mercoledì 22 gennaio 2025

L'EMOZIONE DELLE COSE Ángeles Mastretta



L'EMOZIONE DELLE COSE
Ángeles Mastretta
Recensione
P.b.
Mi piace ricordare e ricostruire, spizzichi della mia vita, perchè penso non sia la più piatta e monotona delle esistenze. Come tutti abbiamo aspetti del passato, più o meno emozionanti, abbiamo una quotidianità fatta di abitudini ma anche episodi unici, inaspettati, che si presentano per cambiare il corso delle cose, per arricchirti, o per metterti alla prova. Per questo ho amato molto leggere Ángeles Mastretta "L'emozione delle cose". Certi scrittori bisognerebbe conservarli come beni preziosi. le loro pagine ci insegnano a vivere senza peraltro imporcerlo, semplicemente attraverso impressioni ed esperienze condivise che ci aiutano ad avanzare nel cammino delle diverse tappe della nostra esistenza. Angeles Mastretta è attenta, riflessiva, sensibile, sincera, fragile e, al tempo stesso, fortissima. Sono struggenti i ricordi della madre così come quelli del padre e della sua parte di vita restata un po' nascosta e sconosciuta.....Tutto, nella vita, alla fine trova il suo posto nel susseguirsi di vicende e affetti e tutto, prima o poi, concorre a formare ciò che noi siamo adesso.

L'EMOZIONE DELLE COSE
MIE DUE CENERI
Tutte le luci sono accese, ma io sono rimasta al buio in casa di mia madre. Una casa in mezzo al giardino, che è di tutti.
Mio padre ereditò questo terreno, che all’epoca era un luogo remoto accanto alla città, da suo padre, un emigrante italiano arrivato in Messico alla fine dell’Ottocento. Sarebbe potuto finire nel baratro dei debiti se mia madre non vi si fosse aggrappata.
A mio padre toccò la guerra, e il matrimonio come l’unica conclusione possibile di quel sogno di orrori: una tregua. L’ardua pace che lui sintetizzava così: «In chiesa ti legano una spugna alla schiena. Il prete dice che bisognerà portare addosso quel carico per tutta la vita con serenità e allegria. Pensi che non ci sarà niente di più facile. Poi, finita la cerimonia, si apre il portone della chiesa e i coniugi escono per sempre sotto il temporale».
A mia madre toccarono la bellezza e la tenacia. Il matrimonio come una decisione che pensò fosse nelle sue mani e invece fu guidata dalla mano del destino, che giocava a farle credere di essere lei a governare l’eccesso delle sue emozioni.
Successe che si sposarono dopo due anni di un fidanzamento a tentoni. Lui voleva baciarla, lei si chiedeva se sarebbe riuscita a sopportare per tutta la vita il fatto che suo marito non fosse alto, come suo padre.
C’è una foto in cui mia madre sorride ed è splendida come una dea: così, con quel suo viso da bambina che alla fine si rassegnò a non esserlo. Lui l’ha presa sottobraccio ed è come se si tenesse tutto dentro, come se fosse davvero possibile non raccontarle niente di quello che c’era stato prima. È il giorno del loro matrimonio, la mattina dell’11 dicembre 1948. Anche lui sorride, quasi si potessero dimenticare lo sconforto e le perdite. Ha l’aria felice. Mia madre allora aveva l’età che ha oggi mia figlia.
Abbiamo messo la foto sul camino. Fino a un anno fa era in un baule, ma mia sorella Verónica l’ha trovata proprio quando cominciavamo a sentirne il bisogno. I nostri genitori si volevano bene. Quanto? La loro fu una storia da romanzo d’epoca o non era epoca da romanzi? Non li vidi mai baciarsi sulla bocca. Ci penso adesso che sono rimasta qui da sola con loro: perché non si baciavano davanti a noi?
Il mio nonno materno pensò per mesi che quel matrimonio non avrebbe funzionato. Carlos non era ricco, aveva dodici anni di più, e oltretutto sognava a occhi aperti.
La mia nonna paterna era sicura che la famiglia di mia madre fosse troppo liberale, ma delle sue certezze non importò niente a nessuno. Per quattro anni aveva creduto che Carlos fosse morto in Italia mentre qui le morivano altri due figli. Per lei era solo Dio a decidere e qualsiasi cosa decidesse Dio era la giusta decisione. Forse è per questo che nessuno la ascoltava.
Soprattutto mia madre. Non dimenticò mai quel giorno di aprile in cui portò dei manghi in regalo alla sua futura suocera, e quest’ultima si rifiutò di mangiarli perché non era ancora piovuto.
La mia nonna materna avrebbe amato questo giardino. L’amore per la terra ci viene dai miei nonni materni, e la loro nipote Verónica ne ha fatto una crociata. Il mio nonno paterno l’aveva comprato perché nelle vicinanze aveva costruito un sistema idraulico per produrre energia con le acque del fiume Atoyac. Tutt’intorno c’erano solo campi, e giorni che rotolavano come pietre.
Quando lo acquistò, il suo secondo figlio, mio padre, non era ancora disperso in un paese in guerra. Il nonno credeva nelle guerre, motivo per una discussione che però nessuno volle avere con lui. Nemmeno mio padre che di ragioni ne avrebbe avute mille, perché aveva vissuto la guerra. Dopo essere tornato dall’Italia, non ne parlò più. Neppure mia madre, che gli dormì accanto per venti anni, seppe mai dell’orrore che gli attanagliò la vita e la mente da allora e per sempre. Credemmo che avesse dimenticato. Ma l’abisso di cui non parlava mai era lì, nella nostalgia con cui si appoggiò alla porta di casa guardando noi, i suoi tre figli più grandi, che andavamo a vivere a Città del Messico. All’improvviso.
Ce ne andammo tutti e tre. Come se i nostri genitori fossero ricchi e noi non sapessimo che non lo erano.
Mio padre, Carlos Mastretta Arista, morì cinque mesi dopo. E solo da poco, io, sua figlia Ángeles, ho smesso di credere che sia stata colpa mia. Ora lo so come so dell’acqua: le persone muoiono in qualsiasi momento. E un uomo di cinquantotto anni, la mia età di adesso, che fumava da quaranta, che ne aveva passati cinque in un paese in guerra e venti lontano dal luogo in cui era nato, e riposava solo la domenica, può morire per tutto questo e per mille altre ragioni. Anche se nessuno se lo aspettava, anche se lo vedevamo andare a lavorare e rientrare fischiettando come se stesse tornando da una fiera.
Aveva l’aria contenta, soprattutto la domenica, quando scriveva un articolo sulle auto destinato al giornale su cui pubblicò per oltre quindici anni. Il quotidiano finì per cacciarlo accusandolo di essere comunista, proprio lui che per un momento, non so quanto lungo, aveva creduto nel sogno fascista. Poveretto. Non chiedeva un centesimo per scrivere, né glielo avrebbero dato, ma era il suo divertimento. Chissà se pensò di essere una persona felice, ma sapeva farci ridere e al tempo stesso ci trasmise la sua passione per la malinconia. Un uomo così non dovrebbe morire presto. Ma anche la bontà ha una scadenza.
Mia madre, i miei fratelli e io lo seppellimmo. Sono passati gli anni, e lui non è passato. È passata la vita e il suo ricordo è cresciuto dentro di noi. Mia madre lavorava già prima di perdere mio padre. Insegnava i primi passi di danza in una piccola scuola, con dispiacere di suo marito che considerava una vergogna quello che adesso sarebbe un vanto: avere una moglie impegnata a fare qualcosa di più che truccarsi e lamentarsi.
Perso il marito a quarantasei anni, bellissima, non si risposò né cercò di farlo. Sbarrò la porta a qualcosa che le sembrava scomodo. Un uomo estraneo alla famiglia che dormiva in casa sua? Tutto ma non questo, diceva il suo atteggiamento da regina segregata.
E il tempo passò. Noi figli cominciammo a renderci utili, smettemmo di pesare sulle sue finanze, ma non sul suo animo. Sull’animo, i figli pesano sempre. Ti fai carico di loro come dei tuoi sogni: per fortuna.
Quando noi, i suoi cinque figli, ci sistemammo, lei aveva due sogni. Uno, studiare. L’altro, costruire la casa che aveva desiderato per tutta la vita in mezzo al giardino che mio padre aveva sempre considerato come la più remota delle fantasie. Forse, vendendolo, la situazione finanziaria sarebbe migliorata, ma mia madre sarebbe morta allora e non quarant’anni dopo. Sarebbe morta senza avere frequentato le scuole superiori a sessant’anni ed essersi laureata a settanta. Sarebbe morta allora e non adesso, quando non aveva comunque voglia di morire.
Nessuno vuole morire, e la morte non ci violenta e non ci attanaglia di meno per il solo fatto che ce l’aspettiamo. Le andiamo incontro come se non ci fosse niente di più inaudito. Mia madre era molto malata e aveva già ottantaquattro anni. Visse per alcuni mesi lottando con le debolezze del suo corpo, accanendosi a balbettare che anche in quelle condizioni voleva rimanere un altro po’, crogiolarsi al sole, ascoltare le nostre chiacchiere, bere la sua avena e mangiare ogni giorno il nostro pane dorato. Respirare.
Finiranno in un pezzo del suo giardino i grani di sabbia cinerina in cui si sono trasformati i suoi occhi chiari, la sua voce, la sua memoria, la sua disperata passione per la vita e per i figli di suo marito Carlos, per noi che oggi pomeriggio ci siamo riuniti a pensare sotto quale albero li metteremo. Tutti e due, perché dopo la morte di mia madre abbiamo recuperato anche i resti di mio padre e li abbiamo fatti cremare, come lei, finché ci hanno restituito tutto il suo splendore ridotto in piccoli granelli.
Ciò che rimaneva delle sue ossa, solitarie nell’ombra, si trova adesso in una cassetta di legno, uguale a quella che abbiamo preso per mia madre. Abbiamo messo le due cassette sulla scrivania una accanto all’altra, alla luce, rivolte verso il giardino. E adesso che i miei fratelli se ne sono andati, ognuno a casa sua, io sono rimasta qui, al buio.
Questa casa di tutti è la mia eredità. Saperlo e pensarlo mi fa tremare. Guardo le due cassette, poggio una mano su ognuna. Quella di mio padre, strano a dirsi, mi rallegra. Di suo era rimasto solo il nostro ricordo, e adesso quei piccoli frammenti grigi sono lì a dirmi che è esistito, che c’era una persona viva dietro il mito straordinario che noi tutti abbiamo tessuto dopo la sua morte. Le ceneri di mia madre, invece, mi devastano. Appena due giorni fa, erano la passione e la fede di una donna che vive ancora in ogni pianta del suo giardino. E qui c’è tutto ciò che rimane di lei, in un’urna muta. Quella di Carlos parla, continua a dirmi sciocchezze: «Buongiorno, figlia mia, sono stato felice. Buongiorno, figlia mia, non angosciarti, se si muore è perché si deve morire. Buongiorno, figlia mia, avete fatto bene a portarmi in questo giardino. Buongiorno, figlia mia, non avere paura, nel nulla non succede nulla».
L’urna di mia madre non dice una parola, ma mi fa piangere come se fosse sperduta in un deserto. Come se, oltre a subirla, questa solitudine fosse colpa mia. Quella di mia madre dice: «Ora non ci sono più, ora sei vecchia, ora tocca a te essere la madre dei miei figli, ora piangere non serve, così non sei di aiuto a nessuno, mettiti al lavoro, smettila di guardarmi. Non guardarmi perché non sono qui, sono fuori a passeggiare tra i libri, vicino al tavolo, davanti ai fornelli, sotto gli alberi, con i bambini, contrariamente a quanto potrebbe sembrare. Non guardarmi. Ricorda chi ero da viva, fa’ che il morto sia tuo padre, che era già morto. In questa urna non ci sono, portala in giardino, buttala, liberatene. Qui non ci sono né i miei occhi né le mie mani né il mio ostinato desiderio di esserci. Portala in giardino e mettila vicino a quello che rimane di tuo padre, lui che non ha conosciuto questa casa e non ne sente la mancanza, e non sa che voi ormai sapete che sono morta. Non guardarmi. Lascia che continui a vivere, senza turbare il mio dolore con il tuo».
Tutte le luci sono accese, ma io sono rimasta al buio in casa di mia madre; una casa in mezzo al giardino, che è di tutti. Ed è mia. Come la memoria, l’abbandono e il vento. Non ho paura, padre, sono terrorizzata. Non sono terrorizzata, madre, ho la tua eredità e questa casa e i tuoi cani. Ho i miei figli e i miei fratelli con i loro figli. Ho due urne, due mucchi di polvere, una sola tristezza bruciante.


TRIGONOMETRIA DELLA TRISTEZZA

Sarebbe bello poter credere che i morti facciano miracoli aleggiando in un’aria che non li accarezza più. Consolerebbe sapere che c’è qualcosa di loro nel trambusto delle faccende quotidiane, e che le svolte cruciali sono legate al loro impegno di anni per ottenerle, al loro morire desiderandole, ai poteri ultraterreni emanati dall’odore delle loro ceneri.
Mia madre morì ad agosto, qualche anno fa. Non è strano, lo so, a tanti muore la madre. Alla mia età, a quasi tutti. Ma non a tutti la tristezza piomba addosso nello stesso momento, e non è vero che la perdita si senta meno con il passare degli anni. Ci rassegniamo. A volte ci sembra di farlo fin dal primo giorno, ma all’improvviso, basta vedere una pianta rampicante e perdiamo il coraggio.
Mia madre aveva gli occhi chiari ed era in pace con la vita. Mentre cresceva, il mondo era piccolo e governato da una banda di ladri. Continuavano a governarlo così, senz’altra ambizione che quella di dominare, né altro lusso che quello di procurarsi lussi, due cricche che si lasciavano in eredità il potere.
Nessuno apriva bocca. Meglio così che essere ammazzati, pensavano molti nel 1924, quando nacque lei. E continuavano a pensarlo nel 1934, quando aveva dieci anni, nel 1944, quando ne aveva venti, e nel 1954, quando ne compii cinque e lei ci pettinava nei giorni di festa. Anche nei primi anni sessanta, quando il mondo era ancora piccolo nonostante si stesse aprendo in tanti punti, continuava a essere governato dagli eredi del cacicco più potente che Puebla avesse mai avuto. Un uomo che, quando nacqui io, era già morto da parecchi anni, eppure ne aveva ancora tanti da vivere. Perfino nel 1980, quando volevo scrivere un libro su di lui, cosa che non feci perché era un’impresa che superava le mie forze, nessuno osava pronunciare il suo nome ad alta voce. Era stato temuto al punto che continuava a esserlo a quasi quarant’anni dalla sua morte.
In mancanza di verità complete, inventai un personaggio che a mia madre sembrò minore rispetto all’impronta lasciata nel suo mondo da quello reale. Lo inventai mettendo insieme le poche cose che venni a sapere e le tantissime che immaginai; mia madre pensò sempre, e a ragione, che la storia vera fosse migliore e che la realtà di quel tempo fosse stata decisamente più drammatica. Lei le aveva viste tutte e a casa sua ne avevano parlato ad alta voce mentre in città passavano in silenzio tutti gli anni tra il 1934 e il 1982. Allora nacque mio figlio e lei intraprese gli studi superiori e poi quelli universitari, spinta dalla certezza che il mondo non poteva essere così silenzioso né così piccolo, che fuori c’era l’orrore per quanto in privato si cercasse di mantenere un’atmosfera idilliaca, come sembrava esserci durante la mia infanzia e la sua gioventù, al tempo in cui le tremavano le mani per questioni che in seguito la fecero ridere.
Partecipare alla cosa pubblica sembrava talmente impossibile, che la famiglia era il più pubblico dei nostri mondi. Tutta l’energia era rivolta all’interno. Ecco perché prendere parte all’organizzazione di una festa in onore di sua madre la rendeva nervosa. Per mia madre l’autorità era sua madre. Prima di qualsiasi uomo: la voce di mia nonna. Le sue figlie, il trio di donne sotto il cui controllo cresceva la tribù, organizzavano per lei feste in cui cantavamo, ballavamo, recitavamo.
Eravamo venti ragazzini dominati da tre sorelle sorridenti alle quali rendevamo omaggio. Donne il cui sforzo, applicato alla vita pubblica, avrebbe potuto essere un’altra festa.
Siccome mia madre era perfetta – mio padre e mia nonna lo dicevano sempre, anche se noi figli ce ne rendemmo conto in ritardo – le dispiaceva fare brutta figura. E tremava al pensiero che le ciocche delle nostre trecce non fossero uguali fra loro, che potessimo dimenticare la canzone, che una delle sue quattro allieve di danza inciampasse durante la cerimonia, magari perché aveva perso il pettine del costume da sivigliana.
Ci mascheravano in ogni modo possibile. Tra i quattro e i dieci anni ricordo di avere indossato un vestito da pastorella, uno da principessa, uno da madrilena, uno da prima comunione, uno da angelo e altri cinque, tutti cuciti da lei. Abbigliati in modi diversi a seconda dello spettacolo, uscivamo sul palcoscenico, che era il salotto di mia nonna, come se calcassimo le scene del Metropolitan a New York. E mia madre tremava come George Balanchine non tremò mai.
Quei pomeriggi parlano di lei perché allora erano un suo dovere, e fino all’ultimo dei suoi giorni considerò il dovere un alleato. Quando rimase vedova con cinque figli adolescenti e senza un soldo, passò da un’occupazione all’altra con la naturalezza di un pesce capace di vivere sia in un lago che nel mare. Mentre studiava, gli eredi politici del mio cacicco continuavano a proliferare. E lei scoprì la vita pubblica, il mondo al di fuori delle quattro mura familiari. Io, adesso, non sarei in grado di capire la trigonometria, ma lei si sorbì tre anni di quel tormento perché le andava, come le andava di trovarsi ogni genere di impegno. Fece la tesi su Colombres, un quartiere povero, raccontando la storia di quattro donne desolate e sorprendenti con il titolo Io voglio solo sapere. Un giorno in cui mi prese la tristezza, cercai quel libro che mi aveva dato con meno garbo di quando mi aveva regalato il suo ricettario di cucina, e che io ho custodito così bene che è scomparso nella mia precaria biblioteca. Fortunatamente mia sorella lo ha ritrovato nella sua e me lo ha consegnato con il sorriso che ha stampato sulle labbra da quando è riuscita a cambiare un pezzetto di vita pubblica della nostra città.
Non dobbiamo essere troppo sicuri che i morti ignorino il dolore dei vivi. Adesso mi permetterò di sognare che mia madre abbia fatto qualcosa, dal nulla in cui si trova, per aiutarmi a ricordare quello che ho raccontato qui, dimenticando così la tristezza.

MEMORIA D’ACQUA

Nella foto che fa da sfondo allo schermo del marchingegno con cui scrivo, la bambina che fui guarda lontano in braccio a suo padre. Ha la schiena dritta e gli occhi luminosi. Il papà la tiene stretta a sé con la mano perché non cada. E lei ha un’aria così serena, è così presa dall’istante che l’avvolge, da rivelare tutta la curiosità che ancora oggi possiede.
Mia madre si stava avvicinando. È lei che guardo, è lei che indica il dito dell’uomo con cui dorme. Suo marito da ventisei lune. La foto dev’essere stata scattata da mio nonno, che in quegli anni era stato colto dalla passione per la fotografia. E che già allora aveva una predilezione per la bambina.
Chissà da dove mi viene l’idea che quel momento sia il primo ricordo della mia vita. Anche se ho buona memoria per il passato, a quel tempo avrò avuto quindici mesi e mezzo, perché c’è un’altra foto di mia sorella, appena nata, fatta lo stesso giorno. E tra i miei cinquant’anni e i suoi ci sono quindici mesi.
Dicono che non è possibile avere memoria di quell’età, quindi il mio ricordo di quel giorno è fittizio come tanti altri. Ce l’ho da sempre perché da sempre ho avuto sotto gli occhi l’immagine in cui vive ancora questa bambina sorretta dal papà, che vede arrivare da lontano la madre, con la sorella cinta in un abbraccio. Questa bambina il cui ritratto venne custodito dal capo del clan in una stanza alta ed enigmatica.
Non so come sia trascorso, così in fretta, il tempo fra quell’istante che osservo e questo che adesso osserva me diffidando dell’esattezza con cui posso ricordare. Eravamo a Valsequillo, un lago formato dal letto del fiume Atoyac, trattenuto, di colpo, dal muro di pietre rosse con cui costruirono una diga per fornire a tutta questa zona l’acqua di cui aveva bisogno nei periodi di siccità.
Non sono particolarmente imbacuccata, sarà stato marzo. Avevamo una barca a vela, una canoa indiana e un motoscafo. In realtà era tutto di mio nonno, che adorava l’acqua e lo sport, gusti allora non comuni. Il bacino era ancora un servizio più che un divertimento. Ecco perché non si vede nessuno attraversare le acque su cui sembra danzare la bambina che, nella terza foto, si aggrappa all’albero di una barca a vela, circondandolo con un braccio mentre con l’altro regge in alto una girandola. È pomeriggio, perché sul lago c’è quella linea chiara che il sole lascia mentre si nasconde. Dietro la bambina si vedono solo l’acqua e l’orizzonte, non c’è nient’altro, perché non c’era quasi nient’altro a parte noi, nient’altro che la casa dei miei nonni, come disegnata in mezzo a un paesaggio tutto suo.
Pochi anni dopo, il lago diventò meta di gite e le sue sponde si riempirono di chalet e pontili. Era circondato dalle tozze alture che per secoli erano state le sommità di una scarpata. A quel tempo, sotto scorreva l’acqua di un fiume limpido e dormiva un piccolo villaggio dal quale gli abitanti dovettero andarsene perché lì e tutt’intorno arrivasse il progresso, la cui esaltazione fece affluire tanto denaro nelle casse di quelli che governavano. Ma tutto ciò era accaduto cinque anni prima di queste foto in bianco e nero, dalle quali filtra oggi un’emozione frastornata.
Tutti abbiamo un fiume nella nostra infanzia. Quello della mia era limpido e quando camminavi sulle pietre grigie riuscivi a vederti i piedi sott’acqua. Il braccio dell’Atoyac forma il bacino di Valsequillo, un sogno che ha accompagnato tutta la mia infanzia. La domenica giocavamo sulle sue rive. Ogni famiglia portava un cesto con il pranzo, e tutti venivano messi su un tavolo perché ognuno mangiasse ciò che voleva. Io volevo quasi sempre il cibo del nostro cesto: c’era un che di settario nel mio palato e nei miei modi. A volte portavamo del riso: il coperchio della padella era legato con uno strofinaccio in modo che non si aprisse. E delle verdure. Ma c’era sempre qualcosa di diverso. La mia mamma faceva la miglior torta di mele di cui si avesse notizia, e la migliore di cui io abbia notizia. Ho assaggiato decine di torte in diverse parti del mondo e non ce n’è una come quella. Se la patria è il sapore dei cibi che abbiamo mangiato da bambini, la mia ha mele e cannella sparse su buona parte della carta geografica.
Durante la settimana non c’era nelle nostre vite nemmeno l’ombra di una bibita in bottiglia, tranne la domenica a mezzogiorno. È passato così tanto tempo e sono molti anni che un medico mi ha vietato la caffeina dopo avermi vista a mezzanotte in preda alle convulsioni, perciò se qualcuno stappa all’improvviso una bottiglia di Coca fredda, ormai una reliquia, gli chiedo di farmi sentire il rumore delle bollicine e annusare un fiore della mia infanzia.
Forse l’infanzia finì solo quando mi venne la prima forte crisi epilettica. Allora non la chiamarono così. Almeno non i miei genitori, che sette anni dopo continuavano a definirla svenimento, credendo che dalle loro voci non trasparisse lo sconforto nascosto in qualcosa di incomprensibile.
Avevo smesso di essere una bambina aggraziata ed ero diventata un’adolescente stupefatta che non capiva perché i quindici anni avessero in sé quella condizione scomoda, quasi dolorosa. Intanto, il lago cominciava a inquinarsi e, di colpo, a puzzare. Sette anni dopo, quando morì il padre della bambina e il mondo venne stravolto all’improvviso, l’acqua di Valsequillo aveva già cominciato a perdere il suo ossigeno. Adesso, a distanza di quarant’anni, sono pochissimi i temerari che osano fare il bagno nel lago. Intorno ci sono ancora le case, e i fedeli vanno a guardarlo da lontano, di pomeriggio.
Detesto parlare del passato come se fosse qualcosa di migliore, perduto nel nulla di un presente sterile. Non credo a questo genere di cose. Ma a quei tempi l’acqua del bacino era limpida. Adesso è d’argento solo perché il sole batte immutato sulla sua superficie e dall’alto lo illumina nello stesso modo. Tanto che, se ci si distrae, si vede uscire un uomo che issa le vele del suo catamarano. Forse mio nonno Sergio si aggira ancora da quelle parti.

TREMARE COME LE STELLE

Gli emigranti sono polvere di stelle, sale della terra, alberi alati.
Noi, i Mastretta messicani, siamo nipoti di un immigrante. E da dove veniamo?
Quando cominci a pensare a queste cose, cominci a invecchiare. Io, nipote di Carlo Manstretta Magnani, l’italiano che arrivò in Messico alla ricerca di una certezza e trovò il caso e, per sua gran fortuna, una moglie di nome Ana, ho trasformato in un’abitudine la curiosità per il passato. Cerco una risposta in chi ormai non vive più, la cerco negli occhi e nelle storie di chi porta e trasmette il mio sangue. In quelli che, teneramente, chiamiamo famiglia.
Parlando tra noi, immaginiamo come fossero la terra e i sogni di chi non aveva idea di dove si trovasse il paese in cui saremmo nati, in cui sono nati i nostri figli, dove sogneranno i nostri nipoti, i discendenti di un uomo che abbandonò la dolce terra dell’uva e dei monti, il fiume luminoso che è tuttora il Po, e si fermò qui, sotto due vulcani dal nome ruvido e in mezzo a uomini e donne ignari del sogno che lo aveva spinto a lasciare la sua patria.
Ricordo molto poco di nonno Carlo, morì quando avevo quattro anni, ma il barlume di memoria in cui lo custodisco mi commuove ancora.
Mio padre mi portava a salutarlo la domenica e io, che avevo le carte della sua scrivania all’altezza degli occhi, alzavo lo sguardo e gli dicevo: «Buongiorno, nonno».1 Credo che a quel punto lui mi guardasse come un giocattolo, e prima di salutarci mi metteva in mano una moneta d’argento.
Anni dopo, mio padre, fermo accanto al lavandino in cui sciacquavo le dita, come se d’un tratto rivedesse un paesaggio remoto, mi disse: «Hai le mani da contadina italiana».
Parlava pochissimo dell’Italia. Per dimenticarla, pensavamo, ma adesso so che era solo per non perderla in parole, perché rimanesse tutto dentro di lui come qualcosa di intimo e intoccabile, come un amore di cui nessuno potesse essere geloso, o un ricordo che non si nomina per paura di perderlo. Perché raccontare le ferite e i piaceri di prima, se altri, ascoltandoli, capiranno così poco?
Avevo e ho ancora le mani da contadina italiana. Un tempo le avrei usate per tagliare grappoli da una vite, oggi, nel nuovo paese di nostro nonno, le uso per scrivere, per raccontare il mondo in una lingua che non è la sua, per essere messicana come non sarò mai italiana.
In Italia sono una scrittrice messicana,2 e quando rispondo alle interviste o devo esprimere pensieri più sofisticati di quelli necessari per ordinare una pastasciutta a Stradella, lo faccio senza il minimo dubbio, con allegria e inevitabilmente, in spagnolo.
È la lingua che ho imparato da Carlos Mastretta Arista ed è la lingua che hanno imparato i figli dei suoi fratelli Marcos, Carolina, Catalina, Teresa e Luis Mastretta Arista. Anche adesso, per parlare con i nostri cugini, i Manstretta italiani, utilizziamo un linguaggio incerto e al tempo stesso intimo imparato alla Dante Alighieri o nel cammino a ritroso che, come dico a mia sorella Verónica, è sempre difficile.
Nomino Verónica e torno a domandarmi quale sarà il destino del cognome Mastretta che portiamo. È il secondo cognome dei nostri figli, sarà il quarto dei nostri nipoti, l’ottavo dei nostri pronipoti. Invece sarà ancora il primo dei figli dei miei fratelli e il primo dei loro figli e dei loro nipoti e dei loro pronipoti e dei loro trisnipoti.
Nessuno dei figli di Carlo Manstretta e Ana Arista è ancora vivo. Mio padre potrebbe avere cent’anni; un’età quasi infinita per i miei figli. Eppure c’è chi li supera: il Titanic in fondo all’oceano, l’hotel Palace a Madrid e i biscotti Oreo, redivivi su qualche scaffale. Non so cosa darei per avere festeggiato anche solo i sessanta di mio padre, che morì a cinquantotto, esattamente la mia età di adesso, senza avermi raccontato neppure un briciolo della sua vita in Italia.
Abbiamo sempre bisogno di sapere, quando ormai non è possibile. E quando ne sentiamo di più l’urgenza, perché anche noi, come i figli di ogni emigrante, siamo polvere di stelle. E allo stesso modo, mentre ricordiamo, tremiamo come tremano le stelle.
1. In italiano nel testo [N.d.T.].
2. In italiano nel testo [N.d.T.].

A CIASCUNO LE PROPRIE OCCHIAIE

All’età di sette anni, mio padre era un bambino in piedi su un monopattino, con un berretto da cui pendeva un laccio e pantaloni stretti alle caviglie. Doveva essere intorno al 1920 e giocava nel cortile di casa, dove sua madre coltivava le piante.
Lei era una donna dalla lingua veloce e con occhi affondati nelle mezzelune tristi delle occhiaie. Nella sua famiglia erano ereditarie, lo si seppe in seguito e oggi sono accettate come qualcosa di inevitabile dai suoi discendenti. Ci sono testimonianze delle occhiaie del suo prozio, Mariano Arista, riconosciuto adesso come pro-prozio del bambino, un uomo sobrio che accettò di diventare presidente della Repubblica quando quasi nessuno voleva farlo. Le sue spoglie riposano nella Rotonda degli Uomini Illustri e sulla sua tomba c’è un busto di marmo che, nonostante la sua luminosità, ha incise le occhiaie. A sette anni, le occhiaie del pronipote ricordavano già quelle dell’avo e suggerivano le nostre: quelle che furono di mia nonna, ereditate da mio padre e poi da me, da mia sorella, dalle sue figlie e da mia figlia.
Il bambino in monopattino crebbe, l’ho già detto, pronto a partire per una guerra, la stupida seconda guerra. Ma questo accadde dopo. Un tempo, andava ancora tutto il giorno in giro per il cortile.
Nacque quando la Rivoluzione messicana muoveva i primi passi. E aveva appena un anno il giorno in cui fu scossa dall’assassinio del presidente Madero. Di lì in avanti fu tutto un ammazzare senza senso. Era un bambino e aveva la morte alle calcagna, come prima l’aveva avuta suo padre.
Chissà da dove gli europei avranno preso la certezza che fosse logico e legittimo appropriarsi del territorio altrui e assoggettarlo alle proprie bandiere. Ai tempi di mio nonno, era una convinzione diffusa. Nel 1890, tutti i paesi europei avevano colonie in qualche parte dell’Africa. Non l’Italia, perché era stata troppo impegnata a diventare un paese, per andare a cercarne altri. Ma appena le fu possibile lanciò il suo esercito all’inseguimento della fantasia di creare un impero, a cominciare dal tentativo di impadronirsi dei deserti dell’Africa. E in particolare dell’Abissinia e della Libia, due paesi, per così dire, di pastori sconcertati e distese di sabbia ritenute inservibili, perché nessuno, allora, sapeva che lì avrebbero trovato il petrolio.
Nel 1896, ad Adua, in un primo grande tentativo di conquistare il Corno d’Africa, venticinquemila soldati italiani furono sconfitti da centomila abissini. Mio nonno fu tra i pochi che tornarono vivi. Arrivò in Piemonte per guardare, dall’alto di una rocca, il Po che scorreva nella valle, accanto ai vigneti. Poi scese a Torino e raccontò a uno zio giornalista i particolari della battaglia persa, la tragedia dei suoi compagni che vomitavano sangue, urlavano, morivano uno sopra l’altro, lanciati nel vuoto di un’offensiva persa in partenza.
Lo zio pubblicò l’articolo per elogiare il coraggio dei soldati, ma il governo considerò quella descrizione come una denuncia. Dopo quell’episodio, mio nonno dovette andare a rifarsi una vita lontano dall’Italia e dal suo esercito.
Come se l’idea di conquistare una parte dell’Africa non dovesse essere dimenticata, il nonno portò con sé in Messico la sua foto in uniforme di gala e con la sciabola in pugno davanti al camino di un salone. Si vede che fu scattata da uno di quei fotografi che ritraevano spose, bambini e militari; chiunque volesse essere immortalato con indosso qualcosa di originale passava per quello studio con mobili di legno intagliato in cui ogni travestimento era ben accetto. Perché in maschera erano le spose e in maschera era il nonno, con la sua giubba di gala e la sua sciabola, prima di partire per il campo di battaglia in cui uomini e sciabole persero allo stesso modo vita o splendore.
Carlo Manstretta Magnani partì per l’America a ventisei anni, dopo il fallimento militare dell’Italia unita. Ed è qui che quel passato si incrocia con il presente che adesso è sui giornali: il Nordafrica, la Libia, quel paese che si è sollevato per affrontare un dittatore al potere da quarant’anni.
Seguendo la rivolta in Africa ho pensato alla sconfitta di Adua, e al fatto che se l’Italia avesse vinto quella battaglia mio nonno non sarebbe emigrato e non avrebbe conosciuto la sua sposa messicana, né sarebbe nato suo figlio, dal quale discendo.
Il nonno arrivò in Messico nel 1900, da Genova via New York. E a Puebla nel 1906 da Querétaro, dove aveva sposato la nonna con le occhiaie, che era di un piccolo paese in cui ancora si intrecciano ceste, chiamato San Juan del Río.
L’ingegner Mastretta, che nell’odissea della dogana aveva perduto la n, costruì due dighe a Querétaro e poi incontrò Ana María, del cui passato prima di allora conosco pochissimo. So che aveva studiato in un collegio di suore, come interna, credo senza mezzi, visto che era rimasta orfana da bambina. Ad ogni modo sposò l’ingegnere, e non ho loro notizie anteriori a una foto che fino a poco tempo fa era appesa a una parete in casa di mia madre. La nonna è già vestita di scuro. Si intuiscono il suo silenzio e le sue preghiere, profonde come le sue occhiaie. All’epoca aveva quattro figli ed è in piedi accanto al marito, che domina la scena da una poltrona e tiene in braccio un bambino, mio padre, vestito da marinaretto e con i capelli all’insù come se glieli avesse pettinati un vento saggio. Perché c’era stata una precisa volontà nel pettinarlo: in quella foto non c’è niente che non sia stato studiato. L’atteggiamento patriarcale dell’emigrante diventato un prospero costruttore, il fiocco della zia Carolina, la giacca di mio zio Marcos, le spalle della nonna sotto la chioma morbidamente raccolta sulla nuca e i capelli del bambino con la faccia da angioletto sulle ginocchia di suo padre, che già da allora pensava di consegnarlo alla patria italiana perché era il suo secondo figlio, gli aveva dato il suo nome e lo avrebbe cresciuto con il mandato di andare a sostituirlo in qualsiasi avventura avesse intrapreso la madre Italia. Anche se si fosse trattato di un’altra guerra, come fu. Anche se era nato in Messico ed era figlio della moglie messicana che accenna un sorriso accanto a lui. Ana María Arista, la donna che mio nonno incontrò lontano dall’Africa, e che aveva occhiaie identiche a quelle delle pochissime donne libiche che ho potuto vedere sui giornali. E alle mie.
Mio nonno non portò niente dell’Africa araba fin qui, ma trovò occhiaie come quelle che avrebbe potuto trovare là.
Ognuno ha il suo romanzo, se lo porta sulle spalle, lo intesse tutti i giorni. E, a volte, vi ricama il passaggio dei suoi antenati come se fosse il proprio.

TRACCE DEL PIEMONTE

Di mio padre so poco e tantissimo. Non parlava quasi mai della sua vita prima di noi, né parlava molto di quello che sentiva per l’Italia. Anche se traspariva con tanta chiarezza dai suoi occhi.
Una volta lo dissi, come chi dice qualcosa di indecifrabile, davanti a un gruppo di italiani tra i quali c’era una donna grinzosa come una giacca di lino, che mi sussurrò all’orecchio: «Forse aveva un segreto».
Non capii come le fosse balenata quell’idea, ma mi alzai dal tavolo a cui stavamo cenando e corsi a cercare un nascondiglio, dove scoppiai a piangere come se mi avesse parlato di crimini di guerra. Non uscii fino a quando mia sorella Verónica, con cui avevo fatto il viaggio, venne a cercarmi. Dopo dieci minuti avrei cominciato la mia conferenza davanti a un pubblico di italiani, figli di italiani, come avrei potuto essere io se mio nonno non fosse emigrato in Messico, se mio padre non fosse tornato dopo la guerra.
Non sapemmo mai granché. Né ci era necessario: vivevamo come se lo sapessimo. Non riuscì mai a dimenticare quell’orrore, ma non volle nemmeno trasmetterci un frammento di quel ricordo pietrificato al centro del cuore con cui sorrideva.
Carlos Mastretta aveva quattordici anni quando arrivò in Italia per la prima volta. Lì si fece chiamare Carlo Manstretta. Suo padre voleva che fosse italiano. Correva l’anno 1928. Andò prima a Milano e da lì in Piemonte. Su quale nave viaggiò? Ebbe paura? Quale treno prese? Com’era il carro su cui salì, da un crepaccio, fino al paese dove contadini oggi ricchi coltivavano le viti e facevano un vino dolce? Com’erano i contadini, a quel tempo? Com’era l’Italia di quel tempo? Me lo domando sempre. Sono andata a vedere le colline di Stradella, il cielo intenso, la campagna di un verde pallido. L’ho visitata varie volte, ma non ho mai trovato altra risposta che una casa invecchiata e un’aria che mi intristiva perché era al tempo stesso così mia e così estranea.
Mia sorella mi fece una foto mentre mi appoggiavo alla porta da cui mio padre usciva per andare nei campi. Dieci anni dopo, ne feci una io a mia figlia Catalina appoggiata a quella stessa porta. Ho intessuto la trama del mito di mio padre in maniera tale, che poco tempo fa questa sua nipote dagli occhi intelligenti e dall’andatura altera mi ha chiesto di prestarle la penna che conservo in una scatola e ogni tanto guardo come se guardassi l’infinito. Abbiamo ereditato solo alcuni oggetti del genere. Carlos Mastretta non aveva niente di suo. Ma aveva noi, cinque figli da proteggere e da lasciare liberi. E una moglie straordinaria che fu sempre lì a proteggere lui.
Gli piaceva scrivere, sembrava farlo con facilità. Credo che alla fine della guerra lavorasse per un giornale. Lo credo perché trovammo nella sua scrivania dei fogli di carta ingiallita in cui racconta i primi otto giorni del suo viaggio verso il Messico, dopo la guerra. Quindici pagine, un interrogativo.
Dopo averle lette, non potevo fare altro che vivere come una lepre. Come se avessi le ore contate.

CON IL CAGNOLINO IN GREMBO

È seduta, con il cagnolino sulle ginocchia. È quasi una donna, ma conserva uno sguardo da bambina. Ha gli occhi rivolti verso il basso, indossa un abito stretto in vita, con le maniche a palloncino e il colletto a camicia. La gonna è ampia e ricade sul gradino, intorno alle sue gambe. Aveva già le gambe lunghe e forti con cui andò in giro per tutta la vita. Anche le mani sono sulle ginocchia, e su quella destra poggia una zampa del cane. Dietro c’è una fontana in cui danza uno zampillo. Le scarpe hanno la punta rotonda e il tacco quadrato. L’abbigliamento è ancora anni trenta. Visto che era nata nel 1924, sarà stato il 1937. Chissà. Non ha più di quindici anni, ma era già bellissima e distinta; ogni parte del suo corpo lasciava presagire quello che sarebbe diventata. Nella foto di cui parlo somiglia alle sue nipoti.
È mia madre.

IL LUSSO DEL CANDORE

Salgo le scale che portano al mio studio e la trovo sulla mia scrivania, mi sorride con indosso il suo maglione azzurro e con occhi di selva. Guardava giocare i miei figli sferruzzando chissà cosa. Lavorare a maglia era il passatempo dei suoi momenti di ozio che, proprio per questo, non furono mai tali. A mia madre l’ozio non piaceva. Forse una delle sue lotte più ostinate è sempre stata quella contro la perdita di tempo. Perfino per chiacchierare con sua sorella Alicia si concedeva una pausa solo dopo pranzo. Uscivano in giardino e si sedevano su una panchina guardandoci giocare per un po’ mentre loro parlavano, immagino delle loro fatiche quotidiane. Mia zia Alicia segnò la nostra infanzia tanto quanto nostra madre. Prima di rimanere vedova di mio padre, la mamma lo rimase di sua sorella. E noi fummo suoi orfani. Ci addolora ancora immaginare quante cose si sarebbe potuta godere se fosse rimasta; senza dubbio la sua nipote più piccola, con tanto di orecchini pendenti, tacchi e labbra dipinte di rosso, straripante di allegria, a cinque anni.
Il marito di mia zia Alicia era un uomo buono e tenace, dagli occhi azzurri e dalla voce suadente. Durante la settimana sembrava sempre assorto in qualche pensiero. Dopo pranzo faceva un riposino e quando si svegliava tornava nella fabbrica di filati e tessuti che gestiva con un rigore paragonabile solo alla sua passione per la lettura. Non seppi mai granché della sua infanzia né della sua giovinezza, nemmeno una goccia dell’acqua che tutti conserviamo nel fiume sotterraneo della memoria. Si sarebbe pensato che mio padre fosse tutto il contrario, perché i suoi racconti erano fatti di frasi brevi come lampi e gli piaceva conversare. Ma da qualche tempo sappiamo che anche lui nascondeva un mondo e che nelle nostre case non si parlava di tutto. Così le due sorelle chiacchieravano delle loro faccende, il che in parte avrà significato riflettere sui loro mariti e in parte su noi bambini. Poi condividevano segreti, stando bene attente che avessimo tutti le orecchie da un’altra parte.
Magari i loro non erano grandi segreti, però erano quelle cose che noi bambini non avevamo bisogno di sapere, come il prezzo di qualcosa che non ci si poteva permettere. Per esempio di chi sentivano la mancanza e con quale fidanzato non si erano sposate. O quale festa bisognava organizzare per fare una sorpresa a chi. Soprattutto, cose come la risata di qualcuno, che irrompeva all’improvviso nel bel mezzo delle nostre vite. Ai bambini non si parlava di cose tristi. A parte la storia di Gesù Cristo, che non poteva essere più spaventosa, anche se loro non se ne rendevano conto, al dramma non era permesso di arrivare alle nostre orecchie; tanto meno a qualcosa che potesse venire considerato immorale nel comportamento altrui. Sostenere davanti alla nostra spavalderia l’inalterabile candore del mondo fu, sopra ogni altra cosa, il loro dovere e il loro destino. E se c’era una maestra in questo, era proprio la zia Alicia, perché la mamma di colpo si lasciava sfuggire un dolore, si faceva seria e ci lasciava intravedere una delusione; si opponeva anche alla felicità quando era in contrasto con il dovere. Mia zia Alicia, mai. Non la vidi mai triste. A volte lo sarà stata, come tutti, ma forse lo sapeva solo lei. E di sicuro sua sorella, perché sapevano tutto l’una dell’altra fin da bambine, quando cominciarono a crescere insieme, come ciocche della stessa treccia.
Alicia aveva gli occhi cerchiati dalla profondità delle occhiaie che conferivano al suo viso un’ombra di mistero, interrotta continuamente dall’energia delle labbra. Sorridere era il suo forte. E anche occuparsi dei giochi. Quando andavamo al mare, era maestra indiscussa di lotta e di sfida alle onde. Per questo non c’è spiaggia, grande o piccola, che non la rievochi incoraggiandomi a fare di tutto.
Mia madre era l’incaricata della gravità, e lei sola possedeva le chiavi per dissolverla. Insieme formavano una coppia imbattibile, le chiamavamo entrambe «le mamme». Non c’era rottura in quel patto; non che fosse visibile. Noi, i loro figli, eravamo fratelli, se non da parte di padre, per tutto il resto. Almeno, mi pareva. Ora mi domando quanto di tutto ciò che evoco fosse esattamente così: senza dubbio la voce di Alicia Guzmán che chiede incoraggiamento per qualche ferito. C’era sempre chi cadeva dall’altalena o si sbucciava un ginocchio; e mai una volta che lei non fosse accanto al letto mentre mia madre si incaricava di provvedere alla penicillina in polvere e ai cerotti.
Quando feci la foto da cui oggi mi guarda mia madre, sua sorella Alicia viveva ormai solo nella memoria e nella nostalgia con cui non ci oppresse mai. Ora che so quanto può essere grande l’adorazione per una sorella, non capisco come mia madre sia riuscita a sopravvivere a quella perdita con tanta forza.
La zia Alicia morì a trentanove anni, quando lei ne aveva quarantadue. Proprio il periodo in cui si ricorre a una sorella come all’acqua limpida, perché è proprio allora che tutto sembra prendere inevitabilmente forma, in un modo o nell’altro. Una storia come tante, che diventa eccezionale e orribile quando prende corpo in chi amiamo. Mia madre la accompagnò sempre nel suo peregrinare per ospedali e avrebbe voluto proteggerla e salvarla perfino dalla mano capricciosa del Dio biblico che, come ben sappiamo, non perdona mai.
Alicia giocava alla pelota. Un giorno, tornando dal campo, le disse che le faceva male un seno e che sentiva una pallina. Immagino che gliel’abbia fatta vedere: a quel tempo la gente non andava in giro a mostrare il seno né se lo toccava in cerca di un responso. La prevenzione è una storia dei nostri giorni e, con tutto ciò, il male sopraggiunge e spaventa come prima. Quel nodo era già lì, chissà da quando.
Andarono a Houston con lo zio serio e preciso. Lì, una dottoressa disse loro che il cancro era già a uno stadio molto avanzato, ma che avrebbero potuto operarla e vedere cosa sarebbe successo. La operarono. Non si notò alcun miglioramento. La minaccia di morte era un’ombra di dimensioni tali che sul viso delle due sorelle vedemmo ben poca speranza in quei mesi; meno di dodici. Mia madre non immaginò mai peggior crudeltà della schiettezza con cui la dottoressa aveva detto a sua sorella che non c’era niente da fare. Negli ospedali americani si usava già così, ma nel nostro mondo proteggere l’innocenza era sacro e infrangerla un sacrilegio. Adesso, anche qui da noi non si nasconde più nulla al paziente, i medici si rivolgono ai malati e non, come prima, ai loro familiari perché questi ultimi nascondano la verità come un enigma. Allora, e ancora di più nella nostra famiglia, il candore, che adesso sarebbe un lusso, era un dovere. Alicia sapeva della sua malattia quanto o più di qualsiasi medico, ma credo che avrebbe preferito la menzogna per concedere ai suoi lo stesso alibi che loro avrebbero voluto per lei. Solo in quel momento sperimentammo una disgrazia davvero irreparabile. Non so perché, ma noi non eravamo per la verità nuda e cruda. Nel nostro mondo, che prima di tutto era quello delle nostre madri, se la verità faceva male si preferiva tacerla. Forse per questo lo zio, che aveva dieci anni più della moglie, disse così poco. E mio padre, che entrò a far parte della famiglia quasi subito dopo essere tornato da una guerra con tutti i suoi orrori, non volle mai parlarne. Né avrebbe potuto. Aveva dodici anni più di mia madre. Quando si sposarono ne aveva trentasei, con i loro trentaseimila spaventi. Lei ventiquattro, e un sorriso grande come il mondo, non il suo piccolo mondo, ma quello che entra ancora nel mio studio quando guardo le foto della sua prima gioventù. In seguito, durante la nostra infanzia, faceva un sorriso in più solo quando vedeva sua sorella. Era come se la vita le avesse lanciato un ammonimento, come se qualcosa di impossibile si fosse rotto e lei riuscisse a scrollarsi di dosso la delusione solo accanto alla sorella. La ricordo, in quel tempo, legata al dovere con un nodo da marinaio e alla sorella come a un’ancora di salvezza.
Due anni dopo l’intrepida zia Alicia, morì anche mio padre e il baratro della verità nuda e cruda si aprì definitivamente. Ma a quel punto lei, nostra madre, aveva forza per tutto. Anche per sorridere al posto di sua sorella, quando le cose tristi non potevano essere taciute.
SCHIENA CONTRO SCHIENA
A dire il vero non so se piovesse ancora, ma avrebbe potuto. Era luglio e il pomeriggio continuava a scorrere in tutta la sua lunghezza. Mia sorella e io non avremmo potuto essere vestite meglio, per un ritratto che doveva essere irrevocabile.

Non ricordo esattamente lo sguardo di nostra madre, il cui bisogno di perfezione non sembrava mai accordarsi del tutto con le sue opere, ma credo che quella volta la incantammo, perché tenne sempre nella sua stanza la foto che ci fecero in quell’occasione, una appoggiata all’altra, schiena contro schiena, ognuna con una cesta in mano. Siamo ancora lì, a guardare verso la lampada del fotografo che ci invitava a sorridere ottenendo in cambio da noi solo uno sguardo degno dei posteri.

Quella foto attrae perfino gli estranei. Nonostante sia leziosa, o proprio perché lo è. Chi la vede non lo sa e sorride per le due bambine che mia madre aveva vestito come bambole, ma lei e noi arrivammo lì dopo un’odissea domestica che non posso né voglio dimenticare.

Mentre stavamo per andare allo studio fotografico del signor Oklay, un uomo biondo, silenzioso e pallido che per il solo fatto di esserlo appariva enigmatico, un incidente pose fine alla cerimonia per la quale ci avevano agghindate. Scrivo cerimonia e il ricordo mi assicura che così deve chiamarsi la sequenza di preparativi di cui fummo al centro.

Nostra madre e la ragazza che l’aiutava nella difficile arte di vestire a festa le sue figlie cominciarono col metterci delle sottogonne di cotone dall’orlo ricamato. Erano bellissime, sarebbero già bastate a renderci eleganti, ma erano solo l’inizio, perché sopra vi ricaddero due vestiti di una garza eterea, come dovrebbe essere il mondo. Avevano quelle maniche corte e rigonfie che le sarte chiamano a palloncino, colletti rotondi e pettorine plissettate. Il tutto ornato di pizzi arrivati a Puebla da Bruges, in un viaggio che immaginavamo interminabile. Intorno alla vita ci legarono nastri di seta rosa annodati con un fiocco perfetto.

Mia madre ci aveva modellato delle onde nei capelli con la gommina e aveva lasciato sul tavolo dei cappelli di paglia chiara che ancora oggi fanno venir voglia di contemplare la perfezione leziosa con cui erano intrecciati.

Ma prima di arrivare al culmine suggerito da quei cappelli, dovevano farci indossare i calzini di filo confezionati dalle suore trinitarie e poi le scarpe di vernice con la punta rotonda e il cinturino intorno alle caviglie. Noi non sapevamo allacciarle bene e non era il caso di imparare a farlo quel giorno. Proseguendo il rituale ci fecero sedere su un tavolo che, non so per quale bisogno di protezione, aveva un vetro sopra il piano di legno. Un vetro rettangolare i cui bordi non erano un pericolo per nessuno che non vi si appoggiasse. A mia sorella Verónica avevano infilato una scarpa al piede destro e la dolce ma distratta tata che le chiudeva le fibbie dovette avvicinare a sé il piede sinistro della bambina, così le tirò la gamba e la fece strisciare sul filo del vetro che, in un secondo, le provocò una ferita da parte a parte tra le vene dietro il ginocchio. Sentii un urlo forte ma breve, e dev’essere stata l’unica volta in tutta la mia vita che ho visto mia sorella piangere tanto. La gamba era così piena di sangue che non si riusciva nemmeno a capire da dove uscisse. Chiudo gli occhi e vedo ancora lo squarcio come lo vidi allora. Verónica piangeva e le legarono una pezza intorno al ginocchio. Anch’io piangevo. Adesso dice che, visti i miei strilli, all’inizio pensarono tutti che la gamba tagliata fosse la mia. Non la contraddico, se non altro perché siamo entrambe convinte che lei abbia sempre ragione, ma la ricordo, come mai prima, piangere e lamentarsi più di me.

Le mamme, come chiamavamo il duo formato da nostra madre e dalla sua incandescente sorella Alicia, la presero immediatamente in braccio e partirono per l’ospedale. Io, che con ogni evidenza ero di troppo perché la mia agghindata presenza non era di alcuna utilità, andai con loro. Ricordo la portiera blu della macchina e ricordo di avere percorso tutto il tragitto accanto a mia sorella, guardandola come una eroina. Avevo quattro anni, e lei tre.

Entrammo nell’ospedale Guadalupe in cerca di un medico. Distesero Verónica su un lettino stretto e alto. Di sicuro le diedero dell’anestetico, ma di questo, e di come andarono le cose, né lei né io ci ricordiamo bene. Ricordo invece con precisione scientifica l’ago ricurvo che entrò e uscì dalla pelle fino a ricucire completamente il taglio. A quel punto non piangeva più nessuno. Lei meno di tutti. Aveva gli stessi occhi immensi, rotondi e scuri che ha ancora oggi. Sorrise.

Uscendo di lì andammo a comprarle un premio per il suo coraggio. Il negozio era piccolo e aveva una sola vetrina. Dovette chiudere pochissimo tempo dopo, perché non vi tornammo mai. Vendevano le ultime bambole in cartapesta e porcellana che ci capitò di vedere. Ce n’era una splendida, con la faccia rotonda e le guance molto rosse. Verónica scelse quella. Gliela porsero come un trofeo. La chiamò Cachetona, Guanciotta.

I miei figli non ci credono, ma allora le foto delle grandi occasioni si facevano come adesso quelle delle pubblicità più costose: in uno studio apposito, illuminato adeguatamente, su uno sfondo di pareti scure e in religioso silenzio. Non è che si capitasse lì per caso, si prendeva un appuntamento e la famiglia al completo si sottoponeva al rituale di farsi fare il ritratto nell’ordine stabilito. Le mie cugine erano arrivate puntuali. Mia madre era sorpresa di essere arrivata comunque. Si domandò sempre come fossimo riuscite a raggiungere lo studio del fotografo il pomeriggio stesso dell’incidente, ma siamo sicure che è andata così. Due testimonianze minori, contrarie alla sua, hanno dato un risultato a nostro favore: il ritratto ce lo fecero quel giorno. Sotto l’orlo di pizzo, mia sorella aveva una gamba bendata e io, sotto la plissettatura del vestito, avevo per lei un’ammirazione che dura tuttora. Si è tagliata altre volte, quella tata distratta che è il destino ha strusciato ancora la sua vita su un vetro. Non l’ho vista piangere. Ho visto come sa cucirsi le ferite e come si diverte e sorride quando tutto finisce e la vita fa il ritratto alla sua esistenza. Confermo che continua ad avere lo sguardo di allora, e che da quel momento è sempre stata coraggiosa e ostinata. Confermo che ho ancora bisogno di appoggiarmi alla sua schiena per guardare il mondo che ci guarda. E andare avanti.
NON ERAVAMO RICCHI
Ignoro dove sto andando o come andarci, in un libro che non so ancora se sarà una raccolta di memorie, un’indagine nel passato dei miei genitori, una ricerca o un’idiozia. Comincio pagine che saltano da un ricordo all’altro, illuminando frammenti di tempo senza un ordine, solo perché siano ricordati.

Ieri ne ho cominciata una che diceva:

«Non eravamo ricchi, ma usavamo le pantofole».
TRIPLO DECIMETRO
A febbraio tornavamo a scuola. Doveva far freddo, ma non me ne ricordo. Invece vedo lo zio Abelardo dietro il bancone della sua cartoleria, che ci rifornisce degli articoli di cancelleria indicati sull’elenco che prendevamo a scuola qualche giorno prima dell’inizio delle lezioni. Quel momento mi affascinava, mi stupisce ancora. Non dimentico il delicato profumo di carta e legno che aleggiava nel negozio. Si chiamava La Tarjeta e a quel tempo non era una bottega qualunque, ma una vera e propria istituzione. I proprietari erano mio zio e suo fratello Basilio, che avevano anche una tipografia dove fabbricavano i quaderni. Sulla seconda e terza di copertina era stampato l’inno nazionale. I nostri quaderni dovevano essere sottili, in modo che la mano, scrivendo, rimanesse all’altezza del banco e non sollevata, come bisognava tenerla con i taccuini da cento fogli che ai miei fratelli era permesso usare.

Nella scuola delle bambine era tutto prestabilito. In quell’elenco che sembrava una lettera a Dio, il righello veniva chiamato triplo decimetro. Penna stilografica blu punto 2516, cinque matite Mirado numero tre, due lapis rossoblu, dodici pastelli Prismacolor, venti quaderni a quadretti grandi e venti a righe. Senza margini (bisognava tracciarli), senza numeri di pagina (bisognava scriverli), senza spirale (perché non si potessero strappare i fogli pasticciati), con la copertina morbida (questo non so davvero perché). Tutti foderati con carta manila di un certo colore: per ogni gruppo e ogni anno ne veniva richiesto uno diverso. Niente, nemmeno la dimensione delle etichette, poteva essere migliore di quello che avevano le altre allieve: tutte le bambine e tutti i libri dovevano apparire uguali. L’originalità, l’ambita condizione di possedere qualcosa di inusuale, non esisteva. E non ricordo che ne sentissimo la mancanza. Non si notava che una fosse più ricca di un’altra dall’abbigliamento o dai libri. Forse dagli zaini: alcune bambine ne avevano uno nuovo ogni anno. Io non ero tra quelle. Il mio era di cuoio e il sesto anno delle elementari aveva perso la forma e il colore chiaro originari, era scuro e grinzoso. Proprio quello che adesso si cerca fin dall’inizio: che le cose sembrino già vecchie. È ciò che successe con il mio zaino. A quel tempo lo trovavo orribile; adesso, invece, ne vendono a Soho di assolutamente identici, tranne nel prezzo.

Soledad Loaeza lesse molto tempo fa non so dove – ma doveva trattarsi di uno di quei serissimi documenti smarriti che lei ritrova come bottiglie nel mare – i risultati di un’indagine condotta fra donne di successo alle quali era stato chiesto se avessero sempre frequentato una scuola mista o, in qualche periodo, una monogenere. La maggioranza aveva studiato, almeno per qualche anno, in un istituto femminile. Sembra che questo dato sia stato determinante per l’esito del sondaggio.

Non so quanto vera sarebbe adesso quella conclusione, perché ormai le scuole separate sono pochissime, comunque, per quanto mi riguarda, stare in quel gineceo ebbe il suo lato positivo. Anche i suoi svantaggi: incontrare a quindici anni uomini non appartenenti alla famiglia provocava uno stupore paralizzante. Questo l’indagine non lo dice, anzi, afferma che una delle ragioni del successo di quelle donne è che impararono da bambine a competere senza riguardi o favoritismi da parte degli uomini, senza compassione o disprezzo da parte delle donne. Chissà. Era così breve l’infinito, così piccolo, che a quel tempo non conobbi tante bambine che avessero frequentato un istituto misto. Solo la scuola americana, quella tedesca e le scuole pubbliche permettevano una simile follia, ma lì non insegnavano religione. E la questione della preghiera era importantissima in una parte del mio mondo; proprio in quella dove poi diventò libertà di scelta, nel caso ci sia libertà di scegliere la sciagura di non avere Dio come salvacondotto. E non so se l’argomento della competizione supererebbe l’ostacolo che prevalere è prestigioso per gli uomini e malvisto nelle donne. L’indagine diceva questo, ma quando andavo a scuola io, la competizione era fra me e mia madre, riguardava la paura che non mi volesse bene, il terrore di essere meno brava del mese precedente. Ho passato gli ultimi vent’anni cercando di essere clemente con me stessa, di risparmiarmi i compiti e l’inserimento nell’albo d’onore. Ho superato più di una prova con successo. Si possono non fare certe cose, mi dico, i margini possono essere tutti storti e le lettere disuguali, posso stare spettinata mentre lavoro e sedermi senza tenere tutti e due i piedi per terra, uno accanto all’altro, con la schiena diritta, e posso mettere i gomiti dove capita. Posso bere una horchata a metà mattina e fare pipì senza aspettare la ricreazione. Posso evitare di concorrere ai premi, e vivere senza la paura che il mese prossimo non mi inseriscano nell’albo d’onore. Posso, come durante le vacanze, correre ovunque e uscire in giardino a guardare le nuvole che passano. Posso non consegnare il compito, non foderare i libri, non preoccuparmi se non prendo più dieci in impegno e puntualità. Posso fare mille cose tranne tornare in quarta elementare, con il mio triplo decimetro, la mia emozione per i libri e i miei quaderni immacolati.
IL DITALE E LA CROCE
Tutte le donne nate venti o trent’anni prima di me avevano ancora un ditale. O più d’uno. Spesso erano argentati, non sempre d’argento, ma ce n’erano alcuni color oro portati in Messico da quelli che andavano in nave in Spagna, dove compravano forbici e altri articoli a Toledo. Ce n’erano anche di porcellana, e di tartaruga.

Non è vero. Non ne ho mai visto uno di tartaruga. Se ce ne furono, sarà stato a Cartagena. Fermina Daza avrà avuto un ditale di tartaruga? Io ne avevo uno argentato, normale, piccolino ed effimero. Adesso ci penso come a qualcosa di commovente, allora faceva parte di quella tortura che era cucire a metà pomeriggio. Erano tempi così lontani dal presente che tutto era vicino, così andavamo a scuola dalle nove a mezzogiorno e tornavamo a casa per il pranzo. C’era il tempo per andare a lezione di pianoforte o a nuotare, per perderci al ritorno fermandoci a chiacchierare a ogni incrocio, per comprare un sorbetto al limone in centro e controllare quali figurine di quali album avevano le une e le altre. Dalle tre alle cinque tornavamo a scuola, un enorme edificio vetusto che, a quanto si diceva, un tempo era stato una fabbrica di sigari. Adesso la ricordo bellissima. Aveva un cortile grande, quadrato, in cui ci mettevamo in fila a seconda dell’anno che frequentavamo. Poi, dalle più piccole alle più grandi, salivamo la scala di pietra, sobria e ampia, per andare nelle aule distribuite al secondo piano intorno a un corridoio con vasi da fiori sul corrimano. L’ultimo pianerottolo aveva un pavimento di marmo bianco e nero che era l’unica nota lussuosa nel terrazzo da cui partivano i due bracci del corridoio.

Ricordo la luce delle tre del pomeriggio contro le porte di vetro dell’aula in cui frequentai la terza elementare.

A seconda della classe, nella prima parte del pomeriggio ci insegnavano punti diversi. Il mio anno più difficile in questa materia fu quello del punto croce. Non ho mai avuto particolari abilità manuali. Ora che sto invecchiando, ho perso perfino la capacità di prendere le cose senza farle cadere. Ecco perché sono sempre stata un disastro con gli strumenti musicali, e ancora peggio con le lezioni di cucito. Senza dubbio il punto croce fu la mia croce peggiore nella difficile e invidiabile arte di cucire. Arte che non apprezziamo quasi più perché si compra tutto nei negozi, confezionato da mani lontane e a volte schiave; mani che non vediamo.

In Messico ci sono fabbriche che esportano jeans fatti da donne che rispondono agli onnipresenti annunci sui muri di certe strade: «Cercasi cucitrici». Quando li vedo mi spavento. A casa mia non facciamo nemmeno un orlo. E che questa vergogna ricada su di me. L’unica cosa che si avvicina al cucito qui sono le gambe di un tavolino che in origine fu la base in ferro battuto di una macchina da cucire, e le spoglie mortali di una Singer buttata nella spazzatura da qualcuno e trasformata da qualcun altro nel supporto di una lampada che comprai in chissà quale bazar. È un peccato che con questa storia del minimalismo le mie incursioni nei bazar siano finite nel dimenticatoio, quasi quanto l’antico obbligo di imparare a cucire.

Non ci sono mai riuscita. Gli stufati di mia suocera sono diventati la mia solerte eredità nella vita; i punti, mai. Magari fosse stato possibile che per magia lei mi infondesse l’uno per cento del suo talento, o di quello di sua sorella, che qualcosa di magico lo aveva. Mettere il suo ditale sul mio dito avrebbe forse potuto compiere il miracolo, ma non ci provammo. Si vestirono sempre con quello che cucivano le loro mani, e vestivano le loro figlie, come mia madre noi, con abiti tagliati da loro. Vestivano anche centinaia di spose, le loro damigelle e le loro madri; erano sicuramente famose come adesso lo sono certe stiliste, ma considerarono sempre la loro professione un’attività minore che avevano il terrore di trasmettere per contagio, figuriamoci insegnarla. Tenevano i ditali chiusi nella stanza del cucito e se qualcuno entrava lì era solo per raccontare una storia, mai per cucire. Così adesso alcuni dei miei vestiti arrivano dal lontano Oriente o da altre lontananze più vicine, perché nelle mie mani non ci sarà mai più una cosa preziosa come un ditale. Perfino mia madre, che dopo la sua morte fa miracoli senza saperlo, non riuscirebbe a farmi recuperare quella strana ed estenuata perizia con cui sostenni la terza elementare e la croce del punto croce ricamato su una tovaglia che solo qualche giorno fa abbiamo trovato in un cassetto, perfettamente stirata, quale prova inconfutabile che un tempo la mia vita incrociò un ditale con il suo ago.

In Messico ci sono donne che cuciono divinamente, che nessuno apprezza né considera sarte. Vivono quasi sempre in montagna e lì tessono tele con cui fanno i tradizionali huipiles, tuniche che ricamano con punti piccoli e perfetti come quelli che non sono mai riuscita a fare. Imparai, misi in pratica e abbandonai il punto croce, ricamato su qualcosa che si chiama tela Aida, lo stesso anno in cui il programma scolastico mi obbligò senza pietà al suo apprendimento. Siccome avevo fama di essere molto diligente, le maestre mi richiedevano composizioni complicate e mi assegnavano i ricami più difficili. Non si sapeva che ognuno ha capacità diverse e assai più drastiche incapacità. La mia amica Luz del Carmen non aveva un grande interesse per la grammatica, e da questo la maestra dedusse che doveva assegnare alle sue mani lavori facili e le fissò come incarico annuale ricamare un pino verde in ogni riquadro della tovaglia; con le dita che volavano, infilava l’ago una sola volta e in pochi minuti ricamava tutti i rami del suo albero. Sua madre era asturiana e le aveva messo in mano un ago e un ditale non appena era stata in grado di sedersi con la schiena dritta; finiva tre pini ogni lezione. Invece io, che ero inetta come se avessi zoccoli al posto delle mani, per ricamare due mele dovevo lottare con tre diversi tipi di arancione, un filo nero per fare i gambi e due verdi per le foglie. Difficilissimo: ci mettevo cinque lezioni per ogni riquadro. Avrei dovuto avere il compito di Luz del Carmen, e lei il mio. Anche se non avrei raggiunto neppure alla lontana il suo stesso risultato, avrei sofferto un po’ meno, ma non andò così. Il massimo che riuscii a ottenere con le mie suppliche fu il permesso di ricamare un riquadro sì e uno no.

Nella mia scuola c’era una disciplina oggi impensabile. La lezione di cucito si svolgeva in silenzio. Non potevamo metterci a spettegolare, ci veniva richiesta una concentrazione che, per quanto l’abbia praticata, non sono riuscita a conservare. In realtà, mi organizzai fin da allora per interromperla senza punizioni.

Nell’intento di mantenere il silenzio, l’insegnante ci leggeva un racconto. Un giorno la vidi annoiata e ne approfittai per proporre un cambiamento: avrei potuto leggere mentre lei andava un po’ avanti con il mio ricamo. Naturalmente rifiutò. Allora le proposi di lasciarmi raccontare una storia, ed è quello che faccio ancora adesso. Quando il dovere mi annoia, invento. Quel giorno inventai la storia di due bambini grandi quanto un dito, che avevano una zia enorme e sempre pronta a castigarli, molto simile alla severa zitellona che dirigeva la nostra scuola elementare, alla quale facevano ogni sorta di dispetti; fra gli altri, usare il suo ditale per bervi sorsi di Coca-Cola, bevanda proibitissima nella nobile istituzione che ci accoglieva. Una storia del genere preoccuperebbe una maestra attuale, che forse spedirebbe la sua autrice dalla psicologa della scuola, la quale con perspicacia arriverebbe alla conclusione che la bambina non sopporta l’autorità, si sente sminuita e soggiogata, ma ha la capacità di combattere certe battaglie nascondendosi dalle figure autoritarie, immaginando di vincerle attraverso l’identificazione in qualcuno che non è lei. A quel tempo però non c’erano psicologhe, né madri disposte a contraddire le autorità scolastiche, né bambine che riuscissero a salvarsi dal punto croce.

Stando così le cose, mi sbarazzai abilmente di tutti i possibili mali di quella educazione che si rivelò valida. Ricordo la grammatica e, credo, le buone maniere, alcune giaculatorie che oggi mi servono da mantra quando si blocca il traffico. Dimenticai il punto croce e mi salvai dalla vergogna che sarebbe stata non sapere nemmeno come si infila un ago.

A scuola non soffrii. Ma adoravo le vacanze, perciò non mi spaventavano né la croce né i canti né il dolore, e nemmeno il silenzio e la via crucis della Settimana santa.

Adesso la gente se ne va al mare, non si ferma il giovedì a visitare le sette case adorne di fiori e ceri, tanto meno il venerdì per inginocchiarsi sotto un crocefisso, alle tre del pomeriggio, a recitare pentita una sfilza di trentatré credo. «Come abbiamo potuto fare questo a Nostro Signore?» si domandava padre Figueroa, che era un uomo ingenuo e buono la cui voce passava direttamente e senza soluzione di continuità dai toni acutissimi a quelli bassissimi, risuonando sempre come un organo stonato. Con quella voce officiava tutte le funzioni religiose che in occasione della Settimana santa si celebravano con la stessa baldoria oggi riservata alle ancora più sacre vacanze al mare o a letto.

A casa mia le vacanze di Pasqua servivano per pregare e pentirsi, a nessuno sarebbe venuto in mente di abbandonare la città per starsene in bikini dall’alba al tramonto. Le vacanze di Pasqua erano fatte per rattristarsi, per vivere con cieca intensità – e dal lunedì al venerdì – la colpa di essere vivi. Eppure, tutte queste mortificazioni avevano un che di festa, di baldoria imprevista, qualcosa di piccolo e commovente che ora mi fa pensare a un ditale. Visto adesso, tutto il mondo di allora appare effimero ma indimenticabile, come il ditale che non si usava in vacanza perché durante la Settimana santa non dovevo lottare con il cilicio dell’ago e del filo, facendo croci. Benedetto sia il ditale che contiene tante cose. E la Settimana santa, che è ogni giorno più corta: come l’oblio.
L’INVULNERABILE INNOCENZA
La domenica di Pasqua, il presunto coniglio nascondeva uova di cioccolato in giardino. Io passavo tutta la prima parte della nottata in attesa che comparisse e una volta, dalla finestra, lo vidi muovere le sue orecchie bianche. Il giorno dopo, cercavamo i dolci nei nascondigli dell’edera o tra i fiori. La cosa appassionante di questo gioco era il gioco stesso: trovare, scoprire. Ancora oggi, quando arriva questa domenica, muoio dalla voglia di uscire a cercare qualcosa. Perché nessuno ha maggior desiderio di giocare, di credere nei sogni, di un adulto che gioca al disincanto.

Un tempo credevo che il bisogno di sentirsi parte dell’assoluto si sarebbe mitigato con il passare degli anni, finché tutto sarebbe diventato una calma governata più dall’indifferenza che dall’euforia. Per fortuna, mi sbagliavo. Il tempo che ci allontana dall’infanzia, dalla prima gioventù, da quello che immaginavamo essere il perfetto candore, non solo non distrugge la speranza, ma l’accresce fino a renderla febbrile, fino a perfezionare davvero l’innocenza rendendola invulnerabile.
SPOSTARE L’ORIZZONTE
All’improvviso arrivava settembre e mio padre tirava fuori dall’armadio un’enorme bandiera italiana, simile in tutto a quella messicana a parte l’aquila, e l’appendeva all’asta che mia madre aveva fatto costruire da un fabbro seguendo un disegno specifico per balconi. Lassù risplendeva per tutto il mese la patria insegna italomessicana. Con quel gesto, mio padre inaugurava e terminava i festeggiamenti per l’indipendenza del Messico.

Il suo era un patriottismo sobrio e tormentato; non per niente aveva sofferto in Italia per tutta la durata della Seconda guerra mondiale. E se la patria della sua gioventù fu un’Italia convulsa che aveva intrapreso il suo lungo cammino verso la follia, la patria della sua infanzia messicana erano stati gli impiccati, i fucili, la persecuzione dall’una e dall’altra parte, la paura che si dava il cambio con le promesse e l’euforia di chi aveva intorno.

Sua madre, messicana, era nipote di Mariano Arista, un liberale che transitò, senza molta gloria, per la presidenza della fin da allora incerta Repubblica messicana. Suo padre era un italiano arrivato in Messico dopo aver preso parte all’ultima battaglia, sconfitta compresa, ingaggiata dal suo paese nel primo tentativo di conquistare l’Abissinia. La sua non fu un’eredità guerriera, tanto meno lo fu la sua indole, e dopo la catastrofe del sogno nazionalista che portò al fascismo, su mio padre pesava l’inevitabile devastazione dello sciovinismo. Aveva tutto per vivere, tranne un atteggiamento trionfale.

In compenso, la mia famiglia materna era smemorata, festaiola e ottimista. Se la guerra li aveva sfiorati, non se ne ricordavano.

In casa dei miei nonni non aleggiava per tutto il mese una paziente memoria della patria, si esponeva la bandiera solo il giorno del Grido d’Indipendenza. Non si esponeva: si spiegava. E non ce n’era solo una grande, ma ce n’erano varie, di ogni dimensione.

Dalla terrazza, in giardino, mio nonno arringava le milizie incarnate dai suoi cinque figli e venticinque nipoti. Diceva «Viva il Messico!» con una solennità interrotta dalla sua stessa risata e dai nostri schiamazzi divertiti mentre gli rispondevamo: «Viva!» e «Vivano!», risolvendo la questione degli eroi che ci avevano dato una patria, tutto come pretesto per arrivare al momento in cui scioglieva la bandiera, come una staffetta che sarebbe passata di mano in mano nel corso della serata, per organizzare l’accensione di razzi e fuochi artificiali più strepitosa di tutta la strada.

Sul tavolo della sala da pranzo c’erano tacos, tamales e prove di patriottismo di ogni genere che assaggiavamo tra gli strilli di un bambino con le dita bruciate e quelli di un altro colpito in testa dall’asta della bandiera, agitata da uno dei nipoti. Non si seppe mai bene se l’indipendenza meritasse un festeggiamento o se fosse necessaria per festeggiare.

Ad ogni modo, si faceva festa; se mai questo fu chiaro da qualche parte, lo fu nel nostro Zócalo, la nostra piazza privata, dove la patria era una scusa per festeggiare il presente. L’analisi del passato era assente in quelle sere libere e il futuro se la prendeva comoda. Nessuno rivolgeva un pensiero alla guerra o al sangue versato, né alla deplorevole ingiustizia delle morti, degli eroi scannati, delle rivolte. Vivevamo in un tempo che adesso mi sembra una lunga parentesi.

Mio padre non partecipava mai a quella baldoria. Credevamo non ne avesse voglia, ma quando penso agli eccessi del nazionalismo italiano, sento che lo spaventava. O lo intristiva. In ogni caso, non partecipava. Lo ricordo mentre ci salutava dalla poltrona in cui leggeva, con un piacere che rividi solo nel papà dei miei figli quando ci guardava uscire per andare a comprare cornette e patrie insegne che mi sembravano imprescindibili a settembre.

Il papà dei miei figli crebbe con l’amore e la custodia di sua madre e sua zia, due portatrici di sangue al cento per cento asturiano cui tutta questa storia del «morte agli spagnoli!» faceva paura. E a ragione. Il 15 settembre sbarravano le porte di casa e si dedicavano a cucire e a chiacchierare come se avessero ben chiaro, perché lo avevano, che fra loro e gli indipendentisti c’erano soltanto centocinquant’anni di viaggi. Eppure erano diventate messicane, credevano in un paese che chiamiamo Messico ed erano contente di vedere i loro nipoti prendere parte ai fuochi artificiali in onore di questa patria. Non questa che la televisione diffonde ogni sera tra paesaggi luminosi, ma quella incarnata dagli scenari che accolsero il loro animo e i loro dubbi quando sbarcarono su una riva dei Caraibi. A quell’epoca, così recente, il Messico era ancora una promessa. Qualcosa che adesso, per molti, sembra impossibile, ma richiamò qui tante persone che poi rimasero o ci lasciarono.

Saranno circa vent’anni che i libri, le parole, il giudizio e la drastica visione di coloro fra i quali ora vivo mi fanno guardare con insoddisfazione, disillusa, le feste nazionali come un’ironia della storia. Non con la serenità di mio padre – magari! –, tanto meno con l’euforia del mio nonno materno, della mia prima gioventù, dell’infanzia dei miei figli e delle piazze piene di gente che quest’unica volta all’anno si raduna per divertirsi unita dallo stesso patto. C’è un paese chiamato Messico. Viva! Vivo?

Ancora adesso, quando il cielo della città si riempie di luci, chiamo i miei figli perché corrano a guardarlo. Non so se ho già seminato in loro il cattivo gusto della speranza a tutti i costi. Magari.

Voglio credere che scriviamo, pensiamo, ci facciamo il segno della croce o gridiamo perché valga la pena ereditare questo guaio. Non abbiamo creato uno Stato affidabile. D’accordo. Ma cent’anni fa avevamo qualcosa di simile? Neppure alla lontana. E duecento anni fa? Men che meno. Duecento anni fa non avevamo neanche un nome. Siamo una società molto giovane. Possiamo ancora, non dico ricostruire, ma costruire un paese, qui, dove ci sono la cenere e il seme di quello che siamo. Non abbiamo un posto migliore in cui andare. Soprattutto, non insieme. Non senza abbandonare tutto. Compresi, senza dubbio, la festa e lo scetticismo, che mi piace definire una festa serena. È qui, in questo paese, perfino in queste pagine, che bisogna decidere cosa valga la pena festeggiare. Quale sfida? Quali idee?

Duecento anni sono un attimo fa. Il nonno di mio nonno partecipò a quella lotta. Niente da festeggiare tranne l’inizio. Ma cos’altro vogliamo? Che sia nostra quella festa, a costo di perdere tutte le altre. Il paese non finisce con noi. Forse la festa non sarà niente di speciale, ma vale la pena avere un patriottismo tormentato. E pensare al futuro. Che il nostro festeggiamento sia spostare l’orizzonte.
FAR RIVIVERE LA CHIMERA
I miei morti, come quelli di chiunque, vengono con me dappertutto. In certi giorni sento che guardano da sopra la mia spalla. Da lì approvano e decidono. Di recente sono riuscita a sentire le loro voci inframmezzate alla mia che parlava di loro e della felicità, alla paziente luce di un’assemblea.

I miei morti, come quelli di tutti, vanno dicendo cose che tirano fuori dal nulla. E ascoltano in modo diverso. Quando dico «gioia» rimangono in silenzio, se sentono «garofano» hanno un nuovo brivido di nostalgia. Quel giorno, nel Salón de las Américas, mi pungolarono da lontano. Come se dicessero: «Non venirci a raccontare che non sai come cavartela, non ti abbiamo certo insegnato a tremare».

La morte altrui provoca un tale fremito, che ci dà la certezza che è impossibile morire di paura.

Va’ a giocare, della morte sai solo quello che inventi, perché la morte è un’invenzione dei vivi. Va’, guarda, racconta una favola, fa’ rivivere una chimera, svela un incantesimo.

I miei morti sono volubili, a volte si nascondono da me e altre volte si fermano sulla mia testa, come la fiamma dello Spirito Santo, con la pretesa di illuminarmi anche se non ci riescono. Tutt’a un tratto, se l’imperiosa Luna porta con sé i loro nomi, le chiedo di stringere il mio cuore per consolarlo della loro assenza.

La morte di mio padre fu l’unico lutto in quell’anno. A quei tempi era così, non moriva quasi nessuno. Di lì venne la nostra collera. Di lì la convinzione che Dio e il caso fossero la stessa cosa, e, proprio per questo, niente.

Due anni prima era morta la sorella di mia madre, giovane come lo ero io molto tempo fa e allegra come dovremmo essere tutti. Lei torna ogni volta che vado al mare.

Poco tempo dopo morì la sorella di mia nonna, una specie già allora in estinzione, che visse fino all’ultimo giorno tra l’inverosimile e la cattedrale. L’ho già detto altre volte, perché non facciamo altro che ripeterci, lei arriva quando ho urgente bisogno di un film che mi faccia piangere.

Poi morì mia cugina Tere, che aveva ventotto anni ed era quasi una bambina con sei figli. Pallida e appassionata, ritorna ogni volta che una delle sue bambine compare con una lettera che porta il nome che lei le aveva ricamato su un cuscino.

Alla fine di quel ciclo, mio nonno Sergio si addormentò all’improvviso, ingannandoci; come sempre. Lui e mio padre sono i miei due morti più cari. Ho parlato molto di quelle ferite. Con loro finì la cerchia di santi che persi allora: con loro, lo stupore indomito che provoca la morte quando la vediamo per la prima volta.

La più amata delle mie morte è mia madre, solo che non lo sa ancora perché non ho potuto parlarle, si rifiuta di essere un fantasma o una fantasia, così continua a essere la morte stessa che trafigge il mio fianco. Sei mesi prima di perderla ci dissero che le restavano ancora due, forse dieci giorni di vita. A volte, mentre dormiva, immaginai che l’angelo che ci carica come orologi avesse già abbandonato il suo corpo, ma poi lei riapriva gli occhi che a poco a poco si facevano trasparenti e chiedeva acqua, o zucchine cotte a fuoco lento. “Non se ne andrà mai” pensammo, mentre se ne stava andando. Aveva una passione per gli alberi, e il culto dei suoi figli. Non voleva morire per non darci quel dolore. Non conosco nessuna che si sia mai opposta con tanta forza alla morte. Né Maicha, signora dei leoni, né la zia Luisa né Mayu né Sabines, che avrebbero voluto vivere più delle loro vite. Nemmeno doña Emma, anche se lottò come una belva contro la malattia e contro di noi, che non volevamo lasciarla andare da nessuna parte con la sua conversazione illuminata e le sue dita eroiche. Solo Luisa, la bambina di Rosario e Miguel Ángel, lottò di più, ma nemmeno lei ce la fece. Era di un altro pianeta, dev’essere là, perché suo fratello perde la testa ogni volta che spunta la prima stella. La stessa sorte di Eduardo, il mio figlioccio, la cui risata era un tale piacere che a volte resta sospesa nell’aria radunando una manciata di diamanti.

Li nomino e intanto pesano sulle mie spalle. Pesano sui miei occhi e sulle mie mani. Cinthia e l’orizzonte in cui ballava, Pablo che suonava la chitarra vicino ai salici. Mata e Vives, come uno specchio, che mi accompagnano in un assolo impossibile mentre i loro nomi mi sono strappati via. E Soumy che si confonde nelle vite di tanti, con una dolcezza che fa passare ogni paura.

Posso nominarli, ma sentirli mi sarebbe più che sufficiente. Ho una lettera che Julia Guzmán mi spedì trentacinque anni fa, l’ho trovata adesso, sopravvissuta alle devastazioni dei miei vari cambi di studio. Era una scrittrice in tempi in cui esserlo sembrava un vezzo del dorato mestiere di moglie; lì mi augurava di diventarlo anch’io. Per darle ragione, un tempo pensai che fosse così. Adesso scrivo e basta, e la ricordo, con gli occhiali appesi a un cordino, e gli occhi appesi a un abisso. Vidi Pastor, suo marito, un ateo come quelli di una volta, con un colpo alla tempia e un messaggio anch’esso come quelli di una volta: «Non incolpate nessuno della mia morte». Brucio ancora di rabbia quando mi appare la sua figura sconfitta.

Una parte dei miei morti quasi non mi conosceva. Io so molto di più su di loro. I miei nonni paterni mi videro per qualche anno, quando ero uno sgorbietto biondo che sapeva appena parlare. Mia nonna Ana, ogni volta che mi torna in mente, mi vede oppressa dai sensi di colpa perché il giorno in cui morì mi rallegrai: non saremmo andate a scuola. Eppure porto tatuata in qualche sinapsi la voce più triste mai sentita, che annunciava la morte della nonna. Mio padre tornò in Italia contro la volontà di sua madre, che vide arrivare la guerra con un dolore pari all’euforia di suo marito, perché adesso che sto guardando le sue lettere, scopro incredula che il nonno amava la guerra ed era orgoglioso di dare un figlio alla sua patria, che per mia fortuna non glielo tolse. Avrei potuto essere la figlia di un altro uomo, ma allora non sarei stata io.

«Che idiozia stai dicendo» mi sussurrano all’orecchio gli spiriti. «Se tornasse il vento» diceva un fidanzato che non ebbi perché era tanto vecchio quanto era giovane quando scrisse la sua Inutile divagazione sul ritorno: Renato Leduc. Torna, certi pomeriggi, a domandarmi come mai non mi piacciono più i tori, torna per farmi ridere. Qualche anno dopo di lui morì Ignacio Cardenal. Generoso editore dagli occhi scuri, fece arrivare a Madrid il mio primo libro e portò in Messico, nella persona di se stesso, il mio primo amico spagnolo.

E il bambino che persi, sarà stato una bambina? Né l’uno né l’altra. Era una scintilla. Eppure, due cellule tornano a insinuare che i miei figli sarebbero stati tre. Lo so. Sono legata a un atavismo. Non c’è morte dove non c’è stata consapevolezza della vita. Ma c’è vita in una goccia d’acqua sebbene quella non sappia di essere viva.

I miei morti. Non ho nominato Manuel Buendía, ucciso davanti al suo ufficio perché aveva visto arrivare il narcotraffico. Adesso non c’è uno sparo che non me lo ricordi. Quando andai al suo funerale ero incinta di mia figlia, che ha ventisei anni. Vecchia guerra, la nostra.

Chi mi manca? Quasi tutti quelli di adesso, ma non li nominerò perché sono ancora vicini, sono morti che non mi parlano. Fra quelli di prima: Mané. Era la madre di mia madre e capiva meglio di chiunque altro la felicità di un romanzo. Ne visse uno: suo marito era un sole, i suoi figli le stelle, il suo giardino il paradiso, la sua paralisi non conobbe un lamento. È la responsabile della passione di famiglia per lo zucchero e il pane. Grandi presunti mali della nostra epoca, pura fortuna della sua. Di lei che, come il grano, non conobbe né odio né orge.

Chi mi manca? In questi anni senza rabbia e senza un dio con cui prendersela, mi sono morte tante persone care quante sono quelle vive che mi restano. È novembre e sono tutte qui, sono venute a mangiare, sugli altari. Morti di tutti i nostri giorni, tutti necessari. Che non se ne vadano lontano, che questo novembre rimanga con noi. Novembre, il mese che li fa rivivere tutti.
COMPAGNIA IN FIAMME
Ad alcuni di noi dicembre piace. Pazzi, patiti della pura emozione, dell’odorosa impazienza, della felicità banale, degli abbracci.

Sono cresciuta in una famiglia per la quale dicembre non poteva portare dolori, anche a costo di nasconderli sotto il tappeto. Dicembre era gli altri, era la vita accanto a loro, il ricordo, ma solo felice, di chi non c’era più. In onore dei vivi, in quei giorni era proibito il lutto.

Nemmeno nell’anno in cui morì mio padre, né in quello ancora più singolare in cui morì sua sorella, il Natale di mia madre si interruppe se non per arrendersi all’allegria: mio padre ancora davanti al fuoco, a caricare l’orologio; sua sorella che giocava con la neve, sotto il vulcano.

“Che famiglia sciocca” penserà qualcuno, e ci fu chi me lo fece notare esplicitamente. Per Héctor dicembre era senz’altro triste, perché non c’era chi doveva esserci quando doveva esserci, e il ricordo di un’assenza segna più di tutte le mani che si ostinano a illuminare la casa.

Ci fu, ma non c’è più, accanto a me, chi temeva l’euforia di quei giorni, chi chiedeva tregua al mio ottimismo, alla stupidità con cui inventavo per i miei figli la più bella delle feste, chi non mi vide cedere per tanti anni ed è ormai dalla mia parte, e aspetta già questo dicembre, decidendo cosa dovrà succedere il prossimo. I miei bambini erano me stessa; le feste degli altri, un memoriale delle mie; la nostra festa, una casa di chimere. Dicembre era celebrazione: un lascito nella mia mente, una promessa da trasmettere a quelli che mi circondano. Anche se gli ultimi anni mi hanno deposto ai piedi tanti cadaveri amati e tanti così temuti, non regalerò a nessuno il piacere di amareggiare i bambini con storie di orrori che negano il futuro, nemmeno ai bambini veri e propri: José María ed Eugenia, Pedro e Laura, né a quelli che mi porto dentro e che vedo là fuori nelle facce dei miei coetanei, dei miei figli, dei miei genitori ancora vivi in questo dicembre che dobbiamo colmare di gratitudine.

A casa mia non si ferì mai con i lamenti questo mese consacrato a cerimonie che benedicono il Sole, la nascita, l’albero. La mia famiglia credeva ancora, come io adesso, che si dovesse dare ai bisognosi. Oggi, la carità è vista come elemosina e in questi tempi la liquidano come stupida, ci dicono che è tutta una questione di programmi e di progetti, di insegnare a pescare e non di dare pesci. Sarà così. Non ne dubito, come non dubito nemmeno che ci sia stata una ragione nell’atmosfera generosa di quei mesi di dicembre rivolti agli altri, quando eravamo spinti solo dal desiderio che il loro presente fosse rischiarato da una brama di futuro.

Godo della festività del Natale esattamente per la stessa ragione per cui mi manca mia madre: perché entrambe sono state con me generose, illuminate e sagge. Adesso so che, a dicembre, era mia madre a impersonare il Natale. E tutto la evoca, quindi non ho intenzione di sottrarmi all’impegno di ricordarla con allegria; di ritrovarla nelle candele, nei dolci, nella riffa dei regali, nel che cosa per chi, nel quante gocce di vaniglia e quanta cannella per che cosa. Molte persone care si rattristano in questi giorni. Non credo sia giusto, anche se le emozioni non sono questione di giustizia, ma di stolta ingiustizia. A ciascuno quello che gli spetta: l’ostinato desiderio di speranza in cui sono stata cresciuta mi obbliga a rispondere con quello che ho ricevuto. Non permetterò, in questi giorni, più tristezza di quella che vorrei evitare di vedere negli occhi degli altri, quella che vorrei evitare di vedere ovunque.
UNA ILLUSIONE ROSSASTRA
Ricordo la luce rossastra che andava e veniva nella breve oscurità dell’alba. L’albero di allora aveva luci come candele che riscaldandosi producevano bolle. C’era un grande piacere nell’avere il privilegio di chiamare gli altri, nell’essere il primo che scopriva i regali accanto alla punta delle scarpe, in un silenzio illuminato su se stessi e sul mondo in attesa; adesso immagino che ogni cosa sapesse che in quel silenzio c’era un mondo di emozioni sospese. Dopo il mio richiamo, gli altri fratelli scendevano di corsa e una sensazione di pienezza avvolgeva tutto quanto. Quei giorni li ricordo così. Fra le sei immagini che riesco a rievocare, perché la memoria comincia a tessersi a quattro anni e a dieci finì la fede nel miracolo, ce ne sono due che ricordo meglio: quella delle bambole con le trecce, e quella del trenino elettrico. O li abbiamo ricevuti nella stessa occasione? Due bambole, una bruna e l’altra bionda. Una di Verónica e l’altra mia. Quanti anni avremo avuto? Otto? Sette? Rivedo Verónica con le labbra incollate mentre strappa la scatola per tirare fuori la bruna.

Quando portarono il trenino elettrico, il più entusiasta era mio padre. Non riesco a pensare a quel trenino senza collegarlo a lui, così come non riesco a pensare all’Epifania senza che mi venga in mente mia madre. So che la fatica di cercare i giocattoli, trasportarli, trovare il prezzo migliore è toccata sempre a lei. Immagino che mio padre l’aiutasse a sistemare quello che andava messo accanto a ogni scarpa, li vedo mentre dispongono i regali, controllano la riuscita di tutta la scenografia che noi bambini avremmo trovato il giorno dopo. E li benedico.

Certe cose ci rimangono impresse nella memoria come fotografie, altre come video, altre ancora come paragrafi di un libro, come poesie, come racconti. Quasi nessun ricordo ha le dimensioni di un romanzo: a meno che non siano quelli di Proust, durano secondi o minuti, a volte sono un’ossessione di ore, ma sono sempre discontinui. Metterli vicini e comporre un libro è una sfida che raramente dà un risultato prodigioso.

«I re Magi sono i papà» disse qualcuno o dissero, uno dopo l’altro, diversi bambini con i quali sono cresciuta. Ormai non ero più piccolissima. Avevo dieci anni, età in cui adesso è impossibile continuare a credere che dal cielo scendano re che portano doni. Fino a che età, adesso, i bambini credono ai re Magi? I miei figli, fino a nove e a sette anni. In parte fu colpa mia, perché mi precedettero a Puebla con uno dei miei fratelli dove li raggiunsi con i giocattoli nel portabagagli della mia macchina. Mateo e Arturo, che avranno avuto nove anni, frugarono lì dentro e siccome trovarono le bici andarono a dire a Catalina che quella era la prova che dietro i re Magi, in realtà, c’ero io. Le diedero un enorme dispiacere.

«Perché non mi hai detto niente?» le ho domandato non molto tempo fa. «Mi sarei inventata che le bici le portavo io, ma loro ti avrebbero portato qualcos’altro.»

«Non te l’ho detto» ha confessato «perché Mateo mi aveva chiesto di non rovinarti la magia.»
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