venerdì 13 marzo 2020




IL TEMPORALE
Estratto Da "Una bellezza russa e altri racconti"
Vladimir Nabokov

All'angolo di una strada di Berlino Ovest, altrimenti ordinaria, sotto la volta di un tiglio in piena fioritura, fui avviluppato da una fragranza intensa. Banchi di nebbia salivano nel cielo notturno e, quando l'ultimo spiraglio ricolmo di stelle fu inghiottito, il vento, un fantasma cieco, coprendosi il volto con le maniche, volò in basso lungo la strada deserta. In un'oscurità senza riverberi, sopra la serranda metallica di un negozio di parrucchiere, l'insegna sospesa – una bacinella dorata – si mise a dondolare come un pendolo.
Arrivai a casa e trovai il vento che mi aspettava nella stanza: fece sbattere i battenti della finestra – e inscenò una subitanea ritirata quando chiusi la porta dietro di me. Sotto la mia finestra c'era un vasto cortile dove di giorno, tra i cespugli di lillà, si intravedevano le camicie crocifisse su corde e illuminate dal sole. Da quel cortile si alzavano ogni tanto delle voci: il malinconico abbaiare degli straccivendoli o di quelli che compravano bottiglie vuote; di quando in quando il gemito di un violino scordato; e una volta capitò che una bionda obesa si mettesse al centro del cortile ed erompesse in un canto così delizioso che le cameriere si sporsero dalle finestre, il collo nudo proteso in avanti. Poi, quando quella ebbe finito, sopraggiunse un istante di assoluto silenzio; si sentiva solo la mia padrona di casa, una vedova sciattona, che singhiozzava e si soffiava il naso in corridoio.
Ora in quel cortile si dilatava gonfiandosi un'oscurità opprimente, ma poi il vento cieco, che era scivolato inerme nelle sue profondità, ricominciò a protendersi verso l'alto e improvvisamente riacquistò la vista, volò su, e nelle aperture color ambra del muro nero di fronte saettarono le silhouette di teste spettinate e di braccia che tentavano di agguantare le finestre in fuga, mentre i battenti venivano saldamente bloccati con uno schiocco sonoro. Le luci si spensero. Un momento dopo la valanga di un rumore sordo, quello di un tuono distante, si mise in movimento e cominciò a rotolare attraverso il cielo viola scuro. Poi tutto ritornò silenzioso come lo era stato quando la mendicante aveva terminato la sua canzone con le mani premute sul petto generoso.
In quel silenzio mi addormentai, esausto per la felicità della mia giornata, una felicità che non posso descrivere, e il mio sogno era pieno di te.
Mi svegliai perché la notte aveva cominciato a frantumarsi con violenza. Un bagliore tempestoso, smorto volava attraverso il cielo come il rapido riflesso dei raggi di una colossale ruota. Uno schianto dopo l'altro squassava il cielo. Scendeva la pioggia, scrosciava copiosa e sonora.
Fui inebriato da quei fremiti bluastri, dal mutevole freddo pungente, mi avvicinai al davanzale bagnato della finestra inalando quell'aria soprannaturale che fece tintinnare il mio cuore come vetro.
Sempre più vicino, sempre più splendido, il carro del profeta passava rimbombando fra le nubi. Una luce di follia, di visioni lancinanti illuminava il mondo notturno, le pendenze metalliche dei tetti, i cespugli dei lillà in fuga. Il dio del Tuono, un gigante dai capelli bianchi con una barba infuriata che il soffio del vento gli proiettava dietro la spalla, avvolto dalle falde svolazzanti di una veste fulgida, si ergeva, inclinato all'indietro, nel carro infuocato, trattenendo a braccia tese i suoi terribili destrieri neri, le criniere come una vampa violetta. Sfuggiti al controllo del cocchiere, questi, spargevano scintille di schiuma crepitante, il carro sbandava, e il profeta innervosito tirava invano le redini. Il suo viso era contratto per via delle raffiche e dello sforzo; il turbine che risucchiava all'indietro le pieghe del suo abito denudava un ginocchio possente; i destrieri scuotevano le criniere fiammeggianti e sfrecciavano con sempre maggior impeto giù, giù, lungo le nuvole. Poi, con gli zoccoli tonanti si lanciarono attraverso un tetto lucente, il carro vacillò, il profeta Elia barcollò e i destrieri, impazziti a contatto del metallo mortale, balzarono di nuovo verso il cielo. Il profeta fu scaraventato fuori. Una ruota sì staccò. Dalla finestra vidi il suo enorme cerchio di fuoco che rotolava giù dal tetto, si impennava sul bordo e spariva nell'oscurità mentre i destrieri, trascinando il carro rovesciato, già fuggivano tra le nubi più alte; il brontolio andò spegnendosi e la vampa tempestosa svanì tra lividi abissi.
Il dio del Tuono, che era caduto sul tetto, si rialzò pesantemente. I suoi sandali scivolavano; ruppe un lucernaio con il piede, grugnì, e con un ampio gesto del braccio si aggrappò a un comignolo per non cadere. Con lentezza voltò il viso imbronciato mentre cercava qualcosa con gli occhi – probabilmente la ruota che era volata via dal suo asse dorato. Poi lanciò uno sguardo in alto, afferrando la barba arruffata, scosse la testa con irritazione – forse non era la prima volta che questo accadeva – e, zoppicando un poco, iniziò una cauta discesa.
In preda a una forte agitazione mi allontanai dalla finestra, indossai frettoloso la vestaglia e corsi giù per la ripida scala direttamente in cortile. Il temporale era passato, ma nell'aria indugiava un sentore di pioggia. Verso est invadeva il cielo un delicato pallore.
Sul cortile, che dall'alto sembrava saturo di una fitta oscurità, in effetti aleggiava soltanto una fine nebbiolina prossima a dissolversi. In piedi sull'area centrale annerita dall'umidità, un vecchio magro e ricurvo, con una vestaglia fradicia, borbottava qualche cosa mentre si guardava intorno. Vedendomi, sbatté le palpebre incollerito e disse: «Sei tu, Eliseo?».
Feci un inchino. Il profeta schioccò la lingua mentre si grattava la macchia bruna di alopecia sulla testa.
«Ho perso una ruota. Me la cerchi?».
Ora la pioggia era cessata. Enormi nubi color fiamma si adunavano sopra i tetti. I cespugli, la staccionata, il canile luccicante fluttuavano nell'aria bluastra e sonnolenta in cui eravamo immersi. Cercammo a tastoni lungamente in ogni angolo. Il vecchio continuava a borbottare tenendo sollevato il pesante orlo della vestaglia, mentre avanzava sguazzando nelle pozzanghere con i suoi sandali dalla punta tonda, e una goccia gli colava dal grosso naso ossuto. Spostando un ramo basso di lillà notai, su un cumulo di rifiuti, tra frammenti di vetro, una ruota dal sottile cerchione di ferro che doveva essersi staccata da una carrozzina per bambini. Il vecchio emise un caldo sospiro di sollievo sopra il mio orecchio. Frettolosamente, in un modo persino un po' brusco, mi spinse da parte e afferrò il cerchione arrugginito. Strizzando l'occhio con allegria disse: «Ecco dov'era andato a finire».
Poi mi fissò, le bianche sopracciglia si aggrottarono e, come se stesse ricordando qualcosa, mi disse con voce imperiosa: «Voltati Eliseo».
Obbedii, e chiusi perfino gli occhi. Rimasi fermo così per almeno un minuto, ma poi non riuscii più a tenere a freno la mia curiosità.
Il cortile era deserto, eccetto il vecchio cane irsuto con il muso già quasi grigio che aveva sporto la testa dal canile e stava guardando in su, come un essere umano, con impauriti occhi color nocciola. Anch'io guardai in su. Elia si era arrampicato sul tetto con il cerchione che gli luccicava dietro la schiena. Sopra i neri comignoli si profilava una nuvola aurorale arricciolata, simile a una montagna arancione, e più in là ce n'erano una seconda e una terza. Il cane silenzioso e io guardavamo insieme mentre il profeta, che aveva raggiunto la sommità del tetto, con passo calmo, senza affrettarsi, saliva sulla nuvola e continuava ad arrampicarsi avanzando faticosamente lungo i cumuli di soffice fuoco.
Il sole saettò attraverso la ruota che subito divenne gigantesca, colorandosi d'oro, ed Elia stesso ora sembrava vestito di fiamme, mentre andava fondendosi con la paradisiaca nube lungo la quale avanzava, in alto, sempre più in alto, fino a svanire in una gloriosa forra del cielo.
Solo allora il cane decrepito emise un rauco latrato mattutino. Increspature percorsero la lucente superficie di una pozzanghera. Una brezza leggera sfiorava i gerani sui balconi. Due o tre finestre si destarono. Con le pantofole fradicie e la logora veste da camera corsi fuori in strada per raggiungere il primo tram addormentato, e raccogliendo le falde della vestaglia, e ridendo mentre correvo, immaginai come di lì a poco sarei arrivato a casa tua e mi sarei messo a raccontarti dell'infortunio occorso nel cielo, quella notte, e del vecchio, scorbutico profeta che era caduto nel cortile di casa.