FUTURO E RESPONSABILITÀ.
Estratto da: “Tutta la vita è risolvere problemi."
Karl Popper
Il futuro è decisamente aperto. Esso dipende da noi; da tutti noi. Dipende da quello che noi e molte altre persone facciamo e faremo; oggi, domani e dopodomani. E quello che facciamo e faremo dipende a sua volta dai nostri pensieri; e dai nostri desideri, dalle nostre speranze, dalle nostre paure! Dipende da come vediamo il mondo; e da come valutiamo le possibilità largamente disponibili del futuro». Ad agire sono soltanto gli individui: classi, partiti, sistemi e società sono soltanto nomina, stenogrammi per individui, gruppi di individui, loro pensieri e loro azioni «Quando dico che “l’ottimismo è un dovere”, questo non implica soltanto che il futuro è aperto, ma anche che noi tutti lo configuriamo attraverso quello che noi facciamo: noi tutti siamo corresponsabili di quello che sarà[...].
11.
LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ DEGLI INTELLETTUALI[58]
Il futuro è decisamente aperto. Esso dipende da noi; da tutti noi. Dipende da quello che noi e molte altre persone facciamo e faremo; oggi e domani e dopodomani. E quello che facciamo e faremo dipende a sua volta dai nostri pensieri; e dai nostri desideri, dalle nostre speranze, dalle nostre paure. Dipende da come vediamo il mondo; e da come valutiamo le possibilità largamente disponibili del futuro.
Questo comporta per noi tutti una grande responsabilità. E la responsabilità diventa ancora maggiore se saremo consapevoli della verità che non sappiamo nulla; o che sappiamo così poco che siamo giustificati a definire questo poco come «nulla». Perché non è niente in confronto a tutto quello che dovremmo sapere per prendere le giuste decisioni.
Il primo che vide questo fu Socrate. Egli disse che un politico deve essere saggio − abbastanza saggio da sapere di non sapere nulla. Anche Platone affermò che un politico, e innanzitutto un Re, deve essere saggio; ma con queste parole egli intendeva qualcosa di completamente diverso da Socrate. Egli voleva dire che i Re devono essere filosofi e che dovevano andare a scuola da lui, da Platone, per imparare la dialettica platonica − qualcosa di estremamente profondo e complicato; o, ancor meglio, che i filosofi di grande sapienza e dottrina come, per esempio, era egli stesso, sarebbero dovuti diventare Re e governare il mondo. Platone mise questa proposta in bocca a Socrate, il che portò ad alcuni malintesi. I filosofi si entusiasmarono, e molto, nel sentire che dovevano diventare Re, e l’incredibile differenza tra quanto dai politici richiedeva Socrate e quanto da loro esigeva Platone scomparve nella nebbia della dialettica filosofica. È questa la ragione per cui ancora una volta vorrei chiarire quella differenza. La formula: «l’uomo politico deve essere saggio» per Platone significa che i dotti filosofi devono pretendere il dominio politico − e da qui la pretesa al dominio politico da parte dei dotti, degli intellettuali, dell'«élite». In netta contrapposizione a Platone, questa stessa formula: «l’uomo politico deve essere saggio» significa per Socrate che l’uomo politico dovrebbe conoscere quanto poco sa; e di conseguenza dovrebbe essere estremamente modesto nelle sue pretese. È così che egli avverte la sua grande responsabilità per la guerra e la pace, e sa quanto male può causare. Sa quanto poco sa. «Conosci te stesso!», grida Socrate, «conosci te stesso, e confessa a te stesso quanto poco sai!» (cfr. Senofonte, Memorabili, IX, 6). Questa è la posizione di Socrate, la saggezza socratica. «Conosci te stesso, confessa a te stesso la tua ignoranza!». Di solito, in realtà, il platonico non è un Re, ma è sempre il leader onnisciente di partito; e benché abitualmente il partito che egli guida consista solo di lui stesso, si dà però, all’opposto, che sono platonici quasi tutti i leader di partito, e in particolare i leader di partiti aggressivi, e i leader di partiti di successo. E ciò perché saranno proprio i migliori e i meglio informati e perciò i più saggi, di cui parla Platone, che devono essere i nostri governanti.
«Chi deve governare?» è la domanda fondamentale della filosofia politica platonica. E la risposta di Platone è: «Deve governare il migliore e allo stesso tempo il più saggio!». Di primo acchito, questa risposta sembra essere inevitabile e apparentemente esatta. Ma che cosa accadrà se il migliore e il più saggio non si considererà come migliore e il più saggio, e perciò rifiuterà il governo? E questo esattamente è quanto un socratico si aspetterebbe dal migliore e dal più saggio! Un socratico, di certo, penserebbe anche che un uomo, il quale si consideri il migliore e il più saggio, deve essere pazzo e perciò non può essere né buono né saggio (si veda il brano di Senofonte sopra richiamato).
È chiaro che la domanda: «chi deve comandare?» è una domanda posta in modo completamente errato. Tuttavia, essa è stata riproposta, sempre e di continuo, fino ad oggi e ha sempre ricevuto risposte sulla scia di quella di Platone. Per lungo tempo la risposta è stata: deve comandare l’imperatore eletto dai soldati, perché solo lui può avere la forza di mantenersi al potere. Più tardi si disse: deve comandare il principe legittimo per grazia di Dio. Ancora Marx chiese: Chi deve avere il potere, il potere «dittatoriale»? I proletari o i capitalisti? Ecco la sua risposta: devono comandare i buoni, i proletari con coscienza di classe. Certo, non i cattivi ed egoisti capitalisti. E certo neanche il sottoproletariato. Questo si deve accontentare, secondo Marx, di venire insultato. (Da noi è scomparso.)
Anche i più tra i teorici della democrazia rispondono ancora sempre alla domanda platonica: «chi deve comandare?». La loro teoria consiste nel sostituire la risposta ovvia a partire dal Medioevo: «deve comandare il principe legittimo per grazia di Dio» con: «deve comandare il popolo per grazia di Dio», dove le parole «per grazia di Dio» vengono fatte cadere o vengono sostituite all’incirca con: «il popolo per grazia del popolo». Così si diceva già a Roma: Vox populi vox dei; in italiano: la voce del popolo è la voce di Dio.
La domanda platonica: «chi deve comandare?» riemerge di continuo, essa svolge ancora e sempre un grande ruolo nella teoria della politica, nella teoria della legittimazione del potere, e in particolare nella teoria della democrazia. Si dice che un governo abbia il diritto di governare se è legittimo, se cioè sia stato eletto secondo le regole della costituzione da una maggioranza del popolo o dei suoi rappresentanti. Ma non possiamo dimenticare che Hitler salì al potere in modo legittimo e che la legge di attribuzione di pieni poteri − legge che fece di lui un dittatore − fu votata da una maggioranza parlamentare. Il principio di legittimità non è sufficiente. È una risposta alla domanda platonica: «chi deve comandare?». Quel che dobbiamo fare è esattamente cambiare la domanda stessa.
Abbiamo visto che anche il principio del governo del popolo è una risposta alla domanda platonica. È un principio pericoloso. Una dittatura della maggioranza può essere terribile per la minoranza.
Ho pubblicato 44 anni fa un libro: The Open Society and Its Enemies, in italiano La società aperta e i suoi nemici. Il libro fu scritto come mio contributo alla seconda guerra mondiale. In questo libro feci la proposta di sostituire la domanda di Platone: «chi deve comandare?» con una domanda radicalmente diversa; con la domanda: «come possiamo configurare la costituzione dello Stato, in modo che sia possibile licenziare il governo senza spargimento di sangue?».
Una domanda siffatta non pone l’accento sul tipo di insediamento del governo, bensì sulla possibilità della sua destituzione.
La parola «democrazia», che significa «governo del popolo», è purtroppo un pericolo. Ogni membro del popolo sa di non comandare e avverte perciò che la democrazia è un inganno. Qui sta il pericolo. È importante che si impari già nella scuola che il nome «democrazia» è a partire dalla democrazia ateniese il nome tradizionale per una Costituzione che deve impedire una dittatura, una «tirannide». La dittatura, la tirannide, è la cosa peggiore, come abbiamo proprio visto ancora una volta in Cina. Non la si può eliminare senza che si sparga sangue, ma abitualmente neppure «con» spargimento di sangue: i dittatori sono oggi sempre troppo forti, com’anche potemmo già constatare nel tentativo di insurrezione contro Hitler, il 20 luglio 1944.
Ma ogni dittatura è immorale. Ogni dittatura è moralmente cattiva. Questo è il primo basilare principio morale per la democrazia come forma di governo, in cui il governo può essere destituito senza spargimento di sangue. La dittatura è moralmente cattiva perché condanna i cittadini a collaborare con il male contro la loro migliore scienza e coscienza, contro la loro convinzione morale, almeno con il loro silenzio. Essa toglie all’uomo la responsabilità umana; e, privo di responsabilità, l’uomo è soltanto un mezzo uomo, un centesimo di uomo. Essa trasforma ogni tentativo da parte di qualcuno di portare la propria responsabilità umana, in un tentativo di suicidio.
Può essere dimostrato storicamente che già la democrazia ateniese, almeno fino a Pericle e Tucidide, non era tanto un governo del popolo quanto un tentativo di evitare ad ogni costo la tirannide. Il prezzo fu alto, forse troppo alto, e venne dopo 100 anni circa. Il prezzo fu quel tanto spesso malinteso ostracismo, un’istituzione per mezzo della quale ogni cittadino, se diventava troppo popolare, poteva e doveva essere esiliato proprio a motivo della sua popolarità. In tal modo vennero esiliati i più valorosi uomini politici, come Aristide e soprattutto Temistocle. È un non-senso dire che Aristide fu esiliato perché ostacolava la strada a Temistocle o perché il suo nomignolo «il Giusto» rendeva gelosi i suoi concittadini. La questione è ben diversa: il nomignolo mostra che Aristide era popolare, era troppo popolare, e la funzione dell’ostracismo era esattamente quella di non fare emergere un dittatore populista. Soltanto questa fu la ragione del suo esilio, come pure di quello di Temistocle.
Pericle stesso sembrò essere convinto che la democrazia ateniese non fosse governo del popolo, e che un governo del popolo non possa semplicemente esistere. Difatti, nel suo grande discorso, come viene riportato da Tucidide, egli asserì: «Benché solo pochi siano in grado di dar vita ad una politica, siamo però tutti capaci di giudicarla». E questo significa: non possiamo tutti governare o dirigere, ma possiamo tutti giudicare un governo, possiamo fungere da giudici.
Proprio in questo dovrebbe consistere, secondo me, il giorno delle elezioni. Non un giorno che legittima il nuovo governo, bensì un giorno in cui tutti giudichiamo il vecchio governo. Il giorno in cui il governo deve rispondere delle proprie azioni.
Vorrei adesso mostrare brevemente che la differenza su cui qui pongo l’accento, la differenza tra la democrazia come governo del popolo e la democrazia come giudizio del popolo, ha anche conseguenze pratiche.
In nessun modo si tratta di una differenza solo verbale. Questo si vede nel fatto che l’idea del governo del popolo conduce a propugnare una rappresentanza popolare di tipo proporzionale. Ogni gruppo di opinione, ogni partito, anche partiti piuttosto piccoli, dovrebbero essere rappresentati, così che la rappresentanza popolare divenga uno specchio del popolo e così che possibilmente si realizzi l’idea di un governo del popolo. Ho anche letto la terribile proposta che ogni cittadino e ogni cittadina dovrebbero pronunciarsi direttamente con un pulsante elettrico su ogni punto discusso dai rappresentanti del popolo in televisione. Si dice inoltre che dal punto di vista della democrazia, intesa come governo del popolo, l’iniziativa popolare deve essere bene accolta.
La cosa appare molto diversamente dalla prospettiva da me sostenuta della democrazia come giudizio del popolo. Considero come una sfortuna partiti troppo numerosi; e perciò anche il sistema elettorale proporzionale. E ciò per la ragione che un numero elevato di partiti porta a governi di coalizione in cui nessuno è responsabile davanti al popolo come tribunale, dato che tutto è un compromesso inevitabile. Inoltre, sarà proprio molto difficile poter licenziare un governo, dato che il partito al governo, che non ha più la maggioranza assoluta, ha bisogno solo di trovare un nuovo piccolo partner di coalizione per poter continuare a governare. Se ci sono pochi partiti, allora i governi saranno piuttosto governi di maggioranza e la loro responsabilità sarà chiara e precisa. E non vedo alcun valore nel cercare di rispecchiare le opinioni della popolazione proporzionalmente nella rappresentanza popolare e non già nel governo. Questo conduce alla irresponsabilità del governo, perché lo specchio non può essere responsabile rispetto al suo originale.
Ma l’obiezione forse più forte contro la teoria del governo del popolo è che essa favorisce una ideologia irrazionale, una superstizione: la superstizione autoritaria e relativistica che il popolo (o la maggioranza) non può avere torto e che è impossibile che agisca ingiustamente. Questa ideologia è immorale e deve essere rifiutata. Sappiamo da Tucidide che la democrazia ateniese (che per molti aspetti io ammiro) ha anche preso decisioni criminali. Attaccò (se pure non senza avvertimento) la neutrale città insulare di Melos, uccise tutti gli uomini e vendette tutte le donne e i bambini sui grandi mercati degli schiavi. La democrazia ateniese fu capace di questo.
E il parlamento tedesco della Repubblica di Weimar eletto liberamente fu capace di fare di Hitler un dittatore tramite una procedura legittima consistente in una legge di trasferimento dei pieni poteri. Benché Hitler non abbia mai vinto una elezione libera in Germania, egli tuttavia festeggiò in Austria una incredibile vittoria elettorale dopo l’annessione violenta.
Noi tutti siamo fallibili, e il popolo, o ogni altro gruppo di persone, sono altrettanto fallibili E se io parlo a sostegno del fatto che un popolo possa destituire il proprio governo, lo faccio solo perché non conosco nessun metodo migliore per evitare la tirannide. Pure la democrazia intesa quale giudizio del popolo − così come io la difendo − è tutt’altro che infallibile. Per essa vale l’espressione ironica di Winston Churchill, il quale disse: «La democrazia è la peggiore di tutte le forme di governo, con la sola eccezione di tutte le altre forme di governo».
Per riassumere le mie considerazioni sin qui svolte, direi: la differenza tra le due idee, la democrazia come governo del popolo e la democrazia come giudizio del popolo − o come strumento per evitare un governo che non si può licenziare, dunque una tirannide −, non è in alcun modo verbale; è piuttosto una differenza che ha conseguenze pratiche importanti; ed è rilevante anche per la Svizzera. Nondimeno, per quanto io ne sappia, nelle scuole elementari e nei ginnasi si insegna ancora molto spesso la dannosa e ideologica teoria del governo del popolo, piuttosto che la teoria molto più moderata e realistica di come evitare la dittatura, un tipo di governo moralmente intollerabile e insopportabile.
A questo punto vorrei ritornare all’inizio. Il futuro è decisamente aperto, noi possiamo influire su di esso. Noi abbiamo, dunque, una grande responsabilità, e sappiamo pressoché nulla. Cosa dobbiamo fare per essere d’aiuto? Possiamo fare qualcosa per evitare orribili eventi, come quelli che hanno luogo nell’Estremo Oriente? Voglio dire il nazionalismo, il razzismo, le vittime di Pol Pot in Cambogia, le vittime dell’Ayatollah in Iran, le vittime dei Russi in Afghanistan, le più recenti vittime in Cina? Cosa possiamo fare per evitare questi eventi inconcepibili? Possiamo veramente fare qualcosa, evitare che accada qualcosa di malvagio?
La mia risposta a questa domanda è: sì. Credo che noi possiamo fare molto.
E quando dico «noi», io penso agli intellettuali, dunque a persone interessate alle idee; in particolare, pertanto, a persone che leggono e che forse anche scrivono.
Perché penso che noi, gli intellettuali, possiamo essere d'aiuto?
Semplicemente perché noi, gli intellettuali, abbiamo causato da migliaia di anni i danni più terribili. L'eccidio di massa nel nome di un’idea, di una dottrina, di una teoria − questo è opera nostra, nostra invenzione: l'invenzione degli intellettuali. Se solo smettessimo di aizzare − spesso magari con le migliori intenzioni − gli uomini gli uni contro gli altri, solo con ciò si sarebbe già raggiunto molto. Nessuno può dire che questo è impossibile per noi.
Il più importante dei dieci comandamenti dice: Non uccidere! Esso contiene quasi tutta l’etica. Il modo in cui, per esempio, Schopenhauer formula l'etica è solo una specificazione di questo basilare comandamento. L'etica di Schopenhauer è semplice, diretta, chiara. Dice: Non danneggiare nessuno e non offendere nessuno; piuttosto, aiuta tutti, per quanto ti è possibile.
Ma cosa accadde quando Mosè scese per la prima volta dal Monte Sinai con le tavole di pietra, ancora prima che potesse annunciare i dieci comandamenti? Scoprì una eresia meritevole di morte, l'eresia del vitello d'oro. Dimenticò quindi il comandamento: «Non devi uccidere!» e gridò:
«Chi sta con il Signore venga da me… Dice il Signore, il Dio d'Israele: Ciascuno di voi tenga la spada al fianco… e uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente… E in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo»[59].
Questo era, forse, l'inizio. Ma è certo che nella Terra Santa la tragedia continuò come anche più tardi qui in Occidente; e qui, in particolare, dopo che il cristianesimo divenne religione di Stato. È una storia spaventosa di persecuzioni religiose, persecuzioni in nome dell'ortodossia. Più tardi − soprattutto nel XVII e XVIII secolo − si aggiunsero poi ancora altri motivi di fedi ideologiche per giustificare le persecuzioni, l’orrore e il terrore: la nazionalità, la razza o la classe; l’eresia politica o religiosa.
Nell’idea di ortodossia e di eresia sono nascosti i vizi più meschini; quei vizi verso i quali noi intellettuali siamo particolarmente inclini: l’arroganza, la prepotenza, la saccenteria, la vanità intellettuale. Questi sono vizi meschini − non grandi vizi come la crudeltà. Ma anche la crudeltà non è un vizio affatto sconosciuto tra noi intellettuali. Nel campo della crudeltà anche noi abbiamo prodotto qualcosa. Si pensi soltanto ai medici nazisti, che uccidevano anziani e malati già prima di Auschwitz e della cosiddetta «soluzione finale» della questione ebraica.
Siamo stati e siamo noi intellettuali ad aver continuamente fatto le cose più cattive per viltà, per presunzione, per orgoglio. Noi, che abbiamo un particolare obbligo verso coloro che non potettero studiare, siamo i traditori dello spirito, per usare l’espressione con cui ci ha descritti il grande neoilluminista francese Julien Benda. Abbiamo inventato e propagato il nazionalismo, come ha mostrato lo stesso Benda, seguiamo tutte le mode stupide. Vogliamo metterci in mostra e parliamo un linguaggio incomprensibile, fatto solo per impressionare, erudito, artificioso, che abbiamo imparato dai nostri insegnanti hegeliani e che unisce tutti gli hegeliani. È questo l’inquinamento del linguaggio, l’inquinamento della lingua tedesca, in cui cerchiamo tutti di rivaleggiare. È l’inquinamento della lingua che rende proprio impossibile agli altri di parlare con noi intellettuali in modo razionale e non permette loro di capire che spesso noi parliamo senza senso e che peschiamo nel torbido.
Il male che abbiamo causato nel passato è spaventoso. Da allora − da quando siamo liberi di dire e scrivere tutto − siamo forse diventati più responsabili?
Ho scritto una volta, parlando dell’utopia di Platone, che coloro che volevano costruire il paradiso in terra hanno sempre costruito solo un inferno. Ma molti intellettuali furono intensissimamente entusiasti dell’inferno di Hitler. Il famoso psicologo svizzero, Carl Gustav Jung, scoprì nell'inferno di Hitler un nuovo slancio dell’anima tedesca. Jung, allora, non doveva neppure avere tanta paura, dato che viveva in Svizzera. E dopo la morte di Hitler dimenticò quello che egli aveva precedentemente scritto e parlò del male radicale nella natura dell’animo tedesco.
Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt fondarono con la loro Carta Atlantica un mondo nuovo, i cui presupposti erano stati però creati dai giovani piloti da combattimento, i quali si erano sacrificati per noi nella decisiva battaglia aerea nei cieli della Gran Bretagna nel 1940 e nel 1941, da quei piloti che lottarono con la morte sicura negli occhi, senza considerazione alcuna per se stessi. Invece che nell’inferno di Hitler, l’Europa occidentale vive dai giorni della vittoria su Hitler nel paradiso della pace europea, nel mondo più giusto e migliore di cui abbiamo memoria storica. E se Stalin avesse cooperato, noi oggi avremmo per mezzo delle Nazioni Unite non solo la pace europea e nord-atlantica, bensì la pace mondiale, e il piano Marshall americano sarebbe diventato un piano mondiale.
Sennonché, appena costruito il nuovo benessere e in Occidente tutto andava bene, cominciò allora a levarsi alto il lamento degli intellettuali con la loro condanna nei confronti dei nostri tempi maligni, della nostra società, della nostra civiltà e del nostro ambiente. Iniziarono le incredibili esagerazioni sulle distruzioni e sugli inquinamenti, che noi avremmo causato per avidità di denaro, per spazzar via del tutto il più rapidamente possibile quel che resta di un mondo una volta così bello. È vero che la vita è sempre in pericolo. Tutti noi, così penso, moriremo, prima o poi. Il pericolo c’è sempre stato, sempre dall’origine della vita, anche per l’ambiente.
Noi siamo, grazie alla scienza della natura e alla tecnologia e all’industria, per la prima volta dalla comparsa del nostro sistema solare, nella condizione di fare qualcosa per l’ambiente, e tutti gli scienziati della natura e i tecnici si preoccupano a questo riguardo. Ma vengono accusati di distruggere la natura. Nel frattempo sono stati salvati con tutta calma già da molto tempo il meraviglioso Lago di Zurigo e anche l’immenso Lago Michigan, sul quale si affaccia Chicago. La vita in questi laghi è stata salvata attraverso la cooperazione della scienza, della tecnologia e dell’industria. È stata proprio la prima di operazioni analoghe nella storia di questo sistema solare dalla nascita della vita.
Il mondo non è facile da governare. Ogni specie animale, ogni specie vegetale, ogni specie batterica influenzano l’ambiente di tutte le altre specie. Forse il nostro influsso è maggiore. Ma è sempre possibile che un nuovo virus, una nuova epidemia di virus, ma anche una nuova epidemia batterica distrugga l’umanità in poco tempo.
Non è facile tenere la natura sotto controllo. Una democrazia non è una cosa facile. Come già ho detto, Churchill disse che la democrazia è la peggiore di tutte le forme di governo, con la sola eccezione di tutte le altre. Vorrei qui spiegare quello che Churchill non disse chiaramente: per il governo la democrazia è la forma di molto più scomoda e più difficile, perché i governi sono continuamente minacciati di venir destituiti. Devono essere responsabili verso noi tutti. Devono un poco temerci. Questo va proprio bene, ma rende il loro lavoro difficile. Siamo la giuria, i giurati, ma il nostro pericolo è di essere sedotti dalla irreligione di volta in volta creduta da tutti. Il cosiddetto spirito del tempo di Hegel, che è sempre pericoloso, le ideologie alla moda, che sono quasi sempre fondamentalmente stupide e considerano sempre il falso per vero, anche se la verità sta lì tanto chiara davanti ai nostri occhi: tutto questo ci corrompe come giurati e come giuria.
Hitler, proprio come me, potette imparare da insegnanti entusiasti quello che costoro credevano nel profondo del loro animo: il mondo sarà guarito dai tedeschi e «Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt» («Germania, Germania sopra tutto, sopra tutto nel mondo»). E Adolf credeva questo, insieme con molti altri poveri giovani, con milioni di altre giovani coraggiose persone, che morirono nelle due guerre tedesche per conquistare l’egemonia in Europa, e con ancora più milioni di poveri giovani, di nemici valorosi, che morirono insieme, nemici che combatterono altrettanto sinceramente per la libertà e la pace quanto i giovani tedeschi per la grandezza e per l'egemonia della Germania, per l’Imperatore, il Signore Supremo della Guerra e per il Führer.
Oggi possiamo e dobbiamo guardare in faccia alla verità. L'ideologia tedesca era un'illusione, come ha dimostrato un grande e valoroso storico tedesco (parlo del professore Fritz Fischer). Ancora più chiaramente: era una menzogna. L'ideologia occidentale, nonostante tutto lo scherno e le menzogne riversati su di essa, era la verità. L'Occidente combatteva per la pace, e la raggiunse in Europa, un Continente dissestato dalle guerre sin dall’inizio della storia dell’umanità, e la raggiunse quasi ovunque, dove gli Europei occidentali esercitano realmente il loro influsso.
Ma gli intellettuali irresponsabili vedono solo malvagità nel nostro mondo occidentale europeo. Hanno fondato la nuova religione dove si insegna che il nostro mondo è ingiusto ed è condannato alla fine. Hanno insegnato queste cose sin dal libro di Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente), perché vollero essere originali e desideravano dire cose che stessero in contraddizione con l'evidenza. E riuscì loro di distorcere non solo l’apparenza, bensì anche la verità oggettiva.
Non intendo accusare più a lungo gli intellettuali. Voglio invitarli a prendersi finalmente la loro responsabilità nei confronti dell’umanità e della verità. La nostra libertà permette loro di dire tutto e anche di inveire contro il mondo libero, di far passare per cattivo il mondo libero.
Questo è un loro buon diritto. Ma la loro è pura falsità ed è immorale predicare la falsità, anche se si ha il diritto di farlo. E non solo è immorale, ma è anche da irresponsabili, mettere in pericolo quella grande cosa che Churchill e Roosevelt, gli eroi di guerra, e il Piano Marshall conseguirono, è appunto da irresponsabili mettere in pericolo questa grande cosa screditandola e facendo passare il bene per male.
Vorrei far presente che ora anche i Russi iniziano ad apprezzare il nostro mondo, la nostra pace e che per questo − forse − si può contare su di una pace molto più grande nell'ambito del non più assolutamente impossibile e utopico. In vista di ciò, è nostro dovere fare tutto quel che possiamo e non bloccare queste possibilità stravolgendo la verità sul paradiso e sull'inferno.
Vengo ora all'ultima parte.
Riassumo ancora una volta il tutto. In Occidente viviamo in cielo, naturalmente nel primo cielo e non ancora nel settimo cielo. Il nostro cielo è suscettibile di molti miglioramenti. Non ci è permesso di lagnarci ancora del nostro mondo e peggiorarlo. Esso è di gran lunga il migliore che ci sia stato sulla faccia della terra e soprattutto in Europa. La verità è che siamo lieti di fare riforme. E questo è vero da nessuna parte come negli Stati Uniti. Siamo uomini di buona volontà e pronti al sacrificio. Questo hanno provato i soldati su entrambi i fronti. Con ciò si sono create le condizioni più importanti per realizzare la pace in terra. Ma una condizione necessaria è che i Russi collaborino! Se essi collaboreranno, allora − forse − si potrà realizzare il sogno di Churchill e Roosevelt, e non solo in Europa bensì in tutto il mondo.
E per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale sembra proprio che i Russi vogliano collaborare! Sacharov, il grande e coraggioso solitario, dice che non dobbiamo fidarci di Gorbaciov, un dittatore fin troppo potente. Sacharov afferma anche che l'Unione Sovietica si trova forse vicina al suo collasso. Ma noi non possiamo volere questa fine. Essa comporterebbe per l'Unione Sovietica sofferenze incommensurabili; e grandi pericoli per la pace. Condurrebbe forse ad una dittatura militare − ad una dittatura dell'armata, della flotta e della aeronautica più colossali (anche se forse non migliori) che si siano mai viste. E tutto ciò distruggerebbe la speranza nella pace.
George Soros, che conosce bene la Russia, anche se non così bene quanto Sacharov, analizza tutti tali pericoli in un importante articolo apparso sulla New York Review of Books. Egli, però, sostiene che la Russia cerca davvero la collaborazione con l'Occidente. I Russi sanno meglio di noi dove è il paradiso e dove è l'inferno.
Per rendere possibile questa collaborazione dobbiamo innanzitutto essere noi stessi consapevoli di quello che abbiamo conseguito e dei mezzi che nella libertà abbiamo usato per raggiungere i nostri scopi. Solo allora potremo offrire il nostro aiuto ai Russi, qualora siano disposti a disfarsi della loro armata. E ciò con tutte le misure precauzionali.
Queste possibilità stanno davanti a noi. Esigono da noi intellettuali che finalmente guardiamo in faccia la verità oggettiva e che non scambiamo ancora una volta l’uno con l’altro, come nel passato, il paradiso e l’infemo.
Dobbiamo sapere che non sappiamo nulla – o quasi nulla. E che Gorbaciov è certamente nella stessa posizione. Per avvicinarci anche solo di un passo alla pace, dobbiamo rinunziare alle ideologie, in particolare anche all’ideologia di un disarmo unilaterale tanto pericoloso per la pace. Dobbiamo, avanzando criticamente a tentoni, come avanzano a tentoni i coleotteri, cercare la verità oggettiva in tutta modestia. Non dobbiamo più cercare di posare a profeti onniscienti. Ma questo significa che dobbiamo cambiare noi stessi.