venerdì 13 marzo 2020


ADA
o
ardore
Vladimir Nabokov 

 ADELPHI EDIZIONI


Dopo aver raggiunto le vette dello scandalo e della gloria, dopo aver pubblicato capolavori come Il donoLolita o Fuoco pallido, Nabokov decise di scrivere un romanzo dove avrebbe sfrenato i suoi estri e i suoi capricci più nascosti e più cari, sfidando il lettore a seguirlo, come un seduttore irresistibile e sottilmente perverso. E fu Ada. Sarebbe stata una storia d'amore, di quell'amore «normale e misterioso» che è come la rosa vera mescolata alle altre in un negozio di fiori finti, «pour attraper le client». E anche una storia erotica. E, dietro a tutto, sarebbe stata una celebrazione del dettaglio. «Il dettaglio è sempre benvenuto» diceva Nabokov. Dettaglio è «l'evento senza precedenti e irripetibile» che si stagna fra miliardi di simili – e con ciò in fondo obbliga la letteratura a esistere, se non altro per replicargli con un tessuto di parole che dell'irripetibile mostri qualche filo. Ogni lettore, non appena comincerà ad addentrarsi in Ada, avrà l'impressione di trovarsi davanti a uno di quei libri in cui l'autore ha inteso mettere tutto, come in una vasta arca, grande quanto un leggendario maniero familiare o per lo meno la sua sterminata e veleggiante soffitta. E in quella soffitta costellata di segreti, come nel parco di quel maniero, cosparso di nascondigli erotici, sarà felice di perdersi.

In copertina: Konstantin Somov, Mattino d'estate (1932). Collezione privata.


PARTE PRIMA

1

«Tutte le famiglie felici sono più o meno diverse tra loro; le famiglie infelici sono tutte più o meno uguali» dice un grande scrittore russo al principio di un famoso romanzo (Anna Arkadievitch Karenina, trasfigurato in inglese da R.G. Stonelower, Mount Tabor Ltd., 1880). Questa asserzione ha poco, se non niente, a che vedere con la storia che verrà ora narrata, una cronaca familiare, la prima parte della quale è, forse, più vicina a un'altra opera di Tolstoj, Detstvo i otrochestvo (Childhood and Fatherland, Pontius Press, 1858). [NOTA Tutte le famiglie felici... Qui vengono messe in ridicolo le cattive traduzioni dei classici russi. La frase di apertura del romanzo di Tolstoj è capovolta e il patronimico di Anna Arkadjevna termina con un'assurda desinenza maschile, mentre al suo cognome viene erroneamente aggiunta una desinenza femminile. I nomi «Mount Tabor» e «Pontius» alludono alle trasfigurazioni (il termine è di Mr Steiner, credo) e ai tradimenti che i grandi testi subiscono da parte di pretenziosi e ignoranti versionisti. Il titolo italiano dell'opera di Tolstoj è Infanzia, adolescenza e giovinezza].
La nonna materna di Van, Dar'ja («Dolly») Durmanov, era figlia del principe Peter Zemski, governatore del Bras d'Or, provincia americana nel Nordest del nostro grande e variegato paese, il quale aveva sposato, nel 1824, Mary O'Reilly, un'irlandese appartenente all'alta società. Dolly, figlia unica, nata nel Bras, sposò nel 1840, alla tenera e capricciosa età di quindici anni, il generale Ivan Durmanov, comandante della Yukon Fortress e pacifico gentiluomo di campagna, le cui terre nei Severn Tories (Severnija Territorii) formavano un mosaico nel protettorato ancora affettuosamente detto Estoty «russo», mescolandosi granoblasticamente [in un miscuglio di tessere di mosaico] e organicamente con il Canady «russo», o Estoty «francese», dove i colonizzatori, non solo francesi, ma anche macedoni e bavaresi, possono godere di un clima alcionio sotto le nostre Stelle e Strisce. [NOTA Severnija Territorii Territori settentrionali. Qui e ovunque la traslitterazione rispetta le regole della vecchia ortografia russa. Per «vecchia ortografia» si intende quella precedente alla riforma del 10 ottobre 1918. Estoty, o Estotiland, era il nome usato nei secoli XVI e XVII per indicare le regioni nordorientali del Labrador].
Il dominio favorito dei Durmanov era, tuttavia, Raduga, vicino alla cittadina che porta quel nome e al di là della vera e propria Estotiland, in quel riquadro atlantico del continente, tra l'elegante Kaluga, New Cheshire, USA, e la non meno elegante Ladoga, Mayne, dove avevano la casa di città e dove erano nati i loro tre figli: un maschio morto giovane e famoso, e una coppia di gemelle difficili. Dolly aveva ereditato la bellezza e il temperamento di sua madre, ma anche una vena più antica e ancestrale di gusto eccentrico, e non di rado deplorevole, che si rifletteva appieno, per esempio, nei nomi che aveva dato alle figlie: Aqua e Marina («Perché non Aqua e Tofana?» si chiedeva il buon generale dalle regali corna di cervo con una sapida risata tenuta a freno, seguita da un breve, conclusivo colpo di tosse di simulato distacco – gli scoppi d'ira della moglie lo terrorizzavano). [NOTA Tofana Allusione a «acqua tofana»].
Il 23 aprile del 1869, nella piovigginosa e calda, velata e verde Kaluga, Aqua, venticinquenne e afflitta dalla solita emicrania primaverile, sposò Walter D. Veen, un banchiere di Manhattan di antica ascendenza angloirlandese, che aveva a lungo condotto, e avrebbe presto ripreso, un intermittente, appassionato affaire con Marina. Quest'ultima, in un giorno imprecisato del 1871, sposò il primo cugino del suo primo amante, a sua volta Walter D. Veen, giovane senza dubbio non meno opulento, ma molto più noioso.
La «D» nel nome del marito di Aqua stava per Demon (una forma derivata da Demian o Dementius), e così lo chiamavano in famiglia. In società era generalmente conosciuto come Raven Veen o semplicemente Dark Walter per distinguerlo dal marito di Marina, detto Durak Walter o semplicemente Red Veen [NOTA Durak in Russo, «sciocco»]. Il duplice e favorito svago di Demon consisteva nel collezionare antiche tele e giovani amanti. Per non parlare di quanto gli piacevano le battute di mezza età.
La madre di Daniel Veen era una Trumbell, ed egli era sempre disposto a spiegare con ogni dettaglio – a meno che un secca-seccatori non riuscisse a sviarlo – come nel corso della storia americana un «Bull» (toro) inglese fosse potuto diventare una «Bell» (campana) del New England. Tra i venti e i trent'anni Dan si era «messo in affari» e si era trasformato, con una facilità perfino eccessiva, in un mercante d'arte di Manhattan. Non aveva – quanto meno sul principio – una particolare inclinazione per la pittura, nessuna attitudine per l'arte di vendere, e nessun bisogno di scuotere con gli alti e i bassi di un «mestiere» la solida fortuna ereditata da una serie di Veen molto più capaci e ardimentosi. Confessando di non provare un grande interesse per la campagna, trascorreva a Ardis, la sua sfarzosa villa vicino a Ladore, soltanto pochi fine settimana estivi scrupolosamente ombreggiati. Dopo l'infanzia era tornato solo qualche volta a nord, sul Lago Kitez, vicino a Luga, in un'altra proprietà la cui superficie comprendeva e anzi quasi coincideva con quella massa d'acqua stranamente rettangolare, anche se del tutto naturale, che un pesce persico, controllato da lui stesso al cronometro, aveva un giorno impiegato mezz'ora ad attraversare diagonalmente e che egli possedeva insieme a suo cugino, in gioventù grande pescatore. [NOTA Lago di Kitez Allusione alla leggendaria città di Kitez che scintilla sul fondo di un lago in una fiaba russa].
Nella vita amorosa del povero Dan non c'era niente di complicato né di suggestivo, ma questo non gli aveva impedito (anche se aveva ben presto dimenticato le esatte circostanze di quell'evento, così come si dimenticano le misure e il prezzo di un cappotto amorevolmente confezionato, dopo che lo si è messo e tolto per almeno due stagioni) di innamorarsi placidamente di Marina, con la cui famiglia aveva fatto conoscenza quando ancora i Durmanov possedevano la casa di Raduga (poi venduta a Mr Eliot, un uomo d'affari ebreo). Un pomeriggio, nella primavera del 1871, nell'ascensore che saliva in cima al primo edificio a dieci piani di Manhattan, aveva fatto a Marina la sua proposta, e al settimo piano (Giocattoli) era stato respinto con indignazione; era sceso da solo e, per dare aria ai propri sentimenti, era partito per un triplo giro del mondo in direzione «counter-Fogg», seguendo ogni volta, come un parallelo animato, lo stesso itinerario [NOTA Counter-Fogg Phileas Fogg, il globetrotter di Jules Verne, che compì il giro del mondo da ovest a est]. Nel novembre del 1871, mentre pianificava la sua serata con lo stesso cicerone, puzzolente ma simpatico, vestito di un completo color café au lait, che aveva già altre due volte preso al proprio servizio nello stesso albergo di Genova, ricevette su un vassoio d'argento un aerocablogramma (inoltratogli con un'intera settimana di ritardo dal suo ufficio di Manhattan dove, per la svista di una ragazza ancora inesperta, era stato archiviato nel casellario a colombaia e registrato come RIF. AMOR) nel quale Marina diceva che lo avrebbe sposato al suo ritorno in America.
Secondo il supplemento domenicale di un quotidiano che aveva appena cominciato a ospitare tra le sue vignette l'ormai da tempo defunto «Buonanotte, ragazzi», (Nicky e Pimpernella, tenera coppia di fratellini che divideva uno stretto giaciglio [NOTA: i nomi sono presi a prestito, con alcune distorsioni, da un fumetto per bambini di lingua francese]), e che era sopravvissuto con altri vecchi giornali nella soffitta di Ardis Hall, le nozze Veen-Durmanov avevano avuto luogo nel giorno di Sant'Adelaide dell'anno 1871. Dodici anni e circa otto mesi dopo, due ragazzini nudi, l'uno con i capelli scuri e la pelle abbronzata, l'altra con i capelli scuri e la pelle bianco latte, chinandosi nel caldo raggio obliquo che entrava dall'abbaino su una pila di scatoloni impolverati, poterono confrontare quella data (16 dicembre 1871) con un'altra (16 agosto dello stesso anno) anacronisticamente scarabocchiata con la calligrafia di Marina in un angolo di una fotografia scattata da un fotografo professionista (ed esposta nella biblioteca in una cornice vellutata color lampone, sullo scrittoio a cattedra di suo marito) identica in ogni dettaglio alla riproduzione del giornale, compreso l'immancabile svolazzo di un ectoplasmico velo da sposa in parte gonfiato da una brezza di sagrato di traverso ai pantaloni dello sposo. Una bambina era nata il 21 luglio 1872 a Ardis, la residenza che il padre putativo possedeva nella contea di Ladore, e per qualche oscura ragione mnemonica era stata registrata all'anagrafe come Adelaida. Un'altra bambina, questa volta veramente figlia di Dan, era nata il 3 gennaio 1876.
Oltre alla vecchia rubrica illustrata dell'ancor viva ma piuttosto rimbambita «Kaluga Gazette», quei nostri birichini Pimpernel e Nicolette trovarono nella stessa soffitta una bobina contenente quella che si sarebbe rivelata (secondo quanto disse Kim, il ragazzo di cucina, come si vedrà in seguito) una pellicola ripresa dal globe-trotter con la tecnica del microfilm, spaventosamente lunga e piena di stravaganti bazar, cherubini dipinti e monelli piscianti che riapparivano tre volte in punti diversi, nelle diverse sfumature dell'eliografia. Sarebbe naturale, nel periodo in cui ci si sta preparando a formare una famiglia, non esibire certi intérieurs (come quelle scene di gruppo a Damasco, protagonisti il globe-trotter e l'archeologo dell'Arkansas con il sigaro perennemente in bocca e la seducente cicatrice dalla parte del fegato, e le tre puttane grasse e il vecchio eiaculatore precoce Archie, come scherzosamente lo definiva il terzo elemento maschile della partita, bravo e buon britannico); eppure la maggior parte della pellicola, accompagnata da annotazioni di carattere puramente oggettivo non sempre facili da individuare – a causa della mancanza o della fuorviante collocazione dei segnalibri nelle numerose guide sparse lì intorno - fu proiettata da Dan molte volte per sua moglie durante la loro istruttiva luna di miele a Manhattan.
Ma la migliore scoperta dei due ragazzi arrivò da un altro scatolone appartenente a uno strato anteriore del passato. Si trattava di un piccolo album verde sulle cui pagine erano stati accuratamente incollati i fiori che Marina aveva raccolto, o altrimenti ottenuto, a Ex, una località alpina di villeggiatura non lontano da Briga, in Svizzera, dove aveva soggiornato prima del matrimonio, quasi sempre in uno chalet preso in affitto. Le prime venti pagine dell'album erano adorne di alcune piantine raccolte qua e là nell'agosto del 1869, sui declivi erbosi sopra lo chalet, o nel parco dell'Hotel Florey, o nel giardino del vicino sanatorio («il mio Nusshaus», come lo aveva soprannominato la povera Aqua, o «la Casa», come lo definiva con maggior ritegno Marina nei suoi appunti sul proprio soggiorno) [NOTA Nuss in Tedesco, «noce». In inglese gergale nut («noce») vuol dire «pazzo» e nuthouse «manicomio»]. Quelle prime pagine non presentavano un vero interesse botanico o psicologico; le ultime cinquanta, o pressappoco, erano rimaste bianche; ma la parte centrale, che registrava una notevole diminuzione nel numero degli esemplari, si rivelava un vero e proprio piccolo melodramma messo in scena dai fantasmi dei fiori morti. Gli esemplari erano incollati sul lato destro del foglio, a sinistra erano scritte le annotazioni di Marina Dourmanoff (sic):

Ancolie Bleue des Alpes, Ex-en-Valais, 1.IX.69. Da un inglese in albergo. «Aquilegia alpina, del colore dei suoi occhi».
Épervière auricule, 25.X.69, Ex, ex horto doctoris. Colta dal muro del giardino alpino del dottor Lapiner.
Foglia d'oro [ginkgo]: caduta da un libro, La verità su Terra, che Aqua mi ha dato prima di ritornare alla sua Casa. 14.XII.69.
Edelweiss artificiale portatomi dalla mia nuova infermiera con un biglietto di Aqua dove si dice che proviene da un «misero e bizzarro» albero di Natale della Casa. 25.XII.69.
Petalo di orchidea, una delle 99 orchidee, se mi è concesso, speditemi ieri con consegna urgente, c'est bien le cas de le dire, da Villa Armina, Alpes Maritimes. Ne ho messe da parte dieci da portare a Aqua nella sua Casa. Ex-en-Valais, Svizzera. «Nevica nella sfera di cristallo del Destino» come diceva lui. [La data è cancellata].
Gentiane de Koch, rara, portatami da lapocka [il caro] Lapiner, raccolta nel suo «silenzioso gentiarium» 5.I.1870.
[Macchia di inchiostro blu casualmente a forma di fiore, o cancellatura ritoccata con penna a feltro] Compliquaria compliquata var. aquamarina. Ex, 15.I.70.
Fiore ornamentale di carta, trovato nella borsetta di Aqua. Ex, 16.II.1870, fatto da un paziente, in quella Casa che ormai non è più sua.
Gentiana verna (printanière). Ex, 28.III.1870, nel prato della villetta della mia infermiera. Ultimo giorno qui.
[NOTA dottor Lapiner Per una ragione misteriosa ma non priva di attrattiva, la maggior parte dei medici nel libro hanno nomi connessi alla parola «coniglio». Il francese lapin di Lapiner si mescola al russo krolik, cognome dell'amato lepidotterologo di Ada e il russo zajac (lepre) riecheggia in Seitz (il ginecologo tedesco); c'è un latino cuniculus in Nikulin («nipote del grande roditorologo Kunikulinov»), e un greco lagos nel Lagosse (il medico che assiste Van nella vecchiaia). Per finire, Coniglietto, lo specialista italiano di «cancro del sangue»].

I due giovani scopritori di quello strano e sgradevole tesoro lo commentarono come segue:
«Desumo» disse il ragazzo «tre fatti essenziali: la non ancora sposata Marina e la già sposata sorella svernavano nel mio lieu de naissance [luogo di nascita]; Marina aveva il suo personale dottor Krolik, pour ainsi dire [per così dire]; e le orchidee arrivavano da Demon, il quale preferiva starsene vicino al mare, la sua bisnonna azzurro scuro».
«Sono in grado di aggiungere» disse la ragazza «che il petalo appartiene alla comune orchidea farfalla; che mia madre era anche più pazza di sua sorella; e che il fiore di carta ceduto con tanta indifferenza è una riproduzione perfettamente riconoscibile della sanicola che fiorisce al principio della primavera e che ho visto a profusione, lo scorso febbraio, sulle colline della costa della California. Il dottor Krolik, il nostro naturalista locale che tu, Van, hai citato, come avrebbe potuto fare Jane Austen, per dare una rapida informazione narrativa (ti ricordi di Brown, non è vero, Smith? [NOTA Jane Austen Allusione alle rapide informazioni narrative fornite attraverso il dialogo in Mansfield Park]), ha riconosciuto nel campione che ho portato a Ardis da Sacramento il Bear-Foot, Piede d'orso, B E A R, amor mio, non B A R E, nudo, come il mio piede o il tuo o quello della Fanciulla di Stabia – allusione che tuo padre, il quale, secondo Blanche, è anche il mio, capirebbe al volo, così» (schiocco di dita all'americana)[NOTA Fanciulla di Stabia Allusione al celebre affresco - la cosiddetta «Primavera» - di Stabia, conservato nel Museo Nazionale di Napoli e raffigurante una fanciulla che sparge fiori intorno a sé]. «Mi sarai grato» continuò, abbracciandolo, «di non aver menzionato il nome scientifico di quel fiore. Guarda caso l'altro piede – il Pied de Lion che ornava il povero, piccolo larice natalizio – è stato fatto dalla stessa mano, forse quella di uno studente cinese molto malato arrivato alla Casa direttamente dal Barkley College».
«Buon per te, Pompeianella (la stessa che tu hai visto spargere fiori in uno dei libri illustrati dello zio Dan, ma che io ho potuto ammirare l'estate scorsa in un museo di Napoli). Adesso, ragazza mia, non pensi che dovremmo raccogliere i nostri calzoncini e le nostre camicie, e poi scendere a seppellire o a bruciare immediatamente quest'album? Sei d'accordo?».
«D'accordo» rispose Ada. «Distruggere e dimenticare. Ma abbiamo ancora un'ora prima del tè».
A proposito dell'allusione all'«azzurro scuro», rimasta in sospeso:
Un antico viceré di Estoty, il principe Ivan Temnosinij, padre della trisavola dei ragazzi, principessa Sof'ja Zemski (1755-1809), e diretto discendente dei governanti di Jaroslav dei tempi precedenti all'invasione tartara, aveva un nome vecchio di mille anni che in russo significa «azzurro scuro». Pur essendo per sua natura immune dai magnifici palpiti della consapevolezza genealogica, e incurante della tendenza degli imbecilli ad attribuire allo snobismo tanto l'indifferenza quanto l'entusiasmo, Van non poteva fare a meno di sentirsi esteticamente commosso dal fondale vellutato che era sempre in grado di distinguere attraverso il fogliame nero del suo albero genealogico, come un rassicurante e onnipresente cielo estivo. Negli ultimi anni, però, non potè più rileggere Proust (come non era mai più riuscito ad assaporare la gelatina profumata del lokum [piccolo dolce turco]) senza che lo cogliessero la sensazione nauseante della sazietà e il raspare di un ghiaioso bruciore di stomaco; tuttavia il suo brano favorito restò sempre il corrusco pezzo di bravura che riguarda la storia del nome «Guermantes», la cui sfumatura si fondeva nel prisma del suo pensiero con l'adiacente ultramarino, stuzzicando piacevolmente la sua vanità artistica.
Colore o cognome? Poco chiaro. Riscrivere! (Nota a margine nell'ultima calligrafia di Ada Veen).

2

L'affaire di Marina e Demon cominciò il giorno del compleanno di lui, di lei e di Daniel Veen: il 5 gennaio 1868, quando Marina aveva ventiquattro anni e i due Veen trenta.
Come attrice, Marina non aveva nessuna delle qualità sorprendenti grazie alle quali la capacità mimica sembra valere, almeno per la durata dello spettacolo, perfino più del prezzo della ribalta come l'insonnia, la fantasia, l'arte arrogante; tuttavia quella notte, con la soffice neve che cadeva oltre le tende di velluto e i fondali dipinti, la Durmanska (che pagava al grande Scott, il suo impresario, settemila dollari d'oro alla settimana soltanto per la pubblicità, più un generoso bonus per ogni scrittura) era stata, sin dal principio di quello spettacolo da due soldi (una commedia americana che un pretenzioso scribacchino aveva tratto da una famosa trama sentimentale russa), così sognante, così bella, così commovente, che Demon (non propriamente un gentiluomo nelle questioni amorose) fece una scommessa con il suo vicino di posto in platea, il principe N.; corruppe una serie di addetti ai camerini, e poi, in un cabinet reculé (come uno scrittore francese di un secolo precedente avrebbe potuto definire con un alone di mistero quella piccola stanza dove erano finiti chissà come la tromba rotta e i cerchi per i barboncini di un vecchio pagliaccio ormai dimenticato, insieme a molti vasi impolverati di belletti di diversi colori), mise in pratica tra due scene (capitoli tre e quattro del martirizzato romanzo) il suo intento di possederla. Nel primo quadro lei si era svestita, lasciando intravedere la propria aggraziata silhouette dietro un paravento semitrasparente, e poi era riapparsa in una camicia da notte impalpabile e seducente e aveva trascorso il resto della sciagurata scena parlando di un possidente locale, il barone d'O., con una vecchia nutrice in stivali da esquimese. Sulla scorta dei suggerimenti di quella contadina infinitamente saggia, aveva quindi scritto con una penna d'oca, standosene seduta sulla sponda del letto e appoggiandosi a un comodino a zampe di capriolo, una lettera d'amore, e aveva impiegato cinque minuti a rileggerla, con voce languida ma alta, non si sapeva a beneficio di chi, visto che la nutrice sonnecchiava seduta su una specie di baule da nave, e gli spettatori erano principalmente interessati al riflesso che il raggio di luna artificiale accendeva sulle braccia nude e sui seni palpitanti di quella giovane che si struggeva d'amore.
Anche prima che la vecchia esquimese, strascicando i piedi, se ne fosse andata con il messaggio, Demon Veen aveva lasciato la poltrona di velluto rosa e aveva proceduto a vincere la scommessa, essendo il successo della sua impresa assicurato dal fatto che Marina, tenera vergine pazza, era innamorata di lui dal loro ultimo ballo, la notte di Capodanno. Per di più, la luce tropicale della luna che l'aveva appena bagnata, l'acuta percezione della propria bellezza, gli impulsi ardenti della fanciulla della finzione e il galante applauso di un teatro quasi pieno l'avevano resa particolarmente vulnerabile al solletico dei baffi di Demon. Ed ebbe anche tutto il tempo di cambiarsi per la scena successiva, che cominciava con un intermezzo piuttosto lungo interpretato da una compagnia di ballo di cui Scotty si era assicurato i servizi, portando in due vetture letto i russi che la componevano direttamente da Belokonsk, nell'Estoty occidentale. In uno splendido frutteto alcuni giovani e giocondi giardinieri, con indosso chissà perché il costume delle tribù georgiane, si lanciavano in bocca dei lamponi, mentre alcune ugualmente improbabili servette in sarovary (uno stupido errore: forse la parola «samovar» era stata travisata nell'aerocablo dell'agente) erano impegnate a raccogliere i frutti gommosi della bismalva e delle arachidi dai rami degli alberi. A un cenno invisibile di origine dionisiaca, si tuffarono tutti nella violenta danza detta kurva o «nastro» prevista dal giulivo programma i cui strafalcioni per poco non fecero cadere dalla poltrona Veen (fremente, e leggero nei lombi, e con in tasca la banconota roseorossa del principe N.). [NOTA lamponi... nastro Allusione ai ridicoli errori di una traduzione delle poesie di Mandel'štam a opera di Lowell che tradusse «Moskvu-kurvu» (Mosca la puttana) con «Moscow's ribbon of boulevards» (il nastro dei boulevard di Mosca)]
Il suo cuore mancò un battito, deliziosa perdita che non lasciò rimpianti, quando lei, vestita di rosa, accesa ed eccitata, corse nel frutteto guadagnandosi gli applausi della sua claque, un terzo della pacata ovazione che salutò l'istantaneo disperdersi degli imbecilli ma pittoreschi travisatori di Lyaska – o Iveria. Il suo incontro con il barone d'O., che arrivò senza fretta da una stradina laterale, tutto speroni e marsina verde, sfuggì in qualche modo alla coscienza di Demon, tanto questi era sconvolto dalla meraviglia di quel breve abisso di assoluta realtà tra due simulate folgorazioni di vita artefatta. Senza aspettare la fine della scena, uscì in fretta dal teatro nella nitida notte di cristallo, e i fiocchi di neve gli trapuntarono di stelle il cappello a cilindro mentre ritornava verso la propria casa nell'isolato accanto per predisporre una cena sfarzosa. Il tempo che impiegò ad andare a prendere la nuova amante con la sua slitta dall'allegro tintinnio bastò al balletto dell'ultimo atto, quello dei generali caucasici e delle metamorfizzate cenerentole, per giungere a un'improvvisa conclusione, e al barone d'O., ora in marsina nera e guanti bianchi, per inginocchiarsi in mezzo a un palcoscenico vuoto con in mano la scarpina di vetro che la sua incostante dama gli aveva lasciato nell'eludere le sue tardive avance. I claqueur cominciavano a essere stanchi e a guardare l'orologio quando Marina con un mantello nero scivolò nelle braccia di Demon e nella sua slitta.
Folleggiarono e viaggiarono, e bisticciarono, e volarono di nuovo l'uno nelle braccia dell'altra. Prima dell'inverno seguente lui cominciò a sospettare che lei gli fosse infedele, ma non riuscì a identificare il suo rivale. A metà marzo, durante un pranzo d'affari con un esperto d'arte, un tipo affabile, dinoccolato, piacente, con un frac vecchio stile, Demon si incastrò nell'orbita il monocolo, fece scattare la serratura di un'apposita valigia piatta e ne estrasse un piccolo acquarello dicendo che pensava (in realtà lo sapeva per certo, ma desiderava far ammirare la propria sicurezza di giudizio) si trattasse di un'opera sconosciuta della giovane arte del Parmigianino. Il dipinto mostrava una ragazza nuda con una mela, simile a una pesca, nella conca della mano semilevata, seduta di profilo su un supporto inghirlandato di convolvoli, e aveva per il suo scopritore l'ulteriore attrattiva di ricordargli Marina quando, richiamata dal suono del telefono fuori dal bagno di una stanza d'albergo, e appollaiata sul bracciolo di una poltrona, copriva il ricevitore chiedendo all'amante qualcosa che lui non riusciva ad afferrare perché la voce della vasca sommergeva il suo sussurro. Al barone d'Onsky bastò lanciare un solo sguardo a quella spalla sollevata e a certi effetti vermicolati di delicata vegetazione per confermare il sospetto di Demon. D'Onsky aveva la reputazione di non lasciar trapelare alcun segno di emozione estetica nemmeno in presenza del più affascinante capolavoro; questa volta, nondimeno, mise da parte la lente come avrebbe fatto con una maschera, e permise al proprio sguardo senza veli di carezzare la mela vellutata e le parti soffici e muscose del nudo con un sorriso di compiaciuto stupore. Voleva il signor Veen prendere in considerazione l'ipotesi di venderglielo all'istante? Per favore, signor Veen? Il signor Veen non voleva. Skonky (puzzola, un soprannome senza via di scampo) si sarebbe dovuto accontentare dell'orgogliosa consapevolezza che, fino ad allora, lui e il fortunato proprietario erano le sole persone ad averlo ammirato en connaissance de cause [con cognizione di causa]. Il dipinto tornò così nel suo speciale tegumento, ma dopo aver finito il quarto bicchiere di cognac, d'O. chiese implorando di potergli dare un'ultima sbirciatina. Erano entrambi un po' ubriachi, e Demon si domandò segretamente se la somiglianza di quella edenica fanciulla con una giovane attrice, che il suo ospite aveva senza dubbio visto sulla scena in Eugene e Lara o in Lenore Raven (entrambe stroncate senza pietà da un giovane critico «disgustosamente incorruttibile»), dovesse essere o sarebbe stata commentata. Non lo fu: erano ninfe di un genere davvero molto affine a causa della loro primigenia limpidezza, poiché le somiglianze tra due giovani corsi d'acqua non sono altro che mormorii di naturale innocenza e ingannevole gioco di specchi, questo è il mio cappello, il suo è più vecchio, ma abbiamo lo stesso cappellaio di Londra. [NOTA Eugene e Lara o in Lenore Raven Allusione al poema Evgenij Onegin di Puškin (nel quale Larina è il cognome di Tat'jana e di Ol'ga) e le poesie di E.A. Poe Lenore (1831) e The Raven (1845)].
Il giorno successivo Demon stava prendendo il tè nel suo albergo favorito con una signora boema che non aveva mai visto prima e che non avrebbe rivisto più (lei anelava a una sua raccomandazione per un lavoro alla Sezione Pesci e Fiori di Vetro di un museo di Boston), quando costei interruppe il proprio facondo io per indicare Marina e Aqua che, con aria assente, cipiglio alla moda e pellicce azzurrine, con Dan Veen e un bassotto al seguito, se la svignavano attraverso la hall.
«È curioso come quella terrificante attrice somigli a Eva al clessidrofono nel famoso quadro del Parmigianino» disse la signora boema.
«È tutto fuorché famoso,» rispose Demon con calma «e lei non può averlo visto.» Poi aggiunse «Non la invidio; l'ingenuo che si rende conto di aver messo il piede nel fango di una vita non sua deve provare una sensazione davvero nauseante. E da chi avrebbe avuto queste sciocche notizie? Direttamente da un tale che si chiama d'Onsky, o da un amico di un suo amico?».
«Da un suo amico» balbettò la sventurata signora boema.
Dopo essere stata interrogata nelle segrete di Demon, Marina, con una risata squillante, ordì un pittoresco tessuto di bugie; poi cedette, e confessò. Giurò che era tutto finito; che il barone, fisicamente un relitto e spiritualmente un samurai, era andato per sempre in Giappone. Da una fonte più attendibile Demon apprese che la vera destinazione del samurai era il piccolo e lindo Vaticano, una stazione termale romana, da dove sarebbe tornato a Aardvark, nel Massa, entro una settimana o giù di lì. Visto che il prudente Veen preferiva uccidere il suo uomo in Europa (si diceva che il decrepito ma indistruttibile Gamaliele stesse facendo del suo meglio per proibire i duelli nell'emisfero occidentale – una voce infondata, o il capriccio estemporaneo di un presidente idealista, perché non ne sarebbe mai venuto fuori niente [NOTA: Warren Gamaliel Harding, 29° presidente U.S.A]), Demon noleggiò il più veloce naftaplano disponibile, raggiunse il barone (che era in ottima forma) a Nizza, lo vide entrare nella libreria Gunter, lo seguì, e alla presenza dell'imperturbabile e piuttosto annoiato libraio inglese schiaffeggiò l'attonito rivale con un guanto color lavanda.
La sfida venne accettata; furono scelti due padrini locali; il barone optò per la spada; e dopo che una certa quantità di buon sangue (polacco e irlandese – una specie di «Bloody Mary» americano, in linguaggio da bar) ebbe inzaccherato i due torsi villosi, la terrazza imbiancata a calce, la rampa di scale che scendeva verso il giardino cintato in un divertente scenario alla Douglas d'Artagnan [NOTA Douglas d'Artagnan Douglas Fairbanks (1883-1939) recitava la parte di d'Artagnan nel film I tre moschettieri del 1921], il grembiule di una mungitrice del tutto accidentale, e le maniche della camicia di entrambi i padrini, l'affascinante Monsieur de Pastrouil e lo scellerato colonnello St. Alin, i due gentiluomini testé citati separarono i combattenti ansanti, e Skonky morì, non «delle sue ferite» (come dissero voci malevole), ma per una complicanza cancrenosa da parte di una piccola e forse autoinflitta trafittura all'inguine, che gli causò problemi circolatori a dispetto di non pochi interventi chirurgici subiti in due o tre anni di soste protratte all'Aardvark Hospital di Boston – una città dove, tra l'altro, egli sposò nel 1869 la signora boema nostra amica, attualmente responsabile della Sezione Pesci e Fiori di Vetro del locale museo.
Marina arrivò a Nizza pochi giorni dopo il duello e stanò Demon nella sua villa, Armina, e nell'estasi della riconciliazione nessuno dei due si ricordò di gabbare la procreazione, così che in seguito cominciò l'estremamente interesnoe polozenie (stato interessante) senza il quale, in effetti, queste tormentate note non avrebbero visto la luce.
(Van, io mi fido del tuo gusto e del tuo talento, ma sei proprio sicuro di dover continuare a far ritorno con tanto zelo a quel mondo malvagio che forse, dopotutto, è esistito solo oniricamente? Nota a margine scritta nel 1965 da Ada; cancellata con un tratto leggero della sua ultima mano esitante).
Quella fase incauta non fu l'ultima ma fu la più breve – questione di quattro o cinque giorni. Lui la perdonò. L'adorava. Desiderava moltissimo sposarla – a condizione che lei abbandonasse immediatamente la sua «carriera» teatrale. Denunciò la mediocrità del suo talento e la volgarità del suo entourage, e lei strillò che lui era un bruto e un mostro di crudeltà. Dal 10 aprile in poi cominciò ad accudirlo Aqua, mentre Marina era tornata in volo alle prove di Lucile, ancora un esecrabile dramma destinato a un altro fiasco al teatro di Ladore.
«Adieu. Forse è meglio cosi,» scrisse Demon a Marina alla metà di aprile del 1869 (la lettera potrebbe essere tanto una copia trascritta di suo pugno quanto l'originale non spedito) «perché indipendentemente dalla felicità che avrebbe potuto accompagnare la nostra vita coniugale, e dal tempo che questa vita felice sarebbe potuta durare, c'è un'immagine che io non dimenticherò e non potrò perdonare mai. Imprimitelo nella mente, mia cara. Lascia che te lo ripeta in termini che possano essere apprezzati da un'artista del palcoscenico. Tu eri andata a Boston a trovare una vecchia zia – un cliché, ma per l'occasione la verità – e io ero andato al ranch di mia zia vicino a Lolita, nel Texas. In febbraio, una mattina presto (circa a mezzogiorno chez vous), ti ho chiamato al tuo albergo da una cabina di puro cristallo sul ciglio della strada, ancora bagnata dalle lacrime di uno spaventoso temporale, per chiederti di volare da me subito, perché io, Demon, sbatacchiando le mie ali gualcite e maledicendo il dorofono automatico, non potevo vivere senza di te, e perché volevo farti vedere, tenendoti stretta, il bagliore dei fiori del deserto che la pioggia aveva fatto sbocciare. La tua voce era remota ma dolce; hai detto di essere nella condizione di Eva, di aspettare un momento, di lasciarti mettere un penjuar [Russo: accappatoio]. Invece, coprendo il ricevitore, hai parlato, suppongo, con l'uomo con il quale avevi passato la notte (e che io avrei volentieri spedito all'altro mondo, se non fossi stato ancor più ansioso di castrarlo). Questo è lo schizzo dipinto in un'estasi profetica da un giovane artista di Parma, nel sedicesimo secolo, per l'affresco del nostro destino, e coincidente, se si eccettua la mela della terribile conoscenza, con un'immagine ripetuta nella mente di due uomini. A proposito, la tua cameriera fuggiasca è stata trovata dalla polizia qui, in un bordello, e ti verrà rispedita non appena sarà sufficientemente imbottita di mercurio».

3

I dettagli del disastro EL (e non intendo la ferrovia elevata) nel beau milieu del secolo scorso, che ebbe il singolare effetto di diffondere e insieme di maledire la nozione di «Terra», sono storicamente troppo noti, e spiritualmente troppo osceni, per essere trattati per esteso in un libro che si rivolge a giovani impreparati e innamorati – e non a uomini maturi o a inumatori.
Naturalmente, oggi, dopo che tanti anni di delusione reazionaria sono passati (più o meno!) e che le nostre piccole macchine lucenti, Faradio [dio dell'elettricità] le benedica, hanno ripreso a ronzare alla meno peggio, come facevano nella prima metà del secolo diciannovesimo, l'aspetto meramente geografico della vicenda possiede un lato comico che lo redime, come quegli intarsi d'ottone, bric-à-Braques [allusione al pittore Georges Braque e al Bric-à-brac] e orrori in similoro, intesi come «arte» dai nostri progenitori privi di senso dell'umorismo. Perché, in verità, nessuno può negare la presenza di qualcosa di decisamente ridicolo in quelle configurazioni che vennero solennemente spacciate per una variopinta mappa di Terra. È proprio esilarante immaginare che la «Russia», invece di essere un grazioso sinonimo dell'Estoty, la provincia americana che si estende dal Circolo non più vizioso Artico fino agli Stati Uniti veri e propri, fosse su Terra il nome di un paese, trasferito, come da un abile eschimotaggio, attraverso la barriera di un raddoppiato oceano nell'emisfero opposto, dove si era disordinatamente disteso sopra tutta l'attuale Tartaria, dalla Curlandia alle Curili! Ma se (ancor più assurdamente), in termini spaziali terrestri, l'Amerussia di Abraham Milton venne divisa nei suoi componenti, con acqua tangibile e ghiaccio a separare le nozioni meno poetiche che politiche di «America» e «Russia», una discrepanza più complicata e anche più grottesca sorse per quanto riguarda il tempo – non solo perché la storia di ogni parte dell'amalgama non andava molto d'accordo con la storia di ciascuna delle controparti, ma perché tra le due terre si apriva una breccia di quasi cento anni in un senso o nell'altro; una breccia caratterizzata da una bizzarra confusione nella segnaletica sulle strade del tempo dove non tutti i «non più» di un mondo corrispondevano ai «non ancora» dell'altro. Si doveva, tra le altre cose, a quel concorso di divergenze «scientificamente inafferrabile» se spiriti bien rangés (incapaci di folleggiare con folli gobbetti) rifiutarono Terra come una moda strampalata o un'illusione, e menti squilibrate (pronte a immergersi in qualunque abisso) l'accettarono come supporto e simbolo della propria irrazionalità.
Come Van Veen stesso doveva scoprire al tempo della propria appassionata ricerca sulla terrologia (allora una branca della psichiatria), anche il più profondo dei pensatori e il più puro dei filosofi, Paar di Chose e Zapater di Aardvark, erano emozionalmente divisi nel loro atteggiamento verso la possibilità che esistesse «una lente deformante della nostra deformata gleba» secondo l'eufonica arguzia di uno studioso che desidera rimanere anonimo. (Hmm! Kvissà kvissà kvi sarà?, come diceva sempre la povera Mlle L. a Gavronskij. Calligrafia di Ada).
C'era chi sosteneva che le discrepanze e le «false sovrapposizioni» tra i due mondi fossero troppo numerose, e troppo profondamente intrecciate nella matassa degli eventi successivi, per non dare alla teoria della loro essenziale identità il colore di una banale fantasia; e c'era chi replicava che le differenze non facevano che confermare la realtà organica pertinente all'altro dei due mondi; e che una perfetta somiglianza avrebbe piuttosto suggerito l'idea di un fenomeno speculare, e quindi speculativo; e che due partite a scacchi con identiche aperture e identiche chiusure potrebbero ramificarsi in un numero infinito di varianti, su una scacchiera e in due cervelli, in qualunque stadio intermedio della loro evoluzione irrevocabilmente convergente.
L'umile narratore deve ricordare tutto questo a chi rilegge, perché nel 1869 (per nulla un anno mirabile), in aprile (il mio mese preferito), nel giorno di San Giorgio (secondo le stucchevoli memorie di Mlle Larivière) Demon Veen sposò Aqua Durmanov – per dispetto e per pietà, una miscela non infrequente.
O forse c'era una spezia in più? Marina, con perversa vanagloria, affermava a letto che i sensi di Demon dovevano essere stati influenzati da una bizzarra sorta di «piacere» (nel senso del plaisir francese, che stimola una quantità di vibrazioni spinali supplementari) incestuoso (qualunque cosa significhi questo termine) quando accarezzava e assaporava e delicatamente schiudeva e violava, in modi inconfessabili ma affascinanti, una carne (une chair) che era sia quella di sua moglie sia quella della sua amante, gli incanti confusi e accesi di due corpi gemelli, un'Acquamarina al contempo singola e doppia, un miraggio in un emirato, una gemma geminata, un'orgia di allitterazioni epiteliali.
In realtà Aqua era meno graziosa e di gran lunga più pazza di sua sorella. Durante i suoi quattordici anni di infelice matrimonio trascorse una serie discontinua di sempre più duraturi soggiorni in case di cura e sanatori. Una piccola mappa della parte europea del Commonwealth britannico – diciamo dalla Scoto Scandinavia fino alla Riviera, all'Aitar e alla Palermontovia – così come di gran parte degli Stati Uniti, dall'Estoty fino al Canady e all'Argentina, sarebbe potuta essere fittamente trapunta da bandierine con la Croce Rossa smaltata che, nella Guerra dei Mondi di Aqua, ne segnavano i bivacchi. C'era stato un tempo in cui aveva progettato di cercare un minimo sollievo («appena un po' di grigiore, per carità, invece del nero compatto») in protettorati anglo-americani come i Balcani e le Indie, e avrebbe potuto perfino tentare i due continenti meridionali che prosperano sotto il nostro congiunto dominio. Naturalmente, la Tartaria, un inferno indipendente, che all'epoca si estendeva dal Baltico e dal Mar Nero fino all'Oceano Pacifico era turisticamente inaccessibile, sebbene Jalta e Altyn-tagh fossero nomi dal suono stranamente attraente... Ma la sua destinazione reale era Terra la Bella, e là confidava di volare su ali lunghe come quelle di una libellula quando fosse morta. Le sue povere letterine al marito dalle case della follia erano a volte firmate: Madame Shchemjashchikh-Zvukov (dei Suoni-Strazianti).
Dopo aver sostenuto il primo assalto della pazzia a Ex-en-Valais, ritornò in America e patì una dura sconfitta, nei giorni in cui Van era ancora allattato da una giovane balia, quasi una bambina, Ruby Black, nata Black, anche lei destinata a impazzire. Infatti, non appena le creature amorevoli e fragili venivano in stretto contatto con Van Veen (come più tardi fece Lucette, per dare un altro esempio), erano subito costrette a conoscere tormenti e sventure, a meno che non fossero fortificate da una traccia del sangue demoniaco di suo padre.
Aqua non aveva ancora vent'anni quando l'esaltazione della sua natura cominciò a rivelare una tendenza morbosa. Cronologicamente lo stadio iniziale della sua malattia mentale coincise con la prima decade della Grande Rivelazione, e anche se le sarebbe stato facile trovare un altro tema per la sua ossessione, le statistiche mostrano come la Grande, e per alcuni Insostenibile, Rivelazione abbia causato più follia nel mondo perfino di quanta ne avesse provocata un'eccessiva preoccupazione religiosa nel Medioevo.
La Rivelazione può essere molto più pericolosa della Rivoluzione. Menti malate identificarono la nozione di un pianeta Terra con quella di un altro mondo, e quest'«Altro Mondo» venne confuso non solo con il «Mondo a venire» ma con il «Mondo Reale», in noi e fuori di noi. I nostri incantatori, i nostri demoni, sono nobili creature iridescenti con artigli traslucidi e ali che battono con gran forza; ma negli anni Sessanta del secolo scorso i Nuovi Credenti esortavano a immaginare una sfera dove i nostri splendidi amici erano stati completamente degradati, diventando mostri perversi, diavoli disgustosi, con i neri scroti dei carnivori e i denti avvelenati dei serpenti, oltraggiatori e torturatori delle anime femminili; mentre sul lato opposto del sentiero cosmico un'iridata bruma di spiriti angelici, abitanti della soave Terra, restauravano i miti più stantii, ma ancora potenti, dei vecchi credi con un riadattamento per armonium di tutte le cacofonie di tutti gli dèi e i divinatori che si siano mai riprodotti nelle paludi di questo nostro capace mondo.
Capace per il tuo scopo, Van, entendons-nous. (Nota a margine).
La povera Aqua, le cui fantasie erano sempre sul punto di soccombere davanti ai vaneggiamenti di ciarlatani e di cristiani, riusciva a raffigurarsi vividamente il paradiso di un salmista minore, un'America futura di edifici di alabastro alti cento piani, simile a un magnifico negozio di mobili stracolmo di grandi armadi dipinti di bianco e di frigoriferi più bassi; vedeva giganteschi squali volanti con occhi laterali che impiegavano meno di una notte a trasportare i pellegrini attraverso un intero continente, solcando il nero etere dal mare scuro a quello lucente, prima di tornare rombando a Seattle o a Wark. Udiva magiche scatole musicali che parlavano e cantavano, affogando il terrore del pensiero, facendo ascendere la ragazza dell'ascensore, sprofondando sottoterra con il minatore, lodando bellezza e purezza, la Vergine e Venere, nelle dimore di chi è solo e di chi è povero. L'innominabile potere magnetico denunciato da crudeli legiferatori in questo nostro malandato paese – oh, dappertutto, in Estoty e in Canady, nel Mark Kennensie «tedesco» così come nel Manitobogan «svedese», nell'officina dello jukonec [abitante dello Yukon] in giubba rossa così come nella cucina della Lyaskanka col fazzoletto rosso, e nell'Estoty «francese» dal Bras d'Or a Ladore, e molto presto in entrambe le nostre Americhe, e ovunque negli altri storditi continenti – era usato su Terra con la stessa liberalità dell'aria e dell'acqua, come le bibbie e le scope. Due o tre secoli prima, Aqua sarebbe potuta diventare semplicemente un'altra combustibile strega.
Nei suoi erratici anni da studentessa Aqua aveva lasciato il Brown Hill College, un istituto alla moda fondato da un suo pochissimo onorevole antenato, per prendere parte (anche questo era alla moda) a un qualche Progetto per il progresso sociale nei Severnija Territorii. Con l'inestimabile aiuto di Milton Abraham, organizzò una Farmacia Filantropica a Belokonsk, e lì si innamorò dolorosamente di un uomo sposato, il quale, dopo averle dispensato, durante i tre mesi estivi, una passione da parvenu nella sua garsonnière (una Ford familiare), preferì rinunciare a lei piuttosto che rischiare di mettere a repentaglio la propria posizione sociale in una città filistea dove gli uomini d'affari appartenevano a una «loggia» e giocavano a «golf» la domenica. La spaventosa malattia, diagnosticata sommariamente, nel suo caso e in quello di altri sventurati, come una «forma acuta di misticismo maniacale complicata da esistalienazione» (in altri termini banale pazzia), la sommerse gradualmente, con intervalli di pace estatica e momentanee zone di precaria salute, e con sogni improvvisi di eternità-serenità che divennero sempre più rari e brevi.
Dopo la sua morte, nel 1883, Van calcolò che nel corso di tredici anni, contando ogni presunto momento della sua presenza, contando le lugubri visite ai suoi diversi ospedali, nonché le sue improvvise, tumultuose apparizioni nel bel mezzo della notte (accapigliandosi con il marito, o con la fragile ma pronta governante inglese, nel salire le scale, accolta dal furioso benvenuto del vecchio appenzeller – e guadagnando finalmente la stanza dei bambini, senza parrucca, senza scarpe, con le unghie insanguinate), lui l'aveva vista veramente, o era stato vicino a lei, in tutto, per un tempo che a malapena superava quello della gestazione umana.
La rosea lontananza di Terra si velò presto per lei di brume sinistre. La sua disintegrazione andò precipitando lungo una successione di fasi ciascuna più tormentosa della precedente; perché il cervello umano può diventare il miglior luogo di tortura fra tutti quelli da lui stesso inventati, istituiti e utilizzati per milioni di anni, in milioni di terre, su milioni di creature urlanti.
Aveva sviluppato una morbosa sensibilità al linguaggio dell'acqua che scorre dai rubinetti – la quale a volte echeggia (come fa molto spesso predormitoriamente il flusso del sangue) un frammento di discorso umano, indugiando nelle nostre orecchie mentre ci laviamo le mani dopo un cocktail in compagnia di qualche estraneo. Quando, per la prima volta, si rese conto che una qualsiasi conversazione poteva così replicarsi, prolungarsi, nel suo caso in modo piuttosto impaziente e beffardo, ma in realtà del tutto innocuo, si sentì lusingata all'idea che lei, la povera Aqua, avesse casualmente scoperto un così semplice metodo di registrazione e trasmissione della parola, mentre i tecnologi (le cosiddette teste d'uovo) di tutto il mondo cercavano di rendere pubblicamente utili e commercialmente redditizi gli oltremodo elaborati e ancora assai costosi telefoni idrodinamici e altri miserabili congegni destinati a rimpiazzare quelli che erano stati spediti k certjam sobach'im (in russo «al diavolo») con l'interdizione di una non menzionabile «lammer» [allusione all'elettricità]. Ben presto tuttavia la loquacità dei rubinetti, ritmicamente perfetta ma verbalmente confusa, cominciò ad acquisire per lei un significato troppo pertinente. La purezza dell'enunciazione dell'acqua corrente crebbe di pari passo alla sua molestia. Parlava subito dopo che lei aveva ascoltato le parole di qualcuno – non necessariamente rivolte a lei – imperiose ed espressive, dette con voce rapida e caratteristica, e intonazioni molto soggettive o molto straniere, come il martellamento di un narratore ossessivo durante un detestabile ricevimento, o un liquido soliloquio in una commedia tediosa, o la bella voce di Van, o un po' di poesia ascoltata a una conferenza, mio amore, mia beltà, mio giovane abbi pietà [NOTA mio amore, mia beltà... Parafrasi di una poesia di A.E. Housman, A Shropshire Lad (1896)], ma specialmente il verso italiano, più fluido e flou, per esempio l'arietta recitata tra un martella-ginocchio e un solleva-palpebra da un semirusso, mezzotocco vecchio dottore, doc, toc, etta-otta, ballatetta, deboletta... tu, voce sbigottita... valvoletta e diavoletta... de lo cor dolente... con ballatetta va... va... della strutta, destruttamente...mente...mente... [NOTA ballatetta Frammento e alterazione di un passaggio di una «piccola ballata» del poeta italiano Guido Cavalcanti (1255-1300). I versi fondamentali dicono più o meno: «tu, voce intimorita e debole che esci piangendo dal mio cuore addolorato, vai con la mia anima e con questa piccola ballata, a parlare della mia mente distrutta»] ferma questo disco, o la guida continuerà a mostrare, come ha fatto proprio questa mattina a Firenze, una stupida colonna che commemora, ha detto, l'«olmo» che si coprì d'un tratto di foglie quando trasportarono san Zeus morto, pesante come un macigno, attraverso la sua graduale, graduale ombra [NOTA La storia dell'olmo appartiene alla leggenda di Zenobio, vescovo di Firenze nel V secolo]; oppure la megera di Arlington che parla incessantemente al suo silenzioso marito mentre i vigneti le passano accanto veloci, e continua perfino nella galleria (non possono farti questo, diglielo, Jack Black, devi proprio fargliela vedere...). L'acqua del bagno (o della doccia) era troppo un Calibano per parlare distintamente – o forse era troppo brutalmente ansiosa di emettere il suo caldo torrente e liberarsi di quell'infernale ardore per preoccuparsi di chiacchiere di poco conto; ma i flussi gorgoglianti divennero sempre più ambiziosi e detestabili, e quando nella sua prima «casa» sentì uno dei più odiosi dottori stranieri (quello che citava Cavalcanti) mescere festosamente nel suo odioso bidè odiose istruzioni in un tedesco lambito di russo, decise di non aprire mai più il rubinetto.
Ma si esaurì anche quella fase. Nuovi tormenti sostituirono le loquaci torture della sua omonima e quando, durante un intervallo di lucidità, le accadde di aprire con la sua debole manina il rubinetto di un lavabo per un sorso d'acqua, la tiepida linfa, nella sua parlata, senza una traccia di malizia o di intento parodistico, le disse: Finito! Adesso era il formarsi di soffici fosse nere (jamy, jamisci) nella sua mente, tra le sempre meno nitide sculture del pensiero e della memoria, a tormentarla fenomenicamente; il panico mentale e il dolore fisico univano le loro mani color rubino e nero, l'uno facendola pregare per la sua salute, l'altro facendole implorare la morte. Gli oggetti fabbricati dall'uomo perdevano il loro significato o assumevano connotati mostruosi; gli appendiabiti erano in realtà le spalle di telluriani decapitati, le pieghe di una coperta che lei aveva spinto a calci giù dal letto la guardavano dolorosamente con un orzaiolo su una palpebra abbassata e una cupa riprovazione nel floscio contorcimento di un labbro livido. Lo sforzo di comprendere l'informazione che le lancette di un segnatempo, di un lembo di tempo, riescono in qualche modo a trasmettere alle persone di genio diventò per lei vano come il tentativo di decifrare il linguaggio a segni di una società segreta o il canto cinese di quel giovane studente con una chitarra non cinese che aveva conosciuto quando lei o sua sorella avevano dato alla luce un bambino color malva. Ma nella sua follia, nella maestà della sua follia, c'era una patetica civetteria da regina pazza: «Sa, dottore, penso che presto avrò bisogno di un paio di occhiali, non so...» (risata altera) «non riesco proprio a vedere che cosa dice il mio orologio da polso... Per l'amor del cielo, mi dica che cosa sta dicendo! Ah! Quattro e mezzo – mezzo per che cosa? Non mi importa niente e non mi verrà in mente, "niente" e "mente" sono gemelli, io ho una sorella gemella e un figlio gemello. Lo so che lei vuole esaminare il mio pudendron, la rosa alpina pelosa nel suo album, colta dieci anni fa» (mostrando le dieci dita tutta gaia e orgogliosa, dieci sono dieci!).
Poi l'angoscia aumentò e raggiunse una compattezza insostenibile e dimensioni da incubo, facendola urlare e vomitare. Volle (e le fu concesso, Dio benedica il barbiere dell'ospedale, Bob Bean) farsi radere i ricci neri come corte spine color acquamarina, perché le stavano crescendo dentro il cranio poroso e le si arricciavano nella testa. Il puzzle di cielo e muro si smembrava, per quanto delicatamente lo si fosse messo insieme, un movimento brusco o il gomito di un'infermiera possono turbare quei leggeri frammenti e farli diventare indecifrabili contorni di oggetti anonimi, o il retro bianco delle tessere dello «Scrabble», che lei non poteva voltare dalla parte giusta, perché le sue mani erano state legate da un infermiere con gli occhi neri di Demon. Ma subito dopo panico e dolore, come una coppia di bambini in un gioco turbolento, emettevano un'ultima risata stridula e correvano via per manipolarsi l'un l'altro dietro un cespuglio, come nel romanzo Anna Karenina, del conte Tolstoj, e di nuovo, per un momento, un breve momento, tutto era silenzio in casa, e la loro madre aveva lo stesso nome della sua.
Ci fu un periodo in cui Aqua credette che un infante maschio di sei mesi nato morto, un piccolo feto meravigliato, un pesce di gomma che lei aveva prodotto nella vasca da bagno, in un lieu de naissance chiaramente definito X nei suoi sogni, dopo essere finita sciando a tutta velocità contro il ceppo di un larice, fosse stato non si sa come salvato e portato da lei al Nusshaus, con i complimenti di sua sorella, avvolto in una bambagia di cotone inzuppata di sangue, ma perfettamente vivo e sano, per essere registrato come suo figlio Ivan Veen. In altri momenti era convinta che il bambino fosse di sua sorella, nato fuori dal matrimonio, durante una bufera di neve spossante ma intensamente romantica in un rifugio di montagna sul Sex Rouge, dove un certo dottor Alpiner, medico generico e amante delle genziane, sedeva aspettando vicino a una rozza stufa rossa che i suoi stivali si asciugassero. Seguì un po' di confusione a meno di due anni di distanza (settembre del 1871 – il suo fiero cervello teneva ancora a mente dozzine di date) quando dopo essere fuggita dal suo rifugio successivo e aver raggiunto in qualche modo l'indimenticabile casa di campagna di suo marito (imitare l'accento di una straniera: «Signor Konduktor, ay vant go Lago di Luga, hier geld»), approfittò del momento in cui lui si faceva fare un massaggio nel solarium, entrò in punta di piedi nella loro antica camera da letto – e fu colta da un delizioso sgomento: il suo borotalco in un contenitore di vetro pieno a metà con il pittoresco nome di Quelques Fleurs era ancora sul suo comodino; la sua camicia da notte preferita color fiamma giaceva spiegazzata sullo scendiletto; per lei questo significò che soltanto un breve nero incubo aveva annullato la radiosa realtà del suo aver dormito con il marito per tutto quel tempo – fin dall'anniversario della nascita di Shakespeare in un giorno verde e piovoso; ma per quasi tutti gli altri, ahimè, significò che Marina (dopo che G.A. Vronskij, il magnate del cinema, l'aveva lasciata per un altro christosik [Russo, «piccolo Cristo»] dalle lunghe ciglia, come lui chiamava ogni graziosa divetta di sua conoscenza) aveva concepito, cest bien le cas de le dire, la brillante idea di far sì che Demon divorziasse dalla pazza Aqua per sposare lei, la quale pensava (felicemente e giustamente) di essere di nuovo incinta. Marina aveva trascorso un rukulirujuscij [Russo, dal francese roucoulant, «tubante»] mese con lui a Kitez, ma quando, compiaciuta, aveva divulgato le proprie intenzioni (subito prima dell'arrivo di Aqua) lui l'aveva buttata fuori di casa. Ancora più tardi, nell'ultimo breve giro di pista di un'esistenza inutile, Aqua scartò tutti quei ricordi ambigui e si sorprese a leggere e rileggere, affannosamente, beatamente, le lettere di suo figlio in una lussuosa «sanastoria» a Centaur, in Arizona. Lui scriveva invariabilmente in francese chiamandola petite maman e descrivendole il divertente collegio dove sarebbe andato quando avrebbe compiuto tredici anni. Lei sentiva la sua voce attraverso il ronzio notturno delle sue nuove, ultime, ultime insonnie piene di progetti, e quella voce la consolava. La chiamava di solito mummy o mama, accentando l'ultima sillaba in inglese, la prima in russo; qualcuno aveva sostenuto che i parti trigemellari e i dracunculi araldici non siano rari nelle famiglie trilingui, ma adesso non c'era assolutamente più nessun dubbio (eccetto, forse, che nella infernicola mente della perfida Marina morta da tempo) che Van fosse il suo, suo, di Aqua, amato figlio.
Non essendo disposta a patire un'altra ricaduta dopo quel beato stato di perfetta quiete mentale, ma sapendo che non poteva durare, fece quello che aveva fatto un'altra paziente nella lontana Francia, in una «casa» molto meno radiosa e piacevole. Un certo dottor Froid, uno dei centauri somministrativi, che sarebbe potuto essere il fratello, emigrato con un nome diverso sul passaporto, del dottor Froit di Signy-Mondieu-Mondieu nelle Ardenne o, più verosimilmente, lui stesso, perché entrambi venivano da Vienne, nell'Isère, ed erano figli unici (come lo era suo figlio), elaborò, o piuttosto ripristinò, l'espediente terapeutico che mirava a creare il senso «del gruppo» facendo aiutare il personale dai pazienti migliori e «in tal senso predisposti». Aqua, quando fu il suo turno, ripeté esattamente il trucco dell'astuta Eléonore Bonvard, optando per rifare i letti e spolverare gli scaffali di vetro. L'astorium di St. Taurus, o qualunque altro fosse il suo nome (che importa – ci si dimentica in fretta delle inezie quando si è alla deriva nell'infinita assenza di cose), era forse più moderno, con una più raffinata vista sul deserto di quella dell'«ospitale» («horsepittle») casa desolata di Mondefroid, ma in entrambi i luoghi, e in un batter d'occhio, un paziente demente poteva vincere in acume un imbecille pedante.
In meno di una settimana Aqua aveva accumulato più di duecento pillole di diversa potenza. C'erano i sedativi blandi, e quelli che ti abbattono dalle otto di sera a mezzanotte, e alcune varietà di soporifici superiori che ti lasciano con gli arti inerti e la testa di piombo dopo otto ore di non esistenza, e una droga che era di per se stessa deliziosa ma un pochino letale se combinata con un sorso del fluido detergente commercialmente noto con il nome di Idiotina; e una panciuta pillola viola che le ricordava, non poteva fare a meno di ridere, quelle con cui la piccola maga zingara nel racconto spagnolo (caro alle scolare di Ladore) fa addormentare tutti i cacciatori e i loro segugi all'apertura della stagione di caccia. Per impedire che qualche intrigante cercasse di farla risorgere al momento della grande deriva, Aqua calcolò di doversi procurare un periodo il più lungo possibile di solitario stordimento in altro luogo che non fosse quella casa di vetro, e l'attuazione di questa seconda parte del progetto fu semplificata e incoraggiata da un altro agente, o doppio, del professore dell'Isère, il dottor Sig Heiler, che tutti veneravano come un asso e un semigenio, nell'accezione comune di semialcolico. Quei pazienti che con certe contrazioni delle palpebre e di altre parti semiprivate, sotto il controllo di studenti della Facoltà di Medicina, davano segno di essere entrati nella fase in cui Sig (un vecchio ragazzo leggermente deforme ma non sgradevole) era visto in sogno come un «papà Fig», spudorato sculacciatore di ragazze e spavaldo centratore di sputacchiere, erano considerati ben avviati sulla via della guarigione e degni, al loro risveglio, di partecipare a normali attività all'aperto come i picnic. La scaltra Aqua mostrò di contrarsi, simulò uno sbadiglio, spalancò i suoi occhi azzurro chiaro (con quel sorprendente contrasto delle pupille nere come il giaietto che anche sua madre Dolly aveva), mise un paio di pantaloni gialli e un bolero nero, attraversò un piccolo bosco di pini, fermò col pollice alzato un camion messicano e si fece dare un passaggio, trovò nel chaparral una gola adatta e lì, dopo aver scritto un breve biglietto, cominciò placidamente a mangiare dal cavo della mano il contenuto multicolore della sua borsetta come una qualunque ragazza russa di campagna lakomjascajasja jagodami (che banchetta con le bacche) appena raccolte nel bosco. Sorrise sognante e divertita al pensiero (di tono piuttosto «kareniniano») che la propria estinzione avrebbe colpito gli altri all'incirca tanto profondamente quanto la brutale, misteriosa e mai giustificata scomparsa di una striscia di fumetti da un giornale della domenica che si è letto per anni. Fu il suo ultimo sorriso. La trovarono molto prima – ma morì anche molto più in fretta – di quanto si sarebbe aspettata, e l'attento Siggy, con indosso ancora i suoi sformati bermuda cachi, riferì che sorella Aqua (com'era chiamata da tutti, non si sa perché) giaceva come se fosse stata sepolta nella preistoria in una posizione da fetus in utero, un commento che sembrò rilevante ai suoi studenti, come potrà sembrarlo ai miei.
Il suo ultimo biglietto, trovatole addosso e diretto a suo marito e a suo figlio, non era diverso da quello che avrebbe potuto scrivere la persona più sana di mente di questa o di quella terra.
Aujourd'hui (heute-la-là!), io, giocattolo dagli occhi rovesciati, mi sono conquistata il diritto psikitsch di godermi una scampagnata con Herr Doktor Sig, l'infermiera Joan la Terribile, e altri «pazienti», nel vicino bar (bosco di pini) dove ho notato, Van, esattamente gli stessi scoiattoli che somigliano alle moffette che il tuo antenato Azzurroscuro ha importato a Ardis Park, dove tu vagherai un giorno, non ho dubbi. Le lancette di un grande orologio, persino quando è rotto, devono sapere, e far sapere anche al più stupido degli orologini, dove si trovano, altrimenti il quadrante diventa solo una faccia bianca con dei baffi finti. Allo stesso modo, un celovek (un essere umano) deve sapere, e far sapere agli altri, dove si trova, altrimenti non è nemmeno un klok (un pezzo) di celovek, non un lui, né una lei, ma un inutile puntolino, come la misera Ruby, mio piccolo Van, soleva dire del suo seno destro vuoto. Io, povera Princesse lointaine, ormai très lointaine, non so dove mi trovo. Quindi devo cadere, così, adieu, mio caro, caro figlio, e addio povero Demon, non so la data o la stagione, ma è una giornata ragionevolmente e, senza dubbio, puntualmente bella, con un'infinità di graziose formichine che marciano in fila verso le mie pastigliette.
[firmato] La sorella di mia sorella che è teper' iz ada (ormai fuori dall'inferno).
«Se vogliamo che la meridiana della vita ci mostri il suo gioco» commentò Van, sviluppando la metafora nel roseto di Ardis Manor alla fine dell'agosto 1884 «dobbiamo sempre ricordare che la forza, la dignità e il diletto dell'uomo consistono nell'indispettire e disdegnare le ombre, e le stelle, che ci tengono nascosti i loro segreti. Solo il ridicolo potere del dolore la costrinse ad arrendersi. E spesso penso che sarebbe stato tanto più plausibile – esteticamente, estaticamente, estotialmente parlando – se lei fosse stata realmente mia madre».

4

Quando, a metà del ventesimo secolo, Van cominciò a ricostruire il suo passato più profondo, si accorse presto che i particolari della sua infanzia veramente importanti (per lo speciale scopo che la ricostruzione perseguiva) potevano essere meglio trattati, non di rado potevano essere solamente trattati, quando riapparivano in vari stadi successivi della sua infanzia e giovinezza, come improvvise giustapposizioni che ridestavano la parte ridando vita al tutto. Ecco perché il suo primo amore ha qui la precedenza rispetto alla sua prima brutta ferita o al suo primo brutto sogno.
Aveva appena compiuto tredici anni. Non aveva mai lasciato prima di allora gli agi della casa paterna. Non si era mai reso conto prima di allora che tali «agi» potevano non essere dati per scontati, che potevano appartenere solo a una metafora preconfezionata posta a introduzione di un libro su un ragazzo e la sua scuola. A pochi isolati dagli edifici scolastici, una vedova, la signora Tapirov, che era francese ma parlava inglese con accento russo, aveva un negozio di objets d'art e di mobili più o meno antichi. Van ci andò in un luminoso giorno d'inverno. Vasi di cristallo con rose cremisi e aster bruno-aurati erano disposti qua e là nella parte anteriore del negozio – su una mensola di legno dorato, su un baule laccato, sul ripiano di un mobiletto a vetri o semplicemente lungo i gradini ricoperti da una guida che portavano al piano superiore, dove grandi armadi e appariscenti tavoli da toilette erano disposti a semicerchio intorno a una singolare compagnia di arpe. Van verificò che quei fiori erano finti e trovò curioso che le imitazioni compiacessero sempre esclusivamente l'occhio invece di riprodurre anche l'umida e grassa sensazione che danno al tatto le foglie e i petali veri. Quando ritornò il giorno dopo, l'oggetto (adesso, dopo ottant'anni, non si ricordava più che cosa fosse) che voleva far riparare, o duplicare, non era ancora pronto o non era stato reperito. Tastando, Van toccò una rosa appena schiusa e si senti defraudato della sensazione di consistenza sterile che si aspettavano le sue dita, poiché fu invece la fresca vita a baciarle con labbra imbronciate. «Mia figlia» disse la signora Tapirov, notando la sua sorpresa «ne mette sempre un mazzo vero tra quelli falsi pour attraper le client [per ingannare il cliente]. Lei ha pescalo il jolly». Mentre Van usciva entrò lei, una scolara con un cappotto grigio, dei riccioli castani che le arrivavano alle spalle e un viso grazioso. In un'altra occasione (poiché una certa parte dell'articolo, forse una cornice, richiese un tempo infinito per essere risanata, oppure tutto l'insieme dimostrò di essere assolutamente introvabile) la vide raggomitolala in una poltrona – un oggetto domestico in mezzo a quelli in vendita – con i suoi libri di scuola. Non le parlò mai. L'amò pazzamente. Almeno per un trimestre.
Quello era amore, normale e misterioso. Meno misteriose e considerevolmente più grottesche erano le passioni che intere generazioni di insegnanti non erano riuscite a sradicare, e che ancora nel 1883 godevano a Riverlane di un ineguagliato successo. Ogni dormitorio aveva il suo ganimede. Un isterico giovinetto di Uppsala, strabico, con le labbra pendule e gli arti di una goffaggine quasi abnorme, ma con una grana di pelle meravigliosamente tenera e le rotonde e cremose attrattive del Cupido del Bronzino (quello grande che un deliziato satiro scopre nel salottino di una signora), era molto ricercato e tormentato da un gruppo di ragazzi stranieri, per lo più greci e inglesi, capitanati da Cheshire, l'asso del rugby; e in parte per spavalderia, in parte per curiosità, Van vinceva il disgusto e assisteva freddamente alle loro rozze orge. Presto, tuttavia, abbandonò questo surrogato per un divertissement più naturale, benché egualmente spietato.
Un giorno la vecchia che vendeva bastoncini di zucchero e fumetti nel negozio all'angolo, cui per tradizione non era rigorosamente vietato l'accesso, assunse una giovane aiutante, e Cheshire, che era figlio di un parsimonioso lord, riuscì rapidamente ad accertare che quella grassa sgualdrinella si poteva avere per un solo verde dollaro russo. Van fu uno dei primi ad avvalersi dei suoi favori, che venivano accordati nella semioscurità, tra le ceste e i sacchi del retrobottega, dopo l'orario di chiusura. L'averle detto di avere sedici anni, anziché quattordici, e di essere dissoluto anziché vergine, fu per il nostro libertino fonte di imbarazzo quando con un'azione rapida cercò di spacciare la propria inesperienza per irruenza e riuscì solo a versare sul tappetino di benvenuto quello che lei avrebbe gioiosamente contribuito a fargli portare dentro. Le cose andarono meglio sei minuti più tardi, quando Cheshire e Zographos se ne furono andati; ma fu soltanto al successivo festino di accoppiamenti che Van cominciò ad apprezzare veramente la sua delicatezza, la sua dolce e morbida presa e l'appassionato va-e-vieni. Sapeva che lei non era nient'altro che una puttanella rosea e rotondetta come un maialino e le allontanava il viso con il gomito se tentava di baciarlo quando aveva finito, mentre con un gesto veloce della mano controllava, come aveva visto fare da Cheshire, che il portafoglio fosse sempre nella tasca posteriore dei pantaloni; comunque, quando l'ultimo di una quarantina di orgasmi se ne fu andato nel normale corso del tempo che viene meno e il suo treno si lanciò oltre campi neri e verdi verso Ardis, si sorprese a dotare di un'insospettata poesia la povera immagine di lei, l'odore di cucina delle sue braccia, le sue ciglia umide nell'improvviso bagliore dell'accendino di Cheshire, e perfino gli scricchiolanti passi della vecchia e sorda signora Gimber nella sua camera da letto al piano di sopra.
In un elegante scompartimento di prima classe, con una mano guantata sulla curva del bracciolo di velluto, ci si sente molto uomini di mondo mentre si sorveglia il paesaggio sapiente correre via sapientemente. E di tanto in tanto gli occhi vaganti del passeggero si fermavano per un istante mentre egli prestava ascolto tra sé e sé a un prurito nelle parti basse, che supponeva essere (e grazie a Dio non si sbagliava) solo una lieve irritazione dell'epitelio.

5

Nel primo pomeriggio scese dal treno, con le sue due valigie, nella pace assolata della piccola stazione di campagna da dove una strada tortuosa conduceva a Ardis Hall, che Van visitava per la prima volta. In una miniatura della sua immaginazione, aveva visto un cavallo sellato pronto per lui; ma in realtà non c'era nemmeno un calesse. Il capostazione, un uomo robusto con la faccia scottata dal sole, in divisa marrone, disse di essere sicuro che Van fosse atteso con il treno della sera, che era più lento ma aveva una carrozza con sala da tè. Avrebbe subito chiamato Ardis Hall, aggiunse, mentre faceva un segnale al macchinista impaziente. All'improvviso una vettura a nolo si fermò di fianco alla banchina e una signora dai capelli rossi, tenendo in mano il cappello di paglia e ridendo della propria fretta, corse verso il treno e fece appena in tempo a salire prima che si muovesse. Così Van acconsentì a usare quel mezzo di trasporto che un'increspatura fortuita nella tessitura del tempo gli aveva messo a disposizione, e prese posto nel vecchio calesse. Quel tragitto di mezz'ora non gli fu sgradevole. Passò attraverso boschi di pini e sopra gole rocciose, con uccelli e altri animali che cantavano nel sottobosco fiorito. Chiazze di sole e ombre merlettate gli scorrevano sulle gambe e facevano brillare di verde il bottone d'ottone privo del suo gemello sulla schiena del cocchiere. Attraversarono Torfjanka, un piccolo villaggio sognante fatto di tre o quattro isbe di tronchi, una bottega dove riparavano i secchi della mungitura e l'officina di un fabbro soffocata dai gelsomini. Il conducente salutò con la mano un invisibile amico e la sensibile vetturetta scoperta deviò leggermente assecondando il suo gesto. Ora filavano lungo una polverosa strada in mezzo ai campi. La strada digradava e si ingobbiva, e a ogni salita il vecchio taxi a molla rallentava come se fosse sul punto di addormentarsi e solo con riluttanza riuscisse a superare la propria fiacchezza.
Sobbalzarono sull'acciottolato di Gamlet, un villaggio per metà russo, e l'autista fece ancora un cenno con la mano, questa volta a un ragazzino su un albero di ciliegie. Le betulle si separarono per lasciarli passare su un vecchio ponte. Allora, con il suo nero castello in rovina in cima a una rupe e i suoi gai tetti multicolori, più a valle, lungo il fiume, Van vide Ladore – così come l'avrebbe vista ancora tante volte, molto più tardi nella sua vita.
Quando il sentiero costeggiò Ardis Park, la vegetazione assunse un aspetto più meridionale. Alla curva successiva apparve la romantica magione, adagiata su una soave altura da vecchio romanzo. Era una magnifica casa di campagna a tre piani, costruita con mattoni chiari e pietre violacee, i cui colori e la cui sostanza sembravano produrre in certe luci effetti intercambiabili. Nonostante la varietà, l'ampiezza e il vigore dei grandi alberi che avevano da tempo sostituito i due filari di virgulti stilizzati (proiettati lì dalla mente dell'architetto più che nati dallo sguardo di un pittore), Van riconobbe immediatamente Ardis Hall, così come si presentava nell'acquarello vecchio di duecento anni appeso nello spogliatoio di suo padre: la villa sorgeva su un poggio e sovrastava un prato astratto con due figurine dal cappello a bicorno e, poco distante, una mucca stilizzata.
Nessuno della famiglia era in casa quando Van arrivò. Un servo che era lì in attesa prese il suo cavallo. Van varcò la navata gotica dell'ingresso dove Bouteillan, il vecchio maggiordomo calvo che ora, poco professionalmente, portava i baffi (tinti del denso marrone di una salsa per arrosti), gli andò incontro gesticolando gioiosamente – era stato un tempo il cameriere personale del padre di Van. «Je parie» disse «que monsieur ne me reconnait pas», [Scommetto che non mi riconosce, signore] e procedette a ricordare a Van quel che Van si era già ricordato da solo, il «farmannequin» (uno speciale tipo di aquilone fatto a scatola, impossibile da rintracciare oggi perfino nei più grandi musei del giocattolo) che Bouteillan lo aveva aiutato un giorno a far volare in un prato punteggiato di ranuncoli. Entrambi alzarono lo sguardo: il piccolo rettangolo rosso restò per un attimo sospeso di sghimbescio in un azzurro cielo primaverile. L'atrio era famoso per i suoi soffitti dipinti. Era troppo presto per il tè. Van desiderava che fosse Bouteillan stesso a occuparsi delle sue valigie, o poteva andar bene una cameriera? Oh, una delle cameriere, disse Van, domandandosi per un attimo quale oggetto nel bagaglio di uno scolaro avrebbe potuto in teoria scandalizzare una domestica. La fotografia di Ivory Revery (una modella) nuda? Adesso che era diventato un uomo non aveva più importanza.
Seguendo il suggerimento del maggiordomo andò a fare un tour du jardin. Mentre avanzava senza far rumore, con le scarpe di gomma dell'uniforme scolastica, sulla sabbia rosa e soffice di un sinuoso vialetto, si imbatté in un essere nel quale riconobbe con disgusto la sua governante francese di un tempo (quel luogo brulicava di fantasmi!). Stava seduta su una panchina verde sotto un lillà della Persia, con un ombrellino in una mano e nell'altra un libro, e leggeva a voce alta a una bambina che si metteva un dito nel naso e, prima di pulirselo sul bordo della panchina, lo esaminava con sognante soddisfazione. Van decise che doveva essere «Ardelia», la maggiore delle due cuginette con le quali era previsto che dovesse familiarizzare. In realtà era Lucette, la più piccola, un neutro pargolo di otto anni con una frangetta di lucenti capelli biondorossastri e un bottone lentigginoso al posto del naso: aveva avuto la polmonite in primavera ed era ancora velata da quella strana aria remota che i bambini, specie i diavoletti, assumono e mantengono per qualche tempo dopo essere passati a volo attraverso la morte. Mlle Larivière guardò subito Van al di sopra dei suoi occhiali verdi – e lui dovette far fronte a un altro caloroso benvenuto. Al contrario di Albert, lei non era cambiata affatto dal tempo in cui si recava tre volte alla settimana a casa di Dark Veen, in città, con una borsa piena di libri e il suo piccolo, tremulo barboncino (ormai deceduto) che non poteva essere lasciato solo. Un barboncino con occhi lucenti come tristi olive nere.
Poco dopo si incamminarono tutti e tre sulla via del ritorno. La governante, sotto la marezzatura del parasole, scuoteva, in un cordoglio di reminiscenze, la testa dal grosso mento e dal grosso naso; Lucy trascinava con un rumore stridente una zappa da giardino che aveva trovato da qualche parte, e il giovane Van camminava, con il suo vestito grigio bene in ordine e la cravatta svolazzante, le mani dietro la schiena, la testa china, controllando i propri passi silenziosi e precisi e cercando di mettere i piedi uno davanti all'altro lungo una stessa linea.
Una Victoria si era fermata davanti al portico. Una signora che somigliava alla madre di Van e una bambina di undici o dodici anni, coi capelli scuri, stavano scendendo dalla carrozza, precedute da un agile bassotto. Ada aveva in mano un disordinato mazzo di fiori selvatici. Portava una tunichetta bianca con una giacca nera e un fiocco bianco nei lunghi capelli. Van non vide mai più quel vestito, e quando lo menzionava nelle sue evocazioni retrospettive, lei ribatteva invariabilmente che doveva esserselo sognato, che non ne aveva mai posseduto uno simile e che non avrebbe mai potuto mettere una giacca scura in una giornata così calda. Van rimase tuttavia fino alla fine aggrappato a quella sua prima immagine di lei.
Erano passati circa dieci anni da quando, non molto prima o dopo il suo quarto compleanno, e verso la fine di un lungo soggiorno di sua madre in un sanatorio, «zia» Marina gli era piombata addosso in un parco pubblico dove c'erano dei fagiani in una grande gabbia. Aveva ingiunto alla sua bambinaia di non impicciarsi degli affari degli altri e lo aveva portato a una bancarella vicina al padiglione dell'orchestra dove gli aveva comprato un bastoncino color smeraldo fatto di caramella alla menta e gli aveva detto che se suo padre lo avesse voluto lei avrebbe preso il posto di sua madre e che non si poteva dar da mangiare agli uccelli senza il permesso di Lady Amherst, o così aveva capito lui.
Presero il tè in un angolo graziosamente arredato dell'altrimenti molto austero atrio centrale di dove partiva lo scalone. Sedevano su sedie rivestite di seta intorno a un elegante tavolino. La giacca nera di Ada e un mazzolino rosa-giallo-blu che lei aveva composto con anemoni, celidonie e aquilegie giacevano su uno sgabello di rovere. Il cane ottenne più pezzetti di torta del solito. Price, il vecchio lugubre cameriere che portò la panna per le fragole, assomigliava al professore di storia di Van, «Jeejee» Jones.
«Somiglia al mio professore di storia» disse Van quando il cameriere si fu allontanato.
«Una volta mi piaceva la storia» disse Marina. «Mi piaceva identificarmi con le donne famose. C'è una coccinella sul tuo piatto, Ivan. Specialmente con le bellezze famose – la seconda moglie di Lincoln o la regina Joséphine».
«Sì, l'ho notata – è molto bella. Abbiamo un servizio simile a casa».
«Slivok (un po' di panna)? Parli russo, spero?» chiese Marina a Van mentre gli versava una tazza di tè.
«Neochotno, no soversenno svobodno (malvolentieri, ma correntemente)» rispose Van, slegka ulybnuvsis (con un leggero sorriso). «Sì, molta panna e tre zollette di zucchero».
«Ada e io condividiamo i tuoi gusti eccentrici. A Dostoevskij il tè piaceva con lo sciroppo di lamponi».
«Puah!» fece Ada.
Il ritratto di Marina, un olio di Tresham piuttosto bello appeso alla parete sopra di lei, la raffigurava con il grande romantico cappello a tesa larga che aveva usato per la prova generale di una scena di caccia dieci anni prima, e che aveva un'ala d'uccello iridata e una grande piuma spiovente, argentea e profilata di nero; e Van, ricordando la gabbia nel parco e sua madre da qualche parte in una gabbia tutta per sé, provò uno strano senso di mistero, come se i commentatori del suo destino si fossero riuniti a consulto. Adesso il viso di Marina era truccato in modo da imitare l'aspetto che aveva un tempo, ma la moda era cambiata, il suo vestito di cotone era stampato a fiori, i riccioli castanoramati erano schiariti artificialmente e non le ricadevano più sulle tempie, niente nel suo abbigliamento o nei suoi ornamenti echeggiava lo slancio elegante del frustino da cavallerizza nel quadro e il motivo regolare del brillante piumaggio che Tresham aveva reso con l'abilità di un ornitologo.
Non c'era molto da ricordare a proposito di quel primo tè. Van notò i sotterfugi con cui Ada nascondeva le unghie stringendo il pugno o stendendo la mano con il palmo in su quando prendeva un biscotto. Qualsiasi cosa dicesse sua madre l'annoiava o la metteva in imbarazzo, e quando Marina cominciò a parlare del bacino artificiale, altrimenti detto il Nuovo Laghetto, Van si accorse che Ada non era più seduta vicino a lui, ma se ne stava un po' in disparte davanti a una finestra spalancata, con la schiena rivolta al tavolino del tè, chiedendo in un orecchio al cane dai fianchi stretti, che ritto su una sedia scrutava anche lui qualcosa in giardino al di sopra delle zampe anteriori divaricate, che cosa avesse fiutato.
«Dalla finestra della biblioteca si può vedere il laghetto» disse Marina. «Adesso Ada ti mostrerà tutte le stanze della casa. Ada?» (e nel pronunciare il nome alla russa, con due profonde, cupe «a», gli diede il suono della parola «ardor»).
«Puoi vederne uno sprazzo anche da qui» disse Ada, girando la testa e presentando, pollice verso, la vista a Van, che posò la tazza del tè, si asciugò la bocca in un minuscolo tovagliolo ricamato che si ficcò poi nella tasca dei pantaloni, si alzò e raggiunse la bambina dai capelli scuri e dalle braccia pallide. Quando si piegò verso di lei (la superava in altezza di otto centimetri, che sarebbero diventati sedici quando lei sposò un greco cattolico, e la sua ombra, da dietro, le tenne alta sul capo la corona nuziale), Ada inclinò la testa perché lui muovesse la propria secondo l'angolazione richiesta, e i suoi capelli gli toccarono il collo. Le prime volte in cui la sognò, questo contatto rivissuto, così leggero, così fugace, si dimostrò invariabilmente superiore alla capacità di resistere del sognatore, e come una spada levata liberò sempre una salva di fuoco e uno sfogo violento.
«Finisci il tuo tè, tesoruccio» la chiamò Marina.
Subito dopo, come Marina aveva promesso, i due bambini andarono al piano di sopra. «Perché le scale scricchiolano così disperatamente quando sono due bambini a salirle?» pensò guardando la balaustra lungo la quale con stupefacente somiglianza due mani sinistre saltavano e scivolavano come un fratello e una sorella che prendano la loro prima lezione di ballo. «Dopotutto, eravamo gemelle; questo lo sanno tutti». Lo stesso lento sforzo li portò, lei davanti, lui dietro, oltre gli ultimi due gradini, e sulle scale calò di nuovo il silenzio. «Scrupoli vecchio stile» disse Marina.

6

Ada mostrò al timido ospite la grande biblioteca al secondo piano, orgoglio di Ardis e pascolo favorito della piccola verbivora, che sua madre disdegnava (perché aveva la propria personale raccolta delle Più belle mille e una commedia nel suo boudoir) e che Daniel Veen, un sentimentale e un pusillanime, fuggiva addirittura, temendo di incontrare il fantasma di suo padre, morto di infarto tra quei libri. Non c'era niente per lui di più deprimente delle raccolte di autori dispersi, anche se non gli dispiaceva che un visitatore occasionale ammirasse l'eleganza dell'ambiente: le alte librerie e i mobiletti a vetri, i quadri cupi e i busti pallidi, le dieci sedie di noce intagliato e i due imponenti tavoli con intarsi di ebano.
In un raggio obliquo di luce erudita un atlante botanico giaceva su uno scrittoio aperto alla pagina di una tavola a colori con diversi generi di orchidee. Una specie di divano, o di dormeuse, ricoperto di velluto nero, con due cuscini gialli, era collocato in una nicchia, sotto la vetrata di una grande finestra che offriva una generosa vista di quel parco tradizionale e del lago artificiale. Due candelabri, fantasmi di metallo e sego, stavano ritti, o così sembrava, sul largo ripiano della finestra.
Un corridoio che partiva dalla biblioteca avrebbe portato i nostri silenziosi esploratori fino agli appartamenti del signore e della signora Veen nell'ala ovest della casa, qualora avessero deciso di proseguire le loro indagini in quella direzione. Invece fu la spirale di una piccola scala semisegreta ad aspirarli, da dietro una libreria rotante, fino al piano superiore: lei, pallide cosce sopra di lui, saliva a falcate più lunghe, lui, tre alti gradini più indietro, la seguiva.
Le camere da letto, e gli alloggi adiacenti, erano più che modesti, e Van non poté fare a meno di rammaricarsi di essere troppo giovane, a quanto pareva, perché gli fosse assegnata una delle due stanze per gli ospiti vicine alla biblioteca. Ricordò con nostalgia i lussi di casa sua, mentre prendeva in esame i disgustosi oggetti da cui si sarebbe sentito assediato nella solitudine delle notti estive. Ogni particolare lo colpiva e gli sembrava concepito per intimorire un imbecille, dal misero letto da ospizio con una testata medioevale in legno opaco all'armadio che scricchiolava da solo, dal tozzo canterano imitazione mogano con maniglie a catenella (una catenella aveva perso il suo gancio e pendeva) al baule delle coperte (maldestro transfuga della stanza della biancheria), al vecchio scrittoio la cui ribalta a tamburo era chiusa a chiave o bloccata: Van trovò il gancetto del canterano in una delle inutili nicchie dello scrittoio e lo porse a Ada che lo lanciò dalla finestra. Non aveva mai visto prima un portasciugamani a cavalletto, né un lavabo fatto apposta per chi non aveva la vasca da bagno. Sopra il lavabo c'era uno specchio rotondo ornato con grappoli d'uva di gesso dorato; un serpente satanico avvolgeva le sue spire intorno al bacile di porcellana (gemello di quello nella toilette delle bambine dall'altra parte del corridoio). Una sedia con braccioli e schienale alto e uno sgabellino da notte con sopra un portacandele d'ottone con piattino e manico (di cui un momento prima gli era sembrato di vedere una copia esatta riflessa in uno specchio — ma dove?) completavano la parte peggiore e principale di quell'umile arredo.
Tornarono nel corridoio, lei scuotendo i capelli, lui schiarendosi la gola. Più avanti si vedeva la porta socchiusa di una camera dei giochi, o stanza dei bambini, oscillare avanti e indietro, e la piccola Lucette che sbirciava mostrando un ginocchio color ruggine. Poi la porta si spalancò – ma la bambina scappò dentro e scomparve. Barche a vela color cobalto adornavano le bianche piastrelle di una stufa e, mentre Ada passava con Van davanti alla porta aperta, un organetto giocattolo si mise in moto, suonando, come un invito, un piccolo, incespicante minuetto. Ritornarono a pianterreno – questa volta scendendo il sontuoso scalone. Fra i molti ritratti di antenati lungo la parete, lei indicò il suo preferito, il vecchio principe Vseslav Zemski (1699-1797), amico di Linneo e autore della Flora Ladorica, ritratto in vividi colori a olio, con la sua appena pubescente sposa e la di lei bambola bionda che gli sedevano nel grembo di raso. E accanto a quell'amante delle rose in boccio, con la sua giubba ricamata, era appesa (in maniera piuttosto incongrua, pensò Van) una fotografia, ingrandita e sobriamente incorniciata, scattata dal defunto Sumerechnikov [cognome derivato dalla parola russa sumerki (crepuscolo)], precursore americano dei fratelli Lumière, allo zio materno di Ada, giovane condannato a una fine precoce, ritratto di profilo, violino alla guancia, dopo il suo concerto di addio.
A pianterreno, un salotto giallo tappezzato di damasco e arredato in quello che i francesi un tempo chiamavano stile Impero si apriva sul giardino e ora, nel tardo pomeriggio, era invaso dalle ombre delle larghe foglie di una paulonia (chiamata così da un mediocre linguista, spiegò Ada, sulla base del patronimico, scambiato per un secondo nome o per un cognome, di un'innocua dama, Anna Pavlovna Romanov, figlia di Pavel, soprannominato Paolo-meno-Pietro, il perché lei non lo sapeva, un cugino del maestro del non linguista, il botanico Zemski... Adesso urlo, pensò Van). Un mobile a vetrina ingabbiava un intero zoo di piccoli animali; tra questi, l'orice e l'okapi, completi dei loro nomi scientifici, gli furono in special modo raccomandati dalla sua incantevole ma intollerabilmente pretenziosa compagna. Altrettanto affascinante era un paravento a cinque pannelli con pitture vivaci che riproducevano su uno sfondo nero le prime mappe di quattro continenti e mezzo. Passiamo, adesso, nella sala da musica, con il suo pianoforte usato di rado, e in una stanza d'angolo chiamata la Sala dei fucili nella quale si trovava un pony delle Shetland impagliato e un tempo cavalcato da una zia di Dan Veen, il cui nome da ragazza, per fortuna, era sfuggito alla memoria di Ada. Dall'altra, o da qualche altra parte della casa, c'era la sala da ballo, una lucente terra desolata, con sedie color violacciocca che «facevano tappezzeria». «Lettore, passa oltre» («mimo, chitatel'», come scriveva Turgenev). Le «cavallerizze», come venivano impropriamente chiamate le scuderie nella contea di Ladore, erano, nel caso di Ardis Hall, architettonicamente disorientanti. Un porticato chiuso da un graticcio guardava oltre la propria spalla inghirlandata dentro il giardino e poi piegava bruscamente verso il viale d'accesso. Una loggia elegante, illuminata da alte finestre, guidò Ada, ora ammutolita, con Van annoiato a morte, fin dentro una nicchia di roccia: una grotta finta, con rami di felce che le si abbarbicavano addosso senza pudore, e una cascata artificiale presa in prestito da qualche fonte letteraria, o dalla vescica bruciante di Van (dopo tutto quello stramaledetto tè).
I quartieri della servitù (tranne quelli di due cameriere dipinte e incipriate che avevano le loro stanze al piano di sopra) erano a pianterreno sul lato della corte. Ada disse di averli visitati una volta, nella fase esplorativa della sua infanzia, ma si ricordava solo di un canarino e di un antico ed efficiente aggeggio per macinare il caffè.
Volarono di nuovo al piano di sopra. Van si infilò in un gabinetto – e ne riemerse di umore molto migliore. Un minuscolo Haydn suonò ancora qualche battuta al loro rapido passaggio.
La soffitta. Questa è la soffitta. Benvenuto nella soffitta. La soffitta accoglieva un gran numero di bauli e scatoloni, due divani marroni, l'uno sopra l'altro come scarafaggi copulanti, e molti quadri in piedi negli angoli o sopra vecchi scaffali, con la faccia contro il muro come bambini in castigo. C'era, arrotolato nella sua custodia, un vecchio jikker, un tappeto volante blu con disegni arabi, sbiadito ma ancora pieno d'incanto, che il padre dello zio Daniel aveva usato da ragazzo e sul quale, in seguito, aveva volato quand'era ubriaco. A causa delle numerose collisioni, cadute e altri incidenti, particolarmente numerosi quando si vola al tramonto sopra campi idilliaci, i jikker vennero banditi dalle squadre aeree; ma quattro anni più tardi Van, che amava quello sport, corruppe un meccanico locale perché gli ripulisse l'apparecchio, ricaricasse i suoi rauchi tubi, e insomma perché lo riportasse alla sua magica funzione, e sarebbero stati molti i giorni d'estate che avrebbe trascorso con la sua Ada sospeso sopra il boschetto e il fiume, scivolando alla tranquilla altitudine di una trentina di metri sopra le strade e i tetti. Guarda che buffo quel ciclista che traballa e si tuffa nel fosso, e quello spazzacamino che si sbraccia, inciampa e cade!
Vagamente spinta dalla sensazione che finché avessero ispezionato la casa sarebbero stati per lo meno occupati in qualcosa - mentre mantenere solo la parvenza di un'attività consequenziale, malgrado il brillante talento di conversatori che entrambi possedevano, li avrebbe fatti scivolare nella disperata vacuità di un ozio impacciato, non avendo altra risorsa se non quella di un'arguzia affettata seguita dal silenzio - Ada non gli risparmiò nemmeno il seminterrato, dove un panciuto robot pulsava riscaldando gagliardamente i meandri di tubi che arrivavano fino all'enorme cucina e alle due scialbe stanze da bagno, e facevano del loro povero meglio per rendere il castello abitabile anche in inverno nei periodi di festa.
«Non hai visto ancora niente!» esclamò Ada. «C'è ancora il tetto!».
«Va bene, questa, però, sarà la nostra ultima arrampicata» disse Van a se stesso.
Per una strana sovrapposizione di regole e tegole (non facilmente spiegabile in termini non tecnici ai non amanti dei tetti), e nello stesso tempo per un casuale continuum, per così dire, di restauri, il tetto di Ardis Manor presentava un'indescrivibile confusione di angoli e livelli, di superfici verde latta e grigio pinna, di rilievi panoramici e nicchie a prova di vento. Ci si poteva stringere e baciare, sorvegliando nel frattempo il laghetto, i boschetti, i prati, il profilo d'inchiostro dei larici che segnavano il confine della proprietà più vicina a molte miglia di distanza, e le piccole sgraziate sagome di mucche più o meno prive di zampe su una collina lontana. E c'erano delle sporgenze dietro le quali ci si poteva facilmente nascondere alle indagini dei jikker o alle mongolfiere che scattavano fotografie.
Su una delle terrazze risuonò il rintocco di bronzo di un gong.
I bambini si sentirono sollevati nell'apprendere che un ospite sconosciuto era atteso per la cena. Si trattava di un architetto andaluso al quale lo zio Dan voleva far progettare una piscina «artistica» per Ardis Manor. Lo zio Dan, che sarebbe dovuto arrivare con un interprete, aveva preso «il grip russo» (l'influenza spagnola) e aveva telefonato a Marina chiedendole di essere molto gentile con il buon vecchio Alonso.
«Mi dovete aiutare!» disse Marina ai bambini, corrugando preoccupata la fronte.
«Forse potrei mostrargli una copia» disse Ada, voltandosi verso Van «di una nature morte assolutamente, fantasticamente stupenda di Juan de Labrador di Extremadura – grappoli d'uva dorati e una strana rosa su uno sfondo nero. Dan l'ha venduta a Demon, e Demon ha promesso di regalarmela quando compirò quindici anni».
«Abbiamo anche dei frutti di Zurbaràn» disse Van compiacendosi. «Tangerini, credo, e una specie di fico con sopra una vespa. Oh, non mancheremo di abbagliare quel brav'uomo con il gergo del mestiere!».
Non lo fecero. Alonso, minuscolo e rinsecchito, con uno smoking a doppiopetto, parlava solo spagnolo, mentre la somma di parole spagnole di cui disponevano i suoi ospiti superava a malapena la mezza dozzina. Van conosceva canastilla (un piccolo cestino), e nubarrones (nuvole temporalesche), che provenivano entrambe da una traduzione en regard di una bella poesia spagnola in uno dei suoi libri di scuola. Ada ricordava naturalmente mariposa, farfalla, e il nome di due o tre uccelli (menzionati nelle guide di ornitologia) come paloma, colomba, o grevol, francolino. Marina sapeva aroma e hombre, e un termine anatomico con una «j» appesa nel mezzo. Di conseguenza la conversazione a tavola consistette di lunghe, pesanti frasi spagnole pronunciate a voce particolarmente alta dal facondo architetto che pensava di aver a che fare con persone molto sorde, e da un'infarinatura di francese, intenzionalmente ma inutilmente italianizzato dalle sue vittime. Una volta che la difficile cena fu terminata, Alonso esplorò il parco, illuminato da tre torce tenute da due valletti, alla ricerca di un sito possibile per una dispendiosa piscina, poi rimise la pianta del terreno nella sua cartella, e dopo aver baciato per errore la mano di Ada nel buio, se ne andò di corsa appena in tempo per l'ultimo treno diretto a sud.

7

Van era andato a letto con le pupille scabre come carta vetrata, poco dopo il «tè della sera», un pasto estivo, in cui il tè non compariva se non in senso figurato, che seguiva di due ore la cena e il cui verificarsi sembrava a Marina naturale e inevitabile quanto il tramonto prima della notte. Nelle usanze domestiche di Ardis questo tradizionale banchetto russo consisteva prima di tutto nella prostokvasha (tradotto dalle governanti inglesi come curds-and-whey, e da Mlle Larivière come lait caillé, «latte cagliato»), di cui la piccola Miss Ada delicatamente ma avidamente (Ada, questi avverbi definivano molte delle tue azioni!) aveva scremato il sottile e vellutato strato superiore con il suo personale cucchiaio d'argento monogrammato, leccandolo tutto prima di attaccare le più amorfe profondità cagliate del suo bicchiere; alla prostokvasha si accompagnava del ruvido pane nero contadino, brune klubnika (Fragaria elatior), ed enormi, rosse fragole coltivate (un incrocio tra due altre specie di Fragaria). A Van sembrava di avere appena appoggiato la guancia sul suo cuscino fresco e piatto quando fu violentemente scosso da un vivace e gioioso cantare – limpidi gorgheggi, dolci fischietti, cinguettii, trilli, pigolii, gracchii stridenti e teneri ciu-ciu – e pensò subito con un timore da profano che Ada avrebbe saputo distinguere le singole voci di ciascun uccello, e che niente l'avrebbe trattenuta dal farlo. Infilò i piedi in un paio di mocassini leggeri, raccolse sapone, pettine e asciugamano e, racchiudendo la propria nudità in un accappatoio di spugna, uscì dalla sua camera da letto con l'intenzione di andare a immergersi nel ruscello che aveva notato alla vigilia. La pendola del corridoio rintoccò nel silenzio aurorale interrotto solo dal russare che proveniva dalla stanza della governante. Dopo un attimo di esitazione, Van entrò nel bagno della stanza dei bambini. Lì il frastuono impazzito degli uccelli e la vivida luce del sole lo raggiunsero attraverso la stretta finestra. Stava molto bene, proprio molto bene! Mentre scendeva lo scalone, il padre del generale Durmanov lo salutò con uno sguardo grave e lo consegnò al vecchio principe Zemski e agli altri antenati, severi come guardiani di un buio palazzo durante la visita del loro unico turista.
La porta principale si rivelò chiusa con chiavistello e catena. Van provò ad aprire la porta laterale a vetri, protetta da una grata, attraverso la quale si vedeva il portico inghirlandato di azzurro; anche quella non cedette. Ignorando ancora l'esistenza di un recesso sotto le scale dov'era nascosto un assortimento di chiavi di riserva (alcune, appese a ganci d'ottone, vecchissime e ormai senza identità) e dal quale si poteva accedere a un angolo appartato del giardino attraverso un ripostiglio per gli attrezzi, Van vagò per diversi salotti alla ricerca di una finestra compiacente. In una delle ultime stanze trovò, in piedi davanti a un'alta finestra, una giovane cameriera che aveva intravisto (e sulla quale si era ripromesso di investigare) la sera precedente. Era vestita di quello che suo padre, con un sorrisino lascivo non del tutto spontaneo, avrebbe definito «un sobrio nero soubrette con fremito di trine»; il pettine di tartaruga nei suoi capelli castani si accendeva di una luce ambrata; la porta finestra era aperta, e lei teneva una mano, scintillante di una minuscola acquamarina, in alto sullo stipite, mentre guardava sul sentiero lastricato un passero che si avvicinava al pezzetto di biscotto – piccolo come l'alluce di un bebé – che lei gli aveva lanciato. Il suo profilo di cammeo, la sua vezzosa narice rosea, il lungo collo francese bianco come un giglio, il contorno pieno e insieme fragile del suo corpo (il desiderio maschile non compie molti sforzi per trovare espressioni felici!) suscitarono in lui la sensazione subitanea e selvaggia di un'opportunità da cogliere, tanto che non potè fare a meno di afferrarle il braccio alzato e fasciato dalla manica del vestito, e stringerle le dita intorno al polso. Lei si liberò dalla stretta, confermando con la freddezza del suo atteggiamento di aver percepito il suo avvicinarsi, poi voltò verso di lui il viso attraente, anche se quasi privo di sopracciglia, e gli chiese se avrebbe gradito una tazza di tè prima di colazione. No. Come si chiamava? Blanche – ma Mlle Larivière la chiamava Cenerentola perché le calze le si smagliavano così facilmente e perché rompeva e perdeva tutto, e confondeva i fiori. L'abbigliamento discinto di Van tradiva il suo desiderio e questo non poteva sfuggire a una ragazza, anche se daltonica; quando lui si avvicinò ancora di più e guardò al di sopra della sua testa se un divano adatto si stesse materializzando in un angolo di quella magica dimora – dove qualsiasi luogo, come nelle memorie di Casanova, poteva trasformarsi nella nicchia di un harem – lei sgusciò via e gli si sottrasse definitivamente, modulando un piccolo soliloquio in un molle francese ladorano:
«Monsieur a quinze ans, je crois, et moi, je sais, j'en ai dix-neuf. Monsieur è nobile; io sono la figlia di un povero minatore. Monsieur ha conosciuto, sans doute, des filles de la ville; quant à moi, je suis vierge, ou peu s'en faut. De plus, se dovessi innamorarmi di lei – e voglio dire davvero innamorarmi – e potrei, ahimè, se lei mi possedesse rien qu'une petite fois [anche solo una volta] – a me recherebbe solo dolore, e fiamme infernali, e disperazione, e perfino la morte, Monsieur. Finalement, potrei aggiungere che ho le perdite bianche e devo andare da le Docteur Chronique, voglio dire Crolique, il mio prossimo giorno di libertà. Ora ci dobbiamo separare, il passero è scomparso, vedo, e Monsieur Bouteillan è entrato nella stanza accanto e può vederci benissimo in quello specchio sopra il divano dietro il paravento di seta».
«Perdonami, piccola» mormorò Van, scoraggiato dallo strano, tragico tono della ragazza: improvvisamente gli sembrava di aver preso parte a una commedia di cui, pur essendo l'attore principale, non riusciva a ricordare altro che quella scena.
Nello specchio, la mano del maggiordomo afferrò dal nulla una caraffa e scomparve. Van, riannodando la cintura dell'accappatoio, uscì dalla porta finestra nella verde realtà del giardino.

8

Quella mattina, o un paio di giorni dopo, sulla terrazza:
«Mais va donc jouer avec lui» [Su, va' a giocare con lui] disse Mlle Larivière, dando a Ada uno spintone che fece sussultare scompostamente le sue anche immature. «Non permettere a tuo cugino di se morfondre quando il tempo è così bello. Prendilo per mano. Vai a fargli vedere la dama bianca nel tuo vialetto preferito, e la montagna, e la grande quercia».
Ada si voltò verso di lui con un'alzata di spalle. Il contatto delle sue dita ghiacciate e del palmo umido, e il gesto un po' forzato con il quale gettò indietro i capelli mentre insieme si allontanavano lungo il viale principale del parco, fecero sentire a disagio anche Van, che con il pretesto di raccogliere una pigna si liberò dalla stretta. Lanciò la pigna contro una donna di marmo china su uno stamnos ma riuscì solo a spaventare un uccello che si era appollaiato sul collo della sua anfora rotta.
«Non c'è niente di più banale al mondo» disse Ada «che lanciare sassi a un frosone».
«Scusami,» disse Van «non era mia intenzione spaventare quell'uccello. E poi non sono un ragazzo di campagna che sa distinguere una pigna da un sasso. A che cosa, au fond, si aspetta che giochiamo, quella?».
«Je l'ignore» rispose Ada. «Non m'importa sapere come funziona la sua povera testa. A cache-cache, [nascondino] suppongo, o ad arrampicarci sugli alberi».
«Ah, io sono bravissimo ad arrampicarmi,» disse Van «anzi, so perfino "camminare" appeso per le braccia».
«No,» disse lei «giocheremo ai miei giochi. Giochi che mi sono inventata da sola. Giochi che Lucette, spero, sarà in grado di giocare con me l'anno prossimo. Vieni, cominciamo. I primi fanno parte del gruppo ombra e luce. Oggi te ne insegnerò due».
«Capisco» disse Van.
«Capirai tra un momento» replicò la piccola saputa. «Prima di tutto dobbiamo trovare un bel legnetto».
«Guarda,» disse Van cui l'offesa bruciava ancora un po' «un altro frosone».
Avevano ormai raggiunto il rond-point – una piazzuola circondata di aiuole e cespugli di gelsomino in piena fioritura. Sopra le loro teste le braccia di un tiglio si protendevano verso quelle di una quercia, come una fanciulla scintillante di verdi lustrini che voli incontro al suo forte padre, appeso per i piedi al trapezio. Cose celestiali che già allora tutti e due capivamo bene. Già allora.
«C'è qualcosa di acrobatico in quei rami lassù, vero?».
«Sì» rispose Ada. «L'ho scoperto tanto tempo fa. Il tiglio è l'italiana volante, e la vecchia quercia soffre, il suo vecchio amante soffre, ma l'afferra ancora ogni volta» (impossibile riprodurre la giusta intonazione e rendere l'intero senso – dopo otto decenni! – ma lei disse davvero qualcosa di strabiliante, qualcosa in totale contrasto con la sua tenera età, mentre guardavano in alto e poi riabbassavano lo sguardo).
Con gli occhi rivolti a terra, Ada brandì uno stecco verde appuntito che aveva preso in prestito dalle peonie e spiegò il primo gioco.
Le ombre delle foglie sulla sabbia erano qua e là interrotte da circoletti di luce viva di diversa grandezza. Il giocatore sceglieva il suo circoletto – il migliore, il più brillante che riusciva a trovare – e ne marcava il contorno con la punta del suo legnetto; in quel momento sembrava che il tondo di luce gialla diventasse convesso come la superficie traboccante di una tintura dorata. Poi il giocatore scavava delicatamente la terra con il suo legnetto, o con le dita, all'interno del circoletto. Il livello di quella scintillante infusion de tilleul affondava magicamente nel suo calice di terra per ridursi alla fine a una preziosa goccia. Vinceva chi realizzava il maggior numero di calici in, diciamo, venti minuti.
Van domandò sospettosamente se fosse tutto lì.
No, non era tutto lì. Tracciando con decisione un piccolo cerchio intorno a una goccia d'oro particolarmente bella, Ada si accovacciò e si spostò, accovacciata, con i capelli neri che le ricadevano sulle ginocchia lisce come l'avorio, mentre le sue anche e le sue mani lavoravano, una mano teneva il legnetto e l'altra era impegnata a scansare fastidiose ciocche di capelli. Una brezza gentile eclissò improvvisamente la sua chiazza di luce. Quando questo accadeva il giocatore perdeva un punto, anche se la foglia o la nuvola si affrettavano a spostarsi di nuovo.
Va bene. Qual era l'altro gioco?
L'altro gioco (detto con voce languida) poteva sembrare un po' più complicato. Per giocarlo nel modo giusto bisognava aspettare che le ore pomeridiane fornissero ombre più lunghe. Il giocatore...
«Smettila di dire "il giocatore". O sei tu o sono io».
«Diciamo, tu. Tu disegni sulla sabbia la mia ombra dietro di me. Io mi sposto. Tu la disegni ancora. Poi segni il limite successivo» (e gli consegnò il legnetto). «Ora se io torno sui miei passi...».
«Sai una cosa,» disse Van, buttando via il legnetto «personalmente trovo che questi siano i giochi più stupidi e noiosi che siano mai stati inventati, in qualsiasi luogo, a qualunque ora antimeridiana o pomeridiana».
Lei non disse niente ma le sue narici si restrinsero. Recuperò il legnetto e rabbiosamente lo conficcò al suo posto nel terriccio, riagganciandolo con un silenzioso cenno del capo al gambo di un fiore riconoscente. Si avviò verso la casa. Lui si domandò se il suo modo di camminare si sarebbe fatto più aggraziato col tempo.
«Sono un ragazzo sgarbato e violento, per piacere, perdonami» disse.
Lei inclinò la testa senza voltarsi. In segno di parziale riconciliazione, gli mostrò due robusti ganci e due anelli di ferro fissati ai tronchi di due liriodendri. A quegli alberi, prima che lei nascesse, un altro ragazzo, un altro Ivan, il fratello di sua madre, sospendeva un'amaca nella quale dormiva in estate quando le notti diventavano roventi – la loro era, in fin dei conti, la latitudine della Sicilia.
«Splendida idea» disse Van. «A proposito, le lucciole ti bruciano se ti vengono addosso? Sto solo chiedendo. Una domanda sciocca da ragazzo di città».
Subito dopo Ada gli mostrò dove erano custodite le amache – un intero assortimento, un sacco di canapa pieno di forti e morbide reti – nell'angolo di un ripostiglio seminterrato dietro i lillà. La chiave era nascosta qui, in questo buco che l'anno scorso era stato otturato dal nido di un uccello (no, non c'è bisogno di identificarlo). Il sole con una freccia di luce pennellò di un verde più intenso la lunga scatola verde in cui si trovava l'attrezzatura da croquet; le palle non c'erano perché le avevano fatte rotolare giù dalla collina quegli scalmanati dei piccoli Erminin, che adesso avevano l'età di Van ed erano diventati bravissimi e calmissimi.
«Come siamo tutti, a questa età» disse Van e si chinò per raccogliere un pettine ricurvo di tartaruga – di quelli che le ragazze portano per raccogliere i capelli sulla nuca; ne aveva visto uno identico abbastanza di recente, ma quando, e nell'acconciatura di chi?
«Di una delle cameriere» disse Ada. «Deve essere suo anche quel romanzetto consunto, Les Amours du Docteur Mertvago, una storia d'amore mistica scritta da un pastore». [Nota: gioco basato sul nome «Zivago» (ziv in russo significa «vivo» e mërtv significa «morto»]
«Immagino che per giocare a croquet con te» disse Van «si debbano usare fenicotteri e porcospini».
«Le nostre preferenze nella lettura non coincidono» replicò Ada. «Alice in Wonderland mi è stato consigliato molte volte e così spesso mi è stato garantito che lo avrei adorato che alla fine ho sviluppato un pregiudizio insormontabile nei suoi confronti. Hai letto qualcuno dei racconti di Mlle Larivière? Be', li leggerai. Lei pensa di essere stata, in una precedente esistenza indù, un uomo di mondo parigino, e scrive di conseguenza. Da qui, con qualche giravolta potremmo raggiungere l'atrio da un passaggio segreto, ma penso ci si aspetti che andiamo a vedere le grand chène [grande quercia], che in realtà è un olmo». A Van piacevano gli olmi? Conosceva la poesia di Joyce sulle due lavandaie? Certo che la conosceva. Gli piaceva? L'adorava. Anzi si accorgeva di adorare ogni albero, ogni ardore, ogni Ada. Che assonanze! Doveva fargliele notare?
«E adesso» disse lei, e si fermò fissandolo.
«Sì?» disse lui. «E adesso?».
«Be', forse non dovrei cercare di svagarti – dopo che hai calpestato i miei circoletti di luce; ma sarò indulgente e ti mostrerò la vera meraviglia di Ardis Manor; il mio larvario. È nella stanza accanto alla mia» (quella che non vide mai, prova a pensarci – mai!).
Ada chiuse con cura la porta di una stanza comunicante, mentre entravano in quella che sembrava una conigliera nobilitata, in fondo a un'anticamera rivestita di marmo (un bagno convertito). Nonostante il luogo fosse ben aerato, con le finestre di vetro colorato a motivi araldici spalancate (così che si sentivano le strida e i richiami di una popolazione di uccelli denutrita e terribilmente frustrata), l'odore delle gabbie – terriccio umido, turgide radici, vecchia serra e forse una punta di capra – era spaventoso. Prima di lasciarlo avvicinare, Ada armeggiò con alcuni piccoli chiavistelli e cancelletti, e un senso di grande vuoto e di malinconia sostituì il dolce fuoco che quel giorno aveva consumato Van fin dall'inizio dei loro giochi innocenti.
«Je raffole de tout ce qui rampe (vado pazza per tutto quello che striscia)» disse Ada.
«Personalmente propendo per quelli che quando li tocchi si arricciano a manicotto di pelo – quelli che per dormire si raggomitolano come vecchi cani».
«Oh, ma non dormono, quelle idée, perdono i sensi, è una piccola sincope» spiegò Ada corrugando la fronte. «E immagino che possa essere un vero piccolo trauma per i più giovani».
«Sì, arrivo a immaginarlo anch'io. Ma presumo che si abituino, con il tempo, voglio dire».
Ben presto la sua infondata ritrosia lasciò il posto a un'empatia estetica. Molti decenni più tardi Van ricordò di aver molto ammirato i bei bruchi di cucullia, nudi, lucenti, vistosamente maculati e striati, velenosi quanto i fiori di verbasco che crescevano folti intorno a loro, e la larva piatta di una catocalide locale le cui protuberanze grigie e placche lillà imitavano i nodi e i licheni del ramoscello al quale si aggrappava con tale aderenza da risultarvi praticamente saldata, e, naturalmente, la piccola limantride e il suo manto nero ravvivato lungo tutto il dorso da ciuffi dipinti di rosso, blu e giallo di lunghezza diseguale, come le setole di uno spazzolino da denti fantasia tinto con colori garantiti. E questo tipo di similitudine mi ricorda oggi i lemmi entomologici nel diario di Ada – che dovremmo avere da qualche parte, mi pare, cara, forse in quel cassetto, o no? pensi di no? Sì! Urrà! Ecco qualche esempio (la tua scrittura a guance tonde, mio amore, era un po' più larga ma, a parte questo, niente, niente, niente è cambiato):
«La testa retrattile e le diaboliche appendici anali del mostro sgargiante prodotto dalla modesta Cerura vinula appartengono a un bruco non troppo bruco con segmenti frontali a forma di mantice e una faccia che assomiglia all'obiettivo di una macchina fotografica a soffietto. Se si accarezza delicatamente il suo corpo liscio e dilatato si ha una sensazione serica e gradevole – finché la creatura irritata e ingrata non ti spruzza addosso un fluido acido da una fenditura della gola».
«Il dottor Krolik ha ricevuto dall'Andalusia, e mi ha gentilmente dato, cinque giovani larve della Carmen Tartaruga di recente descritta e assolutamente locale. Sono creature deliziose, di una bella sfumatura color giada e con aculei d'argento, che si riproducono solo su una specie semiestinta di salice d'alta montagna (anche questa procurata per me dal caro Brulik)».
(A dieci anni o prima la bambina aveva letto – come Van – Les Malheurs de Swann [Nota: Incrocio tra Les Malheurs de Sophie di Mme de Ségur (nata contessa Rostopčin) e Un Amour de Swann di Proust]. Il prossimo estratto lo conferma):
«Penso che Marina la smetterebbe di sgridarmi per questa mia passione ("C'è qualcosa di indecente in una ragazzina che alleva bestiole così ripugnanti...", "Le signorine normali dovrebbero aborrire vermi e serpenti", eccetera) se riuscissi a persuaderla a vincere la sua schizzinosità fuori moda e a mettersi simultaneamente sul palmo e sul polso (la mano sola non sarebbe abbastanza spaziosa!) la nobile larva della Cattleya Hawkmoth (sfumature mauve di Monsieur Proust), un colosso lungo sette pollici, color carne con arabeschi turchesi, che erige la sua testa di giacinto in rigida, "sfingea", postura». [Nota: In Un amore di Swann di Proust, la cattleya (un'orchidea americana tropicale) è il fiore preferito di Odette, e «faire cattleya» è una delle espressioni amorose usate dai due amanti].
(Bello! disse Van, ma perfino io non ero riuscito ad assimilarlo, quando ero giovane. Perciò smettiamo di avvilire il villano che sfogliando queste pagine potrebbe pensare: «Oh, ma che burlone quel vecchio V.V.!»).
Alla fine di quella sua così remota, e così vicina, estate del 1884, Van, prima di lasciare Ardis, dovette fare una visita di adieu al larvario di Ada.
La larva Cappuccio (o «Pescecane»), bianco porcellana e maculata, una gemma di grande valore, aveva concluso con successo la sua ultima metamorfosi, ma l'unica Catocala lorelei di Ada era morta paralizzata da un Icneumonide che non era riuscita a sorprendere con le sue prominenze intelligenti e i suoi fumi fungosi. Lo spazzolino da denti multicolore si era comodamente trasformato in pupa all'interno di un ruvido bozzolo, promettendo di diventare una Limantria Persiana nell'autunno seguente. Le due larve di vinula avevano assunto un aspetto ancora più brutto ma più vermesco e in certo senso venerabile: con quei forconi che ora strisciavano mollemente dietro di loro e un afflusso violaceo che smorzava la composizione cubista dei loro smodati colori, continuavano a «serpeggiare» rapidamente per tutto il pavimento della loro gabbia in un impeto locomotorio prepupazionale. Aqua aveva dovuto attraversare un bosco ed entrare in una gola per fare la stessa cosa l'anno passato. Una Nymphalis Carmen appena emersa batteva le ali color limone e ambra bruna su un lembo di grata inondato di luce, solo per essere soffocata da un pizzico delle agili dita di Ada, felice e senza cuore; la Sfinge di Odette si era trasformata, benedetta lei, in un'elefantiaca mummia con un tronco di tipo guermantoide comicamente imprigionato; e il dottor Krolik stava correndo lestamente sulle sue corte gambe dietro una veramente speciale arancio-tipo che volava oltre il limitare della vegetazione, in un altro emisfero, Antocharis ada Krolik (1884) – come veniva detta fino a che non divenne Antocharis prittwitzi Stümper (1883) per la inesorabile legge della priorità tassonomica.
«Ma poi, quando tutte queste bestie si sono schiuse,» domandò Van «che cosa ne fai?».
«Oh,» disse lei «le porto all'assistente del dottor Krolik che le mette in ordine, le etichetta e le punta con uno spillo sui ripiani di vetro di una linda teca di rovere, che diventerà mia quando mi sposerò. Avrò allora una vasta collezione e continuerò ad allevare tutte le specie di lepidotteri – il mio sogno è quello di avere un Istituto specializzato in larve di arginnidi e in viole, tutte le speciali viole sulle quali loro si accoppiano. Mi farei spedire con l'aeroplano le uova, o le larve, da tutto il Nord America, con le loro piante alimentari – la viola della sequoia dalla Costa occidentale, la viola pallida dal Montana, la viola della prateria e la viola di Egglestone dal Kentucky, e una rara viola bianca da una palude nascosta vicino a un lago senza nome su una montagna artica, dove vola l'Arginnide minore del dottor Krolik. Quando emergono, sono facili da accoppiare a mano: le tieni – qualche volta per un pochino – così, di profilo con le ali piegate,» (mostrando la tecnica senza badare a nascondere le povere unghie delle sue mani) «il maschio nella mano sinistra, la femmina nella destra, o viceversa, con le sommità degli addomi che si toccano, ma devono essere ben fresche e zuppe del fetore della loro viola preferita».

9

Ma era graziosa davvero, a dodici anni? E lui voleva – avrebbe mai voluto carezzarla, carezzarla davvero? I capelli neri le precipitavano su una clavicola, come una cascata, e il gesto che faceva per ributtarli indietro, e la fossetta sulla sua guancia pallida, rivelavano in lei l'immediato riconoscimento del loro pregio. Il suo pallore riluceva, la sua oscurità fiammeggiava. Le gonne a pieghe che le piaceva portare erano corte al punto giusto. Perfino i suoi arti nudi erano così privi di abbronzatura che con lo sguardo, accarezzando il candore delle sue tibie e degli avambracci, vi si poteva seguire il regolare declivio dei sottili peli scuri, le sete della sua fanciullezza. L'iride marrone cupo dei suoi occhi seri aveva l'enigmatica opacità dello sguardo di un ipnotizzatore orientale (nella pubblicità sulla quarta di copertina di una rivista) e appariva collocata più in alto del normale, così che tra il suo orlo e l'umida palpebra inferiore, quando ti guardava dritto negli occhi, c'era sempre un quarto di luna bianco. Le sue lunghe ciglia sembravano tinte di nero, e infatti lo erano. I suoi tratti si salvavano dalla grazia dell'elfo in virtù della forma un po' carnosa delle sue labbra riarse. Il suo normalissimo naso irlandese era come quello di Van, ma in miniatura. I denti erano discretamente bianchi, ma non molto regolari.
Le sue povere, belle manine – guardandole non si poteva fare a meno di tubare, pieni di compassione – erano rosee in confronto alla traslucida pelle delle braccia, perfino più rosee del gomito, che sembrava arrossire di vergogna per lo stato delle sue unghie: le morsicava tutte così ostinatamente che non c'erano più vestigia di margini intatti ma solo solchi incisi nella carne con la durezza del ferro, tanto che alla punta scoperta di ogni suo dito sembrava essersi aggiunta una piccola spatola. Più tardi, quando Van cercava di baciarle le mani fredde e lei le chiudeva stringendo le dita e non concedeva alle sue labbra nient'altro che le nocche, lui per arrivare a quei cuscinetti piatti e ciechi le forzava furiosamente. (Ma, oh cielo, oh, che cos'erano le lunghe, languide onici rosa e argento, dipinte e appuntite, delicate e pungenti dei suoi anni adolescenti e adulti!).
Quello che provò Van in quei primi strani giorni quando lei gli mostrò la casa – e quelle nicchie dove avrebbero fatto l'amore così presto – era un insieme di elementi di rapimento e di esasperazione. Rapimento – per la sua pelle voluttuosa, pallida e proibita, per i suoi capelli, le sue gambe, i suoi movimenti spigolosi, il suo odore d'erba e di gazzella, per lo sguardo scuro e all'improvviso fisso dei suoi occhi distanti tra loro, per la rustica nudità sotto il vestito; esasperazione – perché tra lui, uno scontroso e geniale scolaro, e quella precoce, affettata, impenetrabile bambina si stendevano un vuoto di luce e un velo d'ombra che nessuna forza avrebbe potuto vincere o perforare. Imprecava miseramente nello sconforto del suo letto quando metteva a fuoco i suoi sensi dilatati su quanto aveva intravisto di lei quando, durante la loro seconda escursione all'ultimo piano della casa, si era arrampicata su una cassa da capitano per aprire la cerniera di una specie di lucernario attraverso il quale si poteva accedere al tetto (anche il cane ci era riuscito una volta), e una mensola, o qualcos'altro, le aveva sollevato la gonna e lui aveva potuto vedere – come si assiste a un nauseante miracolo in una fiaba biblica o alla stupefacente metamorfosi di un lepidottero – che il serico bozzolo della bambina era scuro. Notò che lei sembrava aver notato che lui aveva o poteva aver notato (quello che lui non solo aveva notato, ma tenne a mente con tenero terrore finché non si fu liberato di quella visione – molto più tardi – e per strane vie), e un'espressione insolita, ottusa e arrogante, le attraversò la faccia: le guance infossate e le labbra pallide e grosse si muovevano come se masticasse qualcosa, e lei emise un guaito di ilarità senza gioia quando lui, il grande Van, inciampò e scivolò su una tegola, dopo essere a sua volta uscito con una contorsione dal lucernario. Nel sole improvviso lui capì che, fino ad allora, il piccolo Van era stato vergine e cieco, e che la fretta, la polvere e il buio gli avevano sempre nascosto i piccoli incanti della sua prima sgualdrina, così tante volte posseduta.
Da quel giorno la sua educazione sentimentale proseguì celermente. La mattina successiva gli capitò di vederla mentre si lavava la faccia e le braccia china sopra un'antiquata bacinella, su un piedistallo rococò. Aveva i capelli annodati in cima alla testa, la camicia da notte arrotolata intorno alla vita come una goffa corolla dalla quale spuntava la sua schiena magra e ombreggiata dalle costole. Un serpente di porcellana si arricciava intorno al bacile, e mentre entrambi, lui e il serpente, guardavano immobili Eva e il lieve sobbalzare dei suoi seni in germoglio, un grosso pane di sapone color mora sgusciò dalla sua mano, e il suo piede infilato in una calza nera agganciò la porta e la sbatté con un colpo che era più l'eco dell'urto del sapone contro il bordo di marmo che un segno di pudico disagio.

10

Pranzo a Ardis Hall, in un giorno qualunque della settimana. Lucette tra Marina e la governante; Van tra Marina e Ada; Dack, l'ermellino brunodorato, sotto il tavolo, tra Ada e Mlle Larivière, o tra Lucette e Marina (anche se non lo dava a vedere, a Van i cani non piacevano, specialmente durante i pasti, e specialmente quel piccolo mostro bislungo, col fiato che sapeva di selvaggina frollata). Sfrontata e magniloquente, Ada descriveva un sogno, o un prodigio di storia naturale, o uno speciale espediente bellettristico, un «monologue intérieur» di Paul Bourget preso a prestito dal vecchio Lev, o una comica gaffe della rubrica di attualità di Elsie de Nord, una volgare letteraria demimondaine che pensava che Lévin andasse in giro per Mosca in un nagol'nïy tulup, «cappotto di pecora da contadino liscio fuori, peloso dentro», secondo la definizione di un dizionario che la nostra commentatrice faceva apparire come un giocatore di prestigio, e che nessuna Elsie avrebbe mai potuto procurarsi. La sua spettacolare capacità di governare le proposizioni subordinate, le digressioni parentetiche, la sensuale accentazione dei monosillabi adiacenti («È semplice: la stupida Elsie non sa leggere») – tutto questo finì in qualche modo con l'agire su Van, come sarebbe potuto succedere con mezzi di eccitamento artificiali ed esotiche carezze-torture, in un'afrodisiaca direzione sinistra che nello stesso tempo lo offendeva e perversamente gli piaceva.
«Mia adorata» la chiamava la madre, interrompendo con gridolini il discorso di Ada: «Com'è divertente!», «Lo trovo fantastico!», ma anche indulgendo in osservazioni più ammonitorie quali: «Siediti un po' più dritta» o «Mangia, mia adorata» (accentando il «mangia» con una sollecitudine materna molto diversa dalla malizia dei sarcasmi spondaici della figlia).
Ada si raddrizzava e inarcava la flessuosa spina dorsale contro lo schienale della sedia, poi, quando il sogno o l'avventura (o qualsiasi altra cosa stesse raccontando) raggiungeva il culmine, si piegava sopra il punto dal quale Price aveva prudentemente tolto il suo piatto e, improvvisamente tutta gomiti, si buttava in avanti, invadendo il tavolo e lasciandosi andare indietro di nuovo, con la bocca contorta in smorfie smodate, e con le mani in alto, su, su, per fare segno di «lungo, lungo!».
«Mia adorata, non hai assaggiato il... oh, Price, porti la...».
La che cosa? La corda del fachiro per la bambina a sedere nudo che vuole arrampicarsi nell'azzurro infinito?
«Era di un tipo lungo, lungo. Voglio dire» (interrompendosi) «... come un tentacolo... no, aspettate» (scuotimento della testa, contrazione dei lineamenti, come se con uno strattone volesse districare i nodi di una matassa aggrovigliata).
No: la frutta, enormi prugne viola e rosa, una con una spaccatura e un'esplosione di giallo bagnato.
«E così io stavo lì...» (i capelli che precipitano, la mano che vola alla tempia e abbozza ma non conclude il colpo-che-getta-indietro la ciocca; poi un improvviso scoppio di risate ruvide-increspate che vanno a finire in un'umida tossetta).
«No, ma seriamente, mamma, lei si deve immaginare me completamente muta, me che grido ammutolita, mentre mi accorgo...».
Al terzo o quarto pasto, anche Van si accorse di qualche cosa. Lontano dall'essere l'esibizione di una ragazzina brillante a beneficio di un nuovo arrivato, il comportamento di Ada era un disperato e piuttosto abile tentativo di impedire a Marina di appropriarsi della conversazione e di trasformarla in una conferenza sul teatro. Marina, d'altra parte, mentre aspettava l'opportunità di far trottare la sua trojka di cavalli di battaglia, traeva professionale diletto nell'interpretare il ruolo trito e ritrito della madre affettuosa, orgogliosa del fascino e dello spirito della figlia, e lei stessa incantevolmente e spiritosamente indulgente nei confronti di quell'impetuosa circostanzialità: lei si esibiva – non Ada! E quando Van ebbe capito quale fosse veramente la situazione, imparò ad approfittare di ogni pausa (che Marina era sul punto di riempire con una scelta stanislavskiana) per lanciare Ada sulle acque inquiete di Botany Bay, un viaggio che in altre occasioni lo terrorizzava, ma che ora si dimostrava per la sua ragazza la rotta più facile e sicura. Questi interventi erano importanti soprattutto durante il pasto della sera, poiché Lucette e la sua governante consumavano la loro cena prima degli altri, al piano di sopra, e non essendo Mlle Larivière presente in quei momenti critici, non si poteva sperare che prendesse il sopravvento sull'arrancante Ada con un vivace resoconto di come stava lavorando alla sua ultima novella (la famosa Collana di diamanti si trovava nella più avanzata fase di lucidatura) o con ricordi della prima fanciullezza di Van, per esempio quelli del tutto accettabili che riguardavano il suo amato tutore russo, il quale corteggiava con delicatezza Mlle L., scriveva poesie decadenti russe in versi sciolti e in russa solitudine si dava al bere.
Van: «Quel coso giallo» (indicando un fiorellino graziosamente dipinto su un piatto Eckercrown) «è un ranuncolo?».
Ada: «No. Quel fiore giallo è la comune Farferugine o Caltha palustris. In campagna i contadini si confondono e la chiamano Primula odorosa, quando naturalmente la vera Primula odorosa, cioè la Primula veris, è tutt'altra pianta».
«Ho capito» disse Van.
«Sì, certo» cominciò Marina. «Quando interpretavo Ofelia, il fatto che un tempo avessi fatto raccolta di fiori...».
«Ti ha aiutato, non c'è dubbio» disse Ada. «Ora il nome russo per la Caltha palustris è Kuroslep (che i muziki della Tartaria, poveri schiavi, attribuivano per errore al ranuncolo) o anche Kaluzhnitsa, abbastanza appropriatamente usato a Kaluga, USA».
«Ah» disse Van.
«Come nel caso di molti fiori,» Ada proseguì con un sorriso pacato da scienziato pazzo «l'infelice nome francese della nostra pianta, souci d'eau, è stato tradito, o forse dovremmo dire trasfigurato...».
«Oppure deflorato» arrischiò Van Veen.
«Je vous en prie, mes enfants» intervenne Marina che aveva seguito la conversazione con difficoltà, e ora, fraintendendo ulteriormente, pensava a un altro tipo di equivoco.
«Per caso, proprio stamattina,» disse Ada, senza degnarsi di illuminare la madre «la nostra dotta governante, che è stata anche la tua, Van, e che...».
(Era la prima volta che pronunciava il suo nome... a quella lezione di botanica!).
«... è piuttosto severa con gli ibridatori di lingua inglese – crostacei chiamati "granchi" – per quanto io sospetti che le sue ragioni siano più sciovinistiche che artistiche e morali – ha attirato la mia attenzione – la mia oscillante attenzione – su alcune davvero magnifiche deflorazioni, come le chiami tu, Van, in una soi-disant versione letterale di Mr Fowlie – definita "sensitiva" in una recente visione Elsiana... sensitiva! – di Memorie, una poesia di Rimbaud (che lei fortunatamente – e con lungimiranza – mi aveva fatto imparare a memoria, sebbene io abbia il sospetto che preferisca Musset e Coppée)...».
«... les robes vertes et déteintes des fillettes...» [i vestitini verdi e scoloriti delle bambine] citò Van, trionfante.
«Ezz-atto» (facendo il verso a Dan). «Larivière mi permette di leggerlo solo nell'antologia di Feuilletin, la stessa che hai tu, a quanto pare, ma mi procurerò le sue oeuvres complètes molto presto, oh molto presto, molto più presto di quanto chiunque possa pensare. E guarda, lei scenderà proprio adesso, dopo aver rimboccato le coperte a Lucette, la nostra cara testadirame che ormai avrà indosso la sua camicia da notte verde...».
«Angel moy,» si lamentò Marina «sono certa che Van non può provare alcun interesse per l'abbigliamento notturno di Lucette!».
«... della tonalità dei salici, e starà contando le pecorelle sul suo ciel de lit che Fowlie volge in "sky's bed", "il letto del cielo" invece di "bed's ceiler", la "volta del letto". Ma, per tornare al nostro povero fiore. La vera gemma in questa collezione di Francese fallato è la trasformazione di souci d'eau (la nostra Farferugine) nell'asinina "preoccupazione dell'acqua" – eppure ci sarebbero state dozzine di sinonimi, quali mollingoccia, merinboccio, maiainbolla, e molti altri nomignoli associati alle feste della fertilità, qualunque cosa esse siano».
«D'altra parte,» disse Van «si potrebbe benissimo immaginare una Miss Rivers ugualmente bilingue, che controlla una versione francese del, vediamo, Garden di Marvell...».
«Oh,» gridò Ada «posso recitare "Le jardin" nella mia transversione... vediamo...

En vain on s'amuse à gagner
L'Oka, la Baie du Palmier...».

«... raggiungere Palma, l'Oka, o Bayes!» gridò Van.
«Sapete, bambini,» interruppe Marina risolutamente, facendo con entrambe le mani il gesto di volerli placare «quando avevo la tua età, Ada, e mio fratello aveva la tua, Van, parlavamo di croquet, di pony e di pupazzi, dell'ultima fête-d'enfants, del primo picnic, e... oh, di un milione di normali cose carine, ma mai, mai di vecchi botanici francesi e Dio sa cosa!».
«Ma non hai appena detto che facevi raccolta di fiori?» disse Ada.
«Oh, solo una volta, da qualche parte in Svizzera. Non mi ricordo. Non ha importanza adesso».
Pensava a Ivan Durmanov, che era morto di cancro ai polmoni, molti anni prima, in un sanatorio (non lontano da Ex, da qualche parte in Svizzera, dove Van era nato otto anni più tardi). Marina ricordava spesso Ivan, che era stato un famoso violinista a diciotto anni, ma di solito nel parlare non manifestava una particolare emozione. Questa volta, invece, Ada notò con sorpresa che il pesante trucco di sua madre aveva cominciato a squagliarsi sotto un improvviso diluvio di lacrime (forse un'allergia ai vecchi, piatti fiori secchi, un attacco di febbre da fieno, di genzianite, come una diagnosi solo di poco posteriore avrebbe potuto dimostrare). Marina si soffiò il naso, con la sonorità di un elefante, come disse lei stessa – e in quel momento Mlle Larivière scese per il caffè e per le rimembranze di Van bambin angélique che «adorava», à neuf ans – tesoro caro! – Gilberte Swann et la Lesbie de Catulle (e che aveva imparato, tutto da solo, a liberare quell'adorazione, non appena la lampada a cherosene lasciava la sua camera da letto ondeggiante, nel pugno della sua bambinaia nera).