PARLA, RICORDO
Vladimir Nabokov
UN'AUTOBIOGRAFIA RIVISITATA
Con la «singolare nitidezza» di qualcosa che si vede dall'altro capo di un telescopio, minuscolo ma provvisto dello smalto allucinatorio di una decalcomania, Nabokov ha lasciato affiorare dalle pagine di questo libro la sua fanciullezza nella «Russia leggendaria» precedente alla rivoluzione, troppo perfetta e troppo felice per non essere condannata a un dileguamento istantaneo e totale, sospingendo poi il ricordo fino all'apparizione dello «splendido fumaiolo» della nave che lo avrebbe condotto in America nel 1940. «Il dettaglio è sempre benvenuto»: questa regola aurea dell'arte di Nabokov forse mai fu applicata da lui stesso con altrettanta determinazione come in Parla, ricordo. Qui l'ebbrezza dei dettagli che scintillano in una prosa furiosamente cesellata diventa il mezzo più sicuro, se non l'unico, per salvare una moltitudine di istanti e di profili altrimenti destinati a essere inghiottiti nel silenzio, fissandoli in parole che si offrono come «miniature traslucide, tascabili paesi delle meraviglie, piccoli mondi perfetti di smorzate sfumature luminescenti». Compiuta l'operazione da stagionato prestigiatore itinerante, Nabokov riarrotola il suo «tappeto magico, così da sovrapporre l'una all'altra parti diverse del disegno». E aggiunge: «E che i visitatori inciampino pure». Cosa che ogni lettore farà, con «un fremito di gratitudine rivolto a chi di dovere – al genio contrappuntistico del destino umano o ai teneri spettri che assecondano uri fortunato mortale».
«Confesso di non credere nel tempo. Dopo l'uso mi piace ripiegare il mio tappeto magico, così da sovrapporre l'una all'altra parti diverse del disegno. E che i visitatori inciampino pure. E la gioia più grande dell'assenza di tempo – in un paesaggio scelto a caso – viene quando mi trovo tra farfalle rare e piante di cui esse si nutrono. É quella, l'estasi, e dietro l'estasi c'è qualcos'altro difficile da spiegare. É come un vuoto momentaneo in cui si riversa tutto ciò che mi è caro. La sensazione di essere tutt'uno con sole e pietra. Un fremito di gratitudine rivolto a chi di dovere – al genio contrappuntistico del destino umano o ai teneri spettri che assecondano un fortunato mortale».
Di Vladimir Nabokov (1899-1977) Adelphi ha di recente pubblicato Una bellezza russa e altri racconti (2008) e L'originale di Laura (2009). Parla, ricordo è apparso per la prima volta nel 1951 (con il titolo Conclusive Evidence), e in una versione ampiamente riveduta nel 1966.
In copertina: Vladimir Nabokov nel suo appartamento al Montreux Palace Hotel (1965).
FONDATION HORST TAPPE
PREFAZIONE
La presente opera è un insieme di ricordi personali in sistematica correlazione tra loro che spazia, sotto il profilo geografico, da San Pietroburgo a Saint-Nazaire, e copre un periodo di trentasette anni, dall'agosto del 1903 al maggio del 1940, con solo qualche sporadica incursione nello spazio-tempo successivo. Il racconto che ha aperto la serie corrisponde all'attuale capitolo Cinque. Lo scrissi in francese, intitolandolo Mademoiselle O, trent'anni fa, a Parigi, dove Jean Paulhan lo pubblicò su «Mesures», nel secondo numero del 1936. Commemora l'evento una fotografia (apparsa di recente nel libro di Gisèle Freund, James Joyce in Paris), dove però vengo identificato per errore (nel gruppo di «Mesures» colto in un momento distensivo attorno a un tavolo da giardino di pietra) come «Audiberti».
In America, dove emigrai il 28 maggio 1940, Mademoiselle O fu tradotto in inglese dalla compianta Hilda Ward, da me rivisto, quindi pubblicato da Edward Weeks nel numero di gennaio del 1943 dell'«Atlantic Monthly» (che fu anche la prima rivista a stampare i miei racconti scritti in America). La collaborazione con il «New Yorker» era iniziata nell'aprile del 1942 (grazie a Edmund Wilson) con una breve poesia, seguita da altri componimenti occasionali; ma la mia prima prosa vi apparve solo il 3 gennaio 1948: era il Ritratto di mio zio (ora capitolo Tre), scritto nel giugno del 1947 al Columbine Lodge, Estes Park, Colorado, dove io, mia moglie e mio figlio non saremmo potuti restare molto più a lungo del previsto se Harold Ross non fosse andato così d'accordo con il fantasma del mio passato. La stessa rivista pubblicò inoltre il capitolo Quattro (La mia educazione inglese, 27 marzo 1948), il capitolo Sei (Farfalle, 12 giugno 1948), il capitolo Sette (Colette, 31 luglio 1948) e il capitolo Nove (La mia educazione russa, 18 settembre 1948), tutti scritti a Cambridge, Massachusetts, in un periodo di grande fatica fisica e mentale, assieme al capitolo Dieci (Prologo, 1° gennaio 1949), al capitolo Due (Ritratto di mia madre, 9 aprile 1949), al capitolo Dodici (Tamara, 10 dicembre 1949), al capitolo Otto (Lastre di una lanterna magica, 11 febbraio 1950; quesito di H. R.: «Ma in casa Nabokov c'era un solo schiaccianoci?»), al capitolo Uno (Passato perfetto, 15 aprile 1950) e al capitolo Quindici (Parchi e giardini, 17 giugno 1950), tutti scritti a Ithaca, New York.
Dei tre rimanenti capitoli, l'Undici e il Quattordici apparvero nella «Partisan Review» (La prima poesia, settembre 1949, ed Esilio, gennaio-febbraio 1951), mentre il capitolo Tredici andò a «Harper's Magazine» (Le camere ammobiliate di Trinity Lane, gennaio 1951).
La versione inglese di Mademoiselle O è stata ripubblicata in Nine Stories (New Directions, 1947) e in Nabokov 's Dozen (Doubleday, 1958; Heinemann, 1959; Popular Library, 1959 e Penguin Books, 1960); a quest'ultima raccolta aggiunsi anche Primo amore, che in seguito divenne il preferito degli antologisti.
Sebbene avessi composto questi capitoli nella sequenza discontinua che si evince dalle date della prima pubblicazione, essi erano andati via via colmando con precisione le lacune numerate che nella mia mente rispettavano l'ordine attuale dei capitoli. Quell'ordine era stato fissato nel 1936, alla posa della prima pietra che nel suo vano nascosto conteneva già varie mappe, orari, una collezione di scatolette di fiammiferi, un frammento di vetro color rubino, e perfino – lo scopro soltanto adesso – la vista che si gode dal mio balcone del lago di Ginevra con le sue increspature e le sue radure di luce, maculato oggi, all'ora del tè, di folaghe e morette. Non ebbi dunque nessuna difficoltà a mettere insieme un volume che la Harper & Bros, di New York fece uscire nel 1951 con il titolo di Conclusive Evidence: la prova inoppugnabile del fatto che io fossi esistito. Purtroppo, la locuzione faceva venire in mente un romanzo poliziesco, e così progettai di intitolare l'edizione britannica Speak, Mnemosyne, Parla, Mnemosine, ma mi fu detto che «le care vecchie signore non avrebbero richiesto un libro di cui non riuscivano a pronunciare il titolo». Mi trastullai anche con The Anthemion, L'Antemio, nome di un motivo ornamentale a forma di caprifoglio – elaborati viluppi di foglie e un rigoglio di fiori a grappolo – che non piacque a nessuno; ci accordammo infine su Speak, Memory (Gollancz, 1951 e The Universal Library, New York, 1960). Traduzioni: in russo, dell'autore (Drugie berega, The Chekhov Publishing House, New York, 1954); in francese, di Yvonne Davet (Autres rivages, Gallimard, 1961); in italiano, di Bruno Oddera (Parla, ricordo, Mondadori, 1962); in spagnolo, di Jaime Pineiro Gonzàles (¡Habla, memoria!, 1963); e in tedesco, di Dieter E. Zimmer (Rowohlt, 1964). E con ciò si esauriscono le informazioni bibliografiche indispensabili che critici nervosi, già in precedenza seccati dalla nota posta in coda a Nabokov's Dozen, saranno, spero, indotti sotto ipnosi ad accettare in apertura del presente lavoro.
Allorché scrivevo la prima versione in America, mi trovai in difficoltà per la quasi totale mancanza di dati riguardo alla storia della mia famiglia e, di conseguenza, per l'impossibilità di verificare i miei ricordi quando mi rendevo conto che la memoria poteva ingannarmi. La biografia di mio padre è stata ora ampliata e riveduta. Altre numerose correzioni e aggiunte sono state apportate, soprattutto nei primi capitoli. Certe ermetiche parentesi sono state aperte consentendo al loro contenuto, tuttora valido, di spandersi all'esterno. Oppure un oggetto – mero fantoccio scelto a caso e di nessun peso reale nella descrizione di un evento importante – continuava a infastidirmi ogni volta che, correggendo le bozze di varie edizioni, rileggevo il passaggio in questione, finché da ultimo non ho fatto un grande sforzo, e gli occhiali capricciosi (di cui Mnemosine, più di chiunque altro, deve aver avuto bisogno) si sono trasformati nel portasigarette a forma di ostrica, nitidamente richiamato alla memoria, che brillava nell'erba bagnata ai piedi di un pioppo tremulo sullo Chemin du Pendu, dove, in quel giorno di giugno del 1907, avevo trovato una sfingide la cui presenza così a occidente era cosa rara, e dove, un quarto di secolo prima, mio padre aveva catturato una farfalla occhio di pavone tutt'altro che frequente nei nostri boschi del Nord.
Era l'estate del 1953 quando, in un ranch nei pressi di Portai, Arizona, in una casa presa in affitto ad Ashland, Oregon, e in diversi motel del West e del Midwest, tra la caccia alle farfalle e la stesura di Lolita e di Pnin, avevo trovato modo, con l'aiuto di mia moglie, di tradurre in russo Speak, Memory. Le difficoltà d'ordine psicologico nell'affrontare un'altra volta un tema già trattato nel romanzo Dar (Il dono) mi avevano indotto a omettere un intero capitolo, l'Undici.
D'altro canto, avevo rivisto molti passaggi, e cercato di porre rimedio ai tanti amnesici difetti dell'originale: lacune, contesti sfocati, imprecisioni. Avevo scoperto che a volte, tramite un'intensa concentrazione, la chiazza grigia poteva essere sottoposta a un processo di perfetta messa a fuoco, tale da permettere di identificare una visione improvvisa, e il nome di un anonimo servitore. Nella presente e definitiva edizione di Speak, Memory, non solo ho introdotto modifiche sostanziali e copiose aggiunte al testo inglese originale, ma mi sono avvalso delle correzioni apportate nel volgerlo in russo. Questa ri-anglicizzazione di una ri-versione russa di ciò che all'origine era stata la ri-narrazione in inglese di ricordi russi si è rivelata un compito infernale, anche se qualche consolazione mi è venuta dal pensiero che tali metamorfosi multiple, ben note alle farfalle, non erano state tentate prima da un essere umano.
Tra le anomalie di una memoria il cui possessore e vittima non avrebbe mai dovuto provare a cimentarsi nel genere autobiografico, la peggiore è la propensione a equiparare retrospettivamente la propria età a quella del secolo. Nella prima versione di questo libro ciò ha comportato una serie notevole di cantonate cronologiche. Sono nato nell'aprile del 1899 e, naturalmente, durante il primo terzo del, mettiamo, 1903, avevo all'incirca tre anni; ma nell'agosto di quello stesso anno, il nitido 3 che mi si svelava (come ho descritto in Passato perfetto) si sarebbe dovuto riferire all'età del secolo e non alla mia, che era un «4» squadrato ed elastico quanto un cuscino di gomma. Analogamente, all'inizio dell'estate del 1906 – l'estate in cui cominciai a collezionare farfalle – avevo sette anni e non sei come affermato in origine nel catastrofico secondo paragrafo del capitolo Sei. Mnemosine, bisogna ammetterlo, ha dato prova di essere una ragazza molto sbadata.
Tutte le date sono riportate secondo il calendario nuovo stile: nel XIX secolo, rispetto al resto del mondo civile, eravamo indietro di dodici giorni, che diventarono tredici all'inizio del XX. Secondo il calendario vecchio stile sono nato il 10 aprile, all'alba, nell'ultimo anno dell'ultimo secolo, il che corrispondeva (fosse stato possibile trasportarmi d'incanto oltre confine) al 22 aprile, diciamo in Germania; ma dato che i miei compleanni venivano celebrati, con pompa via via decrescente, nel XX secolo, tutti, me compreso, al momento di essere trasferiti, per via della rivoluzione e dell'esilio, dal calendario giuliano a quello gregoriano, aggiungevano tredici e non dodici giorni al 10 aprile. L'errore è grave. Che fare? Nel mio passaporto più recente figura, come data di nascita, «23 aprile», che è anche la data di nascita di Shakespeare, di mio nipote Vladimir Sikorski, di Shirley Tempie e di Iris Castano (con cui mi trovo a condividere il passaporto). Ecco dunque il problema. La mia inettitudine in fatto di calcoli mi preclude ogni tentativo di risolverlo.
Quando, dopo vent'anni d'assenza, mi imbarcai per l'Europa, riallacciai legami che si erano sciolti ancor prima che io lasciassi quel continente. Nel corso di tali riunioni di famiglia Speak, Memory fu sottoposto a giudizio. Furono verificati particolari di date e di circostanze e si appurò che in molti casi mi ero sbagliato o non avevo esaminato abbastanza a fondo un ricordo oscuro ma non insondabile. Certi soggetti furono rigettati dai miei consiglieri in quanto dicerie o leggende oppure, se rispondenti a verità, si stabilì che riguardavano eventi o periodi diversi da quelli a cui la mia fragile memoria li aveva collegati. Mio cugino Sergej Sergeevic Nabokov mi diede informazioni di valore inestimabile sulla storia della nostra famiglia. Entrambe le mie sorelle protestarono con veemenza contro la descrizione del viaggio a Biarritz (inizio del capitolo Sette) e, tempestandomi di circostanziati particolari, mi convinsero che avevo sbagliato nel lasciarle a casa («in compagnia di balie e zie»!). Tutto ciò che non sono ancora riuscito a ricostruire per mancanza di una documentazione precisa, oggi ho preferito eliminarlo per amore di una veridicità globale. D'altro canto, sono venuti alla luce alcuni fatti riguardanti antenati e ulteriori personaggi, e così sono stati incorporati nella versione definitiva di Speak, Memory. Un giorno spero di scrivere uno «Speak on, Memory», Continua a parlare, ricordo, che copra gli anni 1940-1960 passati in America: l'evaporazione di certi elementi volatili e la fusione di certi metalli proseguono senza sosta nei miei alambicchi e crogioli.
Sparsi nel presente lavoro, il lettore troverà riferimenti ai miei romanzi, ma tutto sommato ho concluso che l'incomodo di scriverli era stato più che sufficiente, molto meglio se fossero rimasti confinati nel primo stomaco. Le introduzioni che ho scritto di recente per le traduzioni in inglese di Zascita Luzina, 1930 (The Defense, Putnam, 1964), Otcajanie, 1936 (Despair, Putnam, 1966), Priglasenie na kazn 1938 (Invitation to a Beheading, Putnam, 1969), Dar, 1952, pubblicato a puntate nel 1937-38 (The Gift, Putnam, 1963) e Sogljadataj, 1938 (The Eye, Phaedra, 1965) offrono un resoconto dettagliato quanto basta, e brioso, della parte creativa del mio passato europeo. Per chi desiderasse un elenco più completo delle mie pubblicazioni, esiste una bibliografia minuziosa, a opera di Die ter E. Zimmer (Vladimir Nabokov. Bibliographie des Gesamtwerks, Rowohlt, prima edizione, dicembre 1963; seconda edizione rivista, maggio 1964).
Il problema in due mosse descritto nell'ultimo capitolo è stato ripubblicato in Chess Problems di Lipton, Matthews & Rice (Faber, London, 1963, p. 252). La mia invenzione più divertente, però, è un problema di «ritirata del Bianco», da me dedicato a E.A. Znosko-Borovsky, che lo pubblicò negli anni Trenta (1934?) a Parigi, sul quotidiano émigré «Poslednie Novosti». Non ho un ricordo abbastanza nitido della posizione per riportarla qui, ma forse qualche appassionato di «scacchi eterodossi» (la tipologia di problemi alla quale il caso appartiene) un giorno la andrà a cercare in una di quelle benemerite biblioteche dove i vecchi giornali vengono microfilmati, proprio come si dovrebbe fare per ogni nostro ricordo. I recensori hanno letto la prima versione più distrattamente di quanto faranno con questa nuova: solo uno si accorse del mio «attacco mordace» a Freud nel primo capoverso del capitolo Otto, paragrafo 2, e nessuno scoprì il nome di un grande vignettista e l'omaggio a lui reso nell'ultima frase del paragrafo 2 del capitolo Undici. E molto imbarazzante per uno scrittore essere costretto a segnalare cose del genere.
Per evitare di ferire i vivi o di affliggere i morti, certi nomi propri sono stati cambiati. E figurano virgolettati nell'indice. Lo scopo principale di quell'indice è di elencare, per mia comodità, alcuni temi e figure connessi con il mio passato. La sua presenza potrà contrariare il lettore comune, ma forse sarà gradita al lettore sagace, se non altro perché
Alla finestra di quell'indice
si arrampica una rosa
e talvolta una brezza gentile
ex Ponto spira.
Vladimir Nabokov
Montreux, 5 gennaio 1966
Uno
1
La culla dondola sopra un abisso e il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è solo un breve spiraglio di luce tra due eternità fatte di tenebra. Sebbene siano una coppia di gemelli assolutamente identici, l'uomo, di regola, guarda all'abisso prenatale con più calma rispetto a quello verso cui è diretto (a circa quattrocentocinquanta battiti cardiaci l'ora). So, nondimeno, di un giovane soggetto cronofobico che provò qualche cosa di molto simile al panico guardando certi filmini di famiglia girati qualche settimana prima della sua nascita. Vide un mondo praticamente immutato – la stessa casa, le stesse persone – e si rese subito conto che lì dentro lui non c'era e che nessuno si affliggeva per la sua assenza. Intravide la madre che salutava con la mano da una finestra del piano superiore e quel gesto insolito lo turbò, quasi si trattasse di una sorta di addio misterioso. Ma a spaventarlo fu soprattutto la vista di una carrozzina nuova di zecca che se ne stava là, sotto il portico, con l'aria compiaciuta e invadente di una bara; anche quella era vuota, come se, nel procedere a ritroso degli eventi, le ossa stesse, le sue ossa, si fossero disintegrate.
Fantasticherie del genere non sono estranee alla vita dei giovani. Ovvero, per dirla in altro modo, la prima cosa e l'ultima tendono spesso ad assumere una sfumatura adolescenziale, sempreché non siano regolate da una qualche religione veneranda e severa. La natura si aspetta che l'adulto accetti i due neri nulla, a prua e a poppa, con la stessa imperturbabilità con cui egli accetta le straordinarie visioni intermedie. L'immaginazione, delizia suprema dell'immortale e dell'immaturo, andrebbe tenuta a freno. Per goderci la vita, non dovremmo godercela troppo.
A un tale stato di cose io mi ribello. Sento l'impulso di portare la ribellione all'esterno e di fare un picchettaggio nei confronti della natura. La mia mente ha fatto sforzi immani e reiterati per scorgere i più fiochi barlumi personali nelle tenebre impersonali che si estendono alle due estremità della mia esistenza. Che queste tenebre siano causate solo dalle pareti del tempo che separano me e i miei pugni contusi dal mondo libero in cui il tempo è assente, è una convinzione che volentieri condivido con il selvaggio più vistosamente dipinto. Ho viaggiato all'indietro con il pensiero – e il pensiero inesorabilmente si affievoliva man mano che procedevo – in regioni remote dove ho brancolato alla ricerca di una qualche uscita segreta per scoprire alla fine che la prigione del tempo è sferica e senza sbocchi. Tranne il suicidio, ho provato di tutto. Mi sono scrollato di dosso la mia identità per poter sgattaiolare, da spettro qualunque, in reami che preesistevano al mio concepimento. Ho sopportato mentalmente la compagnia degradante di romanziere vittoriane e di colonnelli in pensione che ricordavano di essere stati, in esistenze precedenti, schiavi incaricati di portare un messaggio lungo strade romane, o saggi sotto i salici di Lhasa. Ho rovistato nei miei sogni più antichi in cerca di soluzioni e di indizi – e lasciatemi dire subito che rifiuto del tutto il rozzo, abborracciato mondo di Freud, fondamentalmente medioevale, con la sua stravagante ricerca di simboli sessuali (più o meno come andare a caccia di acrostici baconiani nelle opere di Shakespeare) e i suoi embrioncini incattiviti che spiano, dai rispettivi cantucci genetici, la vita amorosa dei genitori.
Sulle prime non mi rendevo conto che il tempo, in apparenza così illimitato, fosse una prigione. Esplorando la mia infanzia (attività che, in ordine di merito, è seconda solo all'esplorare la propria eternità), vedo il risveglio della coscienza come una serie di lampi intermittenti, inframmezzati da intervalli che diminuiscono via via sino al formarsi di vividi agglomerati di percezione, i quali offrono una presa precaria alla memoria. Avevo imparato molto presto, quasi contemporaneamente, a contare e a parlare, ma l'intima consapevolezza che io fossi io e i miei genitori fossero i miei genitori sembra appartenere a un momento successivo, quando la consapevolezza fu direttamente collegata alla scoperta del rapporto tra la loro età e la mia. A giudicare dall'intensa luce diurna che, se penso a quella rivelazione, pervade subito la memoria di lobate chiazze di sole in mezzo a ricami sovrapposti di fogliame, l'occasione poteva essere stata il compleanno di mia madre, sul finire dell'estate, in campagna, un'occasione in cui avevo posto alcune domande e avevo valutato le risposte ottenute. Tutto come dovrebbe essere secondo la teoria della ricapitolazione; l'inizio di una riflessione cosciente nel cervello del nostro antenato più remoto deve sicuramente aver coinciso con gli albori della cognizione del tempo.
Così, quando la formula appena scoperta, fresca e impeccabile, della mia età – quattro anni – fu messa a confronto con la formula dell'età parentale – trentatré e ventisette anni – qualcosa si produsse in me. Ricevetti una scossa incredibilmente corroborante. Quasi fossi stato sottoposto a un secondo battesimo – per linee più divinamente ispirate dell'immersione greco-ortodossa subita cinquanta mesi prima da un ululante, semiannegato semiVictor (da dietro una porta semichiusa dove una vecchia usanza relegava i genitori, mia madre era riuscita a correggere quel vecchio pasticcione dell'arciprete padre Konstantin Vetvenickij) –, mi sentii tuffato di colpo in una sostanza fluida e lucente che altro non era se non il puro elemento del tempo. Lo si condivideva – proprio come bagnanti eccitati condividono la scintillante acqua del mare – con creature che non erano te, ma a te erano unite dal comune scorrere di quel tempo, un ambiente del tutto diverso dall'universo spaziale che non solo gli uomini, ma anche le scimmie e le farfalle sono in grado di percepire. In quell'istante avvertii con intensità penetrante che l'essere ventisettenne avvolto di bianco e rosa vaporosi, da cui ero tenuto per mano a sinistra, era mia madre, e che l'essere trentatreenne vestito di un rigido bianco e oro, da cui ero tenuto per mano a destra, era mio padre. Tra i due, che procedevano con passo uniforme, io camminavo impettito, e trotterellavo, e tornavo a camminare impettito, da chiazza di sole a chiazza di sole, nel bel mezzo di un sentiero che oggi facilmente identifico con un viale di quercioli ornamentali nel parco della nostra tenuta estiva di Vyra, nell'ex provincia di San Pietroburgo, in Russia. Dal mio odierno valico temporale, remoto, solitario, ormai quasi disabitato, ecco che rivedo il mio minuscolo io intento a celebrare, in quel giorno d'agosto del 1903, la nascita della vita cosciente. Sebbene colei che mi teneva la mano sinistra e colui che mi teneva la destra fossero già presenti nel mio indistinto mondo infantile, entrambi lo erano stati sotto una maschera di tenero anonimato; ma ora l'abbigliamento di mio padre – la splendente uniforme delle Guardie a cavallo, con la liscia curva dorata della corazza che gli ardeva sul petto e sulla schiena – era spuntato come un sole, e per diversi anni ancora restai profondamente interessato all'età dei miei genitori, continuando a tenermi al corrente, come un passeggero nervoso che chiede l'ora per controllare il funzionamento del suo orologio nuovo.
Mio padre, sia chiaro, aveva terminato il servizio militare molto tempo prima della mia nascita, quindi immagino che quel giorno avesse indossato gli orpelli del suo vecchio reggimento per scherzo, in un giorno di festa. A uno scherzo, dunque, debbo il mio primo sprazzo di piena consapevolezza, e questo ci rimanda alla teoria della ricapitolazione, in quanto le prime creature della terra che ebbero nozione del tempo furono anche le prime a sorridere.
2
A quattro anni, dietro ai miei giochi c'era la caverna primordiale (e non quello che i mistici freudiani potrebbero supporre). Un grande divano rivestito di cretonne, bianco a trifogli neri, in un salotto di Vyra affiora alla mia mente come il prodotto di qualche massiccio sconvolgimento geologico occorso prima dell'inizio della storia. La storia ha inizio (con una soave promessa di Grecia) non lontano da un'estremità di quel divano, dove una grande pianta di ortensia, con alcune infiorescenze celeste pallido e altre verdastre, cela per metà, in un angolo della stanza, il piedistallo di un busto marmoreo di Diana. Sulla parete contro cui si staglia il divano, una grigia incisione con cornice d'ebano segna un'altra fase storica: l'immagine di una di quelle battaglie napoleoniche in cui i veri avversari sono l'episodico e l'allegorico, e dove, raggruppati insieme sullo stesso piano visivo, troviamo un tamburino ferito, un cavallo morto, alcuni trofei, un soldato sul punto di infilzarne un altro con la baionetta, e l'invulnerabile imperatore in posa tra i suoi generali nel bel mezzo della mischia pietrificata.
Con l'aiuto di qualche persona adulta, la quale faceva ricorso prima a entrambe le mani e quindi a una gamba poderosa, il divano veniva spostato di parecchi centimetri dal muro, così da formare un angusto passaggio che, con ulteriore assistenza, riuscivo a dotare di un tetto confortevole, formato dai rulli del divano e sigillato alle due estremità con un paio di cuscini dello stesso. Quindi mi abbandonavo al piacere fantastico di strisciare lungo quel tunnel di tenebra fitta, dove indugiavo un poco ad ascoltare il canto che mi risuonava nelle orecchie – quella solitaria vibrazione ben nota ai ragazzini che si nascondono negli angoli polverosi –, poi, con un'esplosione di panico delizioso, in un rapido tamburellare di mani e di ginocchia, raggiungevo l'estremità del tunnel, ne spingevo via il cuscino e venivo accolto dal reticolo di raggi di sole sul parquet, sotto l'impagliatura di una sedia viennese, e da due mosche giocose che vi si posavano a turno. Una sensazione più onirica e più delicata era fornita da un'altra versione del gioco della caverna, quando, svegliandomi di prima mattina, formavo una tenda con coperte e lenzuola e lasciavo che la mia fantasia si trastullasse in mille modi indefinibili con quelle nebulose valanghe di biancheria e con quella luce fioca che sembrava farsi strada nella semioscurità del mio rifugio da chissà quale immensa distanza dove immaginavo vagassero, in un paesaggio lacustre, animali pallidi e strani.
Il ricordo del lettino, con le reti laterali di morbide cordicelle di cotone, mi riporta inoltre il piacere di maneggiare un certo uovo di cristallo, magnifico, piacevolmente compatto, color granata scuro, residuo di qualche Pasqua di perduta memoria; ero solito masticare un angolo del lenzuolo finché non diventava completamente fradicio, e quindi avvolgervi dentro ben stretto l'uovo per ammirare e rileccare il caldo sfolgorio vermiglio di quelle sfaccettature, avviluppate con tanta cura, che filtrava attraverso il tessuto lasciando luce e colore miracolosamente intatti. Ma non fu ancora quello il momento in cui attinsi più da vicino alla fonte della bellezza.
Quant'è piccolo il cosmo (il marsupio di un canguro basterebbe a contenerlo), che cosa misera e meschina se paragonato alla coscienza umana, a un solo ricordo personale e alle parole per descriverlo! Forse sono eccessivamente legato alle mie prime impressioni, ma del resto ho un buon motivo per essere loro grato. Mi hanno guidato fino a un vero e proprio Eden di sensazioni visive e tattili. Una sera, durante un viaggio all'estero nell'autunno del 1903, ricordo di essermi inginocchiato sul mio guanciale (alquanto piatto) davanti al finestrino di un vagone letto (probabilmente sul Train de Luxe del Mediterraneo, estinto da tempo, le cui sei carrozze avevano la parte inferiore marrone scuro e i pannelli crema), e di aver visto, con un'inspiegabile fitta emotiva, una manciata di magiche luci che mi facevano cenno dal fianco di una collina lontana per poi scivolare in una tasca di velluto nero: diamanti che in seguito donai a miei personaggi per alleviare il peso della mia ricchezza. Ero probabilmente riuscito a liberare e a sollevare la tendina saldamente ancorata all'estremità della cuccetta, sentivo freddo ai talloni, ciò nonostante continuavo a restare in ginocchio e a sbirciare. Niente è più dolce o più inquietante del ripercorrere quelle prime palpitanti emozioni. Appartengono all'universo armonioso di un'infanzia perfetta e per questo possiedono, nel ricordo, una naturale plasticità che permette di trascriverle senza il minimo sforzo; è solo con l'inizio dei ricordi adolescenziali che Mnemosine comincia a diventare esigente e bisbetica. Di più, a proposito della facoltà di accumulare impressioni, vorrei suggerire l'idea che i bambini russi della mia generazione siano passati attraverso una fase di genialità, come se il destino si fosse onestamente prodigato a loro favore per concedere più del dovuto, in vista del cataclisma che avrebbe cancellato completamente il mondo che avevano conosciuto. Una volta immagazzinato il tutto, ecco che la genialità sparisce, proprio come succede agli altri, i bambini prodigio più specializzati: fanciulli graziosi e ricciuti che agitano bacchette o ammansiscono immensi pianoforti e che alla fine si trasformano in musicisti di seconda categoria, occhi tristi, oscuri disturbi, e qualche cosa di vagamente deforme nei posteriori eunucoidi. Permane pur sempre, a tormento del memorialista, il mistero dell'individualità. Non nelle circostanze ambientali e neppure nel patrimonio genetico io riesco a rintracciare lo strumento esatto che mi ha modellato, l'anonimo rullo che ha impresso sulla mia esistenza quell'intricata filigrana il cui disegno irripetibile si rivela allorché la luce della lampada dell'arte viene fatta risplendere attraverso la carta formato protocollo della vita.
3
Per fissare correttamente, in termini cronologici, alcuni ricordi d'infanzia, devo basarmi su eclissi e comete, come gli storici alle prese con i frammenti di una saga. In altri casi, però, non c'è penuria di dati. Mi rivedo per esempio in riva al mare, che mi arrampico su neri scogli bagnati, mentre Miss Norcott, governante languida e malinconica, credendo che io la segua, si allontana passeggiando lungo la curva della spiaggia in compagnia di Sergej, mio fratello minore. Al polso ho un braccialetto giocattolo. Mentre striscio su quegli scogli, continuo a ripetere, a guisa di divertente, prolisso e assai gratificante incantesimo, la parola inglese «childhood» (infanzia), che mi suona nuova e misteriosa, e che diventa sempre più bizzarra man mano che si confonde, nella mia testolina satura ed eccitata, con il cappuccio di Robin Hood, con Cappuccetto Rosso, nonché con il cappuccio marrone di vecchie fate con la gobba. Sugli scogli ci sono piccole cavità colme di tiepida acqua marina, e il mio magico borbottio accompagna certi sortilegi che vado tessendo sopra quelle minuscole pozze di zaffiro.
Il luogo è, naturalmente, Abbazia, sull'Adriatico. L'oggetto che ho intorno al polso, e che sembra un estroso portatovagliolo fatto di materiale semitrasparente verde pallido e rosa, simile alla celluloide, è il frutto di un albero di Natale che Onja, una graziosa cugina mia coetanea, mi ha donato qualche mese prima a San Pietroburgo. Il valore affettivo me lo aveva fatto serbare come un tesoro finché al suo interno non si erano sviluppate venature scure che, come in un sogno, avevo deciso fossero i miei capelli, tagliati nel corso di una spaventosa visita all'odiato parrucchiere della vicina Fiume ed entrati in qualche maniera, insieme alle mie lacrime, in quella materia lucente. Lo stesso giorno, in un caffè sul lungomare, mentre venivamo serviti, mio padre notò due ufficiali giapponesi seduti a un tavolo poco lontano, e immediatamente ci alzammo per andarcene – non prima che io mi impossessassi in fretta e furia di un'intera bombe di sorbetto al limone, che mi portai via occultata nella bocca dolorante. Era il 1904. Avevo cinque anni. La Russia era in guerra con il Giappone. Il settimanale inglese illustrato a cui Miss Norcott era abbonata riportava con vivo compiacimento disegni di guerra di artisti giapponesi che mostravano come le locomotive russe – alle quali lo stile nipponico donava una strana aria di giocattolo – si sarebbero inabissate se il nostro esercito avesse tentato di posare binari sul ghiaccio infido del lago Bajkal.
Vediamo. Associato a quella guerra c'è un ricordo ancora più precoce. Un pomeriggio dello stesso anno, nella nostra casa di San Pietroburgo, fui condotto dalla camera dei bambini giù nello studio di mio padre, per salutare un amico di famiglia, il generale Kuropatkin. Con un leggero scricchiolio del corpo tozzo incassato nell'uniforme, egli sparse, per divertirmi, una manciata di fiammiferi sul divano su cui sedeva, e ne dispose una decina, l'uno di seguito all'altro, a formare una linea orizzontale dicendo: «Questo è un mare calmo». Quindi, inclinando verso l'alto il punto di congiunzione di ciascuna coppia, trasformò quella linea retta in uno zigzag: «E questo è un mare in tempesta». Mischiò i fiammiferi, ed era sul punto di escogitare, così speravo, un giochetto migliore quando fummo interrotti. Il suo aiutante di campo fu fatto entrare nella stanza e gli comunicò qualche cosa. Con un grugnito di contrarietà molto russo, Kuropatkin si alzò pesantemente, mentre i fiammiferi sparsi rimbalzavano sul divano liberato dal suo peso. Quel giorno gli era stato ordinato di assumere il comando supremo dell'esercito russo in Estremo Oriente.
L'incidente ebbe un seguito singolare quindici anni dopo, quando, durante la fuga di mio padre da San Pietroburgo, ormai in mano ai bolscevichi, verso la Russia meridionale, egli fu avvicinato, mentre attraversava un ponte, da un vecchio a cui la barba grigia e il cappotto di pecora davano un'aria contadina. Chiese a mio padre da accendere. Si riconobbero subito. Spero che il vecchio Kuropatkin, con quel suo villico travestimento, ce l'abbia fatta a evitare le prigioni sovietiche, ma non è questo il punto. Quello che mi piace è l'evoluzione del tema del fiammifero: quei magici fiammiferi che mi aveva sciorinato davanti erano stati usati per gioco, finendo poi chissà dove, e allo stesso modo erano svanite le sue divisioni armate, e tutto si era inabissato, come i trenini che, nell'inverno 1904-1905, a Wiesbaden avevo cercato di far correre sopra le pozzanghere gelate nei giardini dell'Hotel Oranien. Individuare tali disegni tematici attraverso il corso della nostra vita dovrebbe essere, credo, il vero fine dell'autobiografia.
4
La conclusione della disastrosa campagna russa in Estremo Oriente fu accompagnata da violenti disordini interni. Ma mia madre, impavida, fece ritorno a San Pietroburgo con i suoi tre bambini dopo quasi un anno passato all'estero in vari luoghi di villeggiatura. Si era all'inizio del 1905. Affari di Stato richiedevano la presenza di mio padre nella capitale; l'anno seguente, il Partito costituzionaldemocratico, del quale egli era uno dei fondatori, avrebbe conquistato la maggioranza dei seggi nella Prima Duma. Quell'estate, durante uno dei suoi brevi soggiorni in campagna con tutti noi, egli si accorse, con patriottica costernazione, che mio fratello e io sapevamo leggere e scrivere in inglese ma non in russo (ad eccezione di kakao e mama). Fu deciso che l'insegnante della scuola del villaggio sarebbe venuto tutti i pomeriggi per farci lezione e condurci a passeggio.
Con un trillo acuto e gioioso del fischietto, parte integrante del mio primo vestito alla marinara, l'infanzia mi richiama a quel passato lontano così da stringere ancora una volta la mano del mio adorabile maestro. Vasilij Martinovic Zernosekov aveva una lanuginosa barba castana, una calvizie incipiente, e occhi azzurro porcellana, sulla palpebra superiore di uno dei quali faceva mostra di sé un'affascinante escrescenza. Il primo giorno si presentò con una scatola colma di cubi incredibilmente ghiotti, su ciascuna faccia dei quali era dipinta una lettera diversa; lui li maneggiava come fossero stati oggetti preziosissimi, e tali in effetti erano per il loro scopo primario (oltre a quello di dar vita a splendidi tunnel per i trenini). Venerava mio padre che aveva di recente ricostruito, ammodernandola, la scuola del villaggio. Come antiquato simbolo del libero pensiero, sfoggiava una cravatta nera svolazzante annodata alla bell'e meglio. Si rivolgeva a me, che allora ero un ragazzino, usando la seconda persona plurale, non nella maniera formale della servitù né come faceva mia madre in momenti di profonda tenerezza, quando mi saliva la febbre o avevo perso il minuscolo passeggero di un trenino (quasi la seconda persona singolare fosse troppo gracile per sopportare il peso del suo amore), ma con la compita semplicità di un uomo che si rivolge a qualcuno che non conosce abbastanza bene da potergli dare del tu. Fervente rivoluzionario, nel corso dei nostri vagabondaggi campestri gesticolava con veemenza parlando di umanità e libertà, dei mali della guerra e della triste (ma interessante, pensavo io) necessità di far saltare in aria i tiranni, e a volte tirava fuori un libro pacifista allora molto in voga, Doloj oruzie! (traduzione di Die Waffen nieder! di Bertha von Suttner), da cui traeva, per sottoporle a me, bambino di sei anni, tediose citazioni; io cercavo di confutarle: a quella tenera e bellicosa età, presi la parola in favore di eccidi e carneficine, a difesa irata del mio mondo di pistole giocattolo e cavalieri della Tavola rotonda. Sotto il regime di Lenin, quando tutti i radicali non comunisti furono oggetto di feroci persecuzioni, Zernosekov fu spedito ai lavori forzati, ma riuscì a fuggire all'estero e morì a Narva nel 1939.
Devo a lui, in un certo senso, la capacità di proseguire per un altro tratto lungo il mio sentiero personale che si snoda parallelo alla strada maestra di quella decade tumultuosa. Quando, nel luglio del 1906, lo zar sciolse in modo incostituzionale la Prima Duma, alcuni membri, tra i quali mio padre, tennero a Vyborg una seduta ribelle da cui uscì un manifesto che incitava il popolo alla resistenza contro il governo. Per questa ragione, più di un anno e mezzo dopo furono tutti imprigionati. Mio padre trascorse tre mesi riposanti, anche se un po' solitari, segregato in una cella con i suoi libri, la sua vasca da bagno pieghevole, e la sua copia del manuale di ginnastica da camera di J.P. Muller. Mia madre ha conservato sino alla fine dei suoi giorni le lettere che egli riusciva in qualche modo a far uscire di nascosto: allegre epistole scritte a matita su carta igienica (le ho fatte pubblicare, nel 1965, sul quarto numero della rivista in lingua russa «Vozdusnye puti», che Roman Grynberg dirige a New York). Quando tornò in libertà noi eravamo in campagna, e fu il maestro del villaggio a organizzare i festeggiamenti e ad allestire i pavesi (alcuni decisamente rossi) che avrebbero dato il benvenuto a mio padre lungo tutto il tragitto dalla stazione ferroviaria a casa, sotto archivolti di rami di abete e serti di fiordalisi, il fiore da lui preferito. Noi bambini eravamo scesi in paese, e al ricordo di quella giornata particolare rivedo con assoluta chiarezza il fiume che scintillava al sole; il ponte, l'abbagliante latta di un barattolo abbandonato da un pescatore sulla spalletta di legno; la collina ammantata di tigli con la sua chiesa rossorosata e il mausoleo di marmo in cui riposavano i defunti del ramo materno; la strada polverosa che portava al villaggio; la striscia verde pastello di erba bassa, con chiazze spelacchiate di terreno sabbioso, tra la strada e i cespugli di lillà dietro i quali stavano in fila sgangherata capanne di tronchi dallo sguardo inespressivo, coperte di muschio; l'edificio in pietra della nuova scuola accanto a quello vecchio in legno; e – mentre passavamo velocemente in carrozza – il cagnolino nero dai denti bianchissimi che schizzò fuori dall'intrico delle casette con rapidità inaudita ma in perfetto silenzio, serbando la voce per il breve e gioioso scoppio di latrati allorché la sua muta volata lo avrebbe finalmente condotto vicino al veicolo in corsa.
5
In quella singolare prima decade del nostro secolo, il vecchio e il nuovo, l'impronta liberale e quella patriarcale, la fatale povertà e la fatalistica ricchezza si ritrovarono in un bizzarro intreccio. D'estate accadeva spesso che durante la seconda colazione, nella luminosa sala da pranzo dalla boiserie di noce e dalle molte finestre, al pianterreno della nostra villa di Vyra, Aleksej, il maggiordomo, con in volto un'espressione di infelicità, si chinasse su mio padre per informarlo a bassa voce (ancor più bassa se c'erano ospiti) che lì fuori un gruppo di gente del villaggio chiedeva di vedere il barin. Mio padre si toglieva prontamente il tovagliolo dal grembo e chiedeva a mia madre di scusarlo. Una finestra sul lato ovest della sala da pranzo dava su un tratto del viale d'accesso accanto all'ingresso principale. Si vedevano le cime dei cespugli di caprifoglio di fronte al porticato. Da quella direzione ci giungeva l'affabile brusio di campestre benvenuto con cui l'invisibile gruppo salutava il mio invisibile padre. Il colloquio che ne seguiva, condotto in toni normali, non era comprensibile, dato che le finestre sotto le quali si svolgeva erano chiuse per tenere fuori la calura. Si trattava presumibilmente di una richiesta di mediazione in una disputa locale, ovvero di qualche contributo speciale, o ancora del permesso di mietere in un angolo dei nostri terreni o di tagliare una macchia d'alberi molto agognata. Se, come accadeva di solito, la richiesta era subito accolta, il brusio si levava di nuovo e quindi, in segno di gratitudine, il bravo barin era sottoposto all'ordalia nazionale, il che voleva dire essere sballottato, gettato in alto e saldamente ripreso da una ventina di braccia poderose.
Nella sala da pranzo mio fratello e io venivamo esortati a non interrompere il pasto. Mia madre, un boccone prelibato tra pollice e indice, gettava un'occhiata sotto il tavolo per controllare che il suo nervoso e scorbutico bassotto fosse lì. «Un pur ils vont le laisser tomber» sbottava Mlle Golay, una vecchia signora sussiegosa e pessimista che era stata governante di mia madre e che (nonostante avesse rapporti tempestosi con le nostre governanti) continuava a vivere in famiglia. Dal mio posto a tavola all'improvviso mi capitava di scorgere, attraverso una delle finestre a occidente, un meraviglioso caso di levitazione. Là, per un istante, la figura di mio padre, con il bianco vestito estivo che ondeggiava al vento, mi appariva splendidamente e scompostamente distesa a mezz'aria, gli arti in una strana posa involontaria, i bei lineamenti imperturbabili fissi al cielo. Tre volte, agli oh-issa dei suoi invisibili sballottatori, volava verso l'alto in quel modo, la seconda più in su della prima, e poi eccolo di nuovo là, nell'ultimo volo, l'estremo, adagiato, come fosse per sempre, nel blu cobalto del pomeriggio estivo, simile a uno di quei personaggi paradisiaci che si librano nell'aria a proprio agio, con grande dovizia di drappeggi, sulle volte di una chiesa, mentre in basso, a uno a uno, i ceri in mani mortali si accendono formando uno sciame di fiammelle in mezzo all'incenso, e il prete intona l'eterno riposo, e i gigli funebri nascondono il viso di chiunque giaccia, tra i lumi tremolanti, dentro la bara aperta.
DUE
1
A quanto mi è dato di ricordare (con interesse, con divertimento, di rado con ammirazione o disgusto) ho sempre sofferto di lievi allucinazioni. Alcune uditive, altre visive, ma nessuna da cui abbia mai tratto grande profitto. Nel mio caso, gli accenti fatidici che trattennero Socrate o che incitarono Joaneta Dare sono degenerati al livello di ciò che capita di ascoltare tra l'istante in cui alzi il ricevitore di un duplex occupato e quello in cui lo sbatti giù. Appena prima di addormentarmi, mi accorgo spesso di una sorta di conversazione unilaterale che si svolge in una zona limitrofa del mio cervello, del tutto autonoma rispetto al corso effettivo dei miei pensieri. E una voce neutra, imparziale, anonima, che colgo mentre pronuncia parole di nessuna importanza per me: una frase in inglese o in russo, neppure destinata a me, e di una tale banalità che non oso fornire esempi per tema che il senso di piattezza in essa insito sia guastato da un grumo di senso. Tale insulso fenomeno sembra essere il pendant uditivo di certe visioni ante somnum, anch'esse a me ben note. Non intendo l'immagine mentale vivida (come, per esempio, il volto di un amato genitore da tempo defunto) evocata da un colpo d'ala della volontà; quello è uno sforzo tra i più nobili che lo spirito umano possa compiere. Neppure alludo alle cosiddette muscae volitantes – ombre proiettate sui bastoncelli della retina da corpuscoli presenti nell'umor vitreo, percepite come fili trasparenti che fluttuano nel campo visivo. Più vicina, forse, ai miraggi ipnagogici a cui sto ora pensando è la macchia colorata, la fitta di un'immagine consecutiva con cui la lampada appena spenta ferisce la notte palpebrale. Comunque, uno shock di questo tipo non è affatto il punto di partenza indispensabile allo sviluppo lento e costante delle visioni che mi scorrono davanti agli occhi chiusi. Quelle vanno e vengono senza che l'osservatore assonnato partecipi, ma sono fondamentalmente diverse dalle immagini oniriche poiché egli è ancora padrone dei suoi sensi. Sono spesso grottesche. Mi capita di essere tormentato da profili furfanteschi, da un qualche florido nano dai lineamenti grossolani, una narice o un orecchio rigonfi. A volte, però, le mie sinestesie visive acquistano una qualità flou alquanto consolatoria, e allora vedo – quasi proiettate sulla parte interna della palpebra – figure grigie che incedono tra alveari, o pappagallini neri che svaniscono via via tra nevi alpine, o una lontananza mauve che si dissolve al di là di alberature in movimento.
Come se tutto ciò non bastasse, io rappresento un bel caso di udito a colori. Forse «udito» non è la parola esatta, dato che la sensazione coloristica sembra essere determinata da una mia azione specifica per cui formo oralmente una data lettera mentre ne immagino il contorno. Per me, la lunga a dell'alfabeto inglese (ed è questo l'alfabeto che tengo presente da qui in avanti, a meno che non segnali altrimenti) assume la tinta del legno stagionato, ma una a francese mi evoca l'ebano lucente. La gamma dei neri comprende anche la g dura (gomma vulcanizzata) e la r (un cencio fuligginoso che viene lacerato). Il porridge della n, i flaccidi spaghetti della l, e lo specchio dal dorso d'avorio della o coprono la gamma dei bianchi. Resto perplesso davanti al mio on francese, che vedo come la tensione superficiale del liquore che riempie un bicchierino fino all'orlo. Passando al gruppo dei blu, ecco l'acciaio di una x, la nube temporalesca della z, e il mirtillo della k. Dato che tra suono e forma esiste una sottile interazione, vedo la q più marrone della k, mentre il celeste della s non è quello della c, ma un curioso miscuglio di azzurro e madreperla. Le tinte contigue non si fondono e i dittonghi non hanno colori propri, a meno che non siano rappresentati da un unico carattere in qualche altra lingua (così il grigio vaporoso della lettera russa a tre zampe che rende il suono s, lettera antica quanto le rapide del Nilo, ne influenza la rappresentazione in inglese).
Prima di venire interrotto mi affretto a completare la lista. Nel gruppo dei verdi c'è la foglia di ontano della f, la mela acerba della p e il pistacchio della t. Un verde opaco frammisto in qualche modo al violetto è quanto di meglio io riesca a fare per la w. I gialli comprendono varie e e i, la cremosa d, l'orosplendente della y, e la u, il cui valore alfabetico posso solo esprimere come «ottone con riflessi oliva». Il gruppo dei marroni comprende i ricchi toni gommosi della g dolce, quelli più pallidi della j, e lo sfibrato laccio da scarpe della h. Infine, tra i rossi, la b ha quella sfumatura che i pittori chiamano terra di Siena, la m è un panneggio di flanella rosa, e oggi ho finalmente abbinato alla perfezione la v con il del Dizionario del colore di Maerz e Paul Nella mia lingua privata, la parola che sta per arcobaleno – un arcobaleno di colori primari ma decisamente smorti – è difficilmente pronunciabile:
kzspygu. Il primo che si occupò di audition colorée fu, per quanto ne so, un medico albino di Erlangen, nel 1812.
A tutti coloro che sono protetti contro spifferi e correnti d'aria di tal fatta grazie a mura più solide delle mie, le confessioni di un sinesteta devono apparire tediose e pretenziose. A mia madre, però, tutto questo sembrava assolutamente normale. La questione saltò fuori quando avevo sette anni, un giorno in cui stavo costruendo una torre con i vecchi cubi dell'alfabeto. Le feci notare di sfuggita che i colori erano tutti sbagliati. Fu allora che scoprimmo che alcune sue lettere avevano la stessa tinta delle mie e che, inoltre, le note musicali le suscitavano impressioni ottiche. In me, quelle note non evocavano alcun cromatismo. La musica, mi dispiace dirlo, mi giunge solo come una sequenza arbitraria di suoni più o meno irritanti. In determinate condizioni emotive riesco a sopportare gli spasimi di un vibrante violino, ma il pianoforte da concerto e tutti gli strumenti a fiato assunti in piccole dosi mi annoiano, e in dosi maggiori mi scorticano vivo. Nonostante venissi sottoposto, ogni inverno, a numerosi spettacoli d'opera (devo aver visto Ruslan e Pikovaja dama almeno una dozzina di volte nel corso di anni che saranno stati pari alla metà di quel numero), la mia già debole reazione alla musica era completamente sopraffatta dal tormento visivo di non essere in grado di leggere il libro di Pimén da dietro le sue spalle, o di cercare invano di figurarmi le sfingidi nella fiorita oscurità del giardino di Giulietta.
Mia madre fece di tutto per incoraggiare quella mia indeterminata inclinazione a percepire gli stimoli visivi. Quanti acquerelli dipinse per me, e che rivelazione quando mi mostrò l'albero di lillà che nasce dalla miscela di blu e rosso! A volte, nella nostra casa di San Pietroburgo, da uno scomparto segreto nel muro del suo spogliatoio (stanza dove io ero nato), tirava fuori un mucchio di gioielli per divertirmi quando si avvicinava l'ora di andare a letto. Ero molto piccolo, allora, e l'incanto e il mistero di tiare scintillanti, anelli e collier non mi parevano affatto inferiori a quelli delle luminarie cittadine in occasione delle feste imperiali quando, nell'ovattato silenzio della notte gelata, giganteschi monogrammi, corone e altri simboli araldici disegnati da lampadine colorate – zaffiro, smeraldo, rubino – risplendevano con una sorta di magico riserbo sopra i cornicioni orlati di neve dei palazzi lungo le vie residenziali.
2
Le mie numerose malattie infantili fecero sì che mia madre e io ci avvicinassimo ancora di più l'una all'altro. Da piccolo, dimostrai di avere una propensione fuori dal comune per la matematica, che persi del tutto nel corso di un'adolescenza singolarmente priva di doti. Quel dono ebbe un ruolo orribile nelle mie zuffe con l'angina o con la scarlattina, quando sentivo sfere enormi e numeri immensi gonfiarsi senza sosta nel cervello dolorante. Uno sciocco precettore mi aveva spiegato i logaritmi troppo presto, e avevo letto (in un periodico britannico, «Il giornale del ragazzo», credo) di un certo indù che era in grado di calcolare, in due secondi esatti, la radice diciassettesima di, diciamo, 3529471145760275132301897342055866171392 (non sono sicuro di aver azzeccato la cifra; comunque la radice era 212). Questi erano i mostri che allignavano nel mio delirio, e l'unico modo per impedire loro di spingermi fuori da me stesso era di ucciderli estraendone il cuore. Ma erano davvero troppo forti, e io mi rizzavo a sedere mettendo faticosamente insieme frasi ingarbugliate, nel tentativo di spiegare le cose a mia madre. Sotto la superficie del mio delirio, riconosceva sensazioni a lei ben note, e il suo comprendere riconduceva il mio universo in espansione a un ordine newtoniano.
Il futuro specialista di quel tedioso genere letterario che è l'autoplagio amerà collazionare l'esperienza del protagonista del mio romanzo II dono con l'evento originale. Un giorno che me ne stavo a letto ancora molto debole dopo una lunga malattia, mi ritrovai a crogiolarmi in un'inconsueta euforia di leggerezza e quiete. Sapevo che mia madre era andata a comperare il regalo quotidiano che rendeva le mie convalescenze così deliziose. Quale sarebbe stato questa volta non riuscivo a indovinare, ma attraverso il cristallo di quel mio stato stranamente traslucido ebbi la visione vivida di lei che percorreva via Morskaja in direzione della Prospettiva Nevskij. Distinguevo la slitta leggera tirata da un sauro. Sentivo lo sbuffare dell'animale, lo schioccare ritmico dello scroto, e i tonfi delle zolle di terra gelata e neve contro la parte anteriore della slitta. Davanti ai miei occhi e a quelli di mia madre si profilava la schiena del cocchiere nel suo pastrano di colore turchino, foderato d'ovatta, e l'orologio nella custodia di cuoio (le due e venti) assicurato al retro della cintura, al di sotto della quale si incurvavano i corrugamenti, simili a quelli delle zucche, del suo enorme sedere imbottito. Vedevo la pelliccia di foca di mia madre e, mano a mano che la gelida velocità aumentava, il manicotto che lei sollevava all'altezza del volto – il gesto aggraziato di una dama di San Pietroburgo durante un'uscita invernale. Due lembi della voluminosa coperta di pelle d'orso che la riparava fino alla cintola erano fissati, per mezzo di occhielli, ai pomi laterali del basso schienale a cui si appoggiava. E dietro di lei, tenendosi a quei pomi, un valletto con cappello adorno di coccarda stava ritto tra le estremità posteriori dei pattini sullo stretto supporto a lui riservato.
Sempre osservando la slitta, la vidi fermarsi da Treumann (articoli di cancelleria, ninnoli in bronzo, carte da gioco). Poco dopo mia madre uscì dal negozio seguita dal valletto. Il quale reggeva in mano ciò che lei aveva appena acquistato, e che mi sembrò una matita. Ero sbalordito che non fosse lei stessa a portare un oggetto così minuscolo, e questo sgradevole problema di dimensioni mi provocò una lieve ripresa, fortunatamente brevissima, di quelli effetto dilatatorio della mente» che speravo svanito insieme alla febbre. Mentre le veniva rimboccata di nuovo la coperta sulla slitta, osservavo il vapore che esalavano tutti, cavallo compreso. Osservavo inoltre quel familiare sporgere delle labbra con cui lei allentava la rete della veletta troppo tesa sul volto, e, mentre scrivo tutto questo, il tocco di quel reticolo di tenerezza che le mie labbra avvertivano quando baciavo la sua guancia velata torna fino a me – vola fino a me con un grido di gioia, fuori dalle finestre azzurre (le tende non sono ancora state tirate) del mio passato azzurro neve.
Dopo qualche minuto lei entrò nella stanza. Teneva tra le braccia un grosso pacco. Nella mia visione, la mole del pacco era stata ridotta di molto, forse perché avevo subliminalmente corretto quelli che, stando alla logica, potevano ancora essere i temuti residui di un mondo dilatato dal delirio. Ora quell'oggetto si rivelava una gigantesca matita Faber poligonale, lunga più di un metro e venti e spessa in proporzione. Era stata esposta per réclame nella vetrina del negozio, sospesa a mezz'aria, e lei aveva immaginato che io la desiderassi ardentemente, come mi accadeva con tutte quelle cose che non si potevano acquistare. Il negoziante era stato costretto a telefonare a un agente, tale «Dottor» Libner (come se la transazione avesse sul serio una qualche rilevanza patologica). Per un attimo terribile mi chiesi se la punta fosse davvero di grafite. Sì, lo era. E alcuni anni dopo, praticandovi un buco di lato, ebbi la soddisfazione di constatare che la mina correva per tutta la lunghezza: un esempio perfetto di arte per l'arte concepito dalla Faber e dal Dottor Libner, visto che la matita era troppo grande per l'uso e, comunque, non era stata fabbricata per quello scopo.
«Ah, sì» mi diceva, ogni volta che le parlavo di questa o quella sensazione insolita. «Sì, lo so, lo so» e, con un candore in qualche modo inquietante, si metteva a discutere di cose quali la seconda vista, i colpetti battuti sul legno di tavolini a tre gambe, le premonizioni e la sensazione di déjà vu. Una vena di spirito settario correva attraverso tutta la sua ascendenza. Andava in chiesa solo durante la Quaresima e a Pasqua. La sua inclinazione scismatica si manifestava nella salutare avversione per i rituali della Chiesa Greco-Ortodossa e per i suoi ministri. Era profondamente attratta dal messaggio morale e poetico dei Vangeli, ma non sentiva il bisogno di abbracciare alcun dogma. L'incertezza spaventosa circa una vita ultraterrena con la relativa mancanza di privacy non rientrò mai tra i suoi pensieri. La sua religiosità intensa e pura si traduceva nel nutrire pari fede nell'esistenza di un altro mondo e nell'impossibilità di riuscire a comprenderlo in termini di vita terrena. L'unica cosa che possiamo fare è intravedere, in mezzo a caligini e chimere, qualche cosa di reale davanti a noi, così come le persone dotate di un'attività mentale diurna singolarmente persistente riescono a percepire, nella fase più profonda del sonno, al di là degli spasimi di un incubo confuso e assurdo, l'ordinata realtà della veglia.
3
Amare con tutta l'anima e lasciare il resto al fato era la semplice regola a cui lei si atteneva. «Vot zapomni (ricordatene)» diceva in tono cospirativo, mentre attirava la mia attenzione su questa o quella cosa prediletta a Vyra: un'allodola che si alzava nel cielo color latte rappreso di un giorno velato di primavera, i lampi di calura che scattavano fotografie a un lontano filare di alberi nella notte, la tavolozza di foglie d'acero sullo sfondo giallo scuro della sabbia, le impronte cuneiformi di un uccellino sulla neve fresca. Dedicava un'attenzione straordinaria ai diversi segni che il tempo disseminava per tutta la nostra tenuta, come se sentisse che, nell'arco di qualche anno, la parte tangibile del suo mondo sarebbe perita. Venerava il proprio passato con lo stesso fervore retrospettivo che io ora riservo a lei e al mio passato. Cosi, in un certo senso, ho ereditato da lei un raffinato simulacro – la bellezza di possedere l'intangibile, i beni immateriali –, e ciò si è rivelato uno splendido allenamento per sopportare le perdite successive. Le speciali etichette e tracce da lei lasciate mi sono divenute care e sacre quanto lo erano per lei. La stanza un tempo riservata all'hobby preferito di sua madre, un laboratorio chimico; il tiglio che, sul margine della strada in salita verso il villaggio di Gijazno (accento sull'ultima), ne segnalava il tratto più ripido, dove era meglio, come diceva mio padre, appassionato ciclista, prendere la «bicicletta per le corna» (byka za roga), e dove lui le aveva chiesto di sposarlo; e, all'interno del cosiddetto «vecchio» parco, il campo da tennis in disuso, ora dominio di muschi, talpe e funghi, che negli anni Ottanta e Novanta era stato luogo di allegri incontri (perfino l'arcigno padre di lei si toglieva la giacca, agitando nell'aria la racchetta più pesante per valutarne le caratteristiche) ma che, già al tempo dei miei dieci anni, la natura aveva fatto sparire con l'efficienza di un cancellino di feltro che strofini via un problema di geometria.
A quei tempi, all'estremità della parte «nuova» del parco, operai specializzati fatti venire appositamente dalla Polonia avevano già costruito un ottimo campo moderno. Un'estesa recinzione di rete metallica lo separava dai terreni fioriti che ne incorniciavano il fondo di terra battuta. Dopo una notte di umidità, la superficie acquistava una lucentezza brunastra e le linee bianche venivano ridipinte con il gesso liquido che stava nel secchio verde di Dmitrij, il più vecchio e il più basso dei nostri giardinieri, un nano dall'indole mite, stivali neri e camicia rossa, che procedeva arretrando lentamente, tutto raggomitolato, mentre il suo pennello ripassava le linee. Una siepe di maggiociondolo (l'«acacia gialla» della Russia settentrionale), con un varco al centro, in corrispondenza della porta d'accesso al campo, correva parallela alla recinzione e a un sentiero soprannominato tropinka Sfinksov («sentiero delle Sfingidi») per via delle farfalle testa di morto che al crepuscolo facevano visita ai vaporosi lillà lungo la bordura di fronte alla siepe, anch'essa interrotta nel mezzo. Quel sentiero formava la barra di una grande T, la cui verticale era costituita dal viale di querce snelle, coetanee di mia madre, che attraversava (come ho già detto) il parco nuovo per tutta la sua lunghezza. Guardando quel viale dalla base della T, vicino al viale d'accesso, si riusciva a distinguere perfettamente il piccolo varco luminoso lontano cinquecento metri, o cinquant'anni, da dove ora mi trovo. Il precettore del momento oppure mio padre, quando restava in campagna con noi, avevano mio fratello come compagno fisso in quegli umorali doppi di famiglia. «Servizio!» gridava mia madre alla vecchia maniera, portando in avanti il suo piccolo piede e inclinando il capo incorniciato da un bianco cappello per eseguire una battuta diligente ma fiacca. Io mi arrabbiavo facilmente con lei, e lei con i raccattapalle, due ragazzotti di campagna scalzi (il nipote di Dmitrij dal naso rincagnato e il fratello gemello della graziosa Polen'ka, la figlia del capococchiere). Con l'avvicinarsi del tempo della mietitura, l'estate nordica si faceva tropicale. Un paonazzo Sergej si ficcava la racchetta tra le ginocchia per asciugarsi laboriosamente gli occhiali. Vedo il mio retino da farfalle appoggiato contro la recinzione – per ogni evenienza. Aperto su una panchina c'è il libro di Wallis Myers dedicato al tennis su prato, e, a ogni scambio, mio padre (giocatore di prim'ordine, con un servizio che era una palla di cannone stile Frank Riseley, e uno splendido lifting drive), si informa pedante da me e da mio fratello se sia disceso su di noi quel particolare stato di grazia che è «l'accompagnamento del colpo». E a volte un portentoso scroscio di pioggia ci obbligava ad accalcarci sotto una tettoia in un angolo del campo, mentre il vecchio Dmitrij veniva spedito a casa a prendere ombrelli e impermeabili. Dopo un quarto d'ora riappariva, sotto una montagna di capi d'abbigliamento, nella prospettiva del lungo viale che, mentre lui avanzava, andava recuperando le sue chiazze a pelle di leopardo, con il sole di nuovo sfolgorante e l'enorme carico ormai superfluo.
Mia madre amava ogni tipo di gioco, sia di destrezza sia d'azzardo. Sotto le sue mani esperte, le migliaia di tessere di un puzzle formavano a poco a poco una scena di caccia in Inghilterra; quello che era sembrato l'arto di un cavallo si rivelava parte di un olmo, e quel pezzo fin lì non collocabile andava a incastrarsi comodamente in uno spazio vuoto dello sfondo variegato, regalando il brivido sottile di una soddisfazione astratta e al tempo stesso tattile. Ci fu un periodo in cui si appassionò al poker, approdato nel bel mondo di San Pietroburgo attraverso gli ambienti diplomatici, ragion per cui alcune combinazioni conservavano graziosi nomi francesi – brelan per «tris», couleurper «colore» e così via. La versione in uso era il classico draw poker con l'aggiunta, di tanto in tanto, di aperture supplementari ai jack o di jolly tuttofare. In città, giocava spesso a poker in casa di amici fino alle tre del mattino, svago mondano degli ultimi anni alla vigilia della prima guerra mondiale; e in seguito, durante l'esilio (con la stessa meraviglia e sbigottimento con cui le tornava alla mente il vecchio Dmitrij), si immaginava Pirogov, lo chauffeur, ancora ad attenderla nel gelo implacabile di una notte senza fine, per quanto, nel caso dello chauffeur, un bicchiere di tè corretto al rum in qualche cucina ospitale dovesse aver fatto molto per alleviare i disagi di quelle veglie.
D'estate, uno dei suoi piaceri più grandi era quello sport molto russo che è chodit'po grìby (andare a funghi). Fritti nel burro e accompagnati da panna acida, i suoi squisiti bottini facevano la loro puntuale comparsa a tavola. Non che il momento della degustazione le importasse molto. Il divertimento principale stava nella ricerca, e quella ricerca aveva le sue regole. Così, gli agarici non venivano colti; si limitava soltanto alle specie che appartenevano alla categoria commestibile del genere Boletus (edulis fulvo, scaber marrone, aurantiacus rosso, e altri alleati stretti), chiamati da alcuni «funghi a tubuli» e freddamente definiti dai micologi «terrestri, carnosi, putrescenti, con stipite al centro». I loro compatti pilei – striminziti negli esemplari appena nati, gagliardi e ghiottamente a cupola in quelli maturi – hanno la faccia inferiore liscia (non lamellata) e il gambo forte e ben proporzionato. Nella classica semplicità della loro forma, i boleti differiscono notevolmente dai «veri funghi», con le loro assurde lamelle e l'anello delle stipole sfibrato. E, però, a questi ultimi, agli umili e brutti agarici, che le nazioni dalle papille gustative pavide limitano le loro conoscenze e il loro appetito, così che, alla mente profana degli angloamericani, gli aristocratici boleti appaiono, nel migliore dei casi, funghi velenosi emendati.
Nel nostro parco, soprattutto nella parte vecchia, a est del viale carrozzabile che lo divideva in due, sotto gli olmi, le betulle e i pioppi il tempo piovoso faceva spuntare una profusione di questi magnifici vegetali. I suoi ombrosi recessi ospitavano allora quel particolare lezzo boletico che fa dilatare ogni narice russa – una buia, umida, appagante miscela di muschio madido, terriccio fertile e foglie marce. Ma dovevi frugare e sbirciare un bel po' nel sottobosco bagnato prima di riuscire a scoprire e a districare con delicatezza dal suolo qualche cosa di veramente bello, come una famiglia di teneri piccoli edulis in cuffietta o la varietà marezzata degli scaber.
Nei pomeriggi nuvolosi, tutta sola sotto una pioggerellina sottile, mia madre partiva per un lungo giro di ricerca, con un cestino (macchiato all'interno del blu dei mirtilli raccolti da qualcun altro). Verso l'ora di cena la si vedeva emergere dalle nebulose profondità di un vialetto del parco, la figura minuta coperta da un mantello e da un cappuccio di lana marroneverdastra su cui innumerevoli goccioline di umidità avevano formato un alone nebbioso che le fluttuava intorno. Via via che mi si avvicinava sotto gli alberi stillanti di pioggia e mi scorgeva, sul suo viso appariva una strana espressione malinconica, che avrebbe potuto indicare scarsa fortuna, ma che io riconoscevo come la felicità piena e gelosamente custodita del cacciatore vittorioso. Subito prima di raggiungermi, con un improvviso abbassarsi delle braccia e delle spalle e un «puf!» di spossatezza esagerata, lasciava andare il cestino come a sottolinearne il peso, la fantastica abbondanza.
Nei pressi di una panchina bianca, su un tavolo da giardino rotondo, di ferro, disponeva i boleti secondo cerchi concentrici per farne la conta e la cernita. I più vecchi, dalla polpa spugnosa e nerastra, venivano eliminati, rimanevano solo quelli giovani e croccanti. Per un attimo, prima che un domestico li andasse a riporre in un luogo di cui lei nulla sapeva, condannati a una fine cui non era affatto interessata, lei se ne stava lì ad ammirarli, in un'aura di placida soddisfazione. Come spesso alla fine di un giorno di pioggia, il sole poteva irradiare un bagliore livido subito prima di sparire, e lì, sull'umido tavolò rotondo, se ne stavano i suoi funghi dai molti colori, alcuni con tracce di vegetazione estranea – un filo d'erba appiccicato a una viscida cappella fulva, o un po' di muschio che ancora rivestiva la base bulbosa di un gambo punteggiato di scuro. E c'era anche un minuscolo bruco della famiglia dei Geometridi che misurava, come fa un bambino con il pollice e il mignolo, la circonferenza del tavolo, stirandosi talvolta verso l'alto nella cieca, vana ricerca del cespuglio dal quale era stato sloggiato.
4
La cucina e la sala della servitù non solo non rientravano fra i luoghi della casa visitati da mia madre, ma erano rimossi dalla sua coscienza come se fossero state le stanze di un albergo. Neanche mio padre aveva alcuna attitudine alla conduzione della casa. Però ordinava i pasti. Apriva con un lieve sospiro una specie di album che il maggiordomo aveva poggiato sul tavolo dopo il dessert, e con la sua calligrafia sciolta ed elegante scriveva il menu del giorno dopo. Aveva la curiosa abitudine di far oscillare la matita o la stilografica proprio sopra al foglio mentre rifletteva sul flusso ondulato di parole che sarebbe seguito. Alle sue proposte mia madre annuiva in segno di vago consenso oppure faceva una smorfia. Ufficialmente, la gestione della casa era nelle mani della sua ex balia, a quel tempo una vecchia stordita e incredibilmente rugosa (nata in condizione servile intorno al 1830), dal viso minuto di tartaruga malinconica e grandi piedi dal passo strascicato. Indossava un vestito marrone di foggia monacale ed emanava un leggero ma indimenticabile olezzo di caffè e di putredine. I suoi temuti auguri per i nostri compleanni e onomastici consistevano nel bacio sulla spalla tipico della servitù della gleba. Con l'età era diventata di una tirchieria patologica, soprattutto riguardo allo zucchero e alle conserve di frutta, ragion per cui, un po' alla volta e con il benestare dei miei genitori, erano entrate silenziosamente in vigore regole domestiche diverse che a lei venivano taciute. Senza saperlo (saperlo le avrebbe spezzato il cuore) era rimasta appesa, per così dire, all'anello del suo portachiavi, mentre mia madre faceva del suo meglio per dissipare con frasi rassicuranti i sospetti che di tanto in tanto balenavano nella mente indebolita della vecchia. Unica sovrana del suo piccolo regno remoto e ammuffito, che lei considerava il mondo reale (saremmo morti tutti di fame se così fosse stato), era seguita dagli sguardi derisori dei servitori e delle cameriere mentre arrancava con determinazione lungo i corridoi per andare a riporre una mezza mela o due avanzi di biscotti petit-beurre che aveva trovato in un piatto.
Nel frattempo, con un personale di servizio fisso che arrivava a una cinquantina di persone e senza che venissero poste domande, le nostre residenze di città e di campagna erano teatro di un carosello mirabolante di ruberie. Di queste, secondo certe vecchie zie ficcanaso cui nessuno prestava orecchio ma che alla fine si rivelarono del tutto attendibili, il capocuoco Nikolaj Andreevic e il primo giardiniere Egor – ambedue persone dall'aria posata, con tanto di occhiali, e con le tempie canute dei fidi dipendenti – erano le menti direttive. Di fronte agli strabilianti e incomprensibili conti, o a un'improvvisa estinzione di fragole in giardino o di pesche nella serra, mio padre, giurista e uomo di Stato, si sentiva assalito da un'irritazione di natura professionale, dovuta al fatto di non riuscire a controllare l'amministrazione della sua stessa casa; ma ogni volta che un intricato caso di furto veniva alla luce, i dubbi e gli scrupoli legali gli impedivano di correre ai ripari. Al momento in cui il buonsenso avrebbe richiesto di licenziare un servo disonesto, era quanto mai probabile che il figlioletto di quest'ultimo si ammalasse gravemente, e la decisione di convocare il miglior medico della città cancellava ogni altra considerazione. Così, tra una cosa e l'altra, mio padre preferiva lasciare l'intero governo della casa in uno stato d'equilibrio precario (non privo di un certo tacito umorismo), con mia madre che traeva notevole conforto dalla speranza che il mondo illusorio della sua vecchia balia non venisse distrutto.
Mia madre sapeva bene quanto le illusioni infrante potessero causare dolore. Per lei la delusione più insignificante assumeva le dimensioni di una catastrofe di prima grandezza. Una vigilia di Natale, a Vyra, non molto prima della nascita del suo quarto bambino, una lieve indisposizione la costrinse a letto, al che lei fece promettere a me e a mio fratello (sei e cinque anni rispettivamente) di non guardare nelle calze di Natale che il mattino seguente avremmo trovato appese alle colonne dei nostri letti a baldacchino, ma di portarle invece in camera sua, dove le avrebbe esaminate con noi, così da poter osservare la nostra gioia e goderne. Una volta svegli, dopo una furtiva consultazione, mio fratello e io ci demmo a tastare con mani avide ciascuno la propria calza gioiosamente crepitante, piena di regalini; quindi, con cautela, li tirammo fuori uno a uno, ne sciogliemmo i nastri, li svolgemmo dalla carta velina, ispezionammo ogni cosa alla fioca luce che filtrava da una fessura degli scuri, impacchettammo di nuovo gli oggettini e li cacciammo là dove erano stati trovati. Nel ricordo seguente ci siamo noi due, seduti sul letto di nostra madre, con in mano quelle calze bitorzolute, che facciamo del nostro meglio per recitare la scena che lei si aspetta di vedere; ma il disordine dei pacchetti, l'imperizia dilettantesca della nostra sorpresa e del nostro entusiasmo sono tali (rivedo mio fratello che alza gli occhi al cielo ed esclama, a imitazione della governante francese, «Ah, que c'est beau!») che, dopo averci osservati un attimo, la nostra spettatrice prorompe in lacrime. Trascorse un decennio. Scoppiò la prima guerra mondiale. Una folla di patrioti e lo zio Ruka presero a sassate l'ambasciata tedesca. Pietroburgo fu declassata a Pietrogrado contro ogni regola di priorità nomenclatoria. Risultò che Beethoven era olandese. I cinegiornali mostrarono fotogeniche esplosioni, gli spasmi di un cannone, Poincaré in gambali di cuoio, pozzanghere desolate, quel poverino dello zarevic in uniforme circassa con tanto di pugnale e cartucciera, le sue sorelle, alte e sciattamente abbigliate, lunghi convogli ferroviari stipati di truppe. Mia madre allestì un ospedale privato per i militari feriti. La rammento nella divisa da infermiera bianca e grigia, allora di moda, e da lei tanto aborrita, che denuncia con le stesse lacrime infantili l'incomprensibile mansuetudine di quei contadini mutilati e l'inutilità di una compassione part-time. E ancora dopo, in esilio, rivangando il passato si accusava spesso (a torto, per quanto posso vedere ora) di essersi commossa meno davanti all'infelicità umana che davanti al fardello emotivo che l'uomo rovescia sulla natura innocente: vecchi alberi, vecchi cavalli, vecchi cani.
Il suo speciale attaccamento ai bassotti tedeschi marroni destava perplessità nelle mie zie criticone.
Negli album di famiglia che illustrano gli anni della sua gioventù non c'è gruppo che non comprenda uno di questi animali: di solito con una parte del corpo flessibile che risulta mossa, e sempre con quello strano sguardo paranoico che hanno i bassotti nelle foto. Quand'ero bambino, un paio di obesi veterani, Box I e Loulou, si crogiolavano ancora al sole nel portico. Nel 1904, a una mostra canina a Monaco di Baviera, mio padre comprò un cucciolo che poi crebbe fino a diventare il nostro irascibile ma splendido Trainy (nome scelto da me perché era lungo e marrone come un vagone letto). Tra i temi musicali della mia infanzia c'è la lingua isterica di Trainy, scatenato sulla pista della lepre che non prese mai, nel folto del nostro parco di Vyra da cui faceva ritorno al crepuscolo (dopo che mia madre in ansia aveva fischiato per molto tempo nel viale di querce) con un vecchio cadavere di talpa tra le mandibole e brattee di bardana attaccate alle orecchie. Nel 1915 o giù di lì, le zampe posteriori gli si paralizzarono e continuò a trascinarsi penosamente per lunghi tratti di lustro parquet, come un cui dejatte, fino a quando non fu soppresso con il cloroformio. Quindi ci fu regalato un altro cucciolo, Box II, i cui nonni Quina e Brom erano appartenuti al dottor Anton Cechov. Quell'ultimo bassotto ci seguì in esilio e, fino al 1930, in un sobborgo di Praga (dove mia madre, vedova, trascorse i suoi ultimi anni grazie a una modesta pensione elargita dal governo ceco), lo si vedeva andare svogliatamente a passeggio insieme alla padrona, seguendola a una certa distanza con la sua andatura da papera, imbronciato, terribilmente vecchio e furioso nei confronti della sua oblunga museruola cecoslovacca di metallo: un cane émigré in un rattoppato cappottino che non era della sua misura.
Negli ultimi due anni di Cambridge, io e mio fratello passavamo le vacanze a Berlino, dove i nostri genitori, con le due ragazze e Kirill che aveva dieci anni, vivevano in uno di quegli appartamenti vasti, tetri, decisamente borghesi che ho assegnato a tante famiglie émigré nei miei romanzi e racconti. La sera del 28 marzo 1922, verso le dieci, nel salotto in cui come d'abitudine mia madre se ne stava distesa sul divano d'angolo di felpa rossa, io leggevo per lei i versi di Blok sull'Italia – ero appena arrivato alla fine della breve poesia su Firenze, che Blok paragona a un delicato iris color fumo, e lei diceva, seguitando a lavorare a maglia: «Sì, sì, Firenze sembra proprio un dymnyj iris, com'è vero! Mi ricordo…» – quando il telefono squillò.
Dopo il 1923, allorché si trasferì a Praga, mentre io vivevo in Germania e in Francia, non fui in grado di farle visita spesso, né le fui vicino al momento della morte, avvenuta alla vigilia della seconda guerra mondiale. Ogni volta che riuscivo ad andare a Praga c'era immancabilmente quella fitta iniziale che si avverte un attimo prima che il tempo, colto alla sprovvista, indossi di nuovo la sua maschera consueta. Nell'alloggio miserando dove viveva con la sua più cara dama di compagnia, Evgenija Konstantinovna Hofeld (1884-1957), che nel 1914 aveva preso il posto di Miss Greenwood (che a sua volta aveva preso il posto di Miss Lavington) in qualità di governante delle mie due sorelle (Ol'ga, nata il 5 gennaio 1903 ed Elena, nata il 31 marzo 1906), sparsi intorno a lei, su pezzi scompagnati di decrepito mobilio di seconda mano, c'erano album in cui, negli ultimi anni, aveva copiato le sue poesie preferite, da Majkov a Majakovskij. Un gesso della mano di mio padre e un acquerello della sua tomba nel cimitero greco-ortodosso di Tegel, ora a Berlino Est, convivevano su uno scaffale con libri di scrittori émigré, già inclini a disintegrarsi nelle loro copertine di carta dozzinale. Su una cassa da imballaggio ricoperta da un panno verde si allineavano, dentro cornici cadenti, le piccole fotografie scolorite che amava tenersi vicino al letto. In realtà non ne aveva bisogno, poiché niente era andato perduto. Come gli attori di una compagnia di giro si portano appresso dovunque, finché ricordano le battute, una brughiera spazzata dal vento, un castello immerso nelle brume, un'isola incantata, così lei serbava tutto quanto la sua anima aveva immagazzinato. La vedo con estrema chiarezza seduta al tavolo mentre studia serena le carte scoperte di un solitario: si appoggia al gomito sinistro e preme contro la guancia il pollice libero della mano sinistra che, vicino alla bocca, regge una sigaretta, mentre la mano destra si protende verso la carta successiva. Il duplice luccichio sull'anulare sinistro viene da due fedi – la sua e quella di mio padre che, troppo larga, è legata all'altra da un lembo di filo nero.
Ogni qualvolta i morti mi appaiono in sogno, sono sempre muti, infastiditi, stranamente depressi, molto diversi da quegli esseri vivaci e affettuosi che erano in vita. Li ritrovo, senza il minimo stupore, in circostanze che essi non hanno mai vissuto nel corso dell'esistenza terrena, in casa di qualche mio amico che non hanno mai conosciuto. Se ne stanno seduti discosti, fissando accigliati il pavimento, come se la morte fosse un'onta, un vergognoso segreto di famiglia. Non è certo allora – non in quei sogni – ma piuttosto quando si è ben desti, nei momenti di gioia intensa e di vera conquista, quando ci si trova sul più alto terrazzo della coscienza, che la caducità ha modo di scrutare oltre i propri limiti, dall'albero di maestra, dal castello del passato, dall'alto della torre. E pur non riuscendo a vedere molto attraverso la foschia, si ha in qualche modo la sensazione beata di guardare nella direzione giusta.
TRE
1
Un araldista inesperto somiglia al viaggiatore medioevale che riporta con sé dall'Oriente fantasie faunistiche influenzate dai bestiari domestici che egli possiede da sempre piuttosto che dai risultati di esplorazioni zoologiche condotte in prima persona. Così, nella precedente versione di questo capitolo, descrivendo lo stemma araldico dei Nabokov (intravisto distrattamente molti anni prima tra alcune futili cose di famiglia), ero riuscito in qualche modo a distorcerlo nel portento intimistico di due orsi in posa accanto a una grande scacchiera di cui reggono le estremità. Adesso che ho controllato quel blasone eccomi deluso nel constatare che il tutto si riduce a un paio di leoni – bestie di colore brunastro, magari un po' troppo villose ma non proprio orsine – che, rampanti e addossati di profilo, si leccano i baffi e mostrano con arroganza lo scudo dello sfortunato cavaliere, pari soltanto a un sedicesimo di una scacchiera, dove si alternano smalti azzurri e rossi, e un'argentea croce trifogliata campeggia in ogni riquadro. Nella parte superiore si vede quel che resta del cavaliere: l'elmo coriaceo e l'immangiabile gorgiera, insieme a un impavido braccio che spunta da una decorazione fronzuta, rossa e azzurra, brandendo ancora una corta spada. Za chrabrost', «al valore» dice il motto.
Stando a un cugino primo di mio padre, Vladimir Viktorovic Golubcov, appassionato di antichi usi e costumi russi e da me consultato nel 1930, il capostipite della nostra famiglia fu Nabok Murza (floruit 1380), principe tataro russizzato della Moscovia. Il mio cugino primo, Sergej Sergeevic Nabokov, erudito genealogista, mi informa che nel XV secolo i nostri antenati possedevano terre nel principato di Mosca. Egli mi rimanda a un documento (pubblicato da Juskov in Atti dei secoli XIII-XVII, Mosca, 1899) relativo a una controversia rurale che il possidente Kuljakin ebbe con i suoi vicini Filat, Evdokim e Vlas, figli di Luka Nabokov, nell'anno 1494, sotto il regno di Ivan III. Nei secoli successivi, i Nabokov furono funzionari governativi e uomini d'arme. Il mio trisavolo, il generale Aleksandr Ivanovic Nabokov (1749-1807), sotto il regno di Paolo I comandò il reggimento di guarnigione a Novgorod, chiamato nei documenti ufficiali «Reggimento Nabokov». Il figlio minore, il mio bisnonno Nikolaj Aleksandrovic Nabokov, era un giovane ufficiale di marina che nel 1817, sotto il comando del capitano (in seguito viceammiraglio) Vasilij Michajlovic Golovnin, partecipò, in compagnia del barone von Wrangel e del conte Litke, futuri ammiragli, a una spedizione per il rilevamento topografico della Nova Zembla (fra i tanti luoghi possibili), dove in suo onore un corso d'acqua venne chiamato «Fiume Nabokov». A preservare il ricordo del capo di quella spedizione vi sono un bel po' di toponimi, uno tra i tanti è la laguna di Golovnin, nella penisola di Seward, Alaska occidentale, da cui proviene una farfalla, Parnassius phoebus golovinus (che si aggiudica un bel sic), descritta dal dottor Holland; ma il mio bisnonno non ha altro di cui fregiarsi se non quel fiumicello molto blu, un blu quasi indaco, un blu addirittura sdegnato, serpeggiante tra umide rocce, poiché presto egli abbandonò la Marina, n'ayantpas lepied, marin (stando a quanto dice quel mio cugino Sergej Sergeevic), per passare alle Guardie di Mosca. Sposò Anna Aleksandrovna Nazimov (sorella del decabrista). Della sua carriera militare io non so nulla; qualunque essa fosse, Nikolaj Aleksandrovic non sarebbe riuscito a reggere il confronto con il fratello, Ivan Aleksandrovic Nabokov (1787-1852), eroe delle guerre napoleoniche e, in vecchiaia, comandante della Fortezza Pietro e Paolo a San Pietroburgo, dove (nel 1849) era rinchiuso anche Dostoevskij, l'autore del Sosia, ecc., al quale il gentile generale prestava dei libri. Più interessante, però, è il fatto che fosse sposato con Ekaterina Puscin, sorella di Ivan Puscin, compagno di scuola e amico intimo di Puskin. Attenti, tipografi: due «se» e uno «sk».
Mio nonno paterno, Dmitrij Nabokov (1827-1904), nipote di Ivan e figlio di Nikolaj, fu per otto anni ministro della Giustizia, sotto due zar. Sposò (24 settembre 1859) Marija, figlia diciassettenne del barone Ferdinand Nicolaus Viktor von Korff (1805-1869), generale tedesco al servizio della Russia.
Nelle vecchie famiglie tenaci alcuni tratti somatici continuano a ripresentarsi come elementi indicatori e marchi di fabbrica. Il naso Nabokov (per esempio quello di mio nonno) è del tipo russo, con la punta all'insù morbida e tondeggiante e la sella leggermente avvallata di profilo; il naso Korff (per esempio il mio), è un bell'organo tedesco, con un ponte arditamente ossuto e una punta carnosa leggermente inclinata e marcatamente scanalata. I Nabokov dall'aria sorpresa o altera hanno sopracciglia ascendenti folte solo in prossimità del punto di congiunzione, e che quindi si diradano verso le tempie; quelle dei Korff, pur essendo più elegantemente arcuate, sono altrettanto rade. Per il resto, mentre retrocedono lungo la pinacoteca del tempo inghiottiti dalle ombre, i Nabokov vanno presto a raggiungere gli sfuocati Rukavisnikov, di cui ho conosciuto soltanto mia madre e suo fratello Vasilij, un campione troppo esiguo per i miei scopi presenti. Per altro, ho una visione molto chiara delle donne del ramo Korff, belle ragazze tutte gigli e rose, con le loro alte, colorite pommettes, gli occhi azzurro pallido e quel neo sulla guancia, simile a una macchiolina, che mia nonna, mio padre, tre o quattro suoi fratelli e sorelle, alcuni dei miei venticinque cugini, la mia sorella minore e mio figlio Dmitri hanno tutti ereditato con vari gradi di intensità, più o meno come copie diverse della stessa stampa.
Il mio bisnonno tedesco, il barone Ferdinand von Korff, che sposò Nina Aleksandrovna Siskov (1819-1895), nacque a Kònigsberg nel 1805 e, dopo una carriera militare di successo, morì nel 1869 nei possedimenti di sua moglie sul Volga, presso Saratov. Era nipote di Wilhelm Cari, barone von Korff (1739-1799) e di Eleonore Margarethe, baronessa von der Osten-Sacken (1731-1786), e figlio di Nicolaus von Korff (m. 1812), maggiore dell'esercito prussiano, e di Antoinette Theodora Graun (m. 1859), nipote del compositore Cari Heinrich Graun.
La madre di Antoinette, Elisabeth, née Fischer (nel 1760), era la figlia di Regina, nata Hartung (1732-1805), figlia a sua volta di Johann Heinrich Hartung (1699-1765), a capo di una famosa casa editrice di Kònigsberg. Elisabeth era una bellezza famosa. Nel 1795, dopo il divorzio dal primo marito, lo Justizrat Graun, figlio del compositore, sposò il poeta minore Christian August von Stàgemann e fu, a detta della mia fonte tedesca, «l'amica materna» di uno scrittore molto più conosciuto, Heinrich von Kleist (1777-1811), che a trentatré anni si era follemente innamorato della figlia dodicenne di lei, Hedwig Marie (in seguito von Olfers). Si narra che avesse fatto visita alla famiglia per un addio prima di mettersi in viaggio alla volta di Wannsee – dove intendeva tener fede a un esaltante patto suicida con una signora malata – ma che non fosse stato ricevuto poiché a casa Stàgemann era giorno di bucato. Il numero e la varietà di contatti che i miei antenati ebbero con il mondo letterario sono veramente notevoli.
Cari Heinrich Graun, il bisnonno del mio bisnonno Ferdinand von Korff, era nato nel 1701, a Wahrenbrùck, in Sassonia. Suo padre, August Graun (nato nel 1670), esattore delle imposte (Kòniglicher Polnischer und Kurfurstlicher Sàchsischer Akziseneinnehmer: essendo l'Elettore in questione il suo omonimo, Augusto II, re di Polonia), discendeva da una lunga stirpe di pastori protestanti. Nel 1575, il trisavolo, Wolfgang Graun, era stato organista a Plauen (nei pressi di Wahrenbrùck), dove una statua del suo discendente, il compositore, abbellisce un giardino pubblico. Cari Heinrich Graun morì nel 1759, all'età di cinquantotto anni, a Berlino, dove diciassette anni prima il nuovo teatro dell'Opera era stato inaugurato dal suo Cesare e Cleopatra. Era uno dei più illustri compositori del tempo, addirittura il più grande, secondo i necrologisti locali, toccati nel profondo dal dolore del di lui regale mecenate. Di Graun esiste una raffigurazione (postuma): sta ritto a braccia conserte, in atteggiamento alquanto distaccato, nel quadro di Menzel dove si vede Federico il Grande suonare una composizione per flauto dello stesso Graun; riproduzioni del dipinto mi hanno seguito da un alloggio all'altro durante i miei anni d'esilio in Germania. Mi dicono che al castello di Sans-Souci a Potsdam esiste un quadro coevo che rappresenta Graun e sua moglie, Dorothea Rehkopp, seduti allo stesso clavicembalo. Le enciclopedie della musica riproducono spesso il ritratto che si trova all'Opera di Berlino, in cui lui è molto somigliante al compositore Nikolaj Dmitrievic Nabokov, mio cugino primo. Una piccola, divertente eco – con accompagnamento musicale di duecentocinquanta dollari – di tutti quei concerti sotto la volta affrescata di un passato corporativo, mi ha garbatamente raggiunto nella Heil-hitlerante Berlino del 1936, quando il lascito della famiglia Graun, in sostanza una collezione di graziose tabacchiere e altri adorabili gingilli il cui valore, dopo essere passato attraverso molti avatar nella Banca di Stato prussiana, si era ridotto a quarantatremila marchi (diecimila dollari circa), fu diviso tra i discendenti del provvido compositore: i clan von Korff, von Wissmann e Nabokov (una quarta linea, i conti Asinari di San Marzano, si era estinta).
Due baronesse von Korff hanno lasciato tracce negli archivi della polizia parigina. La prima, nata Anna-Christina Stegelman, figlia di un banchiere svedese, era la vedova del barone Fromhold Christian von Korff, colonnello dell'esercito russo, bis-prozio di mia nonna. Anna-Christina era inoltre la cugina o l'amichetta, o entrambe le cose, di un altro militare, il famoso conte Axel von Fersen; e fu lei, a Parigi, nel 1791, a prestare il suo passaporto e la sua carrozza da viaggio, nuova di zecca e costruita su ordinazione (un oggetto sontuoso, con alte ruote rosse, tappezzato in velluto bianco di Utrecht, dotato di cortine verde scuro e di ogni tipo di accessori, allora moderni, quali un vose de voyage), alla famiglia reale per la fuga a Varennes: la regina doveva passare per Anna-Christina e il re per il precettore dei due bambini. L'altra storia poliziesca riguarda una mascherata meno drammatica.
Più di un secolo fa, a Parigi, con l'avvicinarsi dell'ultima settimana di carnevale, il conte de Morny invitò a un ballo in maschera a casa sua «une noble dame que la Russie a prétée cet hiver à la France» (come riportato da Henrys nella rubrica Gaiette du Palais dell' «Illustration», 1859, p. 251). Si trattava di Nina, baronessa von Korff, di cui ho già parlato; la maggiore delle sue cinque figlie, Marija (1842-1926), avrebbe dovuto sposare, nel settembre dello stesso anno, il 1859, Dmitrij Nikolaevic Nabokov (1827-1904), un amico di famiglia, anche lui a Parigi in quel periodo. In vista del ballo, la dama ordinò per Marija e Ol'ga due costumi da fioraia, del costo di duecentoventi franchi l'uno. Quel prezzo, secondo il linguacciuto cronista dell'«Illustration», equivaleva a seicentoquarantatré giorni «de nourriture, de loyer et d'entretien du pére Crépin (vitto, alloggio e calzature)», il che sembra un po' strano. Una volta pronti i vestiti, Mme de Korff li trovò «trop décolletés» e si rifiutò di ritirarli. La sarta le inviò un suo huissier (esattore), ne seguì una brutta lite, e la mia brava bisnonna (bella, appassionata e, mi dispiace dirlo, di princìpi morali assai meno austeri di quanto il suo giudizio sulle scollature profonde lasciasse credere) citò la sarta per danni.
Asserì che le «demoiselles de magazin» che avevano effettuato la consegna erano «des péronnelles (sfrontate)» e, in risposta alla sua obiezione che quei vestiti erano troppo scollati per delle signore, «se sont permis d'exposer des théories égalitaires du plus mauvais gout (si sono permesse di sbandierare teorie egualitarie di pessimo gusto)»; sostenne che era ormai troppo tardi per far confezionare nuovi costumi e che le figlie non erano andate al ballo; accusò l'huissier e i suoi accoliti di essersi stravaccati sulle sedie imbottite invitando le signore a sedersi su quelle dure; inoltre protestò, furiosa e amareggiata, che l'huissier aveva addirittura minacciato di arrestare Monsieur Dmitri Nabokoff, «Conseiller d'Etat, homme sage et plein de mesure (uomo perbene ed equilibrato)» solo perché il gentiluomo suddetto aveva cercato di scaraventare Y huissier fuori della finestra. Non che fossero grandi argomenti, ma la sarta perse lo stesso la causa. Si riprese i vestiti, ne rimborsò il costo e pagò inoltre mille franchi alla querelante; invece, il conto che il carrozzaio aveva mandato a Christina nel 1791, uno scherzo da cinquemilanovecentoquarantaquattro lire, non fu mai pagato.
Dmitrij Nabokov (la terminazione in «ff» era una vecchia fissazione europea), ministro della Giustizia dal 1878 al 1885, fece il possibile per proteggere, se non per rafforzare, le riforme liberali degli anni Sessanta (i processi con giuria, per esempio) da feroci attacchi reazionari. «Si comportò» dice un biografo (Enciklopedìja Brockhaus, seconda edizione russa) «come il capitano di una nave durante una tempesta, disposto a gettare a mare una parte del carico per salvare il resto». E mi accorgo che la similitudine dai toni di epitaffio riecheggia involontariamente un tema epigrafico: il precedente tentativo, compiuto da mio nonno, di gettare dalla finestra i rappresentanti della legge.
Al momento della pensione, Alessandro III gli offrì di scegliere tra il titolo di conte e una somma in denaro, presumibilmente ragguardevole: non so con esattezza quanto valesse in Russia un titolo di conte, ma, contro tutte le speranze del parsimonioso zar, mio nonno (come suo zio Ivan, che aveva ricevuto un'offerta simile da Nicola I) si tuffò a pesce sul premio più sostanzioso. («Encore un comte raté» commenta sarcastico Sergej Sergeevic). In seguito visse perlopiù all'estero. Nei primi anni del secolo la mente cominciò ad annebbiarglisi, ma si abbarbicò alla convinzione che fino a quando fosse rimasto nell'area mediterranea le cose sarebbero andate per il meglio. I medici erano di tutt'altro avviso e pensavano che in qualche località montana o nella Russia del Nord avrebbe potuto vivere più a lungo. C'è la storia straordinaria, che non sono riuscito a ricostruire in modo adeguato, di una sua fuga avvenuta in qualche luogo dell'Italia sottraendosi ai servitori. Lì si diede a vagabondare, denunciando i figli, con una veemenza degna di Re Lear, a sconosciuti ridacchianti, finché alcuni carabinieri sbrigativi non lo catturarono in una sperduta località rocciosa. Nell'inverno del 1903, a Nizza, mia madre, l'unica persona la cui presenza il vecchio riuscisse a sopportare in quei momenti di follia, gli restò costantemente vicina. Anche mio fratello e io, rispettivamente di tre e quattro anni, eravamo là con la nostra governante inglese; ricordo il tintinnio dei vetri delle finestre al soffio della brezza vivace e il dolore inatteso causato da una goccia di ceralacca bollente su un dito. Con l'aiuto della fiamma di una candela (attenuata fino a un pallore ingannevole dalla luce del sole che inondava i lastroni di pietra su cui ero inginocchiato), mi dedicavo a trasformare gocciolanti bastoncini di quella sostanza in grumi appiccicosi, meravigliosamente fragranti, di colore scarlatto, blu, bronzo. Un istante dopo mi rotolavo urlante sul pavimento e mia madre si precipitava in mio soccorso, mentre lì vicino il nonno sulla sedia a rotelle picchiava con il bastone sul lastricato sonoro. La faceva penare. Usava un linguaggio sconveniente. Continuava a confondere il servitore che lo spingeva in carrozzella lungo la Promenade des Anglais con il conte Loris-Melikov, un collega (defunto da un pezzo) del gabinetto ministeriale negli anni Ottanta. «Qui est cettefemme… chassez-la!» gridava a mia madre, puntando un dito tremante contro la regina del Belgio, o d'Olanda, che si era fermata a chiedere notizie della sua salute. Ho un vago ricordo di quando mi avvicinai di corsa alla sua sedia a rotelle per mostrargli un bel sassolino che lui prima esaminò lentamente e quindi lentamente mise in bocca. Vorrei essere stato più curioso in seguito, quando mia madre si soffermava a rievocare quei tempi.
Scivolava in periodi di incoscienza sempre più prolungati e durante uno di questi venne trasferito a San Pietroburgo, nel suo pied-à-terre sul Lungofiume del Palazzo. Mentre a poco a poco tornava in sé, mia madre camuffò la stanza da letto pietroburghese per farla sembrare quella di Nizza. Vennero reperiti alcuni mobili simili ai suoi, e un certo numero di articoli fu fatto espressamente arrivare in fretta e furia da Nizza, per corriere; si procurarono tutti quei fiori ai quali i suoi sensi offuscati avevano fatto l'abitudine, nella varietà e nella quantità giuste, e un tratto di muro della casa che si riusciva appena a intravedere dalla finestra venne dipinto di un bianco luminoso affinché, ogni qualvolta lui avesse riacquistato un grado di relativa lucidità, si trovasse al sicuro nell'illusoria Costa Azzurra artisticamente allestita da mia madre; e fu lì che il 28 marzo 1904, diciotto anni esatti prima di mio padre, non un giorno di più non un giorno di meno, morì sereno.
Lasciava quattro figli e cinque figlie. Il primogenito, Dmitrij, ereditò il maggiorasco dei Nabokov nella Polonia soggetta al dominio russo; la sua prima moglie fu Lidija Eduardovna Fal'c-Fejn, la seconda, Marie Redlich; poi veniva Sergej, governatore di Mitau, che sposò Dar'ja Nikolaevna Tuckov, bis-bisnipote del generale Kutuzov, principe di Smolensk. Terzo mio padre. Il minore era Konstantin, scapolo impenitente. Le sorelle erano Natal'ja, moglie di Ivan de Peterson, console russo all'Aia; Vera, moglie di Ivan Pychacev, amante degli sport e proprietario terriero; Nina, che divorziò dal barone Rausch von Traubenberg, governatore militare di Varsavia, per sposare l'ammiraglio Nikolaj Kolomejcev, eroe della guerra russo-giapponese; Elizaveta, sposata a Henri, principe Sayn-Wittgenstein-Berleburg e quindi, dopo la morte di lui, a Roman Leikmann, ex precettore dei figli; e Nadezda, moglie di Dmitrij Vonljarljarskij, da cui in seguito divorziò.
Lo zio Konstantin era nel corpo diplomatico e, nell'ultima fase della sua carriera a Londra, ebbe uno scontro accanito e infruttuoso con Sablin su chi dei due avrebbe dovuto guidare la legazione russa. La sua vita non fu particolarmente densa di avvenimenti, però aveva messo a segno un paio di fortunose evasioni da un destino meno insulso di quella corrente d'aria che nel 1927 lo avrebbe ucciso in un ospedale londinese. Una prima volta a Mosca, il 17 febbraio 1905, quando un amico più vecchio, il granduca Sergej, mezzo minuto prima dell'esplosione, gli aveva offerto un passaggio sulla sua carrozza, e lo zio aveva risposto che no, grazie, lui preferiva andare a piedi, e la carrozza aveva ripreso ad avanzare verso il fatale appuntamento con la bomba di un terrorista; e una seconda, sette anni più tardi, quando mancò un altro appuntamento, stavolta con un iceberg, restituendo il suo biglietto per il Titanic. Lo vedemmo spesso a Londra, dopo la nostra fuga dalla Russia di Lenin. L'incontro alla Victoria Station nel 1919 è un vivido bozzetto che serbo nella memoria: mio padre che marcia verso il compassato fratello, le braccia spalancate per una stretta vigorosa, e lui che si ritrae ripetendo: «My v Anglii, my v Anglii (siamo in Inghilterra)». Il suo delizioso appartamentino era pieno di ricordi dell'India, tipo fotografie di giovani ufficiali inglesi. Autore del Cimento di un diplomatico (1921), facilmente reperibile nelle grandi biblioteche pubbliche, e di una versione inglese del Boris Godunov di Puskin, lo troviamo ritratto con pizzetto e tutto il resto (assieme al conte Witte, ai due delegati nipponici e a un benevolo Theodore Roosevelt) in un affresco che raffigura la firma del trattato di Portsmouth, situato sulla parete sinistra dell'ingresso principale del Museo americano di Storia Naturale – luogo quanto mai consono a ospitare il mio cognome in caratteri cirillici dorati –, come mi capitò di scoprire la prima volta che passai lì davanti in compagnia di un collega entomologo il quale, in risposta alle mie esclamazioni di sorpresa, disse: «Sì, sì, certo, certo».
2
Ricorrendo a un diagramma, le tre tenute di famiglia sull'Oredez, ottanta chilometri a sud di San Pietroburgo, si possono rappresentare come tre anelli collegati tra loro in una catena lunga sedici chilometri che corre da ovest verso est attraverso la strada statale di Luga, con la proprietà di mia madre, Vyra, al centro, quella di suo fratello, Rozestveno, a destra, e quella di mia nonna, Batovo, a sinistra, e i ponti sull'Oredez (Oredez', per l'esattezza) – che nel suo corso serpeggiante tutto anse e diramazioni bagna Vyra da entrambi i lati – quali elementi di connessione.
Nella stessa regione, molto più in là, altre due tenute erano imparentate con Batovo: Druznosel'e, di proprietà di mio zio, principe Wittgenstein, qualche chilometro oltre la stazione ferroviaria di Siverskij e a dieci chilometri da noi in direzione nordest; e Mitjusino, che apparteneva a mio zio Pychacev, un'ottantina di chilometri a sud, in direzione di Luga: là non sono stato neanche una volta, ma abbiamo spesso percorso in carrozza i circa quindici chilometri che ci separavano dai Wittgenstein, e una volta (nell'agosto del 1911) li andammo a trovare nell'altra loro splendida tenuta di Kamenka, situata nella provincia di Podol'sk, Russia sudoccidentale.
La tenuta di Batovo varca la soglia della storia nel 1805, quando ne diviene proprietaria Anastasia Matveevna Ryleev, nata Essen. Suo figlio, Kondratij Fèodorovic Ryleev (1795-1826), poeta minore, giornalista, e famoso decabrista, passava quasi tutte le estati in quella regione, innalzando elegie all'Oredez e cantando il castello del principe Aleksej, la perla di quelle sponde. La leggenda e la logica, accoppiata rara ma possente, sembrano indicare, come ho spiegato più diffusamente nelle mie note all' Onegin, che il duello alla pistola tra Puskin e Ryleev, di cui sappiamo così poco, ebbe luogo nel parco di Batovo, tra il 6 e il 9 maggio (calendario vecchio stile) del 1820. Puskin – insieme con il barone Anton Del'vig e con Pavel Jakovlev, due amici che lo accompagnavano per un tratto iniziale del lungo viaggio da San Pietroburgo a Ekaterinoslav – giunto all'altezza di Rozestveno aveva svoltato in silenzio abbandonando la via maestra di Luga e aveva attraversato il ponte (il tonfo degli zoccoli che si trasforma in un brusco scalpitio), quindi aveva seguito la vecchia strada per Batovo, segnata dai solchi delle ruote, in direzione ovest. Là, davanti alla casa padronale, Ryleev li aspettava impaziente. Aveva appena mandato la moglie, all'ultimo mese di gravidanza, nella di lei tenuta vicino a Voronez, e non vedeva l'ora di farla finita con quel duello, dopodiché, a Dio piacendo, l'avrebbe raggiunta. Riesco a sentire, sulla pelle e nelle narici, la deliziosa asprezza campestre della nordica giornata di primavera che accolse Puskin e i suoi secondi mentre scendevano dalla carrozza e si inoltravano per il viale di tigli, oltre le aiuole di Batovo, ancora di un nero virginale. Li vedo così chiaramente, quei tre giovani (la somma dei cui anni equivale alla mia età attuale) che seguono il loro ospite e due sconosciuti all'interno del parco. In quella stagione, minuscole violette gualcite spuntavano dal tappeto di foglie morte dell'anno precedente, e farfalle aurora appena schiuse si posavano sui denti di leone intirizziti. Per un istante il destino deve aver esitato: impedire che un eroico ribelle si avviasse al patibolo o sottrarre alla Russia l'Eugenio Onegin? Alla fine non fece né l'una né l'altra cosa.
Vent'anni dopo l'esecuzione di Ryleev, avvenuta nel 1826 sui bastioni della Fortezza Pietro e Paolo, la madre della mia nonna paterna, Nina Aleksandrovna Siskov, in seguito baronessa von Korff, comprò Batovo dallo Stato, e intorno al 1855 mio nonno la rilevò da lei. Due generazioni di Nabokov tirate su da precettori e governanti conoscevano un certo sentiero che attraversava i boschi oltre Batovo chiamato Le Chemin du Pendu, la passeggiata prediletta dell'Impiccato, come il bel mondo aveva soprannominato Ryleev: impietosamente, ma anche eufemisticamente e con stupore (a quei tempi i gentiluomini non venivano impiccati spesso), preferendolo a Decabrista o a Insorto. Mi è facile immaginare il giovane Ryleev che passeggia nel verde intrico dei nostri boschi leggendo un libro, una forma di romantica deambulazione tipica della sua epoca, e mi è altrettanto facile figurarmi l'impavido tenente che sfida il dispotismo sulla tetra Piazza del Senato assieme ai suoi compagni e alle truppe disorientate; eppure, durante tutta la nostra infanzia, il nome della lunga promenade «da grandi», meta agognata dei bambini buoni, non fu mai collegato nelle nostre menti infantili al destino dello sventurato signore di Batovo: mio cugino Sergej Nabokov, nato a Batovo nella Chambre du Revenant, pensava che quello fosse uno spettro qualunque, ma io confidai alla mia governante, o forse era il precettore, il vago sospetto che si trattasse di qualche misterioso sconosciuto trovato appeso al tremulo sul quale si riproduceva una rara specie di farfalla testa di morto. Che agli occhi dei contadini locali Ryleev fosse semplicemente l'«Impiccato» (povesennyj o visel'nik) non sembra insolito; ma, a quanto pare, nelle famiglie patrizie un bizzarro tabù impediva ai genitori di identificare quello spettro, come se un riferimento preciso potesse introdurre una nota sgradevole nell'attraente indeterminatezza della locuzione che designava una passeggiata pittoresca in un sito campestre amato. Ciò nonostante mi pare strano che perfino mio padre, il quale riguardo ai decabristi aveva molta più competenza e molta più simpatia dei suoi parenti, non abbia nominato Kondratij Ryleev neanche una volta, per quanto io ricordi, durante le nostre escursioni a piedi o in bicicletta nei dintorni. Mio cugino mi fa notare che il generale Ryleev, figlio del poeta, era amico intimo dello zar Alessandro II e di mio nonno D.N. Nabokov, e che on ne parie pas de corde dans la maison du pendu.
Da Batovo, la vecchia strada segnata dai solchi (che abbiamo percorso in compagnia di Puskin e su cui adesso torniamo) correva verso est per circa tre chilometri fino a Rozestveno. Appena prima del ponte principale, si poteva svoltare a nord in aperta campagna in direzione di Vyra e dei suoi due parchi su ciascun lato della strada, oppure continuare a est, scendere per una ripida collina, oltre un antico cimitero soffocato da lamponi e cespugli racemosi, e traversare il ponte diretti alla casa di mio zio con le sue bianche colonne, solitaria in cima a un'altura.
La tenuta di Rozestveno – con il grande villaggio omonimo, terreni estesi, e una villa padronale che dominava il fiume Oredez, sulla strada maestra di Luga (o di Varsavia), nel distretto di Carskoe Selo (ora Puskin), ottanta chilometri circa a sud di San Pietroburgo (ora Leningrado) – prima del XVIII secolo era conosciuta come la proprietà Kurovic, nel vecchio distretto di Koporsk. Intorno al 1715 era appartenuta al principe Aleksej, l'infelice figlio di quell'arciprepotente di Pietro I. Nella nuova anatomia dell'edificio erano state conservate parte di un escalier dérobé e qualche altra cosa che non ricordo. Ho toccato quella balaustra e ho visto (o ci sono salito sopra?) l'altro particolare, dimenticato. Da quel palazzo, seguendo la strada maestra che conduce in Polonia e in Austria, il principe era fuggito fino a Napoli, solo per essere riportato a forza di lusinghe nella paterna casa di tortura dall'inviato dello zar, il conte Pétr Andreevic Tolstoj, un tempo ambasciatore a Costantinopoli (dove si era procurato per il suo padrone il piccolo moro il cui bisnipote sarebbe stato Puskin). In seguito Rozestveno appartenne, credo, a una favorita di Alessandro I, e la villa fu in parte ricostruita quando, intorno al 1880, la proprietà fu acquistata dal mio nonno materno per Vladimir, il figlio maggiore, che morì sedicenne qualche anno dopo. Nel 1901 la ereditò il fratello di lui, Vasilij, che vi trascorse dieci delle quindici estati che ancora gli restavano da vivere. Di quel luogo ricordo soprattutto una freschezza e una sonorità speciali, le lastre di pietra disposte a scacchiera nell'atrio, uno scaffale su cui se ne stavano dieci gatti di porcellana, un sarcofago e un organo, i lucernari e le gallerie dei piani superiori, la colorata penombra di stanze misteriose, e garofani e crocefissi dappertutto.
3
Da giovane, Cari Heinrich Graun aveva una bella voce da tenore; una sera, dovendo cantare un'opera di Schurmann, maestro di cappella a Brunswick, rimase talmente disgustato da alcune arie che decise di sostituirle con altre di sua composizione. E qui avverto con emozione gli allegri vincoli della consanguineità; fra gli antenati, però, le mie preferenze vanno ad altri due, il giovane esploratore di cui ho già parlato e il nonno materno di mia madre, il grande patologo Nikolaj Illarionovic Kozlov (1814-1889), primo presidente dell'Accademia Imperiale russa di Medicina e autore di articoli quali Lo sviluppo dell'idea di malattia e La coartazione del forame giugulare nel malato di mente. Ed ecco arrivato il momento opportuno per menzionare i miei articoli scientifici, e in particolare tre, i preferiti: Note sulle Plebejinae neotropicali («Psyche», LII, 1-2 e 3-4, 1945), Una nuova specie di «Cyclargus» Nabokov («The Entomologist», dicembre 1948), e Le forme neartiche del genere «Lycaeides» Hùbner («Bulletin Mus. Comp. Zool.», Harvard Coli., 1949), ma dopo quell'anno non mi è più stato fisicamente possibile conciliare la ricerca scientifica con le lezioni, le belles lettres e Lolita (allora in arrivo – un parto doloroso, una bimba difficile).
Il blasone dei Rukavisnikov è più modesto ma anche meno convenzionale di quello dei Nabokov. Lo stemma è la versione stilizzata di una domna (forno fusorio primitivo), che senza dubbio allude al processo di raffinamento dei minerali uralici scoperto dai miei avventurosi maggiori. Faccio notare che questi Rukavisnikov – pionieri siberiani, prospettori d'oro e ingegneri minerari – non erano imparentati, come alcuni biografi hanno superficialmente sostenuto, con gli omonimi e non meno ricchi mercanti moscoviti. I miei Rukavisnikov appartenevano (fin dal XVIII secolo) alla piccola nobiltà terriera della provincia di Kazan'. Le loro miniere erano situate ad Alopaevsk, vicino a Niznij-Tagilsk, provincia di Perm, sul versante siberiano degli Urali. Mio padre vi si era recato due volte con L'Espresso della Siberia, un bellissimo treno della famiglia degli Espressi del Nord su cui contavo di viaggiare quanto prima, più per ragioni entomologiche che mineralogiche, ma la rivoluzione interferì con quel progetto.
Mia madre, Elena Ivanovna (29 agosto 1876 – 2 maggio 1939), era la figlia di Ivan Vasil'evic Rukavisnikov (1841-1901), proprietario terriero, giudice di pace e filantropo, figlio di un industriale milionario, e di Ol'ga Nikolaevna (1845-1901), figlia del dottor Kozlov. I genitori di mia madre morirono entrambi di cancro nello stesso anno, lui a marzo, lei a giugno. Dei suoi sette fratelli, cinque morirono nella prima infanzia, mentre, dei due fratelli maggiori, Vladimir morì diciassettenne a Davos negli anni Ottanta dell'Ottocento, e Vasilij a Parigi nel 1916. Ivan Rukavisnikov aveva un carattere orribile e mia madre ne aveva paura. Da bambino, tutto quello che conoscevo di lui erano i ritratti (la barba, la catena onorifica di magistrato al collo) e oggetti legati al suo hobby principale, vale a dire anatre da richiamo e teste d'alce. Un paio di orsi particolarmente grossi che lui stesso aveva ucciso a fucilate se ne stavano ritti con le zampe anteriori minacciosamente alzate nel vestibolo dalla cancellata di ferro della nostra casa di campagna. Ogni estate misuravo la mia altezza dalla facilità con cui riuscivo a raggiungere quegli affascinanti artigli – prima l'arto anteriore più basso, poi il più alto. Quando le dita (abituate a palpare cani vivi o animali di pezza) affondavano nella ruvida pelliccia marrone, si rimaneva delusi dalla rigidezza dei ventri. Di tanto in tanto gli orsi venivano trasportati in un angolo del giardino per essere completamente esposti all'aria e al battipanni, e la povera Mademoiselle, che arrivava dal parco, gettava un grido allarmato alla vista di quelle due bestie feroci che l'attendevano tra le mobili ombre degli alberi. Mio padre non provava alcun gusto a sparare alla selvaggina, in ciò ben diverso dal fratello Sergej, appassionato sportivo, che dal 1908 fu Master of the Hounds nelle battute di caccia alla volpe di Sua Maestà lo zar.
Tra i ricordi giovanili più felici di mia madre c'era un viaggio estivo con la zia Praskov'ja in Crimea, dove suo nonno da parte di padre aveva una tenuta dalle parti di Feodosija. Lei e la zia avevano fatto una passeggiata con lui e un altro signore anziano, il famoso pittore di marine Ajvazovskij. Ricordava il pittore intento a raccontare (come avrà fatto senza dubbio in molte altre occasioni) della volta in cui, nel 1836, a una mostra di quadri a San Pietroburgo, aveva visto Puskin, «un piccoletto bruttino con una moglie alta e bella». Era stato più di mezzo secolo prima, al tempo in cui Ajvazovskij era studente di Belle Arti; mancava meno di un anno alla morte del poeta. Mia madre ricordava inoltre il tocco che la natura aveva attinto alla sua tavolozza personale: la traccia bianca lasciata da un volatile sul grigio cappello a cilindro del pittore. La zia Praskov'ja, che le camminava accanto, era sorella di sua madre, sposata al celebre specialista in sifìlopatia V.M. Tarnovskij (1839-1906), e lei stessa dottore in medicina, autrice di opere di psichiatria, antropologia e scienze sociali. Una sera, a una cena nella villa degli Ajvazovskij, vicino a Feodosija, la zia Praskov'ja conobbe il ventottenne dottor Anton Cechov che, nel corso di una conversazione di carattere medico, lei riuscì in qualche modo a offendere. Era una signora coltissima, gentilissima, elegantissima, ed è difficile immaginare di preciso che cosa potesse aver detto per provocare lo sfogo incredibilmente grossolano a cui Cechov si abbandonò in una lettera alla sorella, per altro pubblicata, del 3 agosto 1888. La zia Praskov'ja, o zia Pasa, come la chiamavamo, ci veniva spesso a trovare a Vyra. Aveva un modo incantevole di salutarci, facendo irruzione nella camera dei bambini con un sonoro «Bonjour, les enfants!». Morì nel 1910. Al capezzale c'era mia madre, e le ultime parole di zia Pasa furono: «Interessante. Ora capisco. Tutto è acqua, vsè… voda».
Il fratello di mia madre, Vasilij, era nel corpo diplomatico, verso il quale manteneva un atteggiamento assai più disinvolto di quello dello zio Konstantin. Per Vasilij Ivanovic quella non era una carriera, bensì una sistemazione più o meno accettabile. Gli amici francesi e italiani che non riuscivano a pronunciare il suo lungo cognome russo l'avevano condensato in «Ruka» (con accento sull'ultima sillaba), a lui molto più consono del nome di battesimo. Durante l'infanzia mi sembrava che lo zio Ruka facesse parte di un mondo di giocattoli, di libri dalle gaie illustrazioni, e di ciliegi carichi di frutti neri e lucenti: aveva racchiuso un intero giardino di quelle piante dentro una serra, in un angolo della sua tenuta di campagna che il fiume sinuoso separava dalla nostra. In estate, quasi ogni giorno a ora di pranzo, si poteva vedere la sua carrozza che attraversava il ponte dirigendosi veloce verso la nostra casa lungo una siepe di giovani abeti. Quando avevo otto o nove anni, dopo mangiato, mi faceva immancabilmente sedere sulle sue ginocchia e (mentre due giovani servitori sparecchiavano nella sala da pranzo deserta) mi coccolava canticchiando e rivolgendomi stravaganti vezzeggiativi, e io mi sentivo in imbarazzo per mio zio di fronte alla servitù, ed ero sollevato quando mio padre lo chiamava dalla veranda: «Basile, on vous attend». Una volta che ero andato a prenderlo alla stazione (avrò avuto undici o dodici anni) e lo osservavo mentre scendeva dal lungo vagone letto internazionale, mi diede un'occhiata dicendo: «Come ti sei fatto giallognolo e bruttino (jaune et laid), mio povero ragazzo». Il giorno del mio quindicesimo onomastico mi prese da parte e nel suo francese brusco, preciso, alquanto antiquato, mi comunicò che sarei stato il suo erede. «E ora puoi andare,» aggiunse «l'audience est finie.Je n'ai plus rien à vous dire».
Lo ricordo esile, non alto, dall'aspetto curato e dalla carnagione bruna, occhi verdegrigio screziati di ruggine, baffi folti e scuri, e un pomo d'Adamo mobile che andava vistosamente su e giù sopra l'anello d'oro e opale a forma di serpente che fermava il nodo della cravatta. Aveva altri opali alle dita e ai gemelli dei polsini. Una catenella d'oro gli cingeva un fragile polso villoso e nell'occhiello del vestito estivo grigio tortora, grigio topo o grigio argento, c'era di solito un garofano. Avevo occasione di vederlo solo d'estate. Dopo un breve soggiorno a Rozestveno lui tornava in Francia o in Italia, nel suo castello (si chiamava Perpigna) nei pressi di Pau, o nella sua villa (si chiamava Tamarindo) vicino a Roma, o nell'adorato Egitto da cui mi spediva cartoline (palme e relativa immagine riflessa, tramonti, faraoni con le mani appoggiate sulle ginocchia) percorse dai suoi fitti scarabocchi. Poi, di nuovo a giugno, quando la fragrante ceremucha (ciliegio selvatico europeo, o più semplicemente «racemosa», come l'ho battezzata nel mio lavoro sull' Onegin) era in spumeggiante fioritura, il suo vessillo personale veniva issato in cima alla bella casa di Rozestveno. Viaggiava con una mezza dozzina di enormi bauli, otteneva a suon di mance che l'Espresso del Nord effettuasse una fermata straordinaria nella nostra stazioncina di campagna e, con la promessa di un regalo magnifico e un'aria di mistero, mi conduceva a passettini leziosi, i piedi calzati in scarpe bianche dall'alto tacco, verso l'albero più vicino e, cogliendo delicatamente una foglia, me la offriva dicendo: «Pour mon neveu, la chose la plus belle au monde – une feuille verte».
Oppure, con aria solenne, mi portava dall'America le collezioni di Foxy Grandpa e di Buster Brown, un ragazzino negletto con un vestito rossastro: e se guardavi da vicino vedevi che il colore nasceva in realtà da un fitto addensarsi di puntini rossi. Ogni episodio si concludeva con una formidabile sculacciata somministrata a Buster dalla Ma, donna dal vitino di vespa ma possente, che ricorreva a una pantofola, una spazzola per capelli, un fragile ombrellino, a qualunque cosa – perfino al manganello di un servizievole poliziotto – sollevando sbuffi di polvere dal fondo dei pantaloni di Buster. Poiché non ero mai stato sculacciato, quelle illustrazioni mi facevano venire in mente strane torture esotiche non dissimili, diciamo, dalla sepoltura fino al collo nella torrida sabbia del deserto di un poveraccio dagli occhi sbarrati, come avevo visto sulla copertina di un libro di Mayne Reid.
4
Si direbbe che lo zio Ruka conducesse una vita oziosa e stranamente caotica. La sua carriera diplomatica era delle più vaghe. Si vantava, però, di essere esperto nel decodificare messaggi cifrati in ciascuna delle cinque lingue che conosceva. Un giorno lo sottoponemmo a una prova, e in un batter d'occhio trasformò la sequenza 5.13 24.11 13.16 9.13.5 5.13 24.11 nelle parole iniziali di un celebre monologo di Shakespeare.
Abbigliato con una giacca rosa, partecipò a battute di caccia alla volpe in Inghilterra o in Italia; indossando una pelliccia, tentò un viaggio in automobile da San Pietroburgo a Pau; con indosso un mantello da sera, quasi perse la vita in un incidente aereo su una spiaggia nei pressi di Bayonne. (Quando gli chiesi come l'avesse presa il pilota del Voisin fracassato, lo zio Ruka ci pensò su un istante e quindi rispose con la massima disinvoltura: «Il sanglotait assis sur un rocker»). Cantava barcarole e strofe alla moda («Ils se regardent tous deux, en se mangeant des yeux;…», «Elle est morte en Février, pauvre Colinette!…», «Le soleil rayonnait encore, j'ai voulu revoir les grands bois…» e altre ancora, a dozzine). Lui stesso componeva musica, del genere melodico e arpeggiato, e versi francesi che si prestavano a strane scansioni come fossero giambi inglesi o russi, contraddistinti da una sublime indifferenza per i vantaggi che offrono le e mute. Era straordinariamente abile a poker.
A causa della balbuzie e della difficoltà a pronunciare le labiali, aveva cambiato il nome del cocchiere da Pétr in Lev; e mio padre (sempre piuttosto tagliente con lui) lo accusava di avere una mentalità schiavistica. A parte ciò, il suo linguaggio consisteva in un ricercato miscuglio di francese, inglese e italiano, tutte lingue, queste, nelle quali si trovava infinitamente più a suo agio che non nella propria. Le volte in cui ricorreva al russo, finiva sempre per usare a sproposito o travisare qualche espressione prettamente idiomatica o addirittura popolaresca, come quando a tavola, con un profondo sospiro (c'era sempre qualcosa che non andava: un attacco di febbre da fieno, la morte di un pavone, un levriero che si era perduto) diceva: «Je suis triste et seul corame une bylinka vpole (sono triste e solo come un "filo d'erba nel campo")».
Sosteneva di avere un incurabile vizio cardiaco e che, quando arrivavano le crisi, l'unico sollievo era sdraiarsi supino sul pavimento. Nessuno lo prendeva mai sul serio, e dopo che morì di angina pectoris, tutto solo, a Parigi, alla fine del 1916, all'età di quarantacinque anni, tornavano alla mente con una fitta di acuto dolore quegli incidenti postprandiali in salotto – il domestico in livrea che entrava ignaro con il caffè turco, mio padre che gettava un'occhiata (di canzonatoria rassegnazione) a mia madre, poi (di disapprovazione) al cognato steso a terra il quale, braccia e gambe divaricate, intralciava il domestico, e quindi (di curiosità) alle comiche vibrazioni che subiva il servizio da caffè sul vassoio sorretto dalle mani guantate di bianco di quel servitore apparentemente impassibile.
Da altri e più strani tormenti che lo afflissero nel corso della sua breve vita, cercò rifugio – se intuisco bene – nella religione, dapprima in certi movimenti settari russi, e alla fine nella Santa Romana Chiesa. La sua era una di quelle nevrosi pittoresche che di solito si accompagnano al genio, ma non era questo il suo caso, e di qui la ricerca di un'ombra che gli fosse compagna di viaggio. In gioventù era stato profondamente detestato dal padre, gentiluomo di campagna della vecchia scuola (caccia all'orso, un teatro privato, qualche bel quadro di antichi maestri tra un mucchio di croste) la cui incontrollabile irascibilità, così si mormorava, aveva costituito una minaccia alla vita stessa del ragazzo. In seguito, mia madre mi parlò delle tensioni nella Vyra della sua giovinezza, e delle atroci scenate che si erano svolte nello studio di Ivan Vasil'evic, una tetra stanza d'angolo che dava su un vecchio pozzo dalla pompa arrugginita sotto le fronde di cinque pioppi di Lombardia. Nessuno usava quella stanza tranne me. Tenevo i miei libri e i miei stenditoi per farfalle sui neri scaffali e in un secondo tempo convinsi mia madre a far spostare alcuni pezzi di quel mobilio nel mio assolato studiolo dalla parte del giardino, dove, una mattina, fece il suo barcollante ingresso anche l'enorme scrivania sulla cui desolata distesa di cuoio scuro non c'era che un enorme tagliacarte ricurvo, un'autentica scimitarra di avorio giallo ricavata da una zanna di mammut.
Quando lo zio Ruka morì, alla fine del 1916, mi lasciò in eredità l'equivalente di un paio di milioni di dollari odierni e la tenuta di campagna, con la sua villa dal bianco colonnato in cima alla ripida collina verde e i duemila acri di boschi e torbiere. La casa, mi dicono, era ancora lì nel 1940, nazionalizzata ma imperturbabile, pezzo da museo che ogni viaggiatore a caccia di bellezze artistiche poteva vedere dalla statale sottostante, quella che da San Pietroburgo, attraversando il villaggio di Rozestveno e superando la biforcazione del fiume, arriva fino a Luga. In quel punto, grazie ai fluttuanti isolotti di ninfee e al broccato delle alghe, il bell'Oredez assume un'aria festosa. Più a valle, nel suo corso tortuoso, là dove le rondini riparie schizzavano fuori dalle tane scavate nei rossi argini scoscesi, il fiume era soffuso fin nel profondo dai riflessi dei grandi abeti romantici (i confini della nostra Vyra); e ancora più a valle, l'incessante flusso tumultuoso di un mulino ad acqua dava allo spettatore (i gomiti poggiati sulla ringhiera) la sensazione di indietreggiare senza fine, come se quella fosse la poppa stessa del tempo.
5
Il brano seguente non è destinato al lettore comune, ma a quel particolare idiota che, avendo perso una fortuna in qualche disastro finanziario, ritiene di potermi capire.
La mia vecchia querelle (risalente al 1917) con la dittatura sovietica non ha niente a che vedere con la questione della proprietà. Il mio disprezzo per l'émigré che «odia i Rossi» perché gli hanno «rubato» soldi e terre è assoluto. La nostalgia che ho serbato nel cuore in tutti questi anni è un senso ipertrofizzato dell'infanzia perduta e non il dolore per le perdute banconote.
E infine: mi riservo il diritto di provare nostalgia per una nicchia ecologica:
… Sotto il cielo
della mia America sospirare
per un sol luogo della Russia.
Il lettore comune può ora proseguire.
6
Si avvicinavano i diciotto anni ed ecco che già li avevo compiuti; storie amorose e versi da scrivere occupavano la maggior parte del mio tempo libero; le questioni materiali mi lasciavano indifferente e, comunque, sullo sfondo del nostro benessere, nessuna eredità poteva sembrare veramente cospicua; pure, spingendo lo sguardo a ritroso, oltre l'abisso trasparente, trovo strano e in qualche modo sgradevole accorgermi che, durante il breve anno in cui fui in possesso di quella personale ricchezza, ero troppo immerso nelle abituali delizie della gioventù – una gioventù che stava rapidamente perdendo il suo iniziale, insolito fervore – sia per trarre un particolare godimento dal lascito sia per avvertire un qualsiasi disappunto quando, da un giorno all'altro, la rivoluzione bolscevica lo cancellò. Il ricordo di ciò mi dà la sensazione di essere stato ingrato verso lo zio Ruka, di aver condiviso l'atteggiamento generale di sorridente condiscendenza a lui solitamente riservato anche da coloro che gli volevano bene. E con estrema ripugnanza che mi costringo a ricordare i commenti sarcastici del mio precettore svizzero, Monsieur Noyer (per altri versi anima davvero sensibile), all'indirizzo della migliore composizione dello zio, una romance, di cui aveva scritto parole e musica. Un giorno, sulla terrazza del suo castello di Pau – la distesa degli ambrati vigneti più in basso e in lontananza le montagne che si tingevano di porpora –, al tempo in cui era tormentato da asma, palpitazioni e tremori, una escoriazione proustiana dei sensi, se débattant, per così dire, sotto l'effetto dei colori autunnali (descritti, con parole sue, come la «chapelle ardente defeuilles aux tons violents»), delle voci lontane nella vallata, di un volo di colombe che striava il tenero cielo, egli aveva composto quella romance alata sì, ma solo a metà (e l'unico a impararne a memoria la musica e ogni parola era stato mio fratello Sergej, cui lo zio non prestava quasi mai attenzione, anche lui balbuziente, anche lui morto oramai).
«L'air transparent fait monter de laplaine…» cantava con la sua acuta voce tenorile, seduto al pianoforte bianco della nostra casa di campagna – e se in quel momento, passando per le vicine macchie d'alberi, mi stavo affrettando verso casa per il pranzo (avendo visto la sua paglietta sbarazzina e il busto rivestito di velluto nero dell'avvenente cocchiere dal profilo assiro, le braccia infilate nelle maniche scarlatte e protese in avanti, scorrere veloci lungo la sommità della siepe tra il parco e il viale), gli accenti lamentosi
Un voi de tourterelles strie le del tendre,
Les chrysanthèmes se parent pour la Toussaint
giungevano fino a me e al mio verde retino da farfalle fra le tremule ombre del sentiero, in fondo al quale si scorgeva il viale di sabbia rossastra e l'angolo della nostra casa appena ridipinta nel colore delle giovani pigne, mentre dalla finestra aperta del salotto si riversava quella musica ferita.
7
Richiamare alla mente con immediatezza frammenti del passato è un'azione che mi sembra di aver continuato a compiere con il massimo piacere durante tutta la mia vita, e ho motivo di ritenere che questo affinamento quasi patologico della facoltà retrospettiva sia un tratto ereditario. C'era un punto della foresta, una passerella gettata su un corso d'acqua scuro, dove mio padre si fermava in riverente ricordo di una farfalla rara che, il 17 agosto 1883, il suo precettore tedesco aveva catturato per lui. Quella scena, che risaliva a trentasette anni prima, veniva rivissuta un'altra volta. Lui e i suoi fratelli si erano fermati di colpo in preda a un'agitazione impotente scorgendo su un tronco l'insetto tanto ambito che muoveva su e giù, quasi respirasse allarmato, le quattro ali rosso ciliegia su ciascuna delle quali spiccava un occhio di pavone. In un teso silenzio, non osando tentare il colpo egli stesso, mio padre aveva allungato il retino a Herr Rogge che brancolava nel tentativo di afferrarlo, gli occhi fissi sullo splendido lepidottero. Un quarto di secolo dopo, il mio stipo ereditò quell'esemplare. Dettaglio commovente: le ali si erano «alzate» perché l'insetto era stato rimosso dalla tavoletta da entomologo troppo presto, con troppa impazienza.
In una villa sull'Adriatico affittata nell'estate del 1904 assieme alla famiglia di mio zio Ivan de Peterson (la villa si chiamava Nettuno o Apollo – ancora oggi nelle vecchie foto di Abbazia riesco a identificarne la torre merlata color crema), all'età di cinque anni, quando dopo pranzo me ne stavo pigramente disteso nel mio lettino, avevo l'abitudine di girarmi a pancia in giù e con zelo, amore, disperazione, e un'accuratezza artistica nei dettagli diffìcile da conciliare con il numero assurdamente esiguo di stagioni che erano andate a formare l'immagine di «casa» permeata di inesplicabile nostalgia (l'avevo vista per l'ultima volta nel settembre del 1903), disegnavo sul cuscino, con l'indice, il viale d'accesso che si incurvava verso la nostra casa di Vyra, i gradini di pietra a destra, lo schienale intagliato di una panchina a sinistra, il viale di quercioli che iniziava oltre le siepi di caprifoglio, e un ferro di cavallo appena rimasto sul terreno, un pezzo da collezione (molto più grande e lucente di quelli arrugginiti che trovavo sulla spiaggia) scintillante tra la polvere rossastra del tracciato. Con sessantanni sulle spalle, il ricordo di quel ricordo è tanto più vecchio, ma molto meno insolito.
Una volta, nel 1908 o nel 1909, lo zio Ruka si immerse nella lettura di certi libri francesi per bambini che aveva scovato per caso da noi; con un gemito rapito, aveva ritrovato un passo che lui amava da piccolo e che esordiva così: «Sophie netaitpasjolie…», e molti anni dopo il mio gemito fece eco al suo nel riscoprire per caso in una camera dei bambini quegli stessi volumi della «Bibliothèque Rose», con storie di ragazzini e ragazzine che in Francia conducevano una versione idealizzata di quella vie de chàteau condotta in Russia dalla mia famiglia. In sé quelle storie (tutti quei Les malheurs de Sophie, Les petitesfilles modèles, Les vacances) sono, per come le vedo ora, un orribile miscuglio di leziosaggine e di cattivo gusto, ma nello scriverle la sentimentale e compiaciuta Mme de Ségur née Rostopcin non faceva altro che francesizzare gli elementi autentici della sua infanzia russa, che aveva preceduto la mia di un secolo esatto. Quanto a me, se mi capita di imbattermi di nuovo nelle disgrazie di Sophie – le sopracciglia rasate e la sua passione per la panna – non solo rivivo le medesime gioie e le medesime angosce dello zio, ma mi ritrovo con un ulteriore fardello – il ricordo che ho di lui mentre rivive la sua infanzia con l'aiuto di quegli stessi libri. Rivedo la stanza delle lezioni a Vyra, le rose turchine della carta da parati, la finestra aperta. Il riflesso di quella finestra riempie lo specchio ovale sopra il divano di cuoio su cui siede lo zio, che gongola davanti a un libro sbrindellato. Un senso di sicurezza, di benessere, di tepore estivo pervade la mia memoria. Quella realtà vigorosa riduce il presente a un fantasma. Lo specchio trabocca di luce; un calabrone è entrato nella stanza e va a sbattere contro il soffitto. Tutto è come deve essere, niente cambierà mai, nessuno mai morirà.
QUATTRO
1
Il genere di famiglia russa alla quale appartenevo – un genere oggi estinto – aveva, tra le altre virtù, un tradizionale penchant per i comodi prodotti della civiltà anglosassone. Il sapone Pears, nero pece da asciutto, color topazio se tenuto controluce tra le dita bagnate, provvedeva ai lavaggi mattutini. Era un piacere, quel progressivo alleggerirsi della vasca pieghevole inglese quando il beccuccio inferiore di gomma veniva spinto in fuori affinché scaricasse il suo schiumoso contenuto nel secchio dell'acqua sporca. «Migliorare la pasta non era possibile, così abbiamo migliorato il tubetto» diceva il dentifricio inglese. A colazione, il Golden Syrup importato da Londra avvolgeva con le sue spire lucenti il cucchiaio che ruotava, dal quale la giusta quantità era già scivolata su una fetta di pane e burro russo. Dal negozio inglese sulla Prospettiva Nevskij arrivava una processione ininterrotta di prodotti confortevoli e di qualità: torte di frutta, sali da bagno, carte da gioco, puzzle, blazer a righe, palle da tennis bianche come talco.
Ho imparato a leggere in inglese prima che in russo. I primi amici inglesi che ho avuto erano quattro anime candide del libro di grammatica: Ben, Dan, Sam e Ned. Si faceva un gran parlare di chi fossero e dove si trovassero: «Chi è Ben?», «Lui è Dan», «Sam è a letto» e così via. Sebbene tutto risultasse piuttosto rigido e frammentario (l'autore era penalizzato dal dover usare – almeno per le lezioni iniziali – parole di non più di tre lettere), la mia fantasia riusciva in qualche modo a reperire i dati necessari. Taciturni imbecilli dalle facce esangui e dagli arti massicci, fieri proprietari di certi attrezzi («Ben ha un'ascia»), oggi vagano con una goffa andatura al rallentatore lungo il fondale più remoto della memoria; e, simili al folle alfabeto sul tabellone di un ottico, i caratteri di quella grammatica si allineano di nuovo davanti a me.
La stanza delle lezioni era inondata di sole. In un barattolo di vetro appannato diversi bruchi spinosi si nutrivano di foglie di cardo (ed espellevano interessanti pallottoline, simili a botticelle, di escrementi verde oliva). La tela cerata che rivestiva il tavolo rotondo odorava di colla. Miss Clayton odorava di Miss Clayton. L'alcol color sangue del termometro esterno era salito, incredibilmente, trionfalmente, a 24° Réaumur (86° Fahrenheit) all'ombra. Dalla finestra si vedevano giovani contadine con il fazzoletto in testa che carponi estirpavano erbacce da un sentiero del giardino, oppure rastrellavano delicatamente la sabbia picchiettata di sole. (I giorni felici in cui avrebbero spazzato strade e scavato canali per lo Stato ancora non si erano profilati all'orizzonte). Tra il fogliame, i rigogoli emettevano le loro quattro splendide note: dii-dil-dii-O!
Ned passava davanti alla finestra con andatura pesante, in una discreta imitazione dell'aiutogiardiniere Ivan (che nel 1918 sarebbe diventato membro del soviet locale). Nelle pagine successive apparivano parole più lunghe, e alla fine del volume marrone macchiato d'inchiostro una storia autentica e sensata dispiegava le sue frasi ormai adulte («Un giorno Ted disse ad Ann: facciamo…»), trionfo supremo e ricompensa finale del giovane lettore. Mi entusiasmavo al pensiero che anch'io un giorno avrei potuto conseguire una simile abilità. Quella magia non è venuta meno, e ogni volta che mi capita tra le mani una grammatica corro subito all'ultima pagina per il piacere di gettare una rapida quanto illecita occhiata al futuro dello studente operoso, a quella terra promessa dove, finalmente, le parole stanno a significare quello che in effetti significano.
2
Sumerki d'estate – l'incantevole parola russa che vuol dire crepuscolo. Il tempo: un punto imprecisato nel primo decennio di questo secolo impopolare. Il luogo: 59° latitudine nord del vostro equatore, 100° longitudine est della mia mano che scrive. Il giorno ci metteva ore a svanire, e ogni cosa – il cielo, i fiori alti, le acque stagnanti – rimaneva in uno stato di infinita sospensione vespertina, esaltato piuttosto che dissolto dal dolente muggito di una mucca in un pascolo distante o dal verso ancora più struggente di un uccello al di là del corso inferiore del fiume, dove la vasta distesa azzurro nebbia di uno sfagneto per via del suo mistero e della sua lontananza era stata battezzata America dai bambini Rukavisnikov.
Spesso, nel salotto della nostra casa di campagna, prima che io andassi a letto, la mamma mi leggeva qualche cosa in inglese. Quando era prossima a un passo particolarmente drammatico, in cui l'eroe stava per imbattersi in chissà quale pericolo strano, forse anche fatale, il ritmo della sua voce si faceva più lento, spazi premonitori si aprivano tra le parole, e prima di voltare la pagina lei vi posava sopra la mano dal familiare anello con un rubino sangue di piccione e un diamante (dentro le cui limpide sfaccettature, se avessi meglio saputo leggere nella sfera di cristallo, sarei riuscito a vedere una stanza, persone, luci, alberi sotto la pioggia: un intero periodo di vita émigré che quell'anello era destinato a pagare).
C'erano storie di cavalieri le cui ferite, spaventose ma miracolosamente asettiche, venivano lavate da qualche donzella dentro una grotta. In cima a una rupe spazzata dal vento, una fanciulla medioevale dai capelli scompigliati e un giovane in calzamaglia fissavano le tondeggianti Isole dei Beati. In Incompreso, il destino di Humphrey ti faceva venire uno speciale groppo alla gola, ben più che nei racconti di Dickens o di Daudet (grandi inventori di groppi), mentre una storia sfacciatamente allegorica, Al di là delle Montagne Azzurre, che trattava di due coppie di piccoli viaggiatori – i buoni Trifoglio e Primula, i cattivi Ranuncolo e Margherita –, conteneva tanti particolari emozionanti da farti dimenticare il «messaggio» insito nel racconto.
C'erano poi i libri con le illustrazioni, libri grandi, piatti, dalla carta patinata. Mi piaceva soprattutto il Golliwogg nero come il carbone, giacca blu, pantaloni rossi, bottoni da biancheria al posto degli occhi e uno sparuto harem formato da cinque bambole di legno. Ricorrendo all'espediente illegale di ritagliarsi i vestiti dalla bandiera americana (Peg si prendeva le strisce matronali e Sarah Jane le graziose stelle), due di quelle bambole avevano acquisito una certa qual morbida femminilità, una volta che le loro neutre articolazioni anatomiche erano state rivestite. Le Gemelle (Meg e Weg) e il piccolo Midget erano rimasti completamente nudi e, di conseguenza, asessuati.
Li vediamo sgattaiolare fuori di casa nel cuore della notte per lanciarsi palle di neve fino a quando i rintocchi di un orologio lontano («Ma ascolta!» commenta il testo in rima) non li rispediscono dentro la casetta dei giocattoli nella stanza dei bambini. Uno sgarbato pupazzo a molla salta fuori all'improvviso spaventando la mia graziosa Sarah, e io quell'illustrazione la detestavo di tutto cuore poiché mi ricordava le feste infantili in cui qualche incantevole bambina che mi aveva ammaliato si schiacciava un dito o si sbucciava un ginocchio, trasformandosi di colpo in uno spiritello maligno dalla faccia purpurea, tutta rughe e bocca urlante. In un'altra occasione, durante un viaggio in bicicletta, vengono catturati dai cannibali; i nostri ignari viaggiatori si stanno dissetando a una pozza frangiata di palme quando risuonano i tamtam. Da dietro la spalla del mio passato ammiro di nuovo quell'illustrazione cruciale: il Golliwogg è ancora inginocchiato accanto alla pozza ma ha smesso di bere; i capelli gli stanno ritti in testa e la faccia, di solito nera, ha assunto una bizzarra sfumatura cinerea. C'era anche il libro dell'automobile (Sarah Jane, sempre la mia preferita, che sfoggia un lungo velo verde), con il solito risultato finale: stampelle e teste bendate.
E, sì: il dirigibile. Metri e metri di seta gialla per costruirlo, e, in aggiunta, un minuscolo pallone a uso esclusivo del fortunato Midget. La navicella raggiunge un'altitudine immensa, gli aeronauti si stringono l'uno all'altro per riscaldarsi, mentre il piccolo solista smarrito, ancora oggetto di profonda invidia da parte mia nonostante la situazione disperata, si allontana alla deriva in un abisso di gelo e di stelle – solo.
3
Vedo poi mia madre che mi conduce a letto attraverso l'enorme vestibolo, dove uno scalone centrale sale su, sempre più su, con nient'altro che pannelli di vetro simili a quelli delle serre tra l'ultimo pianerottolo e il verde tenue del cielo serotino. Tu cercavi di restare indietro, strascicando i piedi e sdrucciolando appena sul liscio pavimento di pietra del vestibolo, e costringevi la mano gentile poggiata all'altezza delle reni a sospingere in avanti il tuo corpo restio con pressioni indulgenti. Arrivato allo scalone, avevo l'abitudine di raggiungere i gradini insinuandomi sotto il corrimano, tra il pilastrino d'appoggio e il primo balaustro. Ogni estate, quello sgusciare diventava sempre più difficoltoso; oggi, perfino il mio spettro vi rimarrebbe incastrato.
Un'altra parte del rituale consisteva nel salire a occhi chiusi. «Step, step, step», «Scalino, scalino, scalino» risuonava la voce di mia madre, mentre mi conduceva di sopra: e infatti la superficie del gradino seguente accoglieva il piede fiducioso del piccolo cieco; bastava soltanto sollevarlo un po' più del solito per evitare di urtare con l'alluce contro l'alzata. Quell'ascesa lenta, quasi sonnambolica, immerso in un'oscurità autoimposta, era fonte di evidenti delizie. La più intensa stava nel non sapere quando sarebbe arrivato l'ultimo gradino. In cima alle scale il piede veniva automaticamente sollevato all'ingannevole comando «Step», e quindi, con una sensazione momentanea di panico acuto, con una contrazione violenta dei muscoli, affondava nel fantasma di un gradino, imbottito, per così dire, della materia infinitamente elastica della sua stessa inesistenza.
É sorprendente quanto metodo ci fosse nel mio gingillarmi prima di andare a letto. Certo, tutta la cerimonia del salire le scale ora rivela taluni valori trascendentali. In realtà, tuttavia, non facevo altro che guadagnare tempo prolungando all'estremo ogni secondo. La cosa continuò anche quando mia madre passò a Miss Clayton o a Mademoiselle l'incarico di svestirmi.
Nella nostra casa di campagna c'erano cinque stanze da bagno, e un assortimento di venerandi lavabi (uno dei quali andavo sempre a scovare nel suo cantuccio buio dopo aver pianto, per sentire sulla faccia gonfia, che mi vergognavo di mostrare, il tocco riparatore del suo zampillo esitante mentre con il piede abbassavo il pedale rugginoso). Il bagno vero e proprio veniva fatto la sera. Per le abluzioni mattutine usavamo le tonde vasche inglesi di gomma. La mia aveva un diametro di circa un metro e venti, il bordo mi arrivava al ginocchio. Sulla schiena cosparsa di sapone del bambino accovacciato, un servitore in grembiule versava con cautela una brocca d'acqua. La temperatura variava a seconda dei criteri idroterapeutici dei mentori che via via si susseguivano. Ci fu quel tetro periodo della prima pubertà in cui il nostro precettore del momento, studente di medicina, decretò che occorreva un diluvio ghiacciato. A parte ciò, la temperatura del bagno serale rimase gradevolmente costante sui 28° Réaumur (95° Fahrenheit) secondo la stima di un termometro grosso e benevolo il cui rivestimento di legno (con un pezzetto di spago umido nell'occhiello del manico) gli consentiva di condividere la spinta idrostatica con pesci rossi e piccoli cigni di celluloide.
I gabinetti erano separati dalle stanze da bagno, e il più antico era un locale alquanto sontuoso ma cupo, dotato di una bella pannellatura e di un cordone di velluto rosso con nappa che una volta tirato generava una serie di gorgoglii e risucchi ben modulati e pudicamente ovattati. Da quell'angolo della casa riuscivi a vedere Espero e a udire gli usignoli, e fu là che, in seguito, iniziai a comporre i miei versi giovanili dedicati a beltà mai abbracciate, e immusonito contemplai, in uno specchio fiocamente illuminato, il sorgere improvviso di uno strano castello in una Spagna sconosciuta. Da piccolo, però, mi avevano destinato una sistemazione più modesta, piuttosto disinvoltamente ubicata in un andito angusto tra un cesto di vimini per la biancheria sporca e la porta che dava sul bagno della camera dei bambini. Quella porta, mi piaceva tenerla socchiusa; attraverso l'apertura osservavo assonnato il tremulo luccichio del vapore sulla vasca da bagno color mogano, la fantastica flottiglia di cigni e barchette – su una ci sono io con un'arpa –, la falena pelosa che sbatte con un suono secco contro il riflettore della lampada a cherosene, e, dietro, la finestra dai vetri istoriati, e i suoi due alabardieri fatti di rettangoli policromi. Chinandomi in avanti dal mio caldo sedile, mi divertivo a premere il centro dell'arcata sopracciliare, l'ophryon, per essere esatti, contro il profilo liscio e confortevole della porta, quindi ruotavo leggermente il capo in modo tale da spingere la porta avanti e indietro mentre il suo spigolo restava sempre a contatto, un contatto consolatorio, con la mia fronte. Un ritmo sognante permeava tutto il mio essere. Il recente «Step, step, step» veniva ripreso da un rubinetto gocciolante. E, combinando felicemente il ritmo del disegno con quello del suono, dipanavo le greche labirintiche del linoleum, decifrando volti là dove una crepa o un'ombra offrivano allo sguardo un point de repère. Una supplica ai genitori: non dite mai, mai «Sbrigati» a un bambino.
L'ultima tappa di quella mia navigazione oziosa era l'approdo all'isola del letto. Dalla veranda o dal salotto, dove la vita continuava senza di me, mia madre saliva a portarmi il caldo mormorio del bacio della buonanotte. Gli scuri accostati, una candela accesa, Gentle Jesus, meek and mild, somethìng-something little child, quel bambino inginocchiato su un guanciale che di lì a poco avrebbe inghiottito la sua testa ronzante. Le preghiere in inglese e la piccola icona che ritraeva un abbronzato santo greco-ortodosso formavano un innocente sodalizio a cui ripenso con piacere; e sopra l'icona, in cima al muro, dove l'ombra di qualche cosa (del paravento di bambù tra il letto e la porta?) si increspava nella calda luce della candela, un acquerello in cornice mostrava un sentiero oscuro snodarsi attraverso uno di quei faggeti europei paurosamente fitti, in cui l'unico sottobosco esistente è un tappeto di convolvoli e l'unico suono consiste nel battito martellante del cuore. In una fiaba inglese che una volta mi aveva letto mia madre c'era un bambino che era sceso dal letto per entrare in un quadro e con il suo cavalluccio di legno aveva percorso un sentiero dipinto tra alberi silenziosi. Inginocchiato sul cuscino, avvolto in una bruma fatta di sonnolenza e di benessere al talco, mezzo seduto sui polpacci e recitando in fretta la preghiera, immaginavo di arrampicarmi dentro il quadro sopra il letto e di tuffarmi in quel magico faggeto – che a tempo debito avrei visitato davvero.
4
Mentre rientro nel mio passato, mi si fa incontro uno stupefacente corteo di bambinaie e governanti inglesi, e alcune si torcono le mani, altre mi rivolgono sorrisi enigmatici.
Ci fu la scialba Miss Rachel, la ricordo soprattutto in relazione ai biscotti Hundey and Palmer (nello strato superiore della scatola di latta, foderata di carta blu, c'erano gli squisiti torroncini alla mandorla, mentre gli insipidi cracknels, duri e croccanti, stavano sul fondo), che condividevamo illegalmente dopo che mi ero già lavato i denti. Ci fu Miss Clayton, ogni volta che mi afflosciavo sulla sedia mi dava un colpetto al centro delle vertebre e poi raddrizzava le spalle con un sorriso per dimostrare ciò che si aspettava da me: mi aveva detto che un suo nipote, alla mia età (quattro anni), allevava bruchi, ma quelli che lei aveva raccolto per me e messo in un barattolo di vetro senza coperchio e pieno di ortiche, un mattino se ne erano andati via e il giardiniere aveva detto che si erano impiccati. Ci fu la bella Miss Norcott, capelli neri e occhi acquamarina, che aveva perduto un guanto bianco di capretto a Nizza o a Beaulieu, e io lo cercai invano sulla spiaggia ghiaiosa, tra ciottoli colorati e glauchi cocci di bottiglia levigati dal mare. Una sera, ad Abbazia, la bella Miss Norcot fu licenziata in tronco. Mi abbracciò nell'incerta luce mattutina della camera dei bambini, avvolta in un pallido impermeabile e piangente come il salice omonimo, e io rimasi inconsolabile per tutto il giorno, nonostante la cioccolata calda che la vecchia nanny dei Peterson mi aveva appositamente preparato, e il pane e burro speciale sulla liscia superficie del quale la zia Nata, così brava nell'attirare la mia attenzione, aveva disegnato prima una margherita, poi un gatto, e infine una sirenetta di cui avevo appena letto proprio con Miss Norton, e su cui avevo anche sparso le mie lacrime, di modo che ricominciai subito a piangere. Ci fu la piccola e miope Miss Hunt, la cui breve permanenza fra noi a Wiesbaden si concluse quando mio fratello e io, rispettivamente di quattro e cinque anni, riuscimmo a sfuggire alla sua nervosa vigilanza, imbarcandoci su un vaporetto e viaggiando per un bel tratto lungo il Reno prima che venissimo catturati. Ci fu Miss Robinson, dal naso roseo. Poi ancora Miss Clayton. Ci fu una persona terrificante che mi lesse L'atomo possente di Marie Corelli. E altre ancora. Poi, a un certo punto, scomparvero dalla mia vita. Il francese e il russo prevalsero; e il poco tempo a disposizione per l'inglese fu destinato a sporadiche conversazioni con due signori, Mr Burness e Mr Cummings, nessuno dei quali abitava con noi. Nella mia mente, li associo a certi inverni a San Pietroburgo, dove avevamo una casa in via Morskaja.
Mr Burness era un grosso scozzese dalla faccia rubiconda, occhi azzurro chiaro e lisci capelli color paglia. Le sue mattine erano dedicate all'insegnamento in una scuola di lingue mentre i pomeriggi finivano per essere pieni zeppi di lezioni private, assai più di quante potessero essere ospitate in una sola giornata. Dovendo Spostarsi da una parte all'altra della città e dovendo dipendere dal trotto torpido degli avviliti cavalli degli izvozciki (cocchieri di piazza) per raggiungere i suoi allievi, lui arrivava, se era fortunato, solo con un quarto d'ora di ritardo alla lezione delle due (dovunque si tenesse), ma alla lezione delle quattro arrivava dopo le cinque. La tensione generata da quell'attesa e la speranza che, una volta tanto, la sua sovrumana tenacia venisse meno davanti alla grigia muraglia di qualche eccezionale tempesta di neve, erano quel tipo di sensazioni in cui speriamo ardentemente di non imbatterci da adulti (ma che provai di nuovo quando a mia volta fui costretto dalle circostanze a dare lezioni private e quando, nelle mie stanze d'affitto a Berlino, mi ritrovai ad aspettare un certo allievo dalla faccia di pietra che alla fine arrivava sempre, nonostante gli ostacoli che mentalmente accumulavo sul suo cammino).
L'oscurità stessa che si addensava fuori sembrava un prodotto residuale degli sforzi compiuti da Mr Burness per raggiungere casa nostra. Di lì a poco il valletto sarebbe venuto ad abbassare le voluminose veneziane azzurre e a tirare i tendaggi a fiori delle finestre. Il tic tac della pendola del nonno nella stanza delle lezioni assumeva a mano a mano un'intonazione desolata, irritante. La sensazione fastidiosa all'inguine causata dai pantaloncini stretti e il contatto ruvido dei miei calzettoni neri a coste con l'interno morbido delle gambe piegate si mescolavano alla sorda pressione di un bisognino, il cui soddisfacimento continuavo a rimandare. Era trascorsa quasi un'ora e non c'era traccia di Mr Burness. Mio fratello andava in camera sua ed eseguiva esercizi al pianoforte, quindi si tuffava e rituffava in alcune melodie che io detestavo – le istruzioni ai fiori finti nel Faust (… dites-lui qu'elle est belle…) o il lamento di Vladimir Lenskij (… Kuu-da, kuu-da, kuu-da, vy udalilis'). Scendevo dal piano superiore, destinato a noi bambini, scivolando lentamente sulla balaustra fino al primo piano, dove si trovavano le stanze dei miei genitori. A quell'ora erano più spesso fuori che a casa, e, nel crepuscolo che si infittiva, il luogo aveva un effetto curiosamente teleologico sui miei giovani sensi, come se l'accumulo di oggetti familiari nel buio stesse facendo del suo meglio per formare quell'immagine definita e permanente che la reiterata esposizione alla fine mi avrebbe lasciato impressa nella mente.
L'oscurità color seppia di un pomeriggio artico di mezzo inverno invadeva le stanze addensandosi in un nero opprimente. Qua e là nel buio, un angolo di bronzo, una superficie di vetro o di mogano levigato riflettevano gli scampoli di luce dalla strada, dove i globi degli alti lampioni lungo la linea mediana già diffondevano il loro chiarore lunare. Ombre diafane si muovevano sul soffitto. Nella quiete, il suono secco di un petalo di crisantemo che cadeva sul marmo di un tavolo ti pizzicava le corde dei nervi.
Nel boudoir di mia madre c'era un comodo bovindo con vista sulla Morskaja in direzione di piazza Mariinskij. Con le labbra premute contro il tessuto sottile che velava la finestra assaporavo poco alla volta il freddo del vetro attraverso il tulle. Da quel bovindo, anni dopo, allo scoppio della rivoluzione, osservai vari scontri e vidi il primo morto della mia vita: lo stavano portando via in barella e, da una gamba penzolante, un compagno male in arnese quanto a calzature cercava di sfilare lo stivale nonostante i pugni e le spinte dei barellieri – e tutto ciò procedendo a un discreto trotto. Ma ai tempi delle lezioni di Mr Burness non c'era niente da osservare tranne la buia strada ovattata e la fila di lampioni altezzosamente sospesi che si perdeva in lontananza, intorno ai quali i fiocchi di neve passavano e ripassavano con movenze eleganti, quasi deliberatamente rallentate, come a rivelare il segreto di quel trucco, e quanto semplice fosse. Da un'angolatura diversa, si riusciva a vedere meglio la neve che scendeva in un flusso più generoso, circondata da un alone più vivido di luce a gas violetta, e allora l'involucro aggettante in cui mi trovavo sembrava andare lentamente alla deriva verso l'alto, sempre più in alto, come un pallone. Finalmente, una di quelle slitte fantasma che scivolavano lungo la strada si fermava, e Mr Burness, inalberando la sua sapka di pelo di volpe, si dirigeva con fretta sgraziata verso il nostro portone.
Dalla stanza delle lezioni, in cui l'avevo preceduto, udivo i suoi passi vigorosi e sonori farsi sempre più vicini, ed entrando, per quanto fredda fosse la giornata, la sua faccia bonaria e rubizza era sempre copiosamente madida di sudore. Ricordo la spaventosa energia con cui premeva sul foglio la penna sputacchiante mentre, con la più tonda delle grafie rotonde, annotava i compiti per il giorno dopo. Di solito, alla fine della lezione, c'era la richiesta, esaudita, di un certo limerick, e lo scopo di quella esibizione era che la parola «strillava» prevista dalla filastrocca dovesse essere involontariamente rappresentata da uno strillo ogni volta che Mr Burness stritolava la mia mano, prigioniera nella sua zampa robusta, mentre recitava i versi:
C'era in Russia una donna sposata che (strillo) nell'esser pestata lei (strillo) e (strillo)…
e a quel punto il dolore si faceva talmente intollerabile che non andavamo mai oltre.
5
Il signore barbuto, silenzioso, leggermente ingobbito, l'antiquato Mr Cummings, che nel 1907 o nel 1908 mi aveva insegnato a disegnare, era stato maestro di disegno anche di mia madre. Era arrivato in Russia all'inizio degli anni Novanta come corrispondente estero e illustratore del «Graphic» di Londra. Si mormorava che disgraziate vicende coniugali gli avessero complicato la vita. Una melanconica gentilezza di modi ne compensava lo scarso talento. Indossava un ulster, a meno che il tempo non fosse molto mite, nel qual caso passava a un mantello di lana grigioverde, del genere detto loden.
Ero affascinato dal modo in cui usava una speciale gomma per cancellare che teneva nel taschino del panciotto, dal modo in cui stirava la pagina, e quindi spazzava via con il dorso delle dita i «guttlici di perca» (come diceva). Silenzioso, triste, mi illustrava le marmoree leggi della prospettiva: tratti lunghi e diritti di una matita incredibilmente appuntita, impugnata con eleganza, facevano sì che le linee dell'ambiente da lui creato dal nulla (pareti astratte, fuga di soffitto e pavimento) convergessero in un punto remoto e ipotetico con stuzzicante e sterile precisione. Stuzzicante perché mi faceva pensare a binari ferroviari, simmetricamente e ingannevolmente convergenti davanti agli occhi iniettati di sangue della mia maschera preferita, un macchinista annerito dal fumo della locomotiva; sterile, perché quella stanza sarebbe rimasta senza mobili e affatto vuota, priva persino delle statue anodine in cui ci si imbatte nella prima sala, per nulla interessante, dei musei.
La restante galleria di quadri compensava il vestibolo spoglio. Mr Cummings era maestro nei tramonti. I suoi piccoli dipinti ad acquerello, acquistati in varie occasioni al prezzo di cinque o dieci rubli l'uno da qualche membro della nostra famiglia, conducevano un'esistenza alquanto precaria, spostati com'erano in recessi sempre più oscuri per poi finire completamente eclissati da un lucente animale di porcellana o da una fotografia appena incorniciata. Dopo che ebbi imparato non solo a disegnare cubi e coni ma anche a ombreggiare correttamente, con tratteggi obliqui fitti e omogenei, le parti che dovevano essere fatte sparire per sempre, quel gentile, vecchio signore si limitò a dipingere sotto il mio sguardo incantato i suoi piccoli, umidi paradisi, variazioni dello stesso paesaggio: una sera d'estate con un cielo arancione, un pascolo che confinava con la nera frangia di una foresta distante, e un fiume luminoso che duplicava il cielo snodandosi in lontananza.
Un po' di tempo dopo, sarà stato il 1910 o il 1912, al suo posto venne il famoso «impressionista» (termine allora in voga) Jaremic; amorfo e privo di humour, era fautore di uno stile «ardito», chiazze di colore opaco, macchie seppia e oliva per mezzo delle quali dovevo riprodurre, su enormi fogli di carta grigia, forme umanoidi che poi modellavamo nella plastilina e piazzavamo in posizioni «drammatiche» sullo sfondo di un drappo di velluto tutto pieghe ed effetti d'ombra. Era una deprimente combinazione di almeno tre arti diverse, tutte approssimative, e alla fine mi ribellai.
Fu sostituito dal celebre Dobuzinskij, che preferiva darmi lezione in uno dei graziosi salotti del piano nobile, dove faceva il suo ingresso in un modo particolarmente silenzioso, quasi avesse paura di risvegliarmi di colpo da una trance indotta dall'ispirazione poetica. Voleva che dipingessi a memoria, con il maggior numero possibile di dettagli, oggetti da me certamente visti migliaia di volte ma non visualizzati con la dovuta attenzione: un lampione, una cassetta delle lettere, il motivo a tulipani sulla vetrata della nostra porta d'ingresso. Cercò d'insegnarmi a trovare le coordinazioni geometriche tra i rami sottili di un albero spoglio in un viale, un sistema di compromessi visivi che nella resa del tratto richiedeva una precisione da me mai raggiunta in gioventù, ma a cui attinsi con gratitudine, nel corso della mia muta adulta, non solo per disegnare i genitali delle farfalle durante i sette anni trascorsi al Museo di Zoologia comparata di Harvard – quando mi immergevo nel luminoso oculare di un microscopio per prendere nota con inchiostro di china di questa o quella nuova struttura –, ma anche, forse, per certe necessità della camera chiara della composizione letteraria. Dal punto di vista emotivo, tuttavia, sono ancor più indebitato verso quelle prime esperienze coloristiche che ho avuto in dono da mia madre e dal suo ex maestro. Con quale disponibilità Mr Cummings si sedeva su uno sgabello, scostando dietro di sé con entrambe le mani la sua – che cosa? indossava una finanziera? vedo solo il gesto – e si accingeva ad aprire la scatola nera di metallo con gli acquerelli. Mi piaceva la destrezza con cui intingeva il pennello in più colori, accompagnata dal rapido tintinnio dei recipienti smaltati nelle cui cavità erano appetitosamente collocati i rossi e i gialli intensi dentro i quali il pennello scavava piccoli avvallamenti; raccolto così il suo miele, quel pennello smetteva di volteggiare e assestare colpetti, e con due o tre veloci passaggi della punta lussureggiante impregnava la carta Vatmanskij di un'uniforme distesa di cielo arancione, sulla quale, mentre quel cielo era ancora umidiccio, veniva sistemata una lunga nuvola nerovioletta. «Ecco fatto, carino» diceva. «E tutto».
Una volta mi feci disegnare da lui un treno espresso. Osservavo la sua matita che riproduceva abilmente il cacciapietre e i complicati fanali di testa di una locomotiva che sembrava essere stata acquistata di seconda mano per la Transiberiana, dopo aver fatto il proprio dovere negli anni Sessanta al Promontory Point, nello Utah. Poi seguirono cinque vagoni di una banalità deludente. Quando li ebbe rifiniti per bene, ombreggiò con cura il fumo copioso che usciva dall'enorme fumaiolo, piegò di lato la testa, e, dopo un istante di compiaciuta contemplazione, mi consegnò il disegno. Anch'io cercai di sembrare compiaciuto. Aveva dimenticato il tender.
Un quarto di secolo dopo, venni a sapere due cose: che Burness, ormai defunto, era ben noto a Edimburgo come dotto traduttore di quelle stesse poesie romantiche russe che erano state oggetto della mia parossistica devozione nell'infanzia; e che il mio umile maestro di disegno, del quale ero solito sincronizzare l'età con quella dei miei prozii e dei vecchi servitori di famiglia, aveva sposato una giovane estone pressappoco all'epoca in cui mi ero sposato io. Quando venni a conoscenza di questi ulteriori sviluppi, subii uno strano shock; era come se la vita avesse violato i miei diritti creativi, riuscendo a sgusciare al di là dei limiti soggettivi così elegantemente e accortamente fìssati da quei ricordi d'infanzia che credevo di aver già firmato e sigillato.
«E che ne è di Jaremic?» chiesi a M.V. Dobuzinskij un pomeriggio d'estate degli anni Quaranta, mentre passeggiavamo per un bosco di faggi nel Vermont. «Se lo ricordano ancora?».
«Certo che se lo ricordano» rispose Mstislav Valerianovic. «Aveva un talento eccezionale. Non so che razza d'insegnante fosse, ma so che tu sei stato il peggior allievo che io abbia mai avuto».
CINQUE
1
Ho notato spesso come, dopo aver elargito ai personaggi dei miei romanzi qualche particolare molto prezioso del mio passato, quello stesso particolare andasse via via languendo nel mondo artificiale in cui lo avevo così bruscamente collocato. Pur indugiando ancora nella mia mente, il suo intimo tepore, il suo fascino retrospettivo svaniva e, da quel momento, andava a identificarsi con il romanzo più strettamente che con il me stesso di un tempo, dove era parso così al sicuro dalle intrusioni dell'artista. Si sono sgretolate case nella mia memoria, in quella stessa assenza di suoni che accompagna il loro crollo nei film muti di un tempo, e il ritratto della mia vecchia governante francese, che già avevo prestato a un certo ragazzino in un certo libro, svanisce in fretta, una volta inghiottito nella descrizione di un'infanzia che non ha niente a che vedere con la mia. Visto che l'uomo si ribella al romanziere, ecco il mio disperato tentativo di portare in salvo ciò che resta della povera Mademoiselle.
Donna massiccia, davvero robusta, Mademoiselle ruzzolò dentro la nostra esistenza nel 1905, quando io avevo sei anni, e mio fratello cinque. Eccola là. Vedo con assoluta chiarezza i folti capelli scuri, spazzolati alti all'insù e che di nascosto ingrigiscono; le tre rughe su quella fronte austera; le sopracciglia unite; l'acciaio degli occhi dietro il pince-nez dalla montatura nera; quelle vestigia di baffi; quella carnagione maculata che, nei momenti d'ira, sviluppava un rossore supplementare nella regione del terzo mento, il più ampio, così regalmente adagiato sulla montagna tutta balze della camicetta. Ed eccola che si siede, o meglio affronta il compito di mettersi a sedere, la gelatina della gota che tremola, il prodigioso posteriore con i tre bottoni laterali che si cala circospetto; quindi, all'ultimo istante, lei cede la sua mole alla poltrona di vimini che, in preda a puro terrore, scoppia in una salva di crepitii.
Eravamo stati all'estero per circa un anno. Dopo aver passato l'estate del 1904 a Beaulieu e ad Abbazia, e parecchi mesi a Wiesbaden, partimmo per la Russia all'inizio del 1905. Non riesco a ricordare il mese. Unico indizio è che a Wiesbaden mi avevano portato nella chiesa russa – era la prima volta in assoluto che entravo in una chiesa – e ciò potrebbe essere stato nel periodo quaresimale (durante la funzione avevo chiesto a mia madre di che cosa parlassero il sacerdote e il diacono, e lei mi aveva sussurrato in inglese che dicevano che dovevamo tutti amarci l'un l'altro, ma io avevo inteso che quei due sfarzosi personaggi dalle scintillanti tuniche a forma di cono si promettevano a vicenda di restare per sempre buoni amici). Giungemmo a Berlino da Francoforte durante una tempesta di neve, e il mattino seguente prendemmo il Nord-Express che arrivava rimbombando da Parigi. Dopo dodici ore raggiunse la frontiera russa. Sullo sfondo invernale, la cerimonia del cambio di vagoni e motrice assumeva un nuovo strano s\1gnifìcato. Una sensazione emozionante di rodina, «patria», per la prima volta si mescolava in modo organico allo scricchiolio piacevole della neve, alle orme profonde che vi si imprimevano, al rosso lucente del fumaiolo, ai tronchi di betulla, sepolti sotto il loro personale strato di neve trasportabile, e ammucchiati sul tender rosso. Non avevo ancora sei anni, ma quell'anno passato all'estero, un anno di decisioni difficili e di speranze liberali, aveva esposto un bimbette russo alla conversazione dei grandi. Non poteva fare a meno di essere influenzato dalla nostalgia materna e dal patriottismo paterno. In conclusione, quel particolare ritorno in Russia, il mio primo ritorno consapevole, mi appare adesso, sessantanni dopo, una prova, non del solenne rimpatrio che non avverrà mai, ma del suo costante vagheggiamento nei lunghi anni d'esilio.
L'estate del 1905 a Vyra non aveva ancora fatto sviluppare lepidotteri. Il maestro della scuola del villaggio ci portava a fare passeggiate istruttive. («Quello che sentite è il rumore di una falce che viene arrotata»; «La prossima stagione quel campo se ne starà a riposo»; «Oh, è solo un uccellino… non ha un nome specifico»; «Se quel contadino è ubriaco, è perché è povero»). L'autunno tappezzò il parco di foglie di vari colori, e Miss Robinson ci insegnò la bella trovata – che aveva così divertito, l'autunno precedente, il Figlio dell'Ambasciatore, personaggio familiare nel suo piccolo mondo – che consisteva nello scegliere sul terreno e sistemare poi su un grande pezzo di carta determinate foglie di acero che avrebbero formato uno spettro quasi completo (meno il blu, che delusione!), il verde che sfumava nel giallo limone, il giallo limone che sfumava nell'arancio, e così via passando dai rossi ai viola, ai marroni violacei, di nuovo ai rossicci, e indietro attraverso il giallo limone fino al verde (che stava diventando difficile da trovare se non in qualche ultimo ciglio coraggioso). I primi geli colpivano gli aster e noi non tornavamo ancora in città.
Quell'inverno del 1905-1906, quando Mademoiselle arrivò dalla Svizzera, fu l'unico inverno rurale della mia infanzia. Era un anno di scioperi, sommosse, e massacri istigati dalla polizia; e penso che mio padre volesse mettere al sicuro la famiglia lontano dalla città, nella nostra tranquilla tenuta, dove arguiva giustamente che il favore dei suoi contadini avrebbe ridotto il rischio di disordini. Fu anche un inverno particolarmente rigido, che produsse tanta neve quanta Mademoiselle avrebbe potuto aspettarsi di trovarne nelle tenebre iperboree della remota Moscovia. Quando scese alla stazioncina di Siverskij, dalla quale avrebbe dovuto viaggiare in slitta per un'altra decina di chilometri fino a Vyra, non ero lì ad accoglierla; però ci sono adesso, mentre cerco di immaginarmi che cosa avesse visto e sentito nell'ultimo tratto di quel viaggio meraviglioso e intempestivo. Il suo lessico russo consisteva, mi risulta, di una parola breve, la stessa parola solitaria che anni dopo si sarebbe riportata in Svizzera. Quella parola, che come la pronunciava lei si può rendere foneticamente con «ghiddi-eh» (in realtà gde, con la «e» che è «ié»), voleva dire «dove?». Ed era già tanto. Profferita come il grido rauco di qualche uccello smarrito, accumulava una tale forza interrogativa da far fronte a qualsiasi bisogna. «Ghiddi-eh? Ghiddi-eh?» gemeva, non solo per scoprire dove si trovasse, ma anche per esprimere un abisso di infelicità: il fatto che lei era straniera, naufraga, spiantata, sofferente, in cerca della terra benedetta dove sarebbe stata finalmente capita.
Me la figuro, per procura, nel bel mezzo del marciapiede della stazione dove è appena approdata, e invano il mio spettrale inviato le offre un braccio che lei non può vedere. («Eccomi là, abbandonata da tutti, come la Comtesse Karenine» si sarebbe lamentata in seguito, eloquentemente, anche se non del tutto a proposito). La porta della sala d'aspetto si apre con quel raccapricciante gemito che è tipico delle notti di gelo intenso; si precipita fuori una nuvola d'aria calda, copiosa almeno quanto il vapore emesso dal gran fumaiolo dell'ansimante motrice; ed ecco che Zachar, il nostro cocchiere, assume il controllo – un uomo robusto con un cappotto di montone rovesciato, i guanti enormi che sporgono dalla fascia scarlatta in cui li ha infilati. Sento la neve che scricchiola sotto gli stivali di feltro mentre lui si occupa dei bagagli, della bardatura tintinnante, e infine del suo naso, a cui reca sollievo con un destro colpetto di pollice e indice mentre passa arrancando dietro la slitta. Lentamente, in preda a tetre apprensioni, «Madmazelja», come viene chiamata dal suo accompagnatore, si arrampica su, abbarbicandosi a lui nel timore mortale che la slitta si metta in moto prima che le sue ampie forme si siano saldamente insediate. Alla fine si accomoda con un grugnito e ficca i pugni nello striminzito manicotto di felpa. Al succoso schiocco di labbra del guidatore, i due cavalli neri, Zojka e Zinka, tendono i muscoli dei posteriori, muovono gli zoccoli, tendono di nuovo i muscoli; e poi il torso di Mademoiselle viene strattonato all'indietro mentre la pesante slitta è sradicata a viva forza da un mondo di acciaio, pelliccia, carne per entrare in un elemento privo d'attrito dove va scremando una fantomatica strada che sembra appena sfiorare.
Per un istante, grazie all'improvviso fulgore di un solitario lampione là dove termina il piazzale della stazione, un'ombra grossolanamente esagerata, che stringe anch'essa un manicotto, gareggia nella corsa con la slitta, scala un maroso di neve, e sparisce, lasciando che Mademoiselle sia inghiottita da ciò a cui più tardi alluderà, con timore reverenziale ed entusiasmo, come «la steppe». Laggiù, nell'oscurità sconfinata, i bagliori mutevoli delle luci di un remoto villaggio le paiono occhi gialli di lupo. Ha freddo, è irrigidita dal gelo, assiderata «fino al centro del cervello», lei che quando non si aggrappa alle vecchie massime più sicure si libra verso le iperboli più audaci. Di tanto in tanto si guarda indietro per accertarsi che la seconda slitta con il baule e la cappelliera la segua – sempre alla stessa distanza, come quelle socievoli navi fantasma nelle acque polari descritte da certi esploratori. E non sia mai che io dimentichi la luna – una luna deve esserci senz'altro, quel disco pieno, incredibilmente luminoso che ben si addice alle possenti gelate russe. Ed eccola che arriva, la luna, facendo rotta fuori da un gregge di nuvolette screziate che sfuma di una vaga iridescenza; e, man mano che veleggia verso l'alto, stende uno smalto vitreo sulle tracce dei pattini lungo la strada, dove ogni scintillante grumo di neve è messo in risalto da un'ombra turgida.
Davvero incantevole, davvero solitario. Ma che cosa ci faccio io là, in quello stereoscopico paese dei sogni? Come ci sono arrivato? Le due slitte sono in qualche modo sgusciate via lasciandosi dietro, sulla strada biancoazzurra, una spia senza passaporto in stivali da neve e impermeabile imbottito del New England. Le vibrazioni dentro le mie orecchie non sono più le campanelle delle slitte che si allontanano, ma solo il canto del mio vecchio sangue. Tutto è immobile, ammaliato, soggiogato dalla luna, specchietto retrovisore dell'immaginazione. Però la neve è autentica, e, nel chinarmi a raccoglierne una manciata, sessantanni mi si sfarinano tra le dita in uno sfavillante pulviscolo di ghiaccio.
5
Il brano seguente non è destinato al lettore comune, ma a quel particolare idiota che, avendo perso una fortuna in qualche disastro finanziario, ritiene di potermi capire.
La mia vecchia querelle (risalente al 1917) con la dittatura sovietica non ha niente a che vedere con la questione della proprietà. Il mio disprezzo per l'émigré che «odia i Rossi» perché gli hanno «rubato» soldi e terre è assoluto. La nostalgia che ho serbato nel cuore in tutti questi anni è un senso ipertrofizzato dell'infanzia perduta e non il dolore per le perdute banconote.
E infine: mi riservo il diritto di provare nostalgia per una nicchia ecologica:
… Sotto il cielo
della mia America sospirare
per un sol luogo della Russia.
Il lettore comune può ora proseguire.
6
Si avvicinavano i diciotto anni ed ecco che già li avevo compiuti; storie amorose e versi da scrivere occupavano la maggior parte del mio tempo libero; le questioni materiali mi lasciavano indifferente e, comunque, sullo sfondo del nostro benessere, nessuna eredità poteva sembrare veramente cospicua; pure, spingendo lo sguardo a ritroso, oltre l'abisso trasparente, trovo strano e in qualche modo sgradevole accorgermi che, durante il breve anno in cui fui in possesso di quella personale ricchezza, ero troppo immerso nelle abituali delizie della gioventù – una gioventù che stava rapidamente perdendo il suo iniziale, insolito fervore – sia per trarre un particolare godimento dal lascito sia per avvertire un qualsiasi disappunto quando, da un giorno all'altro, la rivoluzione bolscevica lo cancellò. Il ricordo di ciò mi dà la sensazione di essere stato ingrato verso lo zio Ruka, di aver condiviso l'atteggiamento generale di sorridente condiscendenza a lui solitamente riservato anche da coloro che gli volevano bene. E con estrema ripugnanza che mi costringo a ricordare i commenti sarcastici del mio precettore svizzero, Monsieur Noyer (per altri versi anima davvero sensibile), all'indirizzo della migliore composizione dello zio, una romance, di cui aveva scritto parole e musica. Un giorno, sulla terrazza del suo castello di Pau – la distesa degli ambrati vigneti più in basso e in lontananza le montagne che si tingevano di porpora –, al tempo in cui era tormentato da asma, palpitazioni e tremori, una escoriazione proustiana dei sensi, se débattant, per così dire, sotto l'effetto dei colori autunnali (descritti, con parole sue, come la «chapelle ardente defeuilles aux tons violents»), delle voci lontane nella vallata, di un volo di colombe che striava il tenero cielo, egli aveva composto quella romance alata sì, ma solo a metà (e l'unico a impararne a memoria la musica e ogni parola era stato mio fratello Sergej, cui lo zio non prestava quasi mai attenzione, anche lui balbuziente, anche lui morto oramai).
«L'air transparent fait monter de laplaine…» cantava con la sua acuta voce tenorile, seduto al pianoforte bianco della nostra casa di campagna – e se in quel momento, passando per le vicine macchie d'alberi, mi stavo affrettando verso casa per il pranzo (avendo visto la sua paglietta sbarazzina e il busto rivestito di velluto nero dell'avvenente cocchiere dal profilo assiro, le braccia infilate nelle maniche scarlatte e protese in avanti, scorrere veloci lungo la sommità della siepe tra il parco e il viale), gli accenti lamentosi
Un voi de tourterelles strie le del tendre,
Les chrysanthèmes se parent pour la Toussaint
giungevano fino a me e al mio verde retino da farfalle fra le tremule ombre del sentiero, in fondo al quale si scorgeva il viale di sabbia rossastra e l'angolo della nostra casa appena ridipinta nel colore delle giovani pigne, mentre dalla finestra aperta del salotto si riversava quella musica ferita.
7
Richiamare alla mente con immediatezza frammenti del passato è un'azione che mi sembra di aver continuato a compiere con il massimo piacere durante tutta la mia vita, e ho motivo di ritenere che questo affinamento quasi patologico della facoltà retrospettiva sia un tratto ereditario. C'era un punto della foresta, una passerella gettata su un corso d'acqua scuro, dove mio padre si fermava in riverente ricordo di una farfalla rara che, il 17 agosto 1883, il suo precettore tedesco aveva catturato per lui. Quella scena, che risaliva a trentasette anni prima, veniva rivissuta un'altra volta. Lui e i suoi fratelli si erano fermati di colpo in preda a un'agitazione impotente scorgendo su un tronco l'insetto tanto ambito che muoveva su e giù, quasi respirasse allarmato, le quattro ali rosso ciliegia su ciascuna delle quali spiccava un occhio di pavone. In un teso silenzio, non osando tentare il colpo egli stesso, mio padre aveva allungato il retino a Herr Rogge che brancolava nel tentativo di afferrarlo, gli occhi fissi sullo splendido lepidottero. Un quarto di secolo dopo, il mio stipo ereditò quell'esemplare. Dettaglio commovente: le ali si erano «alzate» perché l'insetto era stato rimosso dalla tavoletta da entomologo troppo presto, con troppa impazienza.
In una villa sull'Adriatico affittata nell'estate del 1904 assieme alla famiglia di mio zio Ivan de Peterson (la villa si chiamava Nettuno o Apollo – ancora oggi nelle vecchie foto di Abbazia riesco a identificarne la torre merlata color crema), all'età di cinque anni, quando dopo pranzo me ne stavo pigramente disteso nel mio lettino, avevo l'abitudine di girarmi a pancia in giù e con zelo, amore, disperazione, e un'accuratezza artistica nei dettagli diffìcile da conciliare con il numero assurdamente esiguo di stagioni che erano andate a formare l'immagine di «casa» permeata di inesplicabile nostalgia (l'avevo vista per l'ultima volta nel settembre del 1903), disegnavo sul cuscino, con l'indice, il viale d'accesso che si incurvava verso la nostra casa di Vyra, i gradini di pietra a destra, lo schienale intagliato di una panchina a sinistra, il viale di quercioli che iniziava oltre le siepi di caprifoglio, e un ferro di cavallo appena rimasto sul terreno, un pezzo da collezione (molto più grande e lucente di quelli arrugginiti che trovavo sulla spiaggia) scintillante tra la polvere rossastra del tracciato. Con sessantanni sulle spalle, il ricordo di quel ricordo è tanto più vecchio, ma molto meno insolito.
Una volta, nel 1908 o nel 1909, lo zio Ruka si immerse nella lettura di certi libri francesi per bambini che aveva scovato per caso da noi; con un gemito rapito, aveva ritrovato un passo che lui amava da piccolo e che esordiva così: «Sophie netaitpasjolie…», e molti anni dopo il mio gemito fece eco al suo nel riscoprire per caso in una camera dei bambini quegli stessi volumi della «Bibliothèque Rose», con storie di ragazzini e ragazzine che in Francia conducevano una versione idealizzata di quella vie de chàteau condotta in Russia dalla mia famiglia. In sé quelle storie (tutti quei Les malheurs de Sophie, Les petitesfilles modèles, Les vacances) sono, per come le vedo ora, un orribile miscuglio di leziosaggine e di cattivo gusto, ma nello scriverle la sentimentale e compiaciuta Mme de Ségur née Rostopcin non faceva altro che francesizzare gli elementi autentici della sua infanzia russa, che aveva preceduto la mia di un secolo esatto. Quanto a me, se mi capita di imbattermi di nuovo nelle disgrazie di Sophie – le sopracciglia rasate e la sua passione per la panna – non solo rivivo le medesime gioie e le medesime angosce dello zio, ma mi ritrovo con un ulteriore fardello – il ricordo che ho di lui mentre rivive la sua infanzia con l'aiuto di quegli stessi libri. Rivedo la stanza delle lezioni a Vyra, le rose turchine della carta da parati, la finestra aperta. Il riflesso di quella finestra riempie lo specchio ovale sopra il divano di cuoio su cui siede lo zio, che gongola davanti a un libro sbrindellato. Un senso di sicurezza, di benessere, di tepore estivo pervade la mia memoria. Quella realtà vigorosa riduce il presente a un fantasma. Lo specchio trabocca di luce; un calabrone è entrato nella stanza e va a sbattere contro il soffitto. Tutto è come deve essere, niente cambierà mai, nessuno mai morirà.
QUATTRO
1
Il genere di famiglia russa alla quale appartenevo – un genere oggi estinto – aveva, tra le altre virtù, un tradizionale penchant per i comodi prodotti della civiltà anglosassone. Il sapone Pears, nero pece da asciutto, color topazio se tenuto controluce tra le dita bagnate, provvedeva ai lavaggi mattutini. Era un piacere, quel progressivo alleggerirsi della vasca pieghevole inglese quando il beccuccio inferiore di gomma veniva spinto in fuori affinché scaricasse il suo schiumoso contenuto nel secchio dell'acqua sporca. «Migliorare la pasta non era possibile, così abbiamo migliorato il tubetto» diceva il dentifricio inglese. A colazione, il Golden Syrup importato da Londra avvolgeva con le sue spire lucenti il cucchiaio che ruotava, dal quale la giusta quantità era già scivolata su una fetta di pane e burro russo. Dal negozio inglese sulla Prospettiva Nevskij arrivava una processione ininterrotta di prodotti confortevoli e di qualità: torte di frutta, sali da bagno, carte da gioco, puzzle, blazer a righe, palle da tennis bianche come talco.
Ho imparato a leggere in inglese prima che in russo. I primi amici inglesi che ho avuto erano quattro anime candide del libro di grammatica: Ben, Dan, Sam e Ned. Si faceva un gran parlare di chi fossero e dove si trovassero: «Chi è Ben?», «Lui è Dan», «Sam è a letto» e così via. Sebbene tutto risultasse piuttosto rigido e frammentario (l'autore era penalizzato dal dover usare – almeno per le lezioni iniziali – parole di non più di tre lettere), la mia fantasia riusciva in qualche modo a reperire i dati necessari. Taciturni imbecilli dalle facce esangui e dagli arti massicci, fieri proprietari di certi attrezzi («Ben ha un'ascia»), oggi vagano con una goffa andatura al rallentatore lungo il fondale più remoto della memoria; e, simili al folle alfabeto sul tabellone di un ottico, i caratteri di quella grammatica si allineano di nuovo davanti a me.
La stanza delle lezioni era inondata di sole. In un barattolo di vetro appannato diversi bruchi spinosi si nutrivano di foglie di cardo (ed espellevano interessanti pallottoline, simili a botticelle, di escrementi verde oliva). La tela cerata che rivestiva il tavolo rotondo odorava di colla. Miss Clayton odorava di Miss Clayton. L'alcol color sangue del termometro esterno era salito, incredibilmente, trionfalmente, a 24° Réaumur (86° Fahrenheit) all'ombra. Dalla finestra si vedevano giovani contadine con il fazzoletto in testa che carponi estirpavano erbacce da un sentiero del giardino, oppure rastrellavano delicatamente la sabbia picchiettata di sole. (I giorni felici in cui avrebbero spazzato strade e scavato canali per lo Stato ancora non si erano profilati all'orizzonte). Tra il fogliame, i rigogoli emettevano le loro quattro splendide note: dii-dil-dii-O!
Ned passava davanti alla finestra con andatura pesante, in una discreta imitazione dell'aiutogiardiniere Ivan (che nel 1918 sarebbe diventato membro del soviet locale). Nelle pagine successive apparivano parole più lunghe, e alla fine del volume marrone macchiato d'inchiostro una storia autentica e sensata dispiegava le sue frasi ormai adulte («Un giorno Ted disse ad Ann: facciamo…»), trionfo supremo e ricompensa finale del giovane lettore. Mi entusiasmavo al pensiero che anch'io un giorno avrei potuto conseguire una simile abilità. Quella magia non è venuta meno, e ogni volta che mi capita tra le mani una grammatica corro subito all'ultima pagina per il piacere di gettare una rapida quanto illecita occhiata al futuro dello studente operoso, a quella terra promessa dove, finalmente, le parole stanno a significare quello che in effetti significano.
2
Sumerki d'estate – l'incantevole parola russa che vuol dire crepuscolo. Il tempo: un punto imprecisato nel primo decennio di questo secolo impopolare. Il luogo: 59° latitudine nord del vostro equatore, 100° longitudine est della mia mano che scrive. Il giorno ci metteva ore a svanire, e ogni cosa – il cielo, i fiori alti, le acque stagnanti – rimaneva in uno stato di infinita sospensione vespertina, esaltato piuttosto che dissolto dal dolente muggito di una mucca in un pascolo distante o dal verso ancora più struggente di un uccello al di là del corso inferiore del fiume, dove la vasta distesa azzurro nebbia di uno sfagneto per via del suo mistero e della sua lontananza era stata battezzata America dai bambini Rukavisnikov.
Spesso, nel salotto della nostra casa di campagna, prima che io andassi a letto, la mamma mi leggeva qualche cosa in inglese. Quando era prossima a un passo particolarmente drammatico, in cui l'eroe stava per imbattersi in chissà quale pericolo strano, forse anche fatale, il ritmo della sua voce si faceva più lento, spazi premonitori si aprivano tra le parole, e prima di voltare la pagina lei vi posava sopra la mano dal familiare anello con un rubino sangue di piccione e un diamante (dentro le cui limpide sfaccettature, se avessi meglio saputo leggere nella sfera di cristallo, sarei riuscito a vedere una stanza, persone, luci, alberi sotto la pioggia: un intero periodo di vita émigré che quell'anello era destinato a pagare).
C'erano storie di cavalieri le cui ferite, spaventose ma miracolosamente asettiche, venivano lavate da qualche donzella dentro una grotta. In cima a una rupe spazzata dal vento, una fanciulla medioevale dai capelli scompigliati e un giovane in calzamaglia fissavano le tondeggianti Isole dei Beati. In Incompreso, il destino di Humphrey ti faceva venire uno speciale groppo alla gola, ben più che nei racconti di Dickens o di Daudet (grandi inventori di groppi), mentre una storia sfacciatamente allegorica, Al di là delle Montagne Azzurre, che trattava di due coppie di piccoli viaggiatori – i buoni Trifoglio e Primula, i cattivi Ranuncolo e Margherita –, conteneva tanti particolari emozionanti da farti dimenticare il «messaggio» insito nel racconto.
C'erano poi i libri con le illustrazioni, libri grandi, piatti, dalla carta patinata. Mi piaceva soprattutto il Golliwogg nero come il carbone, giacca blu, pantaloni rossi, bottoni da biancheria al posto degli occhi e uno sparuto harem formato da cinque bambole di legno. Ricorrendo all'espediente illegale di ritagliarsi i vestiti dalla bandiera americana (Peg si prendeva le strisce matronali e Sarah Jane le graziose stelle), due di quelle bambole avevano acquisito una certa qual morbida femminilità, una volta che le loro neutre articolazioni anatomiche erano state rivestite. Le Gemelle (Meg e Weg) e il piccolo Midget erano rimasti completamente nudi e, di conseguenza, asessuati.
Li vediamo sgattaiolare fuori di casa nel cuore della notte per lanciarsi palle di neve fino a quando i rintocchi di un orologio lontano («Ma ascolta!» commenta il testo in rima) non li rispediscono dentro la casetta dei giocattoli nella stanza dei bambini. Uno sgarbato pupazzo a molla salta fuori all'improvviso spaventando la mia graziosa Sarah, e io quell'illustrazione la detestavo di tutto cuore poiché mi ricordava le feste infantili in cui qualche incantevole bambina che mi aveva ammaliato si schiacciava un dito o si sbucciava un ginocchio, trasformandosi di colpo in uno spiritello maligno dalla faccia purpurea, tutta rughe e bocca urlante. In un'altra occasione, durante un viaggio in bicicletta, vengono catturati dai cannibali; i nostri ignari viaggiatori si stanno dissetando a una pozza frangiata di palme quando risuonano i tamtam. Da dietro la spalla del mio passato ammiro di nuovo quell'illustrazione cruciale: il Golliwogg è ancora inginocchiato accanto alla pozza ma ha smesso di bere; i capelli gli stanno ritti in testa e la faccia, di solito nera, ha assunto una bizzarra sfumatura cinerea. C'era anche il libro dell'automobile (Sarah Jane, sempre la mia preferita, che sfoggia un lungo velo verde), con il solito risultato finale: stampelle e teste bendate.
E, sì: il dirigibile. Metri e metri di seta gialla per costruirlo, e, in aggiunta, un minuscolo pallone a uso esclusivo del fortunato Midget. La navicella raggiunge un'altitudine immensa, gli aeronauti si stringono l'uno all'altro per riscaldarsi, mentre il piccolo solista smarrito, ancora oggetto di profonda invidia da parte mia nonostante la situazione disperata, si allontana alla deriva in un abisso di gelo e di stelle – solo.
3
Vedo poi mia madre che mi conduce a letto attraverso l'enorme vestibolo, dove uno scalone centrale sale su, sempre più su, con nient'altro che pannelli di vetro simili a quelli delle serre tra l'ultimo pianerottolo e il verde tenue del cielo serotino. Tu cercavi di restare indietro, strascicando i piedi e sdrucciolando appena sul liscio pavimento di pietra del vestibolo, e costringevi la mano gentile poggiata all'altezza delle reni a sospingere in avanti il tuo corpo restio con pressioni indulgenti. Arrivato allo scalone, avevo l'abitudine di raggiungere i gradini insinuandomi sotto il corrimano, tra il pilastrino d'appoggio e il primo balaustro. Ogni estate, quello sgusciare diventava sempre più difficoltoso; oggi, perfino il mio spettro vi rimarrebbe incastrato.
Un'altra parte del rituale consisteva nel salire a occhi chiusi. «Step, step, step», «Scalino, scalino, scalino» risuonava la voce di mia madre, mentre mi conduceva di sopra: e infatti la superficie del gradino seguente accoglieva il piede fiducioso del piccolo cieco; bastava soltanto sollevarlo un po' più del solito per evitare di urtare con l'alluce contro l'alzata. Quell'ascesa lenta, quasi sonnambolica, immerso in un'oscurità autoimposta, era fonte di evidenti delizie. La più intensa stava nel non sapere quando sarebbe arrivato l'ultimo gradino. In cima alle scale il piede veniva automaticamente sollevato all'ingannevole comando «Step», e quindi, con una sensazione momentanea di panico acuto, con una contrazione violenta dei muscoli, affondava nel fantasma di un gradino, imbottito, per così dire, della materia infinitamente elastica della sua stessa inesistenza.
É sorprendente quanto metodo ci fosse nel mio gingillarmi prima di andare a letto. Certo, tutta la cerimonia del salire le scale ora rivela taluni valori trascendentali. In realtà, tuttavia, non facevo altro che guadagnare tempo prolungando all'estremo ogni secondo. La cosa continuò anche quando mia madre passò a Miss Clayton o a Mademoiselle l'incarico di svestirmi.
Nella nostra casa di campagna c'erano cinque stanze da bagno, e un assortimento di venerandi lavabi (uno dei quali andavo sempre a scovare nel suo cantuccio buio dopo aver pianto, per sentire sulla faccia gonfia, che mi vergognavo di mostrare, il tocco riparatore del suo zampillo esitante mentre con il piede abbassavo il pedale rugginoso). Il bagno vero e proprio veniva fatto la sera. Per le abluzioni mattutine usavamo le tonde vasche inglesi di gomma. La mia aveva un diametro di circa un metro e venti, il bordo mi arrivava al ginocchio. Sulla schiena cosparsa di sapone del bambino accovacciato, un servitore in grembiule versava con cautela una brocca d'acqua. La temperatura variava a seconda dei criteri idroterapeutici dei mentori che via via si susseguivano. Ci fu quel tetro periodo della prima pubertà in cui il nostro precettore del momento, studente di medicina, decretò che occorreva un diluvio ghiacciato. A parte ciò, la temperatura del bagno serale rimase gradevolmente costante sui 28° Réaumur (95° Fahrenheit) secondo la stima di un termometro grosso e benevolo il cui rivestimento di legno (con un pezzetto di spago umido nell'occhiello del manico) gli consentiva di condividere la spinta idrostatica con pesci rossi e piccoli cigni di celluloide.
I gabinetti erano separati dalle stanze da bagno, e il più antico era un locale alquanto sontuoso ma cupo, dotato di una bella pannellatura e di un cordone di velluto rosso con nappa che una volta tirato generava una serie di gorgoglii e risucchi ben modulati e pudicamente ovattati. Da quell'angolo della casa riuscivi a vedere Espero e a udire gli usignoli, e fu là che, in seguito, iniziai a comporre i miei versi giovanili dedicati a beltà mai abbracciate, e immusonito contemplai, in uno specchio fiocamente illuminato, il sorgere improvviso di uno strano castello in una Spagna sconosciuta. Da piccolo, però, mi avevano destinato una sistemazione più modesta, piuttosto disinvoltamente ubicata in un andito angusto tra un cesto di vimini per la biancheria sporca e la porta che dava sul bagno della camera dei bambini. Quella porta, mi piaceva tenerla socchiusa; attraverso l'apertura osservavo assonnato il tremulo luccichio del vapore sulla vasca da bagno color mogano, la fantastica flottiglia di cigni e barchette – su una ci sono io con un'arpa –, la falena pelosa che sbatte con un suono secco contro il riflettore della lampada a cherosene, e, dietro, la finestra dai vetri istoriati, e i suoi due alabardieri fatti di rettangoli policromi. Chinandomi in avanti dal mio caldo sedile, mi divertivo a premere il centro dell'arcata sopracciliare, l'ophryon, per essere esatti, contro il profilo liscio e confortevole della porta, quindi ruotavo leggermente il capo in modo tale da spingere la porta avanti e indietro mentre il suo spigolo restava sempre a contatto, un contatto consolatorio, con la mia fronte. Un ritmo sognante permeava tutto il mio essere. Il recente «Step, step, step» veniva ripreso da un rubinetto gocciolante. E, combinando felicemente il ritmo del disegno con quello del suono, dipanavo le greche labirintiche del linoleum, decifrando volti là dove una crepa o un'ombra offrivano allo sguardo un point de repère. Una supplica ai genitori: non dite mai, mai «Sbrigati» a un bambino.
L'ultima tappa di quella mia navigazione oziosa era l'approdo all'isola del letto. Dalla veranda o dal salotto, dove la vita continuava senza di me, mia madre saliva a portarmi il caldo mormorio del bacio della buonanotte. Gli scuri accostati, una candela accesa, Gentle Jesus, meek and mild, somethìng-something little child, quel bambino inginocchiato su un guanciale che di lì a poco avrebbe inghiottito la sua testa ronzante. Le preghiere in inglese e la piccola icona che ritraeva un abbronzato santo greco-ortodosso formavano un innocente sodalizio a cui ripenso con piacere; e sopra l'icona, in cima al muro, dove l'ombra di qualche cosa (del paravento di bambù tra il letto e la porta?) si increspava nella calda luce della candela, un acquerello in cornice mostrava un sentiero oscuro snodarsi attraverso uno di quei faggeti europei paurosamente fitti, in cui l'unico sottobosco esistente è un tappeto di convolvoli e l'unico suono consiste nel battito martellante del cuore. In una fiaba inglese che una volta mi aveva letto mia madre c'era un bambino che era sceso dal letto per entrare in un quadro e con il suo cavalluccio di legno aveva percorso un sentiero dipinto tra alberi silenziosi. Inginocchiato sul cuscino, avvolto in una bruma fatta di sonnolenza e di benessere al talco, mezzo seduto sui polpacci e recitando in fretta la preghiera, immaginavo di arrampicarmi dentro il quadro sopra il letto e di tuffarmi in quel magico faggeto – che a tempo debito avrei visitato davvero.
4
Mentre rientro nel mio passato, mi si fa incontro uno stupefacente corteo di bambinaie e governanti inglesi, e alcune si torcono le mani, altre mi rivolgono sorrisi enigmatici.
Ci fu la scialba Miss Rachel, la ricordo soprattutto in relazione ai biscotti Hundey and Palmer (nello strato superiore della scatola di latta, foderata di carta blu, c'erano gli squisiti torroncini alla mandorla, mentre gli insipidi cracknels, duri e croccanti, stavano sul fondo), che condividevamo illegalmente dopo che mi ero già lavato i denti. Ci fu Miss Clayton, ogni volta che mi afflosciavo sulla sedia mi dava un colpetto al centro delle vertebre e poi raddrizzava le spalle con un sorriso per dimostrare ciò che si aspettava da me: mi aveva detto che un suo nipote, alla mia età (quattro anni), allevava bruchi, ma quelli che lei aveva raccolto per me e messo in un barattolo di vetro senza coperchio e pieno di ortiche, un mattino se ne erano andati via e il giardiniere aveva detto che si erano impiccati. Ci fu la bella Miss Norcott, capelli neri e occhi acquamarina, che aveva perduto un guanto bianco di capretto a Nizza o a Beaulieu, e io lo cercai invano sulla spiaggia ghiaiosa, tra ciottoli colorati e glauchi cocci di bottiglia levigati dal mare. Una sera, ad Abbazia, la bella Miss Norcot fu licenziata in tronco. Mi abbracciò nell'incerta luce mattutina della camera dei bambini, avvolta in un pallido impermeabile e piangente come il salice omonimo, e io rimasi inconsolabile per tutto il giorno, nonostante la cioccolata calda che la vecchia nanny dei Peterson mi aveva appositamente preparato, e il pane e burro speciale sulla liscia superficie del quale la zia Nata, così brava nell'attirare la mia attenzione, aveva disegnato prima una margherita, poi un gatto, e infine una sirenetta di cui avevo appena letto proprio con Miss Norton, e su cui avevo anche sparso le mie lacrime, di modo che ricominciai subito a piangere. Ci fu la piccola e miope Miss Hunt, la cui breve permanenza fra noi a Wiesbaden si concluse quando mio fratello e io, rispettivamente di quattro e cinque anni, riuscimmo a sfuggire alla sua nervosa vigilanza, imbarcandoci su un vaporetto e viaggiando per un bel tratto lungo il Reno prima che venissimo catturati. Ci fu Miss Robinson, dal naso roseo. Poi ancora Miss Clayton. Ci fu una persona terrificante che mi lesse L'atomo possente di Marie Corelli. E altre ancora. Poi, a un certo punto, scomparvero dalla mia vita. Il francese e il russo prevalsero; e il poco tempo a disposizione per l'inglese fu destinato a sporadiche conversazioni con due signori, Mr Burness e Mr Cummings, nessuno dei quali abitava con noi. Nella mia mente, li associo a certi inverni a San Pietroburgo, dove avevamo una casa in via Morskaja.
Mr Burness era un grosso scozzese dalla faccia rubiconda, occhi azzurro chiaro e lisci capelli color paglia. Le sue mattine erano dedicate all'insegnamento in una scuola di lingue mentre i pomeriggi finivano per essere pieni zeppi di lezioni private, assai più di quante potessero essere ospitate in una sola giornata. Dovendo Spostarsi da una parte all'altra della città e dovendo dipendere dal trotto torpido degli avviliti cavalli degli izvozciki (cocchieri di piazza) per raggiungere i suoi allievi, lui arrivava, se era fortunato, solo con un quarto d'ora di ritardo alla lezione delle due (dovunque si tenesse), ma alla lezione delle quattro arrivava dopo le cinque. La tensione generata da quell'attesa e la speranza che, una volta tanto, la sua sovrumana tenacia venisse meno davanti alla grigia muraglia di qualche eccezionale tempesta di neve, erano quel tipo di sensazioni in cui speriamo ardentemente di non imbatterci da adulti (ma che provai di nuovo quando a mia volta fui costretto dalle circostanze a dare lezioni private e quando, nelle mie stanze d'affitto a Berlino, mi ritrovai ad aspettare un certo allievo dalla faccia di pietra che alla fine arrivava sempre, nonostante gli ostacoli che mentalmente accumulavo sul suo cammino).
L'oscurità stessa che si addensava fuori sembrava un prodotto residuale degli sforzi compiuti da Mr Burness per raggiungere casa nostra. Di lì a poco il valletto sarebbe venuto ad abbassare le voluminose veneziane azzurre e a tirare i tendaggi a fiori delle finestre. Il tic tac della pendola del nonno nella stanza delle lezioni assumeva a mano a mano un'intonazione desolata, irritante. La sensazione fastidiosa all'inguine causata dai pantaloncini stretti e il contatto ruvido dei miei calzettoni neri a coste con l'interno morbido delle gambe piegate si mescolavano alla sorda pressione di un bisognino, il cui soddisfacimento continuavo a rimandare. Era trascorsa quasi un'ora e non c'era traccia di Mr Burness. Mio fratello andava in camera sua ed eseguiva esercizi al pianoforte, quindi si tuffava e rituffava in alcune melodie che io detestavo – le istruzioni ai fiori finti nel Faust (… dites-lui qu'elle est belle…) o il lamento di Vladimir Lenskij (… Kuu-da, kuu-da, kuu-da, vy udalilis'). Scendevo dal piano superiore, destinato a noi bambini, scivolando lentamente sulla balaustra fino al primo piano, dove si trovavano le stanze dei miei genitori. A quell'ora erano più spesso fuori che a casa, e, nel crepuscolo che si infittiva, il luogo aveva un effetto curiosamente teleologico sui miei giovani sensi, come se l'accumulo di oggetti familiari nel buio stesse facendo del suo meglio per formare quell'immagine definita e permanente che la reiterata esposizione alla fine mi avrebbe lasciato impressa nella mente.
L'oscurità color seppia di un pomeriggio artico di mezzo inverno invadeva le stanze addensandosi in un nero opprimente. Qua e là nel buio, un angolo di bronzo, una superficie di vetro o di mogano levigato riflettevano gli scampoli di luce dalla strada, dove i globi degli alti lampioni lungo la linea mediana già diffondevano il loro chiarore lunare. Ombre diafane si muovevano sul soffitto. Nella quiete, il suono secco di un petalo di crisantemo che cadeva sul marmo di un tavolo ti pizzicava le corde dei nervi.
Nel boudoir di mia madre c'era un comodo bovindo con vista sulla Morskaja in direzione di piazza Mariinskij. Con le labbra premute contro il tessuto sottile che velava la finestra assaporavo poco alla volta il freddo del vetro attraverso il tulle. Da quel bovindo, anni dopo, allo scoppio della rivoluzione, osservai vari scontri e vidi il primo morto della mia vita: lo stavano portando via in barella e, da una gamba penzolante, un compagno male in arnese quanto a calzature cercava di sfilare lo stivale nonostante i pugni e le spinte dei barellieri – e tutto ciò procedendo a un discreto trotto. Ma ai tempi delle lezioni di Mr Burness non c'era niente da osservare tranne la buia strada ovattata e la fila di lampioni altezzosamente sospesi che si perdeva in lontananza, intorno ai quali i fiocchi di neve passavano e ripassavano con movenze eleganti, quasi deliberatamente rallentate, come a rivelare il segreto di quel trucco, e quanto semplice fosse. Da un'angolatura diversa, si riusciva a vedere meglio la neve che scendeva in un flusso più generoso, circondata da un alone più vivido di luce a gas violetta, e allora l'involucro aggettante in cui mi trovavo sembrava andare lentamente alla deriva verso l'alto, sempre più in alto, come un pallone. Finalmente, una di quelle slitte fantasma che scivolavano lungo la strada si fermava, e Mr Burness, inalberando la sua sapka di pelo di volpe, si dirigeva con fretta sgraziata verso il nostro portone.
Dalla stanza delle lezioni, in cui l'avevo preceduto, udivo i suoi passi vigorosi e sonori farsi sempre più vicini, ed entrando, per quanto fredda fosse la giornata, la sua faccia bonaria e rubizza era sempre copiosamente madida di sudore. Ricordo la spaventosa energia con cui premeva sul foglio la penna sputacchiante mentre, con la più tonda delle grafie rotonde, annotava i compiti per il giorno dopo. Di solito, alla fine della lezione, c'era la richiesta, esaudita, di un certo limerick, e lo scopo di quella esibizione era che la parola «strillava» prevista dalla filastrocca dovesse essere involontariamente rappresentata da uno strillo ogni volta che Mr Burness stritolava la mia mano, prigioniera nella sua zampa robusta, mentre recitava i versi:
C'era in Russia una donna sposata che (strillo) nell'esser pestata lei (strillo) e (strillo)…
e a quel punto il dolore si faceva talmente intollerabile che non andavamo mai oltre.
5
Il signore barbuto, silenzioso, leggermente ingobbito, l'antiquato Mr Cummings, che nel 1907 o nel 1908 mi aveva insegnato a disegnare, era stato maestro di disegno anche di mia madre. Era arrivato in Russia all'inizio degli anni Novanta come corrispondente estero e illustratore del «Graphic» di Londra. Si mormorava che disgraziate vicende coniugali gli avessero complicato la vita. Una melanconica gentilezza di modi ne compensava lo scarso talento. Indossava un ulster, a meno che il tempo non fosse molto mite, nel qual caso passava a un mantello di lana grigioverde, del genere detto loden.
Ero affascinato dal modo in cui usava una speciale gomma per cancellare che teneva nel taschino del panciotto, dal modo in cui stirava la pagina, e quindi spazzava via con il dorso delle dita i «guttlici di perca» (come diceva). Silenzioso, triste, mi illustrava le marmoree leggi della prospettiva: tratti lunghi e diritti di una matita incredibilmente appuntita, impugnata con eleganza, facevano sì che le linee dell'ambiente da lui creato dal nulla (pareti astratte, fuga di soffitto e pavimento) convergessero in un punto remoto e ipotetico con stuzzicante e sterile precisione. Stuzzicante perché mi faceva pensare a binari ferroviari, simmetricamente e ingannevolmente convergenti davanti agli occhi iniettati di sangue della mia maschera preferita, un macchinista annerito dal fumo della locomotiva; sterile, perché quella stanza sarebbe rimasta senza mobili e affatto vuota, priva persino delle statue anodine in cui ci si imbatte nella prima sala, per nulla interessante, dei musei.
La restante galleria di quadri compensava il vestibolo spoglio. Mr Cummings era maestro nei tramonti. I suoi piccoli dipinti ad acquerello, acquistati in varie occasioni al prezzo di cinque o dieci rubli l'uno da qualche membro della nostra famiglia, conducevano un'esistenza alquanto precaria, spostati com'erano in recessi sempre più oscuri per poi finire completamente eclissati da un lucente animale di porcellana o da una fotografia appena incorniciata. Dopo che ebbi imparato non solo a disegnare cubi e coni ma anche a ombreggiare correttamente, con tratteggi obliqui fitti e omogenei, le parti che dovevano essere fatte sparire per sempre, quel gentile, vecchio signore si limitò a dipingere sotto il mio sguardo incantato i suoi piccoli, umidi paradisi, variazioni dello stesso paesaggio: una sera d'estate con un cielo arancione, un pascolo che confinava con la nera frangia di una foresta distante, e un fiume luminoso che duplicava il cielo snodandosi in lontananza.
Un po' di tempo dopo, sarà stato il 1910 o il 1912, al suo posto venne il famoso «impressionista» (termine allora in voga) Jaremic; amorfo e privo di humour, era fautore di uno stile «ardito», chiazze di colore opaco, macchie seppia e oliva per mezzo delle quali dovevo riprodurre, su enormi fogli di carta grigia, forme umanoidi che poi modellavamo nella plastilina e piazzavamo in posizioni «drammatiche» sullo sfondo di un drappo di velluto tutto pieghe ed effetti d'ombra. Era una deprimente combinazione di almeno tre arti diverse, tutte approssimative, e alla fine mi ribellai.
Fu sostituito dal celebre Dobuzinskij, che preferiva darmi lezione in uno dei graziosi salotti del piano nobile, dove faceva il suo ingresso in un modo particolarmente silenzioso, quasi avesse paura di risvegliarmi di colpo da una trance indotta dall'ispirazione poetica. Voleva che dipingessi a memoria, con il maggior numero possibile di dettagli, oggetti da me certamente visti migliaia di volte ma non visualizzati con la dovuta attenzione: un lampione, una cassetta delle lettere, il motivo a tulipani sulla vetrata della nostra porta d'ingresso. Cercò d'insegnarmi a trovare le coordinazioni geometriche tra i rami sottili di un albero spoglio in un viale, un sistema di compromessi visivi che nella resa del tratto richiedeva una precisione da me mai raggiunta in gioventù, ma a cui attinsi con gratitudine, nel corso della mia muta adulta, non solo per disegnare i genitali delle farfalle durante i sette anni trascorsi al Museo di Zoologia comparata di Harvard – quando mi immergevo nel luminoso oculare di un microscopio per prendere nota con inchiostro di china di questa o quella nuova struttura –, ma anche, forse, per certe necessità della camera chiara della composizione letteraria. Dal punto di vista emotivo, tuttavia, sono ancor più indebitato verso quelle prime esperienze coloristiche che ho avuto in dono da mia madre e dal suo ex maestro. Con quale disponibilità Mr Cummings si sedeva su uno sgabello, scostando dietro di sé con entrambe le mani la sua – che cosa? indossava una finanziera? vedo solo il gesto – e si accingeva ad aprire la scatola nera di metallo con gli acquerelli. Mi piaceva la destrezza con cui intingeva il pennello in più colori, accompagnata dal rapido tintinnio dei recipienti smaltati nelle cui cavità erano appetitosamente collocati i rossi e i gialli intensi dentro i quali il pennello scavava piccoli avvallamenti; raccolto così il suo miele, quel pennello smetteva di volteggiare e assestare colpetti, e con due o tre veloci passaggi della punta lussureggiante impregnava la carta Vatmanskij di un'uniforme distesa di cielo arancione, sulla quale, mentre quel cielo era ancora umidiccio, veniva sistemata una lunga nuvola nerovioletta. «Ecco fatto, carino» diceva. «E tutto».
Una volta mi feci disegnare da lui un treno espresso. Osservavo la sua matita che riproduceva abilmente il cacciapietre e i complicati fanali di testa di una locomotiva che sembrava essere stata acquistata di seconda mano per la Transiberiana, dopo aver fatto il proprio dovere negli anni Sessanta al Promontory Point, nello Utah. Poi seguirono cinque vagoni di una banalità deludente. Quando li ebbe rifiniti per bene, ombreggiò con cura il fumo copioso che usciva dall'enorme fumaiolo, piegò di lato la testa, e, dopo un istante di compiaciuta contemplazione, mi consegnò il disegno. Anch'io cercai di sembrare compiaciuto. Aveva dimenticato il tender.
Un quarto di secolo dopo, venni a sapere due cose: che Burness, ormai defunto, era ben noto a Edimburgo come dotto traduttore di quelle stesse poesie romantiche russe che erano state oggetto della mia parossistica devozione nell'infanzia; e che il mio umile maestro di disegno, del quale ero solito sincronizzare l'età con quella dei miei prozii e dei vecchi servitori di famiglia, aveva sposato una giovane estone pressappoco all'epoca in cui mi ero sposato io. Quando venni a conoscenza di questi ulteriori sviluppi, subii uno strano shock; era come se la vita avesse violato i miei diritti creativi, riuscendo a sgusciare al di là dei limiti soggettivi così elegantemente e accortamente fìssati da quei ricordi d'infanzia che credevo di aver già firmato e sigillato.
«E che ne è di Jaremic?» chiesi a M.V. Dobuzinskij un pomeriggio d'estate degli anni Quaranta, mentre passeggiavamo per un bosco di faggi nel Vermont. «Se lo ricordano ancora?».
«Certo che se lo ricordano» rispose Mstislav Valerianovic. «Aveva un talento eccezionale. Non so che razza d'insegnante fosse, ma so che tu sei stato il peggior allievo che io abbia mai avuto».
CINQUE
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Ho notato spesso come, dopo aver elargito ai personaggi dei miei romanzi qualche particolare molto prezioso del mio passato, quello stesso particolare andasse via via languendo nel mondo artificiale in cui lo avevo così bruscamente collocato. Pur indugiando ancora nella mia mente, il suo intimo tepore, il suo fascino retrospettivo svaniva e, da quel momento, andava a identificarsi con il romanzo più strettamente che con il me stesso di un tempo, dove era parso così al sicuro dalle intrusioni dell'artista. Si sono sgretolate case nella mia memoria, in quella stessa assenza di suoni che accompagna il loro crollo nei film muti di un tempo, e il ritratto della mia vecchia governante francese, che già avevo prestato a un certo ragazzino in un certo libro, svanisce in fretta, una volta inghiottito nella descrizione di un'infanzia che non ha niente a che vedere con la mia. Visto che l'uomo si ribella al romanziere, ecco il mio disperato tentativo di portare in salvo ciò che resta della povera Mademoiselle.
Donna massiccia, davvero robusta, Mademoiselle ruzzolò dentro la nostra esistenza nel 1905, quando io avevo sei anni, e mio fratello cinque. Eccola là. Vedo con assoluta chiarezza i folti capelli scuri, spazzolati alti all'insù e che di nascosto ingrigiscono; le tre rughe su quella fronte austera; le sopracciglia unite; l'acciaio degli occhi dietro il pince-nez dalla montatura nera; quelle vestigia di baffi; quella carnagione maculata che, nei momenti d'ira, sviluppava un rossore supplementare nella regione del terzo mento, il più ampio, così regalmente adagiato sulla montagna tutta balze della camicetta. Ed eccola che si siede, o meglio affronta il compito di mettersi a sedere, la gelatina della gota che tremola, il prodigioso posteriore con i tre bottoni laterali che si cala circospetto; quindi, all'ultimo istante, lei cede la sua mole alla poltrona di vimini che, in preda a puro terrore, scoppia in una salva di crepitii.
Eravamo stati all'estero per circa un anno. Dopo aver passato l'estate del 1904 a Beaulieu e ad Abbazia, e parecchi mesi a Wiesbaden, partimmo per la Russia all'inizio del 1905. Non riesco a ricordare il mese. Unico indizio è che a Wiesbaden mi avevano portato nella chiesa russa – era la prima volta in assoluto che entravo in una chiesa – e ciò potrebbe essere stato nel periodo quaresimale (durante la funzione avevo chiesto a mia madre di che cosa parlassero il sacerdote e il diacono, e lei mi aveva sussurrato in inglese che dicevano che dovevamo tutti amarci l'un l'altro, ma io avevo inteso che quei due sfarzosi personaggi dalle scintillanti tuniche a forma di cono si promettevano a vicenda di restare per sempre buoni amici). Giungemmo a Berlino da Francoforte durante una tempesta di neve, e il mattino seguente prendemmo il Nord-Express che arrivava rimbombando da Parigi. Dopo dodici ore raggiunse la frontiera russa. Sullo sfondo invernale, la cerimonia del cambio di vagoni e motrice assumeva un nuovo strano s\1gnifìcato. Una sensazione emozionante di rodina, «patria», per la prima volta si mescolava in modo organico allo scricchiolio piacevole della neve, alle orme profonde che vi si imprimevano, al rosso lucente del fumaiolo, ai tronchi di betulla, sepolti sotto il loro personale strato di neve trasportabile, e ammucchiati sul tender rosso. Non avevo ancora sei anni, ma quell'anno passato all'estero, un anno di decisioni difficili e di speranze liberali, aveva esposto un bimbette russo alla conversazione dei grandi. Non poteva fare a meno di essere influenzato dalla nostalgia materna e dal patriottismo paterno. In conclusione, quel particolare ritorno in Russia, il mio primo ritorno consapevole, mi appare adesso, sessantanni dopo, una prova, non del solenne rimpatrio che non avverrà mai, ma del suo costante vagheggiamento nei lunghi anni d'esilio.
L'estate del 1905 a Vyra non aveva ancora fatto sviluppare lepidotteri. Il maestro della scuola del villaggio ci portava a fare passeggiate istruttive. («Quello che sentite è il rumore di una falce che viene arrotata»; «La prossima stagione quel campo se ne starà a riposo»; «Oh, è solo un uccellino… non ha un nome specifico»; «Se quel contadino è ubriaco, è perché è povero»). L'autunno tappezzò il parco di foglie di vari colori, e Miss Robinson ci insegnò la bella trovata – che aveva così divertito, l'autunno precedente, il Figlio dell'Ambasciatore, personaggio familiare nel suo piccolo mondo – che consisteva nello scegliere sul terreno e sistemare poi su un grande pezzo di carta determinate foglie di acero che avrebbero formato uno spettro quasi completo (meno il blu, che delusione!), il verde che sfumava nel giallo limone, il giallo limone che sfumava nell'arancio, e così via passando dai rossi ai viola, ai marroni violacei, di nuovo ai rossicci, e indietro attraverso il giallo limone fino al verde (che stava diventando difficile da trovare se non in qualche ultimo ciglio coraggioso). I primi geli colpivano gli aster e noi non tornavamo ancora in città.
Quell'inverno del 1905-1906, quando Mademoiselle arrivò dalla Svizzera, fu l'unico inverno rurale della mia infanzia. Era un anno di scioperi, sommosse, e massacri istigati dalla polizia; e penso che mio padre volesse mettere al sicuro la famiglia lontano dalla città, nella nostra tranquilla tenuta, dove arguiva giustamente che il favore dei suoi contadini avrebbe ridotto il rischio di disordini. Fu anche un inverno particolarmente rigido, che produsse tanta neve quanta Mademoiselle avrebbe potuto aspettarsi di trovarne nelle tenebre iperboree della remota Moscovia. Quando scese alla stazioncina di Siverskij, dalla quale avrebbe dovuto viaggiare in slitta per un'altra decina di chilometri fino a Vyra, non ero lì ad accoglierla; però ci sono adesso, mentre cerco di immaginarmi che cosa avesse visto e sentito nell'ultimo tratto di quel viaggio meraviglioso e intempestivo. Il suo lessico russo consisteva, mi risulta, di una parola breve, la stessa parola solitaria che anni dopo si sarebbe riportata in Svizzera. Quella parola, che come la pronunciava lei si può rendere foneticamente con «ghiddi-eh» (in realtà gde, con la «e» che è «ié»), voleva dire «dove?». Ed era già tanto. Profferita come il grido rauco di qualche uccello smarrito, accumulava una tale forza interrogativa da far fronte a qualsiasi bisogna. «Ghiddi-eh? Ghiddi-eh?» gemeva, non solo per scoprire dove si trovasse, ma anche per esprimere un abisso di infelicità: il fatto che lei era straniera, naufraga, spiantata, sofferente, in cerca della terra benedetta dove sarebbe stata finalmente capita.
Me la figuro, per procura, nel bel mezzo del marciapiede della stazione dove è appena approdata, e invano il mio spettrale inviato le offre un braccio che lei non può vedere. («Eccomi là, abbandonata da tutti, come la Comtesse Karenine» si sarebbe lamentata in seguito, eloquentemente, anche se non del tutto a proposito). La porta della sala d'aspetto si apre con quel raccapricciante gemito che è tipico delle notti di gelo intenso; si precipita fuori una nuvola d'aria calda, copiosa almeno quanto il vapore emesso dal gran fumaiolo dell'ansimante motrice; ed ecco che Zachar, il nostro cocchiere, assume il controllo – un uomo robusto con un cappotto di montone rovesciato, i guanti enormi che sporgono dalla fascia scarlatta in cui li ha infilati. Sento la neve che scricchiola sotto gli stivali di feltro mentre lui si occupa dei bagagli, della bardatura tintinnante, e infine del suo naso, a cui reca sollievo con un destro colpetto di pollice e indice mentre passa arrancando dietro la slitta. Lentamente, in preda a tetre apprensioni, «Madmazelja», come viene chiamata dal suo accompagnatore, si arrampica su, abbarbicandosi a lui nel timore mortale che la slitta si metta in moto prima che le sue ampie forme si siano saldamente insediate. Alla fine si accomoda con un grugnito e ficca i pugni nello striminzito manicotto di felpa. Al succoso schiocco di labbra del guidatore, i due cavalli neri, Zojka e Zinka, tendono i muscoli dei posteriori, muovono gli zoccoli, tendono di nuovo i muscoli; e poi il torso di Mademoiselle viene strattonato all'indietro mentre la pesante slitta è sradicata a viva forza da un mondo di acciaio, pelliccia, carne per entrare in un elemento privo d'attrito dove va scremando una fantomatica strada che sembra appena sfiorare.
Per un istante, grazie all'improvviso fulgore di un solitario lampione là dove termina il piazzale della stazione, un'ombra grossolanamente esagerata, che stringe anch'essa un manicotto, gareggia nella corsa con la slitta, scala un maroso di neve, e sparisce, lasciando che Mademoiselle sia inghiottita da ciò a cui più tardi alluderà, con timore reverenziale ed entusiasmo, come «la steppe». Laggiù, nell'oscurità sconfinata, i bagliori mutevoli delle luci di un remoto villaggio le paiono occhi gialli di lupo. Ha freddo, è irrigidita dal gelo, assiderata «fino al centro del cervello», lei che quando non si aggrappa alle vecchie massime più sicure si libra verso le iperboli più audaci. Di tanto in tanto si guarda indietro per accertarsi che la seconda slitta con il baule e la cappelliera la segua – sempre alla stessa distanza, come quelle socievoli navi fantasma nelle acque polari descritte da certi esploratori. E non sia mai che io dimentichi la luna – una luna deve esserci senz'altro, quel disco pieno, incredibilmente luminoso che ben si addice alle possenti gelate russe. Ed eccola che arriva, la luna, facendo rotta fuori da un gregge di nuvolette screziate che sfuma di una vaga iridescenza; e, man mano che veleggia verso l'alto, stende uno smalto vitreo sulle tracce dei pattini lungo la strada, dove ogni scintillante grumo di neve è messo in risalto da un'ombra turgida.
Davvero incantevole, davvero solitario. Ma che cosa ci faccio io là, in quello stereoscopico paese dei sogni? Come ci sono arrivato? Le due slitte sono in qualche modo sgusciate via lasciandosi dietro, sulla strada biancoazzurra, una spia senza passaporto in stivali da neve e impermeabile imbottito del New England. Le vibrazioni dentro le mie orecchie non sono più le campanelle delle slitte che si allontanano, ma solo il canto del mio vecchio sangue. Tutto è immobile, ammaliato, soggiogato dalla luna, specchietto retrovisore dell'immaginazione. Però la neve è autentica, e, nel chinarmi a raccoglierne una manciata, sessantanni mi si sfarinano tra le dita in uno sfavillante pulviscolo di ghiaccio.