lunedì 11 novembre 2024

LA SVASTICA SUL SOLE Philip K. Dick

 
LA SVASTICA SUL SOLE

Philip K. Dick

Recensione

[...] Viviamo in un mondo psicopatico. I pazzi sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo affrontiamo coraggiosamente questa verità? E… quanti di noi lo sanno? […]

[...]La loro visione è cosmica. Non un uomo qui, un bambino là, ma un’astrazione: razza, terra. Volk. Land. Blut. Ehre. (Popolo. Terra. Sangue. Onore). Non l’onore degli uomini degni d’onore, ma lo stesso Ehre; l’astratto è reale, la realtà è invisibile, per loro. Die Güte – il Bene -, ma non i buoni, quest’uomo buono. È il loro senso dello spazio e del tempo. Vedono al di là del presente, nell’immensa profondità nera che sta oltre, l’immutabile. E questo è fatale, per la vita. Perché alla fine non vi sarà più vita[...]

Tra i più noti esempi di romanzo ucronico - genere ibrido tra fantascienza, fantapolitica, storia e distopia - "La svastica sul sole: (noto anche come "L’uomo nell’alto castello:, dal titolo originale inglese) è uno dei più celebri romanzi del primo Philip Dick, un autore di culto ricordato dai più per aver fornito il soggetto del film Blade Runner.

Il libro affronta lo scenario di un mondo in cui la seconda guerra mondiale è stata vinta dalle potenze dell’Asse - la Germania nazista, l’Italia fascista e il Giappone - le quali si sono divise la quasi totalità delle terre emerse, inclusi quegli Stati Uniti che sono stati divisi in due parti (la costa est ai nazisti, quella ovest ai nipponici).

Dick vuole lanciare il messaggio circa l’ineluttabilità degli eventi storici: nel mondo a dominazione nipponico-nazista, i tedeschi progetteranno il bombardamento nucleare contro gli alleati giapponesi. Come a dire che l’uomo non può evitare di toccare il fondo, mirando all’auto-annientamento, indipendentemente dalle pieghe che in concreto prendono gli eventi.

Si può intravedere in Dick anche un inno al libero arbitrio, alla scelta etica individuale in opposizione agli orrori che la storia può proporre.

La svastica sul sole è un romanzo che lascia perplessi. L’idea di fondo è semplicemente geniale e intrigante, l’intenzione di Dick è quella di proporre qualcosa che il lettore non si aspetta, con un finale ancora da scrivere e molti spunti di riflessione.

La genialità di Dick è riuscire a raccontare, in un contesto simile, una storia che parla di persone semplici e non di guerre e scenari apocalittici. E sono queste persone semplici che ci fanno riflettere su quello che siamo e soprattutto che siamo diventati oggi e il bello è che Dick ce lo segnala dal suo lontano 1962.

LA SVASTICA SUL SOLE 

CAPITOLO PRIMO

Da una settimana il signor R. Childan teneva d’occhio ansiosamente la posta. Ma il prezioso pacchetto inviato dagli Stati delle Montagne Rocciose non era ancora arrivato. Il venerdì mattina, quando aprì il negozio e vide sul pavimento solo lettere pensò: il mio cliente si infurierà.

Si versò una tazza di tè istantaneo dal distributore a parete da cinque centesimi, poi prese una scopa e cominciò a spazzare; ben presto l’ingresso venne ripulito e il negozio Manufatti Artistici Americani, tutto tirato a lucido, era pronto per una nuova giornata, con il registratore di cassa pieno di spiccioli, un vaso di calendule fresche e la radio che suonava musica in sottofondo. All’esterno gli uomini d’affari percorrevano veloci il marciapiede diretti verso i loro uffici di Montgomery Street. In lontananza passò un tram a funicolare; Childan si soffermò a guardarlo con vivo compiaci-mento. Donne nei loro lunghi abiti di seta colorata… rimase a guardare anche loro. Poi il telefono suonò e Childan si voltò per rispondere.

«Sì,» disse una voce familiare appena sollevò il ricevitore. Il cuore di Childan ebbe un sussulto. «Qui parla il signor Tagomi. Non è ancora arrivato il mio bando di reclutamento della Guerra Civile, signore? La prego di ricordare, me lo aveva promesso circa una settimana fa.» La voce brusca, risentita, sfiorava i limiti della buona educazione e delle regole di cor-tesia. «Non le ho forse dato un anticipo, signor Childan, signore, quando abbiamo concluso l’accordo? Questo deve essere un regalo, capisce? Gliel’ho spiegato. Un regalo per un cliente.»

«Ho effettuato delle ricerche accurate sull’oggetto che le avevo promesso, signor Tagomi, signore. A mie spese,» cominciò Childan. «Infatti come lei ben sa, non è originano di questa regione e perciò…»

Ma Tagomi lo interruppe: «Quindi non è arrivato.»

«No, signor Tagomi, signore.»

Una pausa gelida.

«Non posso aspettare ulteriormente,» disse Tagomi.

«No, signore.» Childan guardò stupidamente, oltre la vetrina del negozio, la giornata calda e luminosa e i palazzi di San Francisco.


«Allora mi trovi qualcosa che lo sostituisca. Che cosa suggerisce, signor Chil dàn?» Tagomi storpiò volutamente il suo nome; un insulto all’interno delle regole di buona educazione che fece avvampare le orecchie di Childan. L’arroganza del vincitore, la spaventosa mortificazione della loro situazione. Le aspirazioni, le paure e i tormenti di Robert Childan esplosero e lo travolsero, bloccandogli la lingua. Balbettò qualcosa, con la mano tesa sul telefono. Il negozio profumava di calendule, la musica continuava a suonare, ma lui aveva la sensazione di sprofondare in qualche mare lontano.


«Ecco…» riuscì a farfugliare. «Una zangola per il burro. Una gelatiera del 1900 circa.» Il suo cervello si rifiutava di pensare. Proprio quando te ne dimentichi; proprio quando ti prendi in giro da solo. Aveva trentotto anni e ricordava i giorni prima della guerra. Altri tempi. Franklin D. Roosevelt e l’Esposizione Mondiale; il vecchio mondo migliore. «Potrei portar-le in ufficio qualche esemplare interessante?» mormorò.


Si accordarono per le due del pomeriggio. Dovrò chiudere il negozio, si rese conto Childan mentre riappendeva il telefono. Non c’è scelta. Clienti così devo tenermeli buoni; gli affari dipendono da loro.


Sentendosi un po’ malfermo sulle gambe, si accorse che qualcuno era entrato nel negozio: una giovane coppia, un ragazzo e una ragazza, attraenti e ben vestiti. Una coppia ideale. Childan si calmò e si diresse in modo deciso e professionale verso di loro, sorridendo. Si erano chinati per osservare una vetrina accanto alla cassa e avevano preso un magnifico posacenere.


Sposati, si disse. Vivono nella Città delle Nebbie Serpeggianti, la nuova esclusiva zona residenziale di Skyline, con vista su Belmont.


«Salve,» disse, e si sentì meglio. I due gli sorrisero con gentilezza, senza la minima aria di superiorità. I suoi oggetti, che erano davvero i migliori del genere in tutta la Costa, li avevano un po’ spaventati; lui se ne accorse e gliene fu grato. Loro capirono.


«Degli esemplari davvero magnifici, signore,» disse il giovane.


Childan si inchinò spontaneamente.


I loro occhi, caldi non solo di umanità ma della gioia condivisa per gli oggetti d’arte che lui vendeva, dei loro gusti e soddisfazioni reciproche, si fissarono su di lui; lo stavano ringraziando perché possedeva cose come quelle, che loro potevano vedere, prendere in mano ed esaminare, magari senza nemmeno acquistarle. Sì, pensò, loro sanno in che tipo di negozio si trovano; qui non c’è paccottiglia per turisti, niente targhe di legno rosso con la scritta muir woods, marin county, s.a.p., strani cartelli, anelli da ragazzina, cartoline o vedute del Ponte. Soprattutto gli occhi della ragazza, grandi, scuri. Basterebbe poco, pensò Childan, per innamorarmi di una ragazza del genere. E come sarebbe tragica la mia vita, allora; come se non lo fosse già abbastanza. Capelli neri ben pettinati, unghie laccate, orecchie forate da cui pendevano lunghi orecchini di ottone fatti a mano.


«I suoi orecchini,» mormorò Childan. «Li ha forse acquistati qui?»


«No,» rispose lei. «In patria.»


Childan annuì. Niente arte contemporanea americana; solo il passato poteva essere rappresentato lì, in un negozio del genere. «Avete intenzione di trattenervi a lungo?» le domandò. «Nella nostra San Francisco?»


«Io sono di stanza qui, a tempo indeterminato» rispose l’uomo. «Lavoro alla Commissione di Indagine per la Pianificazione del Livello di Vita nelle Zone Sinistrate.» Il suo volto tradiva un certo orgoglio. Ma non era un militare. Uno di quegli zotici in divisa che masticavano gomma, con le lo-ro facce avide da contadino, che se ne andavano a zonzo per Market Street guardando a bocca aperta gli spettacoli osceni, i film erotici, il tiro a segno, i locali notturni da quattro soldi con fotografie di biondone di mezza età che si stringevano i capezzoli fra le dita rugose e rivolgevano sorrisi lascivi al passante… i quartieri più malfamati che costituivano gran parte della zo-na pianeggiante di San Francisco, baracche di lamiera e di legno che erano già spuntate dalle rovine ancor prima che cadesse l’ultima bomba. No…


quell’uomo faceva parte dell’élite. Colto, educato, anche più del signor Tagomi, il quale era in fondo un alto funzionario addetto alla Missione Commerciale della Costa del Pacifico. Tagomi era un uomo anziano, e la sua mentalità si era formata ai tempi del Gabinetto di Guerra.


«Cercavate oggetti d’arte etnica della tradizione americana per fare un regalo?» chiese Childan. «O magari volete arredare il nuovo appartamento per la vostra permanenza in questa città?» In questo caso… il suo cuore prese a battere più forte.


«Ha proprio indovinato,» rispose la ragazza. «Stiamo cominciando ad arredare. Ma non abbiamo ancora le idee chiare. Lei pensa di poterci con-sigliare?»


«Potrei venire nel vostro appartamento, sì,» disse Childan. «Portare diversi esemplari e darvi dei consigli, con vostro comodo. Questa, naturalmente, è la nostra specialità.» Abbassò gli occhi in modo da nascondere la speranza. Poteva essere un affare da migliaia di dollari. «Sto per ricevere un tavolo in acero del New England, tutto con incastri in legno, senza chiodi. Un oggetto di bellezza e valore straordinari. E uno specchio che risale alla Guerra del 1812. Ho anche degli oggetti d’arte aborigena: un gruppo di tappeti in lana di capra, tinto con colori vegetali.»


«Per quanto mi riguarda,» disse l’uomo, «preferisco l’arte delle città.»


«Sì,» disse Childan, premuroso. «Mi ascolti, signore. Ho un pannello proveniente da un vecchio ufficio postale, originale in legno, quattro sezioni, dipinto da Horace Greeley. Un pezzo da collezionista dal valore inestimabile.»


«Ah,» esclamò l’uomo, con gli occhi neri che brillavano per l’interesse.


«E una radio Victrola del 1920 adattata a mobiletto per i liquori.»


«Ah.»


«E ascolti, signore: una fotografia incorniciata di Jean Harlow, con dedica. »


L’uomo sgranò gli occhi.


«Vogliamo accordarci?» disse Childan, rendendosi conto che era il momento psicologicamente adatto. Estrasse dalla tasca interna della giacca una penna e un taccuino. «Prenderò il vostro nome e indirizzo, signori.»


Dopo, mentre la coppia usciva dal negozio, Childan rimase in piedi con le mani dietro la schiena, a guardare la strada. Gioia. Se tutti i giorni fossero come quello… ma era ben più di una questione di affari, del buon andamento del suo negozio. Era l’occasione per conoscere socialmente una giovane coppia giapponese, che lo accettava come uomo invece che come yank o, nel migliore dei casi, come un commerciante che vendeva oggetti artistici. Sì, questi due giovani, della generazione emergente, che non ri-cordavano i giorni prima della guerra, e nemmeno la guerra stessa… erano loro la speranza del mondo. La diversa provenienza non aveva nessun significato, per loro.


Finirà, pensò Childan. Prima o poi. L’idea stessa della provenienza.


Non governanti e governati, ma persone.


Eppure tremava dalla paura, immaginandosi mentre bussava alla loro porta. Controllò i suoi appunti. I signori Kasoura. Sarebbe stato ricevuto, e certamente gli avrebbero offerto del tè. Lui si sarebbe comportato nel mo-do giusto? Avrebbe saputo come muoversi, come parlare, in ogni momento? O sarebbe caduto in disgrazia, come un animale, commettendo qualche sciagurato passo falso?


La ragazza si chiamava Betty. Quanta comprensione nel suo volto, pensò Childan. Occhi gentili, in grado di capire. Senza dubbio, anche nel breve tempo che si era trattenuta nel negozio, lei aveva colto l’immagine delle sue speranze e delle sue sconfitte.


Le sue speranze… all’improvviso ebbe come un senso di vertigine. Quali aspirazioni aveva, ai confini della follia se non del suicidio? Ma si sapeva, esistevano relazioni fra giapponesi e yank, anche se in genere erano fra un uomo giapponese e una donna yank. Questo… l’idea lo sgomentò. E poi lei era sposata. Scacciò dalla sua mente la sfilata di pensieri involontari e si mise di buona lena ad aprire la posta del mattino.


Si accorse che le sue mani tremavano ancora. Poi gli venne in mente l’appuntamento delle due con il signor Tagomi; a quel pensiero, le mani smisero di tremare e il nervosismo si trasformò in risolutezza. Devo pre-sentarmi con qualcosa di accettabile, si disse. Dove? Come? Che cosa?


Una telefonata. Alle fonti. Abilità negli affari. Rimediare una Ford del 1929 completamente revisionata, compreso il tettuccio di stoffa (nero). Un colpo a sensazione, tale da assicurargli una clientela fedele nel tempo. Un trimotore del servizio postale, originale e nuovo di zecca, imballato pezzo per pezzo, scoperto in un granaio dell’Alabama, ecc. La testa mummificata del signor Buffalo Bill, fluenti capelli bianchi compresi; un manufatto americano di sensazionale interesse. Una reputazione tutta da costruire nei circoli degli intenditori più raffinati del Pacifico, comprese le Isole Patrie.


Per farsi venire l’ispirazione, si accese una sigaretta alla marijuana, un eccellente tabacco Land-O-Smiles.


Nella sua stanza di Hayes Street, Frank Frink era a letto e si domandava come avrebbe fatto ad alzarsi. Il sole filtrava attraverso la tapparella sul mucchio di vestiti caduti a terra. Insieme ai suoi occhiali. Li avrebbe cal-pestati? Meglio tentare di raggiungere il bagno facendo un’altra strada, pensò. Strisciando o rotolando. Aveva un gran mal di testa ma non si sentiva triste. Mai guardarsi indietro, decise. Che ora era? L’orologio era sul cassettone. Le undici e mezza! Santo Dio. Ma rimase a letto.


Sono licenziato, pensò.


Il giorno prima, in fabbrica, aveva commesso un errore. Si era rivolto nella maniera sbagliata al signor Wyndham-Matson, il quale aveva un viso schiacciato e un naso simile a quello di Socrate, un anello con diamante e la lampo dei pantaloni d’oro massiccio. In altre parole, un potente. Un tro-no. I pensieri di Frank vagavano senza lucidità.


Sì, pensò, e adesso mi metteranno sulla lista nera; le mie capacità non servono a niente. Un’esperienza di quindici anni. Buttata via.


E adesso avrebbe dovuto comparire di fronte alla Commissione di Giu-stificazione dei Lavoratori per una revisione della sua categoria d’impiego.


Visto che non era mai riuscito a comprendere i rapporti fra Wyndham-Matson e i pinoc - il governo-fantoccio bianco di Sacramento - non era in grado di valutare la potenza del suo ex datore di lavoro nei riguardi della vera autorità, i giapponesi. La CGL era una creatura dei pinoc. Lui si sarebbe ritrovato davanti a quattro o cinque facce bianche e grassocce, di mezza età, sul tipo di Wyndham-Matson. Se non fosse riuscito a giustifi-carsi in quella sede, avrebbe dovuto rivolgersi a una delle Missioni Commerciali Import-Export che operavano fuori Tokyo, e che avevano uffici in California, Oregon, Washington e nelle zone del Nevada comprese negli Stati Americani del Pacifico. Ma se non fosse riuscito a difendersi neppure lì…


La sua testa continuava a elaborare piani mentre lui se ne stava a letto fissando il vecchio lampadario sul soffitto. Per esempio, poteva introdursi clandestinamente negli Stati delle Montagne Rocciose. Ma c’erano rapporti molto stretti con gli Stati Americani del Pacifico, e avrebbero potuto chiedere la sua estradizione. Il Sud, allora? Il suo corpo ebbe un sussulto. Ugh.


Quello no. Come bianco avrebbe avuto a disposizione un’ampia varietà di posti, in effetti più di quelli di cui poteva godere negli S.A.P. Ma… quel genere di posti non gli andava a genio.


E poi, peggio ancora, il Sud intratteneva strettissimi legami economici, ideologici e Dio sa che altro, con il Reich. E Frank Frink era ebreo.


Il suo vero nome era Frank Fink. Era nato sulla Costa Orientale, a New York, e nel 1941 era stato arruolato nell’Esercito degli Stati Uniti d’America, subito dopo il crollo della Russia. Quando i giap avevano preso le Ha-waii, lo avevano spedito sulla Costa Occidentale. Alla fine della guerra si era ritrovato lì, sul lato giapponese della linea di divisione. E si trovava ancora lì, quindici anni dopo.


Nel 1947, il Giorno della Capitolazione, era quasi impazzito. Provava un odio viscerale per i giapponesi e aveva giurato vendetta; aveva sepolto trenta centimetri sottoterra, in una cantina, le sue armi d’ordinanza, ben av-volte e oliate, pronte per il giorno in cui lui e i suoi compagni sarebbero in-sorti. Comunque il tempo si era rivelato la miglior medicina, cosa che lui non aveva preso in considerazione. Se adesso ripensava a quell’idea, il grande bagno di sangue, l’epurazione dei pinoc e dei loro padroni, aveva l’impressione di riguardare uno di quei diari sbiaditi dei tempi del liceo, nei quali si concentravano tutte le sue aspirazioni di adolescente. Frank “Gol-dfish” Fink vuole diventare un paleontologo e giura che sposerà Norma Prout. Norma Prout era la schönes Mädchen [la ragazza più bella] della classe, e lui aveva davvero giurato di sposarla. Tutto questo era così maledettamente lontano nel tempo, che era come ascoltare Fred Allen o vedere un film di W.C. Fields. Dopo il 1947 aveva probabilmente visto o parlato a seicentomila giapponesi, e il desiderio di fare del male a uno qualsiasi di loro, o a tutti quanti, non si era mai materializzato dopo i primi pochi mesi.


Semplicemente non era più una cosa importante.


Ma aspetta. C’era un tizio, un certo signor Omuro, che aveva assunto il controllo di una vasta area di proprietà immobiliari, nel centro di San Francisco, e che per un certo tempo era stato il padrone di casa di Frank.


Un gran figlio di buona donna, pensò. Uno squalo che non provvedeva mai alle riparazioni, che divideva le stanze ricavandone altre stanze sempre più piccole, che alzava i prezzi degli affitti… Omuro aveva spolpato i poveri, soprattutto gli ex militari senza lavoro e quasi senza risorse durante la de-pressione all’inizio degli anni 50. Comunque era stata una delle missioni commerciali giapponesi che aveva chiesto la testa di Omuro per i suoi profitti eccessivi. E al giorno d’oggi una simile violazione della legge civile giapponese, rigida e severa, ma giusta, era impensabile. Era un credito da ascrivere all’incorruttibilità dei funzionari giapponesi di occupazione, specialmente di coloro che erano giunti dopo la caduta del Gabinetto di Guerra.


Ricordando l’austera, stoica onestà delle missioni commerciali, Frink si sentì rassicurato. Anche Wyndham-Matson sarebbe stato allontanato come una mosca fastidiosa, che fosse proprietario o meno della W-M Corporation. O almeno, così sperava. Credo di avere proprio fiducia in questa Al-leanza per la Prosperità Comune del Pacifico, si disse. Strano. Ripensando ai primi tempi… allora era sembrato un falso fin troppo evidente. Propaganda senza contenuto. Ma adesso…


Si alzò dal letto e si diresse faticosamente verso il bagno. Mentre si la-vava e si radeva ascoltò alla radio il notiziario di metà mattina.


«Non deridiamo quest’impresa,» stava dicendo la radio quando lui chiuse per un attimo l’acqua calda.


No, non deridiamola, pensò amaramente Frank. Sapeva a quale particolare impresa si riferiva il notiziario. Eppure c’era qualcosa di umoristico nell’immagine degli stolidi, burberi tedeschi che passeggiavano su Marte, sulla sabbia rossa che nessun essere umano aveva mai calpestato prima.


Insaponandosi le guance, Frink cominciò a canticchiare una satira. Gott, Herr Kreisleiter. Ist dies vielleicht der Ort wo man das Konzentration-slager bilden kann? Das Wetter ist so schön. Heiss, aber doch schön.. .


[Dio, signor Capo Missione, non è questo il luogo ideale in cui sì può creare un campo di concentramento? Il tempo è proprio bello. Molto caldo, ma bello.]


La radio diceva, «La Civiltà della Prosperità Comune deve fare una pausa e domandarsi se, nella nostra ricerca per fornire una equilibrata parità di doveri e responsabilità reciproche in relazione alle retribuzioni…» Il gergo tipico della gerarchia dominante, notò Frink. «…non abbiamo mancato di individuare l’arena futura in cui gli affari dell’uomo verranno decisi, che si tratti di nordici, giapponesi o negroidi…» E così via su questo tono.


Mentre si vestiva, rimuginò compiaciuto la sua satira. Il tempo è schön, so schön. Ma non c’è niente da respirare…


In ogni caso, era un dato di fatto: il Pacifico non aveva fatto niente per colonizzare i pianeti. Si era immischiato - anzi inguaiato - con il Sud America. Mentre i tedeschi erano impegnati a lanciare nello spazio enormi sistemi di costruzione robotizzati, i giap continuavano a bruciare la giungla all’interno del Brasile, costruendo palazzoni d’argilla di otto piani per gli ex cacciatori di teste. Nel momento i cui i giapponesi fossero riusciti a far sollevare da terra la loro prima astronave, i tedeschi avrebbero già avuto il controllo dell’intero sistema solare. Nei tempi descritti dagli antichi libri di storia, i tedeschi erano arrivati in ritardo, mentre il resto dell’Europa dava gli ultimi ritocchi ai suoi imperi coloniali. Ma stavolta, rifletté Frink, non sarebbero arrivati per ultimi: avevano imparato la lezione.


Poi pensò all’Africa e all’esperimento che i nazisti stavano portando avanti laggiù. E il sangue gli si fermò nelle vene, ebbe un attimo di esitazione, poi riprese a scorrere.


Quell’immensa, vuota desolazione.


La radio diceva, «…comunque dobbiamo considerare con orgoglio il nostro interesse per le fondamentali esigenze fisiche delle popolazioni di tutto il mondo, per le loro aspirazioni subspirituali che devono essere…»


Frink spense la radio. Poi, non appena si fu calmato, la riaccese.


Cristo in croce, pensò. L’Africa. Per gli spiriti delle tribù defunte. Spaz-zate via per ricavarne una terra di… di che cosa? Chi lo sapeva? Forse non lo sapevano nemmeno gli architetti di Berlino. C’era un esercito di au-tomi, che costruiva e sfacchinava. Costruiva? Maciullava, piuttosto. Orchi spuntati da un museo di paleontologia, tutti intenti nell’operazione di ricavare una tazza dal cranio del nemico: prima l’intera famiglia ne raschiava il contenuto, cioè il cervello crudo, poi se lo mangiava. E inoltre utensili preziosi ricavati dalle ossa delle gambe degli uomini. Un bell’esempio di economia, pensare non solo di mangiare la gente che non ti andava a genio, ma di mangiarla dentro il suo stesso cranio. I primi tecnici! L’uomo prei-storico in un camice bianco sterile da laboratorio, all’interno di qualche università berlinese, che faceva esperimenti sugli usi ai quali potevano essere destinati il cranio, la pelle, le orecchie, il grasso di altre persone. Ja, Herr Doktor. Un nuovo impiego per l’alluce; “vede, si può adattare la giuntura per il meccanismo di un accendino a scatto. Ora, se solo Herr Krupp potesse produrne in quantità…”


Quel pensiero lo fece inorridire: l’antico, gigantesco cannibale, quasi-uomo, che adesso prosperava, ed era tornato a governare il mondo. C’è voluto un milione di anni per sfuggirgli, pensò Frink, e lui è tornato. E non come semplice avversario… ma come padrone.


«…possiamo deplorare,» stava dicendo la radio, la voce dei piccoli ventri gialli di Tokyo. Dio, pensò Frink; e li chiamavamo scimmie, questi gamberi civilizzati dalle gambe arcuate che non installerebbero forni a gas più di quanto fonderebbero le loro mogli per ricavarne ceralacca, «…e abbiamo deplorato spesso in passato il terribile spreco di vite umane in questo sforzo fanatico che pone masse sempre più consistenti di uomini del tutto al di fuori della comunità legale.» Loro, i giap, erano così rigidi, in fatto di legge. «…per citare un santo dell’occidente ben noto a tutti: che beneficio ricava un uomo se conquista il mondo intero ma in questa impresa perde la propria anima?» La radio fece una pausa. Anche Frink si fermò, mentre si annodava la cravatta. Era l’ora dell’abluzione mattutina.


Devo trovare un accordo con loro qui, si rese conto. Lista nera o no; per me è la fine, se lascio il territorio controllato dai giapponesi e mi faccio vedere nel Sud o in Europa… in qualsiasi parte del Reich.


Dovrò scendere a patti con il vecchio Wyndham-Matson.


Seduto sul letto, con una tazza di tè tiepido, Frink tirò fuori la sua copia dell’ I Ching. Estrasse i quarantanove steli di millefoglie dalla custodia di pelle e si concentrò finché non si sentì in grado di controllare adeguata-mente i propri pensieri e non ebbe elaborato le domande.


Disse ad alta voce: «Come devo rivolgermi a Wyndham-Matson in mo-do da raggiungere con lui un accordo soddisfacente?» Scrisse la domanda sul blocco di carta, poi cominciò a muovere gli steli di millefoglie da una mano all’altra finché non ottenne la prima linea, l’inizio. Un otto. Questo già eliminava la metà dei sessantaquattro esagrammi. Divise gli steli e ottenne la seconda linea. Ben presto, esperto com’era, ebbe tutte e sei le linee; l’esagramma era davanti a lui e non ebbe bisogno di consultare il libro.


Era in grado di riconoscerlo come l’Esagramma Quindici. Ch’ien. La Mo-destia. Ah. Coloro che sono in basso verranno elevati, coloro che sono in alto abbassati, le famiglie potenti umiliate; non fu necessario consultare il testo… lo conosceva a memoria. Un buon auspicio. L’oracolo gli stava for-nendo un responso favorevole.


Eppure provò una certa delusione. C’era qualcosa di fatuo nell’Esagramma Quindici. Troppo prevedibile. Doveva per forza essere modesto.


Ma forse c’era un’idea, dietro tutto ciò. In fin dei conti lui non aveva alcun potere sul vecchio W-M. Non poteva imporgli di riassumerlo. Tutto ciò che poteva fare era adottare il punto di vista dell’Esagramma Quindici; era quel momento particolare in cui ci si doveva limitare a far domande, sperare e aspettare fiduciosi. Al momento giusto il cielo lo avrebbe risollevato al suo vecchio lavoro o forse anche a qualcosa di meglio.


Non c’erano linee da leggere, nessun nove e nessun sei. Era un esagramma statico. Perciò aveva finito. Non poteva diventare un secondo esagramma.


Ma allora, ecco una nuova domanda. Si preparò e disse a voce alta: «Rivedrò Juliana?»


Era sua moglie, anzi la sua ex moglie. Juliana aveva divorziato da lui un anno prima, e non la vedeva da mesi; anzi non sapeva nemmeno dove abi-tasse. Evidentemente aveva lasciato San Francisco, forse gli stessi S.A.P.


Neanche i suoi migliori amici avevano sue notizie, o forse non volevano riferirgliele.


Maneggiò laboriosamente gli steli di millefoglie, con gli occhi fissi sul punteggio. Quante volte aveva fatto domande su Juliana, in un modo o nell’altro? Ecco l’esagramma, formato dal passivo movimento casuale dei bastoncini. Casuale, eppure radicato nel momento in cui lui viveva, in cui la sua vita era legata a tante altre vite e particelle dell’universo. Il necessario esagramma che tratteggiava, nel suo schema di linee intere e spezzate, la situazione. Lui, Juliana, la fabbrica di Gough Street, le Missioni Commerciali che dettavano legge, l’esplorazione dei pianeti, i miliardi di mucchietti di residui chimici, in Africa, che non erano nemmeno più cadaveri, le aspirazioni di migliaia di persone intorno a lui, nelle squallide conigliere di San Francisco, le creature folli di Berlino con i loro volti impassibili e i progetti maniacali… tutto collegato in quel momento nel quale si gettavano gli steli di millefoglie per selezionare la saggezza appropriata in un libro iniziato nel trentesimo secolo prima di Cristo. Un libro creato dai saggi della Cina durante un periodo di cinquemila anni, vagliato e perfezionato; quella cosmologia - e quella scienza - superba, codificata prima ancora che l’Europa avesse imparato a fare le divisioni.


L’esagramma. Il suo cuore ebbe un sussulto. Quarantaquattro. Kou. Il Farsi incontro. Il suo giudizio raggelante. La ragazza è potente. Non bisogna sposare una ragazza del genere. Era venuto fuori di nuovo, in relazione a Juliana.


Vabbé, pensò, rilassandosi. Dunque era la donna sbagliata per me; lo so. Non è questo che ho chiesto. Perché l’oracolo me lo deve ricordare?


Un brutto destino, il mio, quello di averla incontrata e di essermi innamorato - di essere ancora innamorato - di lei.


Juliana… la donna più bella che avesse mai sposato. Ciglia e capelli ne-rissimi, tracce consistenti di sangue spagnolo distribuito come puro colore, perfino nelle labbra. Un’andatura elastica, silenziosa; ai piedi scarpe sportive, un ricordo del liceo. In realtà ogni suo capo d’abbigliamento aveva un aspetto sciupato, e dava la netta impressione di essere vecchio e lavato più volte. Tutti e due erano stati così poveri che, malgrado la sua bella figura, Juliana era stata costretta a indossare una camicetta di cotone, una giacca di tela con chiusura lampo, una gonna marrone di tweed e calze fino al ginocchio, e odiava sia lui che quell’abbigliamento perché, diceva, la faceva sembrare come una donna che giocasse a tennis o (peggio ancora) che andasse a raccogliere funghi nei boschi.


Ma al di là di tutto, era stato inizialmente attratto dalla sua espressione singolare; senza una ragione particolare, Juliana accoglieva gli estranei con un portentoso, imbarazzante sorriso da Monna Lisa che li lasciava in so-speso tra reazioni contrastanti, indecisi se salutare o no. E lei era così attraente che il più delle volte decidevano di salutare, mentre Juliana si di-leguava. Inizialmente lui aveva pensato che si trattasse di un semplice problema visivo, ma alla fine aveva deciso che tradiva invece una profonda, intima stupidità, altrimenti ben nascosta. E così, in conclusione, quel suo modo sfarfallante di salutare gli estranei gli era venuto a noia, così come quel suo modo di andare e venire senza rumore, senza apparente movimento, del tipo devo-fare-qualcosa-di-misterioso. Ma anche allora, verso la fine, lui non l’aveva mai vista se non come una invenzione diretta, letterale di Dio, calata nella sua vita per motivi che non avrebbe mai conosciuto. E per quella ragione - per una specie di intuizione religiosa, o per una grande fede in lei - non riusciva a darsi pace per averla perduta.


Adesso sembrava così vicina… come se fossero ancora insieme. Quello spirito, ancora vivo e presente nella sua vita, che frugava nella sua stanza in cerca di… di qualunque cosa Juliana stesse cercando. E dentro la sua mente, ogni volta che prendeva i volumi dell’oracolo.


Seduto sul letto, circondato da un desolato disordine, mentre si preparava per uscire e cominciare la sua giornata, Frank Frink si domandò chi mai in quello stesso momento, nella vasta, complessa città di San Francisco, stesse consultando l’oracolo. E se tutti ottenevano il suo stesso triste responso. E il tenore del Momento era negativo per loro come per lui?

CAPITOLO SECONDO


Il signor Nobosuke Tagomi stava consultando il divino Quinto Libro della Saggezza Confuciana, l’oracolo taoista chiamato da secoli I Ching o Libro dei Mutamenti. Quella stessa mattina, verso mezzogiorno, aveva cominciato a provare qualche apprensione per il suo appuntamento con il signor Childan, che era previsto un paio d’ore dopo.


Il gruppo di uffici al ventesimo piano del Nippon Times Building in Ta-ylor Street dominava la Baia. Dalla finestra poteva osservare le navi che entravano, passando sotto il Golden Gate. Proprio in quel momento si vedeva un mercantile al di là di Alcatraz, ma il signor Tagomi non se ne cu-rò. Andò verso la parete, sciolse la cordicella e abbassò la tapparella di bambù, coprendo la finestra. Il vasto ufficio centrale divenne più buio; adesso non doveva più socchiudere gli occhi per ripararsi dal riverbero. Adesso poteva riflettere con maggiore lucidità.


Non aveva la possibilità, decise, di soddisfare il suo cliente. Qualunque cosa gli avesse portato il signor Childan, il suo cliente non ne sarebbe stato impressionato. Guardiamo in faccia la realtà, si era detto. Quanto possiamo impedirgli di rimanere del tutto deluso.


Possiamo risparmiargli l’insulto di un regalo inadeguato.


Ben presto il cliente avrebbe raggiunto l’aeroporto di San Francisco a bordo del nuovo razzo tedesco, l’esclusivo Messerschmitt 9-E. Il signor Tagomi non era mai salito a bordo di un velivolo come quello. Al momento dell’incontro con il signor Baynes, sarebbe dovuto stare attento a simula-re indifferenza, per quando grande si potesse rivelare il razzo. E adesso pensiamo a fare un po’ di pratica. Si mise davanti allo specchio sulla parete dell’ufficio e atteggiò il volto a un’espressione di compostezza appena annoiata, esaminando i suoi stessi lineamenti freddi in cerca di qualunque eventuale segno di tradimento. « Sì, sono molto rumorosi, signor Baynes, signore. Non si può leggere. Però il volo da Stoccolma a San Francisco dura solo quarantacinque minuti. » O magari un accenno a proposito delle carenze meccaniche dei tedeschi? « Immagino che abbia sentito la radio.


Quell’incidente sul Madagascar. Devo dire che i vecchi aerei a pistoni potrebbero ancora fare la loro parte. »


Essenziale evitare discorsi politici. Perché lui non conosceva le opinioni del signor Baynes sulle questioni attuali più importanti. Eppure potrebbero venire fuori. Era probabile che il signor Baynes, essendo svedese, fosse neutrale. Però aveva scelto la Lufthansa invece che la SAS. Una cauta manovra di aggiramento… « signor Baynes, signore, dicono che Herr Bormann sia molto ammalato. Che il prossimo autunno la Partei sceglierà il nuovo Cancelliere del Reich. Sono solo voci? Purtroppo c’è molta segretezza fra il Pacifico e il Reich. »


Dentro il fascicolo sulla scrivania c’era un ritaglio del New York Times di un recente discorso del signor Baynes. Tagomi lo studiò scrupolosamente, chinandosi in avanti a causa di un leggero difetto delle sue lenti a contatto. Il discorso aveva a che fare con la necessità di effettuare ulteriori e-splorazioni (era la novantottesima volta?) in cerca di sorgenti d’acqua sulla Luna. «Possiamo ancora risolvere questo lacerante dilemma,» diceva l’articolo, citando le parole del signor Baynes. «È il corpo celeste più vicino a noi, eppure è anche il più avaro di soddisfazioni, a parte lo sfruttamento a scopi militari.» Sic! Pensò il signor Tagomi, usando quel termine latino ormai adottato nelle alte sfere. È una chiave per capire il signor Baynes.


Non vede di buon occhio quello che è soltanto militare. Il signor Tagomi ne prese nota mentalmente.


Premendo il pulsante del citofono disse: «Signorina Ephreikian, la prego di venire qui con il registratore.»


La porta esterna dell’ufficio scivolò di lato e apparve la signorina Ephreikian, quel giorno piacevolmente adorna di fiori azzurri fra i capelli.


«Lillà,» osservò il signor Tagomi. Un tempo, quando ancora viveva a Hokkaido, in Giappone, aveva esercitato la professione di coltivatore di fiori.


La signorina Ephreikian, una ragazza armena alta, dai capelli castani, fe-ce un inchino.


«È pronta con lo Zip-Track Speed Master?» le domandò il signor Tagomi.


«Sì, signor Tagomi.» La signorina Ephreikian si sedette, con il registratore portatile a batteria pronto all’uso.


Il signor Tagomi cominciò: «Ho domandato all’oracolo se il mio incontro con il signor Childan sarebbe stato vantaggioso, e con mio grande sgomento ho ottenuto in risposta il minaccioso esagramma “La Preponde-ranza del grande”. La trave maestra si piega. Troppo peso nel mezzo; tutto fuori equilibrio. Chiaramente lontano dal Tao.» Il registratore ronzava.


Il signor Tagomi fece una pausa, riflettendo.


La signorina Ephreikian lo guardò, in attesa. Il ronzio cessò.


«Faccia accomodare un momento il signor Ramsey, per favore,» disse Tagomi.


«Sì, signor Tagomi.» La ragazza si alzò, appoggiando il registratore; mentre usciva dall’ufficio i suoi tacchi risuonarono sul pavimento.


Apparve il signor Ramsey con una grossa cartella di bolle di carico sotto il braccio. Giovane, sorridente, si fece avanti: indossava una elegante cravatta a stringa, tipica delle pianure del Midwest, una camicia a scacchi e dei blue jeans attillati e senza cinta, considerati molto esclusivi da coloro che seguivano l’ultima moda. «Come va, signor Tagomi?» disse. «È proprio una bella giornata, signore.»


Il signor Tagomi fece un inchino.


Il signor Ramsey si irrigidì all’improvviso e si inchinò anche lui.


«Ho consultato l’oracolo,» disse il signor Tagomi, e la signorina Ephreikian tornò a sedersi, riprendendo il registratore. «Lei si rende conto che il signor Baynes, che come sa bene, arriverà di persona fra poco, fa riferimento all’ideologia nordica in merito alla cosiddetta cultura orientale. Io potrei fare lo sforzo di abbagliarlo e di favorirne una migliore comprensione con autentici capolavori dell’arte grafica cinese o con ceramiche del nostro periodo Tokugawa… ma il nostro compito non è quello di convertire la gente.»


«Capisco,» disse il signor Ramsey; il suo viso caucasico era deformato per lo sforzo dovuto alla concentrazione.


«Perciò noi terremo conto del suo pregiudizio e gli offriremo invece un prodotto americano di grande valore.»


«Sì.»


«Lei, signore, è di discendenza americana. Benché si sia preso il disturbo di scurire il colore della sua pelle.» Fissò intensamente il signor Ramsey.


«L’abbronzatura è merito della lampada solare,» mormorò Ramsey. «So-lo per acquisire un po’ di vitamina D.» Ma la sua espressione umiliata era eloquente. «Le assicuro che ho autentiche radici…» Ramsey si impappinò.


«Non ho troncato tutti i legami con… con i modelli etnici indigeni.»


Il signor Tagomi disse alla signorina Ephreikian, «Riprenda, prego.» Il registratore ricominciò a ronzare. «Consultando l’oracolo e ottenendo l’Esagramma Ta Kuo, Ventotto, ho anche ricevuto la sfavorevole linea nove.


Essa dice:



Un pioppo secco getta boccioli.


Una donna anziana prende un marito più giovane.


Nessuna macchia. Nessuna lode.


«Questo indica chiaramente che alle due il signor Childan non avrà nulla di degno da offrirci.» Il signor Tagomi fece una pausa. «Diciamo la verità.


Non posso fare affidamento sul mio giudizio per quanto riguarda gli oggetti d’arte americana. Ecco perché…» Esitò a lungo, prima di scegliere le parole. «Ecco perché lei, signor Ramsey, che è diciamo così un indigeno per nascita, mi è necessario. Ovviamente dobbiamo fare del nostro meglio.»


Ramsey non sapeva che cosa replicare. Ma nonostante i suoi sforzi di nasconderlo, i suoi lineamenti tradivano un’ira risentita, una reazione muta e frustrata.


«Adesso,» riprese il signor Tagomi. «Ho consultato ancora l’oracolo. Per motivi di riservatezza non posso rivelarle la domanda, signor Ramsey.» In altre parole, il suo tono voleva dire, lei e tutti i pinoc come lei non siete autorizzati a conoscere le delicate questioni di cui noi ci occupiamo. «Le ba-sti sapere, comunque, che ho ricevuto un responso particolarmente allarmante. Ho dovuto rifletterci a lungo.»


Il signor Ramsey e la signorina Ephreikian lo guardarono con grande attenzione.


«Riguarda il signor Baynes,» disse Tagomi.


Essi annuirono.


«La mia domanda a proposito del signor Baynes ha prodotto, attraverso l’imperscrutabile opera del Tao, l’Esagramma Sheng, Quarantasei. Un buon responso. E la linea sei all’inizio e nove al secondo posto.» La sua domanda era stata: «riuscirò a trattare con il signor Baynes in modo proficuo?» E


il nove al secondo posto lo aveva rassicurato che ci sarebbe riuscito. Diceva:



Se si è veraci


È propizio anche offrire un piccolo sacrificio.


Nessuna macchia.


Ovviamente il signor Baynes sarebbe rimasto soddisfatto di qualsiasi regalo l’importante Missione Commerciale gli avesse elargito tramite i buoni uffici del signor Tagomi. Ma il signor Tagomi, nel porre la domanda, aveva nel profondo della sua mente una richiesta più profonda, della quale era sì e no consapevole. Come capita spesso, l’oracolo aveva captato quella richiesta ancora più importante e, nel rispondere alla prima, si era fatto carico di rispondere anche alla seconda, presente solo a livello subliminale.


«Come sappiamo,» disse Tagomi, «il signor Baynes ci sta portando un rapporto dettagliato sui nuovi stampi a iniezione costruiti in Svezia. Se riusciamo a stipulare un contratto con la sua ditta, saremo certamente in grado di sostituire con la plastica molti metalli di cui attualmente c’è scarsità.»


Da anni gli Stati Americani del Pacifico tentavano di ottenere dal Reich un minimo di assistenza nel settore dei prodotti sintetici. Ma i grandi monopoli tedeschi della chimica, in particolare la I.G. Farben, avevano protetto i brevetti; detenevano, in effetti, il monopolio mondiale della plastica, specialmente nello sviluppo dei poliesteri. In questo modo l’attività commerciale del Reich era sempre in vantaggio su quella del Pacifico, e la sua tecnologia almeno dieci anni più avanti. I razzi interplanetari che lasciava-no Festung Europa [Fortezza Europa] erano fabbricati soprattutto con materie plastiche resistenti al calore, molto leggere, ma così robuste da non risentire nemmeno dell’impatto con una grossa meteora. Il Pacifico non disponeva di nulla del genere; si usavano ancora le fibre naturali, come il legno, e naturalmente le diverse leghe metalliche. Il signor Tagomi rabbrivi-diva al solo pensarci; alle esposizioni industriali aveva visto alcuni dei manufatti tedeschi più avanzati, compresa un’automobile totalmente sintetica, la D.S.S. - Der Schnelle Spuk - che si vendeva, in moneta SAP, a circa seicento dollari.


Ma la sua domanda segreta, una domanda che non avrebbe mai potuto rivelare ai pinoc che lavoravano negli uffici della Missione Commerciale, aveva a che fare con un aspetto del signor Baynes suggerito dal cablo-gramma in codice inviato da Tokyo. In primo luogo, il materiale in codice era raro e di solito si riferiva a questioni di sicurezza, non ad accordi commerciali. E poi il cifrario era del tipo a metafora, quello con l’uso di allu-sioni poetiche, adottato per ingannare gli osservatori del Reich, che erano in grado di decifrare qualsiasi codice letterale, per quanto elaborato. Chiaramente, perciò, era al Reich che le autorità di Tokyo avevano pensato, non a qualche cricca in vena di slealtà nelle Isole Patrie. La frase chiave:


«Latte scremato nella sua dieta,» si riferiva a Pinafore, a quella strana can-zone che spiegava la dottrina. «…Le cose sono raramente ciò che appaiono


/ il latte scremato è mascherato da panna.» E l’ I Ching, quando il signor Tagomi lo aveva consultato, aveva confermato la sua intuizione. Questo era stato il suo commento:



Si presuppone che serva un uomo forte. È vero che non si adatta al suo ambiente, perché è troppo brusco e presta un’attenzione troppo scarsa alla forma. Ma poiché è di carattere onesto, ne deriva una reazione…


L’intuizione era, semplicemente, che il signor Baynes non fosse ciò che sembrava; che il vero motivo della sua venuta a San Francisco non fosse quello di stipulare un contratto per gli stampi a iniezione. Che in effetti il signor Baynes fosse una spia.


Ma, anche se ne fosse dipesa la sua vita, il signor Tagomi non sarebbe mai stato in grado di capire che genere di spia fosse, per chi o che cosa la-vorasse.


All’una e quaranta di quel pomeriggio Robert Childan, con grande riluttanza, chiuse a chiave la porta esterna della Manufatti Artistici Americani.


Trasportò sul marciapiede, non senza fatica, le pesanti borse, chiamò un taxi a pedali e disse al chink di portarlo al Nippon Times Building.


Il chink, magro, sudato e ingobbito, accennò con un gemito ansimante di aver capito e cominciò a caricare sul veicolo le borse del signor Childan.


Poi, dopo aver aiutato lo stesso signor Childan ad accomodarsi sul sedile ricoperto da un tappeto, il chink fece scattare il tassametro, montò sul sel-lino e cominciò a pedalare lungo Montgomery Street, in mezzo a macchine e autobus.


L’intera mattinata era trascorsa nella ricerca di un oggetto per il signor Tagomi, e l’amarezza e l’ansietà di Childan erano sempre sul punto di so-praffarlo, mentre guardava i palazzi che gli scorrevano accanto. Eppure…


un trionfo. Un’abilità separata dal resto di lui: aveva trovato l’oggetto giusto, il signor Tagomi si sarebbe addolcito, e il suo cliente, chiunque fosse, ne sarebbe stato deliziato. Riesco sempre a soddisfare i miei clienti, pensò Childan. Tutti.


Era riuscito miracolosamente a procurarsi una copia quasi intonsa del numero uno, volume primo, di Tip Top Comics. Risaliva agli anni 30 ed era un esemplare significativo di arte americana dell’epoca; uno dei primi giornalini a fumetti per bambini, un pezzo per il quale i collezionisti facevano pazzie. Naturalmente aveva con sé altri oggetti, da mostrare per primi. Sarebbe passato di oggetto in oggetto fino al giornalino, che si trovava ben protetto in una borsetta di pelle, avvolto da carta velina, all’interno della borsa più grande.


La radio del taxi a pedali trasmetteva ad alto volume canzoni popolari, facendo a gara con le radio degli altri taxi, automobili e autobus. Childan non prestava ascolto; era abituato a quel frastuono. E non faceva caso nemmeno alle enormi insegne al neon con i loro annunci permanenti, che nascondevano alla vista praticamente ogni edificio di grandi dimensioni. In fin dei conti, anche lui aveva la sua insegna; di notte si accendeva e si spe-gneva insieme a tutte le altre della città. Del resto, in quale altro modo ci si poteva fare pubblicità? Bisognava essere realistici.


In effetti il rumore delle radio, il frastuono del traffico, le insegne e la gente lo cullavano. Cancellavano le sue preoccupazioni. Ed era piacevole essere trasportato da un altro essere umano, avvertire lo sforzo dei muscoli del chink trasmesso sotto forma di vibrazioni regolari; una specie di macchina per il rilassamento, pensò Childan. Essere trasportato invece di dover trasportare. E… trovarsi, anche se solo per un attimo, in una posizione di superiorità.


Si risvegliò provando un senso di colpa. C’erano troppe cose da pro-grammare, non c’era tempo per un pisolino pomeridiano. Era vestito in modo adeguato per entrare nel Nippon Times Building? Magari sarebbe svenuto nell’ascensore ad alta velocità. Però aveva con sé le pastiglie contro il mal di moto, un prodotto tedesco. Le diverse forme di approccio… le conosceva tutte. Chi trattare educatamente, chi senza riguardo. Essere brusco con il portiere, con il fattorino dell’ascensore, con il centralinista, con l’accompagnatore, con qualunque persona che avesse mansioni puramente esecutive. Inchinarsi di fronte a ogni giapponese, naturalmente, anche se questo poteva significare inchinarsi qualche centinaio di volte. Quanto ai pinoc… una zona nebulosa. Inchinarsi, ma guardare diritto oltre di loro, come se non esistessero. Era stata prevista ogni situazione, dunque? E se avesse incontrato un visitatore straniero? Nelle Missioni Commerciali non era insolito incontrare dei tedeschi, e anche dei neutrali.


Ma gli poteva anche capitare di incontrare uno schiavo.


Le navi tedesche o del Sud attraccavano in continuazione al porto di San Francisco, e di tanto in tanto i neri erano autorizzati ad andare in giro, per brevi permessi. Sempre in gruppi di non più di tre individui. Dopo il tramonto dovevano rientrare; dovevano rispettare il coprifuoco anche sotto le leggi del Pacifico. Ma gli schiavi facevano anche gli scaricatori, e questi vivevano sempre sulla terraferma, in baracche costruite sotto i moli, appena sopra il pelo dell’acqua. Non ce n’era nessuno negli uffici delle missioni commerciali, ma se ci fosse stato un trasloco dalla nave… per esempio, doveva portare lui stesso le borse fino all’ufficio del signor Tagomi? Certamente no. Avrebbe dovuto trovare uno schiavo, anche a costo di aspettare in piedi per un’ora. Anche a costo di arrivare tardi all’appuntamento. Non era nemmeno concepibile che uno schiavo potesse vederlo mentre trasportava qualcosa; su quello doveva stare molto attento. Un errore simile gli sarebbe costato caro; chiunque lo avesse visto, non lo avrebbe più degnato della minima considerazione.


In un certo senso, pensò Childan, quasi quasi mi piacerebbe trasportare da solo le borse all’interno del Nippon Times Building, facendomi vedere da tutti. Che gesto grandioso! In realtà non è un comportamento illegale, e io non finirei in carcere. E mostrerei i miei veri sentimenti, l’aspetto di un uomo che non si mostra mai in pubblico. Ma…


Potrei farlo, pensò, se non ci fossero quei dannati schiavi negri che raz-zolano in giro; potrei sopportare di essere guardato da coloro che sono al di sopra di me, e potrei sopportare il loro disprezzo… in definitiva, mi di-sprezzano e mi umiliano tutti i giorni. Ma farmi vedere da individui infe-riori, sentire il loro disprezzo… Come questo chink che pedala davanti a me. Se non avessi preso un taxi a pedali, se lui mi avesse visto mentre ten-tavo di andare a piedi a un appuntamento di lavoro…


Bisognava prendersela con i tedeschi, per questa situazione. Per la loro tendenza ad azzannare bocconi più grossi di quanto potessero masticare.


Dopo tutto erano riusciti a malapena a vincere la guerra, e tutt’a un tratto si erano lanciati alla conquista del sistema solare, mentre in patria emanava-no editti che… be’, almeno l’idea era buona. E in definitiva avevano avuto successo con gli ebrei, con gli zingari e con gli studiosi della Bibbia. E gli slavi erano stati ricacciati indietro di duemila anni, fino alle loro terre d’origine in Asia. Fuori dall’Europa, con grande sollievo di tutti. Rimandati a cavalcare gli yak e a cacciare con arco e frecce. E le grandi riviste patinate che si stampavano a Monaco e che circolavano in tutte le librerie e le edi-cole… si potevano vedere le fotografie, a colori e a tutta pagina: i coloni ariani con gli occhi azzurri e i capelli biondi che adesso laboriosamente dis-sodavano, aravano e coltivavano le terre nell’immenso granaio d’Europa, l’Ucraina. Quelli sì, che avevano l’aria felice. E le loro fattorie e le loro ca-se erano pulite. Non si vedevano più le immagini di polacchi ubriachi, dal cervello ottenebrato, stravaccati su portici cadenti o impegnati a rubacchia-re qualche rapa appassita nel mercato del paese. Era solo un retaggio del passato, come le strade malridotte in terra battuta che una volta, nel periodo delle piogge, si trasformavano in un pantano, e dove i carri sprofonda-vano.


Ma l’Africa. Laggiù si erano semplicemente lasciati trascinare dall’entusiasmo, e c’era da ammirarli, anche se avrebbero fatto meglio ad avere un po’ più di pazienza e ad aspettare, per esempio, che fosse portato a termine il Progetto Terre da Coltivare. Ma laggiù i nazisti avevano mostrato dell’autentico genio, rivelando tutto il loro talento artistico. Il Mediterraneo chiuso, prosciugato, trasformato in terreno coltivabile per mezzo dell’energia atomica… che grande ardimento! Coloro che ne avevano riso c’erano rimasti male, come per esempio certi scettici mercanti di Montgomery Street. Alla resa dei conti si era rivelato quasi un successo… ma in un progetto di quelle dimensioni, “quasi” era una parola che aveva un suono minaccioso. Il ben noto, vigoroso saggio di Rosenberg era stato pubblicato nel 1958; in quell’occasione era stata pronunciata la parola per la prima volta. Per quanto riguarda la Soluzione Finale del Problema Africano, abbiamo quasi raggiunto i nostri obiettivi. Sfortunatamente, però…


Eppure c’erano voluti duecento anni per liberarsi degli aborigeni americani, e la Germania, in Africa, ce l’aveva quasi fatta in quindici anni.


Quindi non era il caso di criticare, a rigor di logica. In effetti Childan, di recente, aveva avuto occasione di parlarne a pranzo con alcuni di quei mercanti. Evidentemente si aspettavano dei miracoli, come se i nazisti avessero potuto rimodellare il mondo con la bacchetta magica. No, si trattava di scienza e di tecnologia, e del loro eccezionale talento per il lavoro duro; i tedeschi non smettevano mai di impegnarsi. E quando si assumeva-no un compito, lo svolgevano bene.


E comunque i voli su Marte avevano distolto l’attenzione del mondo dai problemi africani. Perciò tutto si riduceva a quello che lui aveva detto ai suoi colleghi negozianti; «ciò che i nazisti possiedono, e a noi manca, è…


la nobiltà. Bisogna ammirarli per la loro dedizione al lavoro o per la loro efficienza… ma è il sogno, che attira. I voli spaziali prima sulla Luna, poi su Marte; non è quello il più antico desiderio dell’uomo, la più grande speranza di gloria? E poi, dall’altra parte, ci sono i giapponesi. Io li conosco bene; faccio affari con loro, in definitiva, un giorno sì e un giorno no. Sono degli orientali, diciamo la verità. Individui dalla pelle gialla. Noi bianchi dobbiamo inchinarci davanti a loro perché detengono il potere. Ma il nostro sguardo è rivolto alla Germania; in loro vediamo ciò che si può fare laddove il potere lo detengano i bianchi, ed è tutta un’altra cosa.»


«Siamo quasi arrivati al Nippon Times Building, signore,» disse il chink,


che ansimava per lo sforzo di risalire la collina. Adesso aveva rallentato.


Childan cercò di immaginare fra sé il cliente del signor Tagomi. Era evidente che si trattava di una persona molto importante; il suo tono al telefono, la sua grande agitazione, gli avevano comunicato l’evidenza del fatto.


Gli venne subito in mente l’immagine di uno dei più importanti clienti, an-zi acquirenti, che lui stesso aveva, un uomo che aveva contribuito molto a creargli una buona reputazione fra i personaggi d’alto rango che risiedeva-no nella zona della Baia.


Quattro anni prima non trattava oggetti rari e preziosi come adesso; aveva un negozietto buio dove vendeva libri di seconda mano, sulla Geary; i negozi vicini trattavano mobili usati, o ferramenta, oppure si trattava di la-vanderie. Non era una bella zona. Di notte, sul marciapiede, erano frequenti le rapine a mano armata, e si registravano anche casi di violenza carnale, nonostante gli sforzi del Dipartimento di Polizia di San Francisco e addirittura della Kempeitai, la polizia giapponese. Tutte le vetrine dei negozi avevano delle grate metalliche che la sera venivano abbassate per evitare i furti con scasso. Eppure in questo quartiere della città era capitato un anziano ex militare giapponese, il maggiore Ito Humo. Alto, magro, con i capelli bianchi, l’andatura impettita, il maggiore Humo aveva indicato per primo a Childan ciò che avrebbe potuto fare con quel tipo di commercio.


«Sono un collezionista,» aveva spiegato il maggiore Humo. Aveva passato un intero pomeriggio frugando nel negozio in mezzo ai mucchi di vecchie riviste. Con la sua voce dolce gli aveva spiegato qualcosa che sul momento Childan non aveva capito bene; per molti giapponesi ricchi e colti, gli oggetti storici della cultura popolare americana rivestivano lo stesso interesse dei pezzi di antiquariato in genere. Perché avvenisse questo, neanche il maggiore lo sapeva; a lui interessava particolarmente raccogliere i vecchi giornali che trattavano dei bottoni di metallo, e naturalmente anche i bottoni stessi. Una cosa simile alle collezioni di monete o di francobolli; non c’era nessuna spiegazione razionale. E i collezionisti ricchi erano disposti a pagare prezzi altissimi.


«Le farò un esempio,» aveva detto il maggiore. «Lei conosce le figurine chiamate “Gli Orrori della Guerra?”» E aveva guardato Childan con avidità.


Dopo aver frugato nella memoria, alla fine Childan si era ricordato.


Quando era ancora un bambino, quelle figurine venivano distribuite insieme alla gomma da masticare. Un centesimo al pezzo. Ne era stata stampata un’intera serie, e ogni carta rappresentava un orrore differente.


«Un mio caro amico,» aveva proseguito il maggiore, «colleziona “Gli Orrori della Guerra”. Ormai gliene manca una sola: L’affondamento del Panay. Ha offerto una cifra piuttosto consistente per quella figurina.»


«Il lancio delle figurine,» aveva detto tutto a un tratto Childan.


«Signore?»


«Noi le lanciavamo in aria. Ogni figurina aveva un diritto e un rove-scio.» Allora Childan aveva circa otto anni. «Ciascuno di noi aveva un pacchetto di figurine. Ci mettevamo in due, uno davanti all’altro, e ognuno dei due lasciava cadere una figurina che ricadeva a terra svolazzando. Il bambino la cui figurina atterrava sul diritto, con l’immagine visibile, le vinceva tutte e due.» Com’era piacevole ricordare quei momenti sereni, quei primi giorni felici della sua infanzia.


Dopo avere riflettuto un po’, il maggiore Humo aveva detto: «Ho sentito il mio amico che parlava della sua raccolta, e non mi ha mai accennato a una cosa del genere. Per me non ha idea di come venissero usate veramente queste figurine. »


Alla fine l’amico del maggiore era capitato in negozio per ascoltare dalla viva voce di Childan il resoconto storico. L’uomo, anche lui un ufficiale a riposo dell’Esercito Imperiale, era rimasto affascinato.


«Tappi di bottiglia!» aveva esclamato Childan, senza preavviso.


Il giapponese aveva sbattuto le palpebre, senza capire.


«Noi collezionavamo i tappi delle bottiglie del latte. Da ragazzi. Quei tappi rotondi dove c’era scritto il nome della latteria. Ci devono essere state migliaia di latterie, negli Stati Uniti. Ognuna aveva un tappo diverso.»


Gli occhi dell’ufficiale avevano brillato con un lampo di istintivo interesse. «Lei possiede ancora qualcuna delle sue vecchie collezioni, signore?»


Naturalmente Childan non le possedeva. Ma… probabilmente era ancora possibile procurarsi quei vecchi tappi, ormai dimenticati, risalenti ai tempi prima della guerra, quando il latte veniva distribuito in bottiglie di vetro invece che in cartoni di plastica usa-e-getta.


E così, pian piano, era entrato in quel genere di commercio. Altri avevano aperto negozi simili al suo, sfruttando la passione sempre crescente dei giapponesi per le cose americane… ma Childan era sempre stato un gradi-no più su degli altri.


«Il prezzo della corsa,» disse il chink, distraendolo dalle sue riflessioni,


«è un dollaro, signore.» Aveva già scaricato le borse e stava aspettando.


Childan lo pagò distrattamente. Sì, era molto probabile che il cliente del signor Tagomi assomigliasse al maggiore Humo; almeno, pensò Childan con sarcasmo, dal mio punto di vista. Aveva trattato con così tanti giapponesi… ma ancora aveva qualche problema a distinguerli l’uno dall’altro.


C’erano quelli bassi e tozzi, con la corporatura da lottatori. Poi quelli che sembravano drogati, e quelli del tipo giardiniere-che-cura-alberi-cespugli-e-fiori… Childan li aveva divisi in categorie. E poi ancora i giovani, che a lui non sembravano affatto giapponesi. Probabilmente il cliente del signor Tagomi era un uomo massiccio, un uomo d’affari, che fumava sigari filip-pini.


All’improvviso, in piedi davanti al Nippon Times Building, con le borse sul marciapiede accanto a lui, Childan pensò, con un brivido: e se il suo cliente non fosse giapponese? Tutto ciò che aveva nelle borse era stato scelto nell’ipotesi che si trattasse di un giapponese, tenendo presenti i loro gusti…


Ma l’uomo doveva essere giapponese. Il primo ordine del signor Tagomi era stato un bando originale di reclutamento della Guerra Civile; di certo solo un giapponese poteva essere interessato a roba del genere. Era tipico della loro mania per l’inutile, del fascino legalistico che esercitavano su di loro i documenti, i proclami, le pubblicità. Si ricordava di uno di loro che aveva dedicato il suo tempo libero alla raccolta di avvisi pubblicitari di farmaci pubblicati sui giornali americani del 900.


Ma c’erano altri problemi da affrontare. Problemi immediati. Uomini e donne, tutti ben vestiti, sciamavano attraverso le grandi porte del Nippon Times Building; le loro voci raggiungevano le orecchie di Childan, e lui si mise in movimento. Uno sguardo verso la sommità di quel gigantesco edificio, il più alto di San Francisco. Uffici, finestre, la favolosa architettura dei progettisti giapponesi… e ì giardini circostanti di piante nane sempre-verdi, rocce, il paesaggio karesansui, la sabbia che imitava un torrente asciutto serpeggiante in mezzo alle radici, tra le semplici pietre piatte dalla forma irregolare…


Vide un nero che aveva trasportato dei bagagli, e che adesso era libero.


Childan lo chiamò subito. «Facchino!»


Il nero trotterellò verso di lui, sorridendo.


«Al ventesimo piano,» disse Childan con il suo tono più duro. «Appartamento B. Presto.» Indicò le borse e poi oltrepassò le porte del palazzo.


Naturalmente non si voltò a guardare indietro.


Un attimo dopo si ritrovò accalcato in uno degli ascensori rapidi; intorno a lui c’erano soprattutto giapponesi, i volti puliti che brillavano appena sotto la luce abbagliante dell’ascensore. Poi la spinta verso l’alto, che faceva venire la nausea, il rapido ticchettio dei piani che passavano; Childan chiuse gli occhi, si piantò saldamente sul pavimento e pregò che la corsa finis-se subito. Naturalmente il facchino stava trasportando le borse servendosi di un ascensore di servizio. Sarebbe stato irragionevole consentirgli di salire insieme a loro. In effetti, notò Childan aprendo un attimo gli occhi e guardandosi intorno, lui era uno dei pochi bianchi all’interno dell’ascensore.

Quando fu arrivato al ventesimo piano, Childan era già pronto mentalmente a inchinarsi, preparandosi all’incontro negli uffici del signor Tagomi.

CAPITOLO TERZO


Al tramonto, guardando verso l’alto, Juliana Frink vide il puntolino luminoso descrivere un arco velocissimo nel cielo e poi scomparire verso occidente. Una di quelle navi-razzo dei nazisti, si disse. Che vola verso la costa. Carica di pezzi grossi. E io quaggiù. Fece un cenno con la mano, benché naturalmente il razzo fosse già sparito.


Ombre che avanzavano dalle Montagne Rocciose. Vette azzurrine che sfumavano nella notte. Uno stormo di uccelli migratori volava piano lungo una rotta parallela alle montagne. Qua e là qualche automobile cominciava ad accendere i fari; si vedevano le luci gemelle lungo l’autostrada. Una stazione di servizio, anch’essa illuminata. Case.


Da mesi ormai abitava a Canon City, Colorado. Era un’insegnante di ju-do.


Aveva finito di lavorare e si stava preparando a fare una doccia. Si sentiva stanca. I frequentatori della palestra di Ray avevano occupato tutte le docce, e così lei si era messa ad aspettare fuori, al freddo, assaporando il profumo dell’aria di montagna, e la tranquillità. Tutto ciò che sentiva, adesso, era il debole mormorio che proveniva dal chiosco degli hamburger in fondo alla via, nei pressi dell’imbocco per l’autostrada. C’erano due enormi camion diesel parcheggiati e nell’oscurità si distinguevano le sago-me degli autisti che si muovevano, infilandosi le giacche di pelle prima di entrare nel chiosco.


Lei pensò: ma Diesel non si è buttato dal finestrino della sua cabina?


Non si è suicidato annegandosi durante una traversata oceanica? Forse dovrei farlo anch’io. Ma lì non c’erano oceani. Però c’è un altro modo.


Come in Shakespeare. Uno spillone infilato attraverso la camicia, sul davanti, e addio Frink. La ragazza che non deve temere i vagabondi senza casa che vengono dal deserto. Cammina a testa alta, consapevole delle molte possibilità di cui dispone per paralizzare i nervi dell’avversario in-canutito e bavoso. E invece ecco la morte che la raggiunge, per esempio aspirando i gas di scarico lungo il tratto cittadino dell’autostrada, magari attraverso una lunga cannuccia.


Lo aveva imparato dai giapponesi, pensò. Aveva assimilato quel placido atteggiamento nei confronti della morte, insieme alla capacità di far denaro insegnando judo. Come uccidere, come morire. Yang e yin. Ma ormai è acqua passata; questa è la terra dei protestanti.


Era bello vedere i razzi nazisti attraversare il cielo senza fermarsi, senza rivelare il minimo interesse per Canon City, Colorado. E nemmeno per lo Utah o il Wyoming o la parte orientale del Nevada, né per i vasti stati de-sertici o per quelli dei pascoli. Noi non abbiamo nessun valore, si disse.


Possiamo vivere le nostre vite insignificanti. Se lo vogliamo. E se per noi è importante.


Da una delle docce si udì il rumore di una porta che si apriva. La grossa sagoma della signorina Davis che aveva finito la doccia e si era rivestita, la borsa sotto il braccio. «Oh, stava aspettando, signora Frink? Mi dispiace.»


«Non si preoccupi,» disse Juliana.


«Lo sa, signora Frink, il judo mi ha dato molto. Anche più dello zen.


Volevo che lo sapesse.»


«Snellire i fianchi attraverso lo zen,» disse Juliana. «Perdere peso attraverso il satori indolore. Mi scusi, signorina Davis. Sto parlando a vanvera.»


«Le hanno fatto molto male?» chiese la signorina Davis.


«Chi?»


«I giap. Prima che imparasse a difendersi da sola.»


«È stato terribile,» replicò Juliana. «Lei non è mai stata laggiù, sulla Costa. Dove stanno loro.»


«Non ho mai varcato i confini del Colorado,» disse la signorina Davis, con voce timida, esitante.


«Potrebbe succedere anche qui,» disse Juliana. «Potrebbero decidere di occupare anche questa regione.»


«A questo punto, no!»


«Non si può mai sapere cosa gli passa per la testa,» disse Juliana. «Nascondono i loro veri pensieri.»


«Che cosa… le hanno fatto?» La signorina Davis si avvicinò nell’oscurità della sera per ascoltare meglio, stringendo a sé la borsa con entrambe le braccia.


«Tutto,» rispose Juliana.


«Oddio. Io mi sarei difesa,» disse la signorina Davis.


Juliana si scusò e si diresse verso la doccia libera; qualcun altro si stava avvicinando con un asciugamano sul braccio.


Più tardi andò a sedersi a un tavolino appartato al Tasty Charley’s Broi-led Hamburgers e lesse distrattamente il menù. Il juke-box suonava musica popolare; chitarra e gemiti soffocati dall’emozione… l’aria era pesante di grasso bruciato. Eppure il luogo era caldo e luminoso, e la faceva sentire bene. La presenza dei camionisti al bancone, la cameriera, il grosso cuoco irlandese con la sua giacca bianca che se ne stava alla cassa a dare il resto.


Quando la vide, Charley si avvicinò per prendere lui stesso l’ordinazione. Fece e una smorfia e le chiese, con voce strascicata: «Una tazza di tè per la nostra signorina?»


«Caffè,» disse Juliana, sopportando l’inesorabile umorismo del cuoco.


«Ah, bene,» disse Charley, annuendo.


«E un sandwich caldo alla carne con salsa.»


«Niente zuppa di nidi di topo? O magari cervella di capra fritte in olio d’oliva?» Un paio di camionisti si voltarono sui loro sgabelli e ridacchiaro-no per la scenetta. E per di più non celarono la loro aria compiaciuta per l’avvenenza della donna. Anche senza le battute del cuoco, si sarebbe comunque ritrovata addosso gli occhi dei camionisti. Mesi e mesi di judo avevano conferito al suo corpo un tono muscolare insolito; sapeva quale sforzo le costasse e quanto facesse bene al suo fisico quell’attività.


È tutta una questione di muscoli delle spalle, pensò mentre incontrava i loro sguardi. Così come per le ballerine. Non c’entra niente con la corporatura. Mandate le vostre mogli in palestra e noi glielo insegneremo. E la vostra vita sarà molto più felice.


«State alla larga da lei,» disse il cuoco ai camionisti con una strizzata d’occhio. «O vi scaraventerà addosso al vostro catorcio.»


«Da dove viene?» chiese Juliana al più giovane dei due.


«Missouri,» risposero entrambi.


«Dagli Stati Uniti?» chiese ancora.


«Io sì,» rispose il più anziano. «Philadelphia. Ho tre bambini, laggiù. Il più grande ha undici anni.»


«Mi dica,» riprese Juliana. «È… è facile trovare un buon lavoro, da quelle parti?»


Il camionista più giovane rispose: «Certo. Se il colore della pelle è quello giusto.» Aveva un volto ampio, pensieroso, e capelli neri ricci. Aveva assunto un’espressione tesa e amara.


«È un italiano,» disse l’altro.


«E allora?» ribatté Juliana. «L’Italia non ha vinto la guerra?» Sorrise al giovane camionista ma quello non le ricambiò il sorriso. Al contrario, i suoi occhi tristi ebbero uno scintillio più intenso, e improvvisamente si gi-rò dall’altra parte.


Mi dispiace, pensò. Ma non disse nulla. Non posso impedire a te né a chiunque altro di essere scuro di pelle. Ripensò a Frank. Chissà se è già morto. Ho detto una cosa sbagliata, mi sono espressa male. No, pensò, in qualche modo a lui i giapponesi piacciono. Forse si identifica con loro perché sono brutti. Lei aveva sempre detto a Frank che era brutto. Pori larghi. Naso grosso. Mentre lei aveva la carnagione liscia, insolitamente liscia. Sarà morto, senza di me? Fink significa fringuello, un tipo di uccello, e si dice che gli uccelli muoiano presto.


«Riprendete il viaggio stanotte?» domandò al giovane camionista italiano.


«Domani mattina.»


«Se lei non è felice negli Stati Uniti, perché non emigra definitivamente?» gli chiese. «È molto tempo che vivo nelle Montagne Rocciose e non ci si sta male. Ho vissuto sulla Costa, a San Francisco. Ma anche là c’è il problema della pelle.»


Il giovane italiano, ingobbito sul bancone, le rivolse un’occhiata fugace, poi disse: «Signora, è già abbastanza brutto dover passare solo un giorno o una notte in una città come questa. Vivere qui? Cristo… se solo potessi trovare qualsiasi altro lavoro, tanto per non essere costretto a mettermi in strada e a consumare i miei pasti in luoghi come questo…» Si accorse che il cuoco era arrossito, e smise di parlare, cominciando a sorseggiare il suo caffè.


«Joe, tu sei uno snob,» gli disse il camionista più anziano.


«Potrebbe vivere a Denver,» disse Juliana. «Là si vive molto meglio.» Vi conosco, voialtri americani dell’Est, pensò. Vi piace la bella vita, sognare in grande. Le Montagne Rocciose non fanno proprio al caso vostro. Qui non è successo niente da prima della guerra. Vecchi in pensione, contadini, la gente più stupida, più povera, più tarda… quelli più in gamba hanno preso la via dell’est, sono andati a New York, hanno attraversato la frontiera, legalmente o illegalmente. Perché è lì che c’è il denaro, pensò, il denaro che conta, quello della civiltà industriale. L’espansione. Gli in-vestimenti tedeschi hanno dato un grosso contributo… non ci hanno messo molto a ricostruire gli Stati Uniti.


Con voce roca, risentita, il cuoco intervenne: «Amico, io non amo gli ebrei, ma ne ho visti alcuni che sono scappati nel 49 dai tuoi Stati Uniti, e puoi tenerteli, i tuoi Stati Uniti. Se laggiù hanno costruito un sacco di edifici e se c’è un mucchio di denaro in circolazione è perché l’hanno rubato a quegli ebrei quando li hanno cacciati a calci da New York, per quella maledetta legge nazista di Norimberga. Da bambino vivevo a Boston, e non avevo particolari simpatie per gli ebrei, ma non credevo che negli Stati Uniti sarebbe mai passata una legge razzista come quella, neanche se avessimo perso la guerra. Mi stupisco che tu non ti sia arruolato nelle forze armate degli Stati Uniti, pronto a invadere qualche piccola repubblica suda-mericana per conto dei tedeschi, in modo che possano ricacciare i giapponesi un po’ più indietro…»


I due camionisti si erano alzati in piedi, scuri in viso. Quello più anziano prese una bottiglia di ketchup dal bancone e la sollevò in alto, brandendola per il collo. Il cuoco, senza voltare le spalle ai due camionisti, allungò la mano dietro di lui finché le sue dita non toccarono uno dei forchettoni. Lo afferrò e lo protese verso i due.


«A Denver stanno costruendo una di quelle piste termoresistenti, in mo-do che possano atterrarvi i razzi della Lufthansa,» disse Juliana.


Nessuno dei tre uomini si mosse o parlò. Gli altri clienti erano rimasti seduti, e osservavano in silenzio.


Alla fine il cuoco disse: «Al tramonto ne è passato uno.»


«Non era diretto a Denver,» disse Juliana. «Stava andando a est, verso la Costa.»


Lentamente i due camionisti tornarono a sedersi. Il più anziano borbottò:


«Me ne dimentico sempre; c’è un po’ di giallo, da queste parti.»


Il cuoco ribatté: «I giap non hanno mai ucciso ebrei, né durante la guerra né dopo. E non hanno mai costruito forni.»


«Peccato che non lo abbiano fatto,» disse il camionista. Poi riprese la tazza di caffè e si rimise a mangiare.


Un po’ di giallo, pensò Juliana. Sì, immagino che sia così. Noi altri vogliamo bene ai giap.


«Dove vi fermate?» chiese, rivolta al camionista più giovane, Joe, «questa notte.»


«Non lo so,» rispose Joe. «Sono sceso dal camion solo per venire qui.


Ma questo stato non mi piace. Forse dormirò nel camion.»


«Il motel Honey Bee non è male,» suggerì il cuoco.


«D’accordo,» disse il camionista più giovane. «Forse andrò là. Se a loro non disturba che io sia italiano.» Aveva un accento ben definito, benché si sforzasse di nasconderlo.


Juliana lo guardò. È l’idealismo, pensò, che lo amareggia così tanto. Ha chiesto troppo alla vita. Sempre in movimento, senza sosta, e sempre oppresso da qualcosa. Io sono come lui; non sono stata capace di vivere sulla costa occidentale e alla fine non riuscirò a vivere neanche qui. Non erano così anche i nostri vecchi? Ma, pensò, adesso la frontiera non è qui; è sugli altri pianeti.


Potremmo fare domanda, io e lui, pensò Juliana, per partire su uno di quei razzi che trasportano coloni. Ma i tedeschi scarterebbero lui per il colore della pelle e me per il colore dei capelli, troppo neri. Quei finocchi delle SS, nordici pallidi e magri, che si addestrano nei loro castelli bava-resi. Questo tizio - Joe come-si-chiama - non ha nemmeno l’espressione giusta in faccia; dovrebbe avere quello sguardo freddo ma in qualche mo-do entusiasta, come se non credesse in nulla ma nutrisse nello stesso tempo una fede assoluta in qualcosa. Sì, è così che sono. Non sono idealisti come Joe e me; sono dei cinici con una fede totale. È una specie di mal-formazione cerebrale, come una lobotomia… quella mutilazione che gli psichiatri tedeschi eseguono come misero surrogato della psicoterapia.


Il loro è un problema legato al sesso, decise; negli anni 30 lo hanno trasformato in qualcosa di sporco, e col tempo la cosa non ha fatto che peg-giorare. Cominciò Hitler con sua… chi era? Sua sorella? Sua zia? Sua nipote? E nella sua famiglia c’erano già unioni fra consanguinei; sua madre e suo padre erano cugini. Tutti commettono incesto, tornando al peccato originale di desiderare la propria madre. Ecco perché quelle checche ari-stocratiche delle SS hanno quei sorrisi affettati, quella bionda innocenza da bambini; si stanno risparmiando per mammina. O per qualcuno di lo-ro.


E chi è mammina, per loro? Si chiese Juliana. Il capo, Herr Bormann, che si dice stia per morire? O… l’Ammalato.


Il vecchio Adolf, che si vocifera sia in manicomio chissà dove, a consumare i suoi giorni nella paresi senile. Sifilide del cervello, che risale ai tempi in cui era un povero barbone, in quel di Vienna… giaccone nero, biancheria sporca, pensioncine d’infimo ordine.


Ovviamente, era l’ironica vendetta di Dio, uscita da qualche film muto.


Quell’uomo orrendo abbattuto da una sozzura ulteriore, lo storico flagello della depravazione umana.


E l’aspetto più terribile era che l’attuale Impero Tedesco era un prodotto di quel cervello. Dapprima un partito politico, poi una nazione, poi la me-tà del mondo. Ed erano stati gli stessi nazisti a diagnosticarlo, a identifi-carlo; quel ciarlatano di medico erborista che aveva curato Hitler, quel dottor Morell che aveva somministrato a Hitler un farmaco appena brevet-tato chiamato le Pillole Antigas del Dottor Koester… in origine era uno specialista in malattie veneree. Lo sapevano tutti, eppure il bla-bla del Capo era ancora sacro, era ancora come la Bibbia. Quelle idee avevano contagiato ormai un’intera civiltà e, come spore maligne, i ciechi, biondi finocchi nazisti stavano sciamando dalla Terra verso gli altri pianeti, spargendo il contagio.


Ecco ciò che si ricava dall’incesto: follia, cecità, morte.


Brrr. Juliana fu scossa da un brivido.


«Charley,» chiamò ad alta voce il cuoco. «È pronta la mia ordinazione?»


Si sentiva assolutamente sola; si alzò in piedi e camminò verso il bancone, sedendosi accanto alla cassa.


Nessuno le fece caso, a parte il giovane camionista italiano; i suoi occhi neri la fissavano intensamente. Joe, si chiama. Joe che cosa? Si chiese la donna.


Osservandolo da vicino, Juliana si rese conto che non era così giovane come aveva creduto. Era difficile dargli un’età; quell’intensità che lo per-meava confondeva il suo giudizio. Continuava a passarsi una mano fra i capelli, pettinandoli all’indietro con dita nervose, rigide. Quest’uomo ha qualcosa di speciale, pensò lei. Emana un sentore di… morte. Quel fatto la sconvolse, e nello stesso tempo la attrasse. In quel momento il suo collega più anziano si era chinato verso di lui e gli stava bisbigliando qualcosa. Poi entrambi la osservarono, questa volta con un’espressione che non era semplice interesse maschile.


«Signorina,» disse il più anziano. Adesso erano tutti e due molto tesi.


«Sa che cosa è questa?» Le mostrò una scatoletta bianca, piatta, di piccole dimensioni.


«Sì,» rispose Juliana. «Calze di nylon. Fibra sintetica fabbricata solo dal grande monopolio di New York, la I.G. Farben. Molto rare e costose.»


«Questo è un merito che bisogna riconoscere ai tedeschi; quella del monopolio non è una cattiva idea.» Il camionista più anziano passò la scatola al suo collega, il quale la sospinse con il gomito lungo il bancone, verso di lei.


«Ha una macchina?» le chiese il giovane italiano, sorseggiando il suo caffè.


Charley spuntò dalla cucina, con in mano il suo piatto.


«Potrebbe accompagnarmi lei.» I suoi occhi accesi e decisi la fissavano ancora, e lei sentì crescere il proprio nervosismo, così come l’incapacità di reagire. «In quel motel, o dovunque possa trascorrere la notte. Che ne di-ce?»


«Sì,» disse la donna. «Ho una macchina. Una vecchia Studebaker.»


Il cuoco rivolse un’occhiata prima a lei, poi al giovane camionista, infine le mise il piatto davanti, sopra il bancone.


L’altoparlante in fondo al corridoio annunciò: «Achtung, meine Damen und Herren [Attenzione, signore e signori].» Baynes sobbalzò sul sedile e aprì gli occhi. Dal finestrino sulla destra vide, giù in basso, le macchie verdi e marroni della terraferma, e più in là l’azzurro. Il Pacifico. Si rese conto che il razzo aveva iniziato la sua lunga, lenta discesa.


Prima in tedesco, poi in giapponese, infine in inglese, l’altoparlante spiegò che nessuno poteva fumare o slacciare la cintura del sedile imbottito. La discesa, riferì, sarebbe durata otto minuti.


In quel momento si accesero i retrorazzi, in modo così improvviso e rumoroso, facendo sussultare la nave con tale violenza, che diversi passeggeri boccheggiarono. Baynes sorrise e nel sedile di fronte a lui, al di là del corridoio, un altro passeggero, un giovane con i capelli biondi tagliati cortissimi sorrise anche lui.


«Sie furchten dasz… [Hanno paura che…]» cominciò il giovane, ma Baynes lo interruppe subito, spiegando in inglese: «Mi dispiace, non parlo tedesco.» Il giovane tedesco lo guardò a bocca aperta, con aria interrogativa, e allora Baynes gli ripeté la frase in tedesco.


«Non è tedesco?» disse il giovane, stupito, in un inglese dal pesante accento.


«Sono svedese,» disse Baynes.


«Si è imbarcato a Tempelhof.»


«Sì. Ero in Germania per affari. Il mio lavoro mi porta in molti paesi.»


Chiaramente il giovane tedesco non riusciva a credere che qualcuno, al mondo d’oggi, qualcuno che trattava affari a livello internazionale e che viaggiava - anzi, che poteva permettersi di viaggiare - sul più sofisticato razzo della Lufthansa, non sapesse o non volesse parlare tedesco. «Di quale settore si occupa, mein Herr?» chiese a Baynes.


«Plastica. Poliesteri. Resine. Ersatz… [Sostituto, surrogato] per uso industriale. Capisce? Non per il consumo al dettaglio.»


«La Svezia possiede un’industria della plastica?» Aveva un’aria incredu-la.


«Sì. E molto avanzata. Se mi lascia il suo nome le farò avere per posta un opuscolo informativo della ditta.» Baynes estrasse penna e taccuino.


«Non importa. Sarebbe inutile, per me. Sono un artista, non mi interesso di affari. Senza offesa. Magari lei ha visto i miei lavori, mentre si trovava nel Continente. Alex Lotze.» Attese.


«Temo di non avere un grande interesse per l’arte moderna,» disse Baynes. «Amo i vecchi cubisti e gli astrattisti di anteguerra. A me piace u-n’immagine che significhi qualcosa, e che non sia la semplice rappresenta-zione di un ideale.» Distolse lo sguardo.


«Ma è quello il fine dell’arte,» disse Lotze. «Favorire la spiritualità dell’uomo a scapito della sua sensualità. La sua arte astratta simboleggiava un periodo di decadenza, di confusione spirituale, conseguenza della disinte-grazione della società, della vecchia plutocrazia. I miliardari ebrei e capita-listi, l’apparato internazionale che sosteneva quella forma d’arte decadente.


Quei tempi sono passati; l’arte deve andare avanti… non può rimanere ferma.»


Baynes annuì, fissando fuori dal finestrino.


«È mai stato sul Pacifico?» gli domandò Lotze.


«Molte volte.»


«Io no. C’è una mostra delle mie opere a San Francisco, organizzata dall’ufficio del dottor Goebbels insieme alle autorità giapponesi. Uno scambio culturale per promuovere la reciproca comprensione e le buoni relazioni.


Dobbiamo alleggerire le tensioni fra Est e Ovest, non crede? Dobbiamo comunicare di più, e l’arte può essere un ottimo strumento.»


Baynes annuì. In basso, sotto l’anello di fuoco emesso dal razzo, si potevano già scorgere la città di San Francisco e la Baia.


«Dove si può mangiare, a San Francisco?» stava chiedendo Lotze. «Ho prenotato al Palace Hotel, ma mi risulta che si possono trovare degli ottimi ristoranti nella parte internazionale, per esempio a Chinatown.»


«E vero,» confermò Baynes.


«I prezzi sono alti, a San Francisco? Sono venuto a mie spese. Il Ministero è molto frugale.» Lotze rise.


«Dipende dal cambio che riesce a ottenere. Immagino che lei abbia con sé assegni della Reichsbank. Le consiglio di andare alla Bank of Tokyo, in Samson Street, e di cambiarli là.»


«Danke sehr,» disse Lotze. «Io li avrei cambiati in albergo.»


Il razzo aveva quasi toccato il suolo. Adesso Baynes poteva vedere il campo di atterraggio, gli hangar, i parcheggi, l’autobahn che veniva dalla città, gli edifici… un panorama molto piacevole, pensò. Montagne e acqua, e qualche nuvola di nebbia che fluttuava accanto al Golden Gate.


«Che cos’è quell’enorme struttura laggiù?» chiese Lotze. «È incompleta, ed è aperta da un lato. Uno spazioporto? I nipponici non hanno una flotta spaziale, a quanto mi risulta.»


Con un sorriso, Baynes rispose, «Quello è il Golden Poppy. Lo stadio di baseball.»


Lotze scoppiò a ridere. «Già, a loro piace il baseball. È incredibile. Hanno messo mano a una struttura così grande solo per un gioco, per uno stu-pido sport che fa perdere tempo…»


«È finita,» lo interruppe Baynes. «Quella è la sua forma definitiva. Aperta da un lato. Un nuovo disegno architettonico. Ne sono molto orgogliosi.»


«Sembra progettata da un ebreo,» disse Lotze, guardando verso il basso.


Baynes fissò l’uomo a lungo. Ebbe la netta, momentanea sensazione della qualità squilibrata, della vena psicotica insita nella mente dei tedeschi.


Lotze aveva parlato sul serio? La sua era stata un’osservazione veramente spontanea?


«Spero che ci rincontreremo, a San Francisco,» disse Lotze mentre il razzo toccava il suolo. «Mi sentirò sperduto, senza un connazionale con cui parlare.»


«Io non sono un suo connazionale,» disse Baynes.


«Oh, sì, è vero. Ma dal punto di vista razziale siamo molto vicini. E anche sotto il profilo delle intenzioni e degli obiettivi.» Lotze cominciò a muoversi sul sedile, preparandosi a slacciare la complicata cintura di sicurezza.


Sono simile a quest’uomo, dal punto di vista razziale? si domandò Baynes. Simile a tal punto da avere le stesse intenzioni e gli stessi obiettivi?


Allora c’è anche in me quella vena psicotica. È un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I pazzi sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo affrontiamo questa realtà? E… quanti di noi lo sanno? Non Lotze. Forse se uno sa di essere pazzo, allora non è pazzo. Oppure può di-re di essere guarito, finalmente. Si risveglia. Credo che solo poche persone si rendano conto di tutto questo. Persone isolate, qua e là. Ma le masse… che cosa pensano? Tutte le centinaia di migliaia di abitanti di questa città. Sono convinte di vivere in un mondo sano di mente? Oppure intrave-dono, intuiscono in qualche modo la verità?


Ma, pensò, che cosa significa la parola pazzo? È una definizione legale.


E per me, che significato ha? Io la sento, la vedo, ma che cos’è?


È qualcosa che fanno, pensò, qualcosa che sono. È la loro inconsapevolezza. La loro mancanza di conoscenza degli altri. Il fatto di non rendersi conto di ciò che fanno agli altri, della distruzione che hanno causato e che stanno ancora causando. No, pensò. Non è quello. Non lo so; lo sento, lo intuisco, ma… sono volutamente crudeli… è quello? No. Dio, pensò, non riesco ad arrivarci, a chiarire il concetto. Forse ignorano parti della realtà? Sì. Ma c’è di più. Sono i loro progetti. Sì, i loro progetti. La conquista dei pianeti. Qualcosa di frenetico e di folle, così come lo è stata la loro conquista dell’Africa, e prima ancora dell’Europa e dell’Asia, La loro visione; è cosmica. Non un uomo qua, un bambino là, ma un’a-strazione: la razza, la terra. Volk. Land. Blut. Ehre [Popolo. Terra. Sangue. Onore]. Non l’onore degli uomini degni d’onore, ma l’ Ehre stesso; per loro l’astratto è reale, e il reale è invisibile. Die Gute [Il bene], ma non gli uomini buoni, non quest’uomo buono. È il loro senso dello spazio e del tempo. Essi vedono attraverso il “qui” e “ora”, nell’enorme e nero abisso che c’è al di là, nell’immutabile. E questo è fatale alla vita. Perché alla fi-ne non ci sarà più vita; una volta c’erano soltanto le particelle di polvere nello spazio, gli ardenti gas di idrogeno, e niente più, e così tornerà a essere. Questo è un intervallo, ein Augenblic [Un attimo]. Il processo cosmi-co procede a grandi passi, frantumando la vita e riducendola di nuovo a granito e metano; la ruota gira sempre, per tutta la vita. È tutto temporaneo. E loro - questi pazzi - rispondono al granito, alla polvere, al desiderio dell’inanimato; essi vogliono aiutare la Natur.


E io, pensò, so perché. Vogliono essere gli agenti, non le vittime, della storia. Si identificano con la potenza di Dio e credono di essere simili a dèi. Questa è la loro pazzia di fondo. Sono sopraffatti da qualche archetipo; il loro ego si è dilatato psicoticamente a tal punto che non sanno più dire dove essi cominciano e dove finisce la divinità. Non è hybris, non è orgoglio; è l’ego gonfiato a dismisura, fino all’estremo… la confusione tra colui che adora e colui che è adorato. L’uomo non ha divorato Dio; Dio ha divorato l’uomo.


Quello che non comprendono è l’ impotenza dell’uomo. Io sono debole, pìccolo, senza la minima importanza per l’universo. L’universo non si accorge di me, e io vivo senza essere visto. Ma perché questo deve essere un male? Non è meglio così? Gli dèi distruggono coloro di cui si accorgono.


Se sei piccolo potrai scampare alla gelosia di chi è grande.


Mentre si slacciava la cintura di sicurezza, Baynes disse: «Signor Lotze, non l’ho mai detto a nessuno. Io sono un ebreo. Capisce?»


Lotze lo fissò con aria di commiserazione.


«Lei non se ne sarebbe mai accorto,» riprese Baynes, «perché non ho affatto l’aspetto esteriore di un ebreo; mi sono fatto modificare il naso, ridur-re i pori troppo larghi e untuosi, schiarire chimicamente il colore della pelle, alterare la conformazione del cranio. In breve, non è possibile indivi-duarmi dal punto di vista fisico. Posso muovermi, e spesso l’ho fatto, all’interno dei circoli più importanti della società nazista. Nessuno mi scoprirà mai. E…» Fece una pausa, e si avvicinò a Lotze, parlando con voce così bassa che solo l’altro poteva sentirlo. «E ce ne sono altri, come me. Ha sentito? Noi non siamo morti. Viviamo ancora. Continuiamo a esistere senza essere visti.»


Dopo un attimo di esitazione, Lotze farfugliò: «Ma la polizia…»


«Il Dipartimento di Polizia può controllare il mio dossier,» disse Baynes.


«Lei può anche denunciarmi, ma io ho amicizie molto in alto. Alcuni sono ariani, altri ebrei che occupano posti di rilievo a Berlino. La sua denuncia verrà archiviata, e subito dopo sarò io a denunciare lei. E per via di queste stesse amicizie, lei si ritroverà in custodia protettiva.» Sorrise, fece un cenno con la testa e percorse il corridoio per raggiungere gli altri passeggeri, allontanandosi da Lotze.


Tutti discesero la rampa e raggiunsero il campo freddo e ventoso. Al termine della discesa Baynes si ritrovò momentaneamente vicino a Lotze.


«In effetti,» disse Baynes, camminandogli accanto, «a me non piace il suo aspetto esteriore, signor Lotze, perciò credo che la denuncerò comunque.» Poi allungò il passo, lasciandosi alle spalle Lotze.


All’altra estremità del campo, molta gente attendeva di fronte all’ingresso dell’aerostazione. Parenti, amici dei passeggeri; chi alzava la mano in segno di saluto, chi cercava con lo sguardo, chi sorrideva, chi aveva un’espressione ansiosa, chi controllava. Un giapponese ben piantato, di mezza età, elegante nel suo cappotto inglese, con pantaloni aderenti e cappello a bombetta, si trovava un po’ più avanti degli altri, con un connazionale più giovane al suo fianco. All’occhiello del cappotto portava il distintivo dell’importante Missione Commerciale del Pacifico del Governo Imperiale. È


lui, si rese conto Baynes. Il signor N. Tagomi, venuto ad accogliermi di persona.


Il giapponese fece un passo avanti e lo salutò. «Herr Baynes… buona se-ra.» Esitante, chinò appena la testa.


«Buona sera, signor Tagomi,» disse Baynes, porgendo la mano. Se la strinsero, poi si inchinarono entrambi. Anche il giapponese più giovane si inchinò, raggiante.


«Fa un po’ freddo, signore, in questo campo così esposto,» disse il signor Tagomi. «Useremo l’elicottero della Missione per tornare in città. Le va bene? O ha bisogno di darsi una rinfrescata, o cose del genere?» Osservò con molta attenzione il volto del signor Baynes.


«Possiamo partire subito,» disse Baynes. «Voglio raggiungere il mio albergo. Quanto al mio bagaglio…»


«Se ne occuperà il signor Kotomichi,» disse Tagomi. «Ci seguirà. Vede, signore, a questo terminal ci vuole quasi un’ora di coda per avere il bagaglio. Più di quanto sia durato il suo viaggio.»


Il signor Kotomichi sorrise amabilmente.


«Va bene,» disse Baynes.


«Signore, ho un regalo per lei,» disse Tagomi.


«Scusi?» fece Baynes.


«Per favorire un suo atteggiamento positivo nei nostri confronti.» Il signor Tagomi infilò una mano nella tasca del cappotto e ne estrasse una scatoletta. «Scelto fra i più raffinati objets d’art disponibili in America.»


Gli porse la scatola.


«Bene,» disse Baynes. «Grazie.» Prese la scatola.


«Per tutto il pomeriggio diversi funzionari hanno esaminato ogni possibilità,» disse il signor Tagomi. «Questo è un esemplare autentico dell’antica civiltà americana, ormai in via di estinzione, un oggetto raro che ha ancora il sapore dei bei tempi andati.»


Baynes aprì la scatola. Dentro c’era un orologio da polso di Topolino sopra un’imbottitura di velluto nero.


Il signor Tagomi lo stava prendendo in giro? Baynes alzò gli occhi e fissò il volto teso, ansioso del signor Tagomi. No, non era uno scherzo. «La ringrazio molto,» disse Baynes. «È davvero incredibile.»


«In tutto il mondo sono rimasti pochissimi orologi autentici di Topolino del 1938, forse una decina,» disse il signor Tagomi studiando Baynes, e registrando avidamente ogni reazione, ogni commento positivo. «Nessun collezionista di mia conoscenza ne possiede uno, signore.»


Entrarono nel terminal dell’aerostazione e salirono insieme la rampa.


Alle loro spalle il signor Kotomichi disse: « Harusame ni nuretsutsu ya-ne no temati kana… »


«Cosa significa?» domandò Baynes al signor Tagomi.


«È una vecchia poesia,» rispose il signor Tagomi. «Del Medio Periodo Tokugawa.»


Il signor Kotomichi tradusse: « Mentre cade la pioggia di primavera, se ne imbeve, sopra il tetto, la palla di stracci di un bambino. »

CAPITOLO QUARTO