lunedì 21 gennaio 2019



Ángeles Mastretta
L’emozione
delle cose
Mi piace ricordare e ricostruire, spizzichi della mia vita, perchè penso non sia la più piatta e monotona delle esistenze. Come tutti abbiamo aspetti del passato, più o meno emozionanti, abbiamo una quotidianità fatta di abitudini ma anche episodi unici, inaspettati, che si presentano per cambiare il corso delle cose, per arricchirti, o per metterti alla prova. Per questo ho amato molto leggere Ángeles Mastretta "L'emozione delle cose"

MIE DUE CENERI
Tutte le luci sono accese, ma io sono rimasta al buio in casa di mia madre. Una casa in mezzo al giardino, che è di tutti.
Mio padre ereditò questo terreno, che all’epoca era un luogo remoto accanto alla città, da suo padre, un emigrante italiano arrivato in Messico alla fine dell’Ottocento. Sarebbe potuto finire nel baratro dei debiti se mia madre non vi si fosse aggrappata.
A mio padre toccò la guerra, e il matrimonio come l’unica conclusione possibile di quel sogno di orrori: una tregua. L’ardua pace che lui sintetizzava così: «In chiesa ti legano una spugna alla schiena. Il prete dice che bisognerà portare addosso quel carico per tutta la vita con serenità e allegria. Pensi che non ci sarà niente di più facile. Poi, finita la cerimonia, si apre il portone della chiesa e i coniugi escono per sempre sotto il temporale».
A mia madre toccarono la bellezza e la tenacia. Il matrimonio come una decisione che pensò fosse nelle sue mani e invece fu guidata dalla mano del destino, che giocava a farle credere di essere lei a governare l’eccesso delle sue emozioni.
Successe che si sposarono dopo due anni di un fidanzamento a tentoni. Lui voleva baciarla, lei si chiedeva se sarebbe riuscita a sopportare per tutta la vita il fatto che suo marito non fosse alto, come suo padre.
C’è una foto in cui mia madre sorride ed è splendida come una dea: così, con quel suo viso da bambina che alla fine si rassegnò a non esserlo. Lui l’ha presa sottobraccio ed è come se si tenesse tutto dentro, come se fosse davvero possibile non raccontarle niente di quello che c’era stato prima. È il giorno del loro matrimonio, la mattina dell’11 dicembre 1948. Anche lui sorride, quasi si potessero dimenticare lo sconforto e le perdite. Ha l’aria felice. Mia madre allora aveva l’età che ha oggi mia figlia.
Abbiamo messo la foto sul camino. Fino a un anno fa era in un baule, ma mia sorella Verónica l’ha trovata proprio quando cominciavamo a sentirne il bisogno. I nostri genitori si volevano bene. Quanto? La loro fu una storia da romanzo d’epoca o non era epoca da romanzi? Non li vidi mai baciarsi sulla bocca. Ci penso adesso che sono rimasta qui da sola con loro: perché non si baciavano davanti a noi?
Il mio nonno materno pensò per mesi che quel matrimonio non avrebbe funzionato. Carlos non era ricco, aveva dodici anni di più, e oltretutto sognava a occhi aperti.
La mia nonna paterna era sicura che la famiglia di mia madre fosse troppo liberale, ma delle sue certezze non importò niente a nessuno. Per quattro anni aveva creduto che Carlos fosse morto in Italia mentre qui le morivano altri due figli. Per lei era solo Dio a decidere e qualsiasi cosa decidesse Dio era la giusta decisione. Forse è per questo che nessuno la ascoltava.
Soprattutto mia madre. Non dimenticò mai quel giorno di aprile in cui portò dei manghi in regalo alla sua futura suocera, e quest’ultima si rifiutò di mangiarli perché non era ancora piovuto.
La mia nonna materna avrebbe amato questo giardino. L’amore per la terra ci viene dai miei nonni materni, e la loro nipote Verónica ne ha fatto una crociata. Il mio nonno paterno l’aveva comprato perché nelle vicinanze aveva costruito un sistema idraulico per produrre energia con le acque del fiume Atoyac. Tutt’intorno c’erano solo campi, e giorni che rotolavano come pietre.
Quando lo acquistò, il suo secondo figlio, mio padre, non era ancora disperso in un paese in guerra. Il nonno credeva nelle guerre, motivo per una discussione che però nessuno volle avere con lui. Nemmeno mio padre che di ragioni ne avrebbe avute mille, perché aveva vissuto la guerra. Dopo essere tornato dall’Italia, non ne parlò più. Neppure mia madre, che gli dormì accanto per venti anni, seppe mai dell’orrore che gli attanagliò la vita e la mente da allora e per sempre. Credemmo che avesse dimenticato. Ma l’abisso di cui non parlava mai era lì, nella nostalgia con cui si appoggiò alla porta di casa guardando noi, i suoi tre figli più grandi, che andavamo a vivere a Città del Messico. All’improvviso.
Ce ne andammo tutti e tre. Come se i nostri genitori fossero ricchi e noi non sapessimo che non lo erano.
Mio padre, Carlos Mastretta Arista, morì cinque mesi dopo. E solo da poco, io, sua figlia Ángeles, ho smesso di credere che sia stata colpa mia. Ora lo so come so dell’acqua: le persone muoiono in qualsiasi momento. E un uomo di cinquantotto anni, la mia età di adesso, che fumava da quaranta, che ne aveva passati cinque in un paese in guerra e venti lontano dal luogo in cui era nato, e riposava solo la domenica, può morire per tutto questo e per mille altre ragioni. Anche se nessuno se lo aspettava, anche se lo vedevamo andare a lavorare e rientrare fischiettando come se stesse tornando da una fiera.
Aveva l’aria contenta, soprattutto la domenica, quando scriveva un articolo sulle auto destinato al giornale su cui pubblicò per oltre quindici anni. Il quotidiano finì per cacciarlo accusandolo di essere comunista, proprio lui che per un momento, non so quanto lungo, aveva creduto nel sogno fascista. Poveretto. Non chiedeva un centesimo per scrivere, né glielo avrebbero dato, ma era il suo divertimento. Chissà se pensò di essere una persona felice, ma sapeva farci ridere e al tempo stesso ci trasmise la sua passione per la malinconia. Un uomo così non dovrebbe morire presto. Ma anche la bontà ha una scadenza.
Mia madre, i miei fratelli e io lo seppellimmo. Sono passati gli anni, e lui non è passato. È passata la vita e il suo ricordo è cresciuto dentro di noi. Mia madre lavorava già prima di perdere mio padre. Insegnava i primi passi di danza in una piccola scuola, con dispiacere di suo marito che considerava una vergogna quello che adesso sarebbe un vanto: avere una moglie impegnata a fare qualcosa di più che truccarsi e lamentarsi.
Perso il marito a quarantasei anni, bellissima, non si risposò né cercò di farlo. Sbarrò la porta a qualcosa che le sembrava scomodo. Un uomo estraneo alla famiglia che dormiva in casa sua? Tutto ma non questo, diceva il suo atteggiamento da regina segregata.
E il tempo passò. Noi figli cominciammo a renderci utili, smettemmo di pesare sulle sue finanze, ma non sul suo animo. Sull’animo, i figli pesano sempre. Ti fai carico di loro come dei tuoi sogni: per fortuna.
Quando noi, i suoi cinque figli, ci sistemammo, lei aveva due sogni. Uno, studiare. L’altro, costruire la casa che aveva desiderato per tutta la vita in mezzo al giardino che mio padre aveva sempre considerato come la più remota delle fantasie. Forse, vendendolo, la situazione finanziaria sarebbe migliorata, ma mia madre sarebbe morta allora e non quarant’anni dopo. Sarebbe morta senza avere frequentato le scuole superiori a sessant’anni ed essersi laureata a settanta. Sarebbe morta allora e non adesso, quando non aveva comunque voglia di morire.
Nessuno vuole morire, e la morte non ci violenta e non ci attanaglia di meno per il solo fatto che ce l’aspettiamo. Le andiamo incontro come se non ci fosse niente di più inaudito. Mia madre era molto malata e aveva già ottantaquattro anni. Visse per alcuni mesi lottando con le debolezze del suo corpo, accanendosi a balbettare che anche in quelle condizioni voleva rimanere un altro po’, crogiolarsi al sole, ascoltare le nostre chiacchiere, bere la sua avena e mangiare ogni giorno il nostro pane dorato. Respirare.
Finiranno in un pezzo del suo giardino i grani di sabbia cinerina in cui si sono trasformati i suoi occhi chiari, la sua voce, la sua memoria, la sua disperata passione per la vita e per i figli di suo marito Carlos, per noi che oggi pomeriggio ci siamo riuniti a pensare sotto quale albero li metteremo. Tutti e due, perché dopo la morte di mia madre abbiamo recuperato anche i resti di mio padre e li abbiamo fatti cremare, come lei, finché ci hanno restituito tutto il suo splendore ridotto in piccoli granelli.
Ciò che rimaneva delle sue ossa, solitarie nell’ombra, si trova adesso in una cassetta di legno, uguale a quella che abbiamo preso per mia madre. Abbiamo messo le due cassette sulla scrivania una accanto all’altra, alla luce, rivolte verso il giardino. E adesso che i miei fratelli se ne sono andati, ognuno a casa sua, io sono rimasta qui, al buio.
Questa casa di tutti è la mia eredità. Saperlo e pensarlo mi fa tremare. Guardo le due cassette, poggio una mano su ognuna. Quella di mio padre, strano a dirsi, mi rallegra. Di suo era rimasto solo il nostro ricordo, e adesso quei piccoli frammenti grigi sono lì a dirmi che è esistito, che c’era una persona viva dietro il mito straordinario che noi tutti abbiamo tessuto dopo la sua morte. Le ceneri di mia madre, invece, mi devastano. Appena due giorni fa, erano la passione e la fede di una donna che vive ancora in ogni pianta del suo giardino. E qui c’è tutto ciò che rimane di lei, in un’urna muta. Quella di Carlos parla, continua a dirmi sciocchezze: «Buongiorno, figlia mia, sono stato felice. Buongiorno, figlia mia, non angosciarti, se si muore è perché si deve morire. Buongiorno, figlia mia, avete fatto bene a portarmi in questo giardino. Buongiorno, figlia mia, non avere paura, nel nulla non succede nulla».
L’urna di mia madre non dice una parola, ma mi fa piangere come se fosse sperduta in un deserto. Come se, oltre a subirla, questa solitudine fosse colpa mia. Quella di mia madre dice: «Ora non ci sono più, ora sei vecchia, ora tocca a te essere la madre dei miei figli, ora piangere non serve, così non sei di aiuto a nessuno, mettiti al lavoro, smettila di guardarmi. Non guardarmi perché non sono qui, sono fuori a passeggiare tra i libri, vicino al tavolo, davanti ai fornelli, sotto gli alberi, con i bambini, contrariamente a quanto potrebbe sembrare. Non guardarmi. Ricorda chi ero da viva, fa’ che il morto sia tuo padre, che era già morto. In questa urna non ci sono, portala in giardino, buttala, liberatene. Qui non ci sono né i miei occhi né le mie mani né il mio ostinato desiderio di esserci. Portala in giardino e mettila vicino a quello che rimane di tuo padre, lui che non ha conosciuto questa casa e non ne sente la mancanza, e non sa che voi ormai sapete che sono morta. Non guardarmi. Lascia che continui a vivere, senza turbare il mio dolore con il tuo».
Tutte le luci sono accese, ma io sono rimasta al buio in casa di mia madre; una casa in mezzo al giardino, che è di tutti. Ed è mia. Come la memoria, l’abbandono e il vento. Non ho paura, padre, sono terrorizzata. Non sono terrorizzata, madre, ho la tua eredità e questa casa e i tuoi cani. Ho i miei figli e i miei fratelli con i loro figli. Ho due urne, due mucchi di polvere, una sola tristezza bruciante.


TRIGONOMETRIA DELLA TRISTEZZA

Sarebbe bello poter credere che i morti facciano miracoli aleggiando in un’aria che non li accarezza più. Consolerebbe sapere che c’è qualcosa di loro nel trambusto delle faccende quotidiane, e che le svolte cruciali sono legate al loro impegno di anni per ottenerle, al loro morire desiderandole, ai poteri ultraterreni emanati dall’odore delle loro ceneri.
Mia madre morì ad agosto, qualche anno fa. Non è strano, lo so, a tanti muore la madre. Alla mia età, a quasi tutti. Ma non a tutti la tristezza piomba addosso nello stesso momento, e non è vero che la perdita si senta meno con il passare degli anni. Ci rassegniamo. A volte ci sembra di farlo fin dal primo giorno, ma all’improvviso, basta vedere una pianta rampicante e perdiamo il coraggio.
Mia madre aveva gli occhi chiari ed era in pace con la vita. Mentre cresceva, il mondo era piccolo e governato da una banda di ladri. Continuavano a governarlo così, senz’altra ambizione che quella di dominare, né altro lusso che quello di procurarsi lussi, due cricche che si lasciavano in eredità il potere.
Nessuno apriva bocca. Meglio così che essere ammazzati, pensavano molti nel 1924, quando nacque lei. E continuavano a pensarlo nel 1934, quando aveva dieci anni, nel 1944, quando ne aveva venti, e nel 1954, quando ne compii cinque e lei ci pettinava nei giorni di festa. Anche nei primi anni sessanta, quando il mondo era ancora piccolo nonostante si stesse aprendo in tanti punti, continuava a essere governato dagli eredi del cacicco più potente che Puebla avesse mai avuto. Un uomo che, quando nacqui io, era già morto da parecchi anni, eppure ne aveva ancora tanti da vivere. Perfino nel 1980, quando volevo scrivere un libro su di lui, cosa che non feci perché era un’impresa che superava le mie forze, nessuno osava pronunciare il suo nome ad alta voce. Era stato temuto al punto che continuava a esserlo a quasi quarant’anni dalla sua morte.
In mancanza di verità complete, inventai un personaggio che a mia madre sembrò minore rispetto all’impronta lasciata nel suo mondo da quello reale. Lo inventai mettendo insieme le poche cose che venni a sapere e le tantissime che immaginai; mia madre pensò sempre, e a ragione, che la storia vera fosse migliore e che la realtà di quel tempo fosse stata decisamente più drammatica. Lei le aveva viste tutte e a casa sua ne avevano parlato ad alta voce mentre in città passavano in silenzio tutti gli anni tra il 1934 e il 1982. Allora nacque mio figlio e lei intraprese gli studi superiori e poi quelli universitari, spinta dalla certezza che il mondo non poteva essere così silenzioso né così piccolo, che fuori c’era l’orrore per quanto in privato si cercasse di mantenere un’atmosfera idilliaca, come sembrava esserci durante la mia infanzia e la sua gioventù, al tempo in cui le tremavano le mani per questioni che in seguito la fecero ridere.
Partecipare alla cosa pubblica sembrava talmente impossibile, che la famiglia era il più pubblico dei nostri mondi. Tutta l’energia era rivolta all’interno. Ecco perché prendere parte all’organizzazione di una festa in onore di sua madre la rendeva nervosa. Per mia madre l’autorità era sua madre. Prima di qualsiasi uomo: la voce di mia nonna. Le sue figlie, il trio di donne sotto il cui controllo cresceva la tribù, organizzavano per lei feste in cui cantavamo, ballavamo, recitavamo.
Eravamo venti ragazzini dominati da tre sorelle sorridenti alle quali rendevamo omaggio. Donne il cui sforzo, applicato alla vita pubblica, avrebbe potuto essere un’altra festa.
Siccome mia madre era perfetta – mio padre e mia nonna lo dicevano sempre, anche se noi figli ce ne rendemmo conto in ritardo – le dispiaceva fare brutta figura. E tremava al pensiero che le ciocche delle nostre trecce non fossero uguali fra loro, che potessimo dimenticare la canzone, che una delle sue quattro allieve di danza inciampasse durante la cerimonia, magari perché aveva perso il pettine del costume da sivigliana.
Ci mascheravano in ogni modo possibile. Tra i quattro e i dieci anni ricordo di avere indossato un vestito da pastorella, uno da principessa, uno da madrilena, uno da prima comunione, uno da angelo e altri cinque, tutti cuciti da lei. Abbigliati in modi diversi a seconda dello spettacolo, uscivamo sul palcoscenico, che era il salotto di mia nonna, come se calcassimo le scene del Metropolitan a New York. E mia madre tremava come George Balanchine non tremò mai.
Quei pomeriggi parlano di lei perché allora erano un suo dovere, e fino all’ultimo dei suoi giorni considerò il dovere un alleato. Quando rimase vedova con cinque figli adolescenti e senza un soldo, passò da un’occupazione all’altra con la naturalezza di un pesce capace di vivere sia in un lago che nel mare. Mentre studiava, gli eredi politici del mio cacicco continuavano a proliferare. E lei scoprì la vita pubblica, il mondo al di fuori delle quattro mura familiari. Io, adesso, non sarei in grado di capire la trigonometria, ma lei si sorbì tre anni di quel tormento perché le andava, come le andava di trovarsi ogni genere di impegno. Fece la tesi su Colombres, un quartiere povero, raccontando la storia di quattro donne desolate e sorprendenti con il titolo Io voglio solo sapere. Un giorno in cui mi prese la tristezza, cercai quel libro che mi aveva dato con meno garbo di quando mi aveva regalato il suo ricettario di cucina, e che io ho custodito così bene che è scomparso nella mia precaria biblioteca. Fortunatamente mia sorella lo ha ritrovato nella sua e me lo ha consegnato con il sorriso che ha stampato sulle labbra da quando è riuscita a cambiare un pezzetto di vita pubblica della nostra città.
Non dobbiamo essere troppo sicuri che i morti ignorino il dolore dei vivi. Adesso mi permetterò di sognare che mia madre abbia fatto qualcosa, dal nulla in cui si trova, per aiutarmi a ricordare quello che ho raccontato qui, dimenticando così la tristezza.

MEMORIA D’ACQUA

Nella foto che fa da sfondo allo schermo del marchingegno con cui scrivo, la bambina che fui guarda lontano in braccio a suo padre. Ha la schiena dritta e gli occhi luminosi. Il papà la tiene stretta a sé con la mano perché non cada. E lei ha un’aria così serena, è così presa dall’istante che l’avvolge, da rivelare tutta la curiosità che ancora oggi possiede.
Mia madre si stava avvicinando. È lei che guardo, è lei che indica il dito dell’uomo con cui dorme. Suo marito da ventisei lune. La foto dev’essere stata scattata da mio nonno, che in quegli anni era stato colto dalla passione per la fotografia. E che già allora aveva una predilezione per la bambina.
Chissà da dove mi viene l’idea che quel momento sia il primo ricordo della mia vita. Anche se ho buona memoria per il passato, a quel tempo avrò avuto quindici mesi e mezzo, perché c’è un’altra foto di mia sorella, appena nata, fatta lo stesso giorno. E tra i miei cinquant’anni e i suoi ci sono quindici mesi.
Dicono che non è possibile avere memoria di quell’età, quindi il mio ricordo di quel giorno è fittizio come tanti altri. Ce l’ho da sempre perché da sempre ho avuto sotto gli occhi l’immagine in cui vive ancora questa bambina sorretta dal papà, che vede arrivare da lontano la madre, con la sorella cinta in un abbraccio. Questa bambina il cui ritratto venne custodito dal capo del clan in una stanza alta ed enigmatica.
Non so come sia trascorso, così in fretta, il tempo fra quell’istante che osservo e questo che adesso osserva me diffidando dell’esattezza con cui posso ricordare. Eravamo a Valsequillo, un lago formato dal letto del fiume Atoyac, trattenuto, di colpo, dal muro di pietre rosse con cui costruirono una diga per fornire a tutta questa zona l’acqua di cui aveva bisogno nei periodi di siccità.
Non sono particolarmente imbacuccata, sarà stato marzo. Avevamo una barca a vela, una canoa indiana e un motoscafo. In realtà era tutto di mio nonno, che adorava l’acqua e lo sport, gusti allora non comuni. Il bacino era ancora un servizio più che un divertimento. Ecco perché non si vede nessuno attraversare le acque su cui sembra danzare la bambina che, nella terza foto, si aggrappa all’albero di una barca a vela, circondandolo con un braccio mentre con l’altro regge in alto una girandola. È pomeriggio, perché sul lago c’è quella linea chiara che il sole lascia mentre si nasconde. Dietro la bambina si vedono solo l’acqua e l’orizzonte, non c’è nient’altro, perché non c’era quasi nient’altro a parte noi, nient’altro che la casa dei miei nonni, come disegnata in mezzo a un paesaggio tutto suo.
Pochi anni dopo, il lago diventò meta di gite e le sue sponde si riempirono di chalet e pontili. Era circondato dalle tozze alture che per secoli erano state le sommità di una scarpata. A quel tempo, sotto scorreva l’acqua di un fiume limpido e dormiva un piccolo villaggio dal quale gli abitanti dovettero andarsene perché lì e tutt’intorno arrivasse il progresso, la cui esaltazione fece affluire tanto denaro nelle casse di quelli che governavano. Ma tutto ciò era accaduto cinque anni prima di queste foto in bianco e nero, dalle quali filtra oggi un’emozione frastornata.
Tutti abbiamo un fiume nella nostra infanzia. Quello della mia era limpido e quando camminavi sulle pietre grigie riuscivi a vederti i piedi sott’acqua. Il braccio dell’Atoyac forma il bacino di Valsequillo, un sogno che ha accompagnato tutta la mia infanzia. La domenica giocavamo sulle sue rive. Ogni famiglia portava un cesto con il pranzo, e tutti venivano messi su un tavolo perché ognuno mangiasse ciò che voleva. Io volevo quasi sempre il cibo del nostro cesto: c’era un che di settario nel mio palato e nei miei modi. A volte portavamo del riso: il coperchio della padella era legato con uno strofinaccio in modo che non si aprisse. E delle verdure. Ma c’era sempre qualcosa di diverso. La mia mamma faceva la miglior torta di mele di cui si avesse notizia, e la migliore di cui io abbia notizia. Ho assaggiato decine di torte in diverse parti del mondo e non ce n’è una come quella. Se la patria è il sapore dei cibi che abbiamo mangiato da bambini, la mia ha mele e cannella sparse su buona parte della carta geografica.
Durante la settimana non c’era nelle nostre vite nemmeno l’ombra di una bibita in bottiglia, tranne la domenica a mezzogiorno. È passato così tanto tempo e sono molti anni che un medico mi ha vietato la caffeina dopo avermi vista a mezzanotte in preda alle convulsioni, perciò se qualcuno stappa all’improvviso una bottiglia di Coca fredda, ormai una reliquia, gli chiedo di farmi sentire il rumore delle bollicine e annusare un fiore della mia infanzia.
Forse l’infanzia finì solo quando mi venne la prima forte crisi epilettica. Allora non la chiamarono così. Almeno non i miei genitori, che sette anni dopo continuavano a definirla svenimento, credendo che dalle loro voci non trasparisse lo sconforto nascosto in qualcosa di incomprensibile.
Avevo smesso di essere una bambina aggraziata ed ero diventata un’adolescente stupefatta che non capiva perché i quindici anni avessero in sé quella condizione scomoda, quasi dolorosa. Intanto, il lago cominciava a inquinarsi e, di colpo, a puzzare. Sette anni dopo, quando morì il padre della bambina e il mondo venne stravolto all’improvviso, l’acqua di Valsequillo aveva già cominciato a perdere il suo ossigeno. Adesso, a distanza di quarant’anni, sono pochissimi i temerari che osano fare il bagno nel lago. Intorno ci sono ancora le case, e i fedeli vanno a guardarlo da lontano, di pomeriggio.
Detesto parlare del passato come se fosse qualcosa di migliore, perduto nel nulla di un presente sterile. Non credo a questo genere di cose. Ma a quei tempi l’acqua del bacino era limpida. Adesso è d’argento solo perché il sole batte immutato sulla sua superficie e dall’alto lo illumina nello stesso modo. Tanto che, se ci si distrae, si vede uscire un uomo che issa le vele del suo catamarano. Forse mio nonno Sergio si aggira ancora da quelle parti.

TREMARE COME LE STELLE

Gli emigranti sono polvere di stelle, sale della terra, alberi alati.
Noi, i Mastretta messicani, siamo nipoti di un immigrante. E da dove veniamo?
Quando cominci a pensare a queste cose, cominci a invecchiare. Io, nipote di Carlo Manstretta Magnani, l’italiano che arrivò in Messico alla ricerca di una certezza e trovò il caso e, per sua gran fortuna, una moglie di nome Ana, ho trasformato in un’abitudine la curiosità per il passato. Cerco una risposta in chi ormai non vive più, la cerco negli occhi e nelle storie di chi porta e trasmette il mio sangue. In quelli che, teneramente, chiamiamo famiglia.
Parlando tra noi, immaginiamo come fossero la terra e i sogni di chi non aveva idea di dove si trovasse il paese in cui saremmo nati, in cui sono nati i nostri figli, dove sogneranno i nostri nipoti, i discendenti di un uomo che abbandonò la dolce terra dell’uva e dei monti, il fiume luminoso che è tuttora il Po, e si fermò qui, sotto due vulcani dal nome ruvido e in mezzo a uomini e donne ignari del sogno che lo aveva spinto a lasciare la sua patria.
Ricordo molto poco di nonno Carlo, morì quando avevo quattro anni, ma il barlume di memoria in cui lo custodisco mi commuove ancora.
Mio padre mi portava a salutarlo la domenica e io, che avevo le carte della sua scrivania all’altezza degli occhi, alzavo lo sguardo e gli dicevo: «Buongiorno, nonno».1 Credo che a quel punto lui mi guardasse come un giocattolo, e prima di salutarci mi metteva in mano una moneta d’argento.
Anni dopo, mio padre, fermo accanto al lavandino in cui sciacquavo le dita, come se d’un tratto rivedesse un paesaggio remoto, mi disse: «Hai le mani da contadina italiana».
Parlava pochissimo dell’Italia. Per dimenticarla, pensavamo, ma adesso so che era solo per non perderla in parole, perché rimanesse tutto dentro di lui come qualcosa di intimo e intoccabile, come un amore di cui nessuno potesse essere geloso, o un ricordo che non si nomina per paura di perderlo. Perché raccontare le ferite e i piaceri di prima, se altri, ascoltandoli, capiranno così poco?
Avevo e ho ancora le mani da contadina italiana. Un tempo le avrei usate per tagliare grappoli da una vite, oggi, nel nuovo paese di nostro nonno, le uso per scrivere, per raccontare il mondo in una lingua che non è la sua, per essere messicana come non sarò mai italiana.
In Italia sono una scrittrice messicana,2 e quando rispondo alle interviste o devo esprimere pensieri più sofisticati di quelli necessari per ordinare una pastasciutta a Stradella, lo faccio senza il minimo dubbio, con allegria e inevitabilmente, in spagnolo.
È la lingua che ho imparato da Carlos Mastretta Arista ed è la lingua che hanno imparato i figli dei suoi fratelli Marcos, Carolina, Catalina, Teresa e Luis Mastretta Arista. Anche adesso, per parlare con i nostri cugini, i Manstretta italiani, utilizziamo un linguaggio incerto e al tempo stesso intimo imparato alla Dante Alighieri o nel cammino a ritroso che, come dico a mia sorella Verónica, è sempre difficile.
Nomino Verónica e torno a domandarmi quale sarà il destino del cognome Mastretta che portiamo. È il secondo cognome dei nostri figli, sarà il quarto dei nostri nipoti, l’ottavo dei nostri pronipoti. Invece sarà ancora il primo dei figli dei miei fratelli e il primo dei loro figli e dei loro nipoti e dei loro pronipoti e dei loro trisnipoti.
Nessuno dei figli di Carlo Manstretta e Ana Arista è ancora vivo. Mio padre potrebbe avere cent’anni; un’età quasi infinita per i miei figli. Eppure c’è chi li supera: il Titanic in fondo all’oceano, l’hotel Palace a Madrid e i biscotti Oreo, redivivi su qualche scaffale. Non so cosa darei per avere festeggiato anche solo i sessanta di mio padre, che morì a cinquantotto, esattamente la mia età di adesso, senza avermi raccontato neppure un briciolo della sua vita in Italia.
Abbiamo sempre bisogno di sapere, quando ormai non è possibile. E quando ne sentiamo di più l’urgenza, perché anche noi, come i figli di ogni emigrante, siamo polvere di stelle. E allo stesso modo, mentre ricordiamo, tremiamo come tremano le stelle.
1. In italiano nel testo [N.d.T.].
2. In italiano nel testo [N.d.T.].

A CIASCUNO LE PROPRIE OCCHIAIE

All’età di sette anni, mio padre era un bambino in piedi su un monopattino, con un berretto da cui pendeva un laccio e pantaloni stretti alle caviglie. Doveva essere intorno al 1920 e giocava nel cortile di casa, dove sua madre coltivava le piante.
Lei era una donna dalla lingua veloce e con occhi affondati nelle mezzelune tristi delle occhiaie. Nella sua famiglia erano ereditarie, lo si seppe in seguito e oggi sono accettate come qualcosa di inevitabile dai suoi discendenti. Ci sono testimonianze delle occhiaie del suo prozio, Mariano Arista, riconosciuto adesso come pro-prozio del bambino, un uomo sobrio che accettò di diventare presidente della Repubblica quando quasi nessuno voleva farlo. Le sue spoglie riposano nella Rotonda degli Uomini Illustri e sulla sua tomba c’è un busto di marmo che, nonostante la sua luminosità, ha incise le occhiaie. A sette anni, le occhiaie del pronipote ricordavano già quelle dell’avo e suggerivano le nostre: quelle che furono di mia nonna, ereditate da mio padre e poi da me, da mia sorella, dalle sue figlie e da mia figlia.
Il bambino in monopattino crebbe, l’ho già detto, pronto a partire per una guerra, la stupida seconda guerra. Ma questo accadde dopo. Un tempo, andava ancora tutto il giorno in giro per il cortile.
Nacque quando la Rivoluzione messicana muoveva i primi passi. E aveva appena un anno il giorno in cui fu scossa dall’assassinio del presidente Madero. Di lì in avanti fu tutto un ammazzare senza senso. Era un bambino e aveva la morte alle calcagna, come prima l’aveva avuta suo padre.
Chissà da dove gli europei avranno preso la certezza che fosse logico e legittimo appropriarsi del territorio altrui e assoggettarlo alle proprie bandiere. Ai tempi di mio nonno, era una convinzione diffusa. Nel 1890, tutti i paesi europei avevano colonie in qualche parte dell’Africa. Non l’Italia, perché era stata troppo impegnata a diventare un paese, per andare a cercarne altri. Ma appena le fu possibile lanciò il suo esercito all’inseguimento della fantasia di creare un impero, a cominciare dal tentativo di impadronirsi dei deserti dell’Africa. E in particolare dell’Abissinia e della Libia, due paesi, per così dire, di pastori sconcertati e distese di sabbia ritenute inservibili, perché nessuno, allora, sapeva che lì avrebbero trovato il petrolio.
Nel 1896, ad Adua, in un primo grande tentativo di conquistare il Corno d’Africa, venticinquemila soldati italiani furono sconfitti da centomila abissini. Mio nonno fu tra i pochi che tornarono vivi. Arrivò in Piemonte per guardare, dall’alto di una rocca, il Po che scorreva nella valle, accanto ai vigneti. Poi scese a Torino e raccontò a uno zio giornalista i particolari della battaglia persa, la tragedia dei suoi compagni che vomitavano sangue, urlavano, morivano uno sopra l’altro, lanciati nel vuoto di un’offensiva persa in partenza.
Lo zio pubblicò l’articolo per elogiare il coraggio dei soldati, ma il governo considerò quella descrizione come una denuncia. Dopo quell’episodio, mio nonno dovette andare a rifarsi una vita lontano dall’Italia e dal suo esercito.
Come se l’idea di conquistare una parte dell’Africa non dovesse essere dimenticata, il nonno portò con sé in Messico la sua foto in uniforme di gala e con la sciabola in pugno davanti al camino di un salone. Si vede che fu scattata da uno di quei fotografi che ritraevano spose, bambini e militari; chiunque volesse essere immortalato con indosso qualcosa di originale passava per quello studio con mobili di legno intagliato in cui ogni travestimento era ben accetto. Perché in maschera erano le spose e in maschera era il nonno, con la sua giubba di gala e la sua sciabola, prima di partire per il campo di battaglia in cui uomini e sciabole persero allo stesso modo vita o splendore.
Carlo Manstretta Magnani partì per l’America a ventisei anni, dopo il fallimento militare dell’Italia unita. Ed è qui che quel passato si incrocia con il presente che adesso è sui giornali: il Nordafrica, la Libia, quel paese che si è sollevato per affrontare un dittatore al potere da quarant’anni.
Seguendo la rivolta in Africa ho pensato alla sconfitta di Adua, e al fatto che se l’Italia avesse vinto quella battaglia mio nonno non sarebbe emigrato e non avrebbe conosciuto la sua sposa messicana, né sarebbe nato suo figlio, dal quale discendo.
Il nonno arrivò in Messico nel 1900, da Genova via New York. E a Puebla nel 1906 da Querétaro, dove aveva sposato la nonna con le occhiaie, che era di un piccolo paese in cui ancora si intrecciano ceste, chiamato San Juan del Río.
L’ingegner Mastretta, che nell’odissea della dogana aveva perduto la n, costruì due dighe a Querétaro e poi incontrò Ana María, del cui passato prima di allora conosco pochissimo. So che aveva studiato in un collegio di suore, come interna, credo senza mezzi, visto che era rimasta orfana da bambina. Ad ogni modo sposò l’ingegnere, e non ho loro notizie anteriori a una foto che fino a poco tempo fa era appesa a una parete in casa di mia madre. La nonna è già vestita di scuro. Si intuiscono il suo silenzio e le sue preghiere, profonde come le sue occhiaie. All’epoca aveva quattro figli ed è in piedi accanto al marito, che domina la scena da una poltrona e tiene in braccio un bambino, mio padre, vestito da marinaretto e con i capelli all’insù come se glieli avesse pettinati un vento saggio. Perché c’era stata una precisa volontà nel pettinarlo: in quella foto non c’è niente che non sia stato studiato. L’atteggiamento patriarcale dell’emigrante diventato un prospero costruttore, il fiocco della zia Carolina, la giacca di mio zio Marcos, le spalle della nonna sotto la chioma morbidamente raccolta sulla nuca e i capelli del bambino con la faccia da angioletto sulle ginocchia di suo padre, che già da allora pensava di consegnarlo alla patria italiana perché era il suo secondo figlio, gli aveva dato il suo nome e lo avrebbe cresciuto con il mandato di andare a sostituirlo in qualsiasi avventura avesse intrapreso la madre Italia. Anche se si fosse trattato di un’altra guerra, come fu. Anche se era nato in Messico ed era figlio della moglie messicana che accenna un sorriso accanto a lui. Ana María Arista, la donna che mio nonno incontrò lontano dall’Africa, e che aveva occhiaie identiche a quelle delle pochissime donne libiche che ho potuto vedere sui giornali. E alle mie.
Mio nonno non portò niente dell’Africa araba fin qui, ma trovò occhiaie come quelle che avrebbe potuto trovare là.
Ognuno ha il suo romanzo, se lo porta sulle spalle, lo intesse tutti i giorni. E, a volte, vi ricama il passaggio dei suoi antenati come se fosse il proprio.

TRACCE DEL PIEMONTE

Di mio padre so poco e tantissimo. Non parlava quasi mai della sua vita prima di noi, né parlava molto di quello che sentiva per l’Italia. Anche se traspariva con tanta chiarezza dai suoi occhi.
Una volta lo dissi, come chi dice qualcosa di indecifrabile, davanti a un gruppo di italiani tra i quali c’era una donna grinzosa come una giacca di lino, che mi sussurrò all’orecchio: «Forse aveva un segreto».
Non capii come le fosse balenata quell’idea, ma mi alzai dal tavolo a cui stavamo cenando e corsi a cercare un nascondiglio, dove scoppiai a piangere come se mi avesse parlato di crimini di guerra. Non uscii fino a quando mia sorella Verónica, con cui avevo fatto il viaggio, venne a cercarmi. Dopo dieci minuti avrei cominciato la mia conferenza davanti a un pubblico di italiani, figli di italiani, come avrei potuto essere io se mio nonno non fosse emigrato in Messico, se mio padre non fosse tornato dopo la guerra.
Non sapemmo mai granché. Né ci era necessario: vivevamo come se lo sapessimo. Non riuscì mai a dimenticare quell’orrore, ma non volle nemmeno trasmetterci un frammento di quel ricordo pietrificato al centro del cuore con cui sorrideva.
Carlos Mastretta aveva quattordici anni quando arrivò in Italia per la prima volta. Lì si fece chiamare Carlo Manstretta. Suo padre voleva che fosse italiano. Correva l’anno 1928. Andò prima a Milano e da lì in Piemonte. Su quale nave viaggiò? Ebbe paura? Quale treno prese? Com’era il carro su cui salì, da un crepaccio, fino al paese dove contadini oggi ricchi coltivavano le viti e facevano un vino dolce? Com’erano i contadini, a quel tempo? Com’era l’Italia di quel tempo? Me lo domando sempre. Sono andata a vedere le colline di Stradella, il cielo intenso, la campagna di un verde pallido. L’ho visitata varie volte, ma non ho mai trovato altra risposta che una casa invecchiata e un’aria che mi intristiva perché era al tempo stesso così mia e così estranea.
Mia sorella mi fece una foto mentre mi appoggiavo alla porta da cui mio padre usciva per andare nei campi. Dieci anni dopo, ne feci una io a mia figlia Catalina appoggiata a quella stessa porta. Ho intessuto la trama del mito di mio padre in maniera tale, che poco tempo fa questa sua nipote dagli occhi intelligenti e dall’andatura altera mi ha chiesto di prestarle la penna che conservo in una scatola e ogni tanto guardo come se guardassi l’infinito. Abbiamo ereditato solo alcuni oggetti del genere. Carlos Mastretta non aveva niente di suo. Ma aveva noi, cinque figli da proteggere e da lasciare liberi. E una moglie straordinaria che fu sempre lì a proteggere lui.
Gli piaceva scrivere, sembrava farlo con facilità. Credo che alla fine della guerra lavorasse per un giornale. Lo credo perché trovammo nella sua scrivania dei fogli di carta ingiallita in cui racconta i primi otto giorni del suo viaggio verso il Messico, dopo la guerra. Quindici pagine, un interrogativo.
Dopo averle lette, non potevo fare altro che vivere come una lepre. Come se avessi le ore contate.

CON IL CAGNOLINO IN GREMBO

È seduta, con il cagnolino sulle ginocchia. È quasi una donna, ma conserva uno sguardo da bambina. Ha gli occhi rivolti verso il basso, indossa un abito stretto in vita, con le maniche a palloncino e il colletto a camicia. La gonna è ampia e ricade sul gradino, intorno alle sue gambe. Aveva già le gambe lunghe e forti con cui andò in giro per tutta la vita. Anche le mani sono sulle ginocchia, e su quella destra poggia una zampa del cane. Dietro c’è una fontana in cui danza uno zampillo. Le scarpe hanno la punta rotonda e il tacco quadrato. L’abbigliamento è ancora anni trenta. Visto che era nata nel 1924, sarà stato il 1937. Chissà. Non ha più di quindici anni, ma era già bellissima e distinta; ogni parte del suo corpo lasciava presagire quello che sarebbe diventata. Nella foto di cui parlo somiglia alle sue nipoti.
È mia madre.

IL LUSSO DEL CANDORE

Salgo le scale che portano al mio studio e la trovo sulla mia scrivania, mi sorride con indosso il suo maglione azzurro e con occhi di selva. Guardava giocare i miei figli sferruzzando chissà cosa. Lavorare a maglia era il passatempo dei suoi momenti di ozio che, proprio per questo, non furono mai tali. A mia madre l’ozio non piaceva. Forse una delle sue lotte più ostinate è sempre stata quella contro la perdita di tempo. Perfino per chiacchierare con sua sorella Alicia si concedeva una pausa solo dopo pranzo. Uscivano in giardino e si sedevano su una panchina guardandoci giocare per un po’ mentre loro parlavano, immagino delle loro fatiche quotidiane. Mia zia Alicia segnò la nostra infanzia tanto quanto nostra madre. Prima di rimanere vedova di mio padre, la mamma lo rimase di sua sorella. E noi fummo suoi orfani. Ci addolora ancora immaginare quante cose si sarebbe potuta godere se fosse rimasta; senza dubbio la sua nipote più piccola, con tanto di orecchini pendenti, tacchi e labbra dipinte di rosso, straripante di allegria, a cinque anni.
Il marito di mia zia Alicia era un uomo buono e tenace, dagli occhi azzurri e dalla voce suadente. Durante la settimana sembrava sempre assorto in qualche pensiero. Dopo pranzo faceva un riposino e quando si svegliava tornava nella fabbrica di filati e tessuti che gestiva con un rigore paragonabile solo alla sua passione per la lettura. Non seppi mai granché della sua infanzia né della sua giovinezza, nemmeno una goccia dell’acqua che tutti conserviamo nel fiume sotterraneo della memoria. Si sarebbe pensato che mio padre fosse tutto il contrario, perché i suoi racconti erano fatti di frasi brevi come lampi e gli piaceva conversare. Ma da qualche tempo sappiamo che anche lui nascondeva un mondo e che nelle nostre case non si parlava di tutto. Così le due sorelle chiacchieravano delle loro faccende, il che in parte avrà significato riflettere sui loro mariti e in parte su noi bambini. Poi condividevano segreti, stando bene attente che avessimo tutti le orecchie da un’altra parte.
Magari i loro non erano grandi segreti, però erano quelle cose che noi bambini non avevamo bisogno di sapere, come il prezzo di qualcosa che non ci si poteva permettere. Per esempio di chi sentivano la mancanza e con quale fidanzato non si erano sposate. O quale festa bisognava organizzare per fare una sorpresa a chi. Soprattutto, cose come la risata di qualcuno, che irrompeva all’improvviso nel bel mezzo delle nostre vite. Ai bambini non si parlava di cose tristi. A parte la storia di Gesù Cristo, che non poteva essere più spaventosa, anche se loro non se ne rendevano conto, al dramma non era permesso di arrivare alle nostre orecchie; tanto meno a qualcosa che potesse venire considerato immorale nel comportamento altrui. Sostenere davanti alla nostra spavalderia l’inalterabile candore del mondo fu, sopra ogni altra cosa, il loro dovere e il loro destino. E se c’era una maestra in questo, era proprio la zia Alicia, perché la mamma di colpo si lasciava sfuggire un dolore, si faceva seria e ci lasciava intravedere una delusione; si opponeva anche alla felicità quando era in contrasto con il dovere. Mia zia Alicia, mai. Non la vidi mai triste. A volte lo sarà stata, come tutti, ma forse lo sapeva solo lei. E di sicuro sua sorella, perché sapevano tutto l’una dell’altra fin da bambine, quando cominciarono a crescere insieme, come ciocche della stessa treccia.
Alicia aveva gli occhi cerchiati dalla profondità delle occhiaie che conferivano al suo viso un’ombra di mistero, interrotta continuamente dall’energia delle labbra. Sorridere era il suo forte. E anche occuparsi dei giochi. Quando andavamo al mare, era maestra indiscussa di lotta e di sfida alle onde. Per questo non c’è spiaggia, grande o piccola, che non la rievochi incoraggiandomi a fare di tutto.
Mia madre era l’incaricata della gravità, e lei sola possedeva le chiavi per dissolverla. Insieme formavano una coppia imbattibile, le chiamavamo entrambe «le mamme». Non c’era rottura in quel patto; non che fosse visibile. Noi, i loro figli, eravamo fratelli, se non da parte di padre, per tutto il resto. Almeno, mi pareva. Ora mi domando quanto di tutto ciò che evoco fosse esattamente così: senza dubbio la voce di Alicia Guzmán che chiede incoraggiamento per qualche ferito. C’era sempre chi cadeva dall’altalena o si sbucciava un ginocchio; e mai una volta che lei non fosse accanto al letto mentre mia madre si incaricava di provvedere alla penicillina in polvere e ai cerotti.
Quando feci la foto da cui oggi mi guarda mia madre, sua sorella Alicia viveva ormai solo nella memoria e nella nostalgia con cui non ci oppresse mai. Ora che so quanto può essere grande l’adorazione per una sorella, non capisco come mia madre sia riuscita a sopravvivere a quella perdita con tanta forza.
La zia Alicia morì a trentanove anni, quando lei ne aveva quarantadue. Proprio il periodo in cui si ricorre a una sorella come all’acqua limpida, perché è proprio allora che tutto sembra prendere inevitabilmente forma, in un modo o nell’altro. Una storia come tante, che diventa eccezionale e orribile quando prende corpo in chi amiamo. Mia madre la accompagnò sempre nel suo peregrinare per ospedali e avrebbe voluto proteggerla e salvarla perfino dalla mano capricciosa del Dio biblico che, come ben sappiamo, non perdona mai.
Alicia giocava alla pelota. Un giorno, tornando dal campo, le disse che le faceva male un seno e che sentiva una pallina. Immagino che gliel’abbia fatta vedere: a quel tempo la gente non andava in giro a mostrare il seno né se lo toccava in cerca di un responso. La prevenzione è una storia dei nostri giorni e, con tutto ciò, il male sopraggiunge e spaventa come prima. Quel nodo era già lì, chissà da quando.
Andarono a Houston con lo zio serio e preciso. Lì, una dottoressa disse loro che il cancro era già a uno stadio molto avanzato, ma che avrebbero potuto operarla e vedere cosa sarebbe successo. La operarono. Non si notò alcun miglioramento. La minaccia di morte era un’ombra di dimensioni tali che sul viso delle due sorelle vedemmo ben poca speranza in quei mesi; meno di dodici. Mia madre non immaginò mai peggior crudeltà della schiettezza con cui la dottoressa aveva detto a sua sorella che non c’era niente da fare. Negli ospedali americani si usava già così, ma nel nostro mondo proteggere l’innocenza era sacro e infrangerla un sacrilegio. Adesso, anche qui da noi non si nasconde più nulla al paziente, i medici si rivolgono ai malati e non, come prima, ai loro familiari perché questi ultimi nascondano la verità come un enigma. Allora, e ancora di più nella nostra famiglia, il candore, che adesso sarebbe un lusso, era un dovere. Alicia sapeva della sua malattia quanto o più di qualsiasi medico, ma credo che avrebbe preferito la menzogna per concedere ai suoi lo stesso alibi che loro avrebbero voluto per lei. Solo in quel momento sperimentammo una disgrazia davvero irreparabile. Non so perché, ma noi non eravamo per la verità nuda e cruda. Nel nostro mondo, che prima di tutto era quello delle nostre madri, se la verità faceva male si preferiva tacerla. Forse per questo lo zio, che aveva dieci anni più della moglie, disse così poco. E mio padre, che entrò a far parte della famiglia quasi subito dopo essere tornato da una guerra con tutti i suoi orrori, non volle mai parlarne. Né avrebbe potuto. Aveva dodici anni più di mia madre. Quando si sposarono ne aveva trentasei, con i loro trentaseimila spaventi. Lei ventiquattro, e un sorriso grande come il mondo, non il suo piccolo mondo, ma quello che entra ancora nel mio studio quando guardo le foto della sua prima gioventù. In seguito, durante la nostra infanzia, faceva un sorriso in più solo quando vedeva sua sorella. Era come se la vita le avesse lanciato un ammonimento, come se qualcosa di impossibile si fosse rotto e lei riuscisse a scrollarsi di dosso la delusione solo accanto alla sorella. La ricordo, in quel tempo, legata al dovere con un nodo da marinaio e alla sorella come a un’ancora di salvezza.
Due anni dopo l’intrepida zia Alicia, morì anche mio padre e il baratro della verità nuda e cruda si aprì definitivamente. Ma a quel punto lei, nostra madre, aveva forza per tutto. Anche per sorridere al posto di sua sorella, quando le cose tristi non potevano essere taciute.