Andrew Roberts
Recensione
Una biografia da apprezzare per accuratezza storica e completezza. Innanzitutto vorrei sottolineare che la biografia di Churchill scritta dallo storico Andrew Roberts (Utet, trad. di Luisa Agnese Dalla Fontana, pp. 1406, euro 46), ha , fra gli altri, il merito di partire da un concetto semplice e potente insieme: quello di destino, o meglio ancora do predestinazione di Churchill. Come quando fa rilevare, a proposito della nomina a primo ministro nel maggio 1940 poche ore dopo il Blitzkrieg di Adolf Hitler sull'Occidente, che lo statista inglese scrisse che gli "sembrava di procedere di pari passo con il destino, come se tutta la mia vita precedente fosse stata solo una preparazione a quest’ora e a questo cimento”. Ma una convinzione, suggerisce Roberts, inevitabilmente riflessa anche sul ruolo della propria famiglia e della propria estrazione. Churchill, infatti, nota sempre lo storico, "era consapevole di provenire dal vertice della piramide sociale e che per proseguire l’avanzata non doveva curarsi troppo delle opinioni di persone che stavano sotto". Questa consapevolezza, ricorda lo storico, si rivelerà decisiva per i suoi successi e per le sue sconfitte, spingendo molti anni dopo il suo migliore amico, il parlamentare F.E. Smith, a parlare dello statista inglese come di un uomo “corazzato mentalmente contro la sfiducia in se stesso”. La tenacia, l’ambizione sfrenata, il senso del proprio ruolo nel mondo, l’abilità nel muovere le masse e soprattutto un’attenzione maniacale al dettaglio. Studiando questa straordinaria biografia si impara a conoscere una parte del ‘900 e soprattutto si può indagare sull’animo umano il suo modo in cui i leader hanno determinato il futuro di intere nazioni.
E anche fare un confronto su dove ci troviamo ora. Come sottolinea Giuliano Ferrara: "Churchill oggi non potrebbe fa due passi in un campus senza essere fischiato o forse incarcerato. Burlone grandioso e scorretto, intrattabile e anticonformista, oggi sarebbe considerato anche islamofobo. La sua lotta in gioventù contro il fanatismo talebano gli fece scorgere prima di chiunque altro la vera natura quello nazista".
CHURCHILL LA BIOGRAFIA
Conclusione
Ho conosciuto personaggi più belli e più grandi, filosofi più saggi, personalità più perspicaci, ma nessun uomo più grande.
Il presidente Dwight D. Eisenhower su Churchill,
dicembre 19541
Era un figlio della natura. Venerava la tradizione ma irrideva la convenzione.
Generale Lord Ismay su Churchill2
Quando la fortuna è poca, lo spirito deve espandersi per colmare il vuoto.
Churchill a Clementine dalle trincee, 20 dicembre 19153
«È stato detto e si scrive davvero troppo su di me», riferì Churchill al professor Lindemann ancora negli anni venti.4 Nonostante tutta quell’attività letteraria (che è continuata senza sosta), il generale Sir Alan Brooke nell’agosto 1943 scrisse: «Mi chiedo se uno storico del futuro riuscirà mai a ritrarre Winston nei suoi colori autentici».5 Nel 1960, quando cominciò a scrivere le sue memorie, Lord Ismay disse al presidente Eisenhower che non si sarebbe potuta scrivere una biografia oggettiva di Churchill fino almeno al 2010. In effetti, soltanto nell’attuale decennio gli ultimi pezzi del puzzle archivistico (i diari non emendati di re Giorgio VI e di Ivan Majskij, i resoconti testuali di Lawrence Burgis delle riunioni del consiglio di guerra, i documenti privati dei figli di Churchill e molto altro) sono diventati disponibili per i ricercatori. Cinquant’anni dopo la morte di Churchill ci sono quindi gli strumenti giusti per raffigurarlo con colori simili alla sua vera natura.
«Per rendere giustizia a un grand’uomo», scrisse lo stesso Churchill, «è necessaria una critica discriminante. Un fiotto, per quanto dissetante, è sempre insipido.»6 In questo libro le critiche dunque non mancano e spero siano state discriminanti. Nell’anno della nascita di Churchill, il generale Sir Garnet Wolseley firmò un trattato che costringeva il re sconfitto dell’Ashanti, Koffee, a cessare i sacrifici umani; nell’anno in cui morì, la navicella spaziale Gemini V orbitava intorno alla Terra e i Beatles pubblicavano Ticket to Ride. Nei novant’anni precedenti, con il senno di poi possiamo vedere molte occasioni in cui la capacità di giudizio di Churchill poteva legittimamente essere messa in discussione, per motivi come l’opposizione al suffragio femminile, la partecipazione personale all’assedio di Sidney Street, il modo in cui licenziò l’ammiraglio Bridgeman e nominò Jackie Fisher nella prima guerra mondiale e Roger Keyes nella seconda, per il proseguimento delle operazioni a Gallipoli dopo il marzo 1915, l’ingaggio del gruppo paramilitare Black and Tans in Irlanda, la sua attività edilizia durante la crisi di Çanakkale, la proposta della regola dei dieci anni, l’adesione alla parità aurea, il sostegno a Edoardo VIII durante la crisi dell’abdicazione, la cattiva gestione della campagna di Norvegia, la scelta come capro espiatorio di re Leopoldo III dei belgi, l’assistenza alla Grecia nel 1940-1941, la valutazione sbagliata della competenza militare dei giapponesi, la descrizione della penisola italiana come un «ventre molle», la sottovalutazione della capacità degli Stuka contro navi e carrarmati, le vessazioni a Stanisław Mikołajczyk per fargli accettare la linea Curzon come frontiera polacca dopo la guerra, l’insistenza per la campagna nel Dodecaneso nel 1943, il tacito assenso alla deportazione dei cosacchi di Crimea da parte di Stalin e quella degli oppositori iugoslavi da parte di Tito, il discorso della “Gestapo” durante la campagna elettorale generale del 1945, il sistema dei superministri e l’acquietamento dei sindacati durante il premierato dell’estate di san Martino, la permanenza nella carica di primo ministro dopo l’ictus del 1953. Ce ne sarebbero ancora molti, ma, come disse a Clementine dalle trincee della Grande guerra, «non avrei realizzato niente se non avessi commesso degli errori».7 Molti di questi errori, del resto, derivavano dalla sua insistenza nel voler vedere le cose in prima persona seguendo la consuetudine che, se spesso lo metteva nei guai come nel Natal, a Sidney Street e ad Anversa, ancora più spesso gli dava importanti intuizioni. «Non importa quanti errori si facciano in politica finché si continua a farne», disse una volta a Lord Rosebery. «È come buttare i bambini ai lupi; quando smetti, il branco assalta la slitta.»8
Nel necrologio per Churchill, Clement Attlee affermò: «Energia, più che saggezza, giudizio pratico o lungimiranza, questa era la sua qualità più grande».9 È giusto pensarla così? La presunta mancanza di giudizio gravò senza dubbio su Churchill per tutta la sua carriera, e talvolta giustamente. Ma quando si trattò di sventare tre minacce mortali poste alla civiltà occidentale, quelle poste dai militaristi prussiani nel 1914, dai nazisti negli anni trenta e quaranta e dal comunismo sovietico dopo la seconda guerra mondiale, il giudizio di Churchill svettò ben al di sopra di quello delle persone che lo avevano schernito. Di fronte a queste tre cruciali congiunture storiche, la sua idea si dimostrò sempre corretta, mentre quelli intorno a lui, per adattare uno dei suoi poeti preferiti, Rudyard Kipling, stavano perdendo la testa e dando la colpa a lui. Lo stesso Attlee si opponeva ancora al riarmo e alla coscrizione obbligatoria prima della seconda guerra mondiale, molto tempo dopo che Churchill aveva chiesto entrambi. Chi dei due ebbe quindi maggior «saggezza, giudizio pratico o lungimiranza» quando si trattò delle scelte fondamentali per la vita della Gran Bretagna, del suo impero e del Commonwealth?
È logico aspettarsi che, quando una persona ha trascorso due terzi di secolo davanti agli occhi del pubblico, prendendo importanti decisioni su svariate questioni ed esprimendo opinioni su tutto quello che vede, faccia errori, talvolta gravi, e che molti dei suoi atteggiamenti siano diversi da quelli in generale tenuti oggi. Tuttavia a fronte dei suoi fallimenti e dei suoi errori c’è un elenco assai più lungo e più importante di successi. Il poeta greco Archiloco scrisse: «La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande». I detrattori di Churchill l’hanno visto come il riccio che ha fatto innumerevoli errori e, quasi per caso o per la legge delle probabilità, ha azzeccato una cosa importante, ossia Hitler e l’ascesa del nazismo. Ma si sbagliano. Come ha scritto Henry Kissinger, «i giudizi di Churchill sulle tendenze della storia erano sempre perspicaci e spesso profondi»: «Prima della Grande guerra, comprese che la Francia non era più in grado di resistere alla Germania da sola e che la Gran Bretagna aveva bisogno di abbandonare il suo isolamento storico in favore di un’alleanza con la Francia. Negli anni venti, voleva coinvolgere la Germania nella costruzione di un ordine mondiale, lenendo i risentimenti di Berlino riguardo al trattato di Versailles».10 Churchill era anche l’uomo che aveva preparato la grande flotta per lo scoppio della guerra del 1914, il padre del carrarmato, il promotore di un sistema di legislazione sociale per alleviare le sofferenze dei più poveri della Gran Bretagna edoardiana, un ministro dell’interno riformatore e liberale; fu inoltre fra quelli che promossero la fondazione dello Stato Libero d’Irlanda e dello stato della Giordania. Saldò i debiti della Grande guerra, predicò la magnanimità dopo lo sciopero generale, promulgò leggi finanziarie che riducevano la tassazione e fu un primo ministro in tempo di pace che costruì un milione di abitazioni e abolì il razionamento. Fu soprattutto il primo personaggio politico di rilievo a vedere i due pericoli totalitari del comunismo e del nazismo e a sottolineare i modi migliori per affrontarli. A ben guardare, più che il riccio, Churchill era la volpe, che sapeva e faceva molte cose.
Churchill inoltre era un uomo che imparava dai propri errori e metteva a profitto le lezioni. La catastrofe dei Dardanelli gli insegnò a non esautorare i capi di stato maggiore, mentre lo sciopero generale e Tonypandy, durante la seconda guerra mondiale, a lasciare i rapporti sindacali al laburista Ernest Bevin; il disastro della parità aurea gli fece comprendere che, considerate le esigenze del periodo bellico, bisognava indurre la reflazione e mantenere nel sistema finanziario la massima liquidità possibile. Imparò anche dai suoi successi. Le decrittazioni della stanza 40 dell’ammiragliato, nella Grande guerra, lo portarono a sostenere Alan Turing e i crittoanalisti di Ultra; la campagna antisommergibilistica del 1917 gli fece intuire i vantaggi del sistema dei convogli; promuovendo il carrarmato, fu indotto anche a incentivare la creazione di armi nuove, inaugurata dal generale Hobart e dalla direzione del MI(R). Aveva inoltre capito da tempo la superiorità della Mauser sulla lancia.
Churchill aveva ragione quando scrisse che tutta la sua vita era stata soltanto una preparazione per l’ora e la prova del premierato durante la guerra. La sua precoce abilità con il periodare inglese “nobile” e le ampie letture quando era un ufficiale subalterno gli consentirono invece di produrre la sua sontuosa oratoria di guerra. Il periodo trascorso a Cuba gli insegnò a rimanere calmo sotto il fuoco e ad allungare la giornata lavorativa con le sieste. La sua esperienza nella guerra boera gli rivelò le carenze dei generali. Il periodo trascorso come pilota e come segretario di stato per l’aviazione ne fecero il campione della RAF molto prima della battaglia d’Inghilterra. La sua stesura di Marlborough lo preparò a prendere decisioni sincronizzandosi con gli Alleati. La sua propensione a visitare sempre le località delle azioni come nell’assedio di Sidney Street e ad Anversa, lo prepararono per le visite in tutta la Gran Bretagna mirate a sollevare il morale durante il Blitz. La sua passione per la scienza, alimentata dall’amicizia con Lindemann, gli consentì di cogliere l’applicazione militare della fissione nucleare. I suoi scritti sul fondamentalismo islamico gli fecero intuire le pericolose similitudini con il fanatismo dei nazisti. La sua preveggente, precisa analisi del bolscevismo pose le basi per il “discorso della cortina di ferro”. L’aver introdotto insieme a Lloyd George il sistema previdenziale e le pensioni di vecchiaia prima della Grande guerra lo preparò a calibrare lo stato di previdenza dopo il secondo conflitto mondiale. Le sue esperienze nella prima guerra mondiale, la preparazione della marina, la disfatta dei Dardanelli, il tempo trascorso in trincea e come ministro delle munizioni, furono soprattutto fondamentali per le intuizioni che mise a frutto nella seconda.
Churchill era inoltre un uomo versatile. Un suo biografo, Robert Rhodes James, lo definì «politico, sportivo, artista, oratore, storico, parlamentare, giornalista, saggista, giocatore, soldato, corrispondente di guerra, avventuriero, patriota, internazionalista, sognatore, pragmatico, stratega, sionista, imperialista, monarchico democratico, egocentrico, edonista, romantico».11 Ed era davvero tutte queste cose, ma non solo. Si potrebbe anche aggiungere: collezionista di farfalle, appassionato di caccia grossa, amante degli animali, direttore di giornale, spia, muratore, spiritoso, pilota, cavallerizzo, romanziere e piagnone (il nomignolo datogli dal duca e dalla duchessa di Windsor). In tutte queste cose, era animato più da profonde emozioni che da un’analisi razionale, quindi per buona parte della sua vita si ritenne che mancasse di giudizio. Per esempio, credeva appassionatamente, e a torto, che suo padre fosse stato crudelmente sfruttato dal Partito conservatore. Credeva che i suoi princìpi liberisti giustificassero il cambio di schieramento alla camera. Credeva, sempre a torto, che sarebbe morto giovane e quindi bruciava le tappe per raggiungere in fretta la grandezza. Desiderava con tutto il cuore essere un generale, meglio se un altro Napoleone. Credeva con tutto il cuore, e ancora una volta probabilmente a torto, che forzando lo stretto dei Dardanelli avrebbe potuto portare la Grande guerra a rapida e buona conclusione.
Amava Clementine e i suoi figli (perfino Randolph); amava anche i suoi piaceri (spesso sibaritici). Amava con fedeltà i suoi amici, molti dei quali morirono giovani, e con la maggioranza dei quali in alcuni momenti della sua vita litigò. Odiava visceralmente Lenin, Trockij e Hitler, ma davvero pochi altri. Churchill era oltremodo egocentrico, istintivamente aggressivo e incline a esagerare apposta e sottovalutava in modo sistematico l’impressione negativa suscitata negli altri da queste caratteristiche. I lettori avranno notato in diversi casi, in queste pagine, l’egoismo di Churchill, la sua insensibilità e la sua spietatezza. «Concentrato sugli affari suoi», scrisse il comandante Tommy Thompson, suo assistente personale per tutta la seconda guerra mondiale, «sembrava a molte persone brusco, vanesio, intollerante e prepotente.»12 Talvolta era anche stravagante, ostinato e pignolo. Molti di questi difetti li trasformava però in punti di forza, e alcuni gli furono addirittura necessari nelle crisi affrontate sia in pace, sia in guerra. Sapeva inoltre essere anche molto amabile, naturalmente quando veniva preso per il suo verso. Pochi politici di primo piano sono privi di un ego smisurato, ma si può dire che nel suo caso e per i suoi talenti, non era eccessivamente arrogante.
L’umore tetro mostrato da Churchill nell’ultimo periodo della vita e in altri momenti precedenti come durante la campagna di Gallipoli, non indicano certo che fosse depresso e tanto meno un maniaco depressivo o bipolare. La sua unica allusione alla prostrazione è stata trattata nel capitolo 10. Per il resto, il mito di Churchill come uomo depresso è, tanto quanto l’altro molto diffuso che fosse un alcolista, senza fondamento. Piuttosto, venne colpito da eventi che avrebbero scosso chiunque e beveva parecchio quanto molti altri negli anni trenta. Del resto, dei 160000 sigari che si valuta abbia consumato nella sua vita, non inalava nemmeno il fumo. Rispetto al suo rapporto con gli alcolici, nel discorso di addio al suo battaglione, nella Grande guerra, Churchill dichiarò: «Qualsiasi altra cosa possano dire di me come soldato, ma almeno nessuno può dire che io non abbia dimostrato un commendevole e adeguato apprezzamento delle virtù dell’alcol».13 E i lettori concorderanno di certo con quanto disse della sua abitudine di bere: «Ho preso dall’alcol più di quanto l’alcol abbia preso da me».14
Nel luglio 1932, alla Grand Hall di Victoria, per celebrare il bicentenario della nascita di George Washington, Churchill chiese: «Riguardo al coraggio, riguardo all’intrepidezza personale e civica mostrata da Washington in qualsiasi situazione, non ce n’è forse bisogno oggi, tra le ansie e i pericoli della pace moderna, almeno quanto ce n’è sempre stato sotto il fuoco della guerra passata?».15 Sei mesi prima che Hitler diventasse cancelliere, era di certo necessario. Lo stesso Churchill dimostrò un notevole coraggio fisico e morale per tutta la vita. Lo scrisse infatti in Great Contemporaries: «Uomini e re devono essere giudicati nei momenti di prova della loro vita. Il coraggio è considerato a ragione la prima delle qualità umane, perché […] è la qualità che garantisce tutte le altre».16 A parte il suo ovvio ardimento sui campi di battaglia di cinque guerre prima del 1939, uno dei modi in cui il suo coraggio si manifestava era nei molti viaggi che fece fuori dalla Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale, almeno venticinque andata e ritorno, percorrendo oltre 110000 chilometri, molti più viaggi di qualsiasi altro capo dei tempi di guerra. Alcuni furono veloci e rischiosi, come quelli attraverso la Manica nel 1940, 1944 e 1945, mentre altri durarono settimane e comportarono il superamento di continenti e oceani.17 Nella maggior parte sostenne questi viaggi tra i cinquantacinque anni e i quasi settanta, sovrappeso e fuori forma, spesso su aerei scomodi, rumorosi, non pressurizzati e talvolta con il grave pericolo di cadere o di essere abbattuti. L’elenco di personaggi eminenti morti in volo durante la guerra è ampio e comprende i generali “Strafer” Gott, l’ammiraglio Bertram Ramsay, Orde Wingate, il generale Władysław Sikorski, il duca di Kent, l’ammiraglio Yamamoto, l’attore Leslie Howard e Glenn Miller. Questi spostamenti però valevano il rischio, perché solo così Churchill riuscì a conoscere i massimi dirigenti degli altri paesi del mondo assai meglio di quanto si conoscessero tra loro. Le uniche occasioni in cui Roosevelt, Stalin e Churchill si ritrovarono tutti insieme furono a Teheran nel 1943 e a Jalta nel 1945. Invece Churchill e Roosevelt si videro in undici occasioni, e Churchill e Stalin in tre, mentre Roosevelt e Stalin non si incontrarono mai da soli se non a margine dei due incontri trilaterali. I viaggi di Churchill durante la seconda guerra mondiale furono cioè il collante che tenne insieme i tre grandi leader.
Oltre a essere coraggioso sul piano fisico e morale, Churchill era uno statista assai magnanimo, sia con le nazioni nemiche sconfitte, sia con i suoi avversari personali. Nel maggio 1915 Fisher aveva cercato di annientarlo, ma lui propose di rinominarlo primo Lord del mare l’anno successivo. I due si scambiarono corrispondenza cordiale fino alla morte di Fisher. Bonar Law aveva insistito per la sua espulsione dall’ammiragliato, ma anche con lui mantenne buoni rapporti personali. Lord Alfred Douglas lo calunniò perfidamente riguardo al comunicato sulla battaglia dello Jutland, ma Churchill disse: «Ditegli da parte mia che il tempo fa cessare tutte le cose».18 Nel 1934 Lord Derby ingannò gravemente il comitato dei privilegi durante l’inchiesta di Churchill sul caso della Camera di commercio di Manchester, ma fu perdonato. Dopo Monaco, Colin Thornton-Kemsley tentò di far eliminare la sua candidatura per Epping, ma allo scoppio della guerra Churchill scrisse: «Per quanto mi riguarda il passato è morto».19 Restituì la lettera disfattista scritta da Eliot Crawshay-Williams nel 1940 perché fosse «bruciata e dimenticata».20 Max Beaverbrook e Stafford Cripps furono perdonati per i loro evidenti intrighi per il premierato durante la seconda guerra mondiale e Lloyd George per aver aspettato «il fallimento di Winston». Negli elogi funebri per Neville Chamberlain, Lloyd George e Stafford Cripps Churchill ignorò con grande generosità gli sgarbi, i litigi e le malefatte del passato. Offrì cariche governative a Leslie Hore-Belisha (nel 1945) e a Clement Davies (nel 1951), che avevano votato per destituirlo dalla carica di primo ministro nell’anno della “svolta fatale”, il 1942, poiché non credeva nella vendetta contro gli oppositori interni, ma piuttosto in quello che definì «un giudizioso e parsimonioso smaltimento di bile».21 I suoi molti atti di gentilezza verso persone di origine meno privilegiata scaturivano dalla sua naturale compassione e da un profondo senso di noblesse oblige. Erano tutt’uno con le sue opinioni democratiche conservatrici e ve ne furono regolarmente in tutta la sua vita.
In tutte le sue passioni, Churchill fu più estremo ed esagerato dei suoi contemporanei, molti dei quali entrarono in politica per un senso di obbligo sociale, ambizione, convinzione ideologica, o il semplice desiderio di condurre una vita interessante. Churchill lo fece per vendicare un padre morto e «issare di nuovo la bandiera stracciata», come disse lui stesso. Questo gli diede un vantaggio su di loro, soprattutto nel 1940 e 1941, quando ebbe la possibilità di incanalare tutte le sue capacità, esperienze e passioni nella distruzione di «quell’uomo».
Nel maggio 1940 Churchill promise alla popolazione britannica «sangue, fatica, lacrime e sudore», ed era disposto a dare tutti e quattro, come abbiamo visto, soprattutto la terza. Le sue passioni e le sue forti emozioni spesso gli facevano venire le lacrime agli occhi; anzi, come il suo umorismo, all’occorrenza poteva utilizzare tale tendenza al pianto come un’arma politica. «Frigno tremendamente tanto, sa», disse ad Anthony Montague Browne, il suo ultimo segretario privato. «Deve abituarcisi.»22 Browne ricordò che le lacrime di Churchill di solito erano provocate da «racconti di eroismo». Una volta raccontò che l’immagine di «un nobile cane che avanzava a fatica nella neve per andare dal suo padrone lo fece piangere». Ma per lui fu una scena «toccante», che trovò «perfettamente accettabile». Churchill considerava la sua tendenza al pianto un problema quasi patologico e disse al medico che secondo lui risaliva alla sua sconfitta per 43 voti all’elezione suppletiva per Westminster Abbey del 1924. In realtà, già prima di allora aveva pianto un sacco di volte. Forse è più preciso sul piano diagnostico dire che era un emotivo, anzi sentimentale, aristocratico dell’età della Reggenza, nato alla fine dell’epoca vittoriana e in una classe che invece privilegiava il contegno. A pensarci bene, ciascuno degli otto ammiragli che portarono la bara di Horatio Nelson nel gennaio 1806 aveva pianto in modo quasi sfrenato.
L’influsso paterno è stato un tema centrale di questo libro. Churchill scrisse una biografia in due volumi di Lord Randolph; il suo discorso di esordio era incentrato su di lui, e in seguito lo citava regolarmente nei dibattiti. La sua carriera politica cominciò come una vendetta consapevole di quella subita da suo padre, ed era convinto di portare avanti i principi democratico-conservatori di Lord Randolph (che quest’ultimo aveva a sua volta ereditato da Benjamin Disraeli) anche quando era nel Partito liberale e dava inizio allo stato previdenziale. Il suo desiderio ossessivo di avere l’approvazione del padre non fu in alcun modo diminuita dalla morte di Lord Randolph, come appare evidente nel suo racconto Il sogno del 1947. Diede infatti il suo nome all’unico figlio maschio, adottò molti dei suoi vezzi particolari e riuscì anche a morire nello stesso giorno, quasi fosse l’ultimo tributo di chi lo aveva superato di gran lunga nei successi ottenuti. Sarebbe stato comprensibile se Churchill si fosse messo in competizione con il padre freddo e distante, ma rientra nella sua grandezza di carattere che invece si considerasse una lente di ingrandimento delle sue idee e un promotore dei suoi princìpi. «Sono figlio della camera dei comuni», disse al congresso statunitense nel dicembre 1941. «Sono stato educato nella casa di mio padre a credere nella democrazia. Mi diceva “Fidati della gente”. Lo vedevo acclamato ai comizi e per le strade da folle di operai già in quell’epoca vittoriana in cui, come disse Disraeli, il mondo era per pochi, anzi per pochissimi.»23
A causa delle morti precoci nella sua famiglia, Churchill credeva di non avere molto da vivere. Tuttavia il numero straordinario di volte in cui scampò alla morte per un pelo, sui campi di battaglia e non solo, gli lasciò una sensazione possente di predestinazione. Il motivo per cui il Churchill Archive all’Università di Cambridge è così vasto è che lui conservava tutto, credendo già in età precoce che sarebbe stato un uomo importante e avrebbe preso decisioni cruciali nei momenti fondamentali di quello che all’epoca era il più grande impero della storia. Teneva perfino i conti di casa del periodo edoardiano (grazie ai quali sappiamo che beveva champagne Pol Roger almeno dal 1908). Teneva inoltre la corrispondenza relativa ai suoi animali e ai doni che riceveva (tra cui un certificato di controllo del periodo bellico dei suoi sigari dopo un grande dono ricevuto dalla Commissione nazionale del tabacco di Cuba), oltre ai menu e alle piantine della disposizione degli ospiti. Il mero volume di note, documenti, discorsi e pubblicazioni lasciati da Churchill è stato per questo chiamato a ragione «una delle più ricche registrazioni dell’attività umana».24
Anche la produzione scritta di Churchill è immensa. Pubblicò opere per 6100000 parole distribuite in trentasette libri, ben più di quelle prodotte da Shakespeare e Dickens messi insieme. Pronunciò cinque milioni di discorsi pubblici, senza contare la sua voluminosa produzione di lettere e memorandum. Sembrava una massa di contraddizioni, anche perché era così eclettico e così prolifico. Il suo patto atlantico proclamava una fede nella democrazia che non si estendeva all’indipendenza indiana; proteggeva i deboli, ma per un breve periodo credette nell’eugenetica; era nipote di un duca ed eliminò il diritto di veto dei Lord; ordinò l’offensiva congiunta dei bombardieri e amava le farfalle; era un robusto militare che portava biancheria di seta per la sua «pellicina sensibile»; cambiò schieramento alla camera dei comuni, non una sola volta, ma due. In politica, la maggior parte delle sue apparenti contraddizioni può essere spiegata dai suoi principi democratico-conservatori: il suo conservatorismo compassionevole era oltremodo flessibile e si muoveva entro i confini di quello che si può sintetizzare con il motto “Imperium et libertas”. Il resto può essere spiegato da quanto affermò nel 1927: «L’unico modo in cui un uomo può restare coerente in mezzo a circostanze mutevoli è di cambiare con esse pur preservando lo stesso obiettivo dominante».25
Nel 1956, ringraziandolo per l’omaggio del secondo volume di Storia dei popoli di lingua inglese, Lord Kilmuir scrisse a Churchill: «Ho sempre creduto che un vivo senso della storia sia un sine qua non per un politico».26 Proprio perché era lui stesso uno storico, dava quindi grandissima importanza a quella che, nel suo elogio funebre per Neville Chamberlain, definì «la pesante indagine della storia». Churchill scrisse che i trentacinque anni seguenti al suo congedo da Sandhurst nel 1895 erano stati «un interminabile quadro in movimento in cui si era attori».27 Sapeva che si sarebbe scritto su di lui, anche lui lo avrebbe fatto, e quindi gli premeva non cadere «al di sotto del livello degli eventi». Recitava delle scene nel proprio dramma, sapendo che le avrebbe raccontate per i lettori.28 Lo spiegò sua figlia Mary: «Vedeva gli avvenimenti e le persone come su un palcoscenico illuminato dalla sua conoscenza della storia e dal suo ardente senso del destino e del procedere degli eventi».29 Nel suo necrologio per Churchill, Clement Attlee scrisse: «In realtà continuava a chiedersi: “Che cosa deve fare adesso la Gran Bretagna affinché il verdetto della storia sia favorevole?”».30 Nel giugno 1940, mentre si recavano all’aerodromo di Briare per tornare in patria dopo una conferenza con i massimi dirigenti francesi, Ismay lo pregò di rimandare con discrezione la partenza delle divisioni destinate a rinforzare la Francia, poiché era evidente che i francesi stavano per arrendersi. «No di sicuro», rispose Churchill. «Apparirebbe molto brutto agli occhi della storia se facessimo una cosa del genere.»31
Quella volta Ismay aveva ragione, ma in moltissime altre occasioni il vivo senso della storia di Churchill, soprattutto la sua capacità di utilizzare specifiche analogie dal passato della Gran Bretagna, fece un buon servizio a lui e al suo paese. Gli consentì di comprendere che i fautori dell’appeasement agivano al di fuori delle tradizioni della politica estera britannica, che per secoli era stata previdente, aggressiva e talvolta piratesca nell’impedire a qualsiasi potenza di ottenere l’egemonia sul continente europeo. Nel 1940-1941 riuscì anche a porre la difficile situazione della Gran Bretagna nel giusto contesto storico, dicendo ai britannici che si erano trovati in quelle peste già in passato e alla fine avevano trionfato. I suoi discorsi sull’impresa di Drake che aveva fermato l’Armada e quella di Nelson che aveva distrutto la minaccia d’invasione presentata da Napoleone erano ancora più efficaci, poiché provenivano da un primo ministro ma al tempo stesso anche da uno storico e da un biografo. La sua immaginazione storica era potente, ma anche pratica, concepita per istruire e informare. Questo valeva per ogni libro di storia che scriveva, ed è anche in parte la ragione per cui le sue opere avevano venduto prima della sua morte più di quelle di qualunque altro storico nel corso dei tempi.
Fu sempre il suo vivo senso della storia che lo incoraggiò a cercare di ripetere con Franklin Roosevelt il rapporto intrattenuto dal duca di Marlborough con il principe Eugenio di Savoia durante la guerra di successione spagnola. Nel 1942 al Ministero della guerra affermarono che non si era mai riscontrata una concentrazione di sovranità come quella implicita nel concetto di capi dello stato maggiore congiunto. Churchill sapeva che non era così e, lo aveva scritto nel 1934 nella biografia dell’amicizia del suo grande antenato con Eugenio: «Senza questo fatto nuovo al quartier generale alleato le operazioni straordinarie che questi capitoli descrivono, così intricate, così prolungate, e contrarie in così tante occasioni ai princìpi accettati della guerra non si sarebbero mai potute realizzare».32
Le reali tensioni del rapporto di Churchill con Roosevelt si possono comprendere dalla litania di lamentele che faceva al re Giorgio VI al loro pranzo settimanale del martedì, da cui emerge quanto fosse profondo il risentimento provato da Churchill nei confronti del suo alleato più importante nei momenti fondamentali della guerra. Nonostante questo, sia Churchill sia il re furono sollevati e compiaciuti quando Roosevelt venne rieletto presidente nel novembre 1944 e alla sua morte, nell’aprile successivo, Churchill produsse un elogio funebre quasi senza precedenti, registrato nel diario del re. Si potevano provare delusione e collera insieme all’ammirazione, e nonostante le aspre critiche private, non c’è ragione di dubitare della sincerità di Churchill, quando disse di Roosevelt, almeno in tre diverse occasioni, «Amavo quell’uomo».
Come Roosevelt, Churchill proveniva dalla classe sociale più elevata. Gli piaceva citare la frase attribuita a Edmund Burke: «Chi non guarda mai indietro ai propri antenati non guarda avanti alla posterità».33 Churchill infatti guardava indietro di continuo. Le sue origini aristocratiche oggi si abbinano male con l’immagine di salvatore della democrazia, ma se non fosse stato per la sua invincibile fiducia nel proprio retaggio nobiliare, avrebbe potuto benissimo adattare il suo messaggio alle circostanze politiche in cui viveva negli anni trenta, anziché trattare con disdegno un’idea del genere. Non soffrì mai della deferenza o dell’ansia sociale della classe media, per la semplice ragione che non apparteneva alla classe media. Al bambino nato a Blenheim non importava che cosa pensasse la classe media. Alec Douglas Home fu l’ultimo aristocratico a essere stato primo ministro, ma aveva una maggioranza risicata e una personalità del tutto diversa. Per questo durò meno di un anno al numero 10. L’ultimo aristocratico a governare la Gran Bretagna fu Winston Churchill.
Nonostante le origini aristocratiche, non era uno snob. I suoi amici più intimi avevano origini geografiche e sociali diversissime: figli di un prete canadese (Max Beaverbrook), di un maestro gallese (Lloyd George), di un muratore irlandese (Brendan Bracken), di un agente immobiliare di Birkenhead (F.E. Smith) e di un ingegnere alsaziano (il professor Lindemann). E credeva (a torto) che Smith avesse sangue zingaro.34 Era vero che era amico pure dei duchi di Marlborough (suo primo cugino) e Westminster, ma un vero snob non avrebbe scelto i suoi amici più intimi in un ambiente sociale così variegato. Avrebbe messo a buon frutto questa grande e ampia capacità di amicizia, come dimostra il modo in cui l’Other Club gli si strinse intorno nel dibattito norvegese del maggio 1940 e in seguito.
«Vedo vasti cambiamenti in un mondo oggi pacifico», predisse Churchill al suo amico Murland Evans; «grandi sconvolgimenti, lotte terribili; guerre tali che non si possono immaginare; e ti dico che Londra sarà in pericolo, Londra sarà attaccata e io mi metterò molto in vista nella difesa di Londra […]. Vedo il futuro. Questo paese subirà, in qualche modo, una terribile invasione, in che forma non lo so, ma ti dico che sarò al comando delle difese di Londra e salverò Londra e l’Inghilterra dal disastro […]. Lo ripeto: Londra sarà in pericolo, e nell’alta posizione che occuperò toccherà a me salvare la capitale e salvare l’impero.»35 Churchill disse queste parole non nel 1931, 1921, 1911 o addirittura 1901, ma nel 1891, quando aveva solo sedici anni. Aveva visto il suo destino già da adolescente e nel tempo lo aveva realizzato. A sessantacinque anni, considerato da molti, compreso Hitler, un politico finito senza speranza, giunse al potere e fece esattamente quello che aveva previsto per sé un cinquantennio prima.
Anche chi non riesce a ragionare in termini provvidenziali, deve ammettere che Churchill fu straordinariamente fortunato, perfino nelle sconfitte. Questo libro è tempestato di esempi di occasioni in cui, vinto alle urne o intralciato da qualche altro intoppo per qualche intricata situazione politica, poté riorientarsi. Successe nelle tre elezioni parlamentari tra il 1922 e il 1924 che gli consentirono di passare dai liberali ai conservatori, e con la decisione di MacDonald di non includerlo nel governo nel 1931, ribadita da Baldwin nel 1935, che gli consentì di denunciare l’appeasement. «Ho fatto un sacco di stupidaggini che hanno dato buoni risultati, e un sacco di cose sagge che sono finite male», disse in un’intervista alla CBS a New York nel marzo 1932. «La sfortuna di oggi può condurre al successo di domani.»36 Il costante rifiuto di governi successivi di dargli cariche in tutti gli anni trenta all’epoca parve devastante, ma in un secondo tempo sentì che «ali invisibili» lo avevano protetto dall’essere complice di linee di comportamento da cui dissentiva profondamente e che, come poi risultò, furono gravemente dannose per il suo paese. Gli anni dell’isolamento furono utili, ma fecero male. «Essere così interamente convinto e appagato in una questione di vita e di morte per il proprio paese», scrisse, «e non riuscire a indurre il parlamento e la nazione ad ascoltare l’avvertimento, o inchinarsi alle prove intraprendendo un’azione, fu un’esperienza dolorosissima.»37
Churchill si stava preparando da tutta la vita a una crisi come quella del 1940, ma l’uomo e il momento semplicemente coincisero. Se Hitler, che aveva quindici anni di meno, avesse posposto l’Anschluss e le crisi ceche di qualche anno, probabilmente Churchill non sarebbe più stato in prima linea in politica, capace di rendersi l’unico personaggio indispensabile da allora in poi. E lo era, indispensabile, perché trasudava una fiducia nella vittoria che non aveva nessun altro personaggio di primo piano e riusciva a dare qualcosa che Neville Chamberlain non sapeva dare, la speranza.
Poco dopo la morte di Churchill, lo storico J.H. Plumb osservò che «assai più dello scrittore di libri di storia, Churchill» era anche «l’ultimo grande praticante del tema storico del destino provvidenziale dell’Inghilterra».38 Questo scaturiva non soltanto dalla sua fiducia in se stesso, ma anche da una fede innata nel popolo britannico, quella che lui chiamava la “razza” britannica, e nel suo impero, di cui aveva la certezza che fosse la più grande forza del bene nella storia del genere umano. «Noi, in questa piccola isola, dobbiamo fare il sacrificio supremo di mantenere il nostro posto e la nostra posizione», disse ai ragazzi di Harrow nel 1952, «il posto e la condizione cui ci dà diritto il nostro imperituro genio.»39 Verso la fine dell’Ottocento, mentre Churchill stava crescendo, il razzismo biologico, la convinzione sociale darwiniana che il genere umano sia organizzato gerarchicamente per razze, con i bianchi al vertice, era considerato un dato scientifico. Anche personaggi coerentemente di sinistra come Beatrice Webb, Hugh Dalton e H.G. Wells la condividevano, come aveva fatto in quello stesso secolo Karl Marx prima di loro. Per quanto oggi possa sembrarci assurdo, quando Churchill imparava a conoscere il mondo era un dato indiscusso.
Un’altra scomoda verità è che la fede di tutta la vita di Churchill nella superiorità della popolazione britannica su tutte le altre, in ultima analisi fece un buon servizio alla democrazia, convincendolo della necessità di continuare a combattere contro i tedeschi, quando molti di quelli che lo circondavano volevano chiedere la pace. I continui riferimenti nei suoi discorsi alla razza britannica (spesso diceva inglese) all’epoca non avrebbero potuto essere fatti da nessun altro possibile premier. Simon, Halifax e Hoare, per esempio, erano stati i tre capi principali della campagna per lo status di dominion per l’India e non a caso erano tre dei principali fautori dell’appeasement con la Germania. Tendevano a evitare un linguaggio popolare che veniva naturale a Churchill, il cui pensiero comprendeva la sua memoria, la sua conoscenza storica e i suoi presupposti razziali e imperiali. A volte tali presupposti lo tradivano, come quando lo fecero sbagliare riguardo alle qualità militari dei turchi a Gallipoli e dei giapponesi nel 1941.
Negli anni trenta Churchill si era battuto contro Simon, Halifax e Hoare riguardo all’India, e anche se nel complesso aveva perso, non ci pensò due volte a battersi di nuovo contro di loro sull’appeasement. Edmund Burke, che Churchill leggeva e citava, in Riflessioni sulla rivoluzione in Francia scrisse del “pregiudizio” che «non lascia l’uomo esitante nel momento della decisione, scettico, smarrito e indeciso […]. Per mezzo del solo pregiudizio, il suo dovere diventa parte della sua natura». La convinzione di Churchill che i britannici fossero superiori a qualsiasi altra nazione del mondo, compresi i tedeschi, era senza dubbio una questione di indiscutibile pregiudizio, ma nel 1940 non gli provocò le reazioni per cui a causa della crisi altri rimasero «scettici, smarriti e indecisi».
«Nel corso degli anni Churchill me lo ha detto più di una volta, e non ho motivo di non credergli, che l’impero britannico è alfa e omega», registrò Ivan Majskij nel suo diario nel maggio 1941.40 La fiducia di Churchill nell’impero britannico non era solo politica ma anche spirituale. Scettico com’era riguardo al cristianesimo, aveva fatto dell’impero la sua fede. Aveva creato, in larga parte dalle sue letture degli storici liberali, una teoria del progresso storico che metteva l’adozione della Magna charta, del Bill of Rights del 1689, della costituzione americana e delle istituzioni parlamentari da parte dei popoli di lingua inglese all’apogeo dello sviluppo civile, un progresso che continuava a estendersi con cura e in modo sistematico nelle parti del mondo colorate di rosa sulla mappa imperiale. «C’era un forte elemento di altruismo nel genere di imperialismo per cui era schierato Churchill», dichiarò Jock Colville, a ragione.41 Quest’amore per l’impero e questa fiducia spiegano perché in diverse occasioni scelse linee d’azione che danneggiarono la sua carriera politica ma che considerava giuste per l’impero, come la campagna perdente per negare l’autonomia all’India all’inizio degli anni trenta. Era convinto che l’impero fosse la ragione per cui la sua epoca sarebbe stata ammirata dalle generazioni future. Suo padre aveva aggiunto la Birmania alle parti della carta colorate di rosa; lui si era battuto sui suoi campi di battaglia indiani, sudanesi e sudafricani; viaggiava in lungo e in largo al suo interno; al Ministero delle colonie aveva cercato di migliorarlo; diversi suoi amici, come Max Beaverbrook e Jan Smuts, provenivano da quella sezione di mondo; e durante la seconda guerra mondiale insistette per liberare le sue aree orientali dal Giappone con forze britanniche anziché americane. Nel suo secondo premierato nessuna parte dell’impero ricevette l’indipendenza e alla fine della vita comunque considerò la sua carriera un fallimento per non averlo difeso con successo.
«La lealtà […], l’insuperato coraggio dei soldati e degli ufficiali indiani, tanto musulmani quanto indù, risplendono per sempre negli annali della guerra», scrisse Churchill nelle sue memorie di guerra. «Oltre due milioni e mezzo d’indiani si arruolarono volontari per servire nelle forze armate […] il modo in cui i popoli indiani risposero al nostro appello e la condotta dei loro soldati rappresentano una pagina che conclude gloriosamente la storia del nostro impero indiano.»42 Non sono le parole di un uomo che odiava gli indiani, come affermano i suoi detrattori. Ma non si può fare gli schizzinosi con Churchill: bisogna prenderlo del tutto o niente (totus porcus, come disse Fisher in un diverso contesto). L’uomo che sfidò Hitler e proclamò le virtù della libertà era lo stesso uomo disgustato dal “Mahatma” Gandhi. Non si può semplicemente deprecare la sua ostinazione e la sua testardaggine, perché erano già altrettanto visibili riguardo all’India negli anni trenta e ai nazisti negli anni quaranta; appartengono allo stesso uomo, e nella sua mente stava difendendo lo stesso impero: «Ci piacerebbe che il genio fosse dotato di discernimento e moderato, che fosse un po’ più simile al resto di noi», ha scritto lo storico Manfred Weidhorn. «Pochi geni sono stati così. Churchill aveva i vizi delle sue virtù.»43
Spesso storici e biografi affermano che Churchill non avrebbe dovuto sprecare il suo capitale politico riguardo all’India negli anni trenta, ma avrebbe dovuto utilizzarlo invece per contrastare l’appeasement. In realtà negli anni quaranta la sua credibilità politica era intimamente legata alla percezione pubblica che dicesse verità impopolari per il suo punto di vista, che seguisse il suo cuore, si schierasse per l’impero e soprattutto non calcolasse, come facevano gli altri politici. La lotta contro l’autonomia indiana era parte di lui, proprio come le campagne in cui era dalla parte vincente. Il motivo per cui il pubblico si fidava di lui, e nel 1940 giunse ad amarlo, non era la convinzione che avesse avuto ragione in passato, ma che fosse stato coerentemente fedele alle sue convinzioni, cosa che molti altri politici in carica negli anni trenta, concentrati solo su se stessi, non avevano fatto.
Il punto importante riguardo a Churchill nel 1940 non è che quell’anno fermò l’invasione tedesca, ma che impedì al governo britannico di fare la pace. Se Churchill non fosse stato primo ministro, senza dubbio lo sarebbe stato Halifax, che voleva almeno scoprire quali fossero le condizioni dettate da Hitler. Churchill sbagliava a presumere, o almeno ad affermare di presumere, che sarebbero state gravose. In realtà probabilmente sarebbero state molto ragionevoli, poiché alla fine il Führer voleva combattere una guerra su un solo fronte, contro l’URSS. Di certo Halifax non era il semitraditore che è stato spesso descritto: semplicemente non riusciva a vedere come avrebbe fatto la Gran Bretagna a vincere una volta isolata dal continente, con la Francia che stava per cadere, l’Unione Sovietica alleata ai tedeschi, l’Italia in procinto di diventarlo e gli Stati Uniti per nulla intenzionati a dichiarare guerra alla Germania. Halifax applicava soltanto una logica razionale, quando invece c’era bisogno di un romanticismo ostinato ed emotivo. Churchill, invece, comprese che una vittoria tedesca in oriente avrebbe preannunciato un imminente disastro per la Gran Bretagna e che firmare una pace ignobile avrebbe demoralizzato i britannici e distrutto la loro credibilità con gli americani, oltre a fare una brutta impressione nella storia. Churchill non poteva offrire ai britannici un piano realistico per la vittoria finché Hitler invadeva la Russia, i giapponesi attaccavano Pearl Harbor e la Germania dichiarava guerra contro gli Stati Uniti nel 1941, però mantenne la Gran Bretagna in guerra. Nel marzo 1916 aveva definito la sua potenziale morte in trincea a Clementine «un impoverimento della potenza bellica britannica che nessuno avrebbe mai conosciuto, misurato o rimpianto».44 Nel 1940 era ormai chiaro che il suo contributo alla capacità bellica della Gran Bretagna era imponente.
Churchill effettuò la scelta fondamentale di rifiutare la pace, ma fu molto criticato per altre cose. Come disse il maggiore generale John Kennedy, «solo la guida magnifica e coraggiosa di Churchill compensava il suo deplorevole senso strategico».45 Secondo questa analisi, soltanto i capi di stato maggiore meritano credito come strateghi e Churchill era nel migliore dei casi un fastidio e nel peggiore una minaccia. Questa era di certo l’opinione di Brooke, come risulta chiaro dai suoi diari. Ma nel settembre 1944, parlando a Jock Colville, Churchill paragonò la grandiosa strategia della seconda guerra mondiale a una tauromachia. Le operazioni in Africa e in Italia «erano come i preliminari, i picadores, i banderilleros, eccetera. Poi giungeva il gran signore, il matador, che entrava nel momento cruciale per compiere il delitto, aspettando fino a quando la testa del toro era china e la sua forza indebolita».46 Questa “strategia mediterranea” era la più corretta da adottare per gli alleati occidentali, poiché in quei paesi le forze e i successi angloamericani potevano essere sfruttati al meglio, sottraendo forze tedesche e ritardando l’apertura del secondo fronte fino a quando non avesse una buona possibilità di successo.47
Era la strategia che Churchill espose ai capi di stato maggiore mentre attraversava l’Atlantico nel dicembre 1941 e che loro approvarono con entusiasmo. Fu inoltre quella che vendette agli americani nelle trattative sempre più tese di tutto il 1942 e il 1943, quando Brooke non sarebbe mai riuscito da solo a persuaderli di adottarla. La maggior parte dei combattimenti si sarebbe svolta sul fronte orientale, dove morivano in battaglia quattro su cinque dei soldati tedeschi uccisi. Ma è falso dire che Roosevelt e Stalin vinsero la seconda guerra mondiale, mentre Churchill non la perse.48 In realtà la strategia di Churchill e Brooke era una componente fondamentale della vittoria. In tutta l’amarezza dei diari di Brooke è facile dimenticare che sui veri fondamenti di quella strategia lui e Churchill erano in pieno accordo e avevano molto bisogno uno dell’altro per farla realizzare. Nonostante tutta la pianificazione di Brooke della strategia mediterranea nel 1943, ci voleva Churchill per convincere gli americani a adottarla. «L’entrata degli Stati Uniti scusa tutto», avrebbe detto durante la seconda guerra mondiale, «e con tempo e pazienza darà la vittoria certa.»49 Poteva dirlo anche perché conosceva il paese assai meglio di qualsiasi altro politico britannico del suo tempo, avendo visitato ventotto dei suoi quarantotto stati.
La critica di Kennedy andrebbe anche considerata alla luce dell’osservazione di Ian Jacob: «Se i capi di stato maggiore si impuntavano su una cosa che consideravano giusta, lui si adeguava alle loro opinioni».50 Nei suoi proposti attacchi a Pantelleria, Sumatra settentrionale, Norvegia settentrionale e altrove, cui i capi di stato maggiore si opponevano, vinsero loro, non lui. Analogamente pianificarono e approvarono ufficialmente i particolari di tutte le sconfitte come la Norvegia, Dakar, la Grecia e Singapore. Per quanto gli storici si siano concentrati sulle critiche mosse da Brooke a Churchill, dopo la guerra Brooke scrisse anche: «Ringrazio Dio perché mi è stata concessa l’occasione di lavorare accanto a un uomo come lui che mi ha aperto gli occhi sul fatto che, talvolta, uomini simili esistono sulla Terra».51
Anche gli errori di Churchill devono essere considerati piume rispetto al suo altro contributo supremo, il ferro che inserì nell’anima britannica quando era più necessario. Il 30 novembre 1954, nel discorso per il suo ottantesimo compleanno a Westminster Hall, ripeté un’affermazione che aveva spesso fatto prima: «Era una nazione e una razza che dimorava in tutto il mondo e aveva cuor di leone. Ho avuto la fortuna di essere chiamato a intonare il ruggito».52 Ma era vero sul serio? Il movimento pacifista era ancora forte durante la guerra fasulla e tanto il Partito comunista come l’Unione dei fascisti britannici erano contrari al conflitto. Se Halifax avesse negoziato un trattato di pace con Hitler nell’estate del 1940, avrebbe avuto la maggioranza in entrambe le camere, e la ratifica reale non sarebbe stata rifiutata. Churchill dimostrò un’indebita modestia a Westminster Hall: era proprio lui ad avere il cuor di leone e anche ad aver ruggito; così facendo, aveva insegnato al popolo britannico a riscoprire in sé quello stesso cuore leonino. Nove anni dopo Churchill disse: «Se in quel frangente avessi sbagliato del tutto nel guidare la nazione sarei stato sbattuto fuori», ma non sbagliò e grazie alla sua guida la Gran Bretagna continuò a combattere.53
Nel novembre 1938 Adolf Hitler domandò con sprezzo: «Forse che l’Onnipotente ha consegnato la chiave della democrazia a persone come Churchill?».54 La risposta era sì. Nel 1897 Churchill era stato citato nei dispacci per «il coraggio e la risoluzione» dimostrati, e per essersi «reso utile in un momento critico».55 Quarantatré anni dopo accadde lo stesso.
«L’uomo ragionevole si adatta al mondo», scrisse George Bernard Shaw nel Manuale del rivoluzionario; «quello irragionevole insiste nel cercare di adattare il mondo a sé. Perciò tutti i progressi dipendono dall’uomo irragionevole.» La mancanza di rispetto delle regole, che ficcava Churchill in guai innumerevoli a scuola, si dimostrò inestimabile nel 1940, quando strapazzò le convenzioni di promozione e acquisizione di Whitehall, il concetto di «guerra da gentiluomini», il protocollo politico e perfino reale, le procedure del Ministero della guerra eccetera. L’approccio di Churchill dell’«agire oggi» era molto diverso dalla “tendenza rispettabile” dei politici-uomini d’affari sobri, coscienziosi, di solito originari della classe media, di tutti i partiti che dominarono la politica britannica dalla caduta di Lloyd George nel 1922 e quella di Neville Chamberlain nel 1940. Non sopportava quella che era definita “forma”, un comportamento istintivamente rispettoso inculcato dalle scuole private, da Oxford e Cambridge, e dalla BBC, dal servizio civile, dalla corte, dalla City londinese, dalla chiesa d’Inghilterra, dai circoli per gentiluomini e dai partiti politici. Con tutte queste cose Churchill aveva nel migliore dei casi un rapporto ambivalente, nel peggiore nessun rapporto.
In questo senso, fu uno dei più grandi individualisti dei tempi moderni, poiché con ogni cosa nella vita aveva un approccio del tutto personale e non da appartenente a un gruppo, dal momento in cui lasciò la sua mensa ufficiali nel 1899 in avanti. Disprezzava la scuola, non frequentò mai l’università, non lavorò mai negli affari o nel servizio pubblico o per le colonie, prestò servizio in sei reggimenti (quindi non sviluppò mai un attaccamento servile per nessuno di essi), gli venne rifiutata l’ammissione a un circolo e fu costretto a dimettersi da un altro, uscì dal Partito conservatore e da quello liberale e non fu mai in nessun senso significativo un cristiano. Pur essendo figlio di un cancelliere dello Scacchiere e nipote di un duca, era un bastian contrario e un marginale. Rifiutò addirittura di aderire all’antisemitismo da locali notturni che era il principale collante sociale della “tendenza rispettabile”, ed era invece un attivo sionista. La ragione per cui i suoi contemporanei lo consideravano profondamente avverso è che lo era davvero.
Non si preoccupava mai nemmeno di essere in minoranza. Nel febbraio 1927, parlando della legislazione sui sindacati alla camera dei comuni in veste di cancelliere dello Scacchiere, rievocò i giorni in cui «nell’esercito, quando veniva tenuta una corte marziale e si accompagnava davanti il prigioniero, si usava chiedergli se aveva obiezioni a essere processato dal presidente o da qualcuno degli ufficiali che componevano la corte marziale. Una volta un prigioniero fu così insubordinato da rispondere: “Obietto a tutto il vostro dannato gruppo”».56 Negli anni trenta Churchill esibiva proprio un tale senso di sfida totale, rifiutando di lasciarsi intimidire dalla quasi unanimità della classe dirigente britannica nel suo desiderio di appeasement con Hitler e i nazisti. Negli anni quaranta lo stesso atteggiamento gli consentì di andare oltre la visione della classe dirigente sulla conduzione di una guerra.
Il suo straordinario esprit era manifesto soprattutto nel modo in cui faceva battute durante i grandi momenti di crisi. Accadde nel maggio 1940, per esempio, quando fu nominato primo ministro dal re. E poi il mese dopo, quando cercava di persuadere i francesi a continuare a combattere a Tours, nel 1942, durante i due dibattiti sul voto di sfiducia, e in numerose altre occasioni durante i discorsi e le riunioni di stato maggiore in guerra. In quelle situazioni Churchill fece osservazioni spiritose, spesso su di sé. Anzi, più la situazione peggiorava, più lui diventava divertente. Durante la mozione di fiducia del luglio 1942, quando Leslie Hore-Belisha lo criticò per i difetti del carrarmato A22, rispose: «Come forse si poteva prevedere, ha molti difetti e problemi ai cingolati e quando sono diventati evidenti il carrarmato è stato giustamente ribattezzato “il Churchill”».57 Alcuni condannavano il suo impiego dell’umorismo perché frivolo, altri lo consideravano un’arma cinica per conquistare popolarità, ma di fatto rifletteva la sua straordinaria freddezza sotto pressione, il suo rifiuto di lasciarsi abbattere (almeno a lungo) e la sua convinzione della necessità di mantenere il morale alto mostrando sicurezza durante le crisi. Era un autore di epigrammi tale da pareggiare Oscar Wilde, Noël Coward e perfino Samuel Johnson, ma a differenza di loro era spiritoso anche mentre guidava il suo paese durante una guerra mondiale.
Grazie a internet, sono stati diffusi numerosi falsi miti revisionisti, secondo i quali Churchill è considerato responsabile per l’affondamento del Titanic e del Lusitania, di aver massacrato i minatori in sciopero a Tonypandy, di aver ordinato il bombardamento e il mitragliamento di dimostranti irlandesi innocenti, di aver gasato i nomadi iracheni, di aver emanato l’antisemitismo, di aver evitato apposta di salvare Coventry dalla distruzione, di aver assassinato l’ammiraglio Darlan, il generale Sikorski e svariati altri, di aver affamato a scopo di genocidio i bengalesi durante la carestia e molto altro ancora. Queste accuse sorgono soprattutto (talvolta a bella posta) da una lettura sbagliata delle fonti originali o da brutali estrapolazioni dal contesto, alcune altre sono invece semplicemente puri frutti di invenzione. Un ritorno agli archivi e ai documenti originali, come dimostra questo libro, li mostra per quelli che sono, cioè miti, di quelli destinati a circolare per sempre nel ciberspazio.
Da un’indagine condotta nel 2008 su 3000 adolescenti britannici, è emerso che ben il 20 per cento riteneva Winston Churchill un personaggio inventato.58 (Secondo lo stesso sondaggio, il 58 per cento pensava che Sherlock Holmes fosse una persona reale e il 47 per cento riteneva lo stesso di Eleanor Rigby.) Se questi dati sono un atto di accusa agli effetti della sostanziale esclusione di Churchill dai programmi scolastici, in un certo senso si possono considerare anche un tributo alla sua vita, dato che in generale è noto come una persona dalla biografia incredibile, assurto alla condizione di mito. Una persona che, sembra proprio improbabile, abbia potuto vivere una vita così straordinaria. «È della razza dei giganti», scrisse di lui MacCallum Scott. La frase, se rapportata all’anno della sua formulazione, il 1905, forse sembra agiografica, ma quarant’anni dopo appare straordinariamente preveggente.59 Scott concluse quella prima biografia con le parole: «Gioca poste alte, ma ha i nervi saldi e gli occhi acuti. Comunque è un combattente e vederlo lottare sarà qualcosa per cui valeva la pena vivere».60 La sua fu una predizione altrettanto buona di quelle di Churchill.
«L’uomo è spirito», disse Churchill ai ministri del suo governo poco prima di dimettersi nell’aprile 1955.61 Intendeva dire che, dato lo spirito, termine con cui implicava lo slancio, l’intelligenza, il duro lavoro, la perseveranza, l’immenso coraggio fisico e morale e, soprattutto, la volontà di ferro che lui stesso aveva esibito nella vita, è possibile riuscire, anche contro tutte le limitazioni materiali. Lui stesso ci era riuscito tra innumerevoli ostacoli, nonostante fosse stato trascurato dai genitori, disapprovato dai contemporanei, chiuso in prigione, avesse sfiorato la morte per un pelo una dozzina di volte, avesse conosciuto il disonore politico, l’insicurezza finanziaria, i disastri militari, la derisione della stampa e del pubblico, le pugnalate alle spalle dei colleghi, la considerazione sbagliata del suo personaggio e perfino, da alcune parti, decenni di odio. Era convinto che con lo spirito giusto l’uomo può innalzarsi al di sopra di ogni cosa e creare qualcosa di davvero magnifico per la sua vita. Se è vero che il suo eroe John Churchill, duca di Marlborough, vinse grandi battaglie e costruì il palazzo di Blenheim, e l’altro suo eroe Napoleone trionfò in ancora più battaglie e diede vita a un impero, Winston Churchill superò entrambi. Le sue battaglie vinte preservarono la nostra libertà.
1 Blake e Louis (a cura di), Churchill, p. 406.
2 Ismay, Memoirs, pp. 269-270.
3 CV II, parte 2, p. 1339.
4 Cherwell Papers K70/4.
5 Alanbrooke, War Diaries, pp. 450-451.
6 WSC, RW II, p. 375.
7 WSC, Speaking, p. 149.
8 OB II, p. 34.
9 Churchill by his Contemporaries, https://winstonchurchill.hillsdale.edu/clement-attlee-part-2/.
10 “New York Times Book Review”, 16 luglio 1995.
11 Muller (a cura di), Peacemaker, p. 6.
12 Pawle, Warden, p. 179.
13 Taylor, Winston Churchill, p. 291.
14 Eade (a cura di), Contemporaries, p. 248.
15 CS V, p. 5197.
16 WSC, GC, p. 137.
17 Sterling, Getting, p. 10.
18 Dean, Hatred, Ridicule, p. 45.
19 OB V, p. 1115.
20 Christie’s Manuscripts Sales Catalogue 2003.
21 Eade (a cura di), Contemporaries, p. 433.
22 Browne, Sunset, p. 119.
23 CS VI, p. 6537.
24 Arnn, Churchill’s Trial, p. XIV.
25 “Pall Mall Magazine”, luglio 1927; WSC, Thoughts, p. 23.
26 CAC, KLMR 6/9.
27 WSC, MEL, p. 73.
28 Rose, Literary Churchill, passim.
29 Soames, “Human Being”, p. 4.
30 Eade (a cura di), Contemporaries, pp. 14-35.
31 Ismay, Memoirs, p. 142.
32 WSC, Marl, II, p. 331.
33 CS VIII, p. 8321.
34 WSC, Contemporaries, p. 189.
35 Gilbert, Search, p. 215.
36 CAC, CHAR 1/399A/66-79.
37 WSC, TSWW I, p. 96.
38 Reynolds, Churchill the Historian.
39 CS VIII, p. 8422.
40 Majskij, Maisky Diaries, p. 353.
41 CAC, CHOH/3/CLVL.
42 WSC, TSWW IV, p. 182 [vol. VII, p. 241].
43 WSC, India, pp. XXXIX-XL.
44 CV III, parte 2, p. 1467.
45 Kennedy, Business, p. 115.
46 Colville, Fringes, p. 507.
47 Baxter, Military Strategist, p. 9; Howard, Mediterranean Strategy, pp. 31-32.
48 “FH”, 140, p. 31.
49 OB VI, p. 1274.
50 Jacob, High Level, p. 373.
51 Alanbrooke, War Diaries, p. 713.
52 CS VIII, p. 8608.
53 WSC, TSWW II, p. 88 [vol. III, p. 115].
54 Eade (a cura di), Contemporaries, p. 209.
55 Gilbert, A Life, p. 79.
56 CS IV, p. 4143; CIHOW, p. 72.
57 CS VI, p. 6655.
58 http://www.telegraph.co.uk/news/uknews/1577511/Winston-Churchill-didnt-really-exist-say-teens.html.
59 Scott, Churchill, p. 2.
60 Ivi, p. 266.
61 OB VIII, p. 1123.