath, un ebreo nato a Lipsia nel 1926, internato per due anni nel ghetto di Černivci in Buocovina, inguaribile giramondo, sfiderà il senso di colpa e la riottosità dei suoi connazionali a “elaborare il lutto” del nazismo con un romanzo provocatorio, che sovvertiva i canoni narrativi dello sterminio. Si intitola “Der Nazi & der Friseur” 1971). e viene pubblicato nel 1971 dalla casa editrice Doubleday in lingua inglese. Diventa subito un best seller internazionale (due milioni di copie vendute solo negli Stati Uniti). Tradotto per la prima volta in italiano da Mondadori nel 1973, “Il nazista e il barbiere” è stato recentemente ristampato da Marcos Y Marcos.

Il suo protagonista, Max Schulz, ci fa sapere di essere nato nella cittadina tedesca di Wieshalle nel 1907, nello stesso giorno in cui, nella casa dei vicini Finkelstein, viene alla luce il piccolo Itzig. Diventa suo amico e frequenta assiduamente la sua abitazione, familiarizzando con le tradizioni religiose degli ebrei praticanti. Quando arriva il momento di imparare un mestiere, i due iniziano a lavorare nel salone del barbiere Chaim Finkelstein. Con l’avvento al potere dei nazisti l’apparente equilibrio si rompe: Max, che fiuta il vento che cambia, entra a far parte delle SA e poi delle SS, partecipa alle esecuzioni di massa degli ebrei nell’Europa orientale e presta servizio nel lager di Laubwalde, in Polonia, massacrando proprio la famiglia Finkelstein.

Terminata la guerra, il carnefice torna in Germania e assume l’identità di Itzig. Decide di lasciare suo paese per rifugiarsi là dove nessuno lo avrebbe mai cercato: in Palestina tra gli ebrei della diaspora, diventando un terrorista al servizio della causa sionista e, in seguito, un soldato del neonato esercito israeliano. Nessuno sospetta del suo passato, ma le sue vittime non concedono tregua alla sua coscienza: alla fine è lo stesso carnefice a cercare un processo e una giusta condanna, confessando la sua vera identità e i crimini compiuti. Non gli crede nessuno. Colpito da infarto, gli viene trapiantato il cuore di un rabbino, ma non riesce a salvarsi.

La demolizione dello stereotipo antisemita è uno dei motivi centrali del romanzo. Tant’è che l’aspetto fisico di Max somiglia a quello dell’ebreo dal “naso adunco”, mentre Itzig incarna l’idealtipo di razza ariana codificato da Rudolph Hess. Nel suo discorso, Hilsenrath si rivolge sia agli innocenti che ai colpevoli. E il suo è un discorso che allude al problema di fondo che la Shoah ha posto alla civiltà occidentale, ovvero il problema che Hanna Arendt ha chiamato “la banalità del male”. Quel che nel romanzo spiazza è la naturalezza, l’assenza emotiva con cui Max illustra le sue imprese criminali e la sua carriera di macellaio impietoso. Nondimeno, Hilsenrath non mitiga e non nasconde l’orrore del genocidio. Al contrario, utilizza un cupo umorismo propro per renderne più vivida e evidente la portata catastrofica. Con “Il nazista e il barbiere” una comicità irriverente, e le sue enormi potenzialità critiche, fanno il loro ingresso in un recinto da sempre considerato sacro e inviolabile.

Contro Paul Celan, Theodor Adorno sostenne l’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz. Era un paradosso, usato per significare che ogni tentativo di descrivere l’orrore dei campi di concentramento ricorrendo all’arte era destinato al fallimento; e che, anzi, lo stesso ricorso all’arte costituiva un’offesa alla memoria delle vittime dell’Olocausto. Celan si oppose al divieto e creò quella lirica del lamento nel silenzio infinito che è “Todesfuge” (“Fuga di morte”, iniziata nel 1945), rifiutando per anni di incontrare Adorno. Questi riconobbe più tardi la velleità della propria prescrizione.

Oggi, però, è molto più difficile esorcizzare con una risata l’antisemitismo dilagante tra le due sponde dell’Atlantico. Marx diceva che la storia si ripete due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa. Non è vero: anche la seconda può ripetersi come tragedia.