sabato 8 gennaio 2022


IL RITORNO DI CORB 

Estratto da "UNA BELLEZZA  RUSSA  ed altri racconti" Vladimir Nabokov 

I Keller lasciarono l'Opera tardi. In quella pacifica cittadina tedesca, dove perfino l'aria sembrava un po' opaca, e una serie obliqua di increspature sul fiume sfumava delicatamente il riflesso della cattedrale da più di sette secoli, Wagner era una faccenda tranquilla, presentata in modo appetitoso per rimpinzarti di musica. Dopo l'opera, Keller portò sua moglie in un elegante night, rinomato per il vino bianco. Era già dopo l'una quando la loro auto, illuminata con frivolezza all'interno, percorse veloce le strade deserte e li depositò davanti al cancelletto di ferro della loro villa, piccola ma decorosa. Keller, un tedesco atticciato e anziano che assomigliava molto all'Oom(1) Paul Kruger, scese per primo sul marciapiede, dove le ombre sinuose delle foglie si muovevano al grigio chiarore di un lampione. Per un istante il suo sparato e le perline a goccia che ornavano il vestito della moglie catturarono un riverbero di luce, mentre lei districava una gamba robusta e scendeva a sua volta dalla macchina. La cameriera andò loro incontro nel vestibolo e, ancora sull'onda dell'improvvisa notizia, disse in un sussurro impaurito che era passato Corb. La faccia paffuta di Frau Keller, la cui perenne freschezza si accordava in qualche modo con le sue ascendenze mercantili russe, fremette e si fece rossa per l'agitazione.

«Ha detto che era malata?».

La cameriera prese a sussurrare con un ritmo ancora più incalzante. Keller si lisciò i capelli grigi tagliati a spazzola con il palmo grasso della mano, e un cipiglio da vecchio calò sul suo viso largo e un po' scimmiesco, dal labbro superiore prominente e dalle profonde rughe.

«Mi rifiuto categoricamente di aspettare fino a domani» borbottò Frau Keller, scuotendo la testa mentre ruotava pesantamente su se stessa, cercando di acchiappare l'estremità della veletta che ricopriva la parrucca castana. «Ci andremo subito. Dio mio, Dio mio! Si capisce perché mancano lettere da più di un mese».

Keller aprì il gibus con un pugno e disse nel suo russo preciso e un po' gutturale: «Quell'uomo è pazzo. Se è malata, come si permette di portarla un'altra volta in quello squallido albergo?».

Naturalmente, però, si sbagliavano pensando che la loro figlia fosse malata. Corb aveva detto così alla cameriera perché gli veniva più facile. In realtà era rientrato dall'estero senza di lei e si era reso conto solo allora che, volente o nolente, avrebbe dovuto spiegare come era morta sua moglie, e perché non aveva scritto nulla ai suoceri. Era tutto molto difficile. Come spiegare che desiderava tenere per sé il dolore, senza inquinarlo con sostanze estranee e senza condividerlo con qualsivoglia altra anima? La morte di lei gli sembrava un caso rarissimo e quasi inaudito; gli pareva che nulla potesse essere più puro di una tale morte, provocata dall'impatto con una corrente elettrica, quella stessa che, riversata in un contenitore di vetro, genera appunto la luce più pura e brillante.

Da quel giorno di primavera quando, lungo una strada bianca, a una dozzina di chilometri da Nizza, lei aveva toccato ridendo il filo sotto tensione di un palo abbattuto da un temporale, l'intero mondo di Corb aveva perso la sua sonorità, si era ritratto all'improvviso, e perfino il corpo esanime che egli aveva portato in braccio al più vicino villaggio gli era parso alieno e inutile.

A Nizza, dove si era dovuto seppellirla, il sacerdote, tisico e antipatico, aveva tentato invano di cavargli i particolari:

Corb rispondeva soltanto con un sorriso smorto. Sedeva tutto il giorno sulla spiaggia ghiaiosa, raccogliendo sassolini colorati e facendoli scorrere da una mano all'altra; poi, improvvisamente, senza aspettare il funerale, era ripartito per la Germania.

Ripercorse a ritroso tutti i luoghi visitati insieme durante il viaggio di nozze. In Svizzera, dove avevano trascorso l'inverno e dove ora i meli buttavano l'ultima fioritura, non riconobbe nulla eccetto gli alberghi. In quanto alla Foresta Nera, che avevano attraversato a piedi l'autunno precedente, la frescura primaverile non era di ostacolo ai ricordi. E proprio come, su una spiaggia del Sud, aveva tentato di ritrovare quel sassolino, esemplare unico, nero e tondeggiante, con la sua piccola, uniforme cinta bianca, che lei gli aveva mostrato per caso alla vigilia della loro ultima passeggiata, così ora faceva del suo meglio per cercare lungo la strada tutti i particolari che gli ricordavano le esclamazioni di lei: quel certo profilo di una rupe, una capanna con un tetto lastricato di lamelle grigio argento, un abete nero, una passerella sopra un bianco torrente, e qualcosa che si sarebbe potuto prendere per una specie di prefigurazione fatidica: la curva radiale di una ragnatela tra due fili del telegrafo imperlati di goccioline di nebbia. Lei lo accompagnava: i suoi stivaletti procedevano rapidi e le sue mani non smettevano di muoversi, muoversi – per staccare una foglia da un cespuglio o accarezzare di sfuggita una parete di roccia – mani leggere, ridenti, che non conoscevano il riposo. Lui vedeva quel suo piccolo viso con le fitte lentiggini scure, e i suoi occhi grandi di un verde pallido, il colore dei cocci di vetro levigati dalle onde marine. Pensava che se fosse riuscito a radunare tutte le piccole cose che avevano notato insieme – se avesse così ricreato il passato prossimo – l'immagine di lei sarebbe diventata immortale e ne avrebbe preso il posto per sempre. Le notti, però, erano insopportabili. Le notti permeavano di un improvviso terrore la presenza irrazionale di lei. Non aveva quasi dormito durante le sue tre settimane di peregrinazioni – e ora scese, drogato di stanchezza, alla stazione che era stata, l'autunno precedente, il loro punto di partenza dalla tranquilla cittadina dove l'aveva incontrata e sposata.

Erano all'incirca le otto di sera. Al di là delle case il campanile della cattedrale si stagliava nero contro una striscia rossodorata di tramonto. Sulla piazza della stazione sostavano in fila gli stessi decrepiti fiacre. L'identico giornalaio lanciava il suo cupo grido crepuscolare. Lo stesso barboncino nero con gli occhi apatici stava alzando una sottile zampa posteriore accanto a una colonna pubblicitaria, centrando le lettere scarlatte di un cartellone che annunciava il Parsifal.

Il bagaglio di Corb consisteva in una valigia e in un grande baule color bronzo. Una vettura lo condusse attraverso la cittadina. Il vetturino continuava a sbattere con indolenza le redini mentre tratteneva il baule con una mano. Corb ricordò che a lei – non pronunciava mai il suo nome – piacevano le gite in carrozza.

In un vialetto dietro l'angolo dell'Opera municipale c'era un albergo, un edificio a tre piani di genere squallido dove si affittavano camere a settimana, oppure a ore. La pittura nera si era scrostata dai muri disegnando confini geografici; un pizzo sbrindellato schermava le finestre cispose; la porta d'ingresso, poco visibile, non era mai chiusa a chiave. Un lacchè pallido ma disinvolto lo guidò lungo un tortuoso corridoio che puzzava di umidità e cavoli bolliti verso una camera che Corb riconobbe dal quadro sopra il letto, una roseabaigneuse dentro una cornice dorata – era proprio quella in cui lui e sua moglie avevano passato la loro prima notte. Tutto la divertiva allora – il grassone in maniche di camicia che vomitava nel bel mezzo del corridoio, e il fatto che avevano scelto per caso un albergo così ripugnante, e la presenza di un delizioso capello biondo nel lavandino; ma ciò che la divertiva più di tutto era il modo in cui erano fuggiti da casa sua. Subito dopo essere rincasata dalla chiesa aveva fatto una corsa in camera per cambiarsi, mentre da basso gli ospiti si stavano radunando per la cena. Suo padre, con un frac di stoffa robusta, e un largo sorriso flaccido sul volto scimmiesco, dava una pacca sulla spalla di questo o di quello e serviva personalmente bicchierini di brandy. Sua madre, nel frattempo, conduceva le amiche più intime, due per volta, a ispezionare la camera destinata alla giovane coppia: in preda a una tenera emozione, sussurrando con un filo di voce, indicava l'enorme piumino, i fiori d'arancio, le pantofole nuove di zecca – un paio grande, a quadretti, l'altro, minuscolo, rosso, con pompon – che aveva allineato sul tappetino dove spiccava la scritta in caratteri gotici: «insieme fino alla tomba». Di lì a poco tutti si erano diretti al tavolo degli antipasti – mentre Corb e la moglie, dopo la più fulminea delle consultazioni, erano fuggiti dalla porta posteriore e solo il mattino seguente, mezz'ora prima della partenza del rapido, erano riapparsi per ritirare i bagagli. Frau Keller aveva passato tutta la notte in singhiozzi; suo marito, che aveva sempre avuto un atteggiamento sospettoso nei riguardi di Corb (un povero émigré russo, per giunta letterato), ora malediceva la scelta della figlia, il costo dei liquori, la polizia locale che non poteva fare nulla. Diverse volte, dopo la partenza dei giovani Corb, il vecchio era andato a guardare l'albergo nel vialetto dietro l'Opera, e da allora in poi quell'edificio tetro e uggioso per lui si era trasformato in un oggetto di disgusto e di attrazione, come il ricordo di un crimine.

Mentre portavano dentro il baule, Corb, immobile, continuava a guardare la rosea riproduzione. Quando la porta si chiuse, si chinò e aprì il baule. In un angolo della camera, dietro una striscia di carta da parati scollata dal muro, un topo frusciò e schizzò via come un giocattolo su ruote. Corb si voltò di scatto. La lampadina che pendeva con il suo cordone dal soffitto oscillava appena, e l'ombra scivolava lieve sul divano verde per poi spezzarsi sul bordo. Era su quel divano che lui aveva dormito la notte delle nozze. Lei occupava il letto, e si avvertiva il ritmo del suo respiro, regolare come quello di un bambino. Quella notte lui l'aveva baciata una sola volta – sull'incavo del collo –, non c'era stato altro.

Il topo era di nuovo al lavoro. Esistono suoni minimi che incutono più paura di un colpo d'arma da fuoco. Corb lasciò stare il baule e percorse la camera un paio di volte. Una falena si schiantò contro il lampadario con un colpo secco. Corb aprì la porta con uno strattone e uscì.

Mentre scendeva le scale si rendeva conto di quanto fosse esausto e, allorché si trovò nel vicolo, la foschia turchina della notte di maggio lo stordì. Quando svoltò nel viale accelerò il passo. Una piazza. Un Herzog di pietra. I neri contorni del parco cittadino. Adesso i castagni erano in fiore. Allora era autunno. Era andato a fare una lunga passeggiata con lei alla vigilia delle nozze. Com'era buono l'aroma terroso, umido e vagamente violetto che emanavano le foglie morte sparse sul marciapiede! Durante quelle incantevoli, nuvolose giornate il cielo era di un bianco opaco e la piccola pozzanghera che rifletteva i ramoscelli in mezzo all'asfalto nero sembrava una fotografia sottoesposta. Tra una villa e l'altra di pietra grigia, le quinte rigogliose e immobili degli alberi stavano ingiallendo, e davanti alla casa dei Keller le foglie di un pioppo prossimo ad avvizzire avevano acquistato la sfumatura dell'uva trasparente. Si intravedeva anche qualche betulla dietro le sbarre del cancello; l'edera avvolgeva compatta alcuni tronchi; Corb ci teneva a dirle che l'edera, in Russia, non cresce mai sulle betulle, e lei osservò che le tonalità fulve delle foglie minute ricordavano le lievi macchie di ruggine sulla biancheria stirata. Querce e castagni si allineavano lungo il marciapiede; un verde marciume vellutava la loro nera corteccia; ogni tanto una foglia si staccava e volava attraverso la strada come un brandello di carta da pacchi. Lei tentava di acchiapparla al volo con una paletta per bambini trovata presso un mucchio di mattoni rosa, in un punto della strada che stavano riparando. Un poco più in là, dal fumaiolo del camion degli operai usciva un fumo grigioblu che galleggiava obliquamente e si dissolveva tra i rami – e un operaio in pausa, una mano sul fianco, contemplava la signorina, leggera come una foglia morta, che saltellava qua e là con quella piccola pala nella mano alzata. Saltellava e rideva. Con la schiena un po' curva, Corb camminava dietro lei – e gli sembrava che quell'aroma di foglie morte fosse l'aroma stesso della felicità.

Ora, invece, riconosceva a stento la strada, ingombra com'era della notturna opulenza dei castagni. Davanti a lui baluginava un lampione; un ramo si abbassava sul vetro e in cima alcune foglie, sature di luce, erano addirittura traslucide. Egli si avvicinò. L'ombra del cancelletto, con il motivo a scacchiera tutto storto, balzò verso di lui dal marciapiede per impigliarsi nei suoi piedi. Al di là della staccionata, sul lato opposto di un indistinto sentiero di ghiaia, si innalzava la facciata di quella casa familiare, buia salvo una finestra aperta e illuminata. In quell'abisso d'ambra la cameriera era intenta a distendere sul letto, con un ampio gesto delle braccia, un lenzuolo brillante come la neve. Con voce forte e brusca Corb la chiamò. Con una mano stava aggrappato al cancello e il contatto rugiadoso del ferro sul palmo rimase tra i suoi ricordi più intensi.

La cameriera già si affrettava verso di lui. Come avrebbe detto più tardi a Frau Keller, quello che la impressionò più di tutto fu che Corb restò immobile sul marciapiede, nonostante lei avesse subito aperto il cancelletto. «Era senza cappello,» riferì «e la luce del lampione gli cadeva sulla fronte, e la fronte era tutta sudata, con i capelli incollati dal sudore. Gli dissi che Monsieur e Madame erano a teatro. Gli chiesi come mai era solo. I suoi occhi fiammeggiavano, il suo sguardo mi terrorizzava, e sembrava che non si facesse la barba da parecchio. Disse piano: "Di' loro che è malata". Io domandai: "Dove alloggiate?". Lui disse: "Solito posto" e poi soggiunse: "Non importa. Ripasso domattina". Gli suggerii di aspettare – ma lui non rispose e se ne andò».

Così Corb compì un viaggio a ritroso verso l'autentica origine dei suoi ricordi, una prova straziante, e tuttavia fonte di beatitudine, che ora volgeva alla sua conclusione. Restava ancora una notte da trascorrere in quella prima camera da letto del loro matrimonio, e già l'indomani quella prova sarebbe stata superata e l'immagine di lei sarebbe diventata perfetta.

Tuttavia, mentre si trascinava a fatica verso l'albergo, lungo il viale dove su ogni panchina sedevano figure dai contorni indistinti avvolte in un'oscurità azzurrina, Corb di colpo si rese conto che, anche esausto com'era, non avrebbe potuto addormentarsi da solo in quella stanza con la lampadina nuda e le crepe bisbiglianti. Raggiunse la piazza e arrancò lungo la via principale della città – ora sapeva che cosa doveva fare. La sua ricerca, però, durò parecchio: la cittadina era quieta e casta, e Corb non conosceva il vicolo segreto dove si poteva comprare l'amore. Solo dopo un'ora di inutile vagabondaggio, per via del quale le orecchie gli ronzavano e aveva i piedi in fiamme, riuscì a imboccare quella stradina – dopo di che si rivolse alla prima ragazza che gli aveva fatto un cenno.

«Tutta la notte» disse Corb, disserrando appena i denti.

La ragazza chinò il capo di lato, dondolò la borsa, e rispose: «Venticinque».

Lui annuì. Soltanto molto più tardi, gettandole casualmente uno sguardo, Corb notò con indifferenza che era abbastanza carina, anche se parecchio appassita, e che i suoi capelli tagliati alla maschietta erano biondi.

Era già stata alcune volte in quell'albergo con altri clienti, e l'inserviente smunto, dal naso aguzzo, che scendeva giù per le scale saltellando mentre loro salivano, le strizzò l'occhio con fare amichevole. Camminando lungo il corridoio potevano udire, dietro una delle porte, il cigolio di un letto, ritmico e greve, come un ceppo che venisse segato in due. Più in là ancora lo stesso monotono cigolio proveniente da un'altra stanza, e, nel passare oltre, la ragazza si voltò all'idietro verso Corb con un'espressione di freddo brio.

La fece entrare nella camera in silenzio – e subito, pregustando intensamente il sonno, prese a strappare via il colletto dal bottoncino. La ragazza gli venne molto vicino: «E se mi facessi un regalino?» suggerì con un sorriso.

Corb la osservò, sonnolento e distratto, mentre si rendeva conto lentamente di ciò che voleva dire la ragazza.

Lei ripose con cura le banconote nella borsa, emise un lieve sospiro e si strofinò di nuovo contro lui.

«Devo spogliarmi?» domandò scuotendo la zazzera.

«Sì, va' a letto» borbottò Corb. «Te ne darò ancora domattina».

La ragazza cominciò a sbottonarsi rapidamente il golfino, continuando a guardarlo di lato, presa un po' alla sprovvista dalla sua distrazione e dalla sua malinconia. Lui si spogliò con fretta e noncuranza, si coricò e si voltò verso il muro.

«Questo qui sì che è un pervertito» ipotizzò in maniera vaga la ragazza. Con gesti lenti ripiegò la camicetta e l'appoggiò su una sedia. Corb già dormiva profondamente.

La ragazza si aggirò per la camera. Notò che il coperchio del baule accanto alla finestra non era chiuso bene; se si accovacciava riusciva a sbirciare dentro. Strizzando gli occhi protese con cautela il braccio nudo e palpò un vestito da donna, una calza, dei brandelli di seta – il tutto era stipato disordinatamente e profumava in modo così gradevole da farle venire tristezza.

Dopo un po' si raddrizzò, sbadigliò, si grattò la coscia, e, così com'era, nuda salvo le calze, scostò la tenda dalla finestra. Dietro la tenda il battente era aperto e si poteva distinguere, nelle profondità vellutate, un angolo dell'Opera, la spalla nera di un Orfeo di pietra che si stagliava contro il blu della notte, e una fila di luci lungo la facciata dall'incerto profilo che si perdeva nell'oscurità. Laggiù, in lontananza, piccole silhouette scure sciamavano da porte luminose emergendo sui profili semicircolari dei gradini illuminati dell'avancorpo, ai quali accostavano automobili dai fari lucenti e dai lisci tettucci scintillanti. Solo quando le partenze ebbero termine e le luci svanirono la ragazza lasciò ricadere la tenda. Spense la luce e si distese nel letto accanto a Corb. Appena prima di addormentarsi si sorprese a pensare che una o due volte era già stata in quella stanza: ricordava il quadro rosa alla parete.

Il suo sonno non durò più di un'ora: la svegliò un ululato spaventoso che saliva dal profondo. Era Corb a urlare. Si era destato poco prima di mezzanotte, si era girato sul fianco e aveva visto sua moglie sdraiata accanto a lui. Urlava in modo orribile, con una violenza viscerale. Lo spettro bianco di una donna saltò giù dal letto. Quando lei, tremante, accese la luce, Corb stava seduto tra le coperte in disordine, la schiena contro il muro, e in mezzo alle sue dita aperte si poteva intravedere un occhio in cui ardeva una fiamma folle. Poi lentamente scoprì il viso, e altrettanto lentamente riconobbe la ragazza. Che con un mormorio spaventato si stava infilando rapida la camicetta.

Corb emise un sospiro di sollievo, rendendosi conto che l'ordalia era terminata. Si trasferì sul divano verde e rimase seduto lì, stringendosi le caviglie pelose mentre, con un sorriso insensato, contemplava la prostituta. Quel sorriso accrebbe il terrore di lei; si voltò, fermò l'ultimo gancetto, si allacciò gli stivali e si affrettò a indossare il cappello.

In quel momento dal corridoio venne un rumore di voci e di passi.

Si poteva udire l'inserviente che ripeteva con tono lugubre: «Ma guardi, c'è una signora con lui». E una voce rabbiosa e gutturale che invece insisteva: «E io le dico che è mia figlia».

I passi si fermarono davanti alla porta. Qualcuno bussò.

La ragazza agguantò la borsa che stava sul tavolo e spalancò la porta con decisione. Di fronte a lei stava un anziano signore stupefatto con un cilindro opaco, un bottoncino di madreperla brillava sulla camicia inamidata. Da dietro la sua spalla spuntava il viso rigato di lacrime di una robusta signora con una veletta sui capelli. Alle loro spalle l'inserviente pallido e mingherlino cercava di alzarsi sulla punta dei piedi, spalancando gli occhi e facendo gesti d'invito. La ragazza comprese e si precipitò nel corridoio passando accanto al vecchio che voltando la testa la seguì con lo stesso sguardo sconcertato, quindi varcò la soglia con la compagna. La porta si chiuse. La ragazza e l'inserviente rimasero nel corridoio. Si scambiarono un'occhiata impaurita e si chinarono per ascoltare. Ma nella camera tutto era silenzio. Sembrava incredibile che all'interno ci fossero tre persone. Da là non usciva neppure un suono.
«Non parlano» sussurrò l'inserviente, mettendosi un dito sulle labbra.


1. «Uncle», vale a dire «zio» in Afrikaans. Era questo il soprannome dell'allora popolare ancorché defunto presidente della Repubblica del Transvaal [N.d.C.].