LA SQUADRA DI TRUMP VISTA DAGLI USA
Pietro Molteni
Dare un giudizio sulle nomine che Trump sta effettuando per costituire la sua nuova amministrazione può essere molto semplice ma anche molto difficile. L’approccio facile, abbracciato dai principali media italiani, risulta nell’isterismo incontrollato, nella caricatura e nell’evocazione del tramonto della democrazia.
Più difficile è considerare alcuni dati oggettivi cercando di analizzarli in un quadro più ampio; né Trump, né l’establishment repubblicano, né i loro elettori vogliono la fine della democrazia, né tantomeno la fine dell’America. Inoltre, non bisogna mai dimenticare che Donald Trump è un eccezionale uomo di spettacolo, ed in ogni grande show l’apparenza, il colpo di scena, la provocazione, sono elementi fondamentali, spesso il colpo di teatro serve a focalizzare l’entusiasmo del pubblico verso un lato del palco, distogliendo l’attenzione dai movimenti dal lato opposto, e Trump, da assoluto maestro della comunicazione, conosce perfettamente questi meccanismi.
Le nomine tradizionali
Fatta questa premessa, è bene notare che la maggior parte delle nomine della squadra di Trump sono persone di lunga esperienza politica, che qualsiasi presidente avrebbe preso in considerazione. La carica cruciale di Segretario di Stato (ben più prestigiosa ed influente di quella di vicepresidente) andrà a Marco Rubio, uno dei senatori repubblicani che votò tutti i pacchetti di aiuti militari ad Ucraina ed Israele, sostenitore di una linea fortemente anti-cinese. John Ratcliffe, nominato direttore della CIA, già Direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI), verrà agevolmente confermato dal senato per la lunga esperienza in materia di intelligence; la deputata dell’Oregon Lori Chavez-DeReme, candidata a capo del dipartimento del lavoro, ha già raccolto il favore dei capi dell’International Brotherhood of Teamsters, uno dei più importanti sindacati americani, insieme ad altre sigle che le riconoscono un impegno di anni a sostegno dei diritti sindacali; c’è poi il miliardario Scott Bessent, che ha fatto una brillante carriera nella finanza lavorando anche per George Soros (ironia della sorte), a capo del dipartimento del tesoro, favorevole alla deregolamentazione e all’alleviamento della pressione fiscale. Queste figure in posizioni cruciali, insieme a molte altre, non destano né sorpresa né scandalo, e sono in linea con un partito repubblicano che ha superato le posizioni neocon in politica estera e che vuole continuare la linea dura del contenimento cinese cercando di rilanciare l’economia interna.
Le poltrone che scottano
Decaduta la nomina dei Matt Gaetz a procuratore generale, le nomine più controverse, che hanno monopolizzato il dibattito politico, sono rimaste due: Pete Hegseth a capo del pentagono, ma soprattutto Tulsi Gabbard al DNI (Dipartimento Nazionale dell’Intelligence). Tulsi Gabbard si trova attualmente sotto il fuoco incrociato sia dei democratici che della vecchia guardia repubblicana (come John Bolton), che le rinfacciano alcune posizioni troppo accondiscendenti nei riguardi della Russia, e la sua nomina sta trovando opposizioni anche all’interno delle agenzie di intelligence e militari. Dato l’attuale rapporto molto delicato con la Russia, a cui gli USA si trovano costretti ad aprire in opposizione alla Cina ma al tempo stesso a contrastare per la questione ucraina, la Gabbard non ha al momento tutti i requisiti etici in ordine per ricoprire un incarico delicatissimo, il cui primo dossier sarà proprio la questione russa. Per Pete Hegseth, ex militare e conduttore a Fox News, ciò che gli si rimprovera è la sua inesperienza. Essere a capo del più grande datore di lavoro del mondo (il dipartimento della difesa Usa sfiora i 3 milioni di dipendenti) è un compito immane già per chi ha trascorso l’intera vita all’interno degli apparati federali (il leggendario Ronald Rumsfeld ci arrivò dopo 40 anni di carriera), Hegseth, più che dannoso, rischia di rivelarsi totalmente inutile. Non è chiaro cosa Trump voglia ottenere con la sua nomina, forse solo un volto fotogenico, il suo rapporto con il dipartimento fu a dir poco travagliato durante la prima amministrazione, dove nominò e licenziò ben 6 Segretari della difesa in 4 anni.
Inutile includere nella lista delle nomine controverse il chiacchierato Robert Kennedy Jr., i rigidissimi apparati in materia scientifico-sanitaria non verranno minimamente scalfiti dalle sue posizioni scettiche riguardo i vaccini. È bene ricordare che la battaglia di cui è attualmente portabandiera non è quella anti-vaccinale, ma quella contro il cibo spazzatura e l’abuso di farmaci, entrambi temi molto cari ai democratici (ed estremamente attuali) fino ad un decennio fa, e poi abbandonati. È probabile che, se verrà confermato, potrà incidere su questi due temi.
In materia di immigrazione, la nomina del falco Tom Homan come capo delle frontiere è una mossa che ci si poteva aspettare, data la forte campagna di Trump contro l’immigrazione illegale. Dall’aspetto e la retorica spietati, Tom Homan potrà essere un’ottima bandiera da una parte per combattere l’immigrazione al confine con il Messico in modo spettacolare e crudele, dall’altra per mascherare l’impossibilità di deportare i famigerati 12 milioni di immigrati irregolari che, se si facesse davvero, comporterebbe il collasso dell’economia americana.
Il fattore Musk
Il ruolo di Elon Musk all’interno dell’amministrazione è, questo sì, un unicum storico prima che politico. In passato, membri di importanti famiglie imprenditoriali hanno assunto ruoli di governo (come Nelson Rockfeller, governatore dello stato di New York e vicepresidente di Ford), ma è la prima volta che l’uomo più ricco del mondo, all’apice della sua forza imprenditoriale, e con aziende dominanti in tutti i settori più strategici assume un ruolo di peso nella gestione della macchina statale. In tutti i settori del futuro Musk vanta una credibilità assoluta, dovuta dal fatto di non aver mai fallito un obiettivo che si era posto. Per questo motivo, è incauto pensare che il ministero dell’efficienza governativa, che si presta a presiedere insieme all’imprenditore della farmaceutica Vivek Ramaswami, sia una posizione “cosmetica”.
I due andranno fino in fondo agli obiettivi che verranno stabiliti, e date le straordinarie capacità di entrambi, è probabile che non si limiteranno ad essere la bella copia di Calderoli al ministero della Semplificazione. C’è piuttosto da chiedersi quale sia la vera ragione per cui il proprietario di una delle aziende più strategiche in ambito militare (SpaceX), che ha come clienti principali la Nasa ed il Pentagono, voglia cimentarsi in un ruolo amministrativo che lo porterà inevitabilmente allo scontro con gli stessi apparati che promette di ridimensionare. Il duo Musk-Ramaswami garantirà forse quell’accelerazione tecnologica che le più grandi aziende dell’High Tech americano cercano, e sarà interessante vedere in che modo reagiranno gli apparati statali a quello che verrà considerato un inammissibile conflitto d’interessi, se davvero i due riusciranno ad attuare il taglio alla burocrazia e l’effettivo rafforzamento dell’esecutivo, e fino a che punto l’ego dei due (e quello di Trump) riusciranno a mantenersi in equilibrio.
La squadra di Trump sarà quindi un mosaico di figure istituzionali e di rottura, il cui operato è ora difficile da prevedere. La tendenza più evidente, di impatto internazionale, è la riaffermazione della leadership americana attraverso la dimostrazione della forza, e non attraverso l’adesione a princìpi condivisi dalle Nazioni. Musk, in tutto questo, è il simbolo della volontà di superare la forma delle istituzioni, ed è probabile che ciò faccia da apripista per esperimenti europei sullo stesso tema. Per il resto, la spettacolarità ed i colpi di scena saranno il pane quotidiano di uno show dove Donald Trump sarà il regista, lo sceneggiatore e l’attore protagonista.