RUMORE BIANCO
Don DeLillo
Recensione
Un romanzo distopico in cui realtà e paura della morte si intrecciano nella società contemporanea..
È la storia veramente geniale, folgorante, di un professore universitario specializzato in studi su Hitler che si trova in una serie di situazioni veramente esilaranti ma anche emblematiche, in una piccola cittadina americana.
De Lillo ci racconta, in questo libro del 1984, l'apocalisse postmoderna, con al centro il supermarket come luogo saturo di onde, radiazioni, lettere e numeri, voci e suoni in attesa di essere decodificato.
Rumori, sensazioni, accadimenti, omologazione, l’ ansia del presente, uno stato di precarietà impregnato di uno sguardo soggettivato attraversano età differenti e accadimenti, scontati, imprevisti, indecifrabili.
“ Rumore bianco è un'affresco con vista sul futuro di una società globalizzata ipertecnologica e omologante pervasa dalle frequenze del rumore bianco in un viaggio iperrealista e allucinogeno che si dibatte tra sogno e realtà, introducendo nell’ asettica quotidianità fuorviante concetti propriamente umani ( paura, morte ) senza una soluzione e una presa di posizione evidenti, lasciando che questo film contraddittorio di storie e di realtà allucinata rappresenti se’ stesso in un futuro aperto a una narrazione da scrivere e in parte già scritta.
RUMORE BIANCO
"A Sue Buck e a Lois Wallace"
PARTE PRIMA -
ONDE E RADIAZIONI
CAPITOLO PRIMO
Le station wagon arrivarono a mezzogiorno, lunga fila lucente che attraversò il settore occidentale del campus. In fila indiana girarono con cautela attorno alla scultura metallica in forma di I, color arancio, dirigendosi verso i dormitori. I tetti delle auto erano carichi di valige assicurate con cura, piene di abiti leggeri e pesanti; scatole di coperte, scarponi e scarpe, cancelleria e libri, lenzuola, cuscini, trapunte; tappeti arrotolati e sacchi a pelo; biciclette, sci, zaini, selle inglesi e western, gommoni già gonfiati. A mano a mano che rallentavano fino a mettersi a passo d'uomo e infine fermarsi, saltavano fuori velocissimi gli studenti, che si precipitavano agli sportelli posteriori per cominciare a scaricare gli oggetti sistemati nell'interno: gli stereo, le radio, i personal computer; piccoli frigo e fornellini portatili; scatole di dischi e cassette; asciuga e arricciacapelli; racchette da tennis, palloni da calcio, mazze da hockey e da lacrosse, frecce e archi; sostanze illegali, pillole e strumenti anticoncezionali; junk-food ancora nei sacchetti della spesa: patatine all'aglio e alla cipolla, "nachos", tortini di crema di arachidi, wafer e cracker, cicche alla frutta e popcorn caramellato; gazzose Dum-Dum, mentine Mystic.
È uno spettacolo cui assisto ogni settembre da ventun'anni. Un evento infallibilmente superbo. Gli studenti si salutano a vicenda con grida comiche e fingendo improvvisi svenimenti. L'estate l'hanno avuta gravida di piaceri proibiti, come sempre. I genitori se ne stanno lì, abbagliati dal sole, accanto alle auto, vedendo immagini riflesse di se stessi in tutte le direzioni. Abbronzature coscienziose. Volti ben composti e gli sguardi carichi di ironia. Avvertono un senso di rinnovamento, un mutuo riconoscersi. Le donne briose e vigili, con snelle figure denotanti dieta, conoscono i nomi di tutti. I mariti, paghi di calcolare quanto tempo è passato, distaccati ma comprensivi, esperti nel ruolo di genitore: ne spira un qualcosa che denota una copertura assicurativa stratosferica. È tale congrega di station wagon, come tutto ciò che a tali genitori capita di fare nel corso dell'anno, a confermare loro, più dei riti formali e delle leggi, come essi costituiscano un'accolta di persone dai pensieri uguali, dai valori simili, un popolo, una nazione.
Lasciai l'ufficio e scesi dalla Hill verso la città. Vi sono case con torrette e verande a due piani, dove la gente sta seduta all'ombra di vecchissimi aceri. Vi sono revival greci e chiese gotiche. C'è un manicomio con un portico allungato, gli abbaini decorati e un tetto spioventissimo sormontato da un ornamento cruciforme in forma di ananas. Babette e io, con i figli nati dai nostri precedenti matrimoni, abitiamo in fondo a una strada tranquilla, in quella che un tempo era una zona di boschi con profonde gole. Oltre il cortile sul retro adesso passa un'autostrada, molto infossata rispetto a noi, così che di notte, quando ci sistemiamo nel nostro letto di ottone, lo scarso traffico scorre via, mormorio remoto e regolare che avvolge il nostro sonno, quasi un chiacchiericcio di anime morte ai margini di un sogno.
Io sono preside del dipartimento di studi hitleriani presso il College-on-the-Hill. Sono stato io, nel marzo del '68, a inventare gli studi hitleriani in America del nord. Era una giornata fredda e luminosa, con venti intermittenti da est. Quando feci balenare nel rettore l'idea che avremmo potuto edificare un intero dipartimento attorno alla vita e all'opera di Hitler, fu lesto a coglierne le possibilità. Il successo fu immediato ed elettrizzante. Il rettore divenne consigliere per Nixon, Ford e Carter prima di morire su uno skilift in Austria.
All'incrocio tra la Quarta ed Elm Street le auto svoltano a sinistra verso il supermercato. Una poliziotta, accucciata in un veicolo in forma di scatolone, perlustra la zona in cerca di auto in divieto di parcheggio, di parchimetri violati, di bolli scaduti. Sui pali del telefono, per tutta la città, ci sono appiccicati casarecci cartelli riguardanti cani e gatti perduti, a volte redatti con calligrafia infantile.
CAPITOLO SECONDO
Babette è di alta statura e dimensioni piuttosto vaste. Ha una circonferenza e una pesantezza notevoli. I suoi capelli formano una zazzera di un biondo entusiasta, quella tonalità fulva che un tempo si definiva biondo sporco. Se fosse minuta, sarebbero troppo bamboleggianti, birichini, artefatti. La mole invece conferisce al suo aspetto arruffato una certa serietà. Le donne di vaste dimensioni a quelle cose non ci pensano. Mancano della furberia che serve per le trame del corpo. - Avresti dovuto esserci anche tu, - le dissi.
- Dove?
- È il giorno delle station wagon.
- Me lo sono perso un'altra volta? Dovresti essere tu a ricordarmelo.
- Arrivavano fino dopo la biblioteca di musica, giù fino all'interstatale. Celesti, verdi, viola, marron. Luccicavano al sole come una carovana del deserto.
- Lo sai che le cose bisogna ricordarmele, Jack. Babette, scarmigliata, ha la noncurante dignità di chi sia troppo preoccupato da argomenti seri per essere consapevole o curarsi del proprio aspetto. Non che dia grandi contributi nel senso generale del termine. Tira su e accudisce i bambini, tiene un corso in un programma educativo per adulti, fa parte di un gruppo di volontari che leggono ai ciechi. Una volta alla settimana fa un po' di lettura a un uomo anziano, di nome Treadwell, che abita in periferia. È noto come il Vecchio Treadwell, come se fosse un riferimento toponomastico, una formazione rocciosa o una palude. Babette gli legge qualcosa dal "National Enquirer", dal "National Examiner", dal "National Express", dal "Globe", dal "World", dallo "Star". Il vecchio pretende la sua dose settimanale di storie sensazionali. Perché negargliela? Il fatto è che Babette, a qualunque cosa si dedichi, mi fa sentire dolcemente appagato, legato a una donna di grande animo, amante della luce e della vita intensa, all'eterogeneo fremito dell'aria di famiglia. La guardo continuamente agire in sequenza calcolata, abilmente, con apparente agio, diversamente dalle mie mogli precedenti, che avevano una certa tendenza a sentirsi straniate dal mondo oggettivo, gruppo preso di sé e un po' nevrotico, vagamente legato con la comunità delle informazioni segrete.
- Non sono le station wagon, che volevo vedere. Com'è la gente? Le donne portano gonne scozzesi, golf a punto ritorto? Gli uomini hanno la giacca da cavallerizzo? E come sarebbe poi, una giacca del genere?
- Si sentono a proprio agio con i soldi, - risposi. - E credono sinceramente di averne diritto. È una convinzione che gli dà una specie di salute grezza. Emanano una certa luce.
- Non riesco bene a immaginare la morte a quel livello di reddito, - convenne.
- Forse non c'è una morte come la conosciamo noi. Sono soltanto delle carte che cambiano mano.
- Non che non si abbia una station wagon anche noi.
- Ma è piccola, grigio metallizzato e con una portiera completamente arrugginita.
- Dov'è Wilder, - chiese lei, in preda a uno dei suoi attacchi di panico, mettendosi a chiamare il bambino, uno dei suoi, che se ne stava seduto immobile sul triciclo nel cortiletto.
Babette e io le nostre conversazioni le teniamo in cucina. La cucina e la camera da letto sono le stanze più importanti della casa, i ricettacoli del potere, le fonti. In questo lei e io siamo uguali, nel senso che consideriamo il resto della casa come uno spazio per immagazzinare mobilio, giocattoli, tutti gli oggetti mai usati nei precedenti matrimoni e diverse serie di figli, regali di parenti acquisiti e perduti, cose smesse e cianfrusaglie. Oggetti, scatole. Perché simili beni hanno un peso tanto doloroso? Emanano oscurità, senso di presentimento. Mi rendono diffidente, non nei confronti del fallimento personale, della sconfitta, ma di qualcosa di più generale, un qualcosa di grande portata e contenuto.
Babette arrivò con Wilder e lo fece sedere sul banco della cucina. Denise e Steffie scesero e ci mettemmo a parlare degli oggetti scolastici di cui avevano bisogno. Dopo un po' fu l'ora di pranzare. Entrammo pertanto in un periodo di caos e fracasso. Vorticammo intorno, bisticciammo un po', facemmo cadere utensili. Finalmente fummo tutti soddisfatti di quello che eravamo riusciti a sgraffignare da armadietti e frigo o a fregarci a vicenda e ci mettemmo a spalmare in silenzio senape o maionese sul nostro cibo dai vivaci colori. L'atmosfera era di pregustazione mortalmente seria, di faticosa conquista. Il tavolo era affollato, tanto che Babette e Denise si sgomitarono due volte, anche se nessuna delle due disse niente. Wilder era ancora seduto sul banco, circondato da cartoni aperti, stagnola appallottolata, sacchetti luccicanti di patatine fritte, tazze di sostanze appiccicose coperte con fogli di plastica, anelli e strisce ritorte di apertura delle lattine, fette di formaggio all'arancio involte a una a una. Arrivò Heinrich, il mio unico figlio maschio, esaminò attentamente la scena, quindi uscì dalla porta sul retro e scomparve.
- Non è il pranzo che avevo in mente di concedermi, - disse Babette. - Era mia ferma intenzione prendere un po' di yogurt con germi di grano.
- Dov'è che l'abbiamo già sentita questa storia? - chiese Denise.
- Forse proprio qui, - rispose Steffie.
- Continua a comperare quella roba.
- Ma non la mangia mai, - fece eco Steffie.
- Perché pensa che se continua a comperarla, poi le toccherà mangiarla per liberarsene. È come se cercasse di imbrogliarsi da sola.
- Occupa mezza cucina.
- Ma la butta sempre via prima di arrivare a mangiarla, perché va a male, - continuò Denise. - Così poi ricomincia tutto da capo.
- Ovunque si guardi, - riprese Steffie, - ce n'è un po'.
- Si sente in colpa se non la compera, si sente in colpa se la compera e non la mangia, si sente in colpa quando la vede nel frigo, si sente in colpa quando la butta via.
- È come se fumasse anche senza farlo, - insistette Steffie.
Denise aveva undici anni, ragazza dal muso duro. Portava avanti una contesa più o meno giornaliera contro le abitudini materne che le sembravano sciupone o dannose. Io Babette la difendevo. Le dicevo che ero io quello che doveva mostrare disciplina in materia di dieta. Le ricordavo quanto mi piacesse così com'era fatta. Facevo intendere che, insita nella voluminosità, se contenuta nei giusti limiti, c'è una forma di onestà. Una certa mole, negli altri, ispira fiducia.
Ma Babette non era contenta dei propri fianchi e delle cosce, per cui camminava a passo rapido e correva su per i gradini dello stadio, alla scuola superiore in stile neoclassico. Diceva che dei suoi difetti facevo virtù perché era nella mia natura di mettere le persone amate al riparo dalla verità. Nella quale verità, sosteneva, sarebbe stato in agguato qualcosa.
Nel corridoio di sopra si mise in azione il rivelatore di fumo, per informarci o che le batterie si erano scaricate o che la casa era in fiamme. Finimmo di pranzare in silenzio.
CAPITOLO TERZO
I presidi di dipartimento, al College-on-the-Hill, indossano la toga accademica. Non grandi vesti a lunghezza intera, che spazzano per terra, ma tuniche senza maniche, increspate alle spalle. Un'idea che mi piace. Mi piace liberarmi il braccio dalle pieghe dell'indumento per guardare l'orologio. Il semplice atto di verificare l'ora, per effetto di questa fiorettatura si trasforma. I gesti affettati aggiungono fascino alla vita. Gli studenti in ozio, osservando il preside che attraversa il campus, il braccio ripiegato che emerge dalla veste medievale, l'orologio digitale che sfavilla intermittente nel crepuscolo dell'estate avanzata, possono arrivare a considerare il tempo in sé come un ornamento complesso, una vicenda di umana consapevolezza. La toga è nera, ovviamente, e va con quasi tutto.
Un vero e proprio edificio Hitler non esiste. Abbiamo sede nella Centenary Hall, oscura struttura in mattoni che dividiamo con il dipartimento di cultura popolare, ufficialmente nota come Ambienti americani. Curioso gruppo. Il personale docente è composto quasi unicamente di emigré, transfughi da New York, svegli, duri, pazzi del cinema, folli per i «trivia». Sono qui per decifrare il linguaggio naturale della cultura, per trasformare in metodo formale le splendide piacevolezze da loro conosciute nell'infanzia trascorsa all'ombra dell'Europa, un aristotelismo fatto di involucri di chewing-gum e di canzoncine dei detersivi. Il preside del dipartimento è Alfonse «Fast Food» Stompanato, fosco individuo dalle spalle larghe, la cui collezione di bottiglie di gazzosa anteguerra è esposta in permanenza in una nicchia. Tutti i suoi insegnanti sono di sesso maschile, portano abiti stazzonati, hanno bisogno di farsi tagliare i capelli, tossiscono senza mettersi la mano davanti alla bocca. Messi insieme sembrano una banda di camionisti riuniti per identificare il corpo di un collega fatto a pezzi. L'impressione che danno è di diffusa irritazione, sospetto e intrigo. Parziale eccezione a quanto sopra è costituita da Murray Jay Siskind, ex giornalista sportivo, che una volta mi chiese di pranzare con lui in sala mensa, dove l'odore istituzionale di cibo vagamente definito risvegliò in me oscure e cupe memorie. Murray era nuovo alla Hill e aveva spalle curve, occhialetti rotondi e barba alla Amish. Era visiting professor di icone viventi e sembrava imbarazzato da ciò che era andato a spigolare in quegli anni dai suoi colleghi di cultura popolare.
- Capisco la musica, capisco i film, capisco persino come i fumetti possano insegnarci qualcosa. Ma in questo posto ci sono docenti ordinari che non leggono altro che le scatole dei cereali.
- È l'unica avanguardia di cui disponiamo.
- Non che mi lamenti. Questo posto mi piace. Ne sono completamente innamorato. Abitare in una città piccola. Voglio stare alla larga dalle città grosse e dalle complicazioni sessuali. Calore. Ecco che cosa significano per me le città grosse. Si scende dal treno, si esce dalla stazione e si è presi dalla scalmana. Il calore dell'aria, del traffico, della gente. Il calore del cibo e del sesso. Il calore dei grattacieli. Il calore che esce dalla metropolitana e dalle gallerie. Nelle città grosse ci sono almeno cinque gradi di più. Il calore si leva dai marciapiedi e cala dal cielo inquinato. Gli autobus sbuffano calore. Emana dalle folle di acquirenti e impiegati. Tutta l'infrastruttura si basa sul calore, lo usa disperatamente, ne produce altro. La definitiva morte per calore dell'universo, di cui gli scienziati amano parlare, è già ben avviata a verificarsi: in qualsiasi città di dimensioni grandi o medie si sente ovunque che si sta realizzando. Calore e umidità.
- Dove abiti, Murray?
- In una pensione. Ne sono totalmente affascinato e intrigato. Una splendida vecchia casa in rovina, vicino al manicomio. Sette o otto pensionanti, più o meno permanenti, tranne me. Una donna depositaria di un segreto terribile. Un uomo dall'aspetto ossessionato. Un altro che non esce mai di camera. Una donna che sta per ore accanto alla cassetta delle lettere, in attesa di qualcosa che sembra non arrivare mai. Un uomo senza passato. Una donna con troppo passato. C'è un odore di vite infelici, da cinema, che mi fa sentire perfettamente a mio agio.
- E tu che personaggio saresti?
- L'ebreo. Che cos'altro potrei essere?
C'era qualcosa di commovente nel fatto che Murray vestisse quasi sempre di velluto a coste. Avevo la sensazione che fin dall'età di undici anni, nel suo popoloso agglomerato di cemento, avesse associato l'idea di quella stoffa resistente con un più elevato livello di cultura, proprio di un posto impossibilmente distante e alberato.
- Non posso non essere felice in una città che si chiama Blacksmith, - disse. - Io sono qui per evitare le relazioni sentimentali. Le città grandi ne sono piene, piene di gente sessualmente sveglia. Ci sono parti del mio corpo che non incoraggio più le donne a manipolare liberamente. Mi sono trovato impegolato in una relazione con una donna, a Detroit. Aveva bisogno del mio seme per una causa di divorzio. La cosa comica è che a me le donne piacciono. Alla vista di un paio di gambe lunghe, che procedono a grandi passi, briosi, come una brezza sale dal fiume, in un giorno feriale, nel gioco della luce del mattino, vado in tilt. Altra cosa comica è che da qualche tempo non è per il corpo delle donne che vado pazzo, ma per la loro mente. Delicati recessi e massiccio flusso unidirezionale, come un esperimento di fisica. Che divertimento parlare con una donna intelligente, con le calze, quando accavalla le gambe. Il leggero rumore di elettricità statica, prodotto dal nylon che fruscia, sa rendermi felice a diversi livelli. Terza e conseguente cosa comica è che sono le donne più complicate, nevrotiche e difficili quelle da cui sono invariabilmente attratto. Mi piacciono gli uomini semplici e le donne complesse.
I suoi capelli erano aderenti alla testa e avevano un aspetto greve. Aveva sopracciglia folte, ciuffi di peli che si arricciavano sui lati del collo. La barbetta rigida, limitata al mento e non accompagnata da baffi, sembrava un componente facoltativo, da appiccicare o togliere a seconda dei casi.
- Che tipo di lezioni pensi di tenere?
- È esattamente quello di cui vorrei parlarti, - rispose. - Con Hitler hai fatto una cosa magnifica. L'hai creata tu, l'hai alimentata, l'hai fatta tua. Non c'è nessuno, in qualsiasi facoltà di università o college di questa parte del paese, che possa anche soltanto pronunciare la parola Hitler letteralmente o per metafora senza fare riferimento a te. Il centro, la fonte indiscussa è qui. Adesso Hitler è una cosa tua, l'Hitler di Gladney. Dev'essere una profonda soddisfazione. Il college è conosciuto a livello internazionale per effetto degli studi hitleriani. Ha raggiunto un'identità, il senso di un risultato acquisito. Attorno a questa figura storica hai sviluppato un intero sistema, una struttura con innumerevoli sottostrutture e correlati ambiti di studio, una storia nella storia. Un'impresa che considero formidabile, Magistrale, sottile e favolosamente anticipatrice. È quello che vorrei fare anch'io con Elvis.
Diversi giorni più tardi Murray mi chiese notizie di un'attrazione turistica nota come la stalla più fotografata d'America. Quindi facemmo in auto ventidue miglia nella campagna che circonda Farmington. C'erano prati e orti di mele. Bianche staccionate fiancheggiavano i campi che scorrevano ai nostri fianchi. Presto cominciarono ad apparire i cartelli stradali, LA STALLA PIÙ FOTOGRAFATA D'AMERICA. Ne contammo cinque prima di arrivare al sito. Nell'improvvisato parcheggio c'erano quaranta auto e un autobus turistico. Procedemmo a piedi lungo un tratturo per vacche fino a un lieve sopralzo isolato, creato apposta per guardare e fotografare. Tutti erano muniti di macchina fotografica, alcuni persino di treppiede, teleobiettivi, filtri. Un uomo in un'edicola vendeva cartoline e diapositive, fotografie della stalla prese da quello stesso sopralzo. Ci mettemmo in piedi accanto a una macchia di alberi a osservare i fotografi. Murray mantenne un silenzio prolungato, scribacchiando di quando in quando qualche appunto in un quadernetto.
- La stalla non la vede nessuno, - disse finalmente. Seguì un lungo silenzio.
- Una volta visti i cartelli stradali, diventa impossibile vedere la stalla in sé.
Quindi tornò a immergersi nel silenzio. La gente armata di macchina fotografica se ne andava dal sopralzo, immediatamente sostituita da altra.
- Noi non siamo qui per cogliere un'immagine, ma per perpetuarla. Ogni foto rinforza l'aura. Lo capisci, Jack? Un'accumulazione di energie ignote.
Quindi ci fu un lungo silenzio. L'uomo nell'edicola continuava a vendere cartoline e diapositive.
- Trovarsi qui è una sorta di resa spirituale. Vediamo solamente quello che vedono gli altri. Le migliaia di persone che sono state qui in passato, quelle che verranno in futuro. Abbiamo acconsentito a partecipare di una percezione collettiva. Ciò dà letteralmente colore alla nostra visione. Un'esperienza religiosa, in un certo senso, come ogni forma di turismo.
Seguì un ulteriore silenzio.
- Fotografano il fotografare, - riprese.
Poi non parlò per un po'. Ascoltammo l'incessante scattare dei pulsanti degli otturatori, il fruscio delle leve di avanzamento delle pellicole.
- Come sarà stata questa stalla prima di venire fotografata? - chiese Murray. - Che aspetto avrà avuto, in che cosa sarà differita dalle altre e in che cosa sarà stata simile? Domande a cui non sappiamo rispondere perché abbiamo letto i cartelli stradali, visto la gente che faceva le sue istantanee. Non possiamo uscire dall'aura. Ne facciamo parte. Siamo qui, siamo ora. Ne parve immensamente compiaciuto.
CAPITOLO QUARTO
Quando i tempi sono incerti, la gente si sente costretta a mangiare in eccesso. Blacksmith è piena di simili adulti e bambini obesi, pance cascanti, gambe corte, che si muovono come anatre. Faticano a emergere dalle utilitarie, si mettono in tuta e corrono a famiglie intere in campagna; camminano per strada con il cibo dipinto in faccia; mangiano nei negozi, in auto, nei parcheggi, nelle code degli autobus e nelle sale del cinema, sotto la maestosità degli alberi.
Soltanto gli anziani sembrano al riparo dalla febbre del mangiare. Anche se talvolta appaiono assenti dal proprio dire e gestire, sono tuttavia magri e hanno un aspetto sano, le donne agghindate con cura, gli uomini vestiti bene e con criterio, intenti a prendere un carrello dalla fila in attesa fuori dal supermercato.
Attraversai il prato all'inglese della scuola superiore e raggiunsi il retro dell'edificio, dirigendomi verso il piccolo stadio scoperto. Babette stava correndo su per i gradini. Io mi sedetti sul lato opposto del campo, nella prima fila di sedili in pietra. Il cielo era pieno di nuvole che correvano velocissime. Raggiunta la cima dello stadio, Babette si fermò e fece una pausa, posando le mani sull'alto parapetto e appoggiandovisi per riposare in diagonale. Poi si voltò e scese giù, con i seni che ballonzolavano. Il vento le increspava la tenuta sovrabbondante. Camminava con le mani sui fianchi, le dita allargate. Teneva il viso sollevato, a cogliere l'aria fresca, per cui non mi vide. Quando raggiunse l'ultimo gradino in basso, si voltò per rivolgersi verso i sedili e procedette a fare qualche esercizio di scioltezza del collo.
Poi si mise a correre su per i gradini.
Tre volte salì i gradini, scendendo lentamente. In giro non c'era nessuno. Si impegnava duramente, capelli svolazzanti, gambe e spalle in azione. Ogni volta che raggiungeva la cima, si appoggiava al muro, con la testa bassa, la parte superiore del corpo che pulsava. Dopo l'ultima discesa le andai incontro ai bordi del campo da gioco e l'abbracciai, infilandole le mani dentro l'elastico dei pantaloni di cotone grigio. Sopra gli alberi comparve un aeroplanino. Era madida e calda, emanava odore di animale.
Corre, spala la neve, calafata vasca da bagno e lavandino. Fa giochi di parole con Wilder e di notte, a letto, legge ad alta voce classici dell'erotismo. E io che cosa faccio? Faccio prillare i sacchi della spazzatura e ne lego l'estremità superiore, faccio qualche vasca nella piscina del college. Quando vado a camminare, i maniaci dello jogging mi arrivano alle spalle senza fare rumore, comparendomi di fianco e facendomi fare un soprassalto di spavento, come un imbecille. Babette parla coi cani e coi gatti. Io vedo macchie colorate con la coda dell'occhio destro. Lei progetta gite sciistiche che non facciamo mai, con il viso illuminato dall'eccitazione. Io salgo a piedi per l'altura fino a scuola, osservando le pietre sbiancate a calce che fiancheggiano i vialetti delle case più recenti.
Chi morirà prima?
Domanda che si presenta di quando in quando, come, per esempio: dove sono le chiavi dell'auto? Conclude una frase, prolunga uno sguardo tra di noi. Mi chiedo se il pensiero in sé non partecipi della natura dell'amore fisico, un darwinismo al rovescio, che preme il sopravvissuto con tristezza e timore. O è un elemento inerte dell'aria che respiriamo, una cosa rara come il neon, con un punto di fusione, un peso atomico? La stringevo tra le braccia sulla pista di cenere.
Alcune ragazzine vennero verso di noi correndo, trenta fanciulle in pantaloncini dai colori vivaci, un'improbabile massa ballonzolante. Il respiro ansioso, il ritmo accavallato dei passi. A volte penso che il nostro amore sia privo di esperienza. La questione del morire si fa saggio strumento di memoria. Ci guarisce della nostra innocenza nei confronti del futuro. Le cose semplici sono fatali, o è una superstizione? Guardammo le ragazzine, compiuto il loro giro, arrivare di nuovo. Ora erano in fila allungata, con il viso contorto da smorfie e un'andatura particolare, quasi prive di peso nel loro entusiasmo, capaci di toccare il suolo con dolcezza.
L'aeroporto Marriott, il Downtown Travelodge, lo Sheraton Inn e il Centro Congressi.
Dirigendoci verso casa dissi: - Bee vuole venire da noi a Natale. Possiamo metterla con Steffie.
- Si conoscono?
- Si sono viste a Disney World. Andrà tutto bene.
- Quando sei stato a Los Angeles?
- Vuoi dire Anaheim.
- Quando sei stato ad Anaheim?
- Vuoi dire Orlando. Sono ormai quasi tre anni.
- E io dov'ero? - chiese ancora.
Mia figlia Bee, nata dal mio matrimonio con Tweedy Browner, stava proprio allora iniziando le medie in un sobborgo di Washington e aveva qualche problema a riadattare la propria vita agli Stati
Uniti dopo due anni passati in Corea del sud. Andava a scuola in taxi, faceva telefonate ad amichetti di Seul e Tokyo. Quando era all'estero voleva mangiare panini al ketchup e patatine. Adesso si preparava pasti infuocati e sfrigolanti a base di cespi di scalogno e gamberetti nani, monopolizzando la cucina tecnologica di Tweedy.
Quella sera, un venerdì, ordinammo cibo cinese e guardammo insieme la televisione, tutti e sei. Babette ne aveva fatto una regola. Sembrava pensare che se i bambini guardavano la televisione in compagnia dei genitori una sera alla settimana, l'effetto sarebbe stato di demistificare il mezzo ai loro occhi, di farne un'attività totalmente domestica. Il latente effetto narcotizzante e il misterioso potere di lavaggio del cervello ne sarebbero stati gradualmente ridotti. Ragionamento che mi faceva sentire vagamente insultato. La serata in effetti costituiva una sottile forma di punizione per noi tutti. Heinrich se ne stava seduto in silenzio, in compagnia dei suoi involtini primavera. Steffie si sconvolgeva ogni volta che sembrava stesse per succedere qualcosa di vergognoso o umiliante a qualcuno sullo schermo. Aveva un'ampia capacità di sentirsi imbarazzata per conto degli altri. Capitava spesso che se ne andasse dalla stanza, finché Denise non l'avvertiva che la scena era finita. Denise sfruttava tali occasioni per tenere lezioni alla ragazzina più giovane sulla durezza, l'esigenza di essere cattivi in questo mondo, di avere il pelo sullo stomaco.
Era mia abitudine formalizzata, di venerdì, dopo una serata passata davanti alla T.V., leggere attentamente fino a tarda notte testi di argomento hitleriano.
Una sera del genere mi misi a letto accanto a Babette e le dissi come il rettore mi avesse consigliato, ancora nel '68, di fare qualcosa circa il mio nome e il mio aspetto, se volevo essere preso sul serio come innovatore in campo hitleriano. Jack Gladney, aveva detto, non andava bene, chiedendomi quali altri nomi potessi avere a disposizione. Avevamo finito con il convenire che dovevo inventarmi un'ulteriore iniziale, chiamandomi J.A.K. Gladney, etichetta che portavo come un vestito preso in prestito.
Il rettore aveva poi richiamato la mia attenzione su quella che definiva la mia tendenza a fornire un'immagine debole del mio io. Quindi aveva suggerito calorosamente che aumentassi di peso. Voleva che «mi espandessi» per essere all'altezza di Hitler. Lui stesso era alto, corpulento, rubicondo, dotato di doppio mento e piedi grossi, un tipo noioso. Una combinazione formidabile. Io avevo il vantaggio di essere caratterizzato da una altezza considerevole, mani grandi e piedi grossi, ma avevo un gran bisogno di ingrossarmi, o perlomeno così riteneva, di darmi una parvenza di eccesso malsano, di infarcimento ed esagerazione, di goffa imponenza. Se avessi potuto imbruttirmi, sembrava suggerire, la mia carriera ne avrebbe tratto enormi vantaggi.
Quindi Hitler mi aveva dato un motivo per espandermi ed evolvermi, per quanto io sia stato talvolta poco perseverante nell'impegno. Gli occhiali dalla nera montatura spessa e dalle lenti scure erano state un'idea mia, alternativa alla barba ispida che la mia moglie di allora non aveva voluto mi lasciassi crescere. Babette aveva detto che la sequenza J.A.K. le piaceva e che non pensava servisse a richiamare l'attenzione in un senso meschino. Per lei implicava dignità, importanza e prestigio. Io sono il personaggio finto che si adegua al nome.
CAPITOLO QUINTO
Godiamoci questi giorni senza finalità fintanto che è possibile, mi dissi, temendo qualche sorta di rapida accelerazione.
A prima colazione Babette lesse ad alta voce tutti i nostri oroscopi, valendosi della sua voce di narratrice. Quando arrivò ai miei, cercai di non ascoltare: in realtà li volevo sentire, probabilmente ero in cerca di qualche segno.
Dopo cena, mentre salivo di sopra, sentii la T.V. dire: - Ora assumiamo la posizione del mezzo loto e pensiamo alla spina dorsale.
Quella sera, qualche secondo dopo essere andato a dormire, mi parve di cadere dentro me stesso, un leggero sprofondamento da tuffo al cuore. Svegliato di colpo, fissai lo sguardo nel buio, rendendomi conto di aver sperimentato la più o meno normale contrazione muscolare nota come scossa mioclonica. È così, dunque: una cosa improvvisa, perentoria? La morte, pensai, non dovrebbe essere invece come l'immersione del cigno, ali bianche, levigato, che lascia la superficie intatta?
Nell'asciugatrice si rivoltolavano dei blue jeans.
Al supermercato ci imbattemmo in Murray Jay Siskind. Nel suo cestino c'erano alimenti e bevande generici, tutti prodotti non di marca, avvolti in involucri comuni, bianchi, dalle etichette semplici. C'era una lattina bianca con la scritta pesche in scatola. C'era una busta bianca di prosciutto affumicato senza la finestrella in plastica per la vista di una fetta campione. Un barattolo di noccioline abbrustolite con un'etichetta bianca su cui si leggevano le parole noccioline irregolari. Mentre li presentavo, Murray continuava ad annuire alla volta di Babette.
- È la nuova austerità, - disse. - Imballo insipido. Mi attrae. Mi sembra non soltanto di risparmiare soldi, ma anche di dare un contributo a una sorta di consenso spirituale. È come la Terza guerra mondiale. È tutto bianco. Ci porteranno via i colori per usarli nello sforzo bellico.
Fissava Babette negli occhi, estraendo alcuni articoli dal nostro carrello e annusandoli.
- Queste noccioline le ho già comperate. Sono rotonde, cubiche, butterate, grinzose. Nocciolinerotte. Un sacco di polvere in fondo al barattolo. Però sono buone. Ma soprattutto mi piacciono gli imballi in sé. Avevi ragione, Jack. È l'ultima avanguardia. Coraggiose forme nuove. Capaci di scuoterti.
Una donna piombò in una rastrelliera di libri sul davanti del negozio. Un uomo tarchiato emerse dal cubicolo sopraelevato, nell'angolo opposto, e si mosse con cautela alla sua volta, la testa china di lato per avere una visione più chiara. Una cassiera gridò: - Prezzemolo, Leon? - e lui, mentre si avvicinava alla donna, rispose: - Settantanove. - Aveva il taschino zeppo di pennarelli.
- Quindi alla pensione ti fai da mangiare, - disse Babette.
- In stanza ho un angolo di cottura. Ci sto benissimo. Leggo i programmi della T.V., le inserzioni di "Ufologia Oggi". Voglio immergermi nell'America della magia e del terrore. Il mio seminario sta andando bene. Gli studenti sono in gamba e reagiscono con prontezza. Mi fanno domande e io rispondo. Mentre parlo prendono appunti. È un'autentica sorpresa, nella mia vita.
Prese una bottiglia di lenitivo ad azione rinforzata e lo annusò lungo il bordo del tappo di sicurezza. Quindi annusò i nostri meloni gialli e le nostre bottiglie di club soda e ginger ale. Babette si inoltrò nella corsia dei surgelati, zona da cui il medico mi aveva prescritto di stare alla larga.
- I capelli di tua moglie sono una meraviglia vivente, - disse Murray, guardandomi attentamente in faccia, quasi per comunicarmi un più profondo rispetto di me basato sulla suddetta informazione. - Sì, è vero, - riconobbi.
- Ha una capigliatura notevole.
- Credo di capire che cosa intendi.
- Spero che quella donna ti piaccia.
- Nella maniera più assoluta.
- Perché una donna come quella non capita facilmente.
- Lo so.
- Dev'essere brava con i bambini. Di più: scommetto che è una gran cosa da avere vicino nel caso di una tragedia famigliare. È il tipo che sa prendere tutto sotto controllo, mostrare energia e spirito positivo.
- A dire il vero va in crisi. Per lo meno, così è stato quando è morta sua madre.
- A chi non succederebbe?
- È andata in crisi quando Steffie ha chiamato dal campeggio per dire che si era rotto un osso in una mano. Abbiamo dovuto viaggiare tutta la notte in macchina. Mi sono trovato sul tratturo di una ditta di legname. Lei piangeva.
- Sua figlia, lontana, in mezzo a estranei, in pena. Normale, no?
- Non è figlia sua. È mia.
- Non è nemmeno figlia sua?
- No.
- Fantastico. Devo dire che mi piace.
Ce ne andammo tutti e tre insieme, cercando di far passare i carrelli tra i tascabili sparsi per tutto l'ingresso. Murray ne spinse uno nel parcheggio, dove ci aiutò a sistemare tutta la nostra mercanzia - stipata in sacchetti doppi - nel retro della station wagon. Le auto entravano e uscivano. La poliziotta, nella sua minivettura, perlustrava la zona a caccia di bandierine rosse sui parchimetri. Dopo aver aggiunto l'unico sacchetto leggero di prodotti bianchi di Murray al nostro carico, ci avviammo per Elm Street verso la sua pensione. Mi parve che Babette e io, nella massa e varietà dei nostri acquisti, nella grassa abbondanza suggerita da quei sacchetti - il peso, le dimensioni e il numero, i disegni familiari delle confezioni e la vivacità dei caratteri, le scatole giganti, i formati famiglia con il contrassegno fosforescente dell'offerta speciale - nonché nella sensazione che provavamo di esserci riempiti di scorte - il senso di benessere, la sicurezza e l'appagamento che quei prodotti apportavano a una sorta di casetta annidata nel nostro intimo -, mi parve, dicevo, che avessimo conseguito una pienezza dell'essere che doveva risultare ignota a coloro che hanno bisogno di meno, si aspettano di meno, incentrano tutta la loro vita su solitarie passeggiate serali.
Accomiatandosi, Murray prese la mano di Babette.
- Vi chiederei di salire a vedere la mia stanza, ma è troppo piccola per due persone, a meno che non siano preparate all'intimità.
Murray è capace di esibire uno sguardo che risulta sfuggente e franco al tempo stesso. Uno sguardo che dà uguale credito al disastro come al successo godurioso. Sostiene che ai tempi dei suoi garbugli urbani credeva che esistesse un solo modo per sedurre una donna, ovvero quello di esibire apertamente e chiaramente il proprio desiderio. Quindi si sforzava di evitare il discredito e la messa in parodia di se stesso, l'ambiguità, l'ironia, la sofisticazione, la vulnerabilità, una civile stanchezza del mondo e un senso tragico della storia: ovvero, secondo lui, esattamente tutto ciò che gli risulta più naturale. Di tutto questo, a un solo elemento, la vulnerabilità, ha consentito di penetrare a poco a poco nel suo programma di libidine diretta. Sta quindi cercando di sviluppare una vulnerabilità che le donne possano trovare attraente. Vi lavora con coscienza, come se fosse in palestra, con gli attrezzi davanti a uno specchio. Ma fino a ora le sue fatiche hanno prodotto soltanto questo sguardo mezzo sfuggente, impacciato, adulatore.
Ci ringraziò per il passaggio e lo guardammo andarsene verso il portico cadente, puntellato con blocchi di scorie, dove un uomo in sedia a dondolo fissava lo sguardo nel vuoto.
CAPITOLO SESTO
L'attaccatura dei capelli di Heinrich sta cominciando ad arretrare. Mi domando come mai. Che sua madre abbia consumato qualche tipo di sostanza perfora-geni quando era incinta? O forse ho qualche colpa io? Che lo abbia tirato su, involontariamente, in prossimità di uno scarico di sostanze chimiche, nel flusso di correnti d'aria gonfie di residui industriali capaci di produrre una degenerazione del cuoio capelluto, oltre che splendidi tramonti? - Secondo la gente, da queste parti, trenta o quarant'anni fa, i tramonti non erano affatto così straordinari -. La colpevolezza dell'uomo nei confronti della storia e dei flussi del proprio stesso sangue è stata complicata dalla tecnologia, dal diuturno diffondersi della malfida morte.
Il ragazzo ha quattordici anni ed è spesso evasivo e lunatico, mentre altre volte risulta fastidiosamente arrendevole. Ho la sensazione che questo suo corrispondere ai nostri desideri e alle nostre pretese sia un sistema personale di rimprovero. Babette teme che finirà barricato in una stanza, a innaffiare con centinaia di caricatori di arma automatica un centro commerciale vuoto, finché non arriveranno a beccarlo le pattuglie dell'antiterrorismo con le armi pesanti, i megafoni e i corpetti antiproiettile.
- Questa sera piove.
- Sta già piovendo, - precisai.
- La radio ha detto questa sera.
Lo stavo accompagnando a scuola in auto per il primo giorno dopo un attacco di mal di gola e febbre. Una donna in impermeabile giallo fermava il traffico per far attraversare alcuni bambini. Me la immaginai nello spot televisivo di una minestra, che si toglie il berretto di incerata mentre entra nella gaia cucina dove il marito accudisce una pentola di fumante zuppa di aragosta, ometto bassino, con sei settimane di vita.
- Guarda il parabrezza, - replicai. - È pioggia o no?
- Sto soltanto dicendo quello che ho sentito.
- Il semplice fatto che l'abbiano detto alla radio non significa che dobbiamo sospendere il giudizio sull'evidenza dei nostri sensi.
- I nostri sensi? Si sbagliano molto più spesso di quanto abbiano ragione. È stato dimostrato in laboratorio. Non conosci tutti i teoremi secondo i quali nulla è come appare? Non c'è passato, presente o futuro fuori della nostra mente. Le cosiddette leggi del moto sono una grossa mistificazione. Anche il suono può ingannare la mente. Soltanto perché non lo si sente, non significa che non ci sia. I cani lo sentono. E anche altri animali. Ma sono sicuro che ci sono suoni che anche i cani non possono sentire. Tuttavia nell'aria ci sono, in forma di onde. Forse non si fermano mai. In tonalità alte, più alte, sempre più alte. Arrivati da chissà dove.
- Piove, - replicai, - o no?
- Preferirei non dover rispondere.
- E se qualcuno ti puntasse una pistola alla testa?- Chi, tu?
- Qualcuno. Un uomo in trench e occhiali affumicati. Ti punta una pistola alla testa e dice: «Piove o no? Non devi fare altro che dire la verità e io metto via la pistola e sparisco».
- Che verità vuole? Quella di chi stia viaggiando quasi alla velocità della luce in un'altra galassia?
Quella di chi sia nell'orbita di una stella neutrone? Magari, se potessero vederci attraverso un telescopio, potremmo apparirgli alti settanta centimetri e potrebbe star piovendo ieri invece che oggi.
- È contro la "tua" testa che quell'individuo sta puntando la pistola. Quindi vuole la tua, di verità.
- A che cosa serve la mia verità? Non significa niente. E se invece questo tizio con pistola venisse daun pianeta di un sistema solare del tutto diverso? Ciò che noi chiamiamo pioggia, lui lo chiama sapone.
E invece ciò che chiamiamo mele lo chiama pioggia. Che cosa dovrei dirgli?
- Si chiama Frank J. Smalley ed è di Saint Louis.
- Vuole sapere se sta piovendo "adesso", esattamente in questo istante?
- Qui e adesso. Esatto.
-Esiste un adesso? L'«adesso» viene e se ne va non appena lo si è pronunciato. Come faccio a dire che adesso piove, se il tuo cosiddetto «adesso» diventa «allora» non appena lo pronuncio?
- Ma se hai detto che non esiste passato, né presente, né futuro.
- Soltanto nei nostri verbi. È l'unico posto dove li si trova.
- Pioggia è un sostantivo. C'è della pioggia qui, in questo preciso luogo, in qualsiasi momento nell'ambito dei due minuti successivi a quello che sceglierai per rispondere alla domanda?
- Se intendi parlare di un luogo preciso, mentre sei in una vettura in evidente movimento, allora penso che il problema di questa discussione stia proprio lì.
- Dammi una risposta e basta, Heinrich, d'accordo?
- Il massimo che posso fare è cercare di indovinare.
- O piove o no, - ribattei.
- Esattamente. Proprio quello che intendo io. Si tirerebbe a indovinare. Se non è zuppa è pan bagnato.
- Ma lo si "vede" che sta piovendo.
- Si vede anche il sole che si muove nel cielo. Ma è lui che si muove, o la terra che gira?
- Un'analogia che non accetto.
- Tu sei sicurissimo che si tratti di pioggia. Come fai a sapere che non è acido solforico proveniente dalle fabbriche oltre il fiume? Come fai a sapere che non sono i residui radioattivi di una guerra in Cina? Tu vuoi una risposta qui e adesso. Puoi dimostrare, qui e adesso, che quella roba è pioggia? Come faccio a sapere che quella che tu definisci pioggia lo è veramente? E comunque, che cos'è la pioggia? - Quella cosa che cade dal cielo e ci - come si dice - bagna.
- Io non sono bagnato. E tu?
- D'accordo, - dissi. - Benissimo.
- No, davvero: sei bagnato?
- Ottimo, - risposi. - Vittoria dell'incertezza, del caso, del caos. L'ora più bella per la scienza.- Fa' il sarcastico.
- Sofisti e pignoli si godono il loro trionfo.
- Continua, fa' il sarcastico. Non mi importa.
La madre di Heinrich attualmente vive in un ashram. Ha preso il nome di Madre Devi e si occupa delle cose pratiche. L'ashram è situato ai margini dell'ex città mineraria di Tubb, nel Montana, dove si affinava il bronzo e che adesso si chiama Dharamsalapur. Diffusissime le solite voci di libertà e insieme schiavitù sessuale, droghe, nudismo, lavaggio della mente, scarsa igiene, evasione fiscale, culto delle scimmie, tortura, morte prolungata e orrenda.
Lo guardai procedere sotto il diluvio verso l'entrata della scuola. Si mosse con deliberata lentezza, togliendosi il berretto mimetico a dieci metri dalla soglia. In momenti simili scopro di volergli bene con una disperazione animale, avverto il bisogno di prendermelo sotto il cappotto e di strizzarmelo al petto, tenerlo lì, proteggerlo. Sembra attirare su di sé un pericolo. Un pericolo che si raccoglie nell'aria e lo segue di stanza in stanza. Babette gli prepara i suoi biscotti preferiti. Lo guardiamo alla sua scrivania, un tavolo non verniciato, coperto di libri e riviste. Lavora fino a notte avanzata, studiando le mosse di scacchi di una partita che gioca per posta con un assassino chiuso nel penitenziario.
Il giorno dopo il tempo era caldo e limpido, e gli studenti, sulla Hill, stavano seduti nei prati o alle finestre del dormitorio, ascoltando le loro cassette, prendendo il sole. L'aria era un sogno a occhi aperti di malinconie estive, l'ultimo giorno carico di languore, l'opportunità di andare ancora una volta in giro con le membra nude, di annusare il trifoglio nel fieno. Andai all'Arts Duplex, nostro edificio più recente, un complesso con ali e facciata in alluminio anodizzato, color verde mare, in cui si riflettono le nubi. Al piano inferiore c'era il cinema, spazio inclinato e coperto di moquette scura, con duecento sedili di felpa. Mi sedetti nella luce scarsa, a un capo della prima fila e aspettai che arrivassero i miei allievi dell'ultimo anno.
Erano tutti specializzati in Hitler, membri dell'unico corso in cui insegnavo ancora, Nazismo Avanzato, tre ore alla settimana, limitato a laureandi qualificati, corso di studi destinato a coltivare la prospettiva storica, il rigore teoretico e un modo maturo di osservare il persistere dell'attrazione esercitata sulle masse dalla tirannide fascista, con particolare riferimento a parate, adunate e uniformi, tre certificati di frequenza, relazioni scritte.
Ogni semestre provvedevo alla proiezione del materiale cinematografico storico. Film di propaganda, scene girate a congressi di partito, estratti di mistiche epopee a base di parate di ginnasti e alpinisti, raccolta che avevo tagliato e montato a formare un documentario impressionistico della durata di ottanta minuti. Vi predominavano le scene di massa. Affollate riprese ravvicinate di migliaia di persone all'uscita di uno stadio dopo un discorso di Goebbels, una fiumana di gente che si alza, si ammassa ed esplode nel traffico. Atrii festonati di bandiere con svastica, ghirlande mortuarie e insegne di teschi. File di migliaia di portabandiera disposti in bell'ordine davanti a fasci di luce immobile, centotrenta fari antiaerei puntati al cielo: scena che suggeriva l'idea di una nostalgia geometrica, notazione formale di un poderoso desiderio di massa. Non c'era voce narrante. Soltanto slogan, canzoni, motivi, discorsi, grida, acclamazioni, accuse, strilli.
Mi alzai e presi posizione sul davanti della sala, nella corsia centrale, di fronte all'ingresso.
Arrivarono emergendo dalla luce del sole, in pantaloncini corti da passeggio, in popeline, e T-shirt di produzione limitata, magliette lava e appendi, capi da polo, strisce da rugby. Li guardai prendere posto, osservandone l'aria sottomessa e riverente, di aspettativa incerta. Alcuni avevano blocchi per appunti e pile a matita, altri portavano con sé materiali di lettura sistemati in raccoglitori dai colori vivaci. Si sentirono mormorii, fruscii di carta, il rumore rimbombante dei sedili che cadevano a mano a mano che gli studenti vi si sistemavano. Mi appoggiai contro il davanti del proscenio, in attesa che entrassero i pochi ritardatari e che qualcuno chiudesse fuori dalla porta la nostra voluttuosa giornata d'estate.
Dopo un po' ci fu un silenzio generale. Era arrivato il momento di pronunciare le parole di introduzione. Lasciai per un attimo che il silenzio diventasse ancora più profondo, poi liberai le braccia dalle pieghe della veste accademica per poter gestire liberamente.
Quando la proiezione fu terminata, qualcuno mi chiese ragguagli sull'intrigo per uccidere Hitler. La discussione si spostò sugli intrighi in genere. Mi trovai a dire alle teste lì riunite: - Tutti gli intrighi tendono alla morte. È la loro natura. Intrighi politici, terroristici, amorosi, narrativi, intrighi dei giochi infantili. Ogni volta che intrighiamo ci accostiamo alla morte. È come un contratto che devono firmare tutti, chi intriga come coloro che sono i bersagli dell'intrigo. È vero? Perché l'ho detto? Che cosa significa?
CAPITOLO SETTIMO
Due sere alla settimana Babette frequenta la chiesa congregazionalista, all'altro capo della città, per insegnare la posizione corretta agli adulti riuniti nello scantinato. Fondamentalmente insegna loro come si sta in piedi, ci si siede e si cammina. La maggior parte dei suoi allievi sono anziani. E non mi è chiaro perché vogliano migliorare il loro portamento. Noi sembriamo ritenere che sia possibile tenere lontana la morte seguendo regole di buon comportamento. A volte vado con lei nello scantinato della chiesa e l'osservo mentre sta in piedi, si volta, assume diverse pose epiche, compie gesti aggraziati. Fa riferimenti allo yoga, al kendo, al camminare in stato di trance. Parla di dervisci sufi, di montanari sherpa. I vecchi annuiscono e ascoltano. Nulla è estraneo, nulla è troppo remoto da mettere in pratica. Mi sorprendono sempre la loro disponibilità e fiducia, la dolcezza del loro credere. Nulla è troppo dubbio per risultare loro utile nella ricerca della redenzione del corpo da una vita passata in posizione scorretta. È la fine dello scetticismo.
Rientrammo sotto una luna color calendola. La nostra casa, in fondo alla via, aveva un aspetto vecchio e smorto, con la luce del portico a splendere su un triciclo di plastica, una catasta di ciocchi, tre ore di fiamma colorata, in segatura e cera. Denise stava facendo i compiti in cucina, tenendo d'occhio Wilder, che era sceso giù per sedersi sul pavimento e fissare lo sguardo oltre lo sportello della stufa.
Silenzio nei corridoi, ombre sul prato in pendenza. Chiudemmo la porta e ci spogliammo. Il letto era un casino. Riviste, bacchette per tende, una calza infantile lurida. Babette canticchiò un motivetto di uno spettacolo di Broadway, sistemando le bacchette in un angolo. Ci abbracciammo, cademmo sul letto di fianco ma in maniera controllata, poi ci sistemammo meglio, immergendoci nella carne l'uno dell'altra, cercando di allontanare a calci le lenzuola dalle caviglie. Nel suo corpo c'erano diverse cavità lunghe, luoghi dove la mano poteva fermarsi per studiare l'enigma nel buio, luoghi rallenta-tempo.
Secondo noi in cantina viveva qualcosa.
- Che cosa vuoi fare? - chiese Babette.
- Quello che vuoi tu.
- Io voglio fare quello che preferisci tu.
- Quello che preferisco è piacerti, - replicai.
- Io voglio farti felice, Jack.
- Lo sono quando ti piaccio.
- Voglio solo fare quello che vuoi fare tu.
- E io quello che preferisci tu.
- Ma tu mi piaci quando mi consenti di piacerti, - ribatté lei.
- In quanto maschio della coppia, ritengo che piacere sia responsabilità mia.
- Non capisco bene se è una dichiarazione di affettuosa sensibilità o un'affermazione sessista.
- È sbagliato che il maschio sia sollecito nei confronti della propria compagna?
- La tua compagna lo sono quando giochiamo a tennis, cosa che, tra l'altro, dovremmo ricominciare a fare. Altrimenti sono tua moglie. Vuoi che ti legga qualcosa?
- Ottima idea.
- Lo so che ti piace che legga roba sexy.
- Credevo che piacesse anche a te.
- Non è fondamentalmente la persona a cui viene letto qualcosa, quella che ne gode il beneficio e la gratificazione? Quando leggo al Vecchio Treadwell, non lo faccio certamente perché quei tabloid li trovo stimolanti.
- Treadwell è cieco, io no. Credevo che ti piacesse leggere i brani erotici.
- Se ti piacciono, allora ho piacere di farlo.
- Ma devono piacere a te, Baba. Altrimenti come dovrei sentirmi?
- A me fa piacere che a te piaccia la mia lettura.
- Ho la sensazione che ci stiamo palleggiando un peso. Il peso di essere quello che prova piacere.
- Ma io voglio davvero leggere qualcosa, Jack. Sul serio.
- Ne sei totalmente e completamente sicura? Perché altrimenti non lo si fa nel modo più assoluto.
Qualcuno accese il televisore in fondo al corridoio e una voce di donna disse: - Si rompe facilmente a pezzetti, si chiama scisto. Quando è bagnato, odora di argilla.
Ascoltammo lo scorrere del traffico notturno, che andava lievemente scemando.
Dissi: - Scegli il secolo. Vuoi leggere storie di giovani etrusche schiave, di libertini georgiani? Credo che abbiamo qualche testo sui bordelli dove si praticava la flagellazione. E il Medioevo? Abbiamo incubi e succubi. Bizzeffe di suore.
- Quello che preferisci.
- Voglio che sia tu a scegliere. Così è più sexy.
- Uno sceglie, l'altro legge. Non occorre un equilibrio, una sorta di dare e avere? Non è questo che lo rende più sexy?
- Tensione, suspense. Ottimo. Scelgo io.
- E io leggo, - consentì lei. - Ma non voglio niente in cui ci siano uomini che hanno penetrato donne, tra virgolette, o che le stanno penetrando. «La penetrai». «Mi penetrò». Noi donne non siamo degli atri, né degli ascensori. «Lo volevo dentro di me», come se lui potesse entrare completamente, firmare il registro, dormire, mangiare eccetera. D'accordo? Non mi interessa quello che fanno, basta che non penetrino o non siano penetrate.
- D'accordo.
- «La penetrai e mi misi a pompare».
- Sono totalmente d'accordo, - convenni.
- «Penetrami, penetrami, sì, sì».
- Una mania idiota, assolutamente.
- «Entra, Rex. Ti voglio dentro, duro, fino in fondo, si, adesso, oh!»
Cominciai ad avvertire un formicolio di erezione. Che stupidaggine, fuori contesto. Babette rideva delle proprie frasi. La T.V. disse: - Finché i chirurghi della Florida non hanno applicato una pinna artificiale.
Babette e io ci diciamo tutto. Personalmente ho sempre detto le cose come stavano, pari pari, a tutte le mie mogli.
Naturalmente, con l'accumularsi dei matrimoni, le cose da dire aumentano. Ma quando affermo che credo nell'apertura totale al partner, non lo intendo in termini meschini, come gioco della verità o banale rivelazione. È una forma di autorinnovamento, un gesto di fiducia custodiale. L'amore ci aiuta a sviluppare un'identità sufficientemente sicura da poter essere affidata alle cure e alla protezione di un'altra persona. Babette e io abbiamo rivoltato le nostre vite per esporle allo sguardo intento del compagno, le abbiamo rivoltate sotto la luce della luna nelle nostre mani pallide, parlando fino a notte avanzata di padri e madri, infanzia, amicizie, risvegli, vecchi amori, vecchi timori (tranne che quello della morte). Nessun particolare dev'essere tralasciato, nemmeno un cane con le zecche o il figlio di una vicina che mangiava gli insetti per scommessa. L'odore delle dispense, il senso dei pomeriggi vuoti, la sensazione delle cose che ci piovevano sulla pelle, cose come eventi e passioni, la sensazione del dolore, della perdita, della delusione, del piacere intenso che lascia senza fiato. In tali declamazioni notturne creiamo uno spazio tra le cose come le sentivamo allora e come ne parliamo adesso. Lo spazio riservato all'ironia, alla comprensione e all'affetto divertito, strumenti con cui ci riscattiamo dal passato.
Decisi per il ventesimo secolo. Quindi mi misi l'accappatoio e scesi lungo il corridoio fino alla camera di Heinrich per cercare un giornaletto di bassa lega, da cui Babette potesse leggere qualcosa, di quelli che pubblicano lettere dei lettori sulle proprie esperienze sessuali. Secondo me è uno dei pochi contributi dell'immaginazione moderna alla storia delle pratiche erotiche. Sono lettere in cui agisce una fantasia doppia. La gente prima scrive episodi immaginati e poi li vede pubblicati in una rivista a diffusione nazionale. Quale dei due momenti è il più eccitante?
C'era Wilder, occupato a guardare Heinrich che faceva un esperimento di fisica con alcune palline di acciaio e un'insalatiera. Heinrich indossava una vestaglia di spugna, aveva un asciugamano attorno al collo e un altro in testa. Mi disse di cercare di sotto.
In una pila di materiale assortito trovai alcuni album di foto di famiglia, dei quali un paio avevano almeno una cinquantina di anni. Li portai su in camera. Quindi passammo ore a sfogliarli, seduti nel letto. Bambini con il viso contorto in una smorfia per la luce, donne con cappellino da sole, uomini che si riparavano gli occhi dal riverbero, come se il passato avesse disposto di un tipo di luce che non ci è più dato sperimentare, un fulgore domenicale che costringeva la gente vestita della festa a contrarre la faccia e a porsi a una certa angolazione rispetto al futuro, quasi - sembrava - con lo sguardo rivolto da un'altra parte, con appiccicati in faccia sorrisi fissi e ben tracciati, scettici nei confronti di qualcosa che pertiene alla natura della macchina fotografica a cassetta. Chi morirà prima?
CAPITOLO OTTAVO
La mia battaglia con la lingua tedesca cominciò a metà ottobre e durò quasi tutto l'anno accademico. In quanto figura di maggior rilievo degli studi hitleriani in nord America, era da molto tempo che cercavo di nascondere il fatto che non conoscevo il tedesco. Non lo parlavo e non lo leggevo, non lo capivo e non sapevo neanche da che parte cominciare per mettere su carta la frase più elementare. I più scarsi fra i miei colleghi in Hitler lo sapevano un po', altri o lo parlavano bene o sapevano usarlo in maniera ragionevole a fini di conversazione. Nessuno poteva specializzarsi in studi hitleriani, al Collegeon-the-Hill, senza un minimo di un anno di tedesco. In breve: vivevo ai margini di un territorio di ampia vergogna.
Il tedesco. Carnoso, distorto, sputacchione, porporino e crudele. Ma bisognava finalmente affrontarlo. Non era forse rappresentato dallo stesso sforzo di Hitler di esprimersi in tedesco, il cruciale senso latente della sua imponente e straripante autobiografia, dettata in un carcere-fortezza delle montagne bavaresi? Grammatica e sintassi. Può darsi che si sia sentito imprigionato in più di un senso.
Ho fatto diversi tentativi per imparare il tedesco, serie indagini su origini, strutture, radici. Avvertivo
il potere mortale della lingua. Volevo parlarla bene, usarla come talismano, come strumento protettivo. Più mi ritraevo davanti al compito di imparare vere parole, regole e pronunce, più importante mi sembrava andare avanti. Ciò che riluttiamo a toccare, sembra spesso essere l'essenza stessa di cui è intessuta la nostra salvezza. Ma mi sfuggivano i suoni di base, l'aspra settentrionalità scattante di parole e sillabe, il porgere imperioso. Tra la parte posteriore della lingua e la volta della bocca succedeva qualcosa che si prendeva gioco dei miei tentativi di formulare parole tedesche.
Ero tuttavia deciso a riprovare.
Dal momento che avevo raggiunto un elevato livello professionale, che le mie lezioni erano ben frequentate e i miei articoli pubblicati nelle riviste più importanti, che indossavo una veste accademica e gli occhiali scuri giorno e notte ogni qual volta ero al campus, che portavo in giro centoquattro chili in una struttura di un metro e novantasette, disponendo inoltre di mani e piedi grossi, sapevo che le mie lezioni di tedesco dovevano rimanere un segreto.
Mi misi pertanto in contatto con un uomo che non aveva nulla a che fare con il college, un individuo di cui mi aveva parlato Murray Jay Siskind, suo compagno di pensione nella casa in assicelle verdi a Middlebrook. Aveva cinquant'anni passati e camminava strascicando leggermente i piedi. Aveva capelli radi, viso affabile e portava le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci, esponendo la sottostante canottiera a maniche lunghe.
La sua carnagione era di una tonalità che voglio definire color carne. Si chiamava Howard Dunlop. Affermò di aver fatto il chiropratico, ma non fornì nessuna spiegazione del perché non fosse più attivo, né disse dove avesse imparato il tedesco, o perché, ma qualcosa dei suoi modi mi trattenne dal chiederglielo.
Ci sedemmo nella sua stanza di pensionante, buia e disordinata. Accanto alla finestra era appoggiato, chiuso, un asse per stirare. C'erano pentole sbreccate di smalto, cassette di utensili posate su un cassettone. Il mobilio era vago, scompagnato. Sui bordi della stanza c'erano gli oggetti fondamentali. Un calorifero scoperto, una branda con coperta militare. Dunlop stava seduto sul margine di una sedia dallo schienale diritto e declamava principi generali di grammatica. Quando passava dall'inglese al tedesco, era come se nella laringe gli fosse stata strizzata una corda. Nella sua voce compariva un'emozione improvvisa, un raschiare e gargarizzare che parevano il risvegliarsi di un'ambizione animalesca. Mi guardava a bocca spalancata e gesticolava, gracidava. Rischiò lo strangolamento. Dalla radice della sua lingua arrivavano suoni di rigurgito, aspri rumori intrisi di passione. Stava soltanto mostrandomi certe strutture basilari della pronuncia, ma la trasformazione avvenuta nel suo volto e nella sua voce mi fecero pensare che stesse compiendo una transizione tra due diversi livelli dell'essere.
Me ne stetti seduto a prendere appunti.
L'ora passò in fretta. Quando gli chiesi di non parlare con nessuno di queste lezioni, Dunlop si limitò a un'avara scrollata di spalle. Poi mi venne in mente che era lui quello che Murray, nel suo sommario dei compagni di pensione, aveva descritto come quello che non usciva mai di camera.
Fermatomi alla stanza di Murray, gli chiesi di venire a casa con me per cena. Posò la copia di "American Transvestite" che stava guardando e si infilò la giacca di velluto a coste. Quindi ci fermammo sul portico il tempo necessario perché spiegasse al padrone di casa, lì seduto, di un rubinetto che sgocciolava nel bagno del secondo piano. Tale padrone di casa era un uomo florido e di vaste dimensioni, di una salute tanto robusta ed esuberante che sembrava vittima di un infarto proprio mentre lo guardavamo.
- Riuscirà a sistemarlo, - disse Murray, mentre ci dirigevamo a piedi verso Elm Street. - Alla fine aggiusta tutto. È bravissimo con tutti quegli utensili, attrezzi e strumenti di cui la gente di città non conosce nemmeno i nomi. Li sanno soltanto nelle comunità fuori mano, cittadine e zone rurali. Peccato che sia un benpensante pazzesco.
- Come fai a saperlo?
- Quelli che sanno aggiustare le cose lo sono quasi sempre.
- In che senso?
- Pensa a tutti quelli che sono venuti a casa tua a riparare qualcosa. Tutti benpensanti, no?
- Non saprei.
- Guidano furgoncini che hanno sul tetto la scaletta allungabile e appeso a penzolare sul lunotto un qualche talismano, no?
- Non saprei, Murray.
- È evidente, - concluse.
Quindi mi chiese perché avessi scelto proprio quest'anno per imparare il tedesco, dopo tanti anni passati a scapolarla. Gli spiegai che per la primavera successiva era in programma un seminario di studi hitleriani. Tre giorni di conferenze, laboratori e tavole rotonde. Hitlerologi provenienti da diciassette stati americani e da nove paesi stranieri. Era prevista anche la presenza di alcuni tedeschi autentici.
A casa Denise sistemò un sacchetto fradicio di spazzatura nel compressore della cucina. Quindi lo mise in moto. Il pistone diede il suo colpo di maglio verso il basso con un tremendo rumore di torsione, evocatore di sensazioni arcane. Bambini entravano e uscivano dalla cucina, acqua sgocciolava nel lavandino, nell'ingresso si sentivano i gemiti della lavatrice. Murray parve assorbito nel reticolo dei rumori. Metallo che cigolava, bottiglie che esplodevano, plastica che veniva spiaccicata. Denise ascoltava attentamente, per accertarsi che da tutto quel rumore di frantumazione emergessero i giusti elementi sonici, a significare che l'apparecchio funzionava come si deve.
Heinrich disse a qualcuno al telefono: - Gli animali l'incesto lo praticano continuamente. Quindi com'è possibile che sia una cosa contro natura?
Babette arrivò dalla sua seduta di corsa, zuppa di sudore. Murray attraversò la cucina per stringerle la mano. Lei inciampò in una sedia, ispezionando la stanza in cerca di Wilder. Io vidi che Denise stava facendo un paragone mentale tra la tenuta da corsa della madre e il sacco umido che aveva gettato nel compressore. Glielo lessi nello sguardo, connessione sarcastica. Erano questi livelli secondari di esistenza, questi lampi extrasensoriali, queste sfumature fluttuanti dell'essere, queste sacche di rapporti formatesi in maniera inattesa, a farmi credere che noi costituivamo un fatto magico, adulti e bambini uniti a condividere una serie inesplicabile di cose.
- Dobbiamo far bollire l'acqua, - disse Steffie.
- Perché?
- L'hanno detto alla radio.
- Lo dicono sempre, - commentò Babette. - È la novità del momento, come girare il volante verso il marciapiede quando si sbanda. Ecco che arriva Wilder. Credo che possiamo mangiare.
Il bambino procedeva con andatura ondeggiante, crollando il testone, e vedendolo avvicinarsi sua madre fece delle smorfie di intenso piacere, maschere felici e stravaganti - I neutrini vanno diritti al cuore, - disse Heinrich nella cornetta. - Sì sì sì, - disse Babette.
CAPITOLO NONO
Il martedì la scuola elementare dovette essere evacuata. I bambini vennero colti da mal di testa e irritazione agli occhi, oltre ad avvertire un sapore metallico in bocca. Una maestra si mise a rotolare sul pavimento, parlando lingue straniere. Nessuno capiva che cosa stesse succedendo. Gli incaricati delle ricerche dissero che poteva dipendere dal sistema di ventilazione, dalla vernice o dallo smalto, dalla schiuma isolante, dall'isolante elettrico, dal cibo della mensa, dai raggi emessi dai microcomputer, dall'amianto antincendio, dall'adesivo dei contenitori per il trasporto, dalle esalazioni di cloro della piscina, o forse da qualcosa di ancora più profondo, più sottile, più intimamente insito nello stato essenziale delle cose.
Denise e Steffie quella settimana rimasero a casa, mentre uomini in tuta di Mylex e maschera respiratoria procedevano a ispezioni sistematiche dell'edificio con un'apparecchiatura di rilevamento a raggi infrarossi e strumenti di misurazione. Dal momento che lo stesso Mylex è un materiale sospetto, gli esiti risultarono piuttosto ambigui, per cui venne programmata una seconda serie di rilevamenti più seri.
Le due ragazzine, Babette e io, con Wilder, andammo al supermercato. Qualche minuto dopo essere entrati ci imbattemmo in Murray. Era la quarta o quinta volta che lo vedevo lì, più o meno quante lo avevo visto al campus. Afferrò Babette per il bicipite sinistro e le volteggiò attorno, quasi volesse annusarle i capelli.
- Bella cena, - disse poi, standole direttamente alle spalle. - Anche a me piace cucinare, per cui so apprezzare doppiamente chi lo fa bene.
- Vieni quando vuoi, - replicò lei, voltandosi per tentare di vederlo.
Ci spostammo tutti assieme nell'interno ultra-condizionato. Wilder stava seduto nel carrello e cercava di afferrare al volo qualche oggetto dai banchi. Secondo me, tuttavia, ormai era troppo grande e grosso. Mi chiedevo anche come mai il suo vocabolario sembrava bloccato sulle venticinque parole. - Sono felice di essere qui, - disse Murray.
- A Blacksmith?
- A Blacksmith, nel supermercato, nella pensione, alla Hill. Sento di imparare qualcosa di importante ogni giorno che passa. Morte, infermità, l'aldilà, lo spazio cosmico. Qui è tutto molto più chiaro. Riesco a pensare e vedere.
Ci spostammo nella zona degli alimentari generici, dove Murray si attardò con il suo cesto di plastica a grufolare tra cartoni e vasetti bianchi. Non ero sicuro di aver capito che cosa intendesse dire. Che cosa significava «molto più chiaro»? Che cosa riusciva a pensare e vedere?
Steffie mi prese per mano e oltrepassammo i banchi della frutta, zona che si estendeva per una quarantina di metri lungo una sola parete. I banchi erano disposti in diagonale e avevano sul retro degli specchi, cui la gente mollava accidentalmente dei pugni tentando di raggiungere la frutta sistemata nei ripiani superiori. Una voce all'altoparlante disse: - Kleenex Softique, per favore, il vostro camion blocca l'ingresso -. Quando qualcuno prendeva un frutto da certi punti delle pile perfettamente disposte, mele e limoni rotolavano a terra, a due a due, a tre a tre. C'erano sei tipi di mele, nonché meloni esotici di diverse colorazioni chiare. Tutto sembrava di stagione, irrorato, lustrato, luccicante. La gente prendeva sottilissimi sacchetti di plastica dagli espositori e cercava di capire da quale estremità si aprissero. Sistemi elettronici inespressivi, scorrere e stridere di carrelli, apparecchi di amplificazione e per fare il caffè, grida di bambini. E sopra a tutto, o sotteso a tutto, un rombo sordo e non localizzabile, come di forma di vita sciamante, esterna alla sfera della comprensione umana.
- Lo hai detto a Denise, che ti spiace?
- Magari dopo, - replicò Steffie. - Ricordamelo tu.
- È carina e vuole esserti sorella maggiore e amica, se glielo consenti.
- Amica, non so. È un po' prepotente, non ti pare?
- A parte il dirle che ti spiace, non dimenticare di renderle il "Prontuario medico".- È sempre lì a leggere quella roba. Non ti pare strano?
- Almeno legge qualcosa.
- Già, elenchi di droghe e medicinali. E vuoi sapere perché?
- Perché?
- Perché sta cercando di scoprire gli effetti collaterali della roba che prende Baba.
- Che roba prende, Baba?
- Non chiederlo a me. Chiedilo a Denise.
- E tu come fai a sapere che Babette prende della roba?
- Chiedilo a Denise.
- E se invece lo chiedessi a Baba?
- Chiediglielo, - concluse Steffie.
Murray emerse da una corsia e si mise a procedere di fianco a Babette, davanti a noi. Le prese dal carrello una confezione doppia di tovaglioli di carta e l'annusò. Denise aveva trovato alcuni amici, con i quali si portò nella parte anteriore del supermercato per guardare i tascabili negli espositori girevoli, i libri dai caratteri metallici luccicanti, dalle lettere in rilievo, dalle vivaci illustrazioni trasudanti cultoviolenza e tempestosa avventura. Aveva in testa una visiera verde.
Sentii Babette dire a Murray che erano tre settimane che la portava quattordici ore al giorno. Non sarebbe mai andata in giro senza: non usciva neanche di camera. La portava a scuola, quando era aperta, la portava in bagno, nella poltrona del dentista, a tavola. In quella visiera c'era qualcosa che sembrava parlarle, offrirle pienezza e identità.
- È la sua interfaccia con il mondo, - disse Murray. Stava aiutando Babette a spingere il suo carrello stracarico. Lo sentii dire: - I tibetani credono che vi sia uno stato di transizione tra la morte e la rinascita. La morte sarebbe fondamentalmente un periodo di attesa. Dopo poco tempo l'anima sarà accolta da un nuovo grembo. Nel frattempo essa restituisce a se stessa una parte della divinità che ha perduto al momento della nascita -. Studiai il profilo di Babette per cogliervi una reazione. - È la stessa cosa che penso io ogni volta che vengo qui. Questo posto ci ricarica sotto il profilo spirituale, ci prepara, è un passaggio o una transizione. Guarda quant'è luminoso. È pieno di dati sovrannaturali. Mia moglie gli sorrise.
- Tutto è celato nel simbolismo, nascosto da veli di mistificazione e strati di materiale culturale. Ma sitratta senza ombra di dubbio di dati sovrannaturali. Le grandi porte si aprono scorrendo e si chiudono spontaneamente. Onde di energia, radiazione incidente. E poi ci sono lettere e numeri, tutti i colori dello spettro, tutte le voci e i rumori, tutte le parole in codice e le frasi convenzionali. È soltanto questione di decifrare, ricombinare, eliminare gli strati di impronunciabilità. Non che sia il caso, non che ne possa derivare alcuno scopo utile. Questo non è il Tibet. E neanche il Tibet è più quello di una volta.
Continuai a esaminare il profilo di Babette, che mise dello yogurt nel carrello.
- I tibetani cercano di vedere la morte per ciò che essa è. Ovvero la fine dell'attaccamento alle cose. Una verità semplice ma difficile da capire. Tuttavia, una volta che si sia smesso di negare la morte, si può procedere tranquillamente a morire e poi ad affrontare l'esperienza della rinascita uterina, o l'aldilà giudaico-cristiano, o l'esperienza extracorporea, o un viaggio su un Ufo, o come che lo si voglia chiamare. E possiamo farlo con chiarezza di visione, senza timore riverenziale o terrore. Non dobbiamo aggrapparci artificialmente alla vita, e neanche alla morte. Non si fa altro che procedere verso le porte scorrevoli. Onde e radiazioni. Guarda come è tutto ben illuminato. Questo posto è sigillato, conchiuso in sé. E senza tempo. Un'altro motivo per cui penso al Tibet. Morire, in Tibet è un arte. Arriva un sacerdote, si siede, dice ai parenti in lacrime di andarsene e fa sigillare la stanza. Porte e finestre, tutte sigillate. Ha cose serie da fare. Salmodie, numerologia, oroscopi, recitazioni. Qui non moriamo, facciamo acquisti. Ma la differenza è meno marcata di quanto si creda.
Ormai stava praticamente mormorando, per cui cercai di avvicinarmi senza andare a sbattere con il mio carrello in quello di Babette. Volevo sentire tutto.
- I supermercati così grandi, puliti e moderni, per me sono una rivelazione. Ho passato la vita in negozietti di gastronomia con banchi sbilenchi pieni di vassoi su cui erano disposti mucchietti mollicci e umidi di sostanze di svariate colorazioni chiare. Banchi tanto alti da costringere a stare in punta di piedi per ordinare. Grida, accenti diversi. Nelle città nessuno più nota la specificità del morire. Il morire è una componente dell'aria. Si trova ovunque e in nessun luogo. Morendo gli uomini gridano, per farsi notare, per farsi ricordare per un paio di secondi. Morire in un appartamento di città può deprimere l'anima, penso, per diverse vite a venire. Nelle cittadine di provincia invece ci sono le villette, le piante nei bovindi. La gente nota di più la morte. I morti hanno volti, automobili. Se non si sa un nome, si sa però quello di una strada, di un cane. «Aveva una Mazda arancione». Di una persona si sanno un paio di cose inutili che diventano importanti elementi di identificazione e collocazione cosmica, nel caso in cui essa muoia all'improvviso, dopo una breve malattia, nel proprio letto, con trapunta e cuscini rivestiti uguali, in un mercoledì pomeriggio piovoso, febbricitante, un po' congestionata nei seni nasali e al petto, pensando alla lavatura a secco.
Babette esclamò: - Dov'è Wilder? - voltandosi a fissarmi con un'espressione intesa a significare che erano passati dieci minuti da quando l'aveva visto l'ultima volta. Erano altri sguardi, meno meditabondi, meno colpevoli, a indicare più ampi lassi di tempo, più profondi mari di distrazione. Tipo: «"Toh! Non lo sapevo che le balene erano mammiferi"». Più ampio il lasso di tempo, più vacuo lo sguardo, più pericolosa la situazione. Come se il senso di colpa fosse un lusso che si permetteva soltanto quando il pericolo era minimo.
- Come ha fatto a scendere dal carrello senza che me ne accorgessi?
I tre adulti si disposero ciascuno all'estremità di una corsia e presero a sbirciare nel traffico scorrente di carrelli e corpi. Quindi ce ne facemmo altre tre, la testa sporta in avanti, muovendoci leggermente a zig zag per cambiare visuale. Continuavo a vedere chiazze di colore sulla destra, ma quando mi voltavo da quella parte non c'era più niente. Erano anni che le vedevo, ma mai così tante, né così gaiamente animate. Fu Murray a vedere Wilder nel carrello di un'altra donna, che fece un cenno di saluto alla volta di Babette e si diresse verso di noi. Abitava nella nostra via, con una figlia adolescente e un infante asiatico di nome Chun Due. Lo indicavano tutti per nome, quasi con un tono di orgogliosa proprietà, ma nessuno sapeva chi fossero i veri genitori, né di dove fosse o da dove venisse.
- Kleenex Softique, Kleenex Softique.
Steffie mi teneva la mano in un modo che, dopo un po' di tempo, ero arrivato a capire non voleva essere dolcemente possessivo, come pensavo sulle prime, ma rassicurante. Ero vagamente sbalordito.
Una presa salda, intesa a farmi ritrovare la fiducia in me stesso, a impedirmi di rassegnarmi di fronte a qualsivoglia umor tetro lei ritenesse di aver colto aleggiare attorno alla mia persona.
Prima di portarsi alla coda rapida, Murray ci invitò a cena, il sabato seguente.
- Basta che me lo facciate sapere all'ultimo momento.
- Verremo senz'altro, - disse Babette.
- Non preparo niente di complicato, per cui basta che chiamiate poco prima per dirmi se viene qualcun altro. Non c'è neanche bisogno che chiamiate. Se non vi fate vedere, capirò che è successo qualcosa e che non siete riusciti a farmelo sapere.
- Veniamo senz'altro, Murray.
- Portate anche i bambini.
- No.
- Benissimo. Ma se decidete di portarli, nessun problema. Non voglio abbiate l'impressione che vi vincolo. Non consideratevi legati a un impegno ferreo. Se venite, bene, altrimenti amen. Io devo comunque mangiare, per cui non è una catastrofe se succede qualcosa e dovete rinunciare. Voglio solo sappiate che se decidete di fare un salto, con o senza bambini, io sono lì. Abbiamo fino a maggio o giugno per farlo, quindi non è che la scelta di sabato venturo abbia un significato particolare.
- Il prossimo semestre torni? - chiesi io.
- Vogliono che tenga un corso sugli incidenti d'auto nel cinema.- Fallo.
- Certo.
Nella coda della cassa mi strusciai contro Babette. Lei mi si appoggiò e io la circondai con le braccia, mettendole le mani sui seni. Lei fece ruotare le anche e io le strofinai il naso tra i capelli, mormorando: «Sudicia bionda». La gente compilava assegni, ragazzi di alta statura impacchettavano le merci. Alle casse nessuno parlava inglese, come nemmeno agli scaffali della frutta e dei surgelati, né tra le auto del parcheggio.
Sentivo sempre più di frequente lingue che non sapevo identificare e ancor meno capire, anche se i ragazzi alti erano nati in America e le cassiere idem, basse, grassotte nei loro grembiuli azzurri, con pantaloni in tessuto elastico e minuscole scarpe bianche di corda. Cercai di infilare la mano nella gonna di Babette, sulla pancia, mentre la coda in lento movimento procedeva verso l'ultimo punto di acquisto, mentine per l'alito cattivo e inalatori nasali.
Fu all'esterno, nel parcheggio, che sentimmo parlare per la prima volta di un morto nel corso dell'ispezione alla scuola elementare, uno degli uomini in maschera e tuta di Mylex, con gli stivaloni, grande e grosso. Morto di schianto, secondo la voce diffusa, in un'aula del secondo piano.
CAPITOLO DECIMO
La retta, al College-on-the Hill, è di quattordicimila dollari, compreso il brunch della domenica. Secondo me c'è una connessione tra questa cifra imponente e il modo in cui gli studenti si sistemano fisicamente nelle zone di lettura della biblioteca. Stanno seduti su ampi sedili imbottiti, in varie sorti di stravaccamenti, chiaramente calcolati per costituire il segno distintivo di un gruppo di affini o di un'organizzazione segreta. Se ne stanno lì in posizione fetale, spaparacchiati, con le ginocchia valghe, inarcati, ingarbugliati, a volte quasi a gambe all'aria. Posizioni talmente studiate da attenere alla mimica classica. Vi è, in esse, qualcosa di ultraraffinato e congenito. A volte mi sembra di essere penetrato in un sogno da Estremo Oriente, troppo remoto per essere interpretato. Ma è soltanto un linguaggio da classe economica, quello che parlano, in una delle sue manifestazioni esterne ammissibili, come l'arrivo in massa delle station wagon all'inizio dell'anno.
Denise osservò la madre strappare il nastrino di cellofan da una confezione speciale di sedici pezzi di chewing gum involti uno per uno. Quindi, mentre tornava all'agendina che teneva posata davanti a sé sul tavolo da cucina, gli occhi le si fecero più piccoli. Il suo volto undicenne divenne un'esperta maschera di esasperazione contenuta.
Attese un lungo istante, poi con voce priva di espressione disse: - Nel caso che tu non lo sappia, quella roba lì, nelle cavie di laboratorio produce il cancro.
- Sei stata tu a dire che dovevo masticare gomma senza zucchero, Denise. È stata un'idea tua.
- Allora sulla confezione non c'era nessuna avvertenza. Adesso invece ce la mettono, e stento acredere che tu non l'abbia vista.
Stava trascrivendo nomi e numeri telefonici da un'agendina vecchia a una nuova. Niente indirizzi. I suoi amici, stirpe dotata di coscienza analogica a sette bit, disponevano soltanto di numero telefonico.
- A me va benissimo comunque, - disse Babette. - Dipende unicamente da te. O mastico gomma con zucchero e coloranti artificiali, oppure mastico quella senza zucchero e colore, che fa male ai ratti.
Steffie mise giù il telefono. - Non masticare niente, - ribatté. - Ci hai mai pensato?
Babette stava rompendo uova in un'insalatiera di legno. Mi rivolse uno sguardo che chiedeva come facesse la ragazzina a parlare al telefono e contemporaneamente ad ascoltarci. Perché ci trova interessanti, avrei voluto rispondere.
Rivolta alle ragazzine, Babette continuò: - Sentite: o mastico gomma, o fumo. Se volete che ricominci a fumare, portatemi via i miei chewing gum e le mie Mentho-Lyptus.
- Perché devi proprio fare una cosa o l'altra? - chiese Steffie. - Perché non la pianti con tutte e due?
- O perché non le fai tutt'e due? - chiese Denise, con il volto accuratamente slavato di ogni espressione. - È questo che vuoi, vero? Riusciamo tutti a fare quello che vogliamo, tranne che, se domani vogliamo andare a scuola, noi non possiamo, perché la stanno disinfestando, o chissà che cosa.
Il telefono suonò e Steffie si precipitò a rispondere.
- Non sono una criminale, - replicò Babette. - Non voglio fare altro che dare di quando in quando una masticatina a un pezzetto minuscolo e insipido di gomma.
- Be', non è una cosa così semplice, - commentò Denise.
- Non è neanche un delitto, però. Ne mastico un paio al giorno, di questi pezzetti.
- Be', non puoi più.
- E invece sì, Denise. Voglio. L'atto di masticare mi rilassa, guarda un po'. Stai facendo un gran putiferio per niente.
Steffie riuscì a richiamare la nostra attenzione per il semplice mezzo dell'espressione implorante del suo viso. Teneva la mano sulla cornetta. Non parlò, limitandosi a formulare le parole con le labbra. "Gli Stover vogliono venire qui".
- Genitori o figli? - chiese Babette.
Steffie scrollò le spalle.
- Non li vogliamo, - disse Babette.
- Tienili alla larga, - aggiunse Denise.
"Che cosa dico?"
- Quello che vuoi.
- Tienili alla larga da qui.
- Sono noiosi.
- Digli di stare a casa.
Steffie si ritirò con il telefono, facendogli schermo con il corpo, gli occhi pieni di timore ed eccitazione.
- Non è possibile che un po' di gomma faccia male.
- Secondo me hai ragione. Fregatene. E soltanto un'avvertenza sull'involucro.
Steffie appese. - Pericolosa soltanto per la tua salute.
- Soltanto per quella dei topi, - precisò Denise. - Penso che tu abbia ragione. Fregatene.
- Forse crede che siano morti nel sonno.
- Erano soltanto dei roditori inutili, quindi che differenza fa?
- Che differenza fa, perché tutto questo putiferio? - chiese Steffie.
- E poi mi piacerebbe credere alla storia che ne mastica solamente due al giorno, visto il modo come dimentica le cose.
- Che cosa dimentico? - chiese Babette.
- Niente, niente, - rispose Denise. - Lascia perdere.
- Che cosa dimentico?
- Continua pure a masticare. Fregatene dell'avvertenza. Non me ne importa niente.
Sollevai Wilder da una sedia e gli diedi sull'orecchio un bacio schioccante che lo fece ritrarre deliziato. Quindi lo posai sul piano della cucina e salii di sopra a cercare Heinrich, che era nella sua stanza, occupato a studiare la disposizione dei pezzi da scacchi in plastica.
- Continui a giocare con quel tizio in prigione? Come va?
- Abbastanza bene. Penso di averlo incastrato.
- Che cosa ne sai di questo individuo? È un po' che avevo voglia di chiedertelo.
- Per esempio chi ha ammazzato? La grande novità del giorno. Ci si preoccupa della vittima.
- Sono mesi che giochi a scacchi con lui. E che cosa ne sai, a parte il fatto che è in galera a vita, per omicidio? È giovane, vecchio, nero, bianco? Non vi comunicate altro che le mosse degli scacchi? - Ogni tanto ci mandiamo un biglietto.
- Chi ha ammazzato?
- Era molto stressato.
- E che cos'è successo?
- Lo stress continuava ad aumentare.
- Quindi è uscito e ha fatto fuori qualcuno. A chi ha sparato?
- A certa gente di Iron City.
- Quanti?
- Cinque.
- Cinque persone.
- Senza contare il poliziotto, che è successo dopo.
- Sei persone. Aveva una cura ossessiva delle proprie armi? Disponeva di un arsenale ammassato nella sua squallida stanzetta di fianco a un parcheggio di cemento a sei piani?
- Alcune pistole e una carabina a ripetizione con telescopio.
- Mirino telescopico. Ha sparato da un cavalcavia di autostrada, ha affittato una camera? È entrato in un bar, in una lavanderia automatica, nel suo ex posto di lavoro e si è messo a fare fuoco indiscriminatamente? Gente che si disperdeva di qua e di là, cercando riparo sotto i tavoli. Altra, fuori in strada, che pensava di sentire dei petardi. «Stavo aspettando l'autobus quando ho sentito questi piccoli schiocchi, come se qualcuno sparasse dei petardi».
- È salito su un tetto.
- Un cecchino da tetto. Ha scritto un diario, prima di salirci? Ha registrato nastri con la propria voce, è andato al cinema, ha letto libri su altri omicidi di massa, per rinfrescarsi la memoria? - Ha inciso dei nastri.
- Nastri. E che cosa ne ha fatto?
- Li ha mandati alle persone a cui voleva bene, chiedendo il loro perdono.
-«Non posso farci niente, miei cari». Le vittime erano persone completamente estranee? È stato un massacro fatto per motivi di rancore? Era stato licenziato? Aveva sentito delle voci?
- Completamente estranee.
- Aveva sentito delle voci?
- Alla T.V.
- Rivolte esclusivamente a lui? Che indicavano proprio lui?
- Che gli dicevano di farsi un posto nella storia. Aveva ventisette anni, era disoccupato, divorziato e con la macchina completamente inutilizzabile. Gli stava scappando tra le mani il tempo.
- Voci insistenti, che lo hanno messo in crisi. Come si è comportato con la televisione? Ha concesso un sacco di interviste, ha scritto lettere al direttore del giornale locale, ha cercato di tirarne fuori un libro?
- A Iron City la televisione non c'è. Non ci ha pensato, finché è stato troppo tardi. Dice che, un'altra volta, non farebbe un comune omicidio, ma un attentato.
- Sceglierebbe con più cura, ammazzerebbe una persona famosa, si farebbe notare, prolungherebbe l'effetto.
- Adesso sa che un posto nella storia non ce l'avrà.
- Neanch'io, se è solo per quello.
- Ma tu hai Hitler.
- Sì, già, certo.
- Tommy Roy Foster, invece, che cosa aveva?
- D'accordo. Tutte queste cose te le ha dette nelle lettere che ti manda. E nelle risposte, tu che cosa
gli dici?
- Che perdo i capelli.
Lo guardai. Era in tuta da ginnastica, aveva un asciugamano attorno al collo e polsini da tennis.
- Lo sai che cosa direbbe tua madre di questa relazione basata sugli scacchi per posta?
- Io so quello che diresti tu. Lo stai dicendo adesso.
- Come sta tua madre? Hai avuto sue notizie, di recente?
- Vuole che questa estate io vada all'ashram.
- E tu hai voglia di andarci?
- Chi lo sa che cosa ho voglia di fare? Chi lo sa che cosa ha voglia di fare in genere la gente? Come si fa a esserne sicuri? Non è tutta una questione di chimica cerebrale, di segnali che vanno avanti e indietro, di energia elettrica nella corteccia? Come si fa a sapere se una cosa è esattamente ciò che si vuole fare, oppure soltanto una qualche specie di impulso nervoso nel cervello? Una minuscola attività secondaria ha luogo da qualche parte, in un punto privo di importanza dentro uno degli emisferi cerebrali, ed ecco che di punto in bianco mi viene voglia di andare nel Montana, oppure no. Come faccio a sapere se ho veramente voglia di andarci e non sono soltanto un po' di neuroni che fanno fuoco, o qualcosa del genere? Magari capita soltanto un lampo, per caso, nel midollo e di punto in bianco eccomi lì nel Montana, dove scopro che in realtà non avevo nessunissima voglia di andarci. Se non sono in grado di controllare quello che mi succede nel cervello, come faccio a essere sicuro di quello che avrò voglia di fare fra dieci secondi, per non parlare di quest'estate e del Montana? È tutta questione di attività cerebrale, per cui non si sa che cosa dipenda dalla propria persona e che cosa da un neurone che ha appena fatto fuoco o magari cilecca. Non è per questo che Tommy Roy ha ammazzato quelle persone?
Il mattino andai in banca. Raggiunsi la cassa automatica per controllare il mio saldo. Inserii la carta, composi il codice segreto, digitai la mia richiesta. La cifra che comparve sullo schermo corrispondeva abbastanza al conto che avevo fatto io, arrivandovi stentatamente dopo una lunga serie di analisi su documenti e di tormentate operazioni aritmetiche. Sentii diverse ondate di sollievo e gratitudine. Il sistema elettronico aveva dato il suo assenso alla mia vita. Ne avvertii il sostegno e l'approvazione. Il cervellone, la struttura centrale, piazzata dentro un locale sbarrato, in una città lontana. Che gradevole interazione. Sentii che qualcosa di profondo valore personale, ma non denaro, tutt'altro, era stato autenticato e confermato. Due guardie armate stavano accompagnando fuori dalla banca una persona disturbata. Il sistema elettronico era invisibile, cosa che lo rendeva ancora più incredibile, ancora più inquietante da averci a che fare. Ma eravamo in consonanza, almeno per ora. Le reti, i circuiti, i flussi, le armonie.
CAPITOLO UNDICESIMO
Mi svegliai nella morsa di un sudore mortale. Senza difese nei confronti del tormento delle mie stesse paure. Una pausa al centro del mio essere. Ero privo della volontà e della capacità fisica di uscire dal letto al fine di andare in giro per la casa buia, sostenendomi a pareti e ringhiere delle scale. Camminare a tastoni, reimpossessarmi del mio corpo, rientrare in questo mondo. Il sudore mi colava sulle costole. L'orologio digitale sulla radiosveglia indicava le 3:51. In momenti come questi, sempre numeri dispari. Che cosa significa? Che la morte è dispari? Che esistono numeri accresci-vita e altri carichi di minaccia? Babette mormorò qualcosa nel sonno e io mi accostai a lei, respirandone il calore.
Finalmente mi addormentai, per essere svegliato dall'odore di un toast che bruciava. Doveva essere Steffie. Li brucia spesso, a qualsiasi ora, apposta. Le piace l'odore, è la sua droga, il suo profumo preferito. La gratifica in modi inattingibili per il fumo di legna, o per le candele smorzate, o per l'odore di polvere da sparo che aleggia per la strada, prodotto dai petardi fatti scoppiare il Quattro Luglio. Ha anche stabilito un ordine di preferenze. Bruciato di pane di segale, bruciato di pane bianco e così via.
Mi misi l'accappatoio e scesi giù. Lo facevo sempre, mettermi l'accappatoio e andare a parlare di cose serie con uno dei nostri figli. Insieme a Steffie, in cucina, c'era Babette. La cosa mi stupì. Pensavo che fosse ancora a letto.
- Vuoi un toast? - chiese la ragazzina.
- La settimana prossima faccio cinquantun'anni.
- Non significa poi essere tanto vecchi, no?
- Sono venticinque anni che me lo continuo a ripetere.
- Male. Quanti anni ha mia madre?
- È ancora giovane. Ne aveva soltanto venti quando ci siamo sposati la prima volta.
- È più giovane di Baba?
- Quasi uguale. Tanto perché non pensi che sono il tipo che va sempre in cerca di donne più giovani.
Non sapevo bene se le mie risposte erano dirette a Steffie oppure a Babette. Cose che succedono in cucina, dove i livelli dei dati sono numerosi e profondi, come avrebbe potuto dire Murray.
- E ancora nella CIA? - chiese Steffie.
- Si era detto di non parlarne, no? E comunque è soltanto una agente esterna.
- Che cosa vuol dire?
- Roba che fa la gente al giorno d'oggi per avere un secondo reddito.
- Che cosa fa esattamente? - chiese Babette.
- Le arriva una telefonata dal Brasile e viene attivata.
- E poi?
- Porta in giro in lungo e in largo per l'America latina una valigetta piena di soldi.
- E basta? Potrei farlo anch'io.
- Ogni tanto le mandano un libro da recensire.
- La conosco? - chiese Babette.
- No.
- So come si chiama?
- Dana Breedlove.
Le labbra di Steffie formularono le parole mentre le pronunciavo.
- Non avrai intenzione di mangiare quella roba, vero? - le chiesi.
- Io il mio toast lo mangio sempre.
Suonò il telefono e sollevai la cornetta. Una voce femminile mi gratificò di una formula di saluto di alta classe. Disse di essere generata da un computer, parte di un'indagine di mercato mirata a determinare i livelli attuali del desiderio di consumo. Aggiunse che mi avrebbe fatto una serie di domande, facendo una pausa dopo ciascuna per darmi modo di rispondere.
Passai la cornetta a Steffie. Quando fu evidente che era alle prese con la voce sintetizzata, mi rivolsi a Babette a bassa, voce.
- Le piaceva l'intrigo.
- A chi?
- A Dana. Le piaceva coinvolgermi in certe cose.
- Di che genere?
- Faide. Piantare zizzania tra gli amici. Intrighi di casa, di facoltà.
- Roba ordinaria, direi.
- Con me parlava in inglese, al telefono, invece, in spagnolo o portoghese.
Steffie si girò su se stessa e usò la mano libera per allontanarsi il golf dal corpo, in maniera da poterne leggere l'etichetta.
- Puro acrilico vergine, - disse nella cornetta. Babette verificò a sua volta l'etichetta del proprio.
Prese a cadere una pioggerellina.
-Che effetto fa avere quasi cinquantun'anni? - chiese.
- Niente di diverso dai cinquanta.
- Con la differenza che uno è pari e l'altro dispari, - precisò lei.
Quella sera, nella stanza bianco sporco di Murray, dopo una cena spettacolare a base di gallina della Cornovaglia foggiata in forma di rana e preparata su un fornelletto a due fiamme, ci spostammo dalle sedie pieghevoli in metallo al letto a castello, per prendere il caffè.
- Quando facevo il giornalista sportivo, - disse Murray, - viaggiavo continuamente, vivevo in aereo, in albergo e tra il fumo degli stadi, per cui non sono mai arrivato a trovarmi a mio agio a casa mia. Adesso ne ho una.
- Hai fatto meraviglie, - disse Babette, facendo scorrere uno sguardo disperato per il locale.
- È piccola, scura e comune, - replicò lui in tono compiaciuto. - Un contenitore per il pensiero.
Indicai il vecchio edificio a quattro piani che copriva diversi acri sull'altro lato della strada. - Non arriva rumore dal manicomio?
- Vuoi dire botte e strilli? È interessante che la gente continui a chiamarlo manicomio. Dev'essere per via di quell'architettura strampalata, del tetto così inclinato, delle colonne, degli svolazzi qua e là, che non riesco a decidere se sono pittoreschi o sinistri. Non sembra un ospizio o un'unità psichiatrica. Ha proprio l'aspetto di un manicomio.
I pantaloni gli stavano diventando lucidi alle ginocchia.
- Mi spiace che non abbiate portato i ragazzi. Voglio conoscerne un po', di quelli piccoli. Viviamo in una società che è loro. Ai miei studenti dico che sono già troppo vecchi per figurare in maniera rilevante nella sua formazione. Minuto dopo minuto stanno già cominciando a diversificarsi l'uno dall'altro. «In questo preciso istante», dico loro, «voi state emergendo dal nucleo, divenendo meno riconoscibili come gruppo, meno etichettabili da parte dei pubblicitari e dei produttori di cultura di massa. I ragazzi sono un autentico universale. Ma voi siete ben oltre questo stadio, già cominciate a deviare, a sentirvi estraniati dai prodotti che consumate. A chi sono destinati? Qual è il vostro posto negli schemi del marketing? Una volta usciti dalla scuola, ci vorrà poco perché sperimentiate la vasta solitudine e insoddisfazione dei consumatori che hanno perso la propria identità di gruppo». Poi picchietto la matita sul tavolo per indicare il sinistro scorrere del tempo.
Essendo tutti seduti sul letto, per rivolgersi a Babette Murray doveva chinarsi molto in avanti, guardando oltre la tazza del caffè che tenevo in mano.
- Quanti figli avete in tutto?
Babette parve avere un'esitazione.
- C'è naturalmente Wilder. E poi Denise.
Murray sorseggiò il proprio caffè, cercando di guardarla di sguincio, con la tazza appoggiata al labbro inferiore.
- C'è Eugene, che quest'anno vive con il padre in Australia occidentale. Ha otto anni. Suo padre effettua ricerche nell'entroterra. È anche padre di Wilder.
- Si tratta di un ragazzino che cresce senza televisione, Murray, - intervenni, - per cui potrebbe essere il caso di definirlo un bambino della foresta, un selvaggio strappato alla boscaglia, intelligente e coltivato, ma privato dei codici e dei messaggi più profondi che marcano la sua specie come unica.
- La T.V. costituisce un problema soltanto se si è dimenticato come guardare e ascoltare, - replicò Murray. - Ne discuto continuamente con i miei studenti. Cominciano a pensare di doversi ribellare al mezzo televisivo, esattamente come una generazione precedente si è rivoltata contro i genitori e il paese. Io invece dico loro che devono imparare di nuovo a guardare da bambini. A scavare il contenuto. A decifrare i codici e messaggi, per usare la tua espressione Jack.
- E loro che cosa dicono?
- Che il termine televisione non sarebbe altro che un modo diverso di indicare la pubblicità postale, quella che si butta via. Ma io dico loro che non posso essere d'accordo. Dico loro che da più di due mesi sto seduto in questa stanza a guardare la T.V. fino alle ore piccole, ascoltando con attenzione, prendendo appunti. Grande esperienza, che rende umili, consentitemi di dirlo. Prossima al mistico.
- E la tua conclusione qual è?
Murray incrociò compostamente le gambe e rimase seduto con la tazza in grembo, sorridendo direttamente al vuoto che aveva davanti.
- Onde e radiazioni, - disse poi. - Sono giunto a capire che il mezzo televisivo è una forza di fondamentale importanza nella casa tipica americana. Conchiusa in sé, senza tempo, autolimitata, autoriferente. È come un mito nato qui nel nostro soggiorno, come una cosa che conosciamo in modo preconscio, quasi in sogno. Ne sono molto intrigato, Jack.
E mi guardò, ancora sorridendo in modo vagamente sfuggente.
- Bisogna imparare a guardare. Bisogna aprirsi ai dati. La T.V. offre un'incredibile quantità di dati sovrannaturali. Porta allo scoperto ricordi della nascita del mondo, ci accoglie nella grata, nel reticolo di macchioline ronzanti che formano la struttura dell'immagine. C'è la luce, c'è il suono. Ai miei studenti chiedo: «Che cosa volete di più?» Guardate la ricchezza di dati celata in quella grata, in quel bell'involucro, le canzoncine, i quadretti di vita famigliare pubblicitari, i prodotti che balzano in primo piano emergendo dalle tenebre, i messaggi codificati e le ripetizioni interminabili, simili a tanti mantra. "Coke is it". "Coke is it". "Coke is it". Il mezzo televisivo trabocca praticamente di formule sacre, se riusciamo a ricordarci come rispondere con innocenza e a superare l'irritazione, la stanchezza e il disgusto.
- Ma i tuoi studenti non sono d'accordo.
- Peggio della pubblicità per posta, dicono: da buttare via. Secondo loro la televisione rappresenterebbe gli spasimi agonici della coscienza umana. Si vergognano del proprio passato televisivo. Vogliono parlare di cinema.
Si alzò e tornò a riempirci le tazze.
- Come fai a sapere così tante cose? - chiese Babette.
- Sono di New York.
- Più parli, più appari sfuggente, come se stessi cercando di convincerci di qualcosa.
- Il miglior discorso è quello che seduce.
- Sei mai stato sposato? - gli chiese Babette.
- Una volta sola, per poco tempo. Mi occupavo di football americano: dei Jets, dei Mets e dei Nets. Che figura stramba devo sembrarvi, adesso, bislacco solitario che si isola in compagnia di un apparecchio T.V. e di mucchi di fumetti polverosi. Non crediate che non mi farebbe piacere ricevere una visita sensazionale, tra le due e le tre del mattino, - rispose lui, - da parte di una donna intelligente, in tacchi a spillo e gonna con lo spacco, nonché munita di tutti i debiti accessori da alto gradimento.
Mentre tornavamo a casa, io che tenevo Babette allacciata in vita con un braccio, piovigginava. Le strade erano vuote. In Elm Street tutti i negozi erano chiusi, le due banche appena fiocamente illuminate, gli occhiali al neon nella vetrina dell'ottico gettavano sul marciapiede una luce fasulla.
Dacron, Orlon, Lycra Spandex.
- Adesso mi dimentico le cose, - disse Babette, - ma non sapevo che fosse diventato così evidente.
- Infatti non lo è.
- Hai sentito Denise? Quando è stato, la settimana scorsa?
- Denise è una ragazzina sveglia, una tipa tosta. Non se ne accorge nessun altro.
- Faccio un numero al telefono e mi dimentico chi sto chiamando. Vado al negozio e mi dimentico che cosa comperare. Qualcuno mi dice qualcosa? Me lo dimentico. Me lo dicono di nuovo? E di nuovo me lo dimentico. E così via, con un sorriso idiota.
- Ci dimentichiamo tutti qualcosa, - replicai.
- Ma io dimentico nomi, facce, numeri di telefono, indirizzi, appuntamenti, istruzioni, indicazioni.
- È una cosa che succede più o meno a tutti.
- Mi dimentico che a Steffie non piace essere chiamata Stefanie. A volte la chiamo Denise. Mi dimentico dove ho parcheggiato l'auto e poi per un lungo, ma lungo, istante, mi dimentico persino com'è fatta l'auto.
- L'oblio è penetrato nell'aria e nell'acqua. Si è introdotto nella catena alimentare.
- Forse è per via della gomma che mastico. Ti sembra inverosimile?
- Forse dipende da qualche altra cosa.
- A cosa ti riferisci?
- Oltre ai chewing gum, tu prendi qualcos'altro.
- Come ti è venuta un'idea del genere?
- Di seconda mano da Steffie.
- E a lei com'è venuta?
- Denise.
Babette tacque un attimo, ammettendo la possibilità che se la fonte di una voce o di una teoria era Denise. questa poteva benissimo essere vera.
- E Denise che cosa dice che prendo?
- Volevo appunto chiederlo a te prima che a lei.
- Per quanto ne so, caro Jack, io non prendo niente da cui possano dipendere i miei vuoti di memoria. D'altra parte non sono vecchia, non ho avuto ferite alla testa e nella mia famiglia non c'è niente, se si esclude qualche utero rovesciato.
- Quindi stai dicendo che forse Denise potrebbe avere ragione.
- Non si può escludere.
- Stai dicendo che forse prendi qualcosa che ha l'effetto collaterale di danneggiare la memoria.
- O prendo qualcosa e non me lo ricordo, o non prendo niente e non me lo ricordo lo stesso. La miavita è tutta un o - o. O mastico la gomma con zucchero, o mastico quella senza. O fumo o ingrasso. O ingrasso o corro su per i gradini dello stadio.
- Vita piuttosto noiosa, direi.
- Spero che duri per sempre, - ribatté lei.
Poco dopo le strade furono coperte di foglie. Foglie che cadevano rotolando e strusciando lungo lo spiovente dei tetti. Ci furono ogni giorno momenti di vento forte, che spogliava ulteriormente gli alberi, e nei cortiletti sul retro o nei praticelli davanti alle abitazioni comparvero i pensionati, che trascinavano rastrelli dai denti ricurvi. Sacchi neri vennero accostati ai paracarri in file sbilenche.
Una serie di bambini spaventati fece la sua comparsa alla nostra porta per i consueti scherzi di Halloween.
CAPITOLO DODICESIMO
Andavo a lezione di tedesco due volte alla settimana, di pomeriggio tardi, con il buio che calava via via sempre più presto. Era norma di lavoro di Howard Dunlop che stessimo seduti uno di fronte all'altro per tutta la durata della lezione. Voleva che studiassi le posizioni della sua lingua mentre mi dimostrava la pronuncia di consonanti, dittonghi, vocali lunghe e corte. A sua volta lui mi guardava attentamente in bocca mentre tentavo di riprodurre quegli infelici suoni.
Il suo era un viso mite e tranquillo, una superficie ovale senza tratti distintivi, finché non dava il la alla procedura delle vocali. Allora iniziava la distorsione. Una cosa stranissima da vedere, vergognosamente affascinante, come potrebbe essere un attacco di epilessia se tenuto sotto controllo. Ritirava la testa nel busto, stringeva gli occhi, si abbandonava a smorfie e boccacce umanoidi. Quando arrivava il mio turno di ripetere i rumori, facevo altrettanto, se non altro per compiacere l'insegnante, torcendo la bocca, chiudendo completamente gli occhi, consapevole di una superarticolazione tanto tormentata da dover sembrare un'improvvisa stortura della legge naturale, come una pietra o un albero che si sforzassero di parlare. Quando aprii gli occhi, era lì a pochi centimetri dalla mia bocca, chino a scrutare. Mi chiedevo regolarmente che cosa diavolo ci vedesse.
Ogni lezione era preceduta e seguita da un silenzio teso. Cercavo di fare quattro chiacchiere, di indurlo a parlare degli anni passati a fare il chiropratico, della sua vita prima del tedesco. Lui fissava lo sguardo nel vuoto, non irritato o annoiato, né evasivo, ma soltanto distaccato, libero, apparentemente, da ogni connessione tra gli eventi. Quando parlava, degli altri pensionanti o del padrone di casa, nella sua voce compariva qualcosa di querulo, una nota contratta di lamentosità. Per lui era importante credere di aver passato la vita tra gente che continuava a non capire niente. - Quanti allievi ha?
- Di tedesco?
- Sì.
- Di tedesco soltanto lei. Prima ne avevo altri. È passato di moda. Sono cose che vanno a cicli, come tutto.
- Che cos'altro insegna?
- Greco, latino, navigazione oceanica a vela.
- E la gente viene qui a impararla?
- Non più tanto.
- È sbalorditivo quanta gente ci sia al giorno d'oggi che insegna, - dissi. - C'è un insegnante per persona. Tutti quelli che conosco sono o insegnanti o allievi. Secondo lei che cosa significa? Dunlop rivolse lo sguardo verso la porta di un armadio. - Insegna qualcos'altro? - chiesi. - Metereologia.
- Metereologia. E come mai?
- La morte di mia madre ha avuto su di me un effetto tremendo. Sono letteralmente entrato in crisi, ho perduto la fede in Dio. Ero inconsolabile, mi sono chiuso completamente in me stesso. Poi un giorno ho visto per caso le previsioni del tempo alla T.V. Un giovane dinamico, con una bacchetta luccicante, stava in piedi davanti a una foto multicolore, ripresa dal satellite, e dava le previsioni per i cinque giorni successivi. Ero lì ipnotizzato dalla sua sicurezza di sé e dalla sua bravura. Sembrava quasi che un messaggio venisse trasmesso dal satellite metereologico attraverso quel giovanotto fino a me, che ero lì seduto nel mio sedile di tela. Quindi mi sono rivolto alla metereologia per averne conforto. Mi sono messo a leggere carte metereologiche, a raccogliere libri di metereologia, a presenziare ai lanci dei palloni metereologici. Mi sono reso conto che il clima era una cosa che stavo cercando da tutta la vita. Mi ha dato un senso di pace e sicurezza che non avevo mai provato. Rugiada, gelo e nebbia. Tempeste di neve. La corrente a getto. In quest'ultima credo addirittura che ci sia qualcosa di grandioso. Ho cominciato a uscire dal guscio, a parlare con la gente per strada. «Bella giornata». «Pare che pioverà». «Le pare che faccia abbastanza caldo?» Il tempo che fa lo notano tutti. Come prima cosa, quando ci si alza, si va alla finestra e si guarda com'è il tempo. Lo fa lei, lo faccio io. Ho messo insieme una lista di risultati che intendevo raggiungere nell'ambito della metereologia. Ho seguito un corso per corrispondenza, ho preso un diploma per insegnare la materia in edifici legalmente occupabili da meno di cento persone. Ho insegnato metereologia in scantinati di chiese, in parcheggi di roulotte, in tavernette e soggiorni. Sono venuti ad ascoltarmi a Millers Creek, a Lumberville, a Watertown. Operai, casalinghe, mercanti, poliziotti, pompieri. Nei loro occhi vedevo qualcosa. Una fame, un bisogno impellente.
I gomiti della sua canottiera a maniche lunghe erano bucati. Stavamo in piedi al centro della stanza. Aspettai che continuasse. Erano la stagione dell'anno e l'ora del giorno adatte perché un po' di persistente tristezza si infiltrasse nella tessitura delle cose. Penombra, silenzio, gelo ferreo. Un certo senso di solitudine nelle ossa.
Quando arrivai a casa, in cucina c'era Bob Pardee che faceva pratica di swing golfistico. È il padre di Denise. Disse che era di passaggio in città con l'auto, diretto a Glassboro per una dimostrazione, e quindi aveva pensato di portarci tutti fuori a cena.
Sollevò le mani allacciate in un movimento lento sopra la spalla sinistra, portando a termine il gesto in scioltezza. Denise lo teneva d'occhio da uno sgabello accanto alla finestra. Lui indossava un cardigan piuttosto peloso, con maniche che facevano le pieghe sui polsini.
- Che tipo di dimostrazione? - chiese Denise.
- Oh, sai. Carte, frecce. Sbatto un po' di colori su una parete. È un buon sistema per comunicare, tesoro.
- Hai cambiato mestiere un'altra volta?
- Raccolgo fondi. E ho anche un bel daffare, puoi crederci.
- Che tipo di fondi?
- Ma, sai, quello che c'è. La gente vuole darmi buoni dell'assistenza alimentare, stampe? Magnifico, a me non importa.
Era piegato per eseguire un colpo con il putter. Babette si appoggiò alla porta del frigo con le braccia incrociate, osservandolo. Di sopra una voce dall'accento inglese diceva: - Ci sono forme di vertigine che non comportano giramenti di testa.
- Fondi per fare? - chiese Denise.
- C'è una cosetta di cui può essere che tu abbia sentito parlare e che si chiama Fondazione per la Prevenzione degli Incidenti Nucleari. Fondamentalmente un fondo di difesa legale per l'industria. Caso mai succedesse qualcosa.
- Caso mai che cosa?
- Caso mai svenissi per la fame. Facciamoci fuori qualche cotolettina, eh? Che cosa ne dici Babette? Sono quasi pronto a scannarmi da me la mia bestia.
- Ma quanti mestieri sarebbero, comunque?
- Non rompere, Denise.
- Non importa, lascia perdere, fa' quello che vuoi. Bob portò i tre ragazzi più grandi al Wagon Wheel.
Io accompagnai Babette alla casa sul fiume, dove avrebbe fatto un po' di lettura al signor Treadwell, il vecchio cieco che vi abitava con la sorella. Tra di noi stava seduto Wilder, occupato a giocare con i tabloid di supermercato che costituivano il materiale di lettura preferito dallo stesso Treadwell. Come lettrice volontaria per ciechi, Babette aveva qualche riserva circa il gusto dei vecchi per l'abominevole e il sordido, ritenendo che i portatori di handicap fossero moralmente tenuti a più elevati tipi di intrattenimento. Se non potevamo contare su di loro per qualche vittoria dello spirito umano, su chi mai? Avevano un esempio da dare, come faceva lei in veste di lettrice e assistente sociale. Ma il proprio compito lo eseguiva con spirito professionale, e di conseguenza leggeva con assoluta serietà al vecchio, come a un bambino, storie di morti che lasciano messaggi nelle segreterie telefoniche.
Wilder e io aspettammo in auto. Il programma, dopo la lettura, era di raggiungere tutti e tre il gruppo del Wagon Wheel al Dinky Donut, dove loro avrebbero preso il dolce e noi avremmo cenato. Per quella parte di serata avevo portato con me una copia di "Mein Kampf".
La casa dei Treadwell era una struttura antiquata, con graticci marci lungo il portico. Meno di cinque minuti dopo essere entrata Babette ne uscì, raggiungendo con passo incerto l'estremità più lontana del suddetto portico e sbirciando nel cortiletto immerso nella penombra. Poi tornò lentamente verso l'auto.
- La porta era aperta. Sono entrata: nessuno. Ho guardato in giro: niente e nessuno. Sono salita di sopra: non una traccia di vita. Però sembra che non manchi niente.
- Che cosa sai della sorella?
- È più vecchia di lui e probabilmente conciata anche peggio, se si esclude il fatto che lui è cieco e lei no.
Le due case più vicine erano buie, entrambe in vendita, mentre nessuno, nelle altre quattro case della zona, sapeva niente dei movimenti dei Treadwell negli ultimi giorni. Raggiungemmo la stazione di polizia, dove parlammo con un'impiegata seduta davanti alla tastiera di un computer. Ci disse che spariva una persona ogni undici secondi e batté sui tasti tutto quello che le dicevamo.
Al Dinky Donut, fuori città, Bob Pardee stava seduto in silenzio, mentre i ragazzi mangiavano chiacchierando. Il viso roseo da golfista cominciava a pendergli dal cranio. La carne sembrava esserglisi generalmente riempita di borse, dandogli l'aria avvilita di chi è costretto a seguire una dieta rigorosa. I capelli erano costosamente tagliati e cotonati, con un po' di colorazione e quindi con l'uso di una certa dose di tecnologia, ma parevano aver bisogno di essere sorretti da una testa più dinamica. Mi accorsi che Babette stava osservandolo con attenzione, cercando di capire il senso dei quattro anni di sbandamento che avevano passato insieme, come marito e moglie. Un disastro su schermo panoramico. Lui beveva, giocava, andava a finire con l'auto nei fossi, veniva licenziato, dava le dimissioni, si metteva in pensione, andava di nascosto a Coaltown, dove pagava una donna perché gli parlasse in svedese mentre la scopava. Era stata questa storia dello svedese a far andare in bestia Babette, se non il bisogno che sentiva lui di confessargliela, per cui gliele aveva date, date con il dorso delle mani, con i gomiti e i polsi. Vecchi amori, vecchi timori. Adesso lo osservava con tenera comprensione, una riflessività apparentemente profonda, affettuosa e abbastanza generosa da contenere in sé tutti gli antidoti magici alla sua attuale sequela di guai, anche se naturalmente sapevo, tornando al mio libro, che si trattava soltanto di affetto passeggero, di una di quelle gentilezze che nessuno capisce. A mezzogiorno del giorno dopo stavano già dragando il fiume.
CAPITOLO TREDICESIMO
Gli studenti hanno la tendenza a rimanere vicino al campus. Nella cittadina di Blacksmith non c'è niente da fare, nessun ritrovo naturale, nessuna attrazione. Hanno cibo, film, musica, teatro, sport, conversazione e sesso tutti loro. La nostra è una città piena soltanto di lavanderie e ottici. Le vetrine delle società immobiliari sono adorne di foto di torreggianti case vittoriane. Foto che non cambiano da anni. Le dimore sono state vendute o non esistono più, oppure stanno in altre città di altri stati. La nostra è una città di vendite di beneficenza e casalinghe, gli oggetti che non servono più vengono disposti nei vialetti d'ingresso e venduti a cura dei ragazzini.
Babette mi chiamò nel mio studio alla Centenary Hall. Disse che Heinrich era sceso al fiume con il berretto mimetico e una Istamatic, a guardar dragare il fondo in cerca dei corpi, ma che mentre si trovava lì si era diffusa la voce che i Treadwell erano stati trovati vivi ma in preda a shock in un chiosco per la vendita dei biscotti, abbandonato, nel Mid-Village Mail, grande centro commerciale sull'interstatale. A quanto pareva avevano vagato per due giorni nel centro commerciale, persi, confusi e spaventati, prima di rifugiarsi nel chiosco abbandonato. Poi avevano passato lì dentro altri due giorni, nel cui corso la sorella, debole e incerta, si era avventurata all'esterno per recuperare qualche frammento di cibo dai cesti dei rifiuti in forma di personaggi dei fumetti, dagli sportelli a molla.
Era stata una vera fortuna che il loro soggiorno presso il centro commerciale fosse coinciso con un'ondata di clima mite. Nessuno sapeva ancora perché mai non avessero chiesto aiuto. Probabilmente erano state semplicemente la vastità ed estraneità del luogo e la loro età avanzata a farli sentire impotenti e alla deriva in un paesaggio di figure remote e minacciose. I Treadwell non uscivano molto. In effetti nessuno sapeva ancora come avessero fatto ad arrivare al centro commerciale. Era probabile che li avesse scaricati lì la nipote, poi dimenticatasi di andarli a prendere. Né, aggiunse Babette, era stato possibile raggiungere questa nipote per avere chiarimenti sulla faccenda.
Il giorno prima del fortunato ritrovamento la polizia aveva convocato una parapsicologa per farsi aiutare a determinare dislocazione e destino dei due scomparsi. Era riportato in prima pagina sul giornale locale. La suddetta parapsicologa viveva in un camper in una zona boscosa fuori città. Desiderava essere indicata soltanto come Adele T. Secondo quanto riferiva il giornale, lei e il capo della polizia si erano sistemati nel camper, dove la donna aveva esaminato fotografie dei Treadwell e annusato oggetti presi dal loro guardaroba. Quindi aveva chiesto al capo di lasciarla sola per un'ora. Aveva fatto degli esercizi, aveva mangiato un po' di riso e "dahl", era andata in trance. Durante lo stato di alterazione, continuava l'articolo, aveva tentato di indirizzare la propria trance verso i lontani sistemi psichici che intendeva localizzare, ovvero il Vecchio Treadwell e sua sorella. Quando il capo della polizia Wright era rientrato nel camper, Adele T. gli aveva detto di lasciar perdere il fiume e di concentrare le ricerche su una zona arida dall'aspetto lunare, in un raggio di quindici miglia attorno alla casa degli scomparsi. La polizia si era immediatamente recata a una cava di gesso, dieci miglia a valle del fiume, dove aveva trovato una borsa da aereo in cui erano nascosti una pistola e due chili di eroina pura.
La medesima polizia aveva consultato Adele T. in diverse occasioni, nel cui corso lei li aveva guidati alla scoperta di due cadaveri uccisi a randellate, di un siriano chiuso in un frigo e di un nascondiglio di banconote segnate, ammontante a seicentomila dollari, anche se in tutti i suddetti casi, concludeva l'articolo, la polizia era in cerca di un'altra cosa. Il mistero americano si infittisce.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Ci ammassammo alla finestra della camera di Steffie, a guardare lo spettacolo del tramonto. Soltanto Heinrich se ne stette alla larga, non credendo nei sani piaceri comunitari, oppure al contrario, convinto che nei tramonti moderni ci sia qualcosa di sinistro.
Più tardi rimasi seduto a letto in accappatoio a studiare tedesco. Borbottavo parole tra me e mi chiedevo se, alla conferenza di primavera, sarei stato in grado di limitare il mio tedesco a una breve nota introduttiva, oppure se, al contrario, secondo gli altri partecipanti l'uso di tale lingua avrebbe dovuto stendersi a tutte le attività - conferenze, pranzi, chiacchiere - come segno della nostra serietà, della nostra unicità nell'ambito del sapere mondiale.
La T.V. disse: - Nonché altri fattori che potrebbero influire in maniera gravissima sul vostro portafoglio.
Arrivò Denise, che si stese ai piedi del letto, la testa appoggiata sulle braccia piegate, senza guardarmi. Quanti codici, controcodici e vicende sociali erano rinchiusi in quel semplice gesto? Passò un minuto pieno.
- Che cosa facciamo con Baba? - chiese infine.
- In che senso?
- Non si ricorda di niente.
- Ti ha chiesto di ricordarle se per caso prende delle medicine?
- No.
- Nel senso che non le prende o nel senso non te l'ha chiesto?
- Non me l'ha chiesto.
- Se veramente non si ricorda di niente, avrebbe dovuto farlo, - dissi.
- Be', invece non l'ha fatto.
- E allora come fai a sapere che prende qualcosa?
- Ho visto il flacone ficcato nella spazzatura sotto il lavandino. Un flacone da ricetta obbligatoria. C'erano scritti il suo nome e quello della medicina.
- Che medicina sarebbe?
- Dylar. Una ogni tre giorni. Il che dà l'idea che sia roba pericolosa, o tale da dare assuefazione, o simili.
- Che cosa dice circa il Dylar il tuo manuale dei prodotti farmaceutici?
- Non c'è. Ho passato ore a cercarlo. Ci sono quattro indici.
- Dev'essere stato messo sul mercato da poco. Vuoi che faccia un controllo anch'io sul manuale?
- Ho già guardato. Ho "guardato".
- Potremmo sempre chiamare il suo medico. Ma non è il caso di esagerare. Tutti prendono qualche tipo di medicina, a tutti capita di dimenticare qualche cosa ogni tanto.
- Non come a mia madre.
- Io ne dimentico di continuo.
- E che cosa prendi?
- Pillole per la pressione, contro lo stress, contro le allergie, gocce per gli occhi, aspirina. Normale amministrazione.
- Ho guardato nell'armadietto dei medicinali nel tuo bagno.
- Niente Dylar?
- Pensavo che potesse essercene un flacone nuovo.
- Il medico ha prescritto trenta pillole. E basta. Normale amministrazione. Prendono tutti qualcosa.
- Eppure voglio sapere, - insistette lei.
Non mi aveva mai guardato. Era una situazione carica di potenziali intrighi, di occasioni per manovre viziose, piani segreti. Ma in quel momento cambiò posizione, servendosi di un gomito per sollevare il busto e guardarmi con aria speculativa dai piedi del letto.
- Posso chiederti una cosa?
- Certo, - risposi.
- Non ti arrabbi?
- Sai già quello che c'è nel mio armadietto dei medicinali. Quali altri segreti rimangono?- Perché Heinrich lo hai chiamato così?
- Bella domanda.
- Non sei obbligato a rispondere.
- E una bella domanda. Non c'è motivo perché tu non la facessi.
- Allora, perché?
- Mi sembrava un nome pieno di forza, energico. Emana una sorta di autorevolezza.
- Ha preso il nome da qualcuno?
- No. È nato poco dopo che avevo avviato il dipartimento e ho voluto fare omaggio a questa grande fortuna. Volevo fare qualcosa di tedesco. Mi sembrava che fosse necessario un gesto.
- Heinrich Gerhardt Gladney?
- Pensavo che fosse un nome connotato da un'autorevolezza che poi avrebbe potuto diventargli propria. Pensavo fosse pieno di forza e capace di fare un certo effetto, cosa che penso tuttora. Volevo metterlo al sicuro, liberarlo dai timori. A quei tempi ai bambini si davano nomi come Kim, Kelly e Tracy.
Seguì un lungo silenzio. Denise continuava a guardarmi. I suoi lineamenti, in qualche modo raccolti attorno al centro del viso, davano ai suoi momenti di concentrazione un che di rincagnato e vagamente bellicoso.
- Credi che abbia calcolato male?
- Non sta a me dirlo.
- Nei nomi tedeschi c'è qualcosa, come nella lingua e nelle "cose" tedesche in genere. Non so che cosa sia esattamente. C'è e basta. E in mezzo a tutto sta Hitler, naturalmente.
- L'ho visto alla televisione anche ieri sera.
- C'è sempre. La televisione non sarebbe la stessa, senza di lui.
- Hanno perso la guerra, - replicò lei. - Quanto potevano essere grandi?
- Obiezione valida. Ma non è questione di grandezza. Non è questione di bene o male. Non so che cosa sia. Mettiamola così. Certe persone portano sempre un colore preferito. Altre un'arma. Altre ancora indossano un'uniforme e si sentono più grosse, più forti, più sicure. È questo l'ambito della mia ossessione.
Arrivò Steffie con in testa la visiera verde di Denise. Non sapevo che cosa ciò potesse significare. Si inerpicò sul letto e ci mettemmo tutti e tre a esaminare il mio dizionario tedesco-inglese, alla ricerca di parole che fossero quasi uguali nelle due lingue, come orgia e scarpa.
Per il corridoio arrivò di corsa Heinrich, che irruppe nella camera. - Venite, presto, c'è un documentario su un disastro aereo. - Ed era già uscito di nuovo, mentre le ragazzine scendevano dal letto, tutti e tre via di corsa per il corridoio verso l'apparecchio T.V.
Rimasi seduto sul letto, vagamente perplesso. La rapidità e rumorosità della loro uscita aveva gettato la stanza in uno stato di agitazione molecolare. Nei rimasugli di materia invisibile sembrava aleggiare la domanda: Che cosa succede? Quando finalmente arrivai nel locale in fondo al corridoio, c'era soltanto un pennacchio di fumo nero ai margini dello schermo. Ma il disastro venne mostrato altre due volte, delle quali una in replay con arresto dell'immagine, mentre un'analista cercava di spiegare la ragione per cui l'aereo era precipitato. Un jet da istruzione durante un'esibizione aerea in Nuova Zelanda.
C'erano due porte di armadio che si aprivano da sole.
Quella sera, essendo venerdì, ci riunimmo tutti davanti all'apparecchio, com'era uso e norma, con cibo cinese take-away. Assistemmo a inondazioni, terremoti, smottamenti, eruzioni di vulcani. Non avevamo mai dedicato tanta attenzione al nostro compito, alla riunione del venerdì. Heinrich non aveva il broncio, io non mi annoiavo. Steffie, ridotta quasi alle lacrime dal marito di uno sceneggiato che litigava con la moglie, appariva totalmente assorta in questi clip documentari di calamità e morte. Babette cercò di passare a un serial in cui si vedeva all'opera un gruppo razzialmente misto di ragazzi, impegnati a costruire un proprio satellite per le comunicazioni. Rimase sbalordita di fronte alla violenza della nostra opposizione. Per il resto rimanemmo in silenzio, a guardare case che scivolavano nell'oceano, interi villaggi che si frantumavano e ardevano in una massa avanzante di lava. Ogni disastro ce ne faceva desiderare ancora un po', qualcosa di più grosso, di più grandioso, di più travolgente.
Il lunedì, entrato nel mio studio, trovai Murray seduto nella sedia accanto alla scrivania, quasi fosse in attesa di un'infermiera armata dello strumento per provare la pressione. Sto incontrando qualche problema a fondare un centro di potere basato su Elvis Presley nel dipartimento Ambienti americani, spiegò. Secondo il preside, Alfonse Stompanato, uno degli altri istruttori, ex guardia del corpo rock del peso di un quintale e mezzo, di nome Dimitrios Cotsakis, aveva un diritto di precedenza acquisito, essendo andato in volo a Memphis quando il Re era morto, intervistando alcuni membri della sua cerchia e famiglia, e venendo a sua volta intervistato alla televisione locale come Interprete del Fenomeno.
Colpo non mediocre, concesse Murray. Suggerii che alla sua prossima lezione avrei potuto fare la mia comparsa, senza preavviso, semplicemente per dare una nota di consequenzialità agli eventi, per farlo beneficiare di quale che fosse l'eventuale prestigio connesso con la mia carica, la mia materia, la mia persona fisica. Annuì lentamente, giocherellando con le estremità della barba.
Più tardi, a pranzo, vidi una sola sedia vuota a un tavolo occupato dai transfughi newyorkesi. A capo tavola c'era Alfonse, presenza imponente anche nella mensa di un campus. Era di vaste dimensioni, sardonico, fosco, con sopracciglia segnate da cicatrici e una sfrenata barba frangiata di grigio. La stessa barba che mi sarei fatto crescere io nel '69, se Janet Savory, mia seconda moglie, nonché madre di Heinrich, non si fosse opposta. - Che la vedano, quella tua superficie facciale molliccia, - aveva detto, con la sua vocetta secca. - È più efficace di quanto credi.
Alfonse faceva tutto in maniera totalizzante. Conosceva quattro lingue, aveva una memoria fotografica, faceva a mente calcoli complessissimi. Una volta mi disse che a New York l'arte del farsi strada dipende da quanto si è bravi a esprimere il proprio malcontento in modo interessante. L'aria è satura di rabbia e lagnanze. La gente non ha pazienza di stare ad ascoltare uno che si lamenta dei propri problemi, a meno che non lo faccia in modo divertente. E Alfonse qualche volta sapeva essere divertente in modo devastante. Aveva un modo di fare che gli permetteva di fagocitare e distruggere tutte le opinioni di chi non la pensava come lui. Quando parlava di cultura popolare, lo faceva con il rigor di logica di un fanatico pronto ad uccidere per la sua fede religiosa. Il suo respiro si faceva affannoso, aritmico, la sua fronte pareva serrarsi. Gli altri transfughi sembravano trarre stimoli dalle sue frecciate sarcastiche. Utilizzavano il suo ufficio per lanciare monetine contro il muro.
Gli chiesi: - Alfonse, come mai c'è gente rispettabile, piena di buone intenzioni e responsabile, che si trova intrigata dalle catastrofi, quando le vede in televisione?
Quindi gli parlai della recente serata a base di lava, fango e infuriare d'acqua, che i ragazzini e io avevamo trovato tanto emozionante.
- Ne volevamo ancora, sempre di più.
- E naturale, è normale, - rispose lui, con un rassicurante cenno del capo. - Succede a tutti.
- Perché?
- Perché soffriamo di svanimento cerebrale. Di quando in quando abbiamo bisogno di una catastrofeper spezzare l'incessante bombardamento dell'informazione.
- È evidente, - intervenne Lasher, uomo minuto, dal viso teso e dai capelli tirati all'indietro.
- Il flusso è costante, - riprese Alfonse. - Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche, macchioline, onde, particelle, granellini di polvere. Soltanto le catastrofi attirano la nostra attenzione. Le vogliamo, ne abbiamo bisogno, ne siamo dipendenti. Purché capitino da un'altra parte. Ed è qui che entra in ballo la California. Smottamenti, incendi nei boschi, erosione delle coste, terremoti, massacri di massa eccetera. Possiamo metterci lì tranquilli a goderci tutti questi disastri perché nell'intimo sappiamo che la California ha quello che si merita. Sono stati loro a inventare il concetto di stile di vita. Basta questo a condannarli.
Cotsakis spiaccicò una lattina di Pepsi dietetica, gettandola in un cestino della spazzatura.
- Il Giappone è una buona fonte di documentari sui disastri, - continuò Alfonse. - L'India invece rimane largamente poco sfruttata, pur disponendo di un potenziale tremendo con le sue carestie, i monsoni, i conflitti religiosi, le catastrofi ferroviarie, gli affondamenti di imbarcazioni eccetera. Ma sono disastri che tendono a non venire riferiti. Tre righe di giornale. Niente documentari fotografici, niente collegamenti via satellite. Ecco perché la California è così importante. Non soltanto godiamo di vederli puniti per il loro stile di vita sibarita e le idee sociali progressiste, ma sappiamo anche che non ci perdiamo niente. Le telecamere sono lì sul posto. Nulla di terribile sfugge al loro esame.
- Dunque sostieni che è un fatto più o meno universale rimanere affascinati davanti ai disastri in televisione.
- Per la maggior parte della gente, in questo mondo ci sono soltanto due posti. Quello dove vivono e la loro T.V. Se in televisione succede qualcosa, abbiamo il diritto di esserne affascinati, di qualunque cosa si tratti.
- Non so se provare piacere o fastidio nell'apprendere che la mia è un'esperienza largamente condivisa.
- Prova fastidio, - tagliò corto Alfonse.
- È evidente, - ripeté Lasher. - Ci dà fastidio a tutti. Ma a quel livello possiamo anche provarne piacere.
Murray intervenne dicendo: - È ciò che deriva da un tipo sbagliato di attenzione. La gente soffre di svanimento cerebrale. È perché abbiamo dimenticato ad ascoltare e guardare come se fossimo bambini. Abbiamo dimenticato come raccogliere dati. In senso psichico un incendio in una foresta in T.V. occupa un livello più basso di dieci secondi di spot pubblicitario di un detersivo per lavastoviglie. La pubblicità emette onde più profonde, più profonde emanazioni. Ma noi abbiamo ribaltato la significanza relativa di queste cose. Ecco perché occhi, orecchi, cervelli e sistemi nervosi si sono stancati. È un semplice caso di uso improprio.
Grappa gettò disinvoltamente un mezzo panino imburrato a Lasher, prendendolo sulla spalla. Era pallido e aveva lineamenti infantili, e il suo lancio rappresentava il tentativo di richiamare l'attenzione dell'altro.
Grappa gli chiese: - Ti sei mai lavato i denti con il dito?
- L'ho fatto la prima volta che ho passato la notte in casa dei genitori di mia moglie, prima che ci sposassimo, una volta che i suddetti genitori erano andati a passare un weekend ad Asbury Park. Famiglia di Ipana.
- Dimenticare lo spazzolino da denti per me rappresenta una vera e propria mania, - intervenne Cotsakis. - Mi sono lavato i denti con il dito ai festival di Woodstock, Altamont, Monterey e in una dozzina di altri eventi seminali.
Grappa guardò Murray.
- Io l'ho fatto dopo il combattimento Clay-Foreman, nello Zaire, - disse questi. - È il punto più meridionale dove mi sia mai capitato di lavarmi i denti con il dito.
Lasher guardò Grappa.
- Hai mai cagato in un cesso pubblico senza sedile? La risposta di Grappa fu quasi lirica: - Nel grande e traballante cesso per uomini di una vecchia stazione di servizio Mobil, sulla Post Road di Boston, la prima volta che mio padre ha portato l'auto fuori città. La stazione con il cavallo alato rosso.
Volete sapere della macchina? Posso fornirvi i particolari automobilistici fino al particolare più infimo.
- Sono cose che non insegna nessuno, - disse Lasher. - Water senza sedile. Pisciate nel lavandino. La cultura dei cessi pubblici. Tutti 'sti enormi autogrill, cinema, stazioni di servizio. Tutta l'etica della strada. Ho pisciato nei lavandini di tutto il West. Ho persino passato di straforo il confine per andare a farlo nel Manitoba e nell'Alberta. Altro che storie. I grandi cieli del West. I migliori motel del West. Autogrill e drive in. La poesia della strada, delle praterie, del deserto. Cessi luridi e fetenti. Ho pisciato in un lavandino dello Utah, con trenta sottozero. Il massimo di freddo a cui l'ho fatto.
Alfonse Stompanato guardò intensamente Lasher.
- Tu dov'eri quando è morto James Dean? - fece con aria truce.
- A casa dei genitori di mia moglie, prima che ci sposassimo, ad ascoltare «La balera dei sogni» sulla vecchia Emerson da tavola. La Motorola con il quadrante fluorescente era già un ricordo del passato.
- A quanto pare hai passato un sacco di tempo in casa dei genitori di tua moglie, a scopare, - ribatté Alfonse.
- Eravamo ragazzi. Secondo la matrice culturale era troppo presto per un vero e proprio scopare.
- Che cosa facevate?
- È mia moglie, Alfonse. Vuoi che lo dica davanti a una tavolata di persone?
- James Dean muore e tu sei lì che palpi una dodicenne.
Alfonse guardò con aria di sfida Dimitrios Cotsakis.
- Tu dov'eri quando è morto James Dean?
- Nel retro del ristorante di mio zio, ad Astoria, nel quartiere di Queens, a passare l'aspirapolvere.
Alfonse guardò Grappa.
- E tu dove diavolo eri? - chiese, come se gli fosse appena venuto in mente che la morte dell'attore non sarebbe stata completa se non si fosse stabilita la precisa dislocazione di Grappa.
- Lo so esattamente dov'ero, Alfonse. Aspetta che ci penso un momento.
- Dov'eri, figlio di una troia?
- Sono cose che so sempre fino nei minimi particolari. Ma sono stato un'adolescente sognatore.
Nella mia vita ci sono dei vuoti.
- Ti stavi facendo una sega. È questo che vuoi dire?
- Chiedimi di Joan Crawford.
- Trenta settembre millenovecentocinquantacinque. James Dean muore. Dov'è Nicholas Grappa? E che cosa sta facendo?
- Chiedimi di Clark Gable, di Marylin Monroe.
- La Porsche d'argento si avvicina a un incrocio, filando come una scheggia. La berlina Ford non ha tempo di frenare. Il vetro va in frantumi, il metallo urla. Jimmy Dean è al volante, con l'osso del collo rotto, fratture multiple e ferite lacero contuse. Sono le cinque e trentacinque del pomeriggio, ora della costa pacifica. E dov'è Nicholas Grappa, re dei segaioli del Bronx?
- Chiedimi di Jeff Chandler.
- Ormai sei un uomo di mezza età, Nicky, che lavora sulla propria infanzia. Hai l'obbligo di produrre.
- Chiedimi di John Garfield, di Monty Clift. Cotsakis era un monolito di carne spessa e imbottita. Prima di divenire membro della nostra facoltà era stato guardia del corpo personale di Little Richard e si era occupato del servizio di sicurezza a diversi concerti rock.
Elliot Lasher gli tirò un mozzicone di carota cruda, quindi gli chiese: - Ti sei mai fatto tirare via la pelle squamata da una donna, dopo qualche giorno passato al mare?
- A Cocoa Beach, in California, - rispose Cotsakis. - Una cosa assolutamente fantastica. La seconda o terza esperienza della mia vita, in ordine di importanza.
- Era nuda? - chiese Lasher.
- Fino alla vita, - rispose Cotsakis.
- A partire da dove? - chiese ancora Lasher. Guardai Grappa tirare un cracker a Murray, che lo ribatté a mano rovesciata, quasi fosse un frisbee.
CAPITOLO QUINDICESIMO
Mi misi gli occhiali scuri, composi l'espressione del viso ed entrai nella sala. C'erano venticinque o trenta giovani di entrambi i sessi, molti in colori autunnali, seduti su poltrone e divani, oltre che sul tappeto beige. Tra di loro si muoveva Murray, intento a spiegare, con la destra che gestiva in modo affettato. Quando mi vide, sorrise imbarazzato. Stavo in piedi, accostato alla parete, nel tentativo di apparire imponente, le braccia incrociate sotto la toga nera.
Murray era a metà di un pensoso monologo.
- Sua madre sapeva che Elvis sarebbe morto giovane? Parlava di assassini. Parlava della vita. La vita di una star di quel tipo e grandezza. Forse è la stessa vita a essere strutturata in maniera da colpire giovani. È questo il punto, no? Vi sono regole, linee di condotta. Se non si ha la grazia e non si è abbastanza in gamba per morire presto, si è costretti a scomparire, a nascondersi come per scusarsi, vergognandosi. Si preoccupava del sonnambulismo del figlio. Pensava che potesse uscire da una finestra. Personalmente, a proposito delle madri ho un'idea. È vero che sanno. L'idea popolare è giusta.
- Hitler adorava la propria madre, - intervenni.
Un soprassalto di attenzione, non dichiarato, percepibile soltanto in una certa convergenza di immobilità, una tensione interna. Murray continuò naturalmente a muoversi, ma con un po' più di decisione, facendosi strada tra i sedili e quelli seduti sul pavimento. Ero sempre accostato alla parete, le braccia incrociate.
- A Elvis e Gladys piaceva stare rannicchiati vicini e farsi le coccole, - riprese Murray. - Dormirono nello stesso letto finché lui cominciò ad approssimarsi alla maturità fisica. Tra loro usavano sempre il linguaggio dei bambini.
- Hitler era un ragazzo pigro. Le sue pagelle erano piene di insufficienze. Ma Klara lo amava, lo viziava, gli dava l'attenzione che gli mancava da parte del padre. Era una donna silenziosa, modesta e religiosa, oltre che una buona cuoca e massaia.
- Gladys accompagnava Elvis a scuola tutti i giorni e andava a riprenderlo. Lo difendeva nelle piccole risse di strada, picchiava tutti i ragazzini che cercavano di attaccare briga con lui.
- Hitler fantasticava a occhi aperti. Prendeva lezioni di piano, faceva schizzi di musei e ville. Stava molto in casa senza fare niente. Klara lo tollerava. Era stato il primo dei suoi figli a sopravvivere. Altri tre erano morti.
- Elvis si fidava di Gladys. Portava le sue amichette a conoscerla.
- Hitler scrisse una poesia dedicata alla madre. Furono lei e sua nipote le donne che esercitarono il maggior influsso sulla sua mente.
- Quando Elvis andò sotto le armi, Gladys si ammalò e cadde in preda a depressione. Sentiva qualcosa, forse per se stessa quanto per lui. Il suo apparato sensitivo stava inviando segnali indesiderati.
Foschi e cupi.
- Non ci sono molti dubbi che Hitler fosse quello che definiamo un cocco di mamma.
Un giovanotto intento a prendere appunti mormorò in tono assente: - "Muttersöhnchen". - Lo guardai circospetto. Poi, d'impulso, abbandonai la mia posizione immobile e presi a camminare a grandi passi per la sala come Murray, fermandomi di quando in quando per fare un gesto, per ascoltare, per guardare fuori da una finestra o verso il soffitto.
- Quando le condizioni della madre peggiorarono, Elvis non tollerava di non poterla vedere. Stava sempre di guardia all'ospedale.
- Quando sua madre si ammalò gravemente, Hitler sistemò un letto in cucina per starle più vicino. Le preparava da mangiare e faceva le pulizie.
- Quando Gladys morì, Elvis fu distrutto dal dolore. La cullava e l'accarezzava nella bara. Le si rivolse con il linguaggio dei bambini finché non fu sotto terra.
- Il funerale di Klara costò trecentosettanta corone. Hitler pianse davanti alla tomba e precipitò in un periodo di depressione e autocompatimento. Sentiva una profonda solitudine. Aveva perso non soltanto l'amata madre, ma anche il senso della casa e della patria.
- Sembra quasi certo che la morte di Gladys abbia provocato uno spostamento fondamentale nella centralità del Re. Era la sua ancora, il suo senso di sicurezza. Prese a ritirarsi dal mondo reale, a entrare nello stato della propria stessa morte.
- Per il resto della sua vita Hitler non sopportò mai di trovarsi in qualsiasi modo vicino a delle decorazioni natalizie, dal momento che sua madre era morta accanto all'albero di Natale.
- Elvis rivolgeva minacce di morte e ne riceveva. Girava per camere mortuarie e prese a interessarsi agli Ufo. Cominciò a studiare il "Bardo Thödol", comunemente noto come "Il libro tibetano dei morti". Una guida alla morte e alla rinascita.
- Anni dopo, in preda al mito di se stesso e all'isolamento, nel suo spartano alloggio di Obersalzberg Hitler teneva un ritratto della madre. Cominciò a sentire un ronzio all'orecchio sinistro.
Murray e io ci incrociammo quasi al centro della sala, rischiando di scontrarci. Entrò Alfonse Stompanato, seguito da diversi studenti, probabilmente attirato da un'onda di eccitazione, da una vibrazione dell'atmosfera. Sistemò la propria scontrosa mole in una poltrona, mentre Murray e io ci giravamo vicendevolmente intorno, procedendo verso direzioni opposte ed evitando di scambiarci uno sguardo.
- Elvis rispettò i termini dell'accordo. Eccesso, deterioramento, autodistruzione, comportamento grottesco, gonfiore fisico e una serie di duri colpi al cervello, autoinferti. Il suo posto nella leggenda è assicurato. Ha fregato gli scettici morendo giovane, in maniera orribile, non necessaria. Ora non lo metterebbe in discussione nessuno. Sua madre aveva probabilmente previsto tutto, come su uno schermo a diciannove pollici, anni prima della propria morte.
Quindi, felice di cedermi il posto, Murray si sedette sul pavimento, lasciandomi solo a procedere a grandi passi e gesticolare, sicuro nella mia aura professionale di potere, follia e morte.
- Hitler si autodefiniva il viandante solitario uscito dal nulla. Succhiava pasticche, rivolgeva alla gente interminabili monologhi, come se il linguaggio venisse da una vastità al di là del mondo e lui fosse il semplice strumento della rivelazione. È interessante chiedersi se, dal "führerbunker", sotto la città in fiamme, volgesse lo sguardo indietro, verso i primi giorni del proprio potere. Avrà mai pensato ai gruppetti di turisti che visitavano il minuscolo insediamento dov'era nata sua madre e dove lui aveva passato diverse estati con i cugini, andando in giro sui carri trainati dai buoi e facendo aquiloni? Vi andavano per rendere onore al posto, al luogo natale di Klara. Entravano nella fattoria, vi si aggiravano incerti. I bambini si inerpicavano sul tetto. Con il tempo il numero delle persone andò crescendo. Facevano fotografie, si ficcavano qualche oggettino in tasca. Poi arrivarono le folle, masse di gente che invadevano il cortile cantando canzoni patriottiche e dipingendo svastiche sulle pareti e sui fianchi degli animali. Accorrevano folle alla sua villa in montagna, tanta di quella gente che gli toccava stare chiuso in casa. Raccoglievano i ciottoli su cui aveva camminato e se li portavano a casa per ricordo. Accorrevano folle a sentirlo parlare, folle in preda a carica erotica, le masse che un tempo aveva definito la sua unica sposa. Lui parlando chiudeva gli occhi, serrava i pugni, torceva il corpo madido di sudore, faceva della propria voce un'arma elettrizzante. «Assassinii di natura sessuale» furono definiti da qualcuno, questi discorsi. Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce.
Fissai il tappeto e contai in silenzio fino a sette.
- Un momento, però. Tutto ciò ha un aspetto molto famigliare, molto vicino al comune. Le folle continuano ad arrivare, a venire eccitate, a toccare, a schiacciarsi... gente bramosa di essere trascinata. Non è una cosa comune? Tutto ciò lo "conosciamo" anche noi. In quelle folle, invece, doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall'inglese antico, dal tedesco antico, dall'antico norreno. "Morte". Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. Erano lì per vedere pire e ruote infuocate, migliaia di bandiere inchinate per l'addio, migliaia di persone nell'uniforme del lutto. Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere. Quelle folle accorrevano per fare da scudo alla propria morte. Farsi folla significa tenere lontana la morte. Uscire dalla folla significa rischiare la morte individuale, affrontare la morte solitaria. Quelle folle accorrevano soprattutto per questa ragione. Erano lì proprio per essere folla.
Murray stava seduto sul lato opposto della sala. I suoi occhi esprimevano profonda gratitudine. Avevo usato generosamente il potere e la follia di cui disponevo, consentendo al mio soggetto di lasciarsi accostare a una figura di rilievo infinitamente minore, un tipo che stava stravaccato sulla sedia a sdraio e sparava alla T.V. Un fatto di non poca importanza. Avevamo tutti un'aura da mantenere e, dividendo la mia con un amico, avevo messo a repentaglio l'essenza di ciò che mi rendeva intoccabile.
I presenti mi si raccolsero intorno, studenti e insegnanti, e nel brusio di frasi sentite a metà e di voci orbitanti mi resi conto che ormai eravamo una folla. Non che avessi bisogno di averne una attorno, in quel momento. Meno che mai proprio in quel momento. In quel luogo la morte era una faccenda rigorosamente professionale. Io mi ci trovavo a mio agio, ci sguazzavo. Murray si fece strada per mettermisi di fianco e mi accompagnò fuori dalla sala, aprendosi un varco tra la folla sventagliando le mani.
CAPITOLO SEDICESIMO
Fu quel giorno che alle due del pomeriggio Wilder cominciò a piangere. Alle sei piangeva ancora, seduto sul pavimento e con lo sguardo fisso sullo sportello del forno, mentre noi cenavamo in fretta, aggirandolo o inciampando in lui per raggiungere il gas o il frigorifero. Mentre mangiava, Babette lo teneva d'occhio. Doveva tenere un corso su come si sta seduti, come si sta in piedi e come si cammina, il cui inizio era previsto tra un'ora e mezzo. Mi rivolse uno sguardo esausto e supplichevole. Gli parlò in tono suadente, lo sollevò e lo accarezzò, gli controllò i denti, gli fece il bagnetto, lo esaminò, gli fece il solletico, gli diede da mangiare, cercò di indurlo a giocare, facendolo infilare nel suo tunnel di vinile. I vecchi l'avrebbero dovuta aspettare nello scantinato della chiesa.
Era un pianto ritmico, un'affermazione misurata di brevi pulsioni urgenti. A volte sembrava spezzarsi in un guaito, un lamento animale, irregolare ed esausto, ma il ritmo teneva, a un tempo più elevato, il volto lievemente arrossato dal dolore.
- Lo portiamo dal medico, - dissi. - Poi ti accompagno alla chiesa.
- Ma il medico lo visita, un bambino che piange? Per di più il suo medico adesso ha finito l'orario.
- E il tuo?
- Credo di sì. Ma un bambino che piange, Jack! Che cosa gli dico? «Mio figlio sta piangendo»?
- Esiste un malessere più elementare?
Fino a quel momento non c'era stato alcun senso di crisi. Soltanto esasperazione e disperazione. Ma una volta deciso di andare dal medico, cominciammo ad avere fretta, a innervosirci. Cercammo la giacca e le scarpe di Wilder, tentammo di farci venire in mente che cos'avesse mangiato nelle ultime ventiquattr'ore, di prevedere le domande che ci avrebbe fatto il medico, provando attentamente le risposte. Concordare su tali risposte, anche se non eravamo sicuri che fossero giuste, sembrava un fatto di importanza vitale. I medici perdono interesse nei confronti di coloro che si contraddicono. È un timore che informa da lungo tempo i miei rapporti con i medici, quello che perdano interesse nei miei confronti, che ordinino all'infermiera di far passare altri prima di me, che diano per scontata la mia morte.
Attesi in auto, mentre Babette andava con Wilder nel centro medico in fondo a Elm Street. Gli studi medici mi deprimono ancora più degli ospedali a causa della loro atmosfera di previsioni negative, nonché dei pazienti che di quando in quando se ne vanno con buone notizie, stringendo la mano asettica del medico e ridendo rumorosamente, ridendo di tutto ciò che egli dice, esplodendo risate, con energia bruta, facendo ben caso, mentre attraversano la sala d'aspetto, a ignorare gli altri pazienti, sempre ridendo in tono provocatorio: ormai se n'è liberato, non partecipa più della loro cupezza settimanale, né del loro morire ansioso, di serie B. Preferisco andare in un pronto soccorso, pozzo urbano di tremori, dove arriva gente sparata, accoltellata, con l'occhio spento a causa degli oppiacei, con aghi spezzati nelle braccia. Cose che non c'entrano niente con quella che sarà finalmente la mia morte, non violenta, da città di provincia, per bene. Uscirono per strada dal piccolo atrio luminoso. Faceva freddo e la strada era vuota e buia. Il bambino camminava di fianco alla madre, tenendola per mano, ancora piangente, formando con lei il quadro di una tristezza e disgrazia dall'aspetto tanto dilettantesco che quasi scoppiai a ridere: non della tristezza in sé, ma dell'immagine che essi ne davano, della disparità tra il dolore e il modo come esso si manifestava. I miei sentimenti di tenerezza e pietà vennero messi a dura prova dalla vista di loro due che attraversavano il marciapiede infagottati negli abiti, il bambino che piangeva a squarciagola, la madre che camminava con aria avvilita, i capelli irti sulla testa, coppia sventurata e disperata. Non costituivano un quadro adeguato per quel dolore tangibile, per quell'angoscia inesorabile. È proprio questo, forse, che spiega l'esistenza delle lamentatrici professionali. Sono certamente loro a impedire che una veglia funebre si trasformi in uno spettacolo pateticamente comico.
- Che cos'ha detto il dottore?
- Di dargli un'aspirina e metterlo a letto.
- È quello che aveva detto anche Denise.
- Gliel'ho detto. E lui ha risposto: «Bene, e allora perché non l'ha fatto?»- Già, perché non l'abbiamo fatto?
- È una ragazzina, non un medico, ecco perché.- Gliel'hai detto?
- Non lo so che cosa gli ho detto, - replicò. - Non so mai quello che dico ai medici, molto meno di quello che dicono loro a me. C'è una sorta di disagio aleggiante.
- So esattamente quello che intendi.
- È come fare conversazione durante una passeggiata nello spazio, galleggiando in quelle tutone pesanti.
- Ogni cosa scorre via fluttuando.
- Io ai medici mento sempre.
- Anch'io.
- Ma perché? - chiese.
Mentre rimettevo in moto l'auto, mi resi conto che il pianto di Wilder aveva cambiato di tonalità e tipo. L'ansia ritmica aveva lasciato il posto a un suono costante, inarticolato e luttuoso. Ora il bambino si lamentava. Espressioni di lamento medio orientale, di una pena tanto accessibile da precipitarsi ad annientare la propria stessa causa immediata. Un pianto in cui vi era qualcosa di permanente, una ferita dell'anima. Un suono di desolazione congenita.
- Che cosa facciamo?
- Pensa qualcosa, - rispose lei.
- Manca ancora un quarto d'ora all'inizio del tuo corso. Portiamolo all'ospedale, al pronto soccorso. Tanto per vedere che cosa dicono.
- Non si può portare un bambino a un pronto soccorso soltanto perché piange. Se c'è una situazione che non sia di emergenza, è per definizione questa.
- Io aspetto in macchina, - replicai.
- E che cosa gli dico? «Mio figlio piange». Ce l'hanno, poi, il pronto soccorso?- Non ti ricordi? Ci abbiamo portato gli Stover, l'estate scorsa.
- Perché?
- Avevano l'auto dal meccanico.
- Lasciamo perdere.
- Avevano inalato lo spray di un antimacchia.
- Portami al corso, - concluse Babette.
Portamento. Quando mi fermai davanti alla chiesa, alcuni dei suoi allievi stavano scendendo i gradini verso l'ingresso dello scantinato. Lei guardò il proprio figlio, sguardo inquisitore, implorante, disperato. Aveva raggiunto la sesta ora consecutiva di pianto. Attraversò di corsa il marciapiede ed entrò nell'edificio.
Pensai di portare Wilder all'ospedale. Ma se un medico, dopo averlo sottoposto a visita completa nel suo confortevole studio, con appesi alla parete quadri in elaborate cornici dorate, non aveva trovato niente, che cosa avrebbero potuto fare i tecnici di un pronto soccorso, gente addestrata a saltare sui toraci e a pestare colpi sui cuori statici?
Lo presi e lo sistemai contro il volante, di fronte a me, in piedi sulle mie cosce. L'immenso lamento continuò, onda dopo onda. Era un suono tanto ampio e puro che potevo persino stare lì ad ascoltarlo, cercare coscientemente di coglierlo, come si stabilisce un registro mentale in una sala di concerti o a teatro. Non moccicava, non piagnucolava. No: piangeva a squarciagola, dicendo cose ignote in un modo che nella sua profondità e ricchezza mi arrivava all'intimo. Un lamento funebre antico, reso tanto più toccante dalla propria risoluta monotonia. Un ululio. Lo tenevo retto con una mano sotto entrambe le braccia. Con il proseguire del pianto, nel mio pensiero avvenne un singolare scarto. Scoprii che non desideravo necessariamente che cessasse. Poteva non essere poi una cosa così tremenda, pensavo, dover stare lì ancora un po' ad ascoltare. Ci guardavamo a vicenda. Dietro quell'espressione beota operava un'intelligenza complessa. Lo reggevo con una mano sola, usando l'altra per contargli le dita dentro i guanti, ad alta voce, in tedesco. Il pianto inconsolabile continuava. Me lo lasciai scorrere addosso, come pioggia dirotta. Vi penetrai, in un certo senso. Me la lasciai cadere e rotolare su viso e petto. Cominciai a pensare che il bambino fosse scomparso dentro quel rumore lamentoso e che, se mi fosse stato possibile raggiungerlo nel luogo perduto e sospeso dove si trovava, avremmo forse potuto procedere insieme a un imprudente miracolo di intelligibilità. Lo lasciai frangere sul mio corpo. Poteva non essere una cosa così terribile, pensai, dover stare lì ancora quattro ore, con il motore acceso e il riscaldamento in funzione, ad ascoltare quel lamento uniforme. Poteva anzi essere bello, stranamente consolatorio. Vi penetrai, vi caddi, lasciandomene avvolgere e coprire. Il bambino gridava a occhi aperti, a occhi chiusi, con le mani in tasca, con i guanti e senza. Io me ne stavo lì seduto ad annuire saggiamente. Poi d'impulso lo girai, mettendomelo in braccio, e avviai l'auto, lasciandogli usare il volante. L'avevamo già fatto una volta, per un tratto di venti metri, al crepuscolo di una domenica, in agosto, nella nostra via immersa in un'ombra sonnolenta. E lui di nuovo rispose, continuando a piangere mentre sterzava, mentre svoltavamo agli angoli, mentre parcheggiavo l'auto davanti alla chiesa congregazionalista. Me lo sistemai sulla gamba sinistra, circondandolo con un braccio, stringendolo a me, e consentii alla mia mente di vagare verso i limiti del sonno. Il suono si muoveva a una distanza discontinua. Di quando in quando passava un'auto. Mi appoggiai alla portiera, vagamente consapevole del suo fiato sul mio pollice. Qualche tempo dopo ecco lì Babette, che bussava al finestrino, mentre Wilder strisciava sul sedile per toglierle la sicura. Entrò, gli sistemò il berretto e raccolse dal pavimento un fazzoletto appallottolato.
Eravamo quasi a casa quando il pianto terminò. Terminò all'improvviso, senza cambi di tono e intensità. Babette non disse niente. Io tenni lo sguardo sulla strada. Il bambino era seduto tra di noi, con gli occhi fissi sulla radio. Aspettai che Babette mi gettasse uno sguardo dietro la sua schiena sopra la sua testa, per mostrare sollievo, gioia, un'attesa carica di speranza. Non sapevo quali fossero i miei sentimenti e avevo bisogno di una dritta. Invece anche lei tenne lo sguardo fisso davanti a sé, quasi timorosa che un qualsiasi modificarsi nella tessitura sensibile di suono, movimento ed espressione potesse provocare un riesplodere del pianto.
A casa nessuno disse niente. Si muovevano in silenzio di stanza in stanza, osservando il bambino in maniera distante, con sguardi sfuggenti e pieni di rispetto. Quando chiese un po' di latte, Denise corse senza fare rumore in cucina, a piedi nudi, in pigiama, avvertendo che per mezzo dell'economia del movimento e della leggerezza del passo avrebbe evitato di disturbare l'atmosfera grave e drammatica che il bambino aveva portato in casa con sé. Bevve il latte in un solo poderoso sorso, ancora completamente vestito, un guanto appuntato alla manica.
Gli altri lo guardavano con una sorta di timore riverenziale. Quasi sette ore ininterrotte di serio piangere. Era come se fosse appena tornato da un periodo di viaggi in un luogo remoto e sacro, tra aride distese di sabbia o creste innevate, un luogo dove si dicono cose, si assiste a visioni, si raggiungono distanze che noi, nella nostra ordinarietà, possiamo soltanto guardare con il misto di riverenza e meraviglia che riserviamo ai fatti della più sublime e complessa dimensione.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Una sera, a letto, Babette disse: - Non è magnifico avere intorno tutti questi bambini? - Presto ce ne sarà un'altra.
- Chi?
- Arriva Bee per un paio di giorni.
- Ah, già. Bene.
Il giorno seguente Denise decise di sottoporre la madre a un confronto diretto sulla questione della medicina che prendeva - o non prendeva, - sperando di farla confessare, di farla tradire con una reazione agitata, per quanto minima. Non era una tattica che avesse discusso con me, ma non potei fare a meno di ammirare la baldanza del suo tempismo. Eravamo tutti e sei ammassati nell'auto, diretti verso il Mid-Village Mail, e lei non fece altro che aspettare una naturale pausa nella conversazione, rivolgendo la propria domanda al dorso di Babette, con voce che non implicava alcuna illazione.
- Cosa ti dice il nome Dylar?
- Non è la ragazza nera che sta dagli Stover?
- Quella si chiama Dakar, - intervenne Steffie.
- Non si chiama affatto così. Dakar è il posto da cui proviene, - ribatté Denise. - È un posto sulla Costa d'Avorio dell'Africa.
- La capitale è Lagos, - disse Babette. - Lo so per via di un film di surfisti che ho visto una volta, cheandavano in giro per tutto il mondo.
- "L'onda perfetta", - disse Heinrich. - L'ho visto alla T.V.
- Ma come si chiama 'sta ragazza? - chiese Steffie.
- Lei non saprei, - rispose Babette, - ma il film non si chiamava affatto "L'onda perfetta". L'onda perfetta è ciò che stavano cercando.
- Vanno alle Hawaii, - disse Denise a Steffie, - e aspettano che arrivino dal Giappone queste onde di marea. Si chiamano origami.
- E il film si chiamava "La lunga estate calda", - disse sua madre.
- "La lunga estate calda", - ribatté Heinrich, - si dà il caso che sia un dramma di Tennessee Ernie Williams.
- Non importa, - tagliò corto Babette, - perché comunque non c'è un copyright sui titoli.- Se è africana, - riprese Steffie, - chissà se è mai stata su un cammello?
- Piuttosto su un'Audi Turbo, direi.
- O su una Toyota Supra.
- Che cos'è che ci tengono, i cammelli, nella gobba? - chiese Babette. - Cibo o acqua? Non ho mai capito bene.
- Ci sono cammelli che hanno due gobbe e altri che ne hanno una sola, - spiegò Heinrich. - Quindi dipende. Di quali stai parlando?
- Vuoi farmi credere che quelli a due gobbe tengono il cibo in una e l'acqua nell'altra?
- La cosa importante dei cammelli, - rispose Heinrich, - è che la loro carne viene considerata una leccornia.
- Pensavo che fosse la carne di alligatore, - intervenne Denise.
- Chi è stato a introdurre i cammelli in America? - chiese Babette. - Ci sono stati, per un po' di tempo, nel West, per portare le provviste ai coolie che costruivano le grandi linee ferroviarie che si incontravano a Ogden, nello Utah. Me lo ricordo dall'esame di storia.
- Sei sicura di non star parlando di lama? - chiese Heinrich.
- I lama erano in Perú, - intervenne Denise. - In Perú ci sono i lama, i vicuña e un altro animale che non ricordo più. In Bolivia c'è lo stagno. In Cile il rame e il ferro.
- Do cinque dollari a chiunque in questa macchina, - disse Heinrich, - sappia dirmi la popolazione della Bolivia.
- Boliviani, - rispose mia figlia.
La famiglia è la culla della disinformazione mondiale. Nella vita di famiglia dev'esserci qualcosa che genera gli errori di fatto. L'eccesso di vicinanza, il rumore e il calore dell'essere. Forse anche qualcosa di più profondo, come il bisogno di sopravvivere. Murray sostiene che siamo creature fragili, circondate da un mondo di fatti ostili. I fatti minacciano la nostra felicità e sicurezza. Più a fondo investighiamo nella natura delle cose, più incerta può sembrar diventare la nostra struttura. Il processo famigliare tende a escludere il mondo. Piccoli errori diventano capitali, le finzioni proliferano. Io gli replico che ignoranza e confusione non possono essere le forze motrici che stanno dietro la solidarietà famigliare. Che idea, che sovversione! Lui mi chiede perché mai, allora, le unità famigliari più forti si trovano nelle società meno sviluppate. Il non sapere è lo strumento della sopravvivenza, sostiene. Magia e superstizione si ossificano a diventare la poderosa ortodossia di clan. La famiglia è più forte là dove è più probabile che la realtà oggettiva venga malintesa. Che teoria spietata, dico. Ma lui insiste che è vera.
In un enorme negozio di ferramenta, al centro commerciale, vidi Eric Massingale, ex tecnico di vendita di microchip, che ha cambiato vita ed è venuto qui a insegnare al centro computer della Hill. Era magro e pallido ed esibiva un sorriso pericoloso.
- Non hai gli occhiali scuri, Jack.
- Li porto soltanto al campus.
- Ah.
Quindi procedemmo ciascuno per conto suo nei recessi del negozio. L'ampio spazio era invaso dagli echi di un grande frastuono, quasi il prodotto dell'estinzione di una specie animale. La gente comperava scalette a pioli, sei tipi diversi di carta smerigliata, seghe elettriche capaci di abbattere un albero. Le corsie erano lunghe e luminose, piene di scope surdimensionate, di massicci sacchi di torba e fertilizzante, di enormi bidoni per la spazzatura Rubbermaid. La corda pendeva come frutta tropicale, trefoli bellamente intrecciati, grossi, bruni, forti. Che gran cosa, da guardare e toccare, è un rotolo di corda. Comperai quindici metri di canapa di Manila tanto per averla in casa, per farla vedere a mio figlio, per parlare del posto da cui essa proviene, di com'è fatta. La gente parlava in inglese, in hindi, in vietnamita, in lingue apparentate.
Alle casse mi imbattei di nuovo in Massingale.
- Non ti ho mai visto fuori dal campus, Jack. Sei diverso, senza occhiali e toga. Dove l'hai preso quel golf? È dell'esercito turco? L'hai comperato per posta, vero?
Mi osservò attentamente, tastò il tessuto della giacca idrorepellente che portavo sul braccio. Poi arretrò, modificando la prospettiva, annuendo leggermente, con il sorriso che andava assumendo un tono di autocompiacimento, come se stesse complottando qualcosa.
- Quelle scarpe credo di conoscerle, - disse infine.
Che cosa significava?
- Sei una persona completamente diversa.
- In che senso, Eric?
- Non ti offendi? - rispose con un sorriso ormai diventato lascivo, gonfio di significati segreti.- Certo che no. Perché dovrei?
- Prometti che non ti offendi.
- Non mi offendo.
- Hai un aspetto assolutamente inoffensivo, Jack. Un individuo grosso, inoffensivo, insignificante.
- Perché dovrei offendermi? - ribattei, pagando la corda e affrettandomi a raggiungere la porta.
L'incontro mi fece venire voglia di fare acquisti.
Trovai gli altri e attraversammo due parcheggi per raggiungere la struttura principale del Mid-Village Mail, un edificio di dieci piani disposto attorno a una corte centrale adorna di cascate, passeggiate e giardini. Babette e i ragazzi mi seguirono nell'ascensore, nei negozi disposti lungo le gallerie, negli empori e nei grandi magazzini, perplessi ma eccitati di fronte alla mia voglia di comperare. Se non riuscivo a decidere tra due camicie, mi incitavano a comperarle entrambe. Se dicevo che avevo fame, mi riempivano di pretzel, birra, suvlaki. Le due ragazzine andavano avanti in esplorazione, avvistando cose di cui pensavano avrei potuto avere voglia o bisogno e correndo indietro a prendermi, tirandomi per le braccia, pregandomi di seguirle. Erano le mie guide al benessere senza fine. Gente sciamava per le boutique e i negozi di specialità alimentari. Dalla grande corte si levava musica d'organo. Sentivamo odore di cioccolato, popcorn, colonia; odore di tappeti e pellicce, di salami appesi e di vinile mortifero. I miei cari apparivano circonfusi di gloria. Ero uno di loro, facevo acquisti, finalmente. Mi davano consigli, facevano le insistenti con i commessi. Continuavo ad avere inattese visioni di me stesso in superfici riflettenti. Ci spostavamo di negozio in negozio, respingendo non soltanto certi oggetti in certi reparti, non soltanto interi reparti, ma interi grandi magazzini, mastodontiche ditte che per una ragione o per l'altra non eccitavano la nostra fantasia. C'era sempre un altro grande magazzino, tre piani, otto piani, scantinati pieni di grattuge e pelapatate.
Comperavo con abbandono incurante. Comperavo per bisogni immediati ed eventualità remote. Comperavo per il piacere di farlo, guardando e toccando, esaminando merce che non avevo intenzione di acquistare ma che finivo per comperare. Mandavo i commessi a frugare nei campionari di tessuti e colori, in cerca di disegni esclusivi. Cominciai a crescere in valore e autoconsiderazione. Mi espansi, scoprii aspetti nuovi di me stesso, individuai una persona della cui esistenza mi ero dimenticato. Mi trovai circondato dalla luce. Passammo dal mobilio all'abbigliamento per uomo, attraverso i cosmetici. Le nostre immagini comparvero su colonne coperte di specchi, in vetrerie e cromature, su monitor T.V. in locali di sicurezza. Scambiavo denaro con merci. Più ne spendevo, meno importante sembrava. Io ero più grosso di tali cifre. Erano somme che colavano dalla mia pelle come tanta pioggia. Somme che in realtà tornavano a me sotto forma di credito esistenziale. Mi sentivo espansivo, incline a essere largamente generoso, per cui dissi ai ragazzi di scegliersi i regali di Natale lì e in quel momento. Gesticolavo in quello che ritenevo un modo generoso. Capivo che erano impressionati. Si dispersero a ventaglio per l'ambiente, tutti improvvisamente inclini a essere riservati, vaghi, persino misteriosi. Di quando in quando uno di essi ricompariva per prendere nota di un oggetto con Babette, senza far sapere agli altri cosa fosse. Non era il caso di disturbare me con particolari noiosi. Ero il benefattore, il dispensatore di doni, di gratifiche, di bustarelle, di "bakshish". I ragazzi sapevano che era naturale non si potesse pretendere che mi impegnassi in discussioni tecniche sui doni in sé. Pranzammo un'altra volta. Un complesso suonava musica da ipermercato dal vivo. Le voci si levavano di dieci piani sopra giardini e passeggiate, un rombo che echeggiava e turbinava nel vasto ambiente, mescolandosi con i rumori che provenivano dalle gallerie, con lo strusciare di piedi e il suonare di campanelli, con il ronzio degli ascensori, il rumore della gente che mangiava, il brusio umano di una transazione vivace e lieta.
Tornammo a casa in silenzio. Ci ritirammo nelle nostre rispettive camere, desiderando stare soli. Un po' più tardi osservai Steffie davanti al televisore. Muoveva le labbra, tentando di seguire le parole a mano a mano che venivano pronunciate.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Pertiene alla natura e al piacere di chi abita in una città di provincia di diffidare della metropoli. Tutti i principi guida che possono emanare da un centro di idee ed energie culturali vengono considerati cose corrotte, in qualche misura pornografia. Così è per le città di provincia.
Ma Blacksmith non è affatto una città grossa. Non ci sentiamo per niente minacciati e danneggiati come altre cittadine. Non siamo sbattuti sul sentiero della storia e delle sue contaminazioni. Se le nostre lagnanze hanno un punto focale, esso deve risiedere nell'apparecchio T.V., dove si annida il tormento proveniente dall'esterno, provocando timori e desideri segreti. Certamente poco o punto risentimento si rivolge al College-on-the-Hill in sé, come simbolo di rovinosa influenza. La scuola occupa un margine sereno della città, vagamente distaccata, più o meno pittoresca, sospesa in un'aura di calma politica. Non appare un luogo destinato ad aggravare i sospetti.
Nella neve leggera raggiunsi in auto l'aeroporto fuori di Iron City, grossa città sprofondata nella confusione, centro di abbandono e vetri rotti piuttosto che luogo di decomposizione urbana pienamente "realizzata". Bee, mia figlia dodicenne, doveva arrivare su un volo da Washington, con due scali e un cambio di aereo nel corso del viaggio. Invece fu sua madre, Tweedy Browner, a fare la propria comparsa nella zona arrivi, minuscolo e polveroso luogo da terzo mondo, in stato di restauro piantato a metà. Per un momento pensai che Bee fosse morta e che Tweedy fosse venuta per dirmelo di persona.
- Dov'è Bee?
- Arriva più tardi. È per questo che sono qui. Per passare un po' di tempo con lei. Devo andare a Boston domani. Questioni di famiglia.
- Ma lei dov'è?
- Con suo padre.
- Sono io suo padre, Tweedy.
- Malcolm Hunt, stupido. Mio marito.
- È tuo marito, non suo padre.
- Mi vuoi ancora bene, Tuck? - mi chiese.
Mi chiamava Tuck, come sua madre ai tempi chiamava suo padre. Tutti i Browner di sesso maschile venivano chiamati così. Poi, avendo la progenie cominciato a farsi scolorita, producendo una serie di esteti e incompetenti, il nomignolo era passato a tutti i maschi acquisiti alla famiglia per matrimonio, in un raggio ragionevole. Essendo stato il primo, mi ero trovato in continua attesa di cogliere un'ultraraffinata nota di ironia nelle loro voci, quando mi chiamavano così. Secondo me, quando la tradizione fosse diventata troppo stiracchiata, nella voce si sarebbe fatta strada una vena di ironia. Nasalità, sarcasmo, autocaricatura e così via. Mi avrebbero punito rifacendo il verso a se stessi. Invece si comportavano in maniera dolce, assolutamente sincera, persino grata nei miei confronti perché consentivo loro di andare avanti nella tradizione.
Tweedy indossava golf di shetland, gonna di tweed, calze al ginocchio e mocassini. Portava con sé un senso di sfacelo protestante, un'aura di crollo al cui interno il suo corpo si sforzava di sopravvivere. Il viso chiaro e angoloso, gli occhi leggermente sporgenti, i segni, prodotto di tensione e rimostranze, che apparivano attorno alla bocca e agli occhi, il pulsare alla tempia, le vene in rilievo nelle mani e sul collo. Alla trama larga del suo golf era appiccicata della cenere di sigaretta.
- Per la terza volta. Dov'è?
- In Indonesia, più o meno. Malcolm lavora in stretta clandestinità, a fomentare un revival comunista. Fa parte di un brillante piano per defenestrare Castro. Usciamo di qui, Tuck, prima che arrivi uno sciame di bambini mendicanti.
- Viene sola?
- Perché no?
- Dall'Estremo Oriente a Iron City potrebbe non essere così semplice.
- Se è necessario, Bee se la cava. Tanto perché tu lo sappia, vuole fare la scrittrice di viaggi. Montabene a cavallo.
Diede una profonda tirata alla sigaretta ed esalò fumo in sboffi rapidi ed esperti, da naso e bocca, manifestazione cui si abbandonava quando voleva esprimere impazienza nei confronti dell'immediato circostante. All'aeroporto non c'erano bar o ristoranti, soltanto un chiosco con panini sotto cellofan, presidiato da un uomo con tatuati in faccia i segni distintivi di una setta. Prendemmo dunque il bagaglio di Tweedy, raggiungemmo l'auto e ci inoltrammo in Iron City, passando accanto a fabbriche abbandonate, su viali per lo più deserti, città di alture, di strade selciate qua e là, con qualche bella vecchia dimora, le finestre adorne di ghirlande festive.
- Non sono felice, Tuck.
- Perché?
- In tutta franchezza, credevo che mi avresti amato per sempre. È una cosa che posso avere soltanto da te. Malcolm è tanto spesso via.
- Divorziamo, ti prendi tutti i miei soldi, sposi un uomo benestante, con buoni legami, un diplomatico di buona taglia, che manovra segretamente alcuni agenti, inviandoli e richiamandoli da zone calde e inaccessibili.
- Malcolm ha sempre sentito un'attrazione per i posti di giungla.
Stavamo viaggiando paralleli ai binari della ferrovia. Le erbacce erano piene di bicchieri di plastica, gettati dai finestrini dei treni o che il vento aveva soffiato dalla stazione verso nord.
- Janet è finita nel Montana, invece, in un ashram, - replicai.
- Janet Savory? Buon Dio, e perché mai?
- Adesso si chiama Madre Devi. Si occupa delle attività finanziarie dell'ashram. Investimenti, proprietà fondiarie, sistemi per ridurre le tasse. È quello che ha sempre desiderato. La pace mentale in un contesto orientato al profitto.
- Magnifica struttura ossea, Janet.
- Aveva un vero talento per la clandestinità.
- Con quanta amarezza lo dici. Non ti sapevo amaro, Tuck.
- Stupido ma non amaro.
- Che cosa intendi con clandestinità? Era sotto copertura, come Malcolm?
- Non voleva dirmi quanto guadagnava. Credo che avesse l'abitudine di leggere la mia posta. Subito dopo la nascita di Heinrich mi coinvolse in un complesso programma di investimenti, con un gruppo multilingue. Sosteneva di aver avuto una dritta.
- Invece si sbagliava e avete perso tutte le vostre belle cifre.
- Macché, le abbiamo guadagnate invece. Mi trovavo intrigato, irretito. Lei era sempre lì a manovrare. Ne veniva minacciata la mia sicurezza. Il mio senso di una vita lunga e priva di eventi. Avrebbe voluto che ci costituissimo in società. Ricevevamo telefonate dal Liechtenstein, dalle Ebridi. Luoghi da romanzo, trame narrative.
- Non sembra la Janet Savory con cui ho passato una mezz'ora deliziosa. La Janet dagli zigomi alti e dalla voce beffarda.
- Avevate tutte quante gli zigomi alti. Tutte. Magnifica struttura ossea. Ringrazio Dio per Babette, per la sua faccia lunga e paffuta.
- Non c'è un posto dove fare un pasto civile? - chiese Tweedy. - Un posto con tovaglia e panetti freddi di burro. Malcolm e io una volta abbiamo preso il tè con il colonnello Gheddafi. Uomo affascinante e spietato, uno dei pochi terroristi di nostra conoscenza che viva secondo la propria immagine pubblica.
La neve aveva smesso di cadere. Attraversammo un quartiere di magazzini, di strade deserte, una tetraggine e un'anonimità che venivano colte dalla mente come una spettrale nostalgia di un qualcosa impossibile da ritrovare. Caffè solitari, un'altra ferrovia, carri merci fermi su un binario morto. Tweedy fumava una extralong dopo l'altra, esplodendo esasperati sboffi di fumo in tutte le direzioni. - Dio, Tuck, come stavamo bene insieme!
- In che senso, bene?
- O scemo, dovresti guardarmi con aria piena di affetto e nostalgia, sorridendo mestamente.- Portavi i guanti a letto.
- Lo faccio ancora.
- Guanti, mascherina per gli occhi e calze.
- Li conosci i miei difetti. Li hai sempre conosciuti. Sono ultrasensibile a molte cose.- Sole, aria, cibo, acqua, sesso.
- Cancerogeni, tutti.
- Che cosa sarebbero queste faccende di famiglia a Boston?
- Devo rassicurare mia madre che Malcolm non è morto. Si è presa una vera cotta per lui, qualsiasi possa esserne il motivo.
- Perché pensa che sia morto?
- Quando Malcolm entra in stretta clandestinità, è come se non fosse mai esistito. Sparisce non soltanto qui e ora, ma anche retroattivamente. Di lui non rimane traccia. A volte mi chiedo se l'uomo che ho sposato sia effettivamente Malcolm Hunt o una persona completamente diversa, anch'essa operante in stretta clandestinità. Una cosa francamente preoccupante. Non so quale metà della sua vita sia autentica e quale metà spionistica. Spero che Bee possa illuminarmi.
I semafori ondeggiavano appesi ai fili per effetto di un'improvvisa folata di vento. Ci trovavamo nella via principale della città, una serie di grandi magazzini, di posti che cambiavano assegni, di punti di vendita all'ingrosso. Un vecchio cinema di alta struttura moresca, insolitamente trasformato in moschea. Indistinte strutture definite Centro Raccolta, Centro Imballaggio, Centro Congressi. Quant'era prossimo, tutto ciò, a una classica foto piena di rimpianto.
- Giornata grigia a Iron City, - dissi. - Possiamo anche tornare all'aeroporto.
- Come sta Hitler?
- Bene, è concreto, affidabile.
- Anche tu hai un bell'aspetto, Tuck.
- Invece non mi sento affatto bene.
- E quando mai? Sei sempre il vecchio Tuck. Sei sempre stato il vecchio Tuck. Ci siamo voluti bene, eh? Ci dicevamo tutto, nei limiti imposti da educazione e tatto. Malcolm invece non mi dice niente. Chi è, mi chiedo. Che cosa fa?
Era seduta con le gambe piegate sotto il corpo, di fronte a me, e io le feci cadere della cenere nelle scarpe, posate sul tappetino di gomma.
- Non sarà stato meraviglioso crescere alta e diritta, tra castroni e giumente, con un padre che indossava blazer blu e fresche flanelle grige?
- Non chiederlo a me.
- Mia madre aveva l'abitudine di stare in piedi sotto il pergolato, con una bracciata di fiori recisi. Stava lì ferma, era se stessa e basta.
All'aeroporto aspettammo in una nebbia di polvere di intonaco, tra fili esposti, mucchi di detriti. Mezz'ora prima dell'arrivo di Bee, nella zona arrivi presero ad affluire attraverso un tunnel ventoso i passeggeri di un altro volo. Erano grigi e scossi, stremati da stanchezza e shock, e trascinavano i bagagli sul pavimento. Venti, trenta, quaranta persone, senza proferir parola, con lo sguardo fisso a terra. Alcuni zoppicavano, altri piangevano. Attraverso il tunnel ne arrivarono ancora altri, adulti con bambini che frignavano, vecchi tremanti, un sacerdote nero con il colletto di traverso e senza una scarpa. Tweedy diede una mano a una donna con due bambini. Io mi avvicinai a un giovanotto, tipo corpulento, con berretto da postino e ventre da bevitore di birra, con addosso una giacca di piumino, che mi guardò come se non appartenessi alla sua dimensione spazio-temporale, ma vi fossi penetrato in maniera illegale, compiendo un'incursione impertinente. Lo costrinsi a fermarsi e gli chiesi che cosa fosse successo lassù. Mentre la gente continuava a passare, si lasciò stancamente sfuggire uno sboffo. Poi annuì, gli occhi fissi sui miei, pieni di cortese rassegnazione.
L'aereo aveva perso potenza in tutti e tre i motori, precipitando da undicimila metri a quattromila. Qualcosa come settemila metri. Quando era cominciato il brusco tonfo, i passeggeri si erano alzati, erano cascati, andando a sbattere gli uni contro gli altri, si erano librati sui sedili. Poi erano cominciati sul serio gli strilli e i lamenti. Quasi immediatamente all'altoparlante si era sentita arrivare dal ponte di comando una voce che diceva: - Precipitiamo dal cielo! Andiamo giù! Siamo una macchina di morte argentea e lucente! - Uno sfogo che i passeggeri avevano preso come il segno di una totale perdita di autorità, competenza e presenza ai comandi, provocando una nuova esplosione di lamenti disperati.
- Oggetti rotolavano fuori dalle cambuse, i corridoi erano pieni di bicchieri, utensili, cappotti ecoperte. Una hostess, appiccicata alla paratia per effetto dell'angolo acuto di caduta, stava cercando nel «Manuale dei disastri aerei» il passo adeguato alle circostanze. Poi si era sentita arrivare dal ponte di comando una seconda voce maschile, questa, invece, notevolmente calma e precisa, che aveva fatto capire ai passeggeri come in definitiva ai comandi ci fosse ancora qualcuno, dando loro un motivo di speranza: - Qui American due-uno-tre al registratore della cabina di comando. Ora sappiamo com'è. È peggio di come abbiamo mai immaginato. Al simulatore della morte, a Denver, non ci hanno preparato a niente di simile. La nostra paura è pura, così totalmente spoglia di distrazioni e pressioni da costituire una forma di meditazione trascendente. In meno di tre minuti toccheremo per così dire terra. I nostri corpi verranno trovati in un campo fumoso, sparpagliati nelle orribili posture della morte. Ti amo, Lance -. Questa volta, prima che il lamento di massa riprendesse, c'era stato un attimo di silenzio. Lance? A che razza di gente era affidato quell'aereo? Il pianto aveva assunto un tono amaro e disilluso.
Mentre l'uomo in piumino mi raccontava la vicenda, i passeggeri che uscivano dalla galleria presero a raccogliercisi attorno. Nessuno parlava, interrompeva o cercava di infiorare il racconto.
Sull'aereo che precipitava una hostess aveva proceduto carponi per il corridoio, sopra corpi e macerie, dicendo alla gente delle due file di togliersi le scarpe, di levarsi di tasca gli oggetti taglienti, di mettersi in posizione fetale. All'altro capo dell'aereo qualcuno era alle prese con un'apparecchiatura di galleggiamento. Alcuni membri dell'equipaggio avevano deciso di fingere che ciò che li aspettava nel giro di pochi secondi non fosse un atterraggio con disastro, ma un atterraggio di fortuna. In definitiva si trattava soltanto di una leggera differenza di termini. Il che suggeriva come forse le due forme di conclusione del volo fossero più o meno intercambiabili. Ipotesi incoraggiante, date le circostanze, se non si stava troppo a pensarci, come del resto non c'era tempo di fare. La differenza di base tra un atterraggio con disastro e un atterraggio di fortuna sembrava essere che al secondo ci si può preparare sensatamente, come si stava appunto facendo. La notizia si era diffusa per l'aereo, l'espressione era stata ripetuta fila dopo fila. «Atterraggio di fortuna, atterraggio di fortuna». Si era visto quanto fosse facile, cambiando un'espressione, mantenere una presa sul futuro, estenderla in termini di consapevolezza, se non proprio di fatto. I passeggeri avevano preso a tastarsi in cerca di penne a sfera, avevano assunto la posizione fetale sul sedile.
Ora che il narratore fu arrivato a questo punto del racconto, la gente ci si era affollata tutto attorno, non soltanto quella appena uscita dal tunnel, ma anche alcuni tra i primi a sbarcare. Erano tornati indietro per ascoltare. Non si sentivano ancora pronti per disperdersi, per rientrare nei loro corpi terreni, volevano indugiare nel terrore, mantenerlo ancora un po' separato e intatto. Altra gente deviò alla nostra volta, ci mulinò attorno, praticamente tutto l'aereo. Erano contenti di lasciar parlare per loro conto l'uomo in piumino e berretto. Nessuno contestava il suo racconto o aggiungeva testimonianze individuali. Era come se si stesse loro raccontando una vicenda in cui non erano stati coinvolti di persona. Erano interessati a quello che costui diceva, persino curiosi, ma anche chiaramente distaccati. Fidavano che avrebbe detto tutto ciò che avevano detto e provato essi stessi.
Fu a quel punto della caduta, mentre l'espressione «Atterraggio di fortuna» si diffondeva per l'aereo, con particolare sottolineatura della seconda parte di essa, che attraverso le tende, procedendo carponi e aggrappati con le unghie, arrivarono i passeggeri di prima, che si inerpicarono letteralmente verso la sezione turistica, in modo da evitare di essere i primi a impattare con il terreno. Secondo alcuni di turistica, tuttavia, li si sarebbe dovuti rimandare indietro. Un sentimento non tanto espresso a parole e atti, quanto per mezzo di tremendi rumori inarticolati, per lo più una sorta di muggito, un mugghio pressante e forzato. Poi all'improvviso i motori ripartirono. Senza nessun motivo. Potenza, stabilità, controllo. I passeggeri, pronti all'impatto, ci misero un po' ad adeguarsi alla nuova ondata di notizie. Rumori nuovi, una rotta diversa, il senso di essere rinchiusi in una tubazione solida e non in un involucro di poliuretano. Si accese il segnale che permetteva di fumare, un'internazionale mano con sigaretta. Apparvero hostess munite di tovagliolini profumati per ripulire sangue e vomito. La gente emerse lentamente dalla posizione fetale, si rilasciò con difficoltà sui sedili. Settemila chilometri di terrore primigenio. Nessuno sapeva che cosa dire. Essere vivi era un coacervo di sensazioni. Dozzine di cose, centinaia. Il primo ufficiale percorse il corridoio, sorridendo e chiacchierando in modo piacevole, vacuo, aziendale. Sul suo volto c'era il lucore roseo e fidente proprio di chi è responsabile di grossi aerei di linea. Guardandolo, si chiesero tutti perché mai avessero avuto paura.
La gente che si era affollata per ascoltare, ben più di cento persone, che si trascinavano dietro sul pavimento polveroso bagagli a mano e valige, mi aveva spinto lontano dal narratore. Proprio nel momento in cui mi resi conto di essere fuori portata di ascolto, in piedi accanto a me vidi Bee, il visino liscio e bianco tra una massa di capelli ricci. Mi saltò tra le braccia, odorosa di scarichi di jet. - Dov'è la televisione? - chiese.
- A Iron City non c'è.
- Allora tutta quella roba l'hanno vissuta per niente?
Trovammo Tweedy e uscimmo per raggiungere l'auto. Ai margini della città c'era un ingorgo, per cui rimanemmo bloccati su una strada fuori di una fonderia abbandonata. Mille finestre sfondate, lampioni rotti, buio incombente. Bee stava seduta in mezzo al sedile posteriore, nella posizione del loto. Aveva un aspetto notevolmente riposato, dopo un viaggio attraverso fusi orari, masse di terra, vaste distese oceaniche, giorni e notti, su aerei piccoli e grandi, dall'estate all'inverno, da Surabaya a Iron City. Ora eravamo lì fermi ad aspettare che un'auto venisse trainata o un ponte mobile abbassato. Secondo lei, tuttavia, questo lato famigliarmente buffo dei viaggi moderni non valeva un commento. Se ne stava lì seduta ad ascoltare Tweedy intenta a spiegarmi perché i genitori non devono preoccuparsi che ai loro figli tocchi affrontare simili viaggi da soli, e basta. Aerei e terminal sarebbero i posti più sicuri per giovanissimi e ultravecchi. Vengono accuditi, gratificati di sorrisi, ammirati per la loro intraprendenza e il coraggio. La gente pone loro domande cordiali, offre loro coperte e dolci.
- Ogni bambino dovrebbe avere l'opportunità di viaggiare per migliaia di chilometri da solo, - disse Tweedy, - per lo sviluppo del rispetto di sé e dell'apertura mentale, con abiti e articoli da toilette di loro scelta. Prima li facciamo volare e meglio è. Come nuotare o pattinare sul ghiaccio. Bisogna farli cominciare da giovani. È una delle cose che sono orgogliosa di avere fatto con Bee. L'ho mandata a Boston con la Eastern Airlines a nove anni. E a nonna Browner ho detto di non andarla a prendere all'aereo. Uscire dall'aeroporto è importante come il volo in sé. Troppi genitori ignorano questa fase dell'evoluzione infantile. Ora Bee è cittadina a pieno titolo di entrambe le coste. È salita su un jumbo per la prima volta a dieci anni, ha cambiato aereo allo O'Hare, ha quasi perso la coincidenza a Los Angeles. Due settimane dopo ha preso il Concorde per Londra. Ad aspettarla c'era Malcolm con una mezza bottiglia di champagne.
Davanti a noi i fanali posteriori entrarono in agitazione, la fila si mise in moto.
Salvo incidenti meccanici, tempo turbolento e atti terroristici, affermò Tweedy, un aereo in volo alla velocità del suono può essere l'ultimo rifugio della vita confortevole e delle buone maniere rimasto.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
A volte Bee ci faceva sentire a disagio, pena che talvolta gli ospiti infliggono senza intenzione ai cortesi padroni di casa. La sua presenza sembrava irradiare una luce chirurgica. Cominciavamo a vederci come un gruppo che agiva senza logica, che evitava di prendere decisioni, che, a turno, procedeva ad atti stupidi ed emotivamente instabili, che lasciava asciugamani bagnati ovunque, che perdeva di vista i propri membri più giovani. Qualsiasi atto compissimo, diventava subito una cosa che sembrava aver bisogno di una spiegazione. Mia moglie ne risultava particolarmente sconcertata. Se Denise era un commissario in miniatura, impegnato a spingerci con le sue critiche verso un livello più elevato di coscienza, Bee era piuttosto un testimone silenzioso, capace di mettere in discussione il senso intimo della nostra vita. Guardavo Babette fissarsi lo sguardo nelle mani chiuse a coppa, esterrefatta.
Quel rumore cinguettante non era altro che il calorifero.
Bee disdegnava in silenzio battute, sarcasmi e altre faccende famigliari. Di un anno maggiore di Denise, era più alta, più sottile, più pallida, al tempo stesso mondana ed eterea, come se nell'intimo non fosse affatto una scrittrice di viaggi, come sua madre aveva sostenuto essere suo desiderio, ma semplicemente una viaggiatrice, nella sua forma più pura, una persona che raccogliesse impressioni, dense anatomie di sensazioni, senza tuttavia curarsi di prenderne nota.
Era presa di sé e pensosa, e dalla giungla ci aveva portato in dono alcuni oggetti scolpiti a mano. Prendeva il taxi per andare a scuola e ai corsi di danza, parlava un po' di cinese, una volta aveva mandato un vaglia telegrafico a un amico nei guai. L'ammiravo in un modo distante e inquieto, avvertendo una minaccia senza nome, come se non fosse affatto mia figlia, ma l'amica sofisticata e piena di fiducia in sé di uno dei miei figli. Forse Murray aveva ragione. Forse eravamo veramente una fragile unità circondata da fatti ostili. Forse ero veramente impegnato a favorire ignoranza, pregiudizio e superstizione al fine di proteggere la mia famiglia dal mondo.
Il giorno di Natale Bee stava seduta accanto al camino nel nostro soggiorno che usavamo raramente, osservando le fiamme color turchese. Indossava un lungo abito color cachi, dall'aspetto disinvoltamente costoso. Io ero seduto in poltrona, con tre o quattro scatole di regali mezzi aperti in grembo, da cui spuntavano capi di vestiario avvolti in carta velina. La mia copia di "Mein Kampf", piena di orecchie, era posata sul pavimento, di fianco alla poltrona. Alcuni degli altri erano in cucina, occupati a preparare il pranzo, altri erano saliti di sopra a esaminare i regali in privato. La T.V. disse: - Questa creatura ha sviluppato uno stomaco estremamente complesso adattandosi alla sua dieta a base di foglie.
- Questa storia della mamma non mi piace affatto, - disse Bee, in tono ricercatamente preoccupato. - Sembra sempre chiusa in sé. Come se fosse preoccupata di qualcosa e non sapesse con esattezza di che cosa si tratti. Naturalmente si tratta di Malcolm. Lui ha la sua giungla, mentre lei che cosa ha? Un'enorme cucina ariosa, con un fornello da ristorante di provincia a tre stelle. Ci mette tutta la sua energia, ma a che fine? Per lei non è una cucina. È la sua vita, la sua mezza età. Baba una cucina simile se la godrebbe. Per lei sarebbe una cucina e basta. Per la mamma, invece, è come lo strano simbolo del superamento di una crisi, peccato che la crisi non l'abbia superata affatto.
- Tua madre non è sicura di sapere chi sia suo marito.
- Il problema fondamentale non è quello. È, invece, che non sa chi sia lei stessa. Malcolm è in montagna, a vivere di corteccia d'albero e serpenti. È fatto così. Ha bisogno di caldo e umidità. Ha non so quante lauree in politica estera ed economia, ma non desidera altro che stare acquattato sotto un albero a guardare le popolazioni tribali che si spalmano fango su tutto il corpo. Ci si diverte, a guardarle. La mamma, invece, che cosa fa per divertirsi?
Bee era di fattezze minute, se si eccettuavano gli occhi, che sembravano contenere due forme di vita, il soggetto della conversazione e le sue implicazioni nascoste. Parlava della capacità che aveva Babette di mandare avanti senza sforzi particolari le cose, la casa, i ragazzi, il flusso dell'universo quotidiano: era un po' come me, eppure in fondo all'iride dei suoi occhi si muoveva una vita marina secondaria. Che cosa significava, che cosa stava veramente dicendo, perché sembrava aspettarsi che rispondessi a tono? Voleva comunicare in questa maniera secondaria, con fluidi ottici. Voleva la conferma dei propri sospetti, scoprire di me. Ma quali sospetti albergava dentro di sé e che cosa c'era da scoprire? Cominciavo a preoccuparmi. Mentre l'odore di toast bruciato riempiva la casa, cercai di indurla a parlare della vita scolastica alle medie.
- Sta andando a fuoco la cucina?
- È Steffie che brucia un toast. Lo fa di quando in quando.
- Avrei potuto preparare un piatto di "kimchi".
- Una cosa che hai imparato in Corea?
- Cavolo marinato con peperoncino rosso e un sacco di altra roba. Piccantissimo. Ma non so se si possono trovare gli ingredienti. Non si trovano nemmeno a Washington.
- Ma forse oltre al toast ci verrà dato qualcos'altro, - precisai.
Rimbrotto garbato che la rese felice. Mi voleva più bene quando ero secco, ironico e tagliente, talento naturale che riteneva avessi perduto passando troppo tempo con i bambini.
La T.V. disse: - Adesso applicheremo i piccoli sensori alla farfalla.
A letto, due giorni dopo, sentii delle voci, per cui mi misi l'accappatoio e mi inoltrai nel corridoio per vedere che cosa stesse succedendo. Fuori dal bagno c'era Denise.
- Steffie sta facendo uno dei suoi bagni.
- È tardi, - dissi.
- Se ne sta lì seduta a non far niente in tutta quell'acqua sporca.
- È sporco mio, - ribatté Steffie, dall'altro lato della porta.
- Sempre sporco è.
- Be', è mio e a me non interessa.
- È sporco, - ripeté Denise.
- È sporco mio.
- Lo sporco è sempre sporco.
- Non quando è mio.
All'estremità del corridoio comparve Bee con addosso un kimono argento e rosso. Se ne stava lì immobile, con un'aria distante e pallida. Vi fu un attimo in cui il nostro stato di meschinità e vergogna parve palpabilmente in espansione, un fumetto di autocoscienza. Denise borbottò qualcosa di violento a Steffie attraverso la fessura della porta, quindi tornò silenziosamente in camera sua.
Il mattino dopo accompagnai Bee all'aeroporto. Simili viaggi mi mettono di un umore silenzioso e cupo. Ascoltammo i notiziari della radio, cronache curiosamente eccitate di pompieri che stavano asportando un divano in fiamme da un appartamento di Watertown, trasmesse con un sottofondo di telescrivente. Mi accorsi che Bee mi stava osservando attentamente, con importanza. Era seduta con la schiena appoggiata alla portiera, le ginocchia sollevate e strette tra le braccia. Uno sguardo di solenne compassione. Uno sguardo di cui non è che proprio mi fidassi, dal momento che secondo me aveva poco a che vedere con pietà, amore o tristezza. In effetti vi coglievo qualcosa di completamente diverso. La più tenera forma di condiscendenza tipica delle ragazze adolescenti.
Di ritorno dall'aeroporto uscii dalla tangenziale all'altezza della strada sul fiume, parcheggiando ai margini del bosco. Quindi mi inoltrai per un sentiero ripido. C'era un vecchio steccato con un cartello. VECCHIO CIMITERO - Villaggio di Blacksmith.
Le lapidi erano piccole, sbilenche, butterate, chiazzate di funghi o muschio, nomi e date illeggibili. Il terreno era duro, con tratti ghiacciati. Mi inoltrai tra le lapidi, togliendomi i guanti per toccare la superficie ruvida del marmo. Immerso nel fango, davanti a una delle lapidi c'era un vasetto con tre bandierine americane, unica traccia che qualcuno mi avesse preceduto lì nel corso di questo secolo.
Riuscii a decifrare qualche nome, grandi nomi semplici e forti, che davano un'idea di rigore morale. Rimasi in ascolto.
Ero al riparo dal rumore del traffico, dal ronzio intermittente delle fabbriche, al di là del fiume. Per cui almeno in questo avevano agito bene, sistemando il cimitero in quel posto, in un silenzio che era rimasto intatto. L'aria era frizzante. Respirai profondamente e stetti fermo, in attesa di avvertire la pace che si ritiene cali sui morti, in attesa di vedere la luce che aleggia sui campi malinconici del pittore di paesaggi.
Rimasi lì in ascolto. Il vento soffiava via la neve dai rami. Altra neve emergeva dai boschi in mulinelli e folate radenti. Mi sollevai il colletto, mi rimisi i guanti. Quando l'aria fu di nuovo immobile, mi inoltrai tra le lapidi, cercando di leggere nomi e date, sistemando le bandierine in maniera che garrissero liberamente. Rimasi in ascolto.
La forza dei morti è che secondo noi ci vedono sempre. Sono una presenza. Forse esiste un livello di energia composto soltanto da loro. Sono anche sotto terra, ovviamente, addormentati e avviati a decomporsi. Forse noi siamo ciò che essi sognano.
Possano i giorni essere senza meta. Le stagioni scorrano. Non si prosegua l'azione secondo un piano.
CAPITOLO VENTESIMO
La sorella del signor Treadwell morì. Si chiamava Gladys. Il medico disse che era morta per il permanere della paura, risultato dei quattro giorni e delle quattro notti passati con il fratello nel MidVillage Mail, persi e confusi.
Un uomo di Glassboro morì a causa del distacco dal semiasse di una ruota posteriore della sua auto. Difetto tipico di quello specifico modello.
Il vice governatore dello stato morì per cause naturali non accertate, dopo lunga malattia. Sapevamo tutti che cosa significasse.
Un uomo di Mechanicsville morì fuori di Tokyo durante un assedio all'aeroporto da parte di diecimila studenti con casco.
Quando leggo gli annunci funebri, guardo sempre l'età del defunto, confrontando automaticamente la cifra alla mia età. Ancora quattro anni, penso. Ancora nove. Due anni e sono morto. La forza dei numeri non appare mai più evidente di quando li usiamo per speculare sul momento della nostra morte.
A volte contratto con me stesso. Sessantacinque anni mi vanno bene. L'età di Gengis Khan al momento della morte? Solimano il Magnifico ce l'ha fatta fino a settantasei. A me andrebbe bene, almeno adesso, ma come sarà quando ne avrò settantatrè?
È difficile pensare a simili uomini in preda a mesti pensieri di morte. Attila l'Unno è morto giovane. Sulla quarantina. Gli sarà dispiaciuto, si sarà sentito pieno di compassione per se stesso, e depresso? Era il re degli Unni, l'invasore dell'Europa, il Flagello di Dio. Voglio credere che sia rimasto disteso nella sua tenda, avvolto in pelli di animali, come in un film epico a finanziamento internazionale, dicendo cose coraggiose e crudeli ai propri aiutanti di campo e seguaci. Nessun cedimento dello spirito. Nessun senso dell'ironia insita nell'esistenza umana, del fatto che siamo la forma più elevata di vita sulla terra, eppure ineffabilmente tristi, perché sappiamo ciò che nessun altro animale sa, ovvero che dobbiamo morire. Attila non guardò oltre l'apertura della tenda, indicando un cane storpio fermo ai margini del fuoco, in attesa che gli venisse gettato un brandello di carne. Non disse: - Quel patetico animale pieno di pulci sta meglio del più grande dominatore di uomini. Non sa quello che noi sappiamo, non sente quello che noi sentiamo, non può essere triste quanto lo siamo noi.
Voglio credere che non avesse paura. Che abbia accettato la morte come un'esperienza che segue naturalmente alla vita, una folle cavalcata nella foresta, come si conviene a un uomo chiamato il Flagello di Dio. Così arrivò la sua fine, con gli attendenti che si tagliavano i capelli e si sfiguravano i volti in barbaro tributo d'onore, mentre la macchina da ripresa si ritira dalla tenda ed esegue una carrellata sul cielo notturno del quinto secolo d.C., limpido e incontaminato, attraversato da luminose strisce di mondi scintillanti.
Babette sollevò lo sguardo dalle uova e dalle patate fritte, dicendomi con intensità quieta: - La vita è bella, Jack.
- Perché dici questo?
- Pensavo solo che andasse detto.
- Adesso che l'hai detto, ti senti meglio?
- Faccio dei sogni tremendi, - mormorò.
Chi morirà prima? Babette sostiene di volerlo fare prima lei, perché senza di me si sentirebbe intollerabilmente sola e triste, specialmente se i ragazzi fossero cresciuti e vivessero altrove. È irremovibile. Desidera sinceramente precedermi. Ne discute con tale forza di argomenti che risulta evidente come pensi che in materia si abbia una scelta. E pensa anche che non possa capitarci niente finché in casa ci sono dei ragazzi bisognosi di cure. Sarebbero una garanzia di relativa longevità. Finché ci sono, siamo al sicuro. Ma una volta che siano diventati grandi e si siano dispersi, vuole essere la prima ad andarsene. Ne pare quasi ansiosa. Ha paura che io muoia inaspettatamente, di nascosto, tagliando la corda di notte. Non è che non ami la vita: è restare sola che la spaventa. Il vuoto, il senso di buio cosmico.
MasterCard, Visa, American Express.
Le ribatto che voglio morire prima io. Mi sono talmente abituato a lei che mi sentirei penosamente incompleto. Siamo due aspetti della stessa persona. Passerei il resto della vita a rivolgermi a lei. Nessuno, un buco nello spazio e nel tempo. Invece lei sostiene che la mia morte lascerebbe nella sua vita un vuoto maggiore di quello che nella mia lascerebbe la sua. Tale è il livello del nostro discorso. Le dimensioni relative di buchi, abissi e vuoti. Discutiamo molto seriamente su questo argomento. Lei afferma che se da un lato la sua morte sarebbe tale da lasciare un grosso buco nella mia vita, dall'altro la mia, di morte, lascerebbe nella sua, di vita, un abisso, un golfo enorme. Io controbatto con un'immensa voragine, un vuoto incolmabile. E così via nella notte. Discussioni che al momento non sembrano mai futili. Tale è la forza nobilitante della questione.
Si mise un lungo cappottone imbottito e lucido - dall'aspetto segmentato, esoscheletrico, concepito per il fondo oceanico - e uscì per andare a tenere il suo corso di portamento. Steffie si aggirava per la casa senza fare rumore, portando i sacchetti di plastica che usava per foderare i cesti di vimini sparsi qua e là. Lo faceva una volta o due alla settimana, con l'aria quieta e consapevole di chi non desidera gli venga riconosciuto di essere un salvatore di vite. Arrivò Murray per parlare con le due ragazzine e con Wilder, cosa che faceva di quando in quando nell'ambito della sua indagine su quella che chiamava la società dei bambini.
Parlava del gran chiacchierare dell'altro mondo che si fa nella famiglia americana. Sembrava pensare
che fossimo un gruppo visionario, aperto a forme particolari di coscienza. C'erano immensi accumuli di dati che aleggiavano per la casa, in attesa di essere analizzati. Salì di sopra con i tre ragazzi a guardare la T.V. Heinrich entrò in cucina, si sedette al tavolo e serrò una forchetta in ciascuna mano. Il frigorifero vibrava poderosamente. Io premetti un pulsante e sotto il lavandino un meccanismo triturante ridusse bucce, scorze e grasso animale in minutissimi frammenti drenabili, con un soprassalto motorizzato che mi fece arretrare di due passi. Tolsi le forchette di mano a mio figlio e le misi nella lavapiatti. - Prendi già il caffè?
- No, - rispose.
- Baba ne gradisce una tazza, quando torna dal corso.
- Falle del tè, invece.
- Non le piace.
- Può imparare, no?
- Sono due cose dal gusto completamente diverso.
- Un'abitudine è un'abitudine.
- Prima bisogna prenderla.
- È proprio quello che sto dicendo. Falle un tè.
- I suoi corsi sono più stancanti di quanto possa sembrare. Il caffè la rilassa.- È proprio per quello che è pericoloso, - ribatté lui.
- Macché.
- Tutto ciò che rilassa è pericoloso. Se non lo sai, è come se stessi parlando al muro.
- Anche Murray gradirebbe un po' di caffè, - insistetti, consapevole di una lieve nota di trionfo nella mia voce.
- Hai visto che cos'hai fatto? Hai portato con te il barattolo del caffè sul ripiano della credenza.
- E allora?
- Non occorreva farlo. Avresti potuto lasciarlo vicino al fornello, dov'eri, e poi andare a prendere il cucchiaio nella credenza.
- Vuoi dire che ho portato con me il barattolo senza che ce ne fosse bisogno?
- L'hai tenuto nella mano destra fino a che sei arrivato alla credenza, l'hai posato per aprire il cassetto, cosa che non hai voluto fare con la sinistra, quindi hai preso il cucchiaio con la destra, l'hai passato nella sinistra, hai ripreso il barattolo del caffè con la destra e sei tornato al fornello, dove sei tornato a posarlo.
- Così fanno tutti.
- Movimento sprecato. La gente spreca una quantità immensa di movimenti. Dovresti qualche volta guardare Baba che prepara l'insalata.
- La gente non sta lì a ponzare su ogni minimo movimento o gesto. Un po' di spreco non guasta.- Ma in tutta una vita?
- Che cosa si risparmia, a non sprecare?
- In una vita? Una spaventosa quantità di tempo ed energia, - replicò.
- E che cosa ce ne facciamo?
- Usiamoli per vivere di più.
La verità è che non voglio morire per primo. Concessami una scelta fra solitudine e morte, mi ci vorrebbe una frazione di secondo per decidere. Ma non voglio neanche restare solo. Tutto ciò che dico a Babette a proposito di buchi e vuoti, è vero. La sua morte mi lascerebbe a pezzi, a parlare con poltrone e cuscini. Non farci morire, vorrei gridare a quel famoso cielo del quinto secolo, infuocato di mistero e luce a spirale. Viviamo tutti e due per sempre, in malattia e salute, svaniti, tremolanti, sdentati, pieni di macchie fegatose, guerci, allucinati. Chi decide simili cose? Chi c'è lassù? Chi sei?
Guardai il caffè che usciva gorgogliando dal tubo centrale e dal cestello forato, passando nel piccolo globo chiaro. Invenzione meravigliosa e triste, così sinuosa, ingegnosa, umana. Una piccola argomentazione filosofica resa in termini di cose mondane: acqua, metallo, grani bruni. Mai prima di allora avevo guardato il caffè.
- Quando i mobili di plastica bruciano, si subisce un avvelenamento da cianuro, - disse Heinrich, tamburellando sulla superficie in formica del tavolo.
Quindi addentò una pesca invernale. Io versai una tazza di caffè per Murray e insieme al ragazzo salii per le scale verso la camera di Denise, dove al momento era situato il televisore. Il volume era basso, essendo le ragazze impegnate in un dialogo assorto con l'ospite. Murray sembrava felice di essere lì. Era seduto al centro del pavimento e prendeva appunti, con il montgomery e la coppola posati accanto sul pavimento. La camera attorno a lui era gravida di codici e messaggi, un'archeologia infantile, cose che Denise teneva con sé dall'età di tre anni, dagli orologi adorni di personaggi dei fumetti fino ai poster del lupo mannaro. Denise è il tipo di bambina che prova una sorta di tenerezza protettiva per le sue origini. In un mondo di situazioni alla deriva, appartiene alla sua strategia di fare ogni sforzo per restaurare e conservare, tenere le cose insieme per il loro valore di ricordi, come un modo per legarsi alla vita.
Non si equivochi. Questi bambini io li prendo sul serio. Non è possibile vedervi troppo, indulgere troppo all'eventuale capacità di studiare i caratteri. È tutto lì, a piena forza, carico di onde di identità ed essenza. Nel mondo dei bambini non ci sono dilettanti.
Heinrich era in piedi in un angolo della stanza, tutto preso a interpretare la propria parte di osservatore critico. Io diedi a Murray il suo caffè e stavo per andarmene quando, di passaggio, gettai un'occhiata allo schermo del televisore. Quindi mi fermai alla porta e questa volta guardai più attentamente. Era vero, eccolo lì. Fischiai per invitare gli altri a fare silenzio, ed essi girarono la testa verso di me, stupiti e seccati. Poi seguirono il mio sguardo al panciuto televisore piazzato all'estremità del letto.
Il viso sullo schermo era quello di Babette. Dalle nostre bocche esalò un respiro cauto e profondo come il ringhio di un animale. Dai nostri volti grondavano confusione, paura, stupefazione. Che cosa significava? Che cosa ci faceva lì, in bianco e nero, rinchiusa in quella cornice geometrica? Che fosse morta, scomparsa, che si fosse smaterializzata? Quello era forse il suo spirito, il suo io segreto, un facsimile bidimensionale trasmesso dalla forza della tecnologia, lasciato libero di fluttuare per le gamme di lunghezza d'onda, tra i livelli di energia, fermandosi un attimo a dirci addio dallo schermo fluorescente?
Fui preso da un senso di straniamento, di disorientamento psichico. Era assolutamente lei, il viso, i capelli, il modo come sbatte rapidamente gli occhi, due, tre volte di seguito. L'avevo vista soltanto un'ora prima, che mangiava le uova, ma la sua comparsa sullo schermo mi faceva pensare a lei come a una figura di un passato lontano, un'ex moglie e madre fuggitiva, un essere vagante nelle nebbie dei morti. Se non era morta lei, forse lo ero io. Un grido infantile, formato da due sillabe, "ba-ba", emerse dall'intimo della mia anima.
Il tutto compresso in pochi secondi. Fu solo con il trascorrere del tempo, con il suo normalizzarsi, con la restituzione del nostro ambiente - la stanza, la casa, la realtà in cui era sistemato il televisore - fu solamente allora che capimmo che cosa stesse succedendo.
Babette stava tenendo il suo corso nello scantinato della chiesa e la stavano riprendendo attraverso la locale stazione via cavo. O non sapeva che ci sarebbe stata una telecamera, o aveva preferito non dircelo, per imbarazzo, amore, superstizione, o qualunque sia la causa che impone di negare la propria immagine a coloro che ci conoscono.
Con il volume così basso non riuscivamo a sentire ciò che stava dicendo. Ma nessuno si curò di alzarlo. Quella che contava era l'immagine, il viso in bianco e nero, animato ma anche piatto, distante, impenetrabile, senza tempo. Era lei ma non era lei. Ancora una volta presi a pensare che forse Murray aveva colto nel segno. Onde e radiazioni. Attraverso le maglie qualcosa filtrava. Babette ci irradiava di luce, stava divenendo reale, assumeva continuamente nuove forme, a mano a mano che i muscoli del suo volto si adoperavano a sorridere e parlare, a mano a mano che i puntini elettronici sciamavano.
Eravamo fulmineamente attraversati da lei. La sua immagine veniva proiettata sui nostri corpi, aleggiava dentro e fuori di noi. Una Babette di elettroni e fotoni, o di quali che fossero le forze che producevano quella luce grigia che ritenevamo essere il suo viso.
I ragazzi erano rossi per l'eccitazione, mentre io avvertivo una certa inquietudine. Cercavo di dirmi che era soltanto televisione - qualsiasi cosa essa fosse, comunque funzionasse - e non un viaggio tra vita e morte, non una misteriosa separazione. Murray sollevò gli occhi a guardarmi, sorridendomi nel suo modo sfuggente.
Soltanto Wilder rimase calmo. Guardava sua madre, le rivolgeva parole smozzicate, frammenti di suono che sembravano avere un significato per lo più inventati. Quando la telecamera arretrò per consentire a Babette di dimostrare alcuni dettagli dello stare eretti o del camminare, il bambino si avvicinò all'apparecchio e le toccò il corpo, lasciando l'impronta di una mano sulla superficie polverosa dello schermo.
Poi Denise raggiunse a quattro zampe l'apparecchio e girò la manopola del volume. Non successe niente. Né rumore, né voce: niente. Si voltò a guardarmi, in un istante di rinnovata confusione. Quindi si fece avanti Heinrich, che trafficò con la manopola e poi ficcò la mano dietro all'apparecchio per sistemare i tasti. Quando provò un altro canale, il volume esplose, raschiante e sfocato. Tornato alla stazione via cavo, invece, non riuscì a provocare nemmeno un brusio, per cui, osservando Babette concludere la propria lezione, ci sentimmo in uno stato di strana apprensione. Ma non appena il programma fu terminato, le due ragazzine tornarono a eccitarsi e scesero di sotto ad aspettarla alla porta, per sorprenderla con la notizia di ciò cui avevano assistito.
Il bambino rimase davanti al televisore, a pochi centimetri dallo schermo buio, piangendo piano, incerto, con alti e bassi, mentre Murray prendeva appunti.
PARTE SECONDA - L'EVENTO TOSSICO AEREO
CAPITOLO VENTUNESIMO
Dopo una notte di nevi sfumate di sogno, l'aria tornò limpida e immobile. Nella luce del gennaio c'era una sorta di azzurro teso, di durezza e al tempo stesso di determinazione. Il rumore degli scarponi sulla neve compressa, le scie di condensa che attraversavano veloci e nitide il cielo. Il punto in questione era esattamente l'atmosfera, anche se sulle prime non lo sapevo.
Svoltai nella nostra via e superai uomini chini sui badili nei loro vialetti d'ingresso, sbuffanti vapore. Uno scoiattolo si mosse su un ramo con movimento fluido, un procedere tanto continuo che sembrava dipendere da una legge sua propria, diversa da quelle in cui abbiamo imparato a credere. Quando fui a metà della via, vidi Heinrich accucciato su un piccolo davanzale fuori dalla finestra del solaio. Aveva addosso giacca e berretto mimetici, tenuta che per lui è piena di complessi significati, nei suoi quattordici anni, nel suo sforzo di crescere e contemporaneamente passare inosservato, nei suoi segreti noti a tutti. Guardava verso est con il binocolo.
Aggirai la casa fino alla cucina. Nell'ingresso la lavatrice e l'asciugatrice vibravano puntigliosamente. Dalla voce di Babette capii che la persona con cui stava parlando al telefono era suo padre. Impazienza mista a senso di colpa e apprensione. Mi sistemai alle sue spalle e le misi le mani fredde sulle guance. Una cosetta che mi piaceva fare. Lei appese.
- Perché è sul tetto?
- Heinrich? C'è qualcosa allo scalo ferroviario, - rispose. - L'hanno detto alla radio.- Non sarà il caso che lo faccia scendere?
- Perché?
- Potrebbe cadere.
- Non dirglielo.
- Perché?
- È convinto che tu lo sottovaluti.
- È fuori su un davanzale, - replicai. - Dovrò pur fare qualcosa.
- Più mostri preoccupazione, più andrà vicino al bordo.
- Lo so, ma devo comunque farlo scendere.
- Convincilo con le buone a rientrare, - disse lei. - Sii sensibile e affettuoso. Inducilo a parlare di sé. Non fare movimenti improvvisi.
Quando arrivai in solaio, era già rientrato, stava in piedi davanti alla finestra aperta e continuava a guardare attraverso i vetri. Ovunque c'erano sparsi oggetti abbandonati, opprimenti e rattristanti, che creavano un proprio microclima tra le travi, i montanti esposti e i pannelli isolanti di fibra di vetro.
- Che cos'è successo?
- La radio ha detto che è deragliato un carro cisterna. Ma da quello che sono riuscito a vedere non credo affatto che sia deragliato. Penso piuttosto che sia andato a sbattere e che qualcosa lo abbia perforato. C'è un sacco di fumo e l'aspetto del tutto non mi piace.
- Com'è?
Mi porse il binocolo e si fece indietro. Senza inerpicarmi sulla sporgenza non mi sarebbe stato possibile vedere lo smistamento, né il vagone o i vagoni in questione. Ma il fumo era chiaramente visibile, massa pesante e nera sospesa nell'aria al di là del fiume, più o meno informe.
- Hai visto le autopompe?
- Ce n'è dappertutto, - rispose. - Ma mi sembra che non si avvicinino troppo. Dev'essere roba piuttosto tossica o piuttosto esplosiva, se non tutt'e due.
- Da questa parte non viene.
- Come fai a saperlo?
- Non viene e basta. Piuttosto: non devi stare in piedi sui davanzali ghiacciati. Baba si preoccupa.
- Secondo te, se mi dici che si preoccupa lei, io mi sento in colpa e non lo faccio più. Mentre se mi dici che ti preoccupi tu, io continuo a farlo.
- Chiudi la finestra, - gli ingiunsi.
Scendemmo in cucina. Steffie stava guardando nella posta coloratissima, in cerca di buoni. Era l'ultimo giorno di vacanza per le elementari e le superiori. I corsi alla Hill sarebbero invece ricominciati dopo una settimana. Mandai Heinrich a spalare la neve dal vialetto. Lo guardai lì fuori, in piedi, completamente immobile, la testa leggermente girata, in atteggiamento di lucida consapevolezza. Mi ci volle un po' per capire che stava ascoltando le sirene al di là del fiume.
Un'ora dopo era di nuovo in solaio, questa volta con una radio e una carta stradale. Mi inerpicai per le strette scale, mi feci prestare il binocolo e tornai a guardare. Era ancora là, accumulo leggermente più ampio, o piuttosto massa torreggiarne, forse un po' più nera.
- La radio lo definisce un leggero pennacchio, - disse. - Ma non lo è affatto.
- Che cos'è?
- Come una cosa informe che continua a crescere. Un alito di fumo color nero intenso. Perché lo definiscono pennacchio?
- Il tempo di trasmissione è prezioso. Non possono dilungarsi in lunghe descrizioni minuziose. Hanno spiegato di che prodotto chimico si tratta?
- Si chiama Nyodene Derivative o Nyodene D. C'era in un film che abbiamo visto a scuola sugli scarichi chimici. Un videotape di ratti.
- Che cosa provoca?
- Nel film dicevano che non si sa con sicurezza che cosa faccia agli esseri umani. Soprattutto era ai ratti che venivano dei grossi bozzi.
- Questo lo dicevano nel film. E alla radio, invece?
- Sulle prime hanno parlato di irritazione cutanea e palmi sudati. Adesso invece parlano di nausea, vomito, fiato corto.
- Nausea umana, si intende. Non dei ratti.
- No, non dei ratti, - confermò. Gli passai il binocolo.
- Be', comunque da questa parte non viene.
- Come fai a saperlo? - ripeté.
- Lo so e basta. Oggi l'aria è perfettamente calma e immobile. E quando in questa stagione c'è il vento, soffia da quella parte, no?
- E se invece soffiasse da questa?
- Non è possibile.
- Soltanto questa volta.
- Ho detto di no. Perché dovrebbe?
Heinrich fece una breve pausa e in tono neutro replicò: - Hanno appena chiuso una parte dell'interstatale.
- Era giustissimo farlo. È evidente.
- Perché?
- Perché sì. Precauzione dettata dal buon senso. Un espediente per facilitare lo scorrimento deiveicoli di servizio e simili. Una quantità infinita di ragioni che non hanno niente a che vedere con il vento o la sua direzione.
La testa di Babette fece capolino in cima alle scale. Disse che una vicina le aveva riferito come dal serbatoio fossero usciti centocinquantamila litri di roba. Stavano ordinando di tenersi alla larga dalla zona. Vi aleggiava un leggero pennacchio. Disse anche che le ragazzine lamentavano sudore ai palmi delle mani.
- C'è stata una correzione, - le spiegò Heinrich. - Avvertile che dovrebbero vomitare.
Ci sorvolò un elicottero, diretto verso il luogo dell'incidente. La voce alla radio disse: - Disponibile in offerta limitata con possibilità di hard disk da un megabyte.
La testa di Babette scomparve alla nostra vista. Vidi Heinrich appiccicare con lo scotch a due montanti la carta stradale. Quindi scesi in cucina per provvedere a pagare alcuni conti, consapevole di diverse macchie colorate che roteavano automaticamente sulla mia destra e dietro di me. Steffie chiese: - Il leggero pennacchio lo si vede dalla finestra del solaio?
- Non è un pennacchio.
- Ma dovremo andare via di casa?
- Macché.
- Come fai a saperlo?
- Lo so e basta.
- Ti ricordi che non potevamo più andare a scuola?
- Quello è successo dentro. Qui invece fuori. Sentimmo imperversare alcune sirene della polizia.
Guardai le labbra di Steffie formare la sequenza: "wow wow wow wow". Quando si accorse che la guardavo, sorrise in un certo modo, come se dolcemente richiamata al presente da un piacere che l'aveva distratta. Entrò Denise, sfregandosi le mani sui jeans.
- Stanno usando gli spazzaneve a turbina per soffiare della roba su quella che si è rovesciata, - disse.
- Che razza di roba?
- Non so, ma dovrebbe renderla inoffensiva, il che però non ci spiega che cosa stiano facendo con il pennacchio.
- Gli impediscono di ingrandirsi ulteriormente, - dissi. - Quando si mangia?
- Non so, ma se si ingrandisce ancora, arriva fino a qui, con o senza vento.- Non ci arriva, - ribattei.
- Come fai a saperlo?
- Perché no.
Denise si guardò i palmi delle mani e salì di sopra. Suonò il telefono. Babette andò in cucina e sollevò la cornetta. Ascoltando, mi guardava. Io compilai due assegni, sollevando di quando in quando lo sguardo per vedere se continuava a fissarmi. Sembrava studiare il mio volto in cerca di significati celati nel messaggio che stava ricevendo. Sporsi le labbra in un modo che sapevo non le piaceva.
- Erano gli Stover, - disse. - Hanno parlato direttamente con la centrale metereologica fuori di Glassboro. Non lo definiscono più un leggero pennacchio.
- E come?
- Una nube grassa e nera.
- Definizione un po' più precisa, il che significa che cominciano ad avere un'idea più chiara della situazione. Bene.
- C'è dell'altro, - aggiunse Babette. - Si pensa che una certa massa d'aria possa scendere dal Canada.
- C'è sempre una massa d'aria che scende dal Canada.
- È vero, - ammise lei. - Non c'è certamente niente di nuovo. Ma dal momento che il Canada è a nord, se la nube grassa viene soffiata a sud, passerà a una tranquillizzante distanza da noi.
- Quando si mangia? - chiesi.
Sentimmo altre sirene, questa volta però di tonalità diversa, un suono più ampio: non polizia, ma pompieri, ambulanze. Sirene, capii poi, antiaeree, che sembravano suonare a Sawyersville, piccola comunità nel nordest.
Steffie si lavò le mani al lavandino della cucina e salì di sopra. Babette cominciò a prendere delle cose dal frigorifero. Quando passò accanto al tavolo, l'afferrai per l'interno di una coscia. Si torse per il piacere, con in mano un pacchetto di grano surgelato.
- Forse dovremmo preoccuparci di più per questa nube grassa, - disse. - È per i ragazzi checontinuiamo a dire che non succederà niente. Non è il caso di spaventarli.
- Non succederà "assolutamente" niente.
- Lo so, e lo sai anche tu. Ma un po' dovremmo pensarci, non si sa mai.
- Sono cose che succedono alla povera gente che vive nelle zone esposte a rischio. La società èstrutturata in maniera tale che sono le persone povere e prive di istruzione a soffrire l'impatto più grave dei disastri naturali, nonché di quelli prodotti dall'uomo. Chi vive nei bassopiani subisce le alluvioni, chi vive nelle baracche subisce gli effetti di uragani e tornadi. Io sono un professore di college. Ne hai mai visto uno solo, in una di quelle inondazioni che si vedono alla T.V., remare in barchetta nella strada di casa? Noi viviamo in una città linda e piacevole, vicino a un college dal nome pittoresco. Sono cose che in posti come Blacksmith non succedono.
Ormai mi stava seduta in grembo. Assegni, conti, moduli di concorsi a premi e buoni erano sparsi su tutto il tavolo.
- Perché vuoi cenare così presto? - mi chiese, in un sussurro carico di significati erotici.
- A mezzogiorno non ho mangiato niente.
- Vuoi che prepari un po' di pollo fritto al chili?
- Ottimo.
- Dov'è Wilder? - chiese poi, con voce roca, mentre le facevo scorrere le mani sui seni, cercando con i denti di aprire il gancio del reggiseno attraverso la camicetta.
- Non so. Forse l'ha rapito Murray.
- Ti ho stirato la vestaglia, - disse lei.- Benissimo, benissimo.
- Hai pagato la bolletta del telefono?
- Non la trovo.
Ormai avevamo entrambi la voce roca. Teneva la braccia incrociate sulle mie in maniera tale che riuscivo a leggere i consigli di preparazione sulla scatola di grano macinato che teneva nella sinistra.
- Pensiamo un po' a questa nube grassa. Soltanto un minutino, eh? Potrebbe essere pericolosa.
- Tutto ciò che viene contenuto nei carri cisterna è pericoloso. Ma gli effetti sono per lo più a lungo termine, per cui basta starne alla larga.
- Comunque accertiamoci di averla sempre in un angolino della mente, - replicò lei, alzandosi per sbattere ripetute volte una vaschetta del ghiaccio sul bordo del lavandino, facendone uscire i cubetti a blocchi di due o tre.
Le sporsi le labbra. Quindi salii ancora una volta in solaio. Wilder era lì con Heinrich, nel cui rapido sguardo colsi un famigliare tono di accusa.
- Non lo definiscono più leggero pennacchio, - disse, senza incontrare il mio sguardo, quasi a risparmiarsi la pena dell'imbarazzo.
- Lo sapevo già.
- Lo definiscono nube grassa e nera.
- Bene.
- Perché?
- Vuol dire che stanno guardando la cosa più o meno dritto negli occhi. Hanno la situazione in mano.
Con aria di stanca risolutezza aprii la finestra, prendendo il binocolo e inerpicandomi sul davanzale. Avevo addosso un golf pesante e nell'aria fredda stavo abbastanza a mio agio, tuttavia mi accertai di tenere il peso accostato alla casa, mentre mio figlio mi reggeva per la cintura con una mano allungata. Avvertivo il suo sostegno alla mia limitata missione, persino la sua convinzione carica di speranza che potessi aggiungere il peso equilibrato di un giudizio maturo e ponderato alle sue pure osservazioni. È il compito dei genitori, in definitiva.
Mi accostai le lenti al viso e sbirciai nel buio che si stava infittendo. Sotto la nube di sostanze chimiche vaporizzate si stendeva uno spettacolo di agitazione e caos operativo. Lo smistamento era spazzato dai fari. In vari punti sopra di esso aleggiavano elicotteri dell'esercito, che gettavano ulteriori fasci di luce sulla scena. Fasci più ampi, intersecati dalle luci colorate delle auto pattuglia della polizia. Il carro cisterna stava saldamente posato sui binari, mentre vapori si levavano da quello che sembrava un buco a un'estremità. Evidentemente era stato sfondato dall'accoppiatore di un altro carro. Le autopompe erano disposte a una certa distanza, ambulanze e furgoni della polizia ancora più in là. Sentivo sirene, voci che gridavano attraverso i megafoni, con uno strato di elettricità statica che provocava lievi deformazioni nell'aria gelida. Uomini correvano da un veicolo all'altro, sballavano apparecchiature, portavano barelle vuote. Altri, in tuta gialla di Mylex e maschera respiratoria, si muovevano lentamente nella caligine illuminata, reggendo strumenti di misura della morte. Gli spazzaneve soffiavano una sostanza di colore rosa verso il carro cisterna e la zona circostante. La nebbia fitta compiva un arco nell'aria simile a una grandiosa struttura elevata per un concerto di musica patriottica. Gli spazzaneve erano del tipo usato sulle piste degli aeroporti, i furgoni della polizia erano di quelli che servono per portare via le vittime dei tumulti. Il fumo scorreva fluttuando dai raggi di luce rossa verso l'oscurità e poi negli ampi fasci dei fari bianchi panoramici. Gli uomini in tuta di Mylex si muovevano con cautela lunare. Ogni passo costituiva la manifestazione di un'ansia non legata all'istinto. I pericoli insiti nella situazione non erano né fuoco né esplosione. Quella morte sarebbe penetrata, filtrata nei geni, avrebbe fatto la sua comparsa in corpi non ancora nati. Si muovevano come in un alone di polvere lunare, ingombranti e traballanti, prigionieri del concetto di natura del tempo. Rientrai con una certa difficoltà.
- Che cosa ne pensi? - chiese Heinrich.
- E ancora lì sospesa. Sembra inchiodata in quel posto.
- Quindi sostieni che secondo te non verrà da questa parte.
- Dalla tua voce direi che sai qualcosa che io non so.
- Pensi che verrà da questa parte, o no?
- Tu vuoi che dica che non ci verrà per milioni di anni. Così poi potrai attaccarmi con le tue manciatine di dati. Forza, dimmi che cosa hanno detto alla radio mentre ero là fuori. - Non provoca nausea, vomito, fiato corto, come avevano detto prima.
- Che cosa provoca?
- Palpitazioni di cuore e senso di "déja vu".
- "Déja vu"?
- Colpisce la parte falsa della memoria umana, o qualcosa del genere. Ma non è tutto. Non la definiscono più neanche nube grassa e nera.
- E come?
Mi guardò attentamente.
- Evento tossico aereo.
Parole che pronunciò in tono secco e carico di presagi, sillabandole, come se avvertisse la minaccia contenuta nella terminologia creata dal governo. Quindi continuò a guardarmi attentamente, esaminandomi il volto in cerca di una rassicurazione nei confronti della possibilità di un pericolo reale, rassicurazione che per altro avrebbe immediatamente respinto come falsa. Era uno dei suoi maneggi preferiti.
- Queste cose non hanno nessuna importanza. L'importante è la dislocazione. Lei è là, noi invece qui.
- Dal Canada si sta spostando una massa d'aria, - ribatté lui in tono neutro.
- Lo sapevo già.
- Non significa che non sia importante.
- Forse sì, forse no. Dipende.
- Il tempo sta per cambiare, - praticamente mi gridò, con voce carica del vibrato lamentoso tipico della sua particolare età.
- Non sono soltanto professore universitario. Sono preside di dipartimento. Non mi vedo scappare davanti a un evento tossico aereo. È roba per gente che vive in roulotte nelle zone più brutte della contea, dove ci sono i vivai dei pesci.
Quindi osservammo Wilder scendere per i gradini del solaio, più alti di tutti gli altri della casa. A cena Denise continuava ad alzarsi per dirigersi a passetti rapidi e rigidi verso il bagno nel corridoio, tappandosi la bocca con una mano. Ci bloccavamo in strani atteggiamenti, nell'atto di masticare o di spargere sale, per sentirla dare di stomaco senza esito. Heinrich le disse che manifestava sintomi superati. Lei gli rivolse uno sguardo a occhi stretti. Era il periodo degli sguardi e delle occhiate, interazioni formicolanti, parte dell'insieme sensorio che di norma mi è molto caro. Caldo, rumore, luci, sguardi, parole, gesti, personalità, progetti. Una densità colloquiale che fa della vita di famiglia l'unico mezzo di conoscenza sensoriale in cui rientri normalmente un trasalimento del cuore.
Osservai le ragazzine comunicare tra loro con sguardi dissimulati.
- Non è un po' presto per mangiare, stasera? - chiese Denise.
- Che cosa significa presto? - ribatté sua madre.
Denise guardò Steffie.
- È perché vogliamo toglierci dai piedi? - chiese poi.
- Perché mai dovremmo toglierci dai piedi?
- Caso mai succedesse qualcosa, - rispose Steffie.
- Che cosa dovrebbe succedere? - chiese Babette.
Le ragazzine tornarono a guardarsi, scambio solenne e prolungato che indicava come un oscuro sospetto avesse ricevuto conferma. Le sirene antiaeree ripresero a suonare, questa volta tanto vicine che ne venimmo negativamente impressionati, scossi al punto da evitare reciprocamente gli sguardi altrui, come sotterfugio per negare che stesse succedendo qualcosa di insolito. Il suono veniva dalla nostra stazione dei pompieri, in mattoni rossi, sirene che non venivano usate da un decennio o più. Facevano un rumore simile a un fragore di protezione civile emerso dal mesozoico. Un pappagallo carnivoro con l'apertura alare di un D.C. 9. La nostra casa fu invasa da una sorta di raucedine aggressiva e brutale, tale da far pensare che i muri sarebbero andati a pezzi. Vicinissima a noi, indubitabilmente su di noi. Era straordinario pensare che quel mostro sonoro stesse celato da anni nei paraggi.
Continuammo a mangiare, in silenzio ed educatamente, riducendo le dimensioni dei nostri bocconi, chiedendo con cortesia che ci venissero passate le cose. Divenimmo meticolosi e forbiti, diminuendo la portata dei nostri movimenti, imburrando il pane quasi fossimo dei tecnici impegnati a restaurare un affresco. Ma il tremendo fragore non si interrompeva. Continuammo a evitare di incrociare gli sguardi, stando attenti a non far rumore con le posate. Credo che fra noi sia aleggiata la vergognosa speranza che soltanto così avremmo potuto evitare di venire notati. Era come se le sirene annunciassero la presenza di un meccanismo di controllo, marchingegno che avremmo fatto bene a non provocare con le nostre polemiche o rovesciando il cibo.
Fu soltanto quando un secondo suono si fece sentire attraverso il pulsare delle poderose sirene, che pensammo di procedere a una pausa nel nostro limitato episodio di dignitosa isteria. Heinrich corse alla porta d'ingresso e l'aprì. I rumori combinati della notte arrivarono in un'ondata, con fresca e rinnovata immediatezza. Per la prima volta dopo diversi minuti ci guardammo a vicenda, sapendo che questo nuovo suono era quello di una voce amplificata, senza tuttavia aver capito che cosa stesse dicendo. Heinrich tornò camminando in maniera ultradecisa e affettata, con qualche traccia di furtività. Il tutto sembrava significare che si sentiva gonfio di importanza.
- Vogliono che evacuiamo, - disse, senza incrociare i nostri sguardi.
Babette chiese: - Hai avuto l'impressione che fosse soltanto un consiglio o qualcosa di più vincolante, eh?
- Era la macchina di un comandante dei pompieri, con l'altoparlante, e andava piuttosto in fretta.- In altre parole, - intervenni, - non hai avuto modo di notare le sottigliezze di intonazione.
- Sbraitava.
- Per via delle sirene, - replicò Babette in tono speranzoso.
- Diceva qualcosa come: «Evacuate tutte le residenze. Nube di prodotti chimici letali, nube di prodotti chimici letali».
Rimanemmo a sedere davanti al pan di Spagna e alle pesche in scatola.
- Sono sicura che abbiamo un sacco di tempo, - disse Babette, - altrimenti si sarebbero preoccupati di dirci di fare in fretta. A che velocità si muoveranno le masse d'aria, mi domando.
Steffie leggeva un buono del Baby Lux, piangendo piano. Cosa che riportò in vita Denise, la quale salì di sopra per impacchettare alcune cose di utilità generale. Heinrich corse in solaio, facendo i gradini a due a due, a prendere binocolo, carta stradale e radio. Babette andò in dispensa e prese a raccogliere lattine e barattoli dalle famigliari etichette tese a migliorare la qualità della vita.
Steffie mi aiutò a sparecchiare.
Venti minuti più tardi eravamo in auto. La voce alla radio diceva che gli abitanti della zona occidentale della città dovevano dirigersi verso il campeggio abbandonato dei boy scout, dove volontari della Croce Rossa avrebbero distribuito succhi di frutta e caffè. Quelli della zona orientale, invece, dovevano prendere l'autostrada panoramica fino alla quarta stazione di servizio, dove avrebbero proseguito per un ristorante chiamato Kung Fu Palace, edificio a più ali, con pagode e laghetti adorni di gigli e cervi vivi.
Noi fummo tra gli ultimi ad aggregarci al primo dei due gruppi, unendoci al flusso del traffico nella via principale che portava fuori città, sordido coacervo di macchine usate, fast food, medicine scontate e cinema multiplex. Mentre aspettavamo il nostro turno per inserirci nell'autostrada a quattro corsie, sentimmo sopra di noi e dietro di noi la voce amplificata che gridava alle case buie, in una via fiancheggiata da platani e alte staccionate: - Abbandonare tutte le abitazioni. Subito, subito. Evento tossico, nube chimica.
La voce diveniva più forte, si indeboliva, tornava forte, mentre i veicoli si immettevano o uscivano dalle strade secondarie. Evento tossico, nube chimica. Quando le parole svanivano, la cadenza in sé continuava a rimanere distinguibile, sequenza ricorrente in lontananza. Pare che il pericolo imponga alle voci pubbliche la responsabilità di assumere un ritmo, quasi che nelle unità metriche risieda una coerenza capace di controllare quale che sia l'evento insensato e furioso che stia per scatenarsi sulle nostre teste.
Riuscimmo a inserirci nell'autostrada mentre cominciava a nevicare. Avevamo poco da dirci, non essendosi ancora le nostre menti adeguate alla realtà delle cose, alla realtà assurda dell'evacuazione. Più che altro guardavamo gli occupanti delle altre auto, cercando di dedurre dai loro volti quanto spaventati dovessimo essere. Il traffico procedeva lentissimo, ma ritenevamo che la velocità sarebbe aumentata qualche miglio più avanti, dove un passaggio nello spartitraffico avrebbe permesso al nostro flusso, in direzione ovest, di occupare tutte e quattro le corsie. Le due opposte erano deserte, il che significava che la polizia aveva già fermato il traffico diretto in questo senso. Segnale incoraggiante. Ciò che più immediatamente si teme, nel corso di un esodo, è che le autorità abbiano già tagliato la corda da un pezzo, lasciando gli altri a sfangarsela nel caos.
Ora la neve cadeva più fitta e il traffico si muoveva a sbalzi. In un mercato del mobile c'era una vendita di accessori per la casa. Uomini e donne ben illuminati si stagliavano nelle enormi vetrine, guardandoci con aria interrogativa. La cosa ci fece sentire come degli imbecilli, dei turisti che stessero sbagliando tutto. Perché quegli individui erano contenti di comperare mobili, mentre noi ce ne stavamo in preda al panico, imbottigliati in un traffico lumacone, in mezzo alla tormenta? Erano senz'altro al corrente di qualcosa che noi ignoravamo. In uno stato di crisi, i fatti veri sono sempre quelli affermati dagli altri. Nessuna nozione è meno sicura di quelle di cui si dispone.
In due o tre città continuavano a suonare le sirene antiaeree. Che cos'era che quegli acquirenti sapevano e che li faceva rimanere lì, mentre davanti a tutti noi si stendeva una via più o meno libera verso la salvezza? Mi misi a premere i pulsanti della radio. Su una stazione di Glassboro apprendemmo che c'era una notizia nuova e importante. A chi si trovava già al chiuso veniva chiesto di rimanerci. Che cosa ciò significasse, venne lasciato a noi di deciderlo. Che le strade fossero affollate al limite dell'impossibile? Che nevicasse Nyodene D.?
Continuavo a premere pulsanti, sperando di trovare qualcuno che avesse notizie riservate. Una donna, presentata come direttrice di una pubblicazione per la difesa dei consumatori, avviò un dibattito sui problemi medici che avrebbero potuto derivare dal contatto personale con l'evento tossico aereo.
Babette e io ci scambiammo uno sguardo cauto, quindi lei si mise immediatamente a parlare con le ragazzine, mentre io abbassavo il volume per impedire loro di apprendere che cosa potevano immaginare che le aspettasse.
- Convulsioni, coma, aborto, - disse la voce, bene informata e briosa.
Superammo un motel a tre piani. Ogni stanza era illuminata, ogni finestra piena di gente che ci fissava. Eravamo un corteo di scemi, soggetto non soltanto agli effetti della pioggia chimica, ma anche al giudizio sprezzante degli altri. Perché non erano loro a essere lì fuori, seduti in cappotto pesante dietro i tergicristalli, nel silenzio della neve? Sembrava imperativo raggiungere il campeggio dei boy scout, infilarci nell'edificio principale, sbarrare le porte, accalcarci sulle brande con il nostro succo e il caffè, aspettare il cessato allarme.
Alcune auto cominciarono a montare sull'erta erbosa ai margini della strada, creando una terza corrente di traffico fortemente inclinata. Sistemati in quella che prima era la corsia di destra, non avevamo altra possibilità che guardarle sorpassarci in posizione leggermente elevata rispetto alla nostra e in moto sbieco, deviato rispetto all'orizzontale.
Lentamente raggiungemmo un cavalcavia, dove si vedeva della gente che procedeva a piedi. Portavano scatole e valige, oggetti raccolti in coperte, lunga fila di persone che procedevano chine per affrontare il turbinio della neve. Persone che tenevano in braccio cagnolini e bambini, un vecchio con una coperta sopra il pigiama, due donne che portavano in spalla un tappeto arrotolato. C'era gente in bicicletta, bambini spinti su slitte e carrozzelle. Altra con carrelli del supermercato, altra ancora infagottata in voluminose tenute di ogni genere, che sbirciava da sotto enormi cappucci. C'era una famiglia completamente avvolta nella plastica, un unico grande foglio di polietilene trasparente. Procedevano a ranghi serrati sotto il loro scudo, padre e madre alle due estremità, tre bambini in mezzo, tutti in seconda istanza avvolti in impermeabili luccicanti. Ne emanava un'impressione di accuratamente provato e compiaciuto, come se fossero mesi che aspettavano di mettersi in mostra con quella roba. Altra gente continuava a comparire da dietro un alto bastione e a trepestare sul cavalcavia, le spalle spolverate di neve: centinaia di persone che si muovevano con una sorta di determinazione predestinata. Partì una nuova salva di sirene. La gente che procedeva pesantemente non accelerò il passo, non abbassò lo sguardo a osservarci, né lo sollevò al cielo notturno, in cerca di qualche segno della nube spinta dal vento. Continuarono a spostarsi sul ponte, attraverso chiazze di luce in cui infuriava la neve. Allo scoperto, tenendosi vicini i bambini, portando con sé il possibile, sembravano parte di un destino antico, legato in fato e rovina con un'intera storia di gente migrante sui carri per distese desolate. In loro c'era qualcosa di epico, che mi fece interrogare per la prima volta circa la reale portata della situazione in cui ci trovavamo.
La radio disse: - E l'ologramma con l'arcobaleno a conferire a questa carta di credito il suo fascino di marketing.
Passammo lentamente sotto il cavalcavia, sentendo un turbine di clacson e il lamento implorante di un'ambulanza bloccata nel traffico. Una cinquantina di metri più avanti la corrente si ridusse a una sola corsia e presto vedemmo perché. Una delle vetture era scivolata giù dall'erta ed era andata a sbattere contro una della nostra corsia. Qua e là, nella fila, starnazzava un clacson. Un elicottero aleggiava proprio sopra di noi, inviando un fascio di luce bianca sulla massa di metallo accartocciato. Alcune persone sedevano come istupidite sull'erba, accudite da un paio di infermieri barbuti. Due di esse erano insanguinate. Altro sangue si vedeva su un finestrino sfondato. Altro ancora sgorgava attraverso la neve appena caduta. Gocce di sangue macchiavano una borsetta color beige. Lo spettacolo di feriti, infermieri, acciaio fumante, tutto immerso in una luce violenta e arcana, aveva l'eloquenza di una composizione formale. Lo superammo in silenzio, con una sensazione di reverenza curiosa, persino sollevati dalla vista delle auto accatastate e della gente caduta.
Heinrich continuò a guardare attraverso il lunotto, dando di piglio al binocolo quando la scena cominciò a svanire in distanza. Ci descrisse in dettaglio numero e dislocazione dei corpi, i segni della slittata, i danni ai veicoli. Quando l'incidente non fu più visibile, si mise a parlare di tutto ciò che era successo da quando si era sentita la sirena antiaerea a cena. Ne parlava in toni entusiasti, con un senso di godimento di ciò che di vivido e inatteso era occorso. Io pensavo che fossimo tutti nel medesimo stato mentale, soggiogati, preoccupati, confusi. Non mi era venuto in mente che a uno di noi tali eventi potessero apparire vivacemente stimolanti. Lo osservai nello specchietto retrovisore. Era scompostamente seduto, con addosso la sua giacca mimetica dalle chiusure in velcro, felicemente immerso nel disastro. Parlava della neve, del traffico, della gente che arrancava faticosamente. Calcolò a quale distanza potessimo essere dal campeggio abbandonato, che tipo di sistemazione rudimentale potesse esservi disponibile. Non l'avevo mai sentito occuparsi di qualcosa con godimento tanto caloroso. Era praticamente euforico. Evidentemente sapeva che potevamo morire tutti. Che fosse una specie di esaltazione da fine del mondo? Che cercasse una distrazione dalle proprie minuscole miserie in un evento violento e travolgente? La sua voce tradiva una voglia matta di un po' di orrori.
- Questo è un inverno mite o duro? - chiese Steffie.
- In rapporto a che cosa? - chiese Denise.
- Non so.
Mi parve di vedere che Babette si faceva scivolare qualcosa in bocca. Distolsi per un attimo lo sguardo dalla strada per osservarla attentamente. Tenne lo sguardo fisso davanti a sé. Finsi di riportare l'attenzione sulla strada, ma mi voltai di nuovo in fretta, cogliendola alla sprovvista nell'apparente atto di inghiottire ciò che si era messo in bocca, qualsiasi cosa potesse essere. - Che cos'è? - chiesi.
- Guida, Jack.
- Ho visto la tua gola contrarsi. Hai mandato giù qualcosa.
- Soltanto una Life Saver. Guida, per favore.
- Ti metti una caramella in bocca e la mandi giù senza neanche succhiarla un po'?
- Mando giù che cosa? Ce l'ho ancora in bocca.
Quindi spinse la faccia verso di me, servendosi della lingua per formare una piccola protuberanza nella guancia. Un bluff scopertissimo, da dilettante.
- Però hai mandato giù qualcosa. Ho visto.
- Era solamente saliva di cui non sapevo che cosa fare. Ti spiacerebbe badare a guidare?
Mi accorsi che Denise cominciava a prendere interesse alla discussione, per cui decisi di lasciar perdere. Non era il momento giusto per mettere in croce sua madre con medicine, effetti collaterali e simili. Wilder dormiva, appoggiato al braccio di Babette. I tergicristallo compivano archi fradici. Dalla radio apprendemmo che si stavano spedendo per via aerea, da un centro di rilevamento dei prodotti chimici situato in una zona remota del New Mexico, dei cani addestrati ad annusare il Nyodene D.
Denise disse: - Avranno pensato a quello che capiterà a quei cani quando saranno arrivati tanto vicino a quella roba da poterla annusare?
- Ai cani non succede niente, - replicò Babette.
- Come fai a saperlo?
- Perché fa male soltanto all'uomo e ai ratti.
- Non ci credo.
- Chiedilo a Jack.
- Chiedilo a Heinrich, - parai io.
- Potrebbe essere vero, - disse il ragazzo, mentendo scopertamente. - I ratti vengono impiegati per misurare le cose nocive per l'uomo, il che significa che noi, uomini e ratti, abbiamo gli stessi malanni. E poi non impiegherebbero i cani se sapessero che potrebbe fargli male.
- Perché?
- Perché i cani sono mammiferi.
- Anche i ratti, - ribatté Denise.
- I ratti sono animali nocivi, - la corresse Babette.
- Ma prima di tutto, - intervenne Heinrich, - i ratti sono roditori.
- Però anche nocivi.
- Gli scarafaggi sono animali nocivi, - ribatté Steffie.
- Gli scarafaggi sono insetti. Lo si capisce dal numero delle zampe.
- Ma sono anche nocivi.
- Gli viene il cancro? No, - ribatté Denise. - Il che deve significare che i ratti sono più simili all'uomo che gli scarafaggi, anche se sono nocivi tutti e due, dal momento che a loro può venire il cancro, mentre agli scarafaggi no.
- In altre parole, - disse Heinrich, - quella lì dice che due animali che siano mammiferi hanno più cose in comune di altri due che siano soltanto nocivi.
- Vorreste farmi credere, - concluse Babette, - che i ratti non soltanto sono nocivi e roditori, ma anche mammiferi?
La neve si trasformò in nevischio, il nevischio in pioggia.
Arrivammo al punto in cui la barriera di cemento lasciava il posto a una striscia mediana panoramica non più alta di un basso paracarro. Ma invece di un poliziotto impegnato a far passare il traffico nelle altre due corsie, vedemmo un uomo in tuta di Mylex che ci ordinava a gesti di stare lontani dall'apertura. Appena alle sue spalle c'era il tumulo funerario formato da una Winnebago e da uno spazzaneve. Dall'immenso e tormentato ammasso esalava un filo di fumo color ruggine. Utensili in plastica dai vivaci colori erano sparsi qua e là. Non c'era segno di vittime o di sangue fresco, il che ci indusse a pensare che doveva essere passato qualche tempo da quando il camper aveva montato lo spazzaneve, probabilmente in un momento in cui l'opportunismo sembrava ancora una debolezza facilmente difendibile, vista la situazione. Doveva essere stata la neve accecante a far passare al guidatore la mediana senza accorgersi che dall'altra parte c'era qualcosa.
- È una cosa che ho già visto, - disse Steffie.
- In che senso? - chiesi.
- È una cosa che è già successa. Esattamente così. L'uomo con la tuta gialla e la maschera antigas. L'enorme ammasso di rottami nella neve. Era proprio esattamente così. Noi eravamo tutti qui in macchina. La pioggia faceva piccoli buchi nella neve. Tutto uguale.
Era stato Heinrich a spiegarmi che l'esposizione alle scorie chimiche poteva far provare un senso di "déja vu". Quando l'aveva detto, Steffie non c'era, ma poteva averlo sentito alla radio della cucina, probabilmente quando con Denise aveva appreso dei palmi sudati e del vomito, prima di manifestare loro stesse tali sintomi. Secondo me Steffie non sapeva che cosa significasse "déja vu", ma era possibile che gliel'avesse spiegato Babette. Comunque la sensazione di "déja vu" non valeva più, come sintomo della contaminazione da Nyodene, superato da coma, convulsioni e aborto.
Se Steffie aveva appreso del "déja vu" attraverso la radio, ma si era poi persa la successiva escalation verso condizioni più mortali, poteva essere che fosse suscettibile di farsi ingannare dal proprio apparato di suggestionabilità. Insieme a Denise, era tutta la sera che restava indietro. Erano arrivate in ritardo con i palmi sudati, con la nausea, e infine con il "déja vu". Che cosa significava, tutto ciò?
Steffie immaginava veramente di avere già visto l'incidente stradale oppure immaginava soltanto di esserselo immaginato? È possibile avere la falsa percezione di un'illusione? Esistono un "déja vu" vero e uno falso? Mi chiesi se avesse veramente avuto i palmi sudati oppure si fosse soltanto immaginata un senso di umidità. Ed era talmente suscettibile alla suggestione da manifestare tutti i sintomi che venivano annunciati?
Mi sentii triste per il genere umano e per la strana parte che giochiamo nei nostri stessi disastri.
Ma se invece non aveva sentito la radio e non sapeva che cosa fosse il "déja vu"? E se le fossero venuti i sintomi veri per mezzi naturali? Forse gli scienziati avevano ragione nel momento in cui avevano diffuso i primi annunci, prima dei peggioramenti contenuti negli aggiornamenti. Che cosa era peggio, la condizione reale o quella autoctona, e importava qualcosa? Mi ponevo queste domande e altre connesse. Guidando mi scoprii a fare e subire un esame orale, basato su quel tipo di sofismi cavillosi che nel medioevo hanno fatto la gioia di diversi secoli di perditempo. Era possibile che una ragazzina di nove anni avesse un aborto per forza di suggestione? O avrebbe dovuto prima essere incinta? Era possibile che la forza di suggestione fosse tale da agire a ritroso, dall'aborto alla gravidanza alla mestruazione all'ovulazione? Che cosa viene prima, la mestruazione o l'ovulazione? Stiamo parlando di semplici sintomi o di condizioni profondamente radicate? I sintomi sono segni o cose? Che cos'è una cosa e come facciamo a sapere che non è un'altra?
Spensi la radio, non per aiutarmi a pensare, ma al contrario per impedirmi di farlo. C'erano vetture che sbandavano e slittavano. Qualcuno gettò dal finestrino l'involucro di una chewing gum e Babette si esibì in una conferenza indignata sugli sconsiderati che insozzano le autostrade e la campagna. - Vi dirò un'altra cosa che è già successa, - disse Heinrich. - Stiamo finendo la benzina.
La luce del pieno stava tremolando.
- C'è sempre la riserva, - ribatté Babette.
- Come è possibile che ce ne sia sempre?
- Dipende da com'è costruito il serbatoio. In modo che non si resti senza.
- Non è possibile che ci sia "sempre" una riserva. Se si continua ad andare, si resta senza.
- Non si continua all'infinito.
- Come si fa a sapere quando fermarsi? - chiese lui.
- Quando si arriva a un distributore, - replicai io, ed eccolo lì, spiazzo deserto e allagato dalla pioggia, con pompe orgogliosamente erette dietro una distesa di bandiere multicolori. Vi entrai, smontai dall'auto, l'aggirai per raggiungere le pompe, con la testa piegata sotto il colletto del soprabito. Non erano chiuse a chiave, il che significava che gli inservienti erano scappati all'improvviso, lasciando le cose com'erano, in maniera intrigante, come gli attrezzi e utensili di una civiltà pueblo, il pane nel forno, il tavolo apparecchiato per tre, un mistero lasciato lì per il tormento delle generazioni a venire. Sollevai la pompa della benzina senza piombo. Le bandiere sbatacchiavano nel vento.
Pochi minuti più tardi, tornati sulla strada, assistemmo a una visione notevole e stupefacente. Comparve nel cielo davanti a noi, sulla sinistra, costringendoci ad abbassarci nel sedile e a piegare la testa per avere una visione più chiara, rivolgendoci vicendevoli esclamazioni smozzicate. Era la nube grassa e nera, l'evento tossico aereo, illuminato dai raggi luminosi di sette elicotteri dell'esercito. Ne seguivano il moto provocato dal vento, tenendola in vista. In tutte le auto le teste si spostarono, i guidatori suonarono il clacson per avvertire gli altri, volti apparvero ai finestrini, con espressioni sintonizzate su toni di bizzarra meraviglia.
L'enorme massa scura si muoveva come la nave dei morti di una leggenda norrena, scortata nella notte da creature con armatura e ali a spirale. Non sapevamo bene come reagire. Era una cosa tremenda da vedere, così bassa, zeppa di cloruri, benzine, fenoli, idrocarburi o quale che ne fosse di preciso il contenuto tossico. Ma era anche spettacolare, parte della grandiosità di un evento travolgente, come la scena vivida dello smistamento, o la gente che trepestava sul cavalcavia con bambini, alimenti, beni, tragico esercito di espropriati.
Il nostro timore era accompagnato da un senso di reverenza che confinava con il religioso. È certamente possibile essere messi in soggezione da ciò che minaccia la nostra vita, vederlo come una forza cosmica, tanto più grande di noi, più potente, prodotto da ritmi elementari e ostinati. Era una morte costruita in laboratorio, definita e misurabile, ma in quel momento ci pensavamo in un modo semplice e primitivo, come a una perversione stagionale della terra, a un'inondazione o a un tornado, qualcosa di incontrollabile. La nostra impotenza non appariva compatibile con l'idea di un evento provocato dall'uomo.
Nel sedile posteriore i ragazzi si disputavano il possesso del binocolo.
La situazione era stupefacente. Sembrava che illuminassero la nube davanti a noi come se fosse parte di uno spettacolo di suoni e luci, un po' di nebbia fatta scorrere per creare atmosfera su un alto bastione dove fosse stato trucidato un re. Ma quello a cui stavamo assistendo non era un evento storico. Era qualcosa di segreto e suppurante, un'emozione sognata che segue il sognatore anche dopo il sonno, Dagli elicotteri arrivavano bagliori deliranti, cremose esplosioni di luce rossa e bianca. I guidatori suonavano il clacson e i bambini si affollavano a tutti i finestrini, volti girati verso l'alto, rosee mani premute contro il vetro.
La strada fece una curva che la portò lontana dalla nube tossica, e per un po' il traffico si mosse più liberamente. A un incrocio vicino al campeggio dei boy scout due scuolabus si inserirono nella corrente principale del traffico, entrambi carichi dei matti di Blacksmith. Riconoscemmo gli autisti, individuammo volti famigliari al di là dei finestrini, gente che vedevamo di solito seduta in sedia a sdraio dietro la staccionata rada del manicomio, oppure intenta a passeggiare in cerchi sempre più stretti, a una velocità sempre più elevata, come masse girevoli di un meccanismo di rotazione. Provammo uno strano affetto per loro, unito a un senso di sollievo, nello scoprire che venivano accuditi in maniera diligente e professionale. Sembrava voler dire che la struttura era intatta.
Superammo un'indicazione della stalla più fotografata d'America.
Ci volle un'ora per incanalare il traffico nell'unica corsia del viale d'ingresso al campeggio. Uomini in tuta di Mylex agitavano torce elettriche e disponevano paletti fluorescenti per dirigerci verso il parcheggio, i campi di atletica e le altre aree di servizio. C'era gente che usciva dal bosco, alcuni muniti di casco con torcia, altri con sacchetti della spesa, bambini, cagnetti. Procedemmo sobbalzando per sentieri in terra battuta, sopra solchi e gobbe. Vicino all'edificio centrale vedemmo un gruppo di uomini e donne che portavano con sé taccuini e radio, funzionari non vestiti di Mylex, esperti della neoscienza dell'evacuazione. Steffie si unì a Wilder in un sonno irregolare. La pioggia cessò. Tutti spensero i fari, rimanendo seduti in atteggiamento incerto nelle auto. Il lungo strano viaggio era terminato. Ci aspettavamo che calasse su di noi un certo senso di soddisfazione, una certa disposizione d'animo nell'atmosfera di quieto adempimento, la benemerita fatica che promette un sonno immobile e profondo. Invece tutti stavano seduti nelle auto buie, fissandosi a vicenda attraverso i finestrini chiusi. Heinrich mangiò una caramella. Ascoltammo il rumore dei suoi denti che rimanevano appiccicati al caramello e alla massa di glucosio. Finalmente una famiglia di cinque elementi si decise a smontare da una Datsun Maxima. Erano tutti muniti di corpetto salvagente e torcia elettrica.
Piccole folle si raccolsero attorno a certi individui. Le fonti delle notizie e delle voci. Uno lavorava in un impianto chimico, un altro aveva colto di sfuggita una frase, un terzo era parente di un impiegato di un ente statale. Da quei fitti capannelli si irradiavano il vero, il falso e altri tipi ancora di notizie.
Si diceva che il mattino seguente ci sarebbe stato subito consentito di tornare a casa; che il governo era impegnato a insabbiare lo scandalo; che un elicottero era penetrato nella nube tossica senza più ricomparire; che dal New Mexico erano arrivati i cani, paracadutati in un prato con azzardato lancio notturno; che la città di Farmington sarebbe rimasta inabitabile per quarant'anni.
Le osservazioni aleggiavano in uno stato di perenne flottazione. Non una sola cosa era più o meno plausibile di qualsiasi altra. Poiché eravamo stati strappati alla realtà, eravamo anche dispensati dal bisogno di distinguere.
Alcune famiglie preferirono dormire in auto, altre furono costrette a farlo perché nei sette o otto edifici del campo non c'era più posto. Noi eravamo sistemati in un grosso baraccamento, uno dei tre del campo, e con il generatore in funzione stavamo abbastanza comodi. La Croce Rossa aveva fornito brande, stufette portatili, panini e caffè. C'erano lampade al cherosene per integrare le luci a soffitto. Molti avevano con sé radio, cibo extra a disposizione di tutti, coperte, seggiole da spiaggia, indumenti in più. Il posto era affollato, ancora freddissimo, ma la vista di infermiere e lavoratori volontari ci diede la sensazione che i ragazzi fossero al sicuro, mentre la presenza di altre anime sperdute, giovani donne con bimbetti, vecchi e infermi, ci caricò di una certa risolutezza e volontà, di un'inclinazione all'altruismo abbastanza pronunciata da funzionare come identità unificante. Quel grande spazio grigio, freddo, umido, spoglio e fino a un paio d'ore prima perduto alla storia, ormai si era trasformato in un posto stranamente gradevole, pieno di una bramosia comunitaria e vocale.
I cacciatori di notizie passavano da un capannello all'altro, tendendo ad attardarsi presso quelli più folti. In simile maniera mi spostai lentamente per la baracca. C'erano, appresi, nove centri di evacuazione, incluso il nostro e il Kung Fu Palace. Iron City non era stata svuotata, come del resto la maggior parte delle altre città della zona. Si diceva che fosse in arrivo il governatore dello stato, direttamente dal palazzo del governo, con un elicottero privato che sarebbe probabilmente atterrato in un campo di fagioli fuori di una città abbandonata, tanto da consentire al medesimo governatore di uscirne, sprizzante fiducia, mascella squadrata, tenuta da caccia, davanti allo scattare degli obiettivi, per dieci o quindici secondi, come dimostrazione della sua immortalità.
Che sorpresa fu farmi strada tra la gente ai margini più esterni di uno dei gruppi più folti, per scoprire che al centro di tutto ciò stava nientemeno che mio figlio, il quale parlava con la sua voce di recente conio, con il suo tono di entusiasmo per le calamità passeggere. Parlava dell'evento tossico aereo in maniera tecnica, anche se la sua voce sapeva di tutto tranne che di rivelazione profetica. Lo stesso nome del prodotto, Nyodene Derivative, lo pronunciava con un gusto indecente, traendo un piacere morboso dal suo suono. La gente ascoltava con attenzione questo adolescente in giacca militare e berretto, con un binocolo appeso al collo e una Instamatic attaccata alla cintura. Senza dubbio chi lo ascoltava era influenzato dalla sua età: doveva per forza essere sincero e franco, non legato a nessun interesse particolare; doveva avere conoscenza dell'ambiente; le sue nozioni di chimica dovevano essere fresche e aggiornate.
Lo sentii dire: - La roba che hanno spruzzato sul grosso travaso allo scalo ferroviario era probabilmente cenere di soda. Ma era troppo poca e troppo tardi. Secondo me domani all'alba fanno decollare degli aerei disinfestanti e bombardano la nube tossica con altra cenere di soda, che potrebbe frantumarla e farla spezzettare in un milione di nuvolette inoffensive. L'espressione cenere di soda viene comunemente usata per indicare il carbonato di sodio, che si impiega nella fabbricazione di vetro, ceramiche, detersivi e saponi. È anche quello che serve per fare il bicarbonato di sodio, cosa che moltissimi di voi si sono probabilmente cacciati in gola dopo una notte di follie.
La gente si avvicinava, impressionata dalle conoscenze e dall'acume del ragazzo. Era notevole sentirlo parlare con tanta disinvoltura a una folla di estranei. Che stesse scoprendo se stesso, imparando a valutare il proprio valore dalle reazioni degli altri? Era possibile che la confusione e lo shock di quel tremendo evento gli stessero insegnando a farsi strada nel mondo?
- Quello che vi state probabilmente chiedendo tutti è che cosa sia esattamente questo Nyodene D. di cui continuiamo a sentir parlare. Domanda giustissima. L'abbiamo studiato a scuola, dove abbiamo visto dei documentari con ratti in preda a convulsioni e roba del genere. Quindi, in sostanza, è una faccenda fondamentalmente semplice. Il Nyodene D. è un sacco di cose messe assieme, che sarebbero poi i sottoprodotti della fabbricazione di un'insetticida. Il prodotto principale ammazza gli scarafaggi, i sottoprodotti ammazzano tutto il resto. È una battuta del nostro insegnante.
Fece schioccare le dita, la sua gamba sinistra si produsse in una leggera oscillazione.
- In forma di polvere è privo di colore e di odore, nonché molto pericoloso, anche se pare chenessuno sappia esattamente che cosa provochi nell'uomo e nella sua prole. Sono anni che fanno prove, ma, o non lo sanno con certezza, oppure lo sanno e non lo dicono. Certe cose sono troppo sgradevoli per essere rese pubbliche.
Inarcò le sopracciglia e prese a fare smorfie comiche, facendo penzolare la lingua da un angolo della bocca. Rimasi sbalordito a sentire la gente che rideva.
- Una volta che sia penetrato nel suolo, il suo effetto dura quarant'anni. Molto più di quanto viva un sacco di gente. Dopo cinque anni si notano diversi tipi di funghi comparire tra i doppi vetri, come pure sugli abiti e negli alimenti. Dopo dieci anni le zanzariere cominciano ad arrugginire, a riempirsi di buchi e a marcire. I rivestimenti si deformano. Vi saranno rotture di vetri e traumi negli animali domestici. Dopo vent'anni ci si deve probabilmente rintanare in solaio e aspettare di vedere che cosa succede. Credo che tutto ciò debba insegnare qualcosa. Bisogna imparare a conoscere i prodotti chimici che si usano.
Non volevo che mi vedesse. Ciò lo avrebbe intimidito, ricordandogli il proprio passato di ragazzo cupo e sfuggente. Fiorisse pure, se era quello che stava facendo, in nome di disdetta, terrore e incidentale disastro. Quindi me la svignai, passando oltre un uomo con addosso degli scarponi da neve avvolti in plastica e dirigendomi verso l'altra estremità del baraccamento, dove in precedenza ci eravamo accampati.
Eravamo vicini a una famiglia di neri, Testimoni di Geova. Marito, moglie e un ragazzo di circa dodici anni. I due genitori erano impegnati a distribuire opuscoli tra la gente circostante e sembravano non aver problemi nel trovare ascoltatori volenterosi e ricettivi.
La donna disse a Babette: - Non sarà un bel fatto?
- Niente mi sorprende più, - replicò Babette.
- Proprio vero.
- Mi sorprenderei soltanto se non avessimo più sorprese.
- Mi pare giusto.
- O se, come sorprese, ci fosse soltanto robetta. Quella sì che sarebbe una sorpresa. Invece che roba come questa.
- Dio Geova ci riserva una sorpresa ben più grande, - ribatté la donna.
- Dio Geova?
- Proprio lui.
Steffie e Wilder erano addormentati in una delle brande. Denise stava seduta all'altra estremità, immersa nel "Manuale medico". Accatastati contro le pareti c'erano diversi materassini gonfiabili. Al telefono d'emergenza c'era una lunga fila di gente che chiamava i parenti oppure cercava di mettersi in collegamento con questo o quel programma radiofonico con telefonate del pubblico. Infatti le radio erano per lo più tutte sintonizzate su programmi del genere. Babette era seduta su una sedia pieghevole e stava frugando in una borsa di tela piena di merendine e altre provviste. Notai barattoli e cartoni che avevamo nel frigorifero o in dispensa da mesi.
- Ho pensato che sarebbe il momento giusto per ridurre i grassi, - disse.
- Perché proprio adesso?
- È il momento della disciplina, della risolutezza mentale. Siamo praticamente all'osso.
- Mi sembra veramente interessante che un possibile disastro, che coinvolge te stessa, la tua famiglia e migliaia di altre persone, tu lo sfrutti come occasione per ridurre i cibi grassi.
- La disciplina la si prende dove la si trova, - ribatté. - Se non mangio il mio yogurt adesso, posso anche smettere di comperarlo per sempre. Anche se invece penso che salterò i germi di grano.
La marca mi risultava sconosciuta. Ne presi il barattolo ed esaminai attentamente l'etichetta.
- Sono tedeschi, - le dissi. - Mangiali.
C'era gente in pigiama e ciabatte. Un uomo con una carabina a tracolla. Bambini che si infilavano in sacchi a pelo. Babette mi fece cenno di accostarmi.
- Teniamo la radio spenta, - mormorò. - In modo che le ragazze non sentano. Non sono andata oltre il "déja vu". E vorrei che non ci andassero adesso.
- E se fossero sintomi veri?
- Com'è possibile?
- Perché no?
- Gli vengono soltanto quando li trasmettono per radio, - mormorò lei.
- Del "déja vu" Steffie aveva sentito parlare alla radio?
- Credo di sì.
- Come fai a saperlo? Eri presente quando ne hanno parlato?
- Non sono sicura.
- Pensaci bene.
- Non riesco a ricordarmi.
- Ti ricordi se le hai spiegato che cosa significa "déja vu"? Tolse un po' di yogurt dal cartone con il cucchiaio, parve avere un'esitazione, immersa nei suoi pensieri.
- È già successo, - disse finalmente.
- Che cosa?
- Che mangiavo lo yogurt, seduta qui, parlando di "déja vu".
- Non voglio neanche sentirtelo dire.
- Lo yogurt l'avevo sul cucchiaio. Ho visto tutto in un lampo. Tutta questa esperienza. Naturale, latte intero, magro.
Lo yogurt era ancora sul cucchiaio. La guardai metterselo in bocca, pensosa, cercando di confrontare l'azione con l'illusione di un originale identico. Dalla mia posizione accosciata le feci cenno di avvicinarsi di più.
- Sembra che Heinrich stia uscendo dal guscio, - dissi a voce bassissima.
- Dov'è? Non l'ho visto.
- Vedi quel gruppo di persone? È là, proprio in mezzo. Sta raccontando tutto quello che sa sull'evento tossico.
- E che cosa saprebbe?
- Un sacco di cose, pare.
- Perché non le ha dette a noi? - disse a sua volta, anche lei a voce bassissima.
- Probabilmente lo abbiamo stancato. Non crede che valga la pena di essere divertente e pieno di fascino davanti alla sua famiglia. I figli sono fatti così. Per loro noi siamo lo stimolo sbagliato.
- Divertente e pieno di fascino?
- Credo che lo sia sempre stato. Era soltanto questione di trovare l'occasione giusta di esercitare i propri doni naturali.
Babette si accostò ulteriormente, tanto che le nostre teste arrivarono quasi a toccarsi.
- Non credi che dovresti andare là? - chiese. - Fa' in modo che ti veda tra la folla. Mostragli che suo padre è presente in un momento così importante.
- Ne resterebbe solamente scosso.
- Perché?
- Sono suo padre.
- Quindi, se andassi là, gli rovineresti tutto, mettendolo in imbarazzo e bloccandolo per via del rapporto padre-figlio. Però, se non ci vai, non saprà mai che l'hai visto in un momento così importante, per cui penserà di doversi comportare in tua presenza come ha sempre fatto, in maniera diciamo scontrosa e difensiva, invece che in questo suo nuovo modo, piacevolissimo ed espansivo.
- È un bel problema.
- E se ci andassi io? - mormorò.
- Penserebbe che ti ho mandato io.
- Sarebbe una cosa così terribile?
- Pensa già che mi serva di te per fargli fare quello che voglio.
- Può esserci qualcosa di vero, Jack. Ma allora a che cosa servono i genitori acquisiti, se non si può usarli nelle schermaglie tra consanguinei?
Questa volta fui io ad accostarmi ulteriormente, abbassando ancora di più la voce. - Soltanto una Life Saver, - mormorai.
- Che cosa?
- Soltanto un po' di saliva di cui non sapevo che cosa fare.
- Era veramente una Life Saver, - mormorò lei in risposta, facendo una O con pollice e indice.- Dammene una.
- Era l'ultima.
- Che gusto? Presto!
- Ciliegia.
Sporsi le labbra e produssi dei lievi rumori di risucchio. Il nero venne ad acquattarmisi accanto con i suoi opuscoli. Ci impegnammo in una franca e prolungata stretta di mano. Mi esaminò scopertamente, dando l'impressione che avesse percorso quelle aspre distanze, sradicando la propria famiglia, non per sfuggire all'evento chimico, ma per trovare l'unica persona che potesse capire ciò che aveva da dire. - Sta succedendo dappertutto, vero?
- Più o meno, - risposi.
- E il governo che cosa fa?
- Niente.
- L'ha detto lei, non io. Nella nostra lingua esiste una sola parola per definire quello che stanno facendo, e lei l'ha trovata esattamente. Non sono affatto sorpreso. Ma a pensarci bene, che cosa c'è che "potrebbero" fare? Quello che si sta realizzando, si sta realizzando in maniera definitiva. Non c'è governo al mondo abbastanza grosso per fermarlo. Una persona come lei conosce le dimensioni dell'esercito permanente indiano?
- Un milione.
- Non l'ho detto io, ma lei. Un milione di soldati, e non riescono a fermarlo. Lo sa chi ha l'esercito permanente più grosso del mondo?
- Sarà la Cina o la Russia, immagino, anche se non bisogna dimenticare i vietnamiti.- Dica un po': i vietnamiti sono in grado di fermarlo?
- No.
-È arrivato, le pare? La gente lo avverte. Ce lo sentiamo nelle ossa. Sta venendo il regno di Dio. Era un uomo snello, con i capelli radi e uno spazio tra i due denti centrali. Stava agevolmente accosciato, sembrava avere le giunture sciolte e stare comodo. Mi resi conto che portava vestito e cravatta con le scarpe da ginnastica.
- Non sono giorni grandiosi? - chiese.
Lo esaminai in volto, cercando di scoprirvi un'indicazione per la risposta giusta.
- Lei lo sente realizzarsi? È in arrivo? Lei "vuole" che si realizzi?
Lo chiese molleggiandosi sulle dita dei piedi.
- Guerre, carestie, terremoti, eruzioni vulcaniche. Tutto sta cominciando a prendere forma. Dica lei: esiste qualcosa che possa impedirgli di realizzarsi, una volta che si sia messo in moto?
- No.
- L'ha detto lei, non io. Inondazioni, tornadi, epidemie di strane malattie nuove. È un segno? È la verità? Lei è pronto?
- Ma è proprio vero che la gente se lo sente nelle ossa? - chiesi.
- Le buone notizie fanno in fretta a diffondersi.
- Ne parlano? Nelle sue visite porta a porta, ha l'impressione che lo vogliano?
- Macché vogliono e non vogliono. Il problema è: dove vado a iscrivermi? Tiratemi subito fuori di qui. La gente chiede: «Ci sono cambiamenti stagionali, nel regno di Dio?» Chiede: «Ci sono i ponti a pedaggio? Ci sono i vuoti a rendere?» Voglio dire: sono tutti strapronti.
- Quindi secondo lei sarebbe una valanga.
- Una folla, tutta d'un colpo. Molto ben detto. Del resto mi è bastato un'occhiata, per dirlo. Questo è uno che capisce.
- I terremoti non sono in aumento, statisticamente parlando.
Mi rivolse uno sguardo pieno di condiscendenza, che sentii meritato, anche senza sapere perché.
Forse era una finezza assurda star lì a tirar fuori statistiche di fronte a fedi, paure, desideri incrollabili.
- Come pensa di passare la resurrezione? - chiese, come se parlasse di un prossimo weekend lungo.
- L'avremo tutti?
- O si è tra i dannati, o tra i salvati. I dannati marciscono per strada. Arrivano a sentire gli occhi che gli cascano dalle orbite. Li si riconosce dall'appiccicosità e dai pezzi che perdono. Individui che si lasciano dietro delle scie vischiose, prodotte da loro stessi. Armageddon è così spettacolare grazie a tutto quel marcio. I salvati invece si riconosceranno dalla pulizia e dalla riservatezza. Non si mettono in mostra loro.
Era una persona seria, realistica e pratica, dalla testa fino alle scarpe da ginnastica. Mi stupivo della sua bizzarra certezza, della sua mancanza di dubbi. Che Armageddon fosse proprio questo? Nessuna ambiguità, niente più dubbi. Era pronto per l'aldilà. E stava costringendo l'aldilà a insinuarmisi nella mia coscienza, meraviglioso evento che a lui appariva un fatto reale, evidentissimo, ragionevole, imminente, vero. Io non mi sentivo Armageddon nelle ossa, ma mi preoccupavo per tutti quelli che invece lo sentivano, che erano pronti, che lo desideravano fortemente, che facevano telefonate e prelievi in banca. Se c'è abbastanza gente che lo desidera, si realizza? E quanta gente ci vuole? Perché stiamo conversando in questa posizione accosciata, da aborigeni?
Mi porse un opuscolo intitolato «Venti errori comuni sulla fine del mondo». Emersi a fatica dalla posizione accucciata, sentendo un certo giramento di testa e mal di schiena. In fondo alla corsia una donna stava dicendo qualcosa a proposito dell'esposizione agli agenti tossici. La sua voce sottile andò quasi perduta nello strepito della baracca, il tipo di rombo di bassa tonalità che gli esseri umani producono normalmente nei vasti spazi chiusi. Denise aveva posato il suo manuale e mi stava osservando con sguardo duro. Quello che di norma riservava al proprio padre e al suo fallimento più recente.
- Che cosa c'è? - le chiesi.
- Non hai sentito che cosa ha detto la voce?
- Esposizione.
- Già, - ribatté aspramente. - E noi che cosa c'entriamo?
- Non noi, - replicò. - Tu.
- Io? Perché?
- Non sei stato tu a scendere dall'auto per fare il pieno?
- Dov'era l'evento aereo, quando l'ho fatto?
- Proprio sopra di noi. Non ricordi? Sei tornato in macchina, abbiamo tirato avanti un po' e poi ci siamo trovati in mezzo a tutta quella luce.
- Vuoi dire che quando sono sceso dall'auto la nube poteva essere abbastanza vicina da piovermi in testa?
- Non è colpa tua, - ribatté in tono impaziente, - ma ci sei stato praticamente dentro per due minuti e mezzo.
Raggiunsi il punto in cui si stavano formando due file. Dalla A alla M e dalla N alla Z. In fondo a entrambe le file c'era un tavolino pieghevole, con sopra un microcomputer. Tutto attorno, un turbinio di tecnici di entrambi i sessi, con distintivi all'occhiello e bracciali colorati secondo un codice di riconoscimento. Mi trovai dietro alla famiglia tutta in corpetto salvagente. Sembravano in forma, felici e ben addestrati. La loro tenuta voluminosa color arancione non appariva particolarmente fuori posto, anche se ci trovavamo in territorio più o meno asciutto, ben al di sopra del livello del mare, a molte miglia dalla più vicina minacciosa massa d'acqua. I grossi sconvolgimenti fanno emergere ogni sorta di stramba aberrazione per il semplice effetto della loro subitaneità. Lo scenario era ovunque marcato da macchie di colore e idiosincrasie.
Le file non erano lunghe. Quando raggiunsi la scrivania A-M, l'uomo che vi stava seduto batté alcuni miei dati su una tastiera. Nome, età, curriculum sanitario eccetera. Era un giovane scarno, che sembrava pieno di sospetti nei confronti della conversazione che andasse al di là di certi binari prestabiliti. Sulla manica sinistra della giacca color cachi portava un bracciale verde con la sigla SIMUVAC. Riferii le circostanze della mia presunta esposizione.
- Quanto c'è stato?
- Due minuti e mezzo, - risposi. - Lo si considera molto o poco?
- Qualsiasi cosa abbia messo a contatto con effettive emissioni, significa che siamo in presenza di una situazione problematica.
- Come mai la nube ha continuato a spostarsi, senza disperdersi nella pioggia e nel vento?
- Non è mica un cirro qualsiasi. Si tratta di un evento ad alta definizione. È zeppo di dense concentrazioni di sottoprodotti. Si potrebbe, per così dire, gettarci un amo e trascinarla fino al mare.
Esagero, tanto per chiarire.
- E le persone rimaste in auto? Ho dovuto aprire la portiera per scendere e risalire.
- Esiste una casistica nota di gradi di esposizione. Direi che la loro situazione è al minimo di rischio.
A darmi da pensare sono i due minuti e mezzo che lei ci è stato in mezzo. Vero e proprio contatto di pelle e orifizi. Si tratta di Nyodene D. Un'intera nuova generazione di scorie tossiche. Quello che chiamiamo all'avanguardia. Un milionesimo di milione di quella roba può mandare in orbita un ratto.
Quindi mi guardò con l'aria tetramente superiore del veterano di tante battaglie. Evidentemente non aveva una grande considerazione per le persone la cui vita soddisfatta e ultraprotetta non prevedeva incontri con topi dal cervello fuso. Ma io lo volevo dalla mia. Lui in fondo aveva accesso ai dati. Ero pronto a essere servile e adulatore, se ciò poteva servire a impedirgli di lasciar cascare lì qualche espressione rovinosa circa il mio grado di esposizione e le possibilità di sopravvivenza.
- Accidenti, che bracciale! Che cosa significa SIMUVAC? Una cosa importante, si direbbe.
- Un'abbreviazione di "simulated evacuation". Un nuovo programma governativo per il quale stanno ancora battendosi per avere i fondi.
- Ma questa evacuazione non è simulata. È reale.
- Lo sappiamo. Ma abbiamo pensato che poteva servirci come modello.
- Una forma di addestramento? Vuol dire che avete visto l'opportunità di servirvi dell'evento reale per provare la simulazione?
- Siamo andati a studiarlo per le strade.
- E come va? - chiesi.
- La curva di inserzione non fila liscia come avremmo voluto. C'è un eccesso di probabilità. In più non abbiamo le nostre belle vittime lì dove le vorremmo se questa fosse una vera simulazione. In altre parole siamo costretti a prendere le vittime dove le troviamo. Non ci troviamo di fronte a una cosa preparata al computer. Di punto in bianco ci salta fuori dal vero, tridimensionale, dappertutto. Si deve tenere conto del fatto che tutto quello che vediamo stasera è reale. Dobbiamo dargli ancora una gran ripassata. Ma l'esercizio serve proprio a quello.
- E i computer? Sono dati reali, quelli che inserite nel sistema, o roba da addestramento?
- Guardi, - rispose.
Quindi passò un bel po' di tempo a battere sui tasti e poi a studiare le risposte in codice comparse sullo schermo, tempo considerevolmente più lungo, mi parve, di quello che aveva dedicato alle persone che mi precedevano nella fila. In effetti cominciai a notare che gli altri mi guardavano. Ero lì in piedi con le braccia conserte, cercando di dare l'immagine di un individuo impassibile, in coda in un negozio di ferramenta, in attesa che la commessa battesse sul registratore di cassa l'importo della sua corda ultraresistente. Sembrava l'unico modo per neutralizzare gli eventi, per controbattere lo scorrere dei puntini computerizzati che registravano la mia vita e la mia morte. Non guardare nessuno, non rivelare nulla, rimanere immobile. Il genio della mente primitiva consiste nel fatto che sa rappresentare l'impotenza umana in modi nobili e belli.
- Lei sta generando grossi numeri, - disse il giovane, scrutando lo schermo.
- Ma ci sono rimasto soltanto due minuti e mezzo. Quanti secondi fanno?
- Non è il fatto di quanti secondi ci è rimasto. È tutto il suo profilo di dati. Ho inserito il suo curriculum. E adesso mi tornano indietro dei numeri tra parentesi, con asterischi intermittenti. - Che cosa significa?
- Forse è meglio che lei non lo sappia.
Quindi fece il gesto di zittirmi, come se sullo schermo stesse comparendo qualcosa di particolarmente morboso. Mi chiedevo che cosa avesse inteso, quando aveva detto di aver inserito il mio curriculum. Dov'era conservato, esattamente? Presso un ente statale o federale? Presso una compagnia di assicurazioni, un istituto di credito, un ufficio medico? A quale curriculum si riferiva? Gli avevo detto alcune cose elementari. Altezza, peso, malattie infettive. Che cos'altro sapeva, quell'individuo? Era a conoscenza delle mie mogli, dei miei rapporti con Hitler, dei miei sogni e timori?
Aveva collo scarno e orecchie a sventola, perfettamente in sintonia con il suo cranio scheletrico, l'innocente aspetto anteguerra di un assassino di campagna.
- Morirò?
- Non arriveremo a tanto, - rispose.
- In che senso?
- Non in questi termini.
- In quali termini allora?
- Non è una questione di termini. È questione di anni. Fra quindici ne sapremo di più. Per intanto citroviamo senza ombra di dubbio in presenza di una situazione problematica.
- Che cosa sapremo, fra quindici anni?
- Se lei sarà ancora vivo, ne sapremo molto più di adesso. Gli effetti del Nyodene D. hanno una durata di trent'anni. Lei ne avrebbe superato la metà.
- Pensavo che fossero quaranta.
- Quaranta nel suolo. Trenta nel corpo umano.
- Quindi, se voglio sbarazzarmi di questa sostanza devo superare gli ottanta. Poi posso cominciare a stare un po' più tranquillo.
- Allo stadio attuale delle nostre conoscenze.
- Ma pare che ci sia un consenso generale circa il fatto che esse non sono tali da consentirci alcun tipo di sicurezza su niente.
- Mi consenta di rispondere nei seguenti termini. Se fossi un ratto, non vorrei trovarmi nel raggio di duecento miglia dall'evento aereo.
- E se fosse un essere umano?
Mi guardò con attenzione. Ero lì in piedi, con le braccia conserte, e fissavo lo sguardo sopra la sua testa, verso la porta d'ingresso della baracca. Guardare lui avrebbe significato riconoscere la mia vulnerabilità.
- Non mi preoccuperei di quello che non posso vedere o sentire, - rispose. - Continuerei a vivere la mia vita. Mi sposerei, mi sistemerei, avrei dei figli. Non c'è ragione per cui lei non possa farlo, allo stadio attuale delle nostre conoscenze.
- Ma lei prima ha detto che siamo in presenza di una situazione problematica.
- Non l'ho detto io. E stato il computer. Lo dice tutto il sistema. È quello che definiamo un massiccio riscontro di dati base. Gladney, J.A.K. Io inserisco nome, sostanza, tempo di esposizione e poi digito il suo curriculum computerizzato. I suoi dati genetici, quelli personali, quelli sanitari, quelli psicologici, eventuali schedature di polizia e ospedale. E mi tornano indietro degli asterischi intermittenti. Non vuol dire esattamente che stia per succedere qualcosa a lei, almeno non oggi o domani. Vuol solamente dire che lei è la somma totale dei suoi dati. Non si sfugge.
- E questo cosiddetto massiccio riscontro non è una simulazione, nonostante il bracciale che lei ha addosso. È reale.
- È reale, - confermò.
Rimasi assolutamente immobile. Se avessero pensato che fossi già morto, avrebbero potuto valutare l'opportunità di lasciarmi in pace. Credo di essermi sentito come se un medico avesse sollevato davanti alla luce una mia radiografia in cui comparisse un buco a forma di stella al centro degli organi vitali. Vi è penetrata la morte. L'hai dentro. Si dice che stai morendo eppure sei distaccato dal fatto di morire, puoi meditarci a tuo piacimento, letteralmente vederne l'orribile logica aliena nella radiografia o sullo schermo del computer. E quando la propria morte è resa graficamente, viene, per così dire, trasmessa in televisione, che si avverte un'inquietante separazione tra il proprio stato di salute e se stessi. È stata introdotta una rete di simboli, un'intera tecnologia, spaventosa, strappata agli dei. Ti fa sentire un estraneo nella tua stessa morte.
Volevo la mia toga accademica e gli occhiali scuri.
Quando tornai all'altra estremità della baracca, i tre bambini più piccoli dormivano, Heinrich prendeva appunti e Babette era seduta a un certa distanza, con il Vecchio Treadwell e alcuni ciechi. Stava leggendo loro qualcosa da un mucchietto a vivaci colori di tabloid di supermercato.
Avevo bisogno di una distrazione. Trovai una sedia pieghevole e la sistemai accanto alla parete, vicino a Babette. C'erano quattro ciechi, un'infermiera e tre vedenti disposti a semicerchio di fronte a lei. Altre persone sostavano di quando in quando per ascoltare un paio di argomenti, poi proseguivano. Babette usava la sua voce da narratrice, lo stesso tono sincero e cadenzato che impiegava quando leggeva favole a Wilder oppure brani erotici al proprio marito, nel letto di ottone levato alto sopra il ronzio frenetico del traffico. Lesse in prima pagina il sommario di un brano. - Buoni per la vita dopo la morte. Garantiti -. Quindi passò alla pagina indicata.
- Alcuni scienziati del famoso Istituto per gli Studi Avanzati presso l'Università di Princeton hanno sbalordito il mondo presentando inoppugnabili prove dell'esistenza di una vita dopo la morte. Un ricercatore del suddetto Istituto - ente di importanza mondiale - si è servito dell'ipnosi per indurre centinaia di persone a ricordare le precedenti vite da loro vissute in veste di costruttori di piramidi, di studenti in viaggio di scambio culturale e di extraterrestri.
Babette passò a un tono di voce colloquiale.
-«Solamente nell'ultimo anno», afferma Ling Ti Wan, ipnotizzatore della reincarnazione, «ho aiutato per mezzo dell'ipnosi centinaia di individui a regredire alla vita precedente. Uno dei miei soggetti più straordinari è stata una donna in grado di ricordare la propria vita di cacciatore-raccoglitore nell'era mesolitica, diecimila anni or sono. È stato veramente interessante sentire questa minuta pensionata in pantaloni di poliestere descrivere la propria vita di maschio grande e grosso, capo di una tribù che abitava in una torbiera e cacciava cinghiali selvatici con frecce e archi primitivi. La signora è stata in grado di identificare certi tratti specifici della suddetta era, di cui soltanto un archeologo esperto avrebbe potuto avere notizia. Ha persino pronunciato diverse frasi nella lingua del tempo, una lingua singolarmente simile al tedesco contemporaneo».
La voce di Babette riassunse il tono neutro della narrazione diretta.
- Il dottor Shiv Chatterjee, guru della salute e fisicista dell'alta energia, ha recentemente sbalordito il pubblico di una trasmissione televisiva in diretta riferendo il ben documentato caso di due donne, vicendevolmente sconosciute, le quali, venute da lui nel corso della stessa settimana per affrontare la regressione, hanno scoperto di essere state gemelle nella città scomparsa di Atlantide cinquantamila anni fa. Entrambe sostengono che la suddetta città, prima di sprofondare nel mare in maniera misteriosa e catastrofica, era un comune pulito e ben amministrato, dove si poteva tranquillamente andare per strada a qualsiasi ora del giorno e della notte. Oggi le suddette signore sono entrambe stiliste alimentari presso la NASA.
- Ancora più stupefacente il caso di Patti Weaver, cinque anni, la quale ha sostenuto in maniera convincente con il medesimo dottor Chatterjee di essere stata, nel corso della precedente vita, il killer segreto del K.G.B. responsabile dei mai risolti casi di omicidio di famose personalità come Howard Hugues, Marylin Monroe ed Elvis Presley. Noto nei circoli internazionali come «la Vipera», a causa del veleno mortale e non identificabile che iniettava nelle piante dei piedi delle proprie celebri vittime, il suddetto assassino è morto in un elicottero precipitato in fiamme su Mosca, soltanto poche ore prima che Patti Weaver nascesse a Popular Mechanics, Iowa. La bambina non soltanto ha gli stessi tratti distintivi corporei della Vipera, ma sembra anche avere un particolare orecchio per le parole e le espressioni russe.
- «Questo soggetto l'ho fatto regredire almeno una dozzina di volte», ha affermato il dottor Chatterjee. «Ho usato le tecniche professionali più sofisticate per farla contraddire. Ma la sua storia rimane saldamente credibile. Ed è la storia del bene che può nascere dal male». Ha detto la piccola Patti: «Al momento della mia morte come Vipera, ho visto un cerchio incandescente di luce. Pareva che mi chiamasse a sé, che mi facesse segno. E stata un'esperienza spirituale piena di calore. Mi ci sono diretta. Non mi sentivo affatto triste».
Babette fece le voci del dottor Chatterjee e di Patti Weaver. Il primo si esprimeva in un inglese caldo e dolce, dall'accento indiano, con frasi spezzettate. Patti invece la fece come la piccola protagonista di un film contemporaneo, unica sullo schermo a non sentirsi intimorita da misteriosi fenomeni di vibrazione.
- Nel corso di un ulteriore stupefacente sessione la piccola Patti ha rivelato che le tre supercelebrità erano state assassinate per lo stesso incredibile motivo. In quel momento ciascuna di esse era in possesso della Sacra Sindone di Torino, famosa per i propri santi poteri curativi. Elvis e Marylin, esponenti del mondo dello spettacolo, erano vittime di incubi provocati da droghe e alcol, per cui speravano segretamente di poter recuperare la calma fisica e spirituale nella loro vita asciugandosi con la Sacra Sindone dopo sessioni di purificazione dei pori in sauna. Il miliardario eclettico Howard Hugues, invece, soffriva di sindrome del blocco da battito degli occhi, singolare stato che impediva ai suoi occhi di chiudersi per ore dopo un semplice battito, per cui sperava evidentemente di potersi valere dello straordinario potere della Sindone, finché era intervenuta la Vipera con una rapida iniezione di veleno invisibile. Patti Weaver ha ulteriormente rivelato sotto ipnosi che il K.G.B. avrebbe lungamente cercato di entrare in possesso della Sindone di Torino per usarla sui membri del Politburo - il famigerato Comitato esecutivo del Partito Comunista - soggetti a rapido invecchiamento e tormentati dai dolori. Il possesso della suddetta Sindone si sostiene essere il vero motivo che starebbe dietro il tentato assassinio di Papa Giovanni Paolo Secondo, in Vaticano, tentativo fallito soltanto perché la Vipera era già morta in un orrendo disastro di volo con un elicottero, rinascendo nello Iowa in forma di ragazzina lentigginosa.
- Il buono senza rischi posto qui in calce vi garantisce l'accesso a dozzine di documentati casi di vita dopo la morte, vita perenne, esperienze in una vita precedente, vita postuma nello spazio, trasmigrazione di anime e resurrezione personalizzata attraverso tecniche computerizzate di flusso di coscienza.
Esaminai i volti dei componenti il semicerchio. Nessuno sembrava stupito del racconto. Il Vecchio Treadwell si accese una sigaretta, infastidito dal tremore delle proprie mani, costretto a spegnere la fiammella scuotendola prima che lo scottasse. Il dibattito non mostrò alcun interesse. La vicenda era andata a collocarsi in un recesso di fiducia passiva. Se ne stava lì, famigliare e confortante alla sua strana maniera, serie di affermazioni non meno reali della nostra quota giornaliera di osservabili fatti domestici. Anche Babette, nel tono della propria voce, non aveva lasciato trasparire alcuna traccia di scetticismo o condiscendenza. Dal canto mio non ero certamente in condizione di sentirmi superiore a questi anziani ascoltatori, ciechi o vedenti che fossero. Il procedere della piccola Patti verso l'incandescenza accogliente mi aveva colto in uno stato indebolito e ricettivo. Almeno questa parte della storia la volevo credere.
Quindi Babette lesse un annuncio pubblicitario. La Dieta Stanford. Lineare Acceleratrice 3 - Giorni Frantuma-Particelle.
Poi prese un altro tabloid. La storia di copertina riguardava i più importanti parapsicologi del paese e le loro previsioni per l'anno a venire. Lesse lentamente gli argomenti.
- Squadre di Ufo invaderanno Disney World e Capo Canaveral. Con uno sbalorditivo voltafaccia, la suddetta aggressione si rivelerà una dimostrazione della follia della guerra, portando a un trattato di moratoria dei test nucleari tra Stati Uniti e Russia.
- Il fantasma di Elvis Presley verrà visto vagare solitario attorno a Graceland, sua dimora musicale.
- Un consorzio giapponese comprerà l'Air Force One per trasformarlo in lussuoso condominio volante, con possibilità di rifornimento volante e capacità missilistica aria-terra.
- Piedone farà la sua drammatica comparsa in un campeggio dell'accidentata e panoramica costa pacifica nord occidentale. L'uomo-bestia, peloso ed eretto - è alto due metri e mezzo e potrebbe essere l'anello mancante dell'evoluzione - farà gentilmente cenno ai turisti di avvicinarglisi, rivelandosi un apostolo di pace.
- Alcuni Ufo solleveranno la città scomparsa di Atlantide dalla sua tomba d'acqua nei Caraibi servendosi di mezzi telecinetici e dell'aiuto di potenti cavi, dotati di proprietà ignote nei materiali terrestri. Ne risulterà una «città della pace», dove denaro e passaporti saranno totalmente sconosciuti.
- Lo spirito di Lyndon B. Johnson contatterà alcuni dirigenti della C.B.S. per combinare un'intervista televisiva in diretta, al fine di difendersi dalle accuse rivoltegli in diversi libri recenti.
- Mark David Chapman, assassino del Beatle, cambierà legalmente il proprio nome in John Lennon, iniziando una nuova carriera di paroliere rock nel braccio della morte.
- I membri di un culto del disastro aereo rapiranno un jumbo e lo faranno precipitare sulla Casa
Bianca in atto di cieca devozione per il proprio misterioso e riservatissimo capo, unicamente noto come Zio Bob. Il presidente e la First Lady sopravvivranno miracolosamente, soffrendo soltanto di qualche taglietto, come riferiranno alcuni amici intimi della coppia.
- Nel cielo di Las Vegas comparirà misteriosamente il defunto multimiliardario Howard Hugues.
- Medicinali miracolosi prodotti in massa in laboratori farmaceutici siti su alcuni Ufo in ambiente spaziale in assenza di peso porteranno alla realizzazione di cure contro l'ansia, l'obesità e gli sbalzi di umore.
- La defunta leggenda vivente John Wayne comunicherà per via telepatica con il presidente Reagan al fine di aiutarlo a impostare la politica estera degli Stati Uniti. Ammorbidito dalla morte, il massiccio attore invocherà una politica di speranza, pace e amore.
- Charles Manson, superkiller degli anni Sessanta, scapperà di prigione, terrorizzando per settimane la campagna californiana prima di negoziare una resa in diretta T.V. presso gli uffici dell'International Creative Management.
- La luna, unico satellite della terra, esploderà nel corso di una notte umida di luglio, provocando uncaos nelle maree e facendo piovere sudiciume e detriti su gran parte del nostro pianeta. Ma alcuni equipaggi Ufo addetti alla pulizia ci aiuteranno ad evitare un disastro di portata mondiale, aprendo un'era di pace e armonia.
Io osservavo il pubblico. Braccia conserte, teste leggermente piegate di lato. Le previsioni non parevano averli allarmati. Si accontentarono di scambiarsi qualche osservazione breve e slegata, come durante una pausa per la trasmissione di uno spot pubblicitario in televisione. Il futuro presentato dal tabloid, con il suo meccanismo di creare un lieto fine per gli eventi apocalittici, non era forse poi tanto remoto dalla nostra esperienza immediata. Guarda noi, pensai. Costretti ad abbandonare le nostre case, spediti in massa nella gelida notte, inseguiti da una nube tossica, ammassati in ricoveri improvvisati, ambiguamente condannati a morte. Eravamo diventati parte del materiale tipico dei disastri televisivi. Quella piccola cerchia di vecchi e ciechi riconosceva le previsioni dei parapsicologi come eventi tanto prossimi ad accadere da dover essere adattati in anticipo ai nostri bisogni e desideri. Traendola da un persistente senso di disastro su larga scala, continuavamo a inventare la speranza.
Quindi Babette lesse la pubblicità di un paio di occhiali da sole dietetici. I vecchi l'ascoltarono con interesse. Io tornai nella nostra zona. Volevo stare vicino ai bambini, guardarli dormire. È una cosa che mi fa sentire devoto, parte di un sistema spirituale. È il massimo di comunanza con Dio che riesco a raggiungere. Se esiste un equivalente secolare dello stare in una grande cattedrale con guglie, colonne di marmo e flussi di luce mistica che filtrano attraverso finestre gotiche a doppio ordine, è senz'altro guardare dei bambini che dormono sodo nelle loro camerette. In particolare le femmine.
La maggior parte delle luci erano ormai spente. Il rumore della baracca si era placato. La gente si stava assestando. Heinrich era ancora sveglio, seduto sul pavimento, completamente vestito, il dorso appoggiato alla parete, intento a leggere un manuale di rianimazione della Croce Rossa. Non era, in ogni caso, un ragazzo il cui sonno mi desse pace per la sua magnificenza. Di solito, infatti, dormiva in maniera inquieta e irregolare, digrignando i denti e cadendo talvolta dal letto, per essere trovato alla prima luce in forma di ammasso fetale, tremante sul pavimento di legno. - Sembra che abbiano preso in mano la situazione, - dissi.
-Chi?
- I responsabili.
- E chi sarebbero?
- Lasciamo perdere.
- È come se ci avessero ricacciato indietro nel tempo, - disse. - Siamo nell'Età della pietra: conosciamo tutte le cose che sono state prodotte da secoli di progresso, ma che cosa sappiamo fare per rendere più agevole la vita di questa Età? Sappiamo forse fare un frigorifero? Sappiamo anche solo spiegare come funziona? Che cos'è l'elettricità? Che cos'è la luce? Sono cose che sperimentiamo ogni giorno della nostra vita, ma a che cosa serve tutto ciò se ci troviamo ricacciati indietro nel tempo e non siamo nemmeno in grado di spiegare alla gente i principi di base, per non parlare di fare effettivamente qualcosa che possa migliorare la situazione. Indicami una sola cosa che saresti capace di fare. Saresti capace di costruire un semplice fiammifero di legno, che produca fiamma strofinandolo su una roccia? Noi siamo convinti di essere tanto grandi e moderni. Atterraggi sulla luna, cuori artificiali. Ma se fossimo coinvolti in un ribaltamento temporale e ci trovassimo a faccia a faccia con gli antichi greci? Sono stati loro a inventare la trigonometria. Facevano già autopsie e dissezioni. Tu che cosa potresti dire a uno di loro, senza che lui rispondesse: «Bella roba». Potresti parlargli dell'atomo? È una parola greca. I greci sapevano già che gli eventi fondamentali del mondo non possono essere visti dall'occhio umano. Sono onde, raggi, particelle.
- Le cose non vanno poi così male.
- Stiamo qui seduti in questa stanza enorme e piena di muffa, altroché. È come se ci avessero ricacciati indietro.
- Abbiamo il calore, abbiamo la luce.
- Cose da Età della pietra. Ce le avevano anche loro. E anche il fuoco. Strofinavano insieme due pietre focaie e producevano delle scintille. Tu saresti capace? Riconosceresti una pietra focaia, se la vedessi? Se un uomo dell'Età della pietra ti chiedesse che cos'è un nucleotide, sapresti dirglielo? Come facciamo a fare la carta carbone? Che cos'è il vetro? Se domani ti svegliassi nel medioevo e stesse infuriando un'epidemia, che cosa potresti fare per fermarla, con le nozioni che hai sul progresso di medicine e malattie? Siamo praticamente nel ventunesimo secolo e hai letto centinaia di libri e riviste, nonché visto centinaia di programmi T.V. di scienza e medicina. Sapresti dire a quella gente una sola cosa fondamentale che potesse salvare un milione e mezzo di vite?
- Fate bollire l'acqua, gli direi.
- Naturale. E perché non: «Lavatevi dietro le orecchie»? Vale quasi lo stesso.
- Comunque io continuo a credere che le cose vanno abbastanza bene. Non c'è nessun allarme.Disponiamo di alimenti, di apparecchi radio.
- Che cos'è una radio? Quale ne sarebbe il principio? Forza, spiega. Sei lì seduto in mezzo a questacerchia di persone. Usano utensili fatti con i sassi. Mangiano larve. Spiegagli la radio.
- Non c'è nessun mistero. Potenti apparecchi di trasmissione inviano segnali, i quali viaggiano nell'aria per essere colti da ricevitori.
- Viaggiano nell'aria. Che cosa, come uccelli? Perché non li chiami magici? Viaggiano per l'aria in onde magiche. Che cos'è un nucleotide? Non lo sai, vero? Eppure sono le fondamenta della vita. A che cosa serve il sapere, se aleggia nell'aria? Va da computer a computer. Cambia e cresce a ogni secondo di ogni giorno. Ma in realtà nessuno sa niente.
- Tu qualcosa sai. Per esempio sul Nyodene D. Ti ho visto tra quella gente.
- Prestazione demenziale e irripetibile, - replicò. Quindi tornò a dedicarsi alla lettura. Io decisi di prendere un po' d'aria. Fuori c'erano diversi gruppi di persone, in piedi attorno a fuochi accesi in bidoni da duecento litri. Un uomo vendeva bibite e panini da un furgone aperto su un lato. Parcheggiati lì accanto c'erano scuolabus, motocicli, furgoncini detti ambulette. Andai un po' in giro. C'erano persone che dormivano in auto, altre che piantavano tende. Raggi di luce scorrevano lentamente tra i boschi, in cerca di rumori, voci calme che mandavano richiami. Passai accanto a una macchina piena di prostitute di Iron City. La luce interna era accesa, i volti si ammassavano ai finestrini. Sembravano tante cassiere del supermercato, biondastre, doppio mento, rassegnate. Un uomo chino sulla portiera anteriore, dalla parte del volante, parlava attraverso una fessura aperta nel finestrino, alitando nuvole di vapore bianco. Una radio disse: - Il futuro incerto induce a minore pazienza, provocando sul mercato una tendenza al ribasso.
Mi resi conto che l'uomo intento a parlare con le prostitute era Murray Jay Siskind. Mi accostai e lo lasciai finire la frase, prima di rivolgergli la parola. Si tolse il guanto destro per stringermi la mano. Il finestrino salì fino a chiudersi.
- Pensavo che fossi a New York per la vacanza tra i due semestri.
- Sono tornato prima per vedere i film sugli incidenti d'auto. Alfonse ha disposto una settimana di proiezioni per aiutarmi a preparare il mio seminario. Ero sull'autobus dell'aeroporto, da Iron City, quando hanno cominciato a suonare le sirene. L'autista non ha potuto fare altro che seguire la corrente del traffico fino a qui.
- Dove passi la notte?
- Tutto l'autobus è stato destinato a uno degli edifici. Poi ho sentito parlare di passeggiatrici e sono uscito a indagare. Una di loro sotto il soprabito porta una vestaglia di leopardo. Me l'ha fatta vedere. Un'altra sostiene di avere l'inguine smontabile. Che cosa pensi che voglia dire? Comunque sono un po' preoccupato per tutta questa esplosione di malattie legate al proprio stile di vita. Ho sempre con me un preservativo rinforzato e con nervature. Misura unica. Ma ho la sensazione che non sia un granché come protezione contro l'intelligenza e lo spirito di adattamento dei virus moderni.
- Quelle donne non mi sembra che abbiano un granché da fare, - considerai.
- Non credo che questo sia il tipo di disastro che induce al trasporto sessuale. Alla fine potranno capitare qui di nascosto un paio di individui, ma non un'orda orgiastica, non questa sera, almeno. - Credo che ci voglia del tempo per superare certi stadi.
- È evidente, - convenne lui.
Gli dissi che avevo passato due minuti e mezzo esposto alla nube tossica. Quindi gli raccontai per sommi capi il colloquio con l'uomo della SIMUVAC.
- Quell'alito di Nyodene D. mi ha seminato la morte in corpo. Ormai, stando al computer, è ufficiale. Ho la morte dentro. È solo questione se riuscirò o meno a sopravvivere. Gli effetti hanno una loro durata. Trent'anni. Anche se non sarà direttamente il Nyodene D. ad ammazzarmi, probabilmente mi sopravvivrà dentro il mio corpo. Potrei morire in un incidente aereo e lui continuerebbe a prosperare nei miei resti inviati al riposo eterno.
- È la natura della morte moderna, - considerò Murray. - Ha una vita indipendente da noi. Stacrescendo in prestigio e dimensione. Dispone di uno slancio mai conosciuto prima. Noi la studiamo obiettivamente. Possiamo predirne l'aspetto, seguirne il corso nel corpo. Possiamo ritrarla in sezione, registrarne su nastro tremori e onde. Non le siamo mai stati tanto vicini, mai abbiamo avuto tanta famigliarità con le sue abitudini e i suoi atteggiamenti. La conosciamo nell'intimo. Ma lei continua a crescere, ad aumentare in dimensione e portata, ad acquisire nuovi sbocchi, nuovi passaggi e mezzi. Più ne apprendiamo, più cresce. Che sia una legge della fisica? Ogni progresso in conoscenza e tecnica viene pareggiato da un nuovo tipo di morte, da una nuova specie. La morte si adatta, come un agente virale. Forse è una legge di natura. O forse una mia superstizione personale. Sento che i morti ci sono più vicini che mai. Avverto che abitiamo la loro stessa atmosfera. Ricorda Lao Tse: «Non vi è differenza tra i vivi e i morti. Sono un unico canale di vitalità». L'ha detto seicento anni prima di Cristo. Ed è ancora una volta vero, forse più che mai. Mi piazzò le mani sulle spalle e mi guardò malinconicamente in faccia. Quindi mi disse nei termini più semplici quanto fosse triste per ciò che era successo. Mi parlò della possibilità di un errore del computer. Ne fanno anche loro, disse. Possono essere provocate dalla carica elettrostatica di un tappeto. Uno sfilaccio, un pelo nei circuiti. Non ci credeva, e neanche io. Tuttavia ne parlava in tono convincente, gli occhi pieni di un'emozione spontanea, un sentimento vasto e profondo. Mi sentii stranamente ricompensato. La sua comprensione era adeguata all'occasione: una pietà e un dolore di livello imponente. La brutta notizia ne valeva quasi la pena.
- È da quando avevo vent'anni che mi porto addosso questa paura, un vero e proprio terrore. Adesso è stato reso reale. Mi sento irretito, coinvolto nell'intimo. Non c'è da meravigliarsi che lo definiscano evento tossico aereo. È senz'altro un evento. Segna la fine delle cose indistinte. E non è che l'inizio. Aspetta e vedrai.
Il presentatore di uno spettacolo radiofonico con ospiti disse: - Sei in onda. - I falò bruciavano nei bidoni del petrolio. Il venditore di panini chiuse il suo furgone.
- Episodi di "déja vu", nel vostro gruppo?
- Moglie e figlia, - risposi.
- C'è una teoria, sul "déja vu".
- Non voglio saperla.
- Perché pensiamo che queste cose siano già successe? Semplice. Perché sono effettivamente successe, nella nostra mente, come visioni del futuro. Essendo precognizioni, è materia che non possiamo adattare al sistema della nostra coscienza così com'esso è attualmente strutturato. Si tratta di roba fondamentalmente soprannaturale. Vediamo nel futuro, ma è un'esperienza che non abbiamo ancora imparato ad analizzare. Quindi l'evento se ne sta rimpiattato finché la precognizione non si avvera, finché non ci troviamo a faccia a faccia con esso. In quel momento siamo liberi di ricordarlo, di avvertirlo come famigliare.
- Perché c'è così tanta gente che soffre episodi del genere proprio adesso?
- Perché la morte è nell'aria, - rispose in tono soave. - Significa liberare materiale rimosso. Significa arrivare più vicini a qualcosa di noi stessi che non abbiamo appreso. La maggior parte di noi ha probabilmente visto la propria morte, ma non sapeva come far affiorare questa visione. Forse, quando moriremo, la prima cosa che diremo sarà: «Questa sensazione la conosco. Qui ci sono già stato».
Quindi tornò a mettermi le mani sulle spalle e mi esaminò con rinnovata e toccante tristezza. Sentimmo le prostitute mandare un richiamo a qualcuno.
- Mi piacerebbe perdere interesse per me stesso, - dissi a Murray. - C'è qualche possibilità che succeda?
- Nessuna. Uomini migliori ci hanno provato.
- Penso che tu abbia ragione.
- È evidente.
- Vorrei che ci fosse qualcosa che potessi fare. Vorrei poter superare razionalmente il problema.
- Lavora più intensamente al tuo Hitler, - rispose. Lo guardai. Quanto sapeva?
Nel finestrino si aprì una fessura. Una delle donne disse a Murray: - D'accordo. Lo faccio per venticinque.
- Hai controllato con il tuo agente? - chiese lui. Lei fece scendere il finestrino per scrutarlo. Aveval'aspetto opaco di una donna coi bigodini al telegiornale della sera, la cui casa fosse rimasta sepolta sotto il fango.
- Lo sai chi intendo, - continuò Murray. - Colui che accudisce ai tuoi bisogni emotivi in cambio delcento per cento dei tuoi redditi. Colui di cui hai bisogno per essere sculacciata quando fai la cattiva.
- Bobby? È a Iron City, alla larga dalla nube. Non gli piace esporsi a meno che non sia assolutamente necessario -. Le donne scoppiarono a ridere, sei teste che andavano su e giù. Un ridere da comunella, un po' forzato, teso a individuarle come persone legate tra loro in modi non facilmente apprezzabili dal resto di noi.
Un secondo finestrino si aprì di qualche centimetro, vi fece la sua comparsa una bocca vivacemente colorata. - Bel magnaccia è, Bobby: uno che gli piace usare la testa.
Secondo scoppio di risa. Non capimmo bene se diretto a Bobby o a noi. Il finestrino si chiuse.
- Non sono affari miei, - dissi, - ma che cosa è disposta a fare con te per venticinque dollari, quella lì?
- La manovra Heimlich. Sai, quella che serve per sbloccarti quando hai un pezzo di cibo incastrato in gola.
Esaminai la parte del suo viso che stava tra la coppola e la barba. Sembrava immerso nei pensieri, con lo sguardo fisso sull'auto. I finestrini erano appannati, le teste delle donne avvolte dal fumo di sigaretta.
- Ovviamente bisogna che troviamo uno spazio verticale, - aggiunse in tono assente.
- Non penserai veramente che si faccia bloccare un boccone nella trachea?
Mi guardò, con aria vagamente stupita. - Che cosa? Ah, no, no, non è necessario. Purché faccia dei rumori come di conati, di soffocamento. Purché sospiri profondamente quando butto avanti il bacino. Purché si abbandoni inerme all'indietro nel mio abbraccio salvatore.
Quindi si tolse il guanto per stringermi la mano. Poi si avvicinò all'auto per discutere la cosa nei dettagli con la donna in questione. Lo guardai bussare alla portiera posteriore, che dopo un istante si aprì, lasciandolo prendere posto tutto schiacciato sul sedile di dietro. Io raggiunsi uno dei bidoni del petrolio. Attorno al fuoco c'erano tre uomini e una donna, impegnati a scambiarsi le voci in circolazione.
Tre dei cervi del Kung Fu Palace sarebbero morti. Sarebbe morto anche il governatore, mentre primo e secondo pilota sarebbero rimasti gravemente feriti nel corso dell'atterraggio di fortuna in un centro commerciale. Sarebbero morti due degli uomini dello smistamento, e nelle loro tute di Mylex sarebbero apparse ben visibili delle minuscole bruciature da acido. Mandrie di pastori tedeschi, i famosi cani capaci di annusare il Nyodene D., fatti a brandelli i paracadute, si diceva che stessero aggirandosi tra le comunità colpite. Nella zona ci sarebbe stata una fioritura di avvistamenti Ufo. Si sarebbero verificati frequenti casi di saccheggio da parte di individui avvolti in fogli di plastica. Due di essi sarebbero stati uccisi. Sei uomini della Guardia Nazionale sarebbero morti, uccisi in uno scontro a fuoco avvenuto dopo un tumulto razziale. Si parlava di aborti, di bambini nati prematuri. Vi sarebbero stati avvistamenti di ulteriori grasse nuvole.
Coloro che riferivano tali notizie non controllate lo facevano con un certo timore reverenziale, saltellando sulle punte dei piedi nel freddo, le braccia incrociate sul petto. Temevano che potessero essere vere, ma al tempo stesso erano impressionati dal carattere drammatico dei fatti. L'evento tossico aveva diffuso uno spirito immaginativo. Alcuni mettevano in giro le notizie, altri le ascoltavano incantati. C'era un rispetto crescente nei confronti delle notizie truculente, dei racconti più raggelanti. Non è che fossimo più portati di prima a crederci o meno. Ma adesso si era più disposti ad apprezzarli. Cominciammo a stupirci della nostra stessa capacità di costruire il timore riverenziale.
Pastori tedeschi. Fu la notizia rassicurante che mi celai in seno. Il corpo massiccio, il mantello fitto e brunastro, la testa fiera, la lunga lingua penzolante.
Me li immaginai vagare furtivi per le strade vuote, l'andatura pesante, all'erta. Capaci di sentire suoni a cui noi eravamo insensibili, di cogliere cambiamenti nel flusso delle notizie. Li vidi nella nostra casa, che ficcavano il muso negli armadi, le lunghe orecchie tese, emananti un sentore di calore, pelo e forza compressa.
Nella baracca erano quasi tutti addormentati. Procedetti lungo una parete buia. I corpi ammassati giacevano in preda a un sonno inquieto, sembrando emettere un unico sospiro nasale. Alcune figure si agitavano, un bambino asiatico dai grandi occhi mi tenne lo sguardo addosso mentre mi facevo strada tra dozzine di sacchi a pelo disposti a grappolo. Alcune luci colorate scorsero all'altezza del mio orecchio destro. Sentii lo scroscio di uno sciacquone.
Babette era raggomitolata su un materassino gonfiabile, coperta con il proprio soprabito. Mio figlio dormiva seduto su una sedia, come un pendolare che ne avesse bevuti un paio di troppo, la testa china sul petto. Portai una sedia pieghevole accanto alla branda dov'erano i bambini più piccoli. Quindi mi sedetti lì, piegato in avanti, a guardarli dormire.
Un disordine casuale di teste e membra ciondolanti. In quei visi morbidi e caldi c'era un tipo di fiducia tanto assoluta e pura che non volevo pensare potesse essere malriposta. Doveva esserci qualcosa, da qualche parte, di abbastanza grosso, valoroso ed eroico, da giustificare quell'affidarsi limpido, quella fiducia implicita. Mi sentii cogliere da un senso di disperata pietà. Di natura cosmica, pieno di rimpianti e aspirazioni. Parlava di vasti spazi, di forze spaventevoli ma sottili. Quei bambini addormentati erano simili a figure di un annuncio propagandistico dei Rosacroce, facevano emanare dalla pagina un fascio di luce. Steffie si voltò leggermente, poi mormorò qualcosa nel sonno. Mi parve importante sapere che cosa fosse. Nel mio stato attuale, con addosso il marchio mortale della nube di Nyodene D., ero pronto a cercare ovunque segni e indizi, cenni di un singolare stato di benessere. Accostai di più la mia sedia. Il suo viso, che il sonno riempiva di borse, avrebbe potuto essere una struttura destinata unicamente a proteggere gli occhi, due cose grandi, larghe e apprensive, tendenti a fasi diverse di colore e a un'attenzione scattante, a percepire lo stato di pena negli altri. Rimasi lì seduto a guardarla. Qualche istante dopo disse ancora qualcosa. Questa volta sillabe distinte, non un mormorio di sogno, ma una lingua non esattamente di questo mondo. Mi sforzai di capire. Ero convinto che stesse dicendo qualcosa, combinando delle unità di significato concreto. Guardai il suo volto, attesi. Passarono dieci minuti. Quindi pronunciò due parole chiaramente udibili, al tempo stesso famigliari e sfuggenti, parole che sembravano avere un significato rituale, parte di un incantesimo verbale o di un inno d'estasi.
Toyota Celica.
Passò un momento prima che mi rendessi conto che si trattava del nome di un'automobile. La verità non fece altro che stupirmi ancora di più. La pronuncia di quelle parole era stata bella e misteriosa, indorata da un miracolo incombente. Era come il nome di un antica potenza celeste, incisa in segni cuneiformi su una tavoletta. Mi fece sentire che lassù c'era qualcosa. Ma com'era possibile? Una semplice marca, una comune auto? Com'era possibile che quelle parole quasi prive di senso, mormorate nel sonno inquieto di una bambina, mi avessero fatto avvertire un significato, una presenza? Stava solamente ripetendo delle voci televisive. Toyota Corolla, Toyota Celica, Toyota Cressida. Nomi sovrannazionali, generati dal computer, più o meno universalmente pronunciabili. Parte del rumore cerebrale di ogni bambino, di regioni subliminali troppo remote per essere indagate. Qualunque ne fosse la fonte, la loro pronuncia mi aveva colpito con l'impatto di un istante di splendida trascendenza.
Momenti che soltanto i miei figli riescono a concedermi.
Rimasi lì seduto ancora un po', guardando Denise, guardando Wilder, sentendomi pieno di altruismo e spiritualmente vasto. Sul pavimento c'era un materassino gonfiabile libero, ma volli dividere con Babette il suo, per cui mi stesi accanto al suo corpo, un ammasso sognante. Le sue mani, i suoi piedi e il suo volto erano riparati sotto il soprabito; rimaneva soltanto uno sboffo di capelli. Caddi all'improvviso in un oblio marino, coscienza abissale e granchiesca, silente e priva di sogni.
Parevano passati soltanto pochi minuti quando mi trovai circondato da rumore e confusione. Aperti gli occhi, mi vidi davanti Denise che mi stava tempestando di pugni braccia e spalle. Quando si accorse che ero sveglio, passò alla madre. Tutto attorno a noi la gente stava vestendosi e facendo fagotto. Il rumore più forte veniva dalle sirene delle ambulette all'esterno. Una voce stava fornendoci istruzioni attraverso un megafono. In distanza sentii il suono di una campana e poi una serie di clacson, prima avvisaglia di quello che sarebbe diventato un belato universale, un panico greggesco, un lamento di proporzioni tremende, a mano a mano che veicoli di ogni dimensione e tipo cercavano di raggiungere la strada panoramica nel minor tempo possibile.
Riuscii a tirarmi a sedere. Entrambe le ragazzine stavano cercando di svegliare Babette. Lo stanzone si stava svuotando. Vidi Heinrich che mi fissava dall'alto, il volto atteggiato a un ghigno enigmatico. La voce amplificata disse: - Giro di vento, giro di vento. La nube ha cambiato direzione. Tossico, tossico diretto qui.
Babette si rigirò sul materassino, sospirando beata. - Ancora cinque minuti, - disse. Le ragazzine le tempestarono di colpi la testa e le braccia.
Messomi in piedi, mi guardai attorno in cerca di una toilette. Wilder era vestito e nell'attesa mangiava un biscotto. La voce tornò a farsi sentire, come la cantilena meccanica di un altoparlante di grande magazzino, tra i banchi profumati e lo squillare dei campanelli: - Tossico, tossico. In vettura, in vettura.
Denise, che aveva afferrato la madre per un polso, sbatté tutto il braccio sul materassino. - Perché deve sempre dire tutto due volte? Lo capiamo anche la prima. Vuole solo sentirsi parlare.
Riuscirono a far mettere Babette a quattro zampe. Io corsi alla toilette. Avevo con me il dentifricio, ma non riuscii a trovare lo spazzolino. Stesa un po' di pasta sull'indice, me lo feci scorrere sui denti. Quando tornai, erano vestiti e pronti, diretti all'uscita. Una donna con un bracciale, alla porta, ci consegnò delle maschere, maschere chirurgiche bianche, di garza, che coprivano naso e bocca. Ne prendemmo sei e uscimmo.
Era ancora buio. Cadeva una forte pioggia. Davanti a noi si stendeva un panorama di disordine. Auto bloccate nel fango, auto in panne, auto lentamente in fila sull'unica corsia della via di scampo, auto che prendevano scorciatoie per i boschi, auto bloccate tra alberi e massi, altre auto. Sirene che strepitavano e si attenuavano, clacson che lanciavano berci di disperazione e protesta. C'erano uomini che correvano, tende che svolazzavano tra gli alberi, spazzate via dal vento, intere famiglie che abbandonavano i propri veicoli per dirigersi a piedi verso la strada panoramica. Dal profondo dei boschi sentivamo motociclette imballate, voci che levavano grida incoerenti. Sembrava la caduta di una capitale coloniale nelle mani di devoti ribelli. Un grande ribollire di dramma, con tracce di umiliazione e colpa.
Ci mettemmo la maschera e corremmo sotto il diluvio verso l'auto. Neanche dieci metri più avanti un gruppo di uomini procedeva con tutta calma verso una Land Rover. Sembravano istruttori di guerra nella giungla, uomini dalla sagoma snella e dalla lunga testa squadrata. Si avviarono direttamente verso il folto del sottobosco, non soltanto lontano dalla strada in terra battuta, ma anche da tutte le altre auto che cercavano una scorciatoia. Sul paraurti posteriore avevano un adesivo con la scritta CONTROLLO DELLE ARMI UGUALE CONTROLLO DELLA MENTE. In situazioni del genere è sempre il caso di rimanere alle calcagna di militanti delle frange di destra. Sono addestrati alla sopravvivenza. Quindi li seguii con una certa difficoltà, sulla nostra giardinetta piccolotta, che sobbalzava malamente nell'intrico della boscaglia, montando per erte, sopra pietre nascoste. Nel giro di cinque minuti la Land Rover fu fuori vista.
La pioggia si trasformò in nevischio, il nevischio in neve.
Vidi una fila lontana di fari, sulla destra, per cui percorsi alla sua volta una cinquantina di metri in un canalone, con l'auto che sbandava come un bob. Ma non sembravamo avvicinarci. Babette accese la radio e venimmo informati che gli evacuati dal campeggio dei boy scout dovevano dirigersi verso Iron City, dove si stava approntando il necessario per fornire loro cibo e ricovero. Sentimmo i clacson suonare e pensammo che fosse una reazione all'annuncio radiofonico, ma essi continuarono in cadenza rapida e agitata, diffondendo nella notte tempestosa un senso di timore e paura animale.
Quindi sentimmo i rotori. E attraverso i rami spogli la vedemmo, l'immensa nube tossica, ora illuminata da diciotto elicotteri, immensa quasi al di là dei limiti dell'accettabile, al di là di leggenda e mormorio, massa intorbidante, tumefatta, in forma di lumaca. Sembrava impegnata a generare proprie tempeste interiori. Crepitii e scoppiettii, lampi di luce, lunghe scie incurvate di fiamma chimica. I clacson strepitavano e gemevano. Gli elicotteri vibravano come giganteschi elettrodomestici. Rimanemmo seduti in auto, nel bosco innevato, senza dire nulla. La grande nube, all'esterno del proprio turbolento nucleo, esibiva bordi inargentati dai fari. Si muoveva orribile e lumacosa nella notte, con gli elicotteri che sembravano spetezzare senza alcuna efficacia attorno ai suoi margini. Nella sua dimensione enorme, nella minacciosità oscura e corposa, con la sua scorta aerea, la nube sembrava una pubblicità su scala nazionale della morte, una campagna per molti milioni di dollari, sostenuta da spot radiofonici, grossi annunci attraverso stampa e affissioni, totale copertura televisiva. Vi fu uno scarico ad alta tensione di luce vivida. Il suono dei clacson aumentò di volume.
Con un soprassalto ricordai che ero tecnicamente morto. Il colloquio con il tecnico della SIMUVAC mi tornò alla mente in maniera tremendamente dettagliata. Mi sentii male a diversi livelli.
Non c'era altro da fare che cercare di portare in salvo la mia famiglia. Continuai a procedere faticosamente verso i fari, verso il frastuono dei clacson. Wilder era addormentato, aleggiava in spazi uniformi. Premetti l'acceleratore, strapazzai il volante, trascinai praticamente a braccia l'auto oltre una macchia di pini bianchi.
Attraverso la maschera Heinrich chiese: - Vi siete mai veramente guardati l'occhio?
- In che senso? - ribatté Denise, mostrando un interesse immediato, come se stessimo pigramentegodendoci una giornata d'estate sulla veranda.
- L'occhio. Sai quali sono le diverse parti?
- Vuoi dire l'iride, la pupilla?
- Quelle sono le parti conosciute da tutti. Ma il corpo vitreo? E la lente? È la lente che frega. Quanta gente non sa nemmeno di averla? Pensano che «lente» voglia dire «macchina fotografica».
- E l'orecchio, allora? - chiese Denise con voce smorzata.
- Se l'occhio è un mistero, non parliamo dell'orecchio. Prova a dire «coclea» a qualcuno: ti guarderà con l'aria di dire «Ma questo qui chi è?» C'è un intero mondo all'interno del nostro corpo.
- Nessuno se ne interessa nemmeno, - convenne la ragazzina.
- Come fa la gente a vivere tutta la vita senza sapere come si chiamano le varie parti del proprio corpo?
- E le ghiandole, allora? - chiese lei.
- Quelle animali si può mangiarle. Gli arabi le mangiano.
- Le mangiano anche i francesi, - intervenne Babette, parlando attraverso la garza. - E gli arabi mangiano gli occhi, visto che di occhi si sta parlando.
- Che parte? - chiese Denise.
- Tutto. L'occhio della pecora.
- Le ciglia però non le mangiano, - ribatté Heinrich.
- Perché, le pecore ce le hanno? - chiese Steffie.
- Chiedilo a tuo padre, - rispose Babette.
L'auto si trovò a guado in un torrente che non sapevo ci fosse finché non mi ci ero trovato dentro. Mi sforzai di traghettare tutti noi sull'altra riva. La neve cadeva fitta attraverso i sovrastanti raggi di luce. Il dialogo smorzato intanto proseguiva. Riflettei che il pasticcio nel quale ci trovavamo, ad alcuni di noi sembrava un fatto degno unicamente di un'occhiata. Volevo che prestassero attenzione all'evento tossico. Volevo che apprezzassero gli sforzi che stavo facendo per portarci tutti alla strada panoramica. Pensai di raccontare loro del riscontro del computer, della morte a tempo che portavo con me nei cromosomi e nel sangue. La mia anima grondava autocompassione. Cercai di rilassarmi e di godermela.
- Do cinque dollari a chiunque in questa macchina, - disse Heinrich attraverso la maschera protettiva, - sappia dirmi se è morta più gente costruendo le piramidi in Egitto o la Grande Muraglia cinese, e mi sappia dire quanta ne è morta in entrambi i casi, con un'approssimazione di cinquanta individui.
Seguii tre motoslitte per uno spiazzo aperto. Diffondevano un'atmosfera di baldanzosa allegria. L'evento tossico era ancora in vista, dalle sue interiora esplodevano in brevi archi dei traccianti chimici. Superammo famiglie a piedi, vedemmo una fila di coppie di luci rosse baluginare nel buio. Quando emergemmo dal bosco, gli occupanti delle altre auto ci rivolsero uno sguardo assonnato. C'erano voluti novanta minuti per raggiungere la strada panoramica e altri trenta ce ne vollero per arrivare all'incrocio per Iron City, dove ci incontrammo con il gruppo del Kung Fu Palace. Un gran suonare di clacson, un gran salutare di bambini con le mani. Come le carovane che convergevano sul sentiero di Santa Fé. La nube era sempre appiccicata allo specchietto retrovisore.
Krylon, Rust-Olium, Red Devil.
Raggiungemmo Iron City all'alba. Agli sbocchi delle strade erano stati sistemati dei posti di controllo. Personale della polizia e della Croce Rossa distribuiva in fotocopia istruzioni circa i centri di raccolta. Mezz'ora più tardi ci trovammo, con altre quaranta famiglie, in una palestra abbandonata di karaté, all'ultimo piano di un edificio a quattro piani, sulla strada principale. Non c'erano né letti né sedie. Steffie si rifiutò di togliersi la maschera.
Entro le nove del mattino venimmo forniti di materassini gonfiabili, nonché di un po' di cibo e caffè. Attraverso le finestre impolverate vedemmo un gruppo di scolaretti in turbante, membri della locale comunità sikh, in piedi per strada con un cartello scritto a mano, che diceva: IRON CITY DA IL BENVENUTO AGLI EVACUATI DELLA ZONA. Non ci era consentito uscire dall'edificio.
Sulla parete della palestra c'erano delle illustrazioni formato poster delle sei parti con cui la mano può colpire. A mezzogiorno per la città dilagò una voce. Si diceva che dagli elicotteri dell'esercito si stessero calando dei tecnici imbracati, con il compito di impiantare certi microrganismi nel nucleo della nube tossica. Organismi che sarebbero stati delle ricombinazioni genetiche con una fame congenita per gli agenti tossici specifici del Nyodene D. Avrebbero letteralmente consumato la grassa nube, mandandola in frantumi, decomponendola.
La stupefacente innovazione, tanto simile per natura a qualcosa che avremmo potuto trovare nel "National Enquirer" o nello "Star", ci fece sentire un po' stufi, inconsistentemente sazi, come dopo una gran mangiata di junk-food. Vagai per il locale, come già avevo fatto all'accampamento dei boy scout, spostandomi da un centro di conversazione all'altro. Nessuno sembrava sapere come un gruppo di micro organismi potesse consumare abbastanza materiale tossico da liberare il cielo da una nube tanto densa e gigantesca. Né alcuno sapeva che cosa ne sarebbe stato delle scorie tossiche una volta mangiate, oppure degli stessi micro organismi una volta che avessero finito di mangiare.
Sparsi ovunque per il locale c'erano bambini impegnati a imitare le posizioni del karaté. Quando tornai nella nostra zona, trovai Babette seduta da sola, con sciarpa e berretto a maglia.
- Quest'ultima voce non mi piace, - disse.
- Troppo tirata per i capelli? Non credi che ci sia modo che un mucchio di microrganismi possa penetrare a colpi di denti nell'evento tossico?
- Credo che ci siano tutte le possibilità di questo mondo. Non dubito neanche per un istante che abbiano lì nelle scatole questi microrganismi imballati nella plastica a bolle, come i ricambi delle penne a sfera. È proprio questo che mi preoccupa.
- L'esistenza in sé di organismi fatti su misura.
- L'idea in sé, l'esistenza in sé, il mirabile ingegno. Da una parte non c'è dubbio che l'ammiro. Soltanto pensare che c'è gente che sa realizzare marchingegni simili. Un microbo che mangia le nuvole, o comunque sia. Non c'è fine alle sorprese. Le possibilità di stupirsi rimaste in questo mondo sono ormai microscopiche. Ma con questo posso conviverci. A spaventarmi è invece il problema se ci avranno pensato a fondo.
- Senti un vago presentimento? - chiesi.
- Sento che stanno agendo sulla parte superstiziosa della mia natura. Ogni passo in avanti è peggiore del precedente perché mi fa ancora più paura.
- Paura di che cosa?
- Del cielo, della terra, non so.
- Più grande è il progresso scientifico, più primitiva la paura.
- Come mai? - chiese lei.
Alle tre del pomeriggio Steffie aveva ancora addosso la maschera protettiva. Camminava rasente le pareti, paio di occhi verde chiaro, attenta, riservata. Guardava gli altri come se questi potessero non accorgersene, come se la maschera le coprisse gli occhi invece di lasciarli esposti. Gli altri pensavano che stesse facendo un gioco. Le strizzavano l'occhio, la salutavano. Ero sicuro che ci sarebbe voluto almeno un altro giorno prima che si sentisse abbastanza al sicuro da togliersi l'apparecchio protettivo. Il suo atteggiamento nei confronti degli allarmi era solenne, interpretava il pericolo come uno stato troppo privo di definizione e precisione per poter essere confinato a un certo tempo e spazio. Sapevo che avremmo semplicemente dovuto aspettare che dimenticasse la voce amplificata, le sirene, la corsa notturna per i boschi. Nel frattempo la maschera, dando risalto agli occhi, esaltava la sua sensibilità nei confronti di episodi di tensione e allarme. Sembrava portarla più vicino alle reali preoccupazioni del mondo, la levigava nel proprio vento.
Alle sette di sera un uomo che portava un minuscolo televisore prese a spostarsi lentamente per il locale, facendo un discorso mentre si muoveva. Era di mezza età o anche più anziano, un uomo eretto, dagli occhi chiari, con in testa un berretto bordato di pelliccia, i paraorecchi abbassati. Teneva il televisore ben sollevato e lontano dal corpo, e nel corso della propria allocuzione girò parecchie volte su se stesso, in maniera da mostrare a noi tutti lo schermo.
- Alla televisione non dicono niente, - dichiarò -. Non una parola, non un'immagine. Sul canale di Glassboro allo stato attuale valiamo cinquantadue parole. Niente riprese, niente cronaca dal vivo. Sono cose che capitano talmente spesso che a nessuno interessa più niente? Lo sanno che cosa abbiamo passato? Abbiamo avuto una paura da restare secchi. E l'abbiamo ancora. Abbiamo lasciato le nostre case, abbiamo attraversato in auto tormente di neve, abbiamo visto la nube. Uno spettro mortale, lì sopra di noi. È possibile che nessuno dedichi una copertura informativa decente a un fatto del genere? Mezzo minuto, venti secondi? Vogliono farci capire che è stata una cosa insignificante, trascurabile? Sono così insensibili? Sono così stufi di inquinamenti, contaminazioni e scorie? Credono che sia soltanto televisione? «Ce n'è già troppa, perché farne vedere ancora?» Non lo sanno che è un fatto vero? Le strade non dovrebbero essere piene di cameramen, di tecnici del suono, di giornalisti? Non dovremmo essere qui a gridargli dalle finestre: «Lasciateci in pace, ne abbiamo passate abbastanza, fuori dai piedi con i vostri stupidi strumenti di intrusione». Hanno bisogno di duecento morti, di rare scene di calamità da riprendere, per arrivare in massa in un dato posto con i loro elicotteri e le macchinone delle reti televisive? Che cosa deve succedere esattamente prima che ci sbattano in faccia il microfono, dandoci la caccia fin sulla soglia di casa, accampandosi nel nostro giardino, creando il solito circo televisivo? Non ci siamo guadagnati il diritto di sdegnare le loro domande imbecilli? Guardateci qua. Siamo in quarantena. Siamo come i lebbrosi del medioevo. Non ci fanno uscire. Ci lasciano il cibo ai piedi delle scale e scappano in punta di piedi verso la sicurezza. E il periodo più terrificante della nostra vita. Tutto ciò che amiamo e per cui abbiamo lavorato è soggetto a una seria minaccia. Ma se ci guardiamo attorno non vediamo alcuna reazione da parte degli organi ufficiali dell'informazione televisiva. L'evento tossico aereo è una cosa orrenda. La nostra paura è enorme. Anche se non ci sono state molte perdite in termini di vite umane, non meritiamo qualche attenzione per la nostra sofferenza, per la nostra preoccupazione umana, per il nostro terrore? La paura non fa notizia?
Applausi. Una sostenuta salva di grida e battimani. L'oratore si girò ancora una volta lentamente su se stesso, esibendo il piccolo televisore agli astanti. Quando ebbe completato il giro, si trovò a faccia a faccia con me, a non più di trenta centimetri di distanza. Nel suo volto segnato dal vento avvenne un cambiamento, un lieve stordimento, lo shock di un fatto secondario sfuggito. - È una cosa che ho già visto, - mi disse finalmente.
- Che cosa?
- Lei era lì in piedi, io qui. Come un salto nella quarta dimensione. I suoi lineamenti nitidissimi e precisi. Capelli chiari, occhi slavati, naso roseo, bocca e mento senza segni particolari, carnagione di tipo sudato, guance medie, spalle cadenti, mani e piedi grossi. È già successo. Vapore che fischia nelle tubazioni. Peluzzi che sporgono dai pori. L'identica espressione in faccia.
- Quale espressione? - chiesi.
- Tormentata, cinerea, sperduta.
Tutto ciò nove giorni prima che ci dicessero che potevamo tornare a casa.
PARTE TERZA - DYLARAMA