venerdì 3 gennaio 2025

EVERYMAN Philip Roth




 EVERYMAN 

Philip Roth

Recensione

Scritto da un Philip Roth alle soglie della vecchiaia, è un racconto lirico che riflette sulla vita, sul passato e sulla fine imminente dell’esperienza umana, laddove, come recita un brano di John Keats posto a prefazione “ un tremito scuote gli ultimi radi e tristi capelli grigi, la giovinezza impallidisce, si fa spettrale e muore e il solo pensare è tutto un tormento”.

La vecchiaia, inutile illudersi, "non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro": il senso di solitudine, di inutilità, di emarginazione, i rimpianti ed i rimorsi, le conversazioni tra coetanei che andavano "invariabilmente a girare intorno agli argomenti della malattia e della salute, perchè a questo punto le loro biografie personali erano diventate identiche alle loro cartelle cliniche, e lo scambio di informazioni mediche escludeva tutto il resto".

Sono i giorni da vivere nel ricordo e nella nostalgia di ciò che si è avuto e non si potrà più avere.

Everyman è  un libro sui  ricordi del defunto che ci racconta dei suoi momenti di gloria e dei suoi momenti di infamia, di quanto di bello gli sia accaduto e di quanto di triste gli sia successo fino ad arrivare  al limite, dove  l’io narrante si fonde nella voce dell’autore che compie le sue riflessioni e poco dopo fa morire/muore il protagonista. Un capolavoro, sulla vita, sulla morte e sulla rassegnazione, intesa come accettazione serena, non priva di rimpianti, di una ineluttabile conclusione.

EVERYMAN

I

 

 

Intorno alla fossa, nel cimitero in rovina, c’erano alcuni dei suoi ex colleghi pubblicitari di New York che ricordavano la sua energia e la sua originalità e che dissero alla figlia, Nancy, che era stato un piacere lavorare con lui. C’erano anche delle persone venute su in macchina da Starfish Beach, il villaggio residenziale di pensionati sulla costa del New jersey dove si era trasferito dal Giorno del Ringraziamento del 2001: gli anziani ai quali fino a poco tempo prima aveva dato lezioni di pittura. E c’erano i due figli maschi delle sue turbolente prime nozze, Randy e Lonny, uomini di mezza età molto mammoni che di conseguenza sapevano di lui poche cose encomiabili e molte sgradevoli, e che erano presenti per dovere e nulla più. C’erano il fratello maggiore, Howie, e la cognata, venuti in aereo dalla California la sera prima, e c’era una delle sue tre ex mogli, quella di mezzo, la madre di Nancy, Phoebe, una donna alta, magrissima e bianca di capelli, col braccio destro inerte penzoloni sul fianco. Quando Nancy le chiese se voleva dire qualcosa, Phoebe scosse timidamente il capo, ma poi finì per dire con voce sommessa, farfugliando un po’: - È talmente incredibile... Continuo a pensare a quando nuotava nella baia... Tutto qui. Continuo solo a vederlo mentre nuota nella baia - E poi c’era Nancy, che aveva organizzato tutto e fatto le telefonate a quelli che erano venuti per evitare che al funerale venissero solo sua madre, lei, il fratello del defunto e la cognata. C’era solo un’altra persona la cui presenza non era stata sollecitata da un invito, una donna robusta con una simpatica faccia tonda e i capelli tinti di rosso che era venuta spontaneamente al cimitero e si era presentata col nome di Maureen, l’infermiera privata che lo aveva assistito dopo l’operazione al cuore di qualche anno prima. Howie si ricordava di lei e andò a darle un bacio sulla guancia.

Nancy disse a tutti: - Posso iniziare dicendovi qualcosa di questo cimitero, perché ho scoperto che il nonno di mio padre, il mio bisnonno, non solo è sepolto nelle poche centinaia di metri quadrati del nucleo originario accanto alla mia bisnonna, ma fu anche uno dei suoi fondatori nel 1888. L’associazione che per prima finanziò ed eresse il cimitero era composta dalle società incaricate delle onoranze funebri delle organizzazioni caritatevoli e delle congregazioni ebraiche sparse nelle contee di Union ed Essex. Il mio bisnonno era il proprietario e il gestore di una pensione di Elizabeth che accoglieva soprattutto immigrati arrivati di fresco, e si preoccupava del loro benessere più di quanto in genere facesse un possidente. Ecco perché fu tra i soci originari che acquistarono il campo che c’era qui e lo spianarono e lo disegnarono personalmente, ed ecco perché diventò il primo presidente del cimitero. Allora era un uomo relativamente giovane ma nel pieno vigore delle forze, e c’è solo il suo nome sui documenti nei quali si specifica che il cimitero era destinato ad «accogliere i soci defunti in armonia con le norme e i riti ebraici» Come appare fin troppo evidente, la manutenzione dei singoli lotti e del recinto e dei cancelli non è più come dovrebbe essere. Le cose sono marcite e crollate, i cancelli sono arrugginiti, i lucchetti spariti, ci sono stati dei vandalismi. Ormai questo posto è diventato il retrobottega dell’aeroporto, e quello che sentite a qualche miglio di distanza è il rumore costante dell’autostrada, la New jersey Turnpike. Naturalmente avevo pensato, prima, ai posti veramente belli dove mio padre poteva essere sepolto, i posti dove andava a nuotare con mia madre quando erano giovani, e le località costiere dove amava fare il bagno. Ma nonostante il fatto che guardarmi intorno e vedere il degrado che c’è qui mi spezza il cuore - come probabilmente spezza il vostro, e forse addirittura vi spinge a domandarvi perché ci siamo riuniti in un luogo così deturpato dal tempo volevo che riposasse accanto alle persone che lo amavano e dalle quali è disceso. Mio padre amava i suoi genitori e deve stare vicino a loro. Non volevo che fosse solo, chissà dove - Tacque un momento per ritrovare la padronanza di sé. Era una donna fra i trenta e i quarant’anni, dall’aria dolce, semplice e carina com’era stata la madre, e all’improvviso perse tutta la sua autorevolezza e il suo coraggio e finì per somigliare a una bambina di dieci anni schiacciata da quella situazione. Voltandosi verso la bara, prese una manciata di terra e, prima di lasciarla cadere sul coperchio, disse con leggerezza, sempre con quell’aria da bambina frastornata: - Be’, così vanno le cose. Non c’è più niente da fare, papà - Poi le venne in mente la stoica massima che lui ripeteva decenni addietro, e scoppiò in lacrime. - È impossibile rifare la realtà, - gli disse. - Devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono.

Il prossimo a gettare un pugno di terra sul coperchio della bara fu Howie, il fratello del defunto, che era stato oggetto della sua adorazione quando i due ragazzi erano piccoli e che in cambio lo aveva sempre trattato con dolcezza e grande affetto, insegnandogli pazientemente ad andare in bicicletta e a nuotare e a praticare tutti gli sport nei quali lo stesso Howie eccelleva. Aveva ancora l’aria di poter andare in meta con la palla, e aveva settantasette anni. Non era mai stato ricoverato all’ospedale per nessun motivo e, pur essendo dello stesso stampo, era rimasto trionfalmente sano per tutta la vita.

La sua voce era appannata dall’emozione quando sussurrò alla moglie: - Il mio fratellino. Non ha senso -. Poi anche lui si rivolse a tutti. - Vediamo se ce la faccio. Parliamo dunque di questa persona. Mio fratello... - Si interruppe per raccogliere le idee e tenere un discorso filato. Il suo modo di parlare e il simpatico tono di voce somigliavano a quelli del fratello, tanto che Phoebe cominciò a piangere e Nancy, in fretta, la prese a braccetto. - Negli ultimi anni, - disse, guardando verso la fossa, - ha avuto problemi di salute, e c’era anche la solitudine... Problema non minore. Ci parlavamo per telefono ogni volta che era possibile, anche se verso la fine della vita si era isolato da me per ragioni che non sono mai state chiare. Da quando era al liceo ha sempre avuto un bisogno irresistibile di dipingere, e dopo essere andato in pensione e aver lasciato il mondo della pubblicità, dove aveva avuto un considerevole successo prima come art director e poi quando fu promosso creative director. Dopo una vita nella pubblicità, ha dipinto praticamente ogni giorno di ogni anno che gli rimaneva. Possiamo dire di lui ciò che senza dubbio è stato detto dai loro cari di quasi tutte le persone qui sepolte: avrebbe dovuto vivere più a lungo. Avrebbe dovuto, davvero - Qui, dopo un momento di silenzio, l’espressione triste e rassegnata che aveva sul viso diede luogo a un sorriso addolorato. - Quando io andavo in prima liceo, e nel pomeriggio avevo gli allenamenti, lui mi sostituiva nelle commissioni che sbrigavo per mio padre dopo la scuola. Gli piaceva, ad appena nove anni, portarsi i diamanti in una busta nella tasca della giacca sull’autobus per Newark, dove il montatore e il misuratore e il lucidatore e l’aggiustatore di orologi impiegati da nostro padre occupavano uno sgabuzzino per ciascuno in un angolo di Frelinghuysen Avenue. Quei viaggi gli davano un’enorme soddisfazione. Io credo che fu proprio la vista di questi artigiani che facevano il loro lavoro solitario in quei cubicoli a suggerirgli l’idea di usare le mani per creare opere d’arte. E penso che guardare le faccette dei diamanti attraverso la lente da gioielliere di mio padre sia un’altra delle cose che incoraggiarono il suo desiderio di prendere la via dell’arte - Improvvisamente una risata ebbe la meglio, un momento di sollievo da quel compito doloroso, e Howie disse: - Io ero il fratello tradizionale. In me i diamanti incoraggiavano il desiderio di far quattrini - Poi riprese da dove si era interrotto, spaziando con lo sguardo oltre la grande finestra soleggiata degli anni dell’infanzia. - Nostro padre metteva un piccolo annuncio sull’«Elizabeth Journal» una volta al mese. Nel periodo delle feste, tra il Ringraziamento e Natale, lo metteva una volta la settimana. «Cambiate il vostro vecchio orologio con uno nuovo» Tutti questi vecchi orologi che accumulava - per la maggior parte ormai inservibili - li buttava in un cassetto nel retrobottega. Il mio fratellino era capace di stare là seduto per ore, facendo girare le lancette e ascoltando il ticchettio degli orologi, se ticchettavano ancora, e studiando a cosa somigliava ogni cassa e ogni quadrante. Era questo che faceva ticchettare quel ragazzo. Cento, duecento orologi dati dentro, un cassetto pieno che forse non valeva più di dieci dollari, ma ai suoi occhi di artista in erba quel cassetto di orologi nel retrobottega era un forziere che conteneva un tesoro. Aveva l’abitudine di prenderli e portarli: aveva sempre al polso un orologio tirato fuori da quel cassetto. Uno di quelli ancora funzionanti. E quelli che cercava di rimettere in funzione, quelli che gli piacevano, con quelli trafficava a non finire, ma inutilmente: di solito riusciva solo a peggiorare la situazione. Però quello fu l’inizio, il momento in cui cominciò a usare le mani per eseguire operazioni meticolose. Mio padre aveva sempre due ragazze appena uscite dal liceo, due ragazze poco meno o poco più che ventenni, che lo aiutavano dietro il banco del negozio. Brave e dolci ragazze di Elizabeth, educate, perbene, sempre cristiane, per lo più cattoliche di origine irlandese, i cui padri e fratelli e zii lavoravano per la Singer Sewing Machine o per la fabbrica di biscotti o giù al porto. Immaginava che delle brave ragazze cristiane avrebbero fatto sentire i clienti più a loro agio. Su richiesta, queste ragazze provavano i gioielli per le clienti, come modelle, e se eravamo fortunati le clienti finivano per comprarli. Come ci diceva mio padre, quando una bella ragazza porta un gioiello, le altre donne pensano che quando lo porteranno loro faranno la stessa figura. Gli uomini che lavoravano al porto e venivano a cercare anelli di fidanzamento e fedi nuziali per le loro amichette certe volte avevano l’audacia di prendere la mano della commessa per esaminare la pietra da vicino. Anche a mio fratello piaceva gironzolare intorno alle ragazze, e questo accadde molto tempo prima che potesse anche solo arrivare a capire perché gli piaceva tanto. Aiutava le ragazze a vuotare la vetrina e gli astucci di velluto alla fine della giornata. Avrebbe fatto qualunque cosa per aiutarle. Dalle vetrine e dagli astucci toglievano tutto tranne la roba più economica, e un momento prima di chiudere questo ragazzino apriva la grande cassaforte nel retrobottega con la combinazione che gli aveva detto mio padre. Prima di lui, tutti questi lavoretti li avevo fatti io, compreso l’accostarsi il più possibile alle ragazze, specie alle due sorelle bionde di nome Harriet e May. Nel corso degli anni ci fu Harriet e May e Annmarie e Jean, ci fu Myra e Mary e Patty, ci fu Kathleen e Corine, e ognuna di loro si prese una cotta per quel ragazzo. Corine, la più bella, si sedeva al banco da lavoro nel retrobottega all’inizio di novembre, e lei e il mio fratellino scrivevano gli indirizzi sui cataloghi che il negozio faceva stampare e spediva a tutti i clienti per la stagione degli acquisti natalizi, quando mio padre era aperto sei sere la settimana e tutti sgobbavano come facchini. Se davi a mio fratello una scatola di buste, lui le contava più in fretta di tutti perché le sue dita erano agilissime e perché contava le buste cinque alla volta. Io ficcavo dentro la testa e infatti, cosa stava combinando? Era là che si faceva bello con le buste davanti a Corine. Quel ragazzo, come faceva volentieri tutto ciò che quadrava col fatto di essere il figlio fidato del gioielliere! Era l’elogio preferito di nostro padre: «Fidato» Negli anni nostro padre aveva venduto fedi nuziali agli irlandesi e ai tedeschi e agli slovacchi e agli italiani e ai polacchi di Elizabeth, per la maggior parte comuni lavoratori. La metà delle volte, fatta la vendita, ci invitavano, tutti noi della famiglia, al matrimonio. Alla gente riusciva simpatico: aveva il senso dell’umorismo e teneva i prezzi bassi e faceva credito a tutti, così noi ci andavamo, prima in chiesa, poi ai chiassosi festeggiamenti. C’era la Depressione, c’era la guerra, ma c’erano anche i matrimoni, c’erano le nostre commesse, c’erano i viaggi a Newark in autobus con centinaia di dollari di diamanti nelle buste ficcate nelle tasche dei nostri giacconi. Su ogni busta c’erano le istruzioni per il montatore o il misuratore scritte da nostro padre. C’era la cassaforte marca Mosley alta un metro e sessanta con le fessure per tutti i plateau che mettevamo via con cura ogni sera e toglievamo ogni mattina... E tutto questo formava il nocciolo della vita di quel bravo bambino che era mio fratello - Gli occhi di Howie tornarono a posarsi sulla bara. - E ora? - chiese. - Forse sarebbe meglio fermarsi qui. Continuare, ricordare altre cose... Ma perché non ricordare? Cos’è un altro gallone di lacrime tra familiari e amici? Quando nostro padre mori mio fratello mi chiese se mi seccava che lui prendesse l’orologio di nostro padre. Era uno Hamilton, fabbricato a Lancaster, Pennsylvania, e secondo l’esperto, il boss, l’orologio migliore che questo paese avesse mai prodotto. Ogni volta che ne vendeva uno, nostro padre non mancava di assicurare al cliente che non aveva mai fatto un errore. «Vede, ne porto uno anch’io. Un orologio molto, molto apprezzato, lo Hamilton. A mio avviso», diceva, «il più importante orologio di fabbricazione americana, nessuno escluso» Settantanove e cinquanta, se ben ricordo. Tutti i prezzi degli articoli in vendita dovevano allora finire con cinquanta. Lo Hamilton aveva una grande reputazione. Era veramente un orologio di gran classe, mio padre amava il suo, e quando mio fratello disse che gli sarebbe piaciuto averlo, non avrei potuto essere più contento. Poteva prendere anche la lente da gioielliere e l’astuccio per i diamanti di nostro padre. Parlo del vecchio e logoro astuccio di pelle che nostro padre portava sempre con sé nella tasca della giacca ogni volta che usciva dal negozio per affari: con dentro le pinzette, e i minuscoli cacciavite e l’anelliera per misurare la grandezza di una pietra rotonda e i foglietti bianchi piegati per i diamanti sciolti. Quei bellissimi oggettini con i quali lavorava e ai quali era tanto affezionato, che teneva in mano e vicino al cuore, eppure decidemmo di seppellire con lui la lente e l’astuccio con tutto il suo contenuto. Teneva sempre la lente in una tasca e le sigarette nell’altra, così gli mettemmo la lente sotto il sudario. Ricordo che mio fratello disse: «A rigore di logica gliela dovremmo incastrare nell’orbita» Ecco cosa può farti il dolore. Ecco quanto eravamo abbattuti. Non sapevamo che altro fare. A ragione o a torto, ci sembrava che non ci fosse altro da fare. Perché quella roba non era solo sua, era lui... Per finire con lo Hamilton, il vecchio Hamilton di mio padre con la corona che giravi ogni mattina per caricarlo e che estraevi per girarla e regolare le sfere... Tranne quando andava a fare il bagno, mio fratello lo portava giorno e notte. Se l’è tolto per sempre solo quarantott’ore fa. Lo ha consegnato all’infermiera per farlo mettere in cassaforte mentre si sottoponeva all’intervento chirurgico che lo ha ucciso. Questa mattina, in macchina, mentre andavamo al cimitero, mia nipote Nancy mi ha mostrato che aveva fatto un altro buco nel cinturino, e ora è lei che porta lo Hamilton per vedere che ore sono. Poi vennero i figli, uomini tra i quarantacinque e i cinquant’anni che, con i loro lustri capelli neri e i loro eloquenti occhi neri e la pienezza sensuale delle loro identiche bocche larghe, erano proprio come il padre (e come lo zio) alla loro età. Uomini belli che cominciavano a ingrassare e che sembravano tanto legati tra loro quanto erano stati irriducibilmente lontani dal padre defunto. Il più giovane, Lonny, fu il primo ad avvicinarsi alla fossa. Ma appena ebbe raccolto una zolla di terra cominciò a tremare in tutto il corpo, e diede l’impressione di essere lì lì per rigettare. Era stato preso da un sentimento per suo padre che non era antagonismo, ma che il suo antagonismo gli impediva di sfogare. Quando aprì la bocca, non ne uscì che una serie di rantoli grotteschi, facendo sembrare probabile che la cosa che lo possedeva, qualunque cosa fosse, non lo avrebbe mai lasciato. Era messo così male che Randy, il figlio maggiore e più determinato, il figlio che faceva le ramanzine, venne immediatamente in suo soccorso. Tolse la zolla di terra dalla mano del più giovane e la gettò sul feretro per tutt’e due. E quando si accinse a parlare, trovò in un attimo la vena giusta. - Dormi bene, papà, - disse Randy, ma la sua voce era terribilmente priva di ogni nota di tenerezza, dolore, affetto o smarrimento.

L’ultima ad accostarsi alla bara fu l’infermiera privata, Maureen, una combattente, a giudicarla dall’aspetto, cui non erano estranee né la vita né la morte. Quando, con un sorriso, si lasciò scivolare piano piano la terra fra le dita socchiuse e da lì sul coperchio della bara, il suo gesto sembrò come il preludio a un atto carnale. Chiaramente, quello era un uomo che un tempo era stato al centro dei suoi pensieri.

Questa fu la conclusione. Non era stata una cosa di grande importanza. Avevano detto, tutti, ciò che avevano da dire? No, non l’avevano detto, e si, l’avevano detto, certamente. In tutto lo stato, quel giorno, si erano celebrati cinquecento funerali come il suo, altrettanto di ordinaria amministrazione, e tolti i trenta recalcitranti secondi della scena dei figlie la riesumazione, fatta da Howie con tanta scrupolosa esattezza, del mondo innocente che esisteva prima dell’invenzione della morte, della vita eterna nell’Eden creato dal padre, un paradiso di cinque metri per dodici mascherato da gioielleria all’antica - né più né meno interessante di tutti gli altri. Ma la cosa più straziante è sempre la normalità, il constatare ancora una volta che la realtà della morte schiaccia ogni cosa.

In pochi minuti tutti erano andati via - avevano voltato le spalle, stanchi e lacrimosi, all’attività meno gradita dalla specie - e lui rimase indietro. Naturalmente, come quando muore qualcuno, anche se molti erano addolorati, altri rimasero impassibili, o provarono un senso di sollievo, o, per ragioni buone o cattive, erano sinceramente contenti.

 

* * *

 

Anche se dopo l’ultimo divorzio avvenuto dieci anni prima si era abituato a vivere per conto suo e a sbrogliarsela da solo, nel suo letto la notte prima dell’intervento cercò di ricordare con la maggior esattezza possibile ciascuna delle donne che erano state là ad aspettare che uscisse dall’anestesia nella sala postoperatoria, ricordando persino la più inetta delle sue compagne, l’ultima moglie, con la quale riprendersi da un quintuplo bypass non era stata la più sublime delle esperienze. L’esperienza più sublime era stata l’infermiera privata dall’aria semplice e professionale che lo aveva accompagnato a casa quando era stato dimesso dall’ospedale e che lo assisteva con un’allegra devozione che favori una ripresa lenta e regolare e con la quale, all’insaputa della moglie, allacciò un’intensa relazione una volta recuperata la sua capacità sessuale. Maureen. Maureen Mrazek. Aveva telefonato dappertutto nel tentativo di rintracciare Maureen. Voleva che venisse a fargli da infermiera, se avesse avuto bisogno di un’infermiera, quando fosse tornato a casa dall’ospedale anche questa volta. Ma erano passati sedici anni, e l’agenzia l’aveva persa di vista. Ormai doveva avere quarantotto anni, ed era più che probabile che fosse sposata e madre, una ragazza energica e ben fatta che doveva aver raggiunto la corpulenza della mezza età, mentre lui aveva perso la battaglia per rimanere un uomo inattaccabile, perché il tempo aveva trasformato il suo corpo in un deposito di aggeggi artificiali destinati a scongiurare il crollo. Non c’era mai voluta tanta diligenza e tanta astuzia per disattivare i pensieri della propria dipartita.

Un’intera vita più tardi, ricordava il viaggio all’ospedale con la madre per la riduzione della sua ernia nell’autunno del 1942, un viaggio in autobus durato non più di dieci minuti. Di solito, se andava in qualche posto con la madre, era con la macchina di famiglia, e al volante c’era suo padre. Ma allora sull’autobus c’erano soltanto loro due, ed erano diretti all’ospedale dove lui era venuto al mondo, e fu lei a calmare la sua apprensione e a permettergli di mostrarsi coraggioso. Da bambino all’ospedale gli avevano tolto le tonsille, ma a parte quello non c’era più tornato. Ora doveva passarvi quattro giorni e quattro notti. Era un ragazzo giudizioso di nove anni senza grossi problemi, ma in autobus si sentiva molto più piccolo e scopri di aver bisogno della vicinanza di sua madre in modi che credeva di essersi lasciato alle spalle.

Suo fratello, al primo anno di liceo, era a scuola, e suo padre aveva preso la macchina per andare al lavoro molto prima che lui e sua madre si avviassero all’ospedale. Sulle ginocchia di sua madre c’era una piccola ventiquattrore. Dentro c’erano uno spazzolino da denti, un pigiama, una vestaglia e un paio di ciabatte, e i libri che aveva portato da leggere. Ricordava ancora che libri erano. L’ospedale era vicinissimo alla biblioteca rionale, così, se avesse finito i libri che aveva portato per il periodo di degenza, sua madre avrebbe potuto rifornirlo dell’occorrente. Prima di tornare a scuola doveva fare una settimana di convalescenza a casa sua, ed era più in ansia per le lezioni che avrebbe perduto che per la maschera che, sapeva, gli avrebbero messo sulla faccia per anestetizzarlo. All’inizio degli anni quaranta gli ospedali ancora non permettevano ai genitori di restare con i figli durante la notte, perciò lui avrebbe dormito senza che nelle vicinanze ci fossero sua madre, suo padre o suo fratello. Era in ansia anche per questo.

Sua madre era educata ed eloquente, come, a loro volta, le donne che presero i suoi dati alla reception e le infermiere nel loro ufficio quando raggiunsero con l’ascensore l’ala pediatrica del reparto chirurgia. La ventiquattrore la portava sua madre perché, anche se era piccola, lui non doveva fare il minimo sforzo finché la sua ernia non fosse guarita e lui non si fosse pienamente ristabilito. Aveva scoperto quel gonfiore al basso ventre, a sinistra, qualche mese prima, e non l’aveva detto a nessuno, ma aveva solo provato a schiacciarlo con le dita per farlo andare via. Non sapeva esattamente cosa fosse un’ernia e che importanza dare a un gonfiore situato così vicino ai genitali.

A quei tempi, se la famiglia non voleva che il bambino fosse operato o se non potevano permetterselo, il medico poteva prescrivere un busto rigido con stecche di metallo. Lui sapeva di un ragazzo, a scuola, che portava un busto del genere, e una delle ragioni per cui non aveva detto a nessuno del gonfiore era la paura di dover portare il busto pure lui, e di doverlo rivelare agli altri ragazzi quando si cambiava per l’ora di ginnastica.

Quando l’ebbe finalmente confessato ai genitori, suo padre lo portò dal dottore. Il dottore lo visitò rapidamente e fece la sua diagnosi, e dopo avere conversato per qualche minuto con suo padre preparò l’operazione. Tutto si svolse a una velocità sbalorditiva, e il dottore - proprio quello che lo aveva aiutato a venire al mondo - gli assicurò che sarebbe andato tutto bene e poi continuò a scherzare sulla striscia di fumetti di «Li’l Abner», che ambedue si divertivano a leggere sul giornale della sera.

I suoi genitori dicevano che il chirurgo, il dottor Smith, era il migliore della città. Come il padre del ragazzo, il dottor Smith, il cui vero nome era Solly Smulowitz, era cresciuto negli slum, figlio di poveri immigrati.

Entro un’ora dal suo arrivo all’ospedale era già a letto nella propria stanza, anche se l’intervento era fissato per la mattina dopo: ecco come allora si trattavano i pazienti.

Nel letto di fianco al suo c’era un ragazzo operato allo stomaco che ancora non poteva alzarsi e camminare. La madre del ragazzo sedeva accanto al letto tenendo la mano di suo figlio. Quando il padre andava a trovarlo dopo il lavoro, i genitori parlavano in yiddish, cosa che a lui faceva credere che fossero troppo preoccupati per parlare in un inglese comprensibile davanti al figlio. L’unico posto dove aveva sentito parlare in yiddish era nella gioielleria, quando i profughi di guerra venivano a cercare orologi Schaffhausen, una marca difficile da trovare che suo padre cercava telefonando dappertutto: «Schaffhausen... Voglio un Shaffhausen», ecco tutto l’inglese che sapevano. Certo, si parlava quasi esclusivamente in yiddish quando gli ebrei hassidici di New York venivano a Elizabeth una o due volte al mese per completare la scorta di diamanti del negozio: per suo padre, tenerne in cassaforte una scorta eccessiva sarebbe stato troppo costoso. In America prima della guerra c’erano assai meno commercianti di diamanti hassidici di quanti ce ne fossero stati dopo, ma suo padre, dall’inizio, aveva sempre preferito trattare con loro piuttosto che con le grosse case di diamanti. Il commerciante che veniva più spesso - e i cui passi di immigrato avevano portato lì con la famiglia solo qualche anno prima da Varsavia ad Anversa e a New York - era un uomo più anziano con un grosso cappello nero e una lunga palandrana nera di un tipo che nelle strade di Elizabeth non si vedeva addosso a nessun altro, nemmeno ad altri ebrei. Aveva la barba e i riccioli sulle gote, e teneva la borsa con i diamanti nascosta all’altezza della vita sotto frange il cui significato religioso sfuggiva al laico in erba - anzi, la cosa gli sembrava ridicola - anche dopo che suo padre ebbe spiegato per quale motivo gli hassidim portavano ancora la roba che i loro avi avevano portato duecento anni prima nel vecchio continente e vivevano come essi vivevano allora, anche se, come lui fece notare ripetutamente a suo padre, adesso erano in America, liberi di vestirsi e di radersi e di comportarsi come volevano. Quando uno dei sette figli del commerciante si sposò, il commerciante invitò al matrimonio tutta la famiglia, a Brooklyn. Là tutti gli uomini avevano la barba e tutte le donne portavano la parrucca e maschi e femmine sedevano ai due lati della sinagoga, divisi da un muro - dopo, uomini e donne non ballarono neanche tra loro - e di quel matrimonio lui e Howie avevano odiato ogni cosa. Quando il commerciante veniva in negozio si toglieva la palandrana ma non il cappello, e i due uomini si sedevano dietro la vetrina a chiacchiera- re amabilmente in yiddish, la lingua che i genitori di suo padre, i suoi nonni, avevano continuato a parlare con i figli nati in America nelle loro famiglie di immigrati finché erano vissuti. Ma quando era ora di guardare i diamanti, i due uomini andavano nel retrobottega, dove c’erano una cassaforte e un banco da lavoro e un pavimento di linoleum marrone e, incastrati dietro una porta che non si chiudeva mai del tutto anche quando eri riuscito finalmente a mettere il gancetto dall’interno, un water e un minuscolo lavandino. Suo padre pagava sempre su due piedi con un assegno. Chiuso il negozio con l’aiuto di Howie - tirando giù la saracinesca con i lucchetti davanti alla vetrina, accendendo l’antifurto e chiudendo tutte le serrature della porta d’ingresso - suo padre andò all’ospedale, entrò nella stanza del figlio minore e lo abbracciò. Era lì quando il dottor Smith venne a presentarsi. Il chirurgo era in giacca e cravatta e non in camice, e suo padre balzò in piedi appena lo vide entrare nella stanza.

- È il dottor Smith! - esclamò.

- Questo, dunque, è il mio paziente, - disse il dottor Smith. - Be’, - disse a lui, avvicinandosi alla sponda del letto per prenderlo saldamente per la spalla, - domani aggiusteremo quell’ernia e sarai come nuovo. In quale posizione ti piace giocare?

- Fondo campo.

- Be’, riprenderai a giocare in quattro e quattr’otto. Potrai praticare tutti gli sport che vuoi. Fatti una buona notte di sonno e arrivederci a domani mattina.

Trovando il coraggio di scherzare con l’illustre chirurgo, suo padre disse: - E si faccia una buona notte di sonno anche lei.

Quando arrivò la cena, i suoi genitori rimasero a chiacchierare con lui come se fossero tutti a casa. Parlavano a bassa voce per non disturbare il ragazzo malato o i suoi genitori, che ora tacevano, la madre sempre seduta al suo capezzale e il padre passeggiando senza tregua avanti e indietro ai piedi del letto e poi fuori nel corridoio. Il ragazzo non aveva mosso un muscolo mentre loro erano lì. Alle otto meno cinque un’infermiera mise dentro la testa per annunciare che le ore delle visite erano finite. I genitori dell’altro ragazzo ricominciarono a parlare tra loro in yiddish e, dopo che la madre ebbe baciato ripetutamente il ragazzo sulla fronte, uscirono dalla stanza. Il padre aveva il viso rigato di lacrime. Poi uscirono i suoi genitori, per andare a casa da suo fratello e consumare insieme in cucina una cena tardiva senza di lui. Sua madre lo baciò e se lo strinse al petto.

- Puoi farcela, figliolo, - disse suo padre, chinandosi a baciarlo anche lui. - È come quando ti affido una commissione da sbrigare in autobus o un lavoro da fare in negozio. Qualunque cosa sia, non mi deludi mai. Fidato... Gente fidata, i miei due ragazzi! Mi gonfio come un tacchino quando penso ai miei ragazzi. Lavorate sempre bene, da quei ragazzi precisi, attenti e laboriosi che la vostra educazione vi ha fatto diventare. Portare pietre preziose a Newark e da Newark, diamanti da un quarto e da mezzo carato in saccoccia, e questo non ti spaventa alla tua età. Presenti al mondo intero la stessa faccia che avresti se fossero dei gingilli che hai trovato nella scatola di popcorn caramellato. Be’, se sei capace di fare quel lavoro, sei capace di fare anche questo. È solo un altro lavoretto, per te. Fallo, sbriga questo lavoro, ed entro domani tutto sarà finito. Come senti la campana, alza i guantoni e attacca. Dico bene?

- Bene - disse il ragazzo.

- Domani, quando ci vedremo, il dottor Smith avrà sistemato tutto, e non ne parleremo più.

- Giusto.

- Che ragazzi straordinari!

Dopodiché sparirono, e lui rimase solo col ragazzo nel letto vicino. Allungò la mano verso il comodino, dove sua madre aveva accatastato i suoi libri, e cominciò a leggere Le avventure della famiglia Robinson. Poi provò L’isola del tesoro. Poi Kim. Poi mise la mano sotto le coperte per cercare l’ernia. Il gonfiore era sparito. Sapeva per esperienza che c’erano dei giorni in cui il gonfiore se ne andava temporaneamente, ma questa volta era sicuro che se n’era andato per sempre e che non c’era più bisogno di un’operazione. Quando un’infermiera venne a misurargli la temperatura, non sapeva come dirle che l’ernia era sparita e che avrebbero dovuto telefonare ai suoi genitori per dirgli di venirlo a prendere. Lei guardò con aria di approvazione i titoli dei libri che aveva portato e gli disse che era libero di scendere dal letto per usare il bagno, ma che per il resto doveva accontentarsi di leggere finché non fosse tornata a spegnere la luce. Non disse nulla dell’altro ragazzo, che - ne era certo - stava per morire.

All’inizio non prese sonno perché aspettava che il ragazzo morisse, e poi non prese sonno perché non poteva smettere di pensare al corpo dell’annegato gettato sulla spiaggia l’estate prima. Era il corpo di un marinaio la cui petroliera era stata silurata da un sommergibile tedesco. La pattuglia della guardia costiera in perlustrazione aveva trovato il corpo tra i relitti oleosi e le casse sfondate ai margini della spiaggia che si trovava ad appena un isolato di distanza dalla casa dove la sua famiglia di quattro persone affittava una stanza ogni estate. Il più delle volte il mare era limpido e lui non temeva che un annegato venisse a urtargli le gambe nude quando entrava nell’acqua bassa. Ma quando la nafta delle petroliere silurate raggrumava la sabbia e gli incrostava le piante dei piedi mentre attraversava la spiaggia, era terrorizzato dall’idea di inciampare in un cadavere. O di imbattersi in un sabotatore, sbarcato per fare qualcosa per Hitler. Armati di fucili o di mitra e spesso accompagnati da cani ammaestrati, gli uomini della guardia costiera facevano la ronda giorno e notte per impedire ai sabotatori di sbarcare su miglia e miglia di spiagge deserte. Ma qualcuno riusciva a passare senza farsi scorgere e, insieme ai simpatizzanti nazisti di origine tedesca, da terra - era noto - si teneva in contatto con i sommergibili in agguato lungo le rotte della costa orientale, che avevano affondato navi al largo del New jersey dall’inizio della guerra. La guerra era più vicina di quanto la maggior parte della gente immaginasse, e altrettanto vicino era il suo orrore. Suo padre aveva letto che le acque del New Jersey erano «il più grande cimitero marino» di tutta la linea costiera degli Stati Uniti, e ora, all’ospedale, lui non poteva impedire alla parola «cimitero» di tormentarlo, così come non poteva cancellare dalla memoria quel cadavere gonfio che la guardia costiera aveva rimosso dai pochi centimetri d’acqua in cui giaceva, mentre lui e suo fratello guardavano dalla passerella di legno della promenade.

Dormiva già da qualche tempo quando udì dei rumori nella stanza e si svegliò. La tenda tra i due letti era stata tirata per nascondere l’altro letto, e dall’altra parte c’erano dei medici e delle infermiere: ne vedeva le silhouette in movimento e ne udiva i sussurri. Quando una delle infermiere emerse da dietro la tenda, si accorse che era sveglio e si avvicinò al suo letto e gli disse sottovoce: - Rimettiti a dormire. Domani avrai una giornata campale. - Che succede? - chiese lui. - Niente, - disse lei, - gli stiamo cambiando le fasciature. Chiudi gli occhi e dormi.

La mattina presto lo svegliarono per l’operazione, e sua madre era li, già all’ospedale, lì che gli sorrideva dai piedi del letto. - Buongiorno, tesoro. Come sta il mio ragazzo coraggioso?

Voltandosi a guardare l’altro letto, vide che avevano tolto le lenzuola. Nulla avrebbe potuto illustrargli l’accaduto meglio della vista della fodera spoglia di quel materasso e dei cuscini senza federa accatastati in mezzo al letto vuoto. - Quel ragazzo è morto, - disse. Era già abbastanza memorabile trovarsi all’ospedale così giovane, ma ancor più memorabile era aver assistito a un decesso. Prima il cadavere gonfio, poi questo ragazzo. Durante la notte, quando svegliandosi aveva visto le ombre che si muovevano dietro la tenda, non aveva potuto far a meno di pensare: i dottori lo stanno ammazzando. - Io credo che lo abbiano spostato, tesoro. Dovevano metterlo a un altro piano.

Proprio allora comparvero due inservienti per portarlo in sala operatoria. Quando uno gli disse di andare al bagno, la prima cosa che fece dopo aver chiuso la porta fu controllare se l’ernia se n’era andata. Invece, il gonfiore era tornato. Impossibile sottrarsi all’operazione, ormai.

Sua madre fu autorizzata a camminare di fianco alla lettiga solo fino all’ascensore che doveva portarlo in sala operatoria. Là gli inservienti lo spinsero nell’ascensore, il quale scese fino ad aprirsi davanti a un corridoio scandalosamente brutto che portava a una sala operatoria dove il dottor Smith indossava un camice da chirurgo e una mascherina bianca che lo cambiavano completamente: poteva anche non essere lui. Poteva essere una persona completamente diversa, uno che non era figlio di poveri immigrati di nome Smulowitz, uno di cui suo padre non sapeva nulla, uno che nessuno conosceva, uno che gironzolando era entrato nella sala operatoria e aveva preso un bisturi. Nel momento di terrore in cui gli calarono la maschera dell’etere sul viso, come per soffocarlo, avrebbe potuto giurare che il chirurgo, chiunque fosse, aveva sussurrato: - Ora ti trasformerò in una bambina.

 

* * *

 

Il malessere iniziò pochi giorni dopo il suo ritorno a casa da un mese di vacanza felice quanto qualunque altro dai tempi delle vacanze con la famiglia sulla costa del New Jersey prima della guerra. Aveva passato l’agosto in una casa sgangherata solo parzialmente ammobiliata lungo una strada interna di Marthas Vineyard con la donna di cui era l’amante fedele da due anni. Fino ad allora non avevano mai voluto correre il rischio di vivere sempre insieme, e l’esperimento era stato un gioioso successo, un magnifico mese di bagni e passeggiate e scopate in libertà a ogni ora del giorno. Attraversavano a nuoto una baia fino a una catena di dune dove potevano sdraiarsi senza essere visti da nessuno e scopare in pieno sole, poi si scuotevano, si rimettevano il costume e tornavano a nuoto alla spiaggia per staccare dagli scogli grappoli di cozze da portare a casa per la cena dentro un secchio pieno di acqua di mare.

Gli unici momenti sconcertanti erano la sera, quando passeggiavano insieme sulla spiaggia. La nera marea che saliva con il suo rombo solenne e il cielo ricolmo di stelle mandavano in estasi Phoebe, ma spaventavano lui. La profusione di stelle gli diceva senza ambiguità che era destinato a morire, e il rombo del mare ad appena qualche metro di distanza - e l’incubo del buio più buio che esista sotto la turbolenza dell’acqua - gli faceva venir voglia di sottrarsi alla minaccia dell’oblio con la fuga nella loro casa semivuota accogliente e illuminata. Non era questa l’impressione che gli avevano fatto la vastità del mare e il grande cielo notturno quando aveva virilmente prestato servizio in marina dopo la guerra in Corea... Non erano mai state campane a morto. Non riusciva a capire da dove venisse quella paura e doveva usare tutta la sua forza per nasconderla a Phoebe. Perché doveva diffidare della propria vita proprio quando ne era più padrone di quanto lo fosse stato in anni e anni? Perché doveva immaginarsi sull’orlo dell’estinzione quando un semplice e calmo ragionare gli diceva che davanti a lui c’era tant’altra vita stabile e piena? Eppure accadeva ogni sera durante la loro passeggiata sotto le stelle sulla riva del mare. Non era un uomo né bizzarro né deforme né eccessivo in alcun modo, perché dunque, alla sua età, doveva essere ossessionato da pensieri di morte? Era ragionevole e bonario, un uomo industrioso, affabile e moderno, come probabilmente avrebbero ammesso tutti quelli che lo conoscevano bene, tranne, ovviamente, la moglie e i due ragazzi che aveva abbandonato e che, comprensibilmente, non potevano mettere ragionevolezza e bonarietà sullo stesso piano della sua definitiva rinuncia a un matrimonio naufragato e al fatto che lui cercasse altrove l’intimità con la donna cui anelava.

La maggior parte della gente, era convinto, lo avrebbe considerato un conformista. Lui stesso da giovane si considerava un conformista, così tradizionale e poco avventuroso che dopo l’accademia, invece di fare il pittore e vivere con i soldi che riusciva a raggranellare - che era la sua segreta ambizione - aveva fatto il bravo e, esaudendo più i desideri dei genitori che i suoi, si era sposato, aveva avuto dei figli e, per avere un lavoro sicuro, si era dato alla pubblicità. Non aveva mai pensato di essere qualcosa di più di un normale essere umano, uno che avrebbe dato qualunque cosa perché il suo matrimonio durasse tutta la vita. Si era sposato proprio con questa aspettativa. Invece il matrimonio diventò la sua cella carceraria, e così, dopo molti tortuosi pensieri che lo assorbivano mentre lavorava e quando avrebbe dovuto riposare, cominciò spasmodicamente, tormentosamente, a cercare una via d’uscita. Non è ciò che avrebbe fatto un normale essere umano? Non è quello che fanno ogni giorno i normali esseri umani? Contrariamente a ciò che sua moglie diceva a tutti, non aveva agognato la sfrenata libertà di fare tutto quello che voleva. Tutt’altro. Agognava qualcosa di stabile mentre aveva sempre detestato quello che aveva. Non era un uomo che desiderasse una doppia vita. Non ce l’aveva né con i limiti né con le comodità del conformismo. Aveva solo voluto svuotare la mente di tutti i brutti pensieri generati dalla sventura di una prolungata guerra coniugale. Non si considerava eccezionale. Solo vulnerabile e attaccabile e confuso. È convinto di avere il diritto, come un normale essere umano, di essere infine perdonato per tutti i dispiaceri che poteva aver inflitto ai suoi figli innocenti al fine di non fare, per metà del tempo, una vita da squilibrato.

Incontri terrificanti con la fine? Ho trentaquattro anni! Comincia a preoccuparti dell’oblio, diceva tra sé e sé, quando ne avrai settantacinque! Il futuro remoto sarà il momento giusto per affliggersi pensando alla catastrofe finale!

 

* * *

 

Ma lui e Phoebe erano appena tornati a Manhattan - dove abitavano in due diversi appartamenti a una trentina di isolati l’uno dall’altro - quando misteriosamente si ammalò. Perse l’appetito e l’energia e scopri di provare un senso di nausea per tutta la giornata, e non poteva fare un isolato a piedi senza sentirsi debole e con la testa vuota. Il dottore non riuscì a trovargli nulla che non andasse. Dopo il divorzio aveva cominciato a vedere uno psicanalista, e lo psicanalista attribuì la causa del suo stato all’invidia per un art director suo collega che era stato appena promosso a una delle vicepresidenze dell’agenzia. - Questo la fa star maledisse l’analista.

Lui precisò che il suo collega aveva dodici anni più di lui ed era un generoso collaboratore al quale poteva fare solo i suoi migliori auguri, ma l’analista continuò a menarla sull’invidia profondamente radicata» come la ragione nascosta del malessere e quando le circostanze gli diedero torto non sembrò lasciarsi scomporre dall’aver formulato un giudizio sbagliato.

Nelle settimane che seguirono si recò parecchie volte nell’ambulatorio del dottore, che di solito lo visitava per qualche piccolo disturbo solo ogni due o tre anni. Intanto però era dimagrito, e gli attacchi di nausea diventavano più forti. Non si era mai sentito così giù, nemmeno dopo la separazione da Cecilia e i due bambini e la battaglia in tribunale scatenata dalle clausole del divorzio, quando l’avvocato di Cecilia gli aveva dato del «notorio donnaiolo» a causa della sua relazione con Phoebe, che era una nuova copywriter dell’agenzia (e che sul banco dei testimoni la citante - accorata, spasmodica, come se si trovasse a muovere delle accuse contro il marchese de Sade - indicò come la «numero trentasette nella sua parata di amichette», mentre in realtà si stava sporgendo troppo nel futuro e Phoebe era ancora la numero due) Allora, almeno, c’era stata una causa riconoscibile per tutta l’angoscia che provava. Ma ora il caso era diverso: si stava trasformando dalla sera alla mattina da uno che scoppiava di salute a uno che inspiegabilmente questa salute la stava perdendo.

Passò un mese. Non riusciva a concentrarsi sul lavoro, rinunciò alla nuotata mattutina, e ormai il cibo non poteva più vederlo. Un venerdì pomeriggio lasciò l’ufficio prima del solito e prese un taxi per andare dal dottore senza aver preso un appuntamento e senza neanche una telefonata. L’unica persona alla quale telefonò fu Phoebe, per informarla di quello che faceva. - Mi faccia ricoverare, - disse al medico. - Mi sento morire.

Il dottore organizzò le cose, e quando lui arrivò, Phoebe era al banco delle informazioni. Alle cinque era già sistemato in una stanza, e poco prima delle sette un uomo di mezza età bello, alto e abbronzato, in smoking, entrò nella stanza e si presentò: era un chirurgo chiamato dal suo medico per un consulto. Stava andando a qualche cerimonia, ma prima intendeva fermarsi per sottoporlo a una rapida visita. Quel che fece fu premergli con la mano molto forte il basso ventre sulla destra. Diversamente dal suo medico, il chirurgo continuò a premere, e il dolore fu lancinante. Era lì lì per vomitare. Il chirurgo disse: - Non ha mai avuto mal di stomaco? - No, - disse lui. - Be’, questa è appendicite. Bisogna operare. - Quando? - Subito.

Rivide il chirurgo nella sala operatoria. Aveva cambiato l’abito da sera con un camice. - Mi ha salvato da una cena noiosissima, - disse il chirurgo.

Non si svegliò fino alla mattina dopo. Ritti ai piedi del letto, insieme a Phoebe, c’erano i suoi genitori, con un’espressione corrucciata. Phoebe, che non conoscevano (se non attraverso le calunniose descrizioni di Cecilia, se non dalle tirate telefoniche che finivano con: «Mi fa pena, questa santarellina che viene dopo di me... Sinceramente mi fa pena, quella volgare troietta quacchera!»), gli aveva telefonato, ed essi erano venuti subito in macchina dal New Jersey. Da quel che riusciva a capire, c’era un infermiere che stentava a ficcargli una specie di tubo nel naso, o forse stava cercando di estrarlo. Pronunciò le sue prime parole («Non fare cazzate!») prima di tornare a perdere i sensi.

Quando rinvenne, i suoi genitori erano seduti su due seggiole. E sembravano ancora tormentati e oppressi dalla stanchezza.

Phoebe era seduta di fianco al letto e gli teneva la mano. Era una ragazza pallida e carina la cui aria dolce mascherava la sua costanza ed equanimità. Non mostrava alcun timore e non permetteva alla paura di farle tremare la voce.

Phoebe aveva una grande esperienza del dolore fisico, a causa delle forti cefalee che a vent’anni aveva liquidato come cose da nulla ma che a trenta, quando erano diventate regolari e frequenti, aveva identificato come una fastidiosa forma di emicrania. Quando le veniva l’emicrania era abbastanza fortunata da poter dormire, ma appena apriva gli occhi, appena risaliva al livello della coscienza, eccolo là: il dolore incredibile da un lato della testa, la pressione sul viso e sulla mascella, e in fondo all’orbita il bulbo oculare schiacciato sotto un piede. Le emicranie iniziavano con spirali di luce, puntini luminosi che le turbinavano davanti agli occhi anche quando li chiudeva, e via via producevano disorientamento, vertigini, dolori, nausea e vomito. «Si perde ogni contatto col mondo, - gli diceva, dopo. - Nel mio corpo non c’è altro che la pressione che ho nella testa» L’unica cosa che poteva fare per lei era togliere il pentolone in cui Phoebe vomitava e pulirlo nel bagno, e poi, in punta di piedi, tornare in camera da letto e rimetterglielo accanto per quando avesse di nuovo sentito il bisogno di vomitare. Per le ventiquattro o quarantott’ore che durava l’emicrania, Phoebe non poteva sopportare altre presenze nella camera oscurata, non più di quanto potesse sopportare il più esile filo di luce che filtrava da sotto gli avvolgibili abbassati. E non c’erano farmaci che servissero a qualcosa. Per lei non ce n’era uno che funzionasse. Una volta iniziata l’emicrania, era impossibile fermarla. - Che è successo? - le chiese. - Appendice perforata. L’avevi da qualche tempo. - Come sto? - chiese debolmente lui. - C’è una grave peritonite. Ci sono dei drenaggi nella ferita. Te la stanno drenando. Ti somministrano forti dosi di antibiotici. Ce la farai. Torneremo a nuotare nella baia.

Era una cosa difficile da credere. Nel 1943 suo padre aveva rischiato la morte per un’appendicite non diagnosticata e una grave peritonite. Aveva quarantadue anni e due bambini, ed era stato all’ospedale - e lontano dal negozio - per trentasei giorni. Quando tornò a casa, era così debole che riuscì a stento a salire l’unica breve rampa di scale che portava al loro appartamento, e dopo essere stato aiutato dalla moglie a camminare dall’ingresso alla camera da letto, si sedette sulla sponda del letto, dove, per la prima volta alla presenza dei bambini, scoppiò in lacrime. Undici anni prima il fratello minore, Sammy, l’adorato beniamino tra otto figli, era morto per un’appendicite acuta al terzo anno della facoltà di ingegneria. Aveva diciannove anni, essendo entrato al college a sedici, e la sua ambizione era diventare ingegnere aeronautico. Solo tre degli otto figli erano arrivati alle superiori, e Sammy era stato il primo e l’unico ad andare all’università. I suoi amici erano i ragazzi più svegli del quartiere, tutti figli di immigrati ebrei che s’incontravano regolarmente ora a casa dell’uno ora a casa dell’altro per giocare a scacchi e discutere accanitamente di politica e filosofia. Lui era il loro capo, podista nella squadra di atletica leggera e genio matematico dotato di un’effervescente personalità. Fu il nome di Sammy che suo padre intonò mentre singhiozzava in camera da letto, sbalordito dal ritrovarsi in seno alla famiglia di cui provvedeva ai bisogni.

Zio Sammy, suo padre e ora lui: il terzo a essere stroncato da un’appendice perforata e da una peritonite. Mentre nei due giorni successivi entrava e usciva dallo stato d’incoscienza, nessuno avrebbe potuto dire con certezza se sarebbe andato incontro alla stessa sorte di Sammy o di suo padre.

Suo fratello arrivò dalla California il secondo giorno, e quando lui aprì gli occhi e lo vide al suo capezzale, presenza massiccia e gentile, sereno, fiducioso, gioviale, pensò: «Non posso morire finché Howie è qui» Howie si chinò per dargli un bacio sulla fronte, e appena si sedette di fianco al letto e prese la mano del paziente il tempo si fermò, il presente scomparve e lui tornò all’infanzia, ridiventò bambino, protetto dalle preoccupazioni e dalla paura dal fratello generoso che dormiva nel letto accanto al suo.

Howie si fermò per quattro giorni. In quattro giorni, a volte, volava a Manila e Singapore e Kuala Lumpur e ritorno. Aveva iniziato come fattorino alla Goldman Sachs e aveva smesso quasi subito di consegnare messaggi per diventare un asso in materia di speculazioni sui cambi, dopodiché si era messo a investire in titoli per conto suo. Aveva finito per specializzarsi nell’arbitraggio di cambio per multinazionali e grosse società straniere: vinificatori in Francia e fabbricanti di macchine fotografiche nella Germania Ovest e industriali dell’automobile in Giappone, per i quali cambiava franchi e Deutsche Mark e yen in dollari. Viaggiava spesso per abboccarsi con i suoi clienti e continuava a investire nelle società che gli piacevano, e a trentadue anni aveva guadagnato il suo primo milione di dollari.

Mandando i genitori a casa a riposarsi, Howie si unì a Phoebe per aiutarlo a superare il momento peggiore, preparandosi a volar via solo dopo aver ricevuto dal dottore l’assicurazione che la crisi era superata. L’ultimo giorno gli disse tranquillamente: - Stavolta ti sei trovato una brava ragazza. Non incasinare tutto. Non fartela scappare.

Nella sua gioia per averla scampata lui pensò: «Era mai esistito un uomo il cui appetito per la vita fosse contagioso come quello di Howie? Era mai esistito un fratello fortunato come me?»

Rimase all’ospedale per trenta giorni. Le infermiere erano ragazze dall’accento irlandese coscienziose e simpaticissime che sembravano sempre avere il tempo di fare quattro chiacchiere quando passavano per la loro visitina. Phoebe veniva ogni sera direttamente dal lavoro a cenare in camera sua; lui non riusciva a immaginare cos’avrebbe voluto dire, senza di lei, essere infermo e bisognoso a quel modo, e dover affrontare da solo la misteriosa natura della malattia. Non c’era nessun bisogno che suo fratello lo esortasse a non farsela scappare; non era mai stato più deciso di così a tenersela stretta.

Fuori dalla finestra, mentre passavano le settimane di ottobre, si vedevano le foglie degli alberi cambiare colore, e durante il giro di visite del chirurgo, lui gli chiese: - Quando potrò uscire di qui? Mi sto perdendo l’autunno del 1967 - Il chirurgo ascoltò, e sobriamente rispose con un sorriso: - Non ha ancora capito? Per poco non si perdeva ogni cosa.

 

* * *

 

Passarono ventidue anni. Ventidue anni di una salute di ferro e di quella sconfinata fiducia in se stessi che deriva dall’essere in piena forma: ventidue anni lesinati a quell’avversario che è la malattia, e alla calamità che aspetta tra le quinte. Come si era detto per tranquillizzarsi mentre passeggiava sotto le stelle del Vineyard con Phoebe, si sarebbe preoccupato dell’oblio quando avesse compiuto settantacinque anni.

 

* * *

 

Da più di un mese andava in macchina nel New jersey dopo il lavoro quasi tutti i giorni a trovare il padre morente quando, una sera d’agosto del 1989, si sentì mancare il respiro nella piscina del City Athletic Club. Era tornato dal New jersey una mezz’ora prima e aveva deciso di rasserenarsi facendo una rapida nuotata prima di andare a casa. Di solito nuotava per un miglio la mattina presto al club. Beveva pochissimo, non aveva mai fumato e pesava esattamente come quando era tornato dal servizio militare in marina nel ’57 e aveva cominciato a lavorare nella pubblicità. Sapeva, dal calvario dell’appendicite e della peritonite, di potersi ammalare seriamente come chiunque altro; ma che lui, con la vita sana che aveva sempre fatto, potesse diventare un candidato alla cardiochirurgia gli sembrava assurdo. Era semplicemente impossibile che le cose prendessero quella piega.

E tuttavia non riuscì a finire la prima vasca senza accostarsi al bordo e restare là attaccato, completamente senza fiato. Uscì dalla piscina e si sedette con le gambe in acqua cercando di calmarsi. Era sicuro che l’affanno era la conseguenza della sua puntata nel New jersey, dove aveva visto com’erano peggiorate le condizioni di suo padre negli ultimi giorni. Ma in realtà erano le sue ad essere peggiorate, e quando si recò dal dottore, la mattina seguente, il suo ECG mostrò dei cambiamenti radicali che indicavano gravi occlusioni delle principali arterie coronarie. Prima che finisse la giornata era a letto nell’unità coronarica di un ospedale di Manhattan, perché dall’angiogramma che gli avevano appena fatto risultava indispensabile operare. Aveva tubi dell’ossigeno nel naso ed era attaccato con numerosi fili a una macchina per il monitoraggio cardiaco piazzata dietro il letto. L’unico dubbio era questo: se l’intervento dovesse aver luogo immediatamente o la mattina dopo. In quel momento erano quasi le otto di sera, e così fu presa la decisione di aspettare. A un certo punto della notte, tuttavia, si svegliò e scopri che il suo letto era circondato da medici e infermiere, proprio come il letto del ragazzo nella sua stanza quando aveva nove anni. Per tutto questo tempo lui era stato vivo, mentre quel ragazzo era morto: e adesso quel ragazzo era lui.

Gli stavano somministrando con la flebo una qualche medicina, e comprese vagamente che cercavano di scongiurare una crisi. Non riusciva a capire cosa stessero borbottando tra loro, e poi doveva essersi assopito, perché quando tornò in sé era l’alba, e lo stavano trasferendo su una lettiga per condurlo in sala operatoria.

La moglie del momento - la terza e ultima - non aveva la minima rassomiglianza con Phoebe e anzi, a dir poco, era un rischio in caso di emergenza. Sicuramente non ispirava fiducia la mattina dell’operazione, quando segui la lettiga piangendo e torcendosi le mani e alla fine, non riuscendo a controllarsi, gridò: - E io?

Era giovane e inesperta e forse aveva inteso dire una cosa diversa, ma lui pensò che volesse dir questo: cosa sarebbe stato di lei se lui non fosse sopravvissuto? - Una cosa per voltale disse. - Prima lasciami morire. Poi verrò ad aiutarti a tener duro.

L’operazione durò sette ore. Per gran parte del tempo rimase collegato a una macchina cuore-polmoni che pompava il suo sangue e respirava per lui. I medici gli fecero cinque trapianti, e lui uscì dalla sala operatoria con una lunga ferita in mezzo al petto e un’altra che andava dall’inguine alla caviglia destra: era da quella gamba che avevano prelevato la vena con cui avevano fatto tutti i trapianti tranne uno.

Quando rinvenne nella sala postoperatoria aveva un tubo in gola che lo stava soffocando. Era orribile, ma non poteva dirlo in nessun modo all’infermiera che gli stava spiegando dov’era e che cosa gli avevano fatto. Poi svenne, e quando riprese i sensi il tubo era sempre li che lo soffocava, ma ora un’infermiera gli stava spiegando che l’avrebbero tolto appena si fosse avuta la certezza che era in grado di respirare da solo. Poi quello che apparve sopra di lui era il viso della sua giovane moglie, che tornava ad accoglierlo nel mondo dei vivi, dove avrebbe potuto riprendere a occuparsi di lei.

Quando era entrato in ospedale le aveva lasciato una sola responsabilità: provvedere a togliere la macchina dalla strada dov’era parcheggiata e metterla in un garage a un isolato di distanza. Saltò fuori che era un’impresa superiore alle sue forze, e così, come venne a sapere in seguito, sua moglie aveva dovuto chiedere a uno degli amici del marito di farlo al posto suo. Lui non aveva notato com’era perspicace il suo cardiologo in campi diversi dalla medicina finché lo specialista non venne a trovarlo a metà del suo soggiorno ospedaliero e gli disse che non poteva dimetterlo dall’ospedale se ad assisterlo, a casa, ci fosse stata lei. - Non mi piace dover dire queste cose, sua moglie in sostanza non mi riguarda, ma l’ho osservata quando viene a trovarla. Quella donna è praticamente un’assenza, non una presenza, e io non ho altra scelta che proteggere il mio paziente.

A questo punto era arrivato Howie. Veniva dall’Europa, dov’era andato per affari e anche per giocare a polo. Ormai s’intendeva di sci, tiro al piattello e pallanuoto oltre che di polo dall’alto di un cavallo, essendo diventato un virtuoso di questi passatempi del gran mondo molto tempo dopo aver lasciato il suo liceo piccolo-borghese di Elizabeth dove, insieme ai ragazzi cattolici italiani e irlandesi i cui padri lavoravano al porto, aveva giocato a football in autunno e saltato con l’asta in primavera, sempre con voti abbastanza buoni per guadagnarsi prima una borsa di studio alla University of Pennsylvania e poi l’ammissione alla Wharton School per un master in Business Administration. Anche se il padre stava morendo in un ospedale del New jersey e il fratello si stava riprendendo da un’operazione a cuore aperto in un ospedale di New York - e anche se lui passava la settimana facendo la spola da un letto all’altro - il vigore di Howie non veniva mai meno, come non veniva meno la sua capacità di ispirare fiducia. Il conforto che la sana moglie trentenne si dimostrava incapace di fornire al cinquantaseienne marito sofferente era più che compensato dal gioviale sostegno di Howie. Fu Howie a suggerire di prendere due infermiere private - quella del turno di giorno, Maureen Mrazek, e quella del turno di notte, Olive Parrott - per sostituire la donna che aveva finito per chiamare «la titanicamente inefficiente cover girl», e poi a insistere, contro le obiezioni del fratello, per pagare lui le spese. - Eri in pericolo, hai passato l’inferno, - disse Howie, - e finché ci sono io nulla e nessuno ostacolerà la tua ripresa. Questo è solo un dono che dovrebbe assicurare la tua pronta guarigione - Erano in piedi sulla porta della stanza. Howie parlava cingendo suo fratello con le braccia nerborute. Per quanto preferisse mostrarsi spigliatamente superiore alle concessioni del sentimento, il suo viso - in pratica una copia di quello di suo fratello - non riusciva a nascondere l’emozione quando disse: - Perdere mamma e papà è una cosa che devo accettare. Ma non potrei mai accettare di perdere te - Poi uscì per andare a cercare la berlina che lo stava aspettando al pianterreno per accompagnarlo all’ospedale del New jersey.

 

* * *

 

Olive Parrott, l’infermiera di notte, era una donnona nera la cui statura e il cui portamento gli fecero pensare a Eleanor Roosevelt. Suo padre era il proprietario di una piantagione di avocado in Giamaica e sua madre teneva un libro dei sogni sulle cui pagine, ogni mattina, annotava i sogni dei figli. Le notti in cui lui stava troppo male per dormire, Olive si sedeva su una sedia ai piedi del letto e gli narrava storie innocenti della sua vita da bambina nella piantagione di avocado. Parlava con l’accento delle Indie occidentali e aveva una bella voce, e le sue parole lo consolavano come le parole di una donna non avevano mai fatto da quando sua madre si era seduta al suo capezzale per parlargli all’ospedale dopo l’operazione di ernia. Tolte le domande che rivolgeva a Olive, lui restava in silenzio, follemente contento di esser vivo. Saltò fuori che avevano fatto appena in tempo: quando era stato ricoverato all’ospedale le sue coronarie erano occluse dal novanta al novantacinque per cento, e lui era sull’orlo di un attacco cardiaco massivo e probabilmente fatale.

Maureen era una rossa sorridente e prosperosa cresciuta un po’ allo stato brado in una famiglia slavo-irlandese del Bronx, e aveva il modo schietto di parlare, alimentato dalla padronanza di sé, di una dura della classe operaia. La semplice vista di Maureen gli sollevava il morale, quando arrivava la mattina, anche se la spossatezza postchirurgica era così forte che gli bastava radersi - e nemmeno radersi stando in piedi, ma radersi seduto su una sedia - per stancarsi, e dopo aver fatto la sua prima passeggiata lungo il corridoio dell’ospedale con lei al fianco fu costretto a rimettersi a letto per un lungo sonnellino. Era Maureen che telefonava per lui al dottore di suo padre e lo teneva informato sulle condizioni del moribondo finché lui non trovò la forza per parlare col medico personalmente.

Era stato perentoriamente deciso da Howie che quando avesse lasciato l’ospedale Maureen e Olive lo avrebbero assistito (sempre a spese di Howie) a casa sua, almeno per le prime due settimane. Sua moglie non venne consultata, e si dolse sia di questa decisione che di ciò che essa implicava: cioè, che lei era incapace di assisterlo da sola. In particolare ce l’aveva con Maureen, che faceva ben poco per nascondere il suo disprezzo per la moglie del paziente.

A casa passarono più di tre settimane prima che la spossatezza cominciasse a diminuire e lui si sentisse pronto anche solo a pensare di riprendere il lavoro. Dopo cena doveva rimettersi a letto a causa della semplice fatica di mangiare seduto su una sedia, e la mattina, per lavarsi nella doccia, doveva sedersi su uno sgabello di plastica. Cominciò a fare un po’ di blanda ginnastica con Maureen, e ogni giorno cercava di aggiungere altri dieci metri alla passeggiata pomeridiana che faceva con lei. Maureen aveva un fidanzato di cui parlava - un cameraman televisivo che la ragazza contava di sposare non appena lui avesse trovato un posto fisso - e quando smetteva di lavorare alla fine della giornata beveva volentieri un paio di bicchieri con i clienti abituali di un bar a due passi dalla sua abitazione di Yorkville. Il tempo era bello e così, quando uscivano insieme, lui aveva modo di vedere bene la figura che faceva Maureen con le sue magliette attillate e le gonne corte e i sandali estivi. Gli uomini non facevano che guardarla, e lei non sdegnava di far abbassare gli occhi a qualcuno con ironica belligeranza se scopriva di essere guardata con troppa ostentazione. La presenza di Maureen al suo fianco lo faceva sentire ogni giorno più forte, e rincasava da quelle passeggiate felice di tutto, tutto tranne, naturalmente, la moglie gelosa, che sbatteva le porte e certe volte usciva rumorosamente di casa solo qualche istante dopo che lui e Maureen erano rientrati.

Non fu il primo paziente a innamorarsi dell’infermiera. Non fu nemmeno il primo paziente a innamorarsi di Maureen. Nel corso degli anni Maureen aveva avuto diverse relazioni, alcune delle quali con uomini messi piuttosto peggio di lui, uomini che, come lui, si erano pienamente ripresi con l’aiuto della vitalità dell’infermiera. La sua dote consisteva nel ridare ai malati la speranza, una speranza così grande che essi, invece di chiudere gli occhi per cancellare e dimenticare il mondo, li spalancavano per contemplare la sua figura vibrante, e si sentivano ringiovanire.

Maureen lo accompagnò nel New Jersey quando suo padre mori. Non aveva ancora il permesso di guidare, così lei si fece avanti e aiutò Howie a prendere gli accordi con l’impresa di pompe funebri Kreitzer di Union. Negli ultimi dieci anni di vita suo padre era diventato religioso e, dopo essere andato in pensione e avere perduto la moglie, si era messo ad andare almeno una volta al giorno alla sinagoga. Molto prima dell’ultima malattia aveva chiesto al rabbino di tenere il suo servizio funebre interamente in ebraico, come se l’ebraico fosse la risposta più forte che si poteva dare alla morte. Per il figlio minore di suo padre quella lingua non significava nulla. Insieme a Howie, aveva smesso di prendere sul serio il giudaismo a tredici anni - la domenica dopo il sabato del suo bar mitzvah - e da allora non aveva più messo piede in una sinagoga. Aveva persino lasciato in bianco lo spazio per la religione sul modulo di ammissione all’ospedale, per evitare che la parola «ebreo» provocasse la visita di un rabbino, venuto a parlare con lui nella sua stanza nel modo in cui parlano i rabbini. La religione era una bugia che aveva riconosciuto presto nella vita, e trovava offensive tutte le religioni, considerava insensato e puerile il loro superstizioso bla-bla e non poteva soffrire l’assoluto infantilismo di tutto ciò: i discorsi da bambini e la rettitudine e le pecore, gli avidi credenti. Niente abracadabra su Dio e sulla morte, né obsolete fantasie sul paradiso, per lui. Esisteva solo il nostro corpo, venuto al mondo per vivere e morire alle condizioni decise dai corpi vissuti e morti prima di noi. Se si fosse potuto dire che aveva individuato una nicchia filosofica in cui collocarsi, eccola: l’aveva trovata presto e intuitivamente, e per quanto elementare, era tutta lì. Se avesse mai scritto un’autobiografia, l’avrebbe intitolata Vita e morte di un corpo maschile. Ma dopo essere andato in pensione provò a fare il pittore, non lo scrittore, e così diede questo titolo a una serie di quadri astratti.

Ma nulla di ciò che credeva o non credeva ebbe la minima importanza il giorno in cui suo padre fu sepolto accanto a sua madre nel cimitero in rovina vicino alla jersey Turnpike.

 

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Sopra il cancello attraverso il quale la famiglia era entrata nell’area originaria del vecchio cimitero ottocentesco c’era un arco col nome dell’associazione scritto in ebraico; alle due estremità dell’arco era scolpita una stella a sei punte. La pietra dei due pilastri del cancello era stata rotta e scheggiata in malo modo - dal tempo e dai vandali - e per entrare non occorreva spingere il cancello di ferro sbilenco con la serratura arrugginita, che era mezzo scardinato e affondato di parecchi centimetri nel terreno. E nemmeno la pietra dell’obelisco davanti al quale erano passati - su cui erano incise parole in ebraico e i nomi della famiglia sepolta ai piedi del plinto - aveva resistito bene agli anni. In testa ai fitti schieramenti di pietre sepolcrali sorgeva l’unico piccolo mausoleo in muratura del vecchio settore, la cui porta d’acciaio filigranato e le cui due finestre originarie - che al tempo dell’inumazione dei suoi occupanti dovevano aver portato i colori di vetrate istoriate - erano state sigillate con blocchi di cemento per proteggerle da altri vandalismi, sicché ora il piccolo edificio quadrato sembrava più un capanno per attrezzi abbandonato o un gabinetto pubblico in disuso che un luogo di eterno riposo in linea con la fama, la ricchezza o il prestigio di coloro che l’avevano costruito per ospitare i familiari defunti. Passarono lentamente tra le lapidi verticali che per la maggior parte erano scritte in ebraico, ma che in certi casi recavano anche parole in yiddish, russo, tedesco, e persino in ungherese. Sulla maggioranza era scolpita la stella di Davide, mentre altre erano decorate in modi più elaborati, con due mani benedicenti o un orcio o un candelabro a cinque braccia. Sulle tombe dei bambini e dei neonati - e ce n’erano più di una manciata, anche se non tante quante quelle delle giovani donne morte tra i venti e i trent’anni, più che probabilmente di parto - ogni tanto incontravano una pietra tombale coronata dalla statua di un agnello o adorna di un’incisione a forma di tronco d’albero con la parte superiore segata via, e mentre procedevano in fila indiana lungo i sentieri stretti, sghembi e irregolari del cimitero originario verso i più nuovi spazi settentrionali, simili a giardini pubblici, dove doveva svolgersi il funerale, era possibile - perfino in questo cimiterino ebraico, fondato in un campo al confine di Elizabeth e Newark dal civilissimo padre, tra gli altri, del defunto proprietario della più amata gioielleria di Elizabeth - contare quanta gente era perita allorché, nel 1918, l’influenza aveva ucciso dieci milioni di persone.

Millenovecentodiciotto: solo uno degli anni terribili nella pletora di anni horribiles seminati di cadaveri che offuscheranno per sempre il ricordo del ventesimo secolo.

 

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Si fermò davanti alla tomba in mezzo a due dozzine di parenti, con la figlia alla sua destra, che gli stringeva la mano, e i due figli alle spalle, e la moglie di fianco a sua figlia. Il semplice stare là in piedi ad assorbire il colpo rappresentato dalla morte di un padre si rivelò una sfida sorprendente alla sua forza fisica: meno male che Howie era al suo fianco, a sinistra, e che lo teneva stretto con un braccio intorno alla vita, per impedire che accadesse qualcosa di sconveniente.

Non era mai stato difficile capire i suoi genitori. Erano una madre e un padre. Non avevano molti altri desideri. Ma lo spazio occupato dai loro corpi adesso era vuoto. La concretezza della loro vita non esisteva più. La bara di suo padre, una semplice cassa di pino, fu calata con le cinghie nella fossa che gli avevano scavato di fianco alla bara di sua moglie. Là il morto sarebbe rimasto per un tempo molto più lungo di quello che aveva passato vendendo gioielli e orologi, un tempo già di per sé tutt’altro che trascurabile. Aveva aperto il negozio nel 1933, l’anno di nascita del suo secondogenito, e se n’era liberato nel 1974, dopo avere venduto anelli di fidanzamento e fedi nuziali a tre generazioni di famiglie di Elizabeth. Come avesse racimolato il capitale nel 1933, come facesse a trovare dei clienti nel 1933, per i suoi figli era sempre stato un mistero. Ma era per loro che aveva lasciato il suo posto dietro il banco degli orologi nel negozio di Abelson a Irvington, in Springfield Avenue, dove lavorava dalle nove del mattino alle nove di sera il lunedì, il mercoledì, il venerdì e il sabato, e dalle nove alle cinque il martedì e il giovedì, per aprire il suo negozietto a Elizabeth, largo meno di cinque metri, con la scritta a caratteri neri sulla vetrina che diceva, dal primo giorno: DIAMANTI - GIOIELLI OROLOGI e sotto, a caratteri più piccoli: ACCURATE RIPARAZIONI OROLOGI, SVEGLIE E GIOIELLI. A trentadue anni di età si mise finalmente a lavorare sessanta e settanta ore la settimana per la propria famiglia anziché per quella di Moe Abelson. Per attirare la grossa popolazione operaia di Elizabeth e per non allontanare o spaventare col suo nome ebraico le decine di migliaia di cristiani praticanti che lavoravano al porto, faceva loro generosamente credito, assicurandosi solo che versassero un anticipo di almeno il trenta o quaranta per cento. Non controllava mai se avevano i soldi per pagare; se gli coprivano le spese, potevano venire più tardi a versare qualche dollaro la settimana, o anche nulla, e non gliene importava, veramente. Non falli mai per avere fatto credito, e la sua flessibilità fu sempre ampiamente ripagata dalla buona volontà che ne nasceva. Decorava il negozio con qualche articolo placcato in argento per renderlo più attraente - servizi da tè, vassoi, scaldavivande, candelieri che vendeva a prezzi stracciati - e per le feste natalizie in vetrina c’era sempre una scena con la neve e Babbo Natale, ma il colpo di genio fu chiamare il negozio non col proprio nome ma piuttosto «Everyman’s Jewelry Store» («la gioielleria di tutti») che era il nome con cui essa era nota in tutta la contea di Union alle masse di gente comune che erano i suoi fedeli clienti fino a quando vendette lo stock al grossista e si mise in pensione a settantatré anni. «È una faccenda impegnativa per un operaio comprare un diamante, - diceva ai figli, per piccolo che sia. La moglie può portarlo per bellezza e può portarlo per ragioni di prestigio. E quando lo porta, quest’uomo non è solo un idraulico: è il marito di una donna con un diamante. Sua moglie porta una cosa che è indistruttibile. Perché oltre la bellezza e il prestigio e il valore, il diamante è indistruttibile. Un pezzo della terra che è indistruttibile, e un semplice mortale lo porta al dito!»

La ragione per cui aveva lasciato Abelson, dove comunque era stato tanto fortunato da continuare a riscuotere la busta paga durante il crollo in borsa e anche negli anni peggiori della Depressione, la ragione per cui aveva osato aprire un negozio tutto suo in un momento così brutto, era semplice: a tutti quelli che glielo chiedevano, e anche a quelli che non glielo chiedevano, spiegava: «Dovevo avere qualcosa da lasciare ai miei due ragazzi»

 

* * *

 

C’erano due vanghe con le lame piantate nel grosso mucchio di terra da un lato della fossa. Aveva pensato che fossero state lasciate lì dai becchini, che le avrebbero usate più tardi per riempire la fossa. Aveva immaginato che, come al funerale di sua madre, ognuno dei presenti si sarebbe avvicinato alla fossa per gettare un pugno di terra sul coperchio della bara, dopodiché tutti si sarebbero incamminati verso le automobili. Ma suo padre aveva chiesto al rabbino il rito ebraico tradizionale, e questo, scopri adesso, richiedeva che il defunto fosse sepolto da chi era venuto al funerale e non dai dipendenti del cimitero o da chiunque altro. Il rabbino lo aveva detto a Howie prima della cerimonia, ma Howie, per qualche ragione, non l’aveva detto a lui, e così ora egli rimase sorpreso quando suo fratello, elegante in un abito scuro, una camicia bianca, una cravatta nera e sfavillanti scarpe nere, si avvicinò al mucchio di terra per estrarne una delle vanghe, e poi provvide a colmarne la lama finché non fu traboccante di terriccio. Quindi camminò cerimoniosamente fino a un capo della fossa, rimase là un momento immerso nei suoi pensieri, e inclinando un po’ la vanga lasciò scorrere lentamente il terriccio. Cadendo sul coperchio di legno della bara, esso mandò quel suono che ognuno di noi assorbe nel proprio essere come nessun altro.

Howie tornò indietro per affondare la lama della vanga nella sgretolata piramide di terra alta più di un metro. Dovevano rimettere quella terra nella fossa fino a quando la tomba di suo padre fosse stata allo stesso livello del terreno adiacente del cimitero.

Ci volle quasi un’ora per riempire la fossa. I più vecchi dei parenti e degli amici, incapaci di alzare una vanga, aiutarono gettando manciate di terra sulla bara, e lui stesso non poté f are molto di più, sicché toccò a Howie e ai quattro figli di Howie e ai suoi due - tutt’e sei uomini aitanti tra i venti e i trent’anni - sbrigare il lavoro pesante. A coppie si piazzarono di fianco al mucchio e, palata per palata, rimisero la terra del mucchio nella fossa. Ogni due o tre minuti le squadre si davano il cambio, e lui ebbe l’impressione, a un certo punto, che l’impresa non sarebbe mai finita, che avrebbero continuato a seppellire suo padre in eterno. Il meglio che potesse fare per immergersi nella brutale immediatezza della sepoltura, come suo fratello, i suoi figli e i suoi nipoti, era stare a guardare dall’orlo della fossa il terriccio che saliva intorno alla bara. Guardò fino a quando esso arrivò al coperchio, ornato solo da una stella di Davide scolpita, e poi guardò mentre cominciava a coprire il coperchio. Suo padre avrebbe dovuto giacere non soltanto nella bara ma sotto il peso di quella terra, e tutt’a un tratto egli vide la bocca di suo padre come se la bara non ci fosse, come se la terra che gettavano nella fossa si depositasse su di lui, riempiendogli la bocca, accecandogli gli occhi, ostruendogli le narici e tappandogli le orecchie. Voleva pregarli di smettere, intimargli di non andare oltre: non voleva che coprissero la faccia di suo padre e bloccassero i passaggi attraverso i quali succhiava la vita. Ho guardato quella faccia da quando sono nato: smettete di seppellire la faccia di mio padre! Ma avevano trovato il loro ritmo, quei gagliardi ragazzoni, e non potevano fermarsi e non si sarebbero fermati, nemmeno se lui si fosse buttato nella fossa e avesse chiesto di sospendere la sepoltura. Nulla li poteva più fermare. Avrebbero semplicemente continuato a spalare, seppellendo pure lui, se questo fosse stato necessario per terminare il lavoro. Howie si era fatto da parte, con la fronte coperta di sudore, e guardava i sei cugini che completavano atleticamente l’opera, spalando a tutta birra in vista del traguardo, non come i parenti di un defunto che si assumono il peso di un arcaico rituale, ma come operai di una volta intenti ad alimentare di combustibile una fornace.

Molti vecchi ora piangevano e si abbracciavano tra loro. La piramide di terra era sparita. Il rabbino fece un passo avanti e, dopo avere lisciato accuratamente la superficie con le mani nude, usò un bastone per delineare nella terra smossa le dimensioni della tomba.

Lui aveva seguito centimetro per centimetro la scomparsa dal mondo di suo padre. Era stato costretto a seguirla fino in fondo. Era come una seconda morte, una morte non meno orribile della prima. Tutt’a un tratto ricordò l’empito di emozione che lo aveva fatto sprofondare negli strati più profondi della sua vita allorché suo padre, all’ospedale, aveva preso in braccio per la prima volta ognuno dei tre nipotini, guardando prima Randy, poi Lonny e infine Nancy con la stessa espressione meditabonda di sconcerto e di felicità.

- Ti senti bene? - chiese Nancy, abbracciandolo mentre stava là a guardare le righe tracciate dal bastone nel terreno, che sembravano disegnate per un gioco infantile. Lui la strinse a sé e disse: - Si, sto bene - Poi sospirò, e rise addirittura quando disse: - Ora so cosa significa farsi seppellire. Fino a oggi non lo sapevo. -Non ho mai visto nulla di così agghiacciante in vita mia, - disse Nancy. - Nemmeno io, - le disse lui. - È ora di andare, - aggiunse, e con lui e Nancy e Howie alla testa, i partecipanti al funerale si avviarono lentamente verso l’uscita, anche se lui non riusciva a liberarsi di tutto quello che aveva appena visto e pensato, e la sua mente tornava indietro mentre i piedi si allontanavano sempre più.

Mentre stavano riempiendo la fossa si era messo a soffiare il vento, e per questo all’interno della bocca sentiva un sapore di terra che durò ancora a lungo dopo che ebbero lasciato il cimitero e furono tornati a New York.

 

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Per i nove anni seguenti la sua salute rimase stabile. Due volte era stato colto alla sprovvista da una crisi, ma diversamente dal ragazzo nel letto accanto al suo, aveva evitato il disastro. Poi, nel 1998, quando la pressione del sangue cominciò a salire e non rispondeva ai cambiamenti nella cura, i medici determinarono che c’era un’ostruzione nell’arteria renale, la quale per fortuna fino a quel momento aveva avuto come conseguenza solo una piccola diminuzione nella funzionalità del rene, e lui dovette andare all’ospedale per un’angioplastica. Ma la sua buona stella non lo abbandonò, e il problema fu risolto con l’inserzione di uno stent trasportato da un catetere introdotto attraverso una puntura nell’arteria femorale e manovrato lungo l’aorta fino all’occlusione.

Aveva sessantacinque anni, era appena andato in pensione e aveva divorziato per la terza volta. Acquisì il diritto all’assistenza sanitaria gratuita, cominciò a fruire della previdenza sociale e andò dall’avvocato a fare testamento. Fare testamento; ecco la cosa migliore della senescenza e forse anche della fine della vita: scriverlo e, col passar del tempo, aggiornarlo e pensare attentamente di riscrivere il proprio testamento. Qualche anno dopo mantenne la promessa che aveva fatto a se stesso subito dopo gli attacchi dell’11 settembre e da Manhattan si trasferì nel villaggio per pensionati Starfish Beach sulla costa del New jersey, solo a un paio di miglia dalla città di mare dove la sua famiglia era andata in vacanza per una fettina di ogni estate. I condomini di Starfish Beach erano belle case a un piano rivestite di scandole con grandi finestre e vetrate scorrevoli che davano su verande esterne posteriori; otto case erano unite tra loro in modo da formare un recinto semicircolare comprendente un giardino di piante nane e un laghetto. I servizi per i cinquecento anziani che abitavano in questi recinti, sparpagliati su qualche decina di ettari, comprendevano campi da tennis, un grande giardino comune con capanno annesso, una palestra, un ufficio postale, un centro sociale con sale di riunione, un atelier per ceramisti, un laboratorio di falegnameria, una piccola biblioteca, una sala computer con tre terminali e una stampante, e un salone per conferenze e rappresentazioni e per le mostre di diapositive offerte dalle coppie appena tornate dai loro viaggi all’estero. Nel cuore del villaggio c’era una piscina olimpica esterna riscaldata, nonché una piscina coperta più piccola, e c’era un ristorante decente nel modesto centro commerciale in fondo alla strada principale del villaggio, insieme a una libreria, una bottiglieria, un negozio di articoli da regalo, una banca, un’agenzia di brokeraggio, un’agenzia immobiliare, uno studio di avvocato e una stazione di rifornimento. Il supermarket si trovava a pochi minuti di macchina e, se eri ancora autonomo come la maggior parte dei residenti, potevi fare tranquillamente a piedi il mezzo miglio fino alla promenade e scendere sull’ampia spiaggia dell’oceano, dove un bagnino prestava servizio per tutta l’estate.

Come ebbe trasferito la propria residenza nel villaggio, trasformò l’assolato soggiorno del suo appartamento di tre locali in un atelier, e ora, dopo aver fatto la sua passeggiata quotidiana di quattro miglia in un’ora sulla promenade, passava quasi tutto il resto della giornata a soddisfare un’ambizione di antica data dipingendo allegramente e a tutto spiano, cosa che gli faceva provare proprio tutta l’emozione che si era aspettato. Di New York non gli mancava nulla tranne Nancy, la figlia la cui presenza non aveva mai cessato di rallegrarlo, e che, come madre divorziata di due bambini di quattro anni, non era più tutelata nel modo che aveva sperato. Dopo il divorzio della figlia lui e Phoebe - ugualmente oppressi dall’ansia - erano intervenuti e, separatamente, avevano passato con Nancy più tempo di quanto ne avessero mai passato da quando lei era partita per il Midwest per andare all’università. Là aveva incontrato il suo poetico futuro marito, uno studente apertamente disdegnoso della cultura commerciale, e in particolare del lavoro di suo suocero, che una volta scopertosi non più solo la metà di una coppia tranquilla e riflessiva che amava ascoltare musica da camera e leggere libri nel tempo libero ma il padre di due gemelli, cominciò a trovare insopportabile il tumulto della vita domestica di una giovane famiglia - soprattutto per uno che aveva bisogno di ordine e silenzio per portare a termine il suo primo romanzo - e ad accusare Nancy di favorire questo grande disastro con le sue continue lamentele per il fatto che lui ostacolava il suo istinto materno. Dopo il lavoro e durante i weekend cominciò ad assentarsi sempre più dalla baraonda creata nel loro minuscolo appartamento dalle necessità delle due vocianti creaturine che egli aveva stupidamente generato, e quando finalmente decise di lasciare il suo lavoro nell’editoria - e di rinunciare al suo ruolo paterno - dovette ritornare nel Minnesota per ritrovare l’equilibrio e riprendere a pensare e sottrarsi a tutte le responsabilità che poteva.

Se il padre di Nancy avesse potuto fare a modo suo, anche lei e i gemelli si sarebbero trasferiti sulla costa. Nancy avrebbe potuto andare a lavorare col treno, lasciando i figli a bambinaie e babysitter che costavano la metà che a New York, e lui sarebbe stato nei paraggi per badare a loro, per portarli o andarli a prendere all’asilo, per sorvegliarli sulla spiaggia, e così via. Padre e figlia avrebbero potuto incontrarsi per andare a cena una volta la settimana e fare insieme una passeggiata durante i weekend. Avrebbero tutti vissuto su quel bellissimo mare e lontano dalle minacce di Al Qaeda. Il giorno dopo la distruzione delle Torri Gemelle aveva detto a Nancy: «Io nutro un amore profondo per la sopravvivenza. Me ne vado». E solo dieci settimane dopo, verso la fine di novembre, se ne andò. Il pensiero della figlia e dei nipoti che cadevano vittime di un attacco terrorista lo tormentò durante i primi mesi sulla costa, anche se, una volta là, scopri di non essere più in ansia per se stesso e anzi di essersi liberato di quell’impressione di correre inutili rischi che lo aveva perseguitato ogni giorno da quando la catastrofe aveva sovvertito il senso di sicurezza di ognuno e introdotto nella loro vita quotidiana un’inestirpabile precarietà. Stava solo facendo tutto quello che ragionevolmente poteva per restare vivo. Come sempre - e come quasi tutti gli altri non voleva che la fine arrivasse un minuto prima di quando doveva.

 

* * *

 

L’anno dopo l’inserzione dello stent renale fu operato per un’altra grossa ostruzione, questa nella carotide sinistra, una delle due arterie principali che si dipartono dall’aorta alla base del cranio per portare il sangue al cervello e che, se lasciate ostruite, potrebbero essere la causa di un colpo invalidante o anche di una morte improvvisa. L’incisione gli venne praticata nel collo, poi l’arteria che alimenta il cervello fu bloccata per impedire al sangue di inondarla. Quindi fu aperta, e la placca che causava l’ostruzione venne raschiata via e rimossa. Sarebbe stato bello non dover affrontare da soli un intervento così delicato, ma Nancy era oberata di lavoro e di tutte le incombenze della maternità senza un compagno, e in quel momento non c’era nessun altro nella sua vita al quale potesse chiedere aiuto. Né voleva sconvolgere i frenetici piani di suo fratello informandolo dell’operazione e dandogli delle preoccupazioni, soprattutto perché, se non ci fossero state complicazioni, la mattina dopo sarebbe stato fuori dall’ospedale. Non era né una peritonite né un quintuplo bypass: dal punto di vista medico non era nulla di straordinario, o questo almeno gli aveva fatto credere il simpatico chirurgo da cui aveva ricevuto l’assicurazione che un’endoarterectomia carotidea era una procedura chirurgica vascolare piuttosto comune e che lui sarebbe tornato davanti al suo cavalletto in un giorno o due.

Così la mattina di buonora andò in macchina da solo all’ospedale e attese tra le vetrate di un’anticamera nel reparto chirurgico insieme agli altri dieci o dodici uomini in camice in lista per la prima serie di operazioni di quel giorno. La saletta, probabilmente, sarebbe stata così piena fino alle quattro del pomeriggio. I pazienti, per la maggior parte, sarebbero usciti dall’altra parte, e nel corso delle settimane qualcuno avrebbe anche potuto non uscire; ciò nonostante passavano il tempo leggendo i giornali del mattino, e quando veniva chiamato il nome di qualcuno, e questo si alzava per andare in sala operatoria, prima di uscire dalla stanza passava le sue sezioni del giornale alla persona che gliele aveva chieste. Dalla calma che regnava nella stanza si sarebbe pensato che andassero a farsi tagliare i capelli, anziché, diciamo, a farsi fare un bello squarcio nell’arteria che porta il sangue al cervello.

A un certo punto l’uomo seduto di fianco a lui, dopo avergli consegnato le pagine sportive di quel giorno, cominciò a parlottare sottovoce. Doveva avere solo tra i quarantacinque e i cinquant’anni, ma il suo colorito era cereo e la voce né forte né sicura. - Prima è morta mia madre, disse, - sei mesi dopo è morto mio padre, otto mesi dopo è morta la mia unica sorella, un anno dopo il mio matrimonio è naufragato e mia moglie mi ha portato via tutto quello che avevo. E quello è stato il momento in cui ho cominciato a immaginare che qualcuno mi venisse a dire: «Ora ti tagliamo anche il braccio destro. Credi di poterlo sopportare?» E allora mi tagliavano il braccio destro. Poi, più tardi, venivano a dirmi: «Ora ti tagliamo il braccio sinistro» Poi, quando questo era stato fatto, un giorno tornavano e mi dicevano: «Ti arrendi, ora? Basta così? O dobbiamo andare avanti e iniziare con le gambe?» E per tutto questo tempo io pensavo: quando, quando potrò arrendermi? Quando potrò accendere il gas e ficcare la testa nel forno? Quand’è che basta davvero? Ecco come ho convissuto col dolore per dieci anni. Dieci anni ci sono voluti. E ora che il dolore finalmente se n’è andato, comincia questa porcheria.

Quando venne il suo turno, l’uomo al suo fianco allungò la mano per riprendersi le pagine sportive, e lui fu condotto in sala operatoria da un’infermiera. Dentro, una mezza dozzina di persone si aggiravano qua e là nella luce sfolgorante delle lampade facendo i preparativi per l’intervento. Non riuscì a individuare il chirurgo tra loro. Vedere il volto amico del chirurgo lo avrebbe tranquillizzato, ma o il dottore non era ancora entrato in sala operatoria o era in un angolo dove lui non poteva vederlo. Parecchi dei medici più giovani portavano già la mascherina, e il loro aspetto gli fece pensare ai terroristi. Uno di essi gli chiese se voleva un’anestesia generale o locale, così come un cameriere avrebbe potuto chiedergli se preferiva del vino rosso o bianco. Era confuso: perché la decisione sull’anestesia doveva essere presa così tardi? - Non so. Cos’è meglio? - disse. - Per noi, l’anestesia locale. Possiamo monitorare meglio le funzioni cerebrali se il paziente è cosciente. - Mi sta dicendo che è più sicuro? E questo che intende dire? Allora va bene.

Fu un errore, un errore quasi insopportabile, perché l’operazione durò due ore e la testa gli venne claustrofobicamente isolata con un telo e tutto quell’incidere e raschiare ebbe luogo così vicino al suo orecchio che lui poté udire ogni movimento che facevano i loro strumenti come se fosse stato dentro una camera d’eco. Ma non c’era niente da fare. Inutile opporsi. Devi rassegnarti e sopportare. Devi abbandonarti finché dura.

Quella notte dormì profondamente, il giorno dopo si sentiva bene, e a mezzogiorno, dopo avere dichiarato falsamente che un amico lo aspettava di sotto per dargli un passaggio, fu dimesso e raggiunse il parcheggio e guidò con prudenza fino a casa. Quando entrò nell’appartamento e si sedette nello studio a guardare la tela che presto avrebbe potuto riprendere a dipingere, scoppiò in lacrime, proprio come aveva fatto suo padre dopo essere tornato dal suo quasi fatale attacco di peritonite.

 

* * *

 

Ma ora, invece di terminare, continuò; ora non passava anno senza che finisse all’ospedale. Figlio di genitori longevi, fratello di un uomo di sei anni più vecchio di lui che sembrava in forma come lui quando giocava nella squadra del liceo Thomas Jefferson, non aveva ancora settant’anni quando la sua salute cominciò a declinare e il suo corpo a indietreggiare davanti alle continue minacce. Si era sposato tre volte, aveva amanti e figli e un lavoro interessante nel quale si era affermato, ma ora eludere la morte sembrava essere diventata l’unica preoccupazione della sua vita e la decadenza fisica tutta la sua storia.

L’anno dopo l’intervento alla carotide fece un angiogramma da cui il medico scopri che aveva avuto un infarto silenzioso alla parete posteriore del cuore a causa di un bypass ostruito. La notizia lo lasciò di sasso, anche se per fortuna Nancy era venuta giù in treno per accompagnarlo all’ospedale e le sue rassicurazioni contribuirono a restituirgli la serenità. Poi il dottore procedette a eseguire l’angioplastica, e gli inserì uno stent nell’arteria discendente anteriore sinistra, dopo avergli «sgorgato» l’arteria dove si era formata un’altra placca. Dal tavolo vedeva il catetere sospinto nella coronaria: era sotto l’effetto di un leggerissimo sedativo e poteva seguire sul monitor tutta la procedura come se il suo corpo appartenesse a un’altra persona. L’anno seguente subì un’altra angioplastica, e gli inserirono un altro stent in uno dei bypass, che avevano cominciato a restringersi. L’anno dopo gliene dovettero posizionare tre in un colpo solo, per rimediare ad alcune ostruzioni la cui posizione complicava enormemente la procedura: che non era stata uno scherzo, come il dottore gli disse poi.

Come sempre, per pensare ad altro lui fece appello al negozio di suo padre e ai nomi delle nove marche di orologi e delle sette marche di sveglie di cui suo padre era un distributore autorizzato; suo padre non guadagnava molto vendendo sveglie e orologi, ma ne teneva molti perché erano un articolo che si vendeva regolarmente e attirava i passanti. Ecco come metteva a dimora questi ricordi durante le angioplastiche: ignorava le celie che i medici e le infermiere si scambiavano invariabilmente tra loro mentre preparavano l’intervento, ignorava la musica rock diffusa nella gelida stanza sterile dove giaceva legato al tavolo operatorio fra tutti i minacciosi macchinari destinati a tenere in vita i malati di cuore, e dal momento in cui si mettevano al lavoro anestetizzandogli l’inguine e bucandogli la pelle per inserire il catetere arteriale si distraeva recitando sottovoce le liste che aveva messo per la prima volta in ordine alfabetico da bambino, quando aiutava in negozio dopo la scuola - «Benrus, Bulova, Croton, Elgin, Hamilton, Helbros, Ovistone, Waltham, Wittnauer» concentrandosi per tutto il tempo sul caratteristico aspetto dei numeri sul quadrante dell’orologio mentre intonava il nome della marca, andando da uno a dodici e da dodici a uno. Poi cominciava con le sveglie - «Generai Electric, Ingersoll, McClintock, New Haven, Seth Thomas, Telechron, Westclox» - ricordando come le sveglie a molla ticchettavano e quelle elettriche ronzavano finché udiva finalmente il dottore annunciare che la procedura era terminata e che tutto era andato bene. L’assistente del dottore, dopo avere premuto sulla ferita, gli metteva un sacchetto di sabbia sull’inguine per prevenire le emorragie, e con quel peso sulla pancia lui doveva giacere immobile nel suo letto di ospedale per le sei ore successive. Stranamente, la cosa peggiore era non potersi muovere - a causa dei mille pensieri involontari che riempivano il lento sgocciolare dei minuti - ma la mattina dopo, se durante la notte era andato tutto bene, gli portavano su un vassoio una colazione immangiabile, giusto da guardare, e alcuni fogli di istruzioni postoperatorie da seguire, ed entro le undici veniva dimesso. In tre diverse occasioni era arrivato a casa e si stava spogliando rapidamente per fare una doccia di cui sentiva un gran bisogno quando aveva scoperto di avere un paio di elettrodi autoadesivi dell’ECG ancora attaccati alla pelle, perché l’infermiera che lo aiutava a scendere dal tavolo aveva dimenticato di staccarglieli dal petto per buttarli nel cestino. Una mattina, sotto la doccia, abbassò lo sguardo e scopri che nessuno si era curato di togliergli dall’avambraccio livido l’ago dell’accesso venoso periferico, un aggeggio che chiamavano farfalla, e così gli toccò di vestirsi, prendere la macchina e andare nell’ambulatorio del suo internista, a Spring Lake, per farselo togliere prima che diventasse una fonte d’infezione.

L’anno dopo i tre stent fu messo kappaò per breve tempo su un tavolo operatorio mentre gli inscrivano in modo permanente un defibrillatore come salvaguardia contro i nuovi sviluppi che mettevano in pericolo la sua vita e che, insieme alla cicatrice nella parete posteriore del cuore e alla sua frazione di eiezione borderline, lo trasformavano in un candidato a una fatale aritmia cardiaca. Il defibrillatore era una scatolina metallica grande come un accendino; si trovava nella parte superiore del torace, sotto la pelle, a pochi centimetri dalla spalla sinistra, con i fili attaccati al suo cuore vulnerabile, pronto a dare una scossa per correggere il battito cardiaco - e confondere la morte - se esso diventava pericolosamente irregolare.

Nancy era stata con lui anche per questa procedura, e dopo, quando lui tornò nella sua stanza e abbassò un lato del camice per mostrarle il visibile gonfiore del defibrillatore incastonato sotto la pelle, lei fu costretta a distogliere lo sguardo. - Tesoro, - le disse lui, - è per proteggermi... Non c’è ragione di agitarsi. - Lo so che è per proteggerti. Sono lieta che esista una cosa capace di proteggerti. È solo uno choc da vedere perché... - ed essendo andata troppo oltre nella frase per trovare una bugia consolatoria, disse: - perché tu sei sempre stato così giovanile. - Be’, sarò più giovanile col defibrillatore che senza. Potrò fare tutto quello che voglio, senza però dovermi preoccupare che l’aritmia mi faccia correre un grave pericolo - Ma l’impotenza l’aveva fatta impallidire, e Nancy non riuscì a impedire alle lacrime di scorrerle sul viso: voleva che suo padre fosse com’era quando lei aveva dieci e undici e dodici e tredici anni, senza impedimenti o invalidità: la stessa cosa che voleva lui. Non poteva volerlo tanto quanto lo voleva lui, ma in quel momento lui trovò il proprio dolore più facile da accettare di quello di sua figlia. Forte era il desiderio di dire qualcosa di tenero per alleviare i suoi timori, come se, ancora una volta, la più vulnerabile dei due fosse lei.

Non aveva mai smesso veramente di preoccuparsi per Nancy, e non capiva come una donna simile potesse essere sua figlia. Non era detto che avesse fatto le cose giuste perché questo accadesse, anche se le aveva fatte Phoebe. Ma queste persone, queste persone straordinariamente buone - dei miracoli, in realtà - esistono, e la sua grande fortuna era che uno di questi miracoli fosse la sua incorruttibile figliola. Era stupito quando si guardava intorno e vedeva quanti genitori potevano essere amaramente delusi - come lo era lui dei suoi due maschi, che continuavano a comportarsi come se quello che era capitato a loro non fosse mai capitato prima o dopo a nessun altro - e poi trovarsi ad avere una figlia che era il massimo da ogni punto di vista. A volte gli sembrava che ogni cosa fosse un errore tranne Nancy. Perciò si preoccupava per lei, e ancor oggi non passava mai davanti a un negozio di abbigliamento femminile senza pensare a lei e senza andar dentro a vedere se trovava qualcosa di suo gusto, e pensava: «Sono molto fortunato», e pensava: «Da qualche parte ci dev’essere per forza qualcosa di buono, e questa cosa è lei».

Poi gli venne in mente il breve periodo in cui Nancy era stata un asso dell’atletica leggera. Quando aveva tredici anni era arrivata seconda in una gara della sua scuola femminile, una corsa di circa due miglia, e aveva intuito di poter fare qualcosa in un campo che forse le avrebbe permesso di brillare. Era brava in tutto il resto, ma questo era un altro tipo di celebrità. così lui rinunciò per qualche tempo alle sue nuotate al club per andare a correre la mattina presto insieme a lei, e qualche volta anche all’ora del tramonto. Andavano al parco, quando c’erano soltanto loro due e le ombre e la luce. Nancy allora correva per la squadra della scuola, e durante una seduta di atletica leggera stava affrontando una curva quando una gamba cedette e lei cadde sulla pista, in preda a un dolore lancinante. Le era capitata una cosa che può toccare a una ragazza all’inizio della pubertà; poiché a quell’età le ossa non si sono ancora indurite del tutto, quello che in una donna matura sarebbe stato un semplice tendine stirato fu per Nancy una cosa più drammatica: il tendine resse, ma si staccò un pezzo dell’osso iliaco. Portarono in tutta fretta, lui e l’allenatore, Nancy al pronto soccorso, dove lei soffri molto e molto si spaventò, soprattutto quando apprese che non c’era niente da fare, anche se al tempo stesso le dissero, senza sbagliarsi di molto, che la lesione sarebbe guarita da sola in un certo lasso di tempo. Ma quella fu la fine della sua carriera sportiva, non soltanto perché per guarire ci sarebbe voluto il resto della stagione, ma perché era arrivata la pubertà, e ben presto le si gonfiarono i seni e le si allargarono i fianchi, e la velocità che era la sua prerogativa quando aveva ancora un fisico infantile si dileguò. E poi, come se la fine della sua carriera e l’alterazione del suo fisico non bastassero a farla vacillare, proprio quell’anno arrivò il colpo del divorzio dei suoi genitori.

Quando Nancy, all’ospedale, si sedette sul suo letto e pianse tra le sue braccia, lo fece per molte ragioni, non ultimo il fatto che lui l’aveva lasciata quando aveva tredici anni. Era venuta sulla costa per assisterlo, e tutto quello che sua figlia, con la propria ragionevolezza e il proprio sangue freddo, poteva fare era rivivere le difficoltà provocate dal divorzio e confessare la tenace fantasia di una riconciliazione tra i genitori in cui aveva sperato per oltre metà della sua vita. - Ma è impossibile rifare la realtà, disse lui sottovoce, strofinandole la schiena e carezzandole i capelli e cullandola dolcemente tra le braccia. - Devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono. Non c’è altro sistema.

Era la verità, e anche il meglio che potesse fare: e proprio quello che le aveva detto tanti anni prima, quando la teneva tra le braccia nel taxi che tornava dal pronto soccorso mentre lei era squassata dai singhiozzi a causa di quell’inspiegabile colpo di scena.

 

* * *

 

Tutte queste procedure e tutti questi ricoveri ospedalieri lo avevano decisamente trasformato in un uomo più solitario e meno sicuro di sé di quanto fosse stato durante il suo primo anno da pensionato. Anche la pace e la tranquillità che tanto amava erano diventate, in apparenza, una forma di reclusione alla quale sembrava essersi condannato da solo, mentre cominciava a ossessionarlo la sensazione di essere quasi alla fine. Ma invece di tornare all’attaccabile Manhattan, decise di controbattere il senso di estraneità provocato dalle proprie disfunzioni e di entrare più vigorosamente nel mondo che lo circondava. Fece questo organizzando due corsi di pittura settimanali per i residenti del villaggio, un corso pomeridiano per principianti e un corso serale per quelli che avevano già una certa familiarità con la pittura.

C’erano una decina di studenti in ogni corso, e amavano incontrarsi nel suo studio luminoso. Nel complesso, imparare a dipingere era un pretesto per stare lì, e quasi tutti si erano iscritti al corso per la stessa ragione per cui lui lo teneva: per avere dei contatti soddisfacenti con altre persone. Erano tutti più vecchi di lui, tranne due, e anche se si riunivano ogni settimana in un’atmosfera di cameratesca allegria, la conversazione andava invariabilmente a girare intorno agli argomenti della malattia e della salute, perché a questo punto le loro biografie personali erano diventate identiche alle loro cartelle cliniche, e lo scambio di informazioni mediche escludeva quasi tutto il resto. Nello studio, si identificavano tra loro più in base agli acciacchi che alla pittura. «Come vanno gli zuccheri?» «Come va la pressione?» «Cos’ha detto il dottore?» «Hai saputo del mio vicino? Gli è arrivato al fegato» Uno degli uomini veniva a lezione con la bombola dell’ossigeno. Un altro tremava perché aveva il morbo di Parkinson, ma era ansioso di imparare a dipingere comunque. Tutti senza eccezione si lamentavano - a volte scherzosamente, a volte no - della crescente perdita di memoria, e parlavano di come i mesi e le stagioni e gli anni passassero in fretta, di come la vita non procedesse più alla stessa velocità. Un paio di donne erano in cura perché malate di cancro. Una dovette piantare il corso a metà e tornare all’ospedale per un trattamento. Un’altra donna aveva mal di schiena e ogni tanto doveva sdraiarsi per dieci o quindici minuti sul pavimento ai margini della stanza prima di rimettersi in piedi e riprendere a lavorare davanti al cavalletto. Dopo le prime volte, lui le disse che poteva andare invece in camera sua e restare sdraiata sul suo letto per tutto il tempo che voleva: aveva un materasso rigido e sarebbe stata più comoda. Un giorno che non la vide uscire dalla camera da letto per mezz’ora, bussò e, quando la sentì piangere, aprì l’uscio ed entrò.

Era una donna alta e magra, grigia di capelli, anno più anno meno sua coetanea, e che, per aspetto e dolcezza, gli ricordava Phoebe. Si chiamava Millicent Kramer ed era di gran lunga la migliore dei suoi allievi e, insieme, la meno pasticciona. Lei sola, in quello che lui chiamava generosamente il corso di pittura «superiore», riusciva ad arrivare alla fine di ogni lezione senza essersi impiastricciata di vernice le scarpe da ginnastica. Non la sentiva mai dire, come facevano gli altri: «Non riesco a far fare al pennello quello che voglio io» o «Riesco a dipingerlo con la mente, ma sembra che non riesca a metterlo sulla tela», e lui non doveva mai dirle: «Non lasciarti intimidire, non tirarti indietro» Cercava di essere generoso con tutti, anche con i casi disperati, di solito proprio quelli che entravano dicendo: «Ho passato una splendida giornata... Oggi mi sento ispirato» Quando finalmente ne ebbe abbastanza, cominciò a ripetere ai suoi allievi una cosa che ricordava vagamente di aver sentito uscire dalla bocca di Chuck Close durante un’intervista: che sono i dilettanti a cercare l’ispirazione; tutti gli altri si rimboccano le maniche e si mettono al lavoro. Non cominciò col disegno perché quasi nessuno sapeva disegnare, e la figura avrebbe creato infiniti problemi di proporzione e di scala; così, invece, dopo che ebbero portato a termine un paio di sedute imparando i rudimenti (come spremere i colori e preparare le tavolozze, eccetera) e familiarizzandosi col mezzo espressivo, metteva su un tavolo una natura morta - un vaso, dei fiori, un frutto, la tazza di un servizio da tè - e li incoraggiava a usarla come punto di riferimento. Li esortava a essere creativi per cercare di sbloccarli e fargli usare tutto il braccio e dipingere, se possibile, senza paura. Li esortava a non preoccuparsi dell’aspetto che avrebbe avuto il modello: «Interpretatelo», diceva, «questo è un atto creativo» Sfortunatamente, questo ogni tanto lo costringeva a dire a qualcuno: «Sai, forse non dovresti fare il vaso sei volte più grande della tazza» «Ma tu hai detto che dovevo interpretarlo» era invariabilmente la risposta, al che lui, più gentilmente che poteva, replicava: «Non volevo un’interpretazione così libera» La sventura con cui meno desiderava misurarsi erano i quadri usciti dalla loro fantasia; ma proprio perché erano entusiasti della «creatività» e dell’idea di lasciarsi andare, questi rimanevano i soggetti più comuni da una seduta all’altra. Certe volte accadeva il peggio e un allievo diceva: «Non mi va di fare fiori o frutta, voglio fare un quadro astratto come te» Poiché sapeva che non era possibile discutere ciò che sta facendo un principiante quando fa quello che chiama un quadro astratto, diceva allo studente: «Bene... Perché non dipingi quello che vuoi?», e quando faceva il giro dello studio, elargendo i suoi bravi consigli, scopriva, come si era aspettato, di non avere altro da dire, dopo aver guardato un abbozzo di quadro astratto, che: «Continua a lavorare» Cercava di far entrare la pittura nel gioco, più che nell’arte, citando Picasso sulla necessità di tornare bambini per dipingere come un adulto. Quello che faceva, soprattutto, era ripetere ciò che aveva udito da bambino quando aveva cominciato ad andare a scuola e i suoi maestri gli dicevano le stesse cose.

Si sentì tenuto a essere preciso solo quando andò a piazzarsi di fianco a Millicent e vide quello che sapeva fare e con quale rapidità migliorava. Capi subito che il suo talento era innato e superava di gran lunga quel po’ di inclinazione che qualcuno degli altri cominciava a mostrare col passare delle settimane. Per lei il problema non era mai combinare il rosso e il blu sulla tavolozza, ma piuttosto cambiare la miscela con un po’ di nero o un altro tocco di blu in modo che i colori fossero interessanti e armoniosi, e i suoi dipinti avevano coesione, invece di crollare dappertutto, che era lo spettacolo davanti al quale lui si trovava ogni volta, o quasi, che passava da un cavalletto all’altro e, non riuscendo a trovare altro da dire, si sentiva commentare: «Questo viene bene» Millicent aveva bisogno di essere esortata a non strafare, ma a parte questo nessuno dei suoi suggerimenti veniva ignorato, e in qualunque cosa le dicesse lei cercava la più piccola ombra di significato. Il suo modo di dipingere sembrava nascere direttamente dall’istinto, e se le sue tele non somigliavano a quelle degli altri non era solo perché il suo stile era diverso, ma per il modo in cui sentiva e percepiva le cose. Gli altri variavano nelle loro esigenze; anche se il gruppo, per la maggior parte, era pieno di buona volontà, qualcuno ancora si offendeva quando aveva bisogno di aiuto, e una critica involontaria poteva urtare spaventosamente la suscettibilità di uno degli uomini, l’ex amministratore delegato di un’azienda industriale. Mai però quella di Millicent: lei era l’allieva più soddisfacente che si possa immaginare per qualunque corso di pittura per dilettanti.

Ora lui si sedette sul letto di fianco a lei e le prese una mano tra le sue, pensando: «Quando sei giovane, è l’esterno del corpo che conta, l’aspetto che hai esternamente. Quando invecchi, ciò che conta è quello che c’è dentro, e la gente smette di badare all’aspetto che hai» - Non hai qualche medicina che puoi prendere? - le chiese. - L’ho presa, - disse lei. - Non posso prenderne altre. Funziona solo per poche ore, comunque. Non c’è più niente che funzioni. Ho subito tre operazioni. Ognuna è stata più invasiva dell’altra e più straziante, e ognuna non fa altro che aumentare i dolori. Mi spiace di essere in questo stato. Me ne scuso.

Accanto alla testa, sul letto, c’era il busto ortopedico che si era tolta prima di sdraiarsi. Consisteva in un guscio di plastica bianca che abbracciava la parte inferiore della schiena e aveva una rete di tela elasticizzata e bandelle di velcro che assicuravano fermamente sullo stomaco un pezzo rettangolare di tela foderata di feltro. Millicent indossava il suo camice bianco da pittore, ma si era tolta il busto e aveva cercato di farlo sparire sotto un cuscino quando lui aveva aperto l’uscio ed era entrato: ecco perché esso si trovava vicino alla sua testa e perché, mentre parlavano, era impossibile non pensarci continuamente. Era solo un normale busto ortopedico, di quelli che si portano sotto gli indumenti, la cui sezione posteriore in plastica non era più alta di venti centimetri; e tuttavia gli ricordava la perenne vicinanza, nel loro agiato villaggio di pensionati, della malattia e della morte. - Vuoi un bicchier d’acqua? - le chiese.

Si vedeva, guardandola negli occhi, che il dolore era una cosa molto difficile da sopportare. - SI, - disse debolmente lei, - sì, prego.

Suo marito, Gerald Kramer, era stato il proprietario, editore e direttore di un settimanale di contea, il primo giornale del posto, che non si tirava indietro quando c’era da smascherare la corruzione delle amministrazioni locali della costa. Kramer, che era nato nei quartieri poveri della vicina Neptune, lui se lo ricordava come un uomo compatto, calvo e supponente, che aveva un’andatura notevolmente tronfia, giocava un tennis aggressivo e sgraziato, possedeva un piccolo Cessna e una volta la settimana moderava la discussione di un gruppo sui fatti del giorno - l’evento serale più popolare nell’agenda di Starfish Beach insieme alle proiezioni di vecchi film sponsorizzate dalla cineteca - fino a quando era stato atterrato da un tumore al cervello, e da allora lo avevano visto girare per le strade del villaggio in carrozzella, spinto dalla moglie. Anche in pensione aveva continuato ad avere l’aria di una creatura onnipotente che aveva dedicato tutta la vita a un’importante missione, ma in quegli undici mesi prima di morire sembrò travolto dallo smarrimento, stordito dalla sua menomazione, disorientato dalla propria impotenza, sbalordito all’idea che lo sfibrato moribondo in carrozzella - un uomo ormai incapace di schiacciare una palla da tennis, governare una barca a vela, pilotare un aereo, e tanto meno mettere insieme una pagina del «Monmouth County Bugle» - potesse rispondere al suo nome. Tra le sue più vistose eccentricità c’era quella di mettersi ogni tanto in smoking, senza alcuna ragione particolare, per andare a mangiare una scaloppina di vitello al ristorante del villaggio con la donna che era sua moglie da una cinquantina d’anni. «Altrimenti dove diavolo potrei indossarlo?» era la burbera ma accattivante spiegazione che dava a tutti: certe volte sapeva ingraziarsi la gente con un sorriso inaspettato. Dopo l’operazione, però, sua moglie doveva sedersi accanto a lui e aspettare che aprisse la bocca storta per dargli cautamente da mangiare - a lui, il marito spaccone, il bullo attaccabrighe - col cucchiaio. Molte persone conoscevano Kramer e lo ammiravano e per la strada avrebbero voluto salutarlo e chiedergli come stava, ma spesso la moglie doveva scuotere la testa per dissuaderle, quando lui era sprofondato nell’abisso del proprio sconforto: il corrosivo sconforto di un uomo che una volta era al centro delle cose e adesso era al centro del nulla. Era ormai lui stesso il nulla, nient’altro che uno zero immobile in rabbiosa attesa della grazia di uno sradicamento definitivo e assoluto.

- Puoi continuare a stare qui sdraiata, se vuoi, - disse a Millicent Kramer dopo che la donna ebbe bevuto un sorso d’acqua.

- Non posso stare sempre sdraiata! - esclamò lei. - Non ne posso più! Ero così agile, così attiva... Per forza, se eri la moglie di Gerald. Andavamo dappertutto. Mi sentivo così libera. Siamo stati in Cina, abbiamo visitato tutta l’Africa. Oggi non posso nemmeno prendere l’autobus per New York se non sono piena di antidolorifici fino alle orecchie. E gli antidolorifici non vanno bene, per me: mi fanno letteralmente impazzire. E quando arrivo, tornano i dolori. Oh, mi spiace. Mi spiace moltissimo. Tutti, qui, hanno i loro problemi. La mia storia non ha nulla di speciale, e mi spiace di annoiarti. Avrai sicuramente anche tu una tua storia.

- Un termoforo ti farebbe bene? - chiese lui.

- Sai cosa mi farebbe bene? - disse lei. - Il suono della voce che è scomparsa. La voce dell’uomo eccezionale che amavo. Credo che riuscirei a sopportare tutto questo, se lui fosse qui. Ma senza di lui non ce la faccio. Non l’ho visto cedere una volta in vita sua... Poi è arrivato il cancro e lo ha schiacciato. Io non sono Gerald. Lui chiamava a raccolta tutte le sue forze e agiva... Chiamava a raccolta il suo tutto e faceva quel che andava fatto. Ma io non ci riesco. Io non sopporto più questi dolori. Passano sopra ogni cosa. Certe volte credo di non resistere un’ora di più. Mi impongo di ignorarli. Mi dico: «Non prenderlo di petto. È uno spettro. È una seccatura, non è altro che questo. Non dargli importanza. Non collaborare. Non cadere nella trappola. Non reagire. Fatti forza e passa oltre. Passa sparata. O comandi tu o comanda lui: la scelta è tua!» Me lo ripeto un milione di volte al giorno, come se a parlare fosse Gerald, e poi a un tratto i dolori sono così forti che mi tocca sdraiarmi sul pavimento in mezzo al supermarket e tutte queste parole non significano nulla. Oh, mi spiace, davvero. Detesto le lacrime.

- Tutti noi, - le disse lui, - ma piangiamo lo stesso.

- Questo corso era così importante per me, - disse lei. - Passo tutta la settimana ad aspettarlo. Sono come una scolaretta, - confessò, e lui vide che lo stava guardando con una fiducia infantile, come se fosse veramente una bambina appena messa a letto; e lui, al pari di Gerald, sapesse sistemare ogni cosa. - Non hai con te le tue medicine? - chiese.

- Ne ho già presa una stamattina.

- Prendine un’altra, - le disse lui.

- Devo stare molto attenta con quelle pillole.

- Capisco. Ma fatti un favore e prendine subito un’altra. Una in più non può farti molto male, e ti aiuterà a superare la crisi. Ti permetterà di tornare al cavalletto.

- Ci vuole un’ora perché faccia effetto. La lezione sarà finita.

- Puoi restare a dipingere dopo che gli altri saranno andati via. Dov’è la medicina?

- Nella mia borsetta. Nello studio. Vicino al cavalletto. La vecchia borsetta marrone con la cinghia consumata.

Gliela portò, e col goccio d’acqua che restava nel bicchiere lei prese la pillola, un oppiaceo che calmava i dolori per tre o quattro ore, una grossa pasticca bianca a forma di mandorla che le permise di rilassarsi nell’istante in cui la inghiottiva pregustando il sollievo che stava per provare. Per la prima volta da quando aveva iniziato il corso lui ebbe la possibilità di vedere chiaramente come doveva essere stata bella prima che la degenerazione di una spina dorsale invecchiata assumesse il controllo della sua vita.

- Rimani sdraiata finché non comincia a fare effetto, - disse. - Poi vieni di là con gli altri.

- Mi scuso profondamente per tutto questo, - ribatté mentre lui usciva. - È che i dolori ti fanno sentire così sola - E qui la forza d’animo tornò ad abbandonarla e la lasciò a singhiozzare nelle mani giunte. - È così umiliante.

- Non c’è nulla di umiliante.

- C’è, c’è, - pianse lei. - Non essere capaci di badare a se stessi, questo patetico bisogno di farsi consolare...

- Date le circostanze, non c’è proprio nulla di umiliante. - Ti sbagli. Tu non sai. La schiavitù, l’impotenza, l’isolamento, la paura... È tutto così orribile e vergognoso. Il dolore ti fa spaventare di te stessa. È orribile, questa sua assoluta alterità.

La imbarazza ciò che è diventata, pensò lui, è imbarazzata, umiliata, mortificata, a tal punto da ritenersi irriconoscibile. Ma chi di loro non lo era? Erano tutti imbarazzati da ciò che erano diventati. Non era così anche per lui? Dai cambiamenti fisici. Dall’affievolimento della sua virilità. Dagli errori che lo avevano contorto e dai colpi - sia quelli autoinferti sia quelli venuti dall’esterno che lo deformavano. Ciò che conferiva un’orribile grandezza al processo di riduzione subito da Millicent Kramer - e miniaturizzava al confronto la desolazione del suo era, naturalmente, l’incurabile dolore. Persino quei ritratti dei nipoti, pensò, quelle fotografie che i nonni hanno in tutta la casa, forse lei non le guarda neanche più. Non esiste più nulla tranne il dolore.

- Zitta, - disse lui, - sss, calmati,- e tornò un momento sui suoi passi per riprenderle la mano prima di andare dai suoi allievi. - Aspetta che il sedativo faccia effetto e raggiungici quando ti sentirai pronta a dipingere.

Dieci giorni dopo Millicent si uccise con un’overdose di sonniferi.

Alla fine delle dodici settimane di corso tutti, praticamente, volevano iscriversi a un proseguimento, ma lui annunciò che un cambiamento di piani lo avrebbe messo nell’impossibilità di riprendere a far lezione fino all’autunno seguente.

II

 

 

 

Quando era fuggito da New York aveva scelto la costa come nuova casa perché aveva sempre amato nuotare tra i marosi e battersi contro le onde, e per i bei ricordi d’infanzia che aveva di quel tratto di spiaggia del New jersey, e perché, anche se Nancy non si fosse unita a lui, si sarebbe trovato a poco più di un’ora di macchina da lei, e perché vivere in un ambiente rilassante e confortevole avrebbe sicuramente giovato alla sua salute. Nella sua vita non c’erano altre donne. Sua figlia non mancava mai una volta di telefonargli la mattina prima di andare al lavoro, ma per il resto il suo telefono squillava di rado. Non cercava più l’affetto dei figli di primo letto; né per la loro madre né per loro aveva mai fatto nulla di giusto, e opporsi all’insistenza di queste accuse richiedeva una dose di combattività che era ormai scomparsa dal suo arsenale. La combattività era stata rimpiazzata da una grande malinconia. Se nella solitudine delle sue lunghe serate cedeva alla tentazione di telefonare a qualcuno di loro, dopo si sentiva sempre rattristato, rattristato ed esausto.

Randy e Lonny erano la fonte dei suoi rimorsi più profondi, ma non poteva continuare a spiegargli il suo comportamento. Ci aveva provato abbastanza spesso quando erano dei ragazzi: ma allora erano troppo giovani e arrabbiati per capire, e adesso erano troppo vecchi e arrabbiati per capire. E in fondo cosa c’era da capire? Gli riusciva inspiegabile, l’emozione che ancora riuscivano seriamente a ricavare dalla sua condanna. Aveva fatto quello che aveva fatto nel modo in cui l’aveva fatto così come loro facevano quello che facevano nel modo in cui lo facevano. Era forse più scusabile la loro posizione, quella irremovibile di chi non perdona? 0 era meno nociva nei suoi effetti? Lui non era altro che uno dei milioni di americani coinvolti in una causa di divorzio che aveva smembrato una famiglia. Ma aveva forse picchiato la loro madre? Aveva forse picchiato anche loro? Aveva mancato di mantenere la loro madre o mancato di mantenere loro? Qualcuno di essi aveva mai dovuto chiedergli dei soldi? E lui, era mai stato, una volta sola, severo? Non aveva fatto, verso di loro, tutte le aperture che poteva? Cosa si sarebbe potuto evitare? Cos’avrebbe potuto fare, di diverso, che lo avrebbe reso più accettabile, tranne ciò che non poteva f are, cioè continuare a essere sposato e a vivere con la loro madre? O lo capivano o non lo capivano; e tristemente per lui (e per loro) non lo capivano. così come non avrebbero mai potuto capire che lui aveva perso la stessa famiglia che avevano perso loro. E senza dubbio c’erano delle cose che era lui a non poter capire. Se quello era il caso, non era meno triste. Nessuno poteva dire che non ci fosse abbastanza tristezza per tutti, o abbastanza rimorsi per suggerire la filza di domande con cui cercava di difendere la storia della sua vita.

Nulla disse loro della sua serie di ospedalizzazioni per paura che la cosa potesse ispirare troppa vendicativa soddisfazione. Era sicuro che quando fosse morto avrebbero esultato, e tutto a causa di quei primi ricordi di cui non si erano mai liberati, di quando lui aveva lasciato la prima famiglia per fondarne una seconda. Il fatto che alla fine avesse tradito anche la seconda famiglia per una bellissima ragazza di ventisei anni più giovane di lui nella quale, stando a Randy e Lonny, chiunque tranne il padre avrebbe riconosciuto una «pazzoide» a un miglio di distanza - una modella, figurarsi, «una modella scervellata» che aveva conosciuto quando era stata ingaggiata dalla sua agenzia per un lavoro che aveva portato tutta la squadra, compresi loro due, ai Caraibi per qualche giorno di lavoro - aveva solo rafforzato l’opinione che avevano di lui come un avventuriero sessuale subdolo, irresponsabile, frivolo e immaturo. Come padre, era un impostore. Come marito, anche per l’incomparabile Phoebe, per la quale si era sbarazzato della loro madre, era un impostore. Come qualcosa di diverso da uno che pensava solo alla fica, era un imbroglione fino al midollo. E quanto al suo diventare un «artista» in tarda età, questa, per i suoi figli, era la barzelletta più grande di tutte. Quando cominciò a dipingere seriamente ogni giorno, il nomignolo spregiativo coniato da Randy per il padre fu «l’allegro ciabattino».

In risposta lui non rivendicava né rettitudine morale né grande discernimento. Il suo terzo matrimonio si era fondato sullo sconfinato desiderio di una donna che non c’entrava niente con lui, e tuttavia un desiderio che non aveva mai perduto il suo potere di accecarlo e di spingerlo, a cinquant’anni, a comportarsi come un giovanotto. Non dormiva con Phoebe da sei anni, ma non poteva presentare ai figli questo intimo particolare della loro vita insieme come una spiegazione del secondo divorzio. Non pensava che il suo stato di servizio come marito di Phoebe per quindici anni, come padre coabitante di Nancy per tredici anni e come fratello di Howie e figlio dei suoi genitori dalla nascita richiedesse una spiegazione simile. Non pensava che il suo più che ventennale curriculum di pubblicitario richiedesse una spiegazione simile. Non pensava che il suo bilancio come padre di Lonny e Randy richiedesse una spiegazione simile!

Eppure la loro descrizione di come si era comportato nel corso della vita non era nemmeno una caricatura ma, a suo avviso, un ritratto di ciò che lui non era, una descrizione con la quale si intestardivano a minimizzare tutto il buono che secondo lui risultava evidente a quasi tutti gli altri. Minimizzata la sua dignità, ingigantivano i suoi difetti, per un motivo che sicuramente non poteva continuare ad avere, a quest’ora e dopo tanto tempo, una forza così grande. A più di quarant’anni erano rimasti, nei rapporti col padre, i bambini che erano quando lui aveva lasciato la loro madre, bambini che per la loro natura non potevano capire che il comportamento umano poteva avere più di una spiegazione: bambini, però, con l’aspetto e l’aggressività degli uomini, e contro la cui opera di delegittimazione non avrebbe mai potuto opporre una valida difesa. Avevano deciso di farlo soffrire, quel padre assente, e così il padre soffriva, investendoli di questo potere. Soffrire per le sue malefatte era tutto ciò che poteva fare per accontentarli, per pagare il conto, per mostrarsi indulgente come il migliore dei papà verso la loro esasperante opposizione.

Fottuti bastardi! Musoni figli di puttana! Stronzi colpevolizzatori! Sarebbe stato diverso, si chiedeva, se io fossi stato diverso e avessi agito diversamente? Sarei stato meno solo di quanto lo sia oggi? Certamente! Ma questo è ciò che ho fatto! Ho settantun anni. Questo è l’uomo che ho creato. Questo è ciò che ho fatto per diventare quello che sono, e non c’è altro da dire!

 

* * *

 

Nel corso degli anni, per fortuna, aveva sempre avuto regolarmente notizie di Howie. Verso la sessantina suo fratello, come quasi tutti i soci che arrivavano a quell’età tranne i tre o quattro pesi massimi, si era dimesso dalla Goldman Sachs; ormai valeva sicuramente almeno cinquanta milioni di dollari. Venne subito cooptato in numerosi consigli di amministrazione, e alla fine fu nominato presidente della Procter & Gamble, per la quale aveva fatto degli arbitraggi all’inizio della sua carriera. A settant’anni e rotti, ancora energico e voglioso di lavorare, era diventato consulente di una società bostoniana di buy-out specializzata in istituti finanziari e girava il mondo in cerca di potenziali acquisizioni. Tuttavia, nonostante le permanenti responsabilità di Howie e il suo tempo limitato, i due fratelli si scambiavano telefonate un paio di volte al mese, telefonate che certe volte potevano durare anche una mezz’ora, nel corso delle quali tra grandi risate l’uno divertiva l’altro con ricordi d’infanzia e di momenti di comicità ai tempi della scuola e della gioielleria.

Ora, però, quando parlavano, lui si sentiva invadere da una freddezza ingiustificata, e la sua reazione alla giovialità del fratello era il silenzio. Il motivo era ridicolo. Odiava Howie per la sua buona salute. Odiava Howie perché in tutta la vita non era mai stato ricoverato in ospedale, perché non sapeva cosa fosse una malattia, perché nessuna parte del suo corpo era mai stata sfregiata dal bisturi del chirurgo, e perché non aveva sei stent di metallo nelle arterie, né un impianto cardiaco di emergenza nella cassa toracica chiamato defibrillatore, parola che, quando l’aveva udita pronunciare per la prima volta dal cardiologo, gli era ignota e suonava, abbastanza inoffensivamente, come se c’entrasse in qualche modo con gli ingranaggi di una bicicletta. Lo odiava perché, anche se erano figli degli stessi genitori e si somigliavano tanto, Howie aveva ereditato l’inespugnabilità fisica e lui la debolezza coronarica e vascolare. Odiarlo era ridicolo perché Howie, se aveva una salute di ferro, non poteva far altro che godersela. E ridicolo era odiarlo per il semplice fatto che era Howie e non un altro. Non lo aveva mai invidiato per la sua valentia atletica o accademica, per la sua eccezionale competenza finanziaria e la sua ricchezza, non lo aveva mai invidiato nemmeno quando pensava ai propri figli e alle proprie mogli e poi a quelli di Howie: quattro ragazzoni che continuavano a volergli bene e una moglie devota alla quale era unito da cinquant’anni e che per lui aveva chiaramente la stessa importanza che lui aveva per lei. Era fiero di quel fratello muscoloso e atletico che a scuola raramente prendeva meno del voto più alto, e lo aveva ammirato fin dalla prima infanzia. Da ragazzo, con il suo talento artistico e un solo sport in cui eccelleva, che era il nuoto, aveva amato Howie senza riserve e lo aveva seguito dappertutto. Ma ora lo odiava e lo invidiava ed era velenosamente geloso di lui e, nei suoi pensieri, quasi insorgeva furioso contro di lui perché la forza che suo fratello aveva applicato alla vita non era stata ostacolata in alcun modo. Al telefono nascondeva meglio che poteva tutto quello che provava di irrazionale e indifendibile, ma col passare dei mesi le loro telefonate si diradarono e diventarono più brevi, e in poco tempo i due fratelli arrivarono quasi a smettere di parlarsi.

Non mantenne a lungo l’astioso desiderio che Howie perdesse la salute: non poteva invidiarlo fino a questo punto, perché il fatto che suo fratello perdesse la salute non avrebbe avuto come conseguenza che lui avrebbe recuperato la sua. Nulla poteva ridargli la salute o la giovinezza, né corroborare il suo talento. Nondimeno, in uno stato di esagitazione, egli poteva arrivare quasi a credere che la salute di Howie fosse responsabile dei suoi malanni, anche se sapeva che non era così, anche se non mancava della tollerante comprensione che le persone civili mostrano davanti all’enigma dell’ineguaglianza e della sfortuna. Tanto tempo prima, quando lo psicanalista aveva sbrigativamente diagnosticato i sintomi della grave appendicite come un caso di invidia, lui era rimasto comunque a tutti gli effetti figlio dei suoi genitori e poco avvezzo ai sentimenti che accompagnano la convinzione che meglio sarebbe se i beni di un altro appartenessero a te. Ma ora sapeva; in età avanzata aveva scoperto lo stato emotivo che toglie all’invidioso la sua serenità e, peggio ancora, il suo realismo: odiava Howie per quella dote biologica che avrebbe dovuto essere anche sua.

Improvvisamente, non poteva più soffrire suo fratello nel modo istintuale e primitivo in cui i suoi figli non potevano soffrire lui.

 

* * *

 

Aveva sperato che tra gli allievi dei corsi di pittura ci fosse una donna che potesse interessarlo: era questa una metà della ragione per cui aveva deciso di tenerli. Ma accoppiarsi con una delle vedove della sua età per la quale non provava alcuna attrazione si rivelò una prospettiva inaccettabile, anche se le floride ragazze che vedeva far jogging sulla promenade durante la sua passeggiata mattutina, tutte curve e capelli lucenti e, ai suoi occhi, forse più belle di quanto fossero mai state le loro controparti di un’era precedente, avevano abbastanza buon senso da rivolgergli solo un sorriso professionalmente innocente. Seguirne la corsa con lo sguardo era un piacere, ma un piacere doloroso, e in fondo a quella carezza mentale c’era una fonte di amara tristezza che poteva solo intensificare una solitudine insopportabile. Certo, aveva scelto lui di vivere da solo, ma non così insopportabilmente solo. Il lato peggiore di quella situazione - essere insopportabilmente solo - era che dovevi sopportarlo: o questo o sprofondavi. Ti dovevi impegnare a fondo per impedire alla tua mente di sabotarti voltandosi indietro a guardare avidamente la sovrabbondanza del passato.

E aveva cominciato a stufarsi anche della pittura. Per molti anni aveva sognato di dipingere ininterrottamente nel lungo periodo di tempo accordatogli dal pensionamento, come avevano fatto migliaia e migliaia di altri art director che si erano guadagnati la vita lavorando in agenzie pubblicitarie. Ma dopo aver dipinto quasi tutti i giorni da quando si era stabilito sulla costa, aveva perso ogni interesse per quello che faceva. L’urgente bisogno di dipingere si era dissipato, e l’impresa destinata a riempirgli il resto della vita era finita in nulla. Non aveva più idee. Ogni tela alla quale lavorava veniva sempre somigliante all’ultima. I suoi quadri astratti, con i loro vivaci colori, avevano sempre avuto un posto di rilievo nelle mostre degli artisti locali di Starfish Beach, e i tre accolti da una galleria del centro turistico balneare più vicino erano stati tutti venduti ai migliori clienti della galleria. Ma questo era successo quasi due anni prima. Ormai non aveva più nulla da mostrare. Era tutto andato in fumo. Come pittore, era e forse era sempre stato nient’altro che un «allegro ciabattino», come sapeva di essere stato beffardamente battezzato da suo figlio. Era come se la pittura fosse stata un esorcismo. Ma destinata a espellere quale spirito maligno? La più antica delle sue illusioni? O si era messo a dipingere per cercare di liberarsi della consapevolezza che si nasce per vivere e invece si muore? Tutt’a un tratto si era perso nel nulla, nel suono delle due sillabe di «nulla» non meno che nel nulla come inesistenza e inutilità, si era perso e andava alla deriva, e cominciò ad aver paura. Nulla si fa senza rischio, pensava, nulla, nulla... Non c’è nulla che non ti si ritorca contro, nemmeno dipingere stupidi quadri!

 

* * *

 

Spiegò a Nancy, quando gli chiese del suo lavoro, di avere subito «un’irreversibile vasectomia estetica»

- Qualcosa ti rimetterà in pista, - disse lei, accettando quel linguaggio iperbolico con una risata assolutoria. Era stata permeata dalla grande bontà di sua madre, dall’incapacità di restare sulle sue davanti ai bisogni degli altri, dalla profonda umanità che lui aveva disastrosamente sottovalutato e gettato via: gettato via senza neppure immaginare di quante cose avrebbe poi dovuto fare a meno.

- Non credo, - stava dicendo alla loro figlia. - Se non ho mai fatto il pittore, c’è un motivo. E ci ho appena sbattuto il naso contro.

- Se non hai fatto il pittore, - spiegò Nancy, - è perché hai avuto mogli e figli. Avevi delle bocche da sfamare. Avevi delle responsabilità. - Se non ho fatto il pittore è perché non sono un pittore. Non lo ero prima e non lo sono oggi.

- Oh, papà...

- No, ascoltami. Non ho fatto altro che scarabocchiare per ammazzare il tempo.

- In questo momento sei agitato, tutto qui. Smettila di insultarti... Non è così. Lo so io che non è così. Nel mio appartamento i tuoi quadri sono dappertutto. Li guardo ogni giorno, e posso assicurarti che non vedo degli scarabocchi. La gente viene a trovarmi... Li guarda. Mi chiede chi è l’artista. Li nota. Mi chiede se l’artista è ancora vivo.

- E tu cosa rispondi?

- Ascoltami, adesso: non è agli scarabocchi che si mostrano sensibili. Sono sensibili al lavoro. A un lavoro che è bello. E ovviamente, - disse, con una risata che lo fece sentire immacolato e, a più di settant’anni, ancora infatuato della sua bambina, - ovviamente rispondo che sei vivo. Gli spiego che li ha dipinti mio padre, e sono fierissima di dirlo.

- Bene, mia cara.

- Ormai ho una piccola galleria in piena regola.

- Bene... Questo mi fa sentire meglio.

- Sei solo deluso, ecco. È semplice. Tu sei un magnifico pittore. So quello che dico. Se a questo mondo c’è qualcuno che può sapere se sei un magnifico pittore o no, quella sono io.

Dopo tutto quello che le aveva fatto passare tradendo Phoebe, aveva ancora voglia di colmarlo di elogi. Era così da quando aveva dieci anni: una bambina pura e sensibile, macchiata solo dalla propria sconfinata generosità, che innocentemente si sottraeva all’infelicità cancellando i difetti di tutte le persone che le erano care e amando spropositatamente l’amore. Accatastando le balle di perdono come se fosse stato tanto fieno. Il problema sorgeva, inevitabilmente, quando nascondeva a se stessa un po’ troppo di quello che mancava al carattere del frignone pomposamente genialoide di cui si era innamorata e che aveva sposato.

- E non sono solo io, papà. Sono tutti quelli che vengono da me. L’altro giorno facevo colloqui a delle babysitter, perché Molly non può più farlo. Cercavo una nuova babysitter, e questa magnifica ragazza che ho finito per prendere, Tanya, è una studentessa che vuole guadagnare un po’ di soldi extra, è iscritta all’Art Students League proprio come te una volta, non riusciva a staccare gli occhi da quello che ho in sala da pranzo, sopra il controbuffè, quello giallo... Hai capito quale intendo?

- Sì.

- Non riusciva a staccare gli occhi. Da quello giallo e nero. Mica male. Io le facevo delle domande e lei si girava verso il controbuffè. Mi ha chiesto quando è stato dipinto e dove lo avevo comprato. C’è qualcosa di irresistibile nel tuo lavoro.

- Sei molto gentile con me, mia cara.

- No. Sono sincera, tutto qui.

- Grazie.

- Riprenderai. Succederà ancora. Non hai finito con la pittura. Divertiti, intanto. È così bello il posto dove stai. Devi solo aver pazienza. Prenditela comoda. Non è sfumato niente. Goditi la bella stagione, goditi le tue passeggiate, goditi la spiaggia e l’oceano. Non è sfumato e non è cambiato niente.

Strano quanto lo consolassero le sue parole, anche se nemmeno per un attimo aveva creduto che Nancy sapesse di cosa stava parlando. Ma il bisogno di essere consolati, si rendeva conto, non è poca cosa, specie da parte di quell’unica persona che miracolosamente ancora ti ama.

- Non vado più in acqua, - le disse.

- No? Era solo Nancy, ma nondimeno si sentì umiliato da questa confessione. - Non mi sento più sicuro nell’oceano.

- Puoi nuotare in piscina, no?

- Sì.

- Okay, allora nuota in piscina.

Le chiese notizie dei gemelli, pensando che se fosse stato ancora con Phoebe, se ora Phoebe fosse stata con lui, se Nancy non avesse dovuto faticare tanto per sorreggerlo in mancanza di una moglie devota, se non avesse offeso Phoebe come aveva fatto lui, se non l’avesse trattata ingiustamente, se non avesse mentito...! Se almeno lei non avesse detto: - Non potrò mai più fidarmi della tua sincerità.

 

* * *

 

Non cominciò finché non ebbe quasi cinquant’anni. Le ragazze erano dappertutto: agenti di fotografi, segretarie, stiliste, modelle, account. Un’infinità di donne, con le quali lavoravi e viaggiavi e andavi a mangiare fuori, e la cosa sorprendente non fu quello che accadde - l’acquisizione di «un’altra» da parte di un marito - ma che ci avesse messo tanto tempo a capitare, anche dopo che nel suo matrimonio la passione era scemata e si era spenta. Cominciò con una bella diciannovenne dai capelli neri che aveva assunto come segretaria e che, meno di due settimane dopo aver preso servizio, era in ginocchio sul pavimento del suo ufficio col culo in aria e lui che la scopava vestito di tutto punto, solo con la patta dei calzoni aperta. Non l’aveva posseduta con la forza, sebbene effettivamente l’avesse colta di sorpresa: ma anche lui, che era consapevole di non avere doti particolari da ostentare e che si credeva contento di vivere in base alle norme abituali, di comportarsi più o meno come gli altri... anche lui era rimasto sorpreso. Penetrarla era stato facile perché era molto umida, e in quelle spericolate circostanze impiegarono pochissimo tempo per arrivare insieme a un orgasmo poderoso. Una mattina, subito dopo che lei si era tirata su dal pavimento ed era tornata alla sua scrivania nell’anticamera, e mentre lui, rosso in viso, era ancora ritto in mezzo alla stanza e si stava rimettendo in ordine, il suo capo, Clarence, il management supervisor del gruppo e uno dei vicepresidenti esecutivi, aprì la porta ed entrò. - Dov’è il suo appartamento? - gli chiese Clarence. - Non so, - rispose lui. - Usate il suo appartamento, - disse severamente Clarence, e usci. Ma loro due non potevano interrompere quello che stavano facendo dove e come lo stavano facendo, anche se era uno di quei numeri di alta acrobazia aziendale in cui tutti hanno tutto da perdere. Erano troppo vicini per tutta la giornata per poter smettere. Non riuscivano a pensare ad altro, tutt’e due, che al momento in cui lei si sarebbe inginocchiata sul pavimento dell’ufficio e lui le avrebbe fatto volare la sottana sulla schiena e, prendendola per i capelli e scostando le mutande, l’avrebbe penetrata con tutta la forza che poteva e con una totale indifferenza per l’eventualità di essere scoperti.

Poi arrivò la seduta fotografica a Grenada. Lì era lui a dirigere la baracca, e insieme al fotografo che aveva ingaggiato scelsero le modelle, dieci modelle per l’annuncio pubblicitario di un asciugamano ambientato vicino a una piccola piscina naturale nella foresta tropicale, con ogni modella avvolta in un corto accappatoio estivo, e la testa inturbantata nell’asciugamano del cliente come se si fosse appena lavata i capelli. Gli accordi erano stati presi, l’annuncio approvato, e lui era sull’aereo, seduto in un posto isolato lontano da tutti gli altri per poter leggere un libro e appisolarsi e arrivare a destinazione senza essere disturbato.

Fecero uno scalo nei Caraibi, e lui scese dall’aereo ed entrò nella sala d’aspetto e si guardò intorno, vide le modelle, e le salutò prima che tutti salissero su un altro aereo più piccolo e con un breve volo raggiungessero la meta, dove furono raccolti da alcune automobili e da un piccolo veicolo che sembrava una jeep, sul quale lui decise di montare con una delle modelle che aveva notato quando era stata ingaggiata. Era l’unica modella straniera della partita, una danese di nome Merete, e probabilmente, a ventiquattro anni, la più vecchia delle dieci; le altre erano ragazze americane di diciotto e diciannove anni. C’era qualcuno che guidava, Merete stava in mezzo e lui all’esterno. Era una notte molto buia. Avevano dovuto stringersi sui sedili, e lui aveva messo un braccio sulla spalliera dietro di lei. La macchina era appena partita quando la ragazza cominciò a succhiargli il pollice e il suo matrimonio a naufragare, senza che lui se ne rendesse conto. L’uomo che da giovane aveva sperato di non dover mai vivere una doppia vita stava per tagliarsi in due con un’accetta.

Quando arrivarono in albergo e lui andò in camera sua, vi giacque per gran parte della notte pensando solo a Merete. Il giorno dopo, quando si incontrarono, lei gli disse: «Ti ho aspettato» Fu una cosa molto rapida e molto intensa. Scattarono fotografie per tutto il giorno in mezzo alla foresta con la piccola piscina naturale, lavorarono duramente e seriamente per tutta la giornata, e quando tornarono indietro lui scopri che l’agente del fotografo, che li aveva accompagnati, aveva affittato una casa sulla spiaggia apposta per lui: lui le aveva fatto avere un sacco di lavoro, e lei allora gliela prese in affitto e lui lasciò l’albergo e Merete lo segui e vissero insieme là sulla spiaggia per tre giorni. La mattina presto, quando tornava dalla sua nuotata, Merete lo aspettava sulla veranda in mutandine e nient’altro. Cominciavano subito, mentre lui era ancora umido dopo il lungo bagno. Per due giorni, mentre lei glielo succhiava, continuò a palparle il culo con le dita, finché Merete alzò gli occhi e disse: - Se ti piace quel buchetto, perché non lo usi?

Naturalmente la rivide a New York. Ogni volta che era libera andava a casa sua all’ora di pranzo. Poi, un sabato, stava passeggiando con Phoebe e Nancy lungo la Terza Avenue quando vide Merete camminare sull’altro marciapiede con quel passo tranquillo ed eretto da sonnambula la cui sicurezza ferina lo aveva sempre lasciato di stucco, come se Merete, Merete Jespersen di Copenaghen, non fosse in procinto di arrivare al semaforo della Settantaduesima Strada con la borsa della spesa, ma stesse serenamente attraversando il Serengeti, brucando l’erba della savana tra mille antilopi africane. A quei tempi le modelle non dovevano essere sottili come aghi, e ancor prima di riconoscerla dal passo scivolato e di scorgere il mannello di capelli d’oro che aveva sulle spalle, la identificò come il suo tesoro, la preda del cacciatore bianco, dal peso dei seni sotto la camicetta e dal lieve impennarsi di quel sedere il cui buchetto era stato per entrambi la fonte di tanta delizia. Non mostrò né paura né emozione alla sua vista, anche se lui si sentì malissimo e dovette cercare un telefono appartato per chiamarla; trovare un telefono: per il resto del pomeriggio non pensò ad altro. Questa volta non si trattava di violare una segretaria sul pavimento dell’ufficio. Questo era l’inesorabile trionfo della vitalità di lei sull’istinto di conservazione di lui, una forza, questa, di per sé non trascurabile. Era l’avventura più rischiosa della sua vita, quella, come cominciava solo confusamente a capire, che poteva distruggere ogni cosa. Solo di sfuggita gli sovvenne che poteva essere illusorio pensare, a cinquant’anni, di poter trovare un buco che sostituisse tutto il resto.

Qualche mese dopo volò a Parigi per vederla. Lavorava in Europa da sei settimane e, sebbene si parlassero di nascosto per telefono anche tre volte al giorno, questo non bastava a calmare la smania che li aveva presi. Una settimana prima del sabato in cui lui e sua moglie dovevano recarsi nel New Hampshire a prendere Nancy al campeggio per portarla a casa, disse a Phoebe che avrebbe dovuto andare a Parigi per una seduta fotografica quel fine settimana. Sarebbe partito giovedì sera e rientrato lunedì mattina. Ezra Pollock, l’account executive, lo avrebbe accompagnato, e là si sarebbero incontrati con una troupe europea. Sapeva che Ez era con la famiglia fino a dopo il Labor Day, irraggiungibile su un’isoletta senza telefono parecchie miglia al largo di South Freeport, nel Maine, cosa lontano da tutto che non era difficile vedere le foche giocare tra loro sugli scogli dell’isola rocciosa più vicina. Diede a Phoebe nome e numero dell’albergo parigino e poi, dieci volte al giorno, si domandò se valeva la pena rischiare di essere scoperto da lei solo per poter passare un lungo weekend con Merete nella capitale mondiale degli amanti. Ma Phoebe continuava a non avere sospetti e sembrava che non vedesse l’ora di andare a prendere Nancy, anche da sola. Aveva una gran voglia di riportarsela a casa dopo un’estate di assenza, proprio come lui moriva dalla voglia di vedere Merete dopo un mese e mezzo di separazione, e così si involò il giovedì sera, con l’idea fissa di quel buchetto e di ciò che le piaceva che ne facesse. Si, era come un sogno, e non pensò praticamente ad altro per tutta la traversata dell’Atlantico con un volo dell’Air France.

Quello che lo fregò fu il tempo. Forti venti e violente tempeste spazzarono l’Europa, e nemmeno un aereo poté decollare per tutta la domenica e anche il lunedì. Per due giorni attese all’aeroporto con Merete, che lo aveva accompagnato per restargli appiccicata fino all’ultimo momento, ma quando fu chiaro che dal De Gaulle non ci sarebbero state partenze fino a martedì al più presto, presero un taxi per tornare in rue des Beaux Arts, all’albergo piccolo e lussuoso sulla Rive Gauche che era il preferito di Merete, dove poterono riavere la loro stanza, la stanza con gli specchi affumicati. Durante ogni corsa notturna in taxi per le strade di Parigi avevano fatto lo stesso sfacciato giochino, sempre distrattamente e come se fosse la prima volta: lui le metteva la mano sul ginocchio e lei apriva le gambe quel tanto che bastava per permettergli di spingersi più su, sotto quel vestito che sembrava una sottoveste di seta - nient’altro, in realtà, che un capo di lussuosa lingerie e di farle un ditalino mentre Merete voltava la testa per guardare pigramente le vetrine illuminate fuori dal finestrino e lui, adagiato sul sedile, fingeva di non essere colpito da come lei poteva continuare a comportarsi come se nessuno la toccasse anche se si sentiva che cominciava a venire. Merete portava ogni gioco erotico al suo limite. (Prima, nell’atmosfera di riservatezza di un antiquario col negozio nella stessa strada dell’albergo, le aveva adornato la gola con un ciondolo strepitoso, un pendant di diamanti e granati demantoidi appeso alla sua catenina d’oro originale. Da quel figlio bene informato di suo padre che era, aveva chiesto di esaminare le pietre con la lente del gioielliere. - Cosa cerchi? chiese Merete. - Difetti, incrinature, la colorazione... Se con una lente da dieci ingrandimenti non si vede nulla, il diamante può essere dichiarato perfetto. Vedi? Le parole di mio padre mi escono dalla bocca ogni volta che parlo di gioielli. - Ma non quando parli di tutto il resto, - disse lei. - Non di tutto ciò che riguarda te. Quelle parole sono mie -. Non potevano mai smettere di adescarsi, né quando facevano qualche acquisto, né mentre andavano a passeggio, né quando prendevano un ascensore o il caffè insieme in un separé a due passi dal suo appartamento. - Come fai a saperlo fare, a metterti quel coso...? - La lente? - Come fai a incastrarti la lente nell’occhio, così? - Mi ha insegnato mio padre. Te la metti nell’orbita e stringi. Un po’ come fai tu. - Allora, di che colore è? - Azzurro. Biancoazzurro. Era il migliore, una volta. Mio padre direbbe che lo è ancora. Mio padre direbbe: «Oltre la bellezza e il prestigio e il valore, il diamante è indistruttibile» «Indistruttibile» era una parola che amava assaporare. - Chi non lo fa? - disse Merete.

- Come si dice in danese? - le domandò lui.

Uforgængelig. È altrettanto meraviglioso.

- Perché non lo prendiamo? - disse lui alla commessa, che a sua volta, in un perfetto inglese con un pizzico di francese, e con perfetta astuzia, disse alla giovane amica dell’anziano signore: - Mademoiselle è molto fortunata. Une femme choyée, - e il costo era, all’incirca, quello dell’intero stock del negozio di Elizabeth, se non più alto, quando lui portava anelli da fidanzamento da cento dollari di un quarto o di mezzo carato a far misurare per i clienti di suo padre da un uomo che lavorava dietro un banco in un cubicolo di Frelinghuysen Avenue negli anni intorno al 1942. E ora tolse il dito appiccicoso, glielo passò sulle labbra, poi glielo mise tra i denti per farglielo lambire con la lingua, ricordandole il loro primo incontro e ciò che avevano osato fare da sconosciuti, un pubblicitario americano di cinquant’anni e una modella danese di ventiquattro, attraversando un’isola dei Caraibi immersa nel buio, ammaliati. Ricordandole che lei apparteneva a lui e lui a lei. Una setta composta da due persone.

 

* * *

 

C’era un messaggio di Phoebe che lo aspettava in albergo: «Contattami immediatamente. Tua madre gravemente malata».

Quando telefonò apprese che sua madre, a ottant’anni, aveva avuto un colpo alle cinque del mattino di lunedì, ora di New York, e che non c’era da aspettarsi che se la cavasse.

Spiegò a Phoebe le condizioni del tempo e venne a sapere che Howie era già in viaggio per la costa orientale e che suo padre vegliava al capezzale di sua madre. Annotò il numero telefonico della stanza di sua madre all’ospedale, e Phoebe gli disse che appena riattaccato sarebbe partita anche lei per il New jersey, per aspettare con suo padre all’ospedale fino all’arrivo di Howie. Aveva solo atteso che lui la richiamasse. - Mi sei scappato per pochi minuti, stamattina. Il portiere mi ha detto: «Madame e Monsieur sono appena andati all’aeroporto»

- Sì, - disse lui. - Ho preso un taxi con l’agente del fotografo.

- No, hai preso un taxi con la danese ventiquattrenne con cui hai una relazione. Scusa, ma non posso più far finta di non vedere. Ho fatto finta di non vedere con quella segretaria. Ma ormai l’umiliazione ha passato la misura. Parigi, - disse, disgustata. - La programmazione. La premeditazione. I biglietti e l’agenzia di viaggi. Dimmi, chi di voi due romantici provincialotti ha avuto l’idea di andare a Parigi per la vostra scappatella clandestina? Dove avete mangiato? In quali ristoranti alla moda siete andati?

- Phoebe, non capisco di che stai parlando. Quello che dici è assurdo. Prendo il primo aereo disponibile.

Sua madre morì un’ora prima che lui potesse arrivare all’ospedale di Elizabeth. Suo padre e suo fratello erano seduti accanto al corpo che giaceva sotto le coperte del letto. Non aveva mai visto sua madre in un letto di ospedale, anche se naturalmente lei lo aveva visto lì più di una volta. Come Howie, aveva avuto una salute di ferro per tutta la vita. Era lei che correva all’ospedale a confortare gli altri. Howie disse: - Non abbiamo detto al personale che è morta. Abbiamo aspettato. Volevamo che tu potessi vederla prima che la portassero via - Ciò che vide era il profilo a tutto tondo di una donna anziana addormentata. Ciò che vide era una pietra, la pesante pietra sepolcrale che dice: la morte è soltanto la morte, e nient’altro.

Abbracciò suo padre, che gli diede un colpetto sulla mano e disse: - Meglio così. Nessuno avrebbe voluto che continuasse a vivere, per come l’aveva conciata quell’affare.

Quando prese la mano di sua madre e se la portò alle labbra, si rese conto che in poche ore aveva perduto le due donne la cui devozione era stata il puntello della sua forza.

Con Phoebe mentì e mentì e mentì, ma invano. Le disse che era andato a Parigi per troncare la relazione con Merete. Aveva dovuto incontrarla faccia a faccia, per farlo, e Parigi era il posto dove stava lavorando.

- Ma in albergo, mentre troncavi la relazione, non hai dormito di notte con lei nello stesso letto?

- Non abbiamo dormito. Ha pianto per tutta la notte.

- Per quattro notti intere? Quante lacrime per una danese di ventiquattro anni! Credo che neanche Amleto pianse tanto.

- Phoebe, ero andato a dirle che è finita... Ed è finita.

- Cos’ho fatto di male, - chiese Phoebe, - perché tu abbia voluto umiliarmi così? Perché hai deciso di scassare tutto? È stato così orribile? Dovrei essermi ripresa dallo stupore, ma non ci riesco. Io, che non ho mai dubitato di te, che non ho mai avuto nemmeno l’idea di farti domande, e ora non potrò mai più credere a una sola delle tue parole. Non potrò mai più fidarmi della tua sincerità. Si, tu mi hai offeso con la segretaria, ma ho tenuto la bocca chiusa. Non sapevi nemmeno che sapevo, vero? Non è così?

- Non lo sapevo, no.

- Perché ti ho nascosto i miei pensieri... Sfortunatamente non potevo nasconderli a me stessa. E ora tu mi offendi con la danese e mi umili con queste bugie, e ora non nasconderò i miei pensieri e non terrò la bocca chiusa. Incontri una donna matura e intelligente, una compagna che sa cos’è la reciprocità. Ti sbarazza di Cecilia, ti dà una figlia fenomenale, cambia tutta la tua vita, e tu per lei non sai far altro che scopare la danese. Ogni volta che guardavo l’orologio continuavo a pensare che ora era a Parigi e cosa stavate facendo voi due. È andata avanti così per tutto il weekend. La fiducia è la base di tutto, non è vero? Non è vero?

Bastò che Phoebe pronunciasse il nome di Cecilia per rievocare istantaneamente nella memoria di lui le tirate vendicative inflitte ai suoi genitori dalla sua prima moglie che quindici anni dopo, con suo orrore, mostrava di essere stata non soltanto la Cecilia abbandonata, ma la sua Cassandra: «Mi fa pena, questa santarellina che viene dopo di me... Sinceramente mi fa pena, quella volgare troietta quacchera!»

- Puoi superare qualunque cosa, - stava dicendogli Phoebe, - anche se la fiducia è stata tradita, se ti viene confessato. Allora diventate compagni di vita in un modo diverso, ma è sempre possibile rimanere compagni. Ma mentire... Mentire significa esercitare un meschino, spregevole controllo sull’altra persona. Significa permettere che l’altra persona agisca in base a informazioni incomplete... Lasciare, in altri termini, che si umili. Mentire è comunissimo e tuttavia, se sei dalla parte alla quale si mente, è una cosa veramente sbalorditiva. Le persone tradite da voi bugiardi sopportano una crescente lista di offese finché voi stessi, in realtà, non potete far a meno di perdere la stima che avevate di loro, no? Sono certa che i bugiardi abili e insistenti e subdoli come te arrivano a pensare che è la persona infinocchiata, e non tu, quella che sembra avere i limiti più grossi. Forse tu non credi nemmeno di mentire... Per te è una gentilezza risparmiare i sentimenti della tua povera e asessuata compagna. Forse tu credi che le tue menzogne abbiano la natura della virtú, siano un atto di generosità verso quella scema che ti ama. O forse non è nient’altro: solo una menzogna, cazzo, una menzogna dopo l’altra. Oh, perché andare avanti?... Tutti questi episodi sono ben noti, - disse. - L’uomo perde la passione per il matrimonio e non può farne a meno. La moglie è pragmatica. La moglie è realistica. Sì, la passione se n’è andata, lei è invecchiata e non è più quella. di una volta, ma per lei è sufficiente avere l’affetto fisico, essere lì a letto con lui, lei che lo abbraccia, lui che abbraccia lei. L’affetto fisico, la tenerezza, la solidarietà, la vicinanza... Ma lui non può accettarlo. Perché è un uomo che non può farne a meno. Be’, ora dovrai farne a meno, caro mio. Altroché, se dovrai farne a meno. Scoprirai cosa vuol dire farne a meno! Oh, vattene, ti prego. Non posso sopportare il ruolo che mi hai costretto a sostenere. La pietosa moglie di mezza età, inasprita dal ripudio, consumata da una disgustosa gelosia! Furente! Ripugnante! Oh, ti odio soprattutto per questo. Vattene, lascia questa casa. Non sopporto la vista della tua faccia, con quell’aria da satiro che si comporta bene! Da me non avrai nessuna assoluzione... Mai! Non mi lascerò mai più prendere in giro! Vattene, ti prego! Lasciami in pace!

- Phoebe...

- No! Non osare chiamarmi per nome!

Ma questi episodi sono effettivamente molto noti e non richiedono ulteriori elaborazioni. Phoebe lo buttò fuori di casa la sera dopo il funerale di sua madre, divorziarono dopo aver raggiunto un accordo finanziario, e poiché non sapeva che altro fare per dare un senso all’accaduto o in quale altro modo mostrarsi responsabile - e per riabilitarsi soprattutto agli occhi di Nancy - qualche mese dopo sposò Merete. Poiché aveva rovinato tutto a causa di questa donna che aveva la metà dei suoi anni, sembrava solo logico andare avanti e rimettere tutto in ordine facendo di lei la sua terza moglie: da uomo coniugato, non era mai stato così furbo da commettere adulterio o innamorarsi di una donna che non era libera.

Non gli occorse molto tempo per scoprire che Merete era qualcosa di più di un semplice buchetto, o forse qualcosa di meno. Scopri la sua incapacità di arrivare alla fine di un ragionamento senza che tutte le sue incertezze si intromettessero e le deviassero i pensieri. Scopri le vere dimensioni della sua vanità e, anche se aveva solo ventiquattro anni, la sua morbosa paura di invecchiare. Scopri i suoi problemi con il permesso di soggiorno e il pasticcio in cui da molto tempo si era messa col fisco, risultato di anni e anni senza dichiarazioni delle imposte. E quando ebbe bisogno di un’operazione urgente a una coronaria, scopri il suo terrore delle malattie e la sua inutilità davanti al pericolo. Nel complesso, aveva imparato un po’ tardi che tutta la sua audacia era racchiusa nel suo erotismo e che portare al limite tutto ciò che di erotico esisteva tra loro era la loro unica e irresistibile affinità. Aveva rimpiazzato la moglie più servizievole che si potesse immaginare con una moglie che andava in pezzi sotto la minima pressione. Ma subito dopo il divorzio sposarla gli era parso il modo più semplice per insabbiare il suo delitto.

 

* * *

 

Senza dipingere, ammazzare il tempo era uno strazio. C’era la passeggiata mattutina di un’ora, nel tardo pomeriggio c’erano venti minuti di palestra con i pesi più leggeri e una mezz’ora di comode vasche in piscina - il regime quotidiano incoraggiato dal cardiologo - ma la cosa finiva li, i grandi avvenimenti della giornata erano questi. Quanto tempo potevi passare guardando l’oceano, anche se era l’oceano che amavi da quando eri un ragazzo? Per quanto tempo poteva guardare la marea salire e scendere senza ricordare, come avrebbe potuto fare chiunque mentre fantasticava guardando il mare, che la vita gli era stata donata, a lui come a tutti, casualmente, fortuitamente e una volta sola, e non per un motivo conosciuto o conoscibile? Le sere in cui si metteva al volante e andava a mangiare una grigliata di pesce azzurro sulla veranda posteriore della pescheria appollaiata ai margini dell’insenatura dove le barche prendevano il mare passando sotto il vecchio ponte levatoio, qualche volta faceva prima una sosta nella città dove la sua famiglia era andata in vacanza durante l’estate. Scendeva dalla macchina nella strada che portava all’oceano e camminava fino alla promenade e si sedeva su una delle panchine rivolte verso la spiaggia e il mare, quel mare stupendo che non aveva fatto altro che cambiare senza cambiare mai da quando lui era solo un ragazzino tutt’ossa che sfidava i cavalloni. Era la stessa panchina dove la sera andavano a sedersi i suoi genitori e i suoi nonni per prendere una boccata d’aria e godersi la sfilata di amici e vicini sulla promenade, mentre la spiaggia era la stessa spiaggia dove i suoi avevano fatto picnic e preso la tintarella e dove lui e Howie e i loro amici andavano a fare il bagno, benché adesso fosse larga più del doppio grazie a un progetto di bonifica realizzato recentemente dall’esercito. Eppure, larga com’era, era sempre la sua spiaggia, ed era al centro dei cerchi in cui girava la sua mente quando lui tornava col pensiero ai momenti più belli della sua infanzia. Ma quanto tempo poteva passare un uomo ricordando i momenti più belli dell’infanzia? Perché invece non godersi i momenti più belli della vecchiaia? O i momenti più belli della vecchiaia erano proprio questi, la nostalgia per i momenti più belli dell’infanzia, per il sottile virgulto che il suo corpo era allora, quando si faceva portare dalle onde dal punto più lontano dove esse cominciavano a formarsi, con le braccia tese davanti a lui come la punta di una freccia e dietro il resto del corpo esile come l’asticciola della freccia, fino al punto in cui la sua cassa toracica strisciava contro i sassolini aguzzi e le conchiglie frastagliate e polverizzate all’estremità del bagnasciuga, dove lui si raddrizzava e si voltava in fretta e attraversava a balzelloni l’acqua bassa finché gli arrivava al ginocchio ed era abbastanza profonda per tuffarsi e cominciava a nuotare come un forsennato verso i frangenti che si alzavano davanti a lui - dentro il verde Atlantico che avanzava, che procedeva ondeggiando verso di lui come l’ostinata realtà del futuro - e, se era fortunato, arrivava in tempo per montare in groppa al prossimo cavallone e poi a quello dopo e a quello dopo e ancora a quello dopo, fino a quando capiva, dall’inclinazione sull’acqua dei raggi del sole che tramontava nell’entroterra, che era ora di andare. Correva a casa a piedi nudi, bagnato e incrostato di sale, ricordando la forza di quel mare immenso che gli ribolliva nelle orecchie e leccandosi un braccio per sentire il sapore della pelle rinfrescata dall’oceano e cotta dal sole. Insieme all’estasi di un’intera giornata trascorsa facendosi sbatacchiare dall’oceano fino a rincretinirsi, quel sapore e quell’odore lo inebriavano talmente da spingerlo quasi al punto di affondare i denti nel braccio per strapparne un boccone di se stesso e sentire il sapore della propria carnale esistenza.

Attraversava più in fretta che poteva i marciapiedi di cemento ancora caldi dal sole della giornata e quando arrivava alla pensione faceva il giro fino alla doccia sul retro, quella esterna con le pareti di compensato spugnoso, dove la sabbia bagnata gli cadeva dal costume con un plop quando scalciava per sfilarselo e lo alzava verso l’acqua fredda che gli pioveva sulla testa. La forza uniforme della marea che saliva, il calvario del marciapiede rovente, lo choc della doccia gelida che gli faceva rizzare il pelo, la beatitudine dei nuovi muscoli tesi e delle membra sottili e delle carni fortemente abbronzate con l’unico segno della pallida cicatrice dell’operazione di ernia nascosta giù nell’inguine... Non c’era nulla in quei giorni d’agosto, dopo che i sommergibili tedeschi erano stati distrutti e non c’erano più marinai affogati di cui preoccuparsi, che non fosse meravigliosamente chiaro. E nulla, nella sua perfezione fisica, che lui non avesse ragione di dare per scontato.

 

* * *

 

Quando tornava indietro, dopo cena, cercava di leggere qualcosa. Aveva una biblioteca di grossi libri d’arte che riempivano una parete dello studio; li aveva accumulati e studiati per tutta la vita, ma non poteva più sedersi nella sua poltrona da lettura e voltare le pagine di un libro senza sentirsi ridicolo. L’illusione - come ormai la chiamava - aveva perso il suo potere su di lui, e così i libri non facevano altro che ingigantire la sensazione di essere un dilettante irrimediabilmente comico e la vanità dell’impresa alla quale aveva dedicato il tempo del suo pensionamento.

Provare a passare più tempo in compagnia dei residenti di Starfish Beach? Anche questo gli riusciva insopportabile. Diversamente da lui, molti erano in grado non soltanto di costruire intere conversazioni incentrandole sui loro nipoti, ma di scovare motivi sufficienti per esistere nell’esistenza di quei nipoti. Trovandosi intrappolato in loro compagnia, a volte sentiva il morso della solitudine in quella che gli pareva la sua forma più pura. E anche le persone più riflessive ed eloquenti tra i residenti del villaggio non erano così interessanti da invogliarlo a incontrarli più di una volta ogni tanto. I vecchi residenti, per la maggior parte, erano sposati da decenni e ancora legati ai resti della loro felicità coniugale tanto da far sì che solo raramente lui potesse convincere il marito ad andare a pranzo fuori da solo, senza la moglie. Per quanto potesse guardare nostalgicamente queste coppie mentre calava la notte o la domenica pomeriggio, c’erano tutte le altre ore della settimana cui pensare, e quando la malinconia non lo schiacciava, la loro vita non faceva per lui. La conclusione era che non avrebbe mai dovuto trasferirsi in una comunità come quella. Aveva traslocato proprio quando la cosa più richiesta dall’età era che lui mettesse radici come aveva fatto per tutti gli anni in cui aveva diretto il reparto creativo dell’agenzia. Si era sempre sentito corroborato dalla stabilità, mai dalla stasi. E questa invece si chiamava stagnazione. C’era ormai un’assenza di conforto in tutte le sue forme, un’aridità mascherata da consolazione, e non era più possibile tornare indietro. Era stato preso da un senso di alterità: «alterità», una parola che nel suo linguaggio descriveva uno stato d’animo a lui quasi estraneo, fino al giorno in cui la sua allieva Millicent Kramer l’aveva dolorosamente usata per deplorare la propria condizione. Non c’era più nulla che stimolasse la sua curiosità o che rispondesse ai suoi bisogni, né la pittura, né la famiglia, né i vicini, nulla tranne le giovani donne che gli passavano davanti facendo jogging la mattina sulla promenade. Mio Dio, pensava, che uomo ero una volta! Che vita avevo intorno! Che forza avevo dentro! Nessuna «alterità» da avvertire! Una volta ero completo: ero un essere umano.

 

* * *

 

C’era una ragazza che lui non dimenticava mai di salutare con un cenno della mano quando gli passava davanti correndo, e un mattino decise di fare la sua conoscenza. Lei ricambiava sempre il suo saluto con un gesto e un sorriso, dopodiché lui la seguiva tristemente con lo sguardo mentre si allontanava. Questa volta la fermò. Gridò: - Signorina, signorina, vorrei parlarle, - e invece di scuotere la testa e tirar via con un «ora non posso», come lui immaginava che avrebbe fatto, la ragazza si voltò e tornò indietro fino al punto dove lui aspettava, vicino alla scala di legno che portava giù alla spiaggia, e si fermò con le mani sui fianchi a trenta centimetri da lui, madida di sudore, una minuscola creatura perfettamente formata. Finché non si fu rilassata del tutto, continuò a battere una scarpa contro l’assito della promenade come un pony mentre alzava lo sguardo su questo sconosciuto con gli occhiali da sole che era alto uno e novanta e aveva una massa di ondulati capelli grigi. Saltò fuori, casualmente, che aveva lavorato per sette anni in un’agenzia pubblicitaria di Philadelphia, che abitava lì sulla costa e che al momento vi stava passando le sue due settimane di ferie. Quando lui le disse il nome dell’agenzia di New York dove aveva lavorato per quasi tutta la vita la ragazza rimase straordinariamente colpita; quell’agenzia era leggendaria, e nei dieci minuti seguenti fecero proprio quei discorsi di bottega che non lo avevano mai interessato. La ragazza doveva essere tra i venticinque e i trent’anni e tuttavia, con i lunghi capelli ricci biondo rame legati sulla nuca e gli short da jogger e un top, e piccina com’era, la si sarebbe potuta prendere per una quattordicenne. Lui cercò ripetutamente di impedire al suo sguardo di appuntarsi sulla protuberanza dei seni che si alzavano e si abbassavano a ogni respiro. Era un tormento da evitare. L’idea stessa era un’offesa al buon senso e una minaccia per il suo equilibrio mentale. La sua eccitazione era sproporzionata rispetto a qualunque cosa fosse capitata o per caso potesse capitare. Non doveva solo nascondere la fame; per non impazzire doveva annichilirla. E invece continuò ostinatamente a comportarsi come aveva stabilito, ancora mezzo convinto che esistesse una combinazione di parole che in qualche modo l’avrebbe salvato dalla disfatta. Disse: - L’ho notata fare jogging - Lei lo stupì rispondendo: - Avevo notato che mi aveva notato. - Mi chiedevo se è una che ci sta, si sentì dire lui, ma pensando che l’incontro gli era ormai sfuggito di mano e che tutto stava andando troppo in fretta: sentendosi, se possibile, ancora più avventato di quando aveva messo quel pendant che costava un occhio della testa intorno al collo di Merete, a Parigi. Phoebe la moglie devota e Nancy la figlia adorata erano a casa, a New York, ad aspettare il suo ritorno - aveva parlato con Nancy il giorno prima, poche ore dopo il suo rientro dal campeggio - eppure lui aveva detto alla commessa: «Lo prendiamo. Non occorre che lo incarti. Ecco, Merete, lascia fare a me. Ho messo i denti con questi fermagli. È un fermaglio tubolare a manicotto. Negli anni trenta sarebbe stato il più sicuro per un pezzo come questo. Su, alza il mento» - Che progetti ha? - rispose audacemente la ragazza che faceva jogging, così audacemente che lui, preso alla sprovvista, non seppe quanto potesse essere diretta la sua risposta. Il ventre della ragazza era abbronzato e le braccia esili e le natiche sporgenti tonde e sode e le gambe snelle erano parecchio muscolose e i seni piuttosto sviluppati per una persona non molto più alta di un metro e mezzo. Aveva le curve voluttuose di una Varga Girl nelle vecchie illustrazioni anni quaranta, ma una Varga Girl infantile, in miniatura, che era la ragione principale per cui l’aveva fermata.

Aveva detto: «Mi chiedevo se è una che ci sta», e lei aveva risposto: «Che progetti ha?» E ora? Si tolse gli occhiali da sole per consentirle di guardarlo negli occhi mentre la squadrava dall’alto in basso. Aveva capito qual era il sottinteso di una risposta come quella? O era una cosa che diceva tanto per dire qualcosa, solo per dare l’impressione di essere padrona di sé anche se aveva paura e si sentiva disorientata? Trent’anni prima non avrebbe dubitato dell’esito di quel corteggiamento, nonostante la giovane età della ragazza, e la possibilità di un umiliante rifiuto non gli sarebbe mai venuta in mente. Ma scomparso era il piacere di quella sicurezza, e con esso l’appassionante giocosità dello scambio. Fece del suo meglio per nascondere l’ansia... e l’impulso di toccare... e la voglia che gli dava un corpo come quello... e la futilità di tutto ciò... e la sua irrilevanza... ed evidentemente ci riuscì, perché quando tolse dal portafoglio un pezzo di carta e vi scrisse il suo numero di telefono la ragazza non fece una boccaccia e non scappò via ridendo di lui, ma lo prese con un amabile sorrisetto felino che avrebbe potuto benissimo essere accompagnato dal ronzio di una gatta che fa le fusa. - Così sa dove sto, - disse lui, sentendosi gonfiare i calzoni da un’erezione incredibilmente, magicamente rapida, come se avesse ancora quindici anni. E provando quel senso di individualizzazione, di sublime singolarità, che caratterizza un nuovo incontro sessuale o una nuova relazione amorosa, e che è l’opposto della mortificante spersonalizzazione cagionata dalla grave malattia. La ragazza lo scrutava con due vivi occhioni blu. - In lei c’è qualcosa di strano, - disse con aria meditabonda. - Sì, è vero, - disse lui, e rise: - Sono nato nel 1933. - A me sembra abbastanza in forma, - disse la ragazza. - Anche lei mi sembra abbastanza in forma, - rispose lui sa dove trovarmi, - aggiunse. Con un sorriso affascinante la ragazza agitò in aria il pezzo di carta come se fosse una campanella e con suo grande piacere se lo ficcò nel top umido prima di ripartire lungo la promenade.

Non chiamò mai. E durante le sue passeggiate lui non la vide più. Doveva aver deciso di fare jogging su un altro tratto della promenade, frustrando così il suo desiderio di un’ultima grande vampata di ogni cosa.

 

* * *

 

Poco dopo la follia con l’infantile Varga Girl in short da jogger e top, decise di vendere l’appartamento e tornare a New York. Lasciare la costa gli sembrava un fallimento, quasi doloroso come ciò che gli era accaduto negli ultimi sei mesi nella sua carriera di pittore. Anche prima dell’11 settembre aveva carezzato l’idea di un pensionamento tipo quello che ora aveva sperimentato per tre anni; il disastro dell’ 11 settembre era parso affrettare l’occasione di operare un grosso cambiamento, mentre in realtà aveva segnato l’inizio della sua vulnerabilità e l’origine del suo esilio. Ma ora avrebbe venduto l’appartamento e cercato di trovare una casa a New York vicino all’alloggio di Nancy nell’Upper West Side. Poiché il valore del condominio era quasi raddoppiato nel breve tempo della sua permanenza, avrebbe forse potuto ricavarne abbastanza soldi per comprare vicino alla Columbia qualcosa di abbastanza grande da consentire a tutti loro di vivere insieme sotto lo stesso tetto. Lui avrebbe pagato le spese di casa e lei, con i soldi per il mantenimento dei figli, avrebbe potuto pagarsi le sue. Nancy poteva rimettersi a lavorare tre giorni la settimana e passare quattro giorni interi con i bambini, come avrebbe voluto fare - ma non poteva permettersi - da quando aveva ripreso il lavoro dopo il congedo per maternità. Nancy, i gemelli e lui. Era un piano che valeva la pena di proporle. Forse il suo aiuto non le sarebbe spiaciuto, e lui desiderava ardentemente la compagnia di una persona cara cui poter dare e da cui poter ricevere, e chi meglio di Nancy in tutto il mondo?

Si concesse un paio di settimane per decidere se il piano funzionava e per calcolare fino a che punto, nel presentarlo, poteva apparire disperato. Finalmente, quando ebbe deciso che per il momento non avrebbe proposto nulla a Nancy, ma piuttosto sarebbe andato per una giornata a New York per cominciare a studiare per conto suo la possibilità di trovare un appartamento alla portata delle sue tasche che potesse comodamente ospitarli tutt’e quattro, gli arrivò per telefono un’ondata di cattive notizie, prima a proposito di Phoebe e il giorno dopo di tre dei suoi ex colleghi.

Venne a sapere dell’ictus di Phoebe quando il telefono squillò poco dopo le sei e mezzo del mattino. Era Nancy che chiamava dall’ospedale. Phoebe le aveva telefonato circa un’ora prima per dirle che le stava capitando qualcosa, e quando Nancy l’aveva portata al pronto soccorso le sue parole erano così impastate che riusciva a farsi capire a malapena, e aveva perso l’uso del braccio destro. Avevano appena finito la risonanza magnetica. E ora Phoebe stava riposando nella sua camera.

- Ma un ictus, una donna così sana e giovanile come tua madre? C’entravano per caso le emicranie? E possibile?

- Pensano che sia dipeso dalle medicine che prendeva per le emicranie, - disse Nancy. - Era il primo farmaco che avesse fatto effetto. Si rendeva conto che il medicinale comportava in certi casi il pericolo di provocare un ictus. Lo sapeva. Ma quando ha scoperto che funzionava, quando si è liberata di quei dolori per la prima volta in cinquant’anni, ha deciso che valeva la pena di correre il rischio. Ha avuto tre anni miracolosi senza dolori. Era la felicità.

- Finora, - disse tristemente lui. - Fino a questo. Vuoi che venga lì?

- Te lo farò sapere. Vediamo come vanno le cose. Secondo loro, è fuori pericolo.

- Si riprenderà? Sarà in grado di parlare?

- Il dottore dice di sì. A suo avviso, recupererà al cento per cento.

- Magnifico, - disse lui, ma pensava: «Vedremo cosa ne pensa il dottore tra un anno»

Senza che lui dovesse nemmeno chiederglielo, Nancy gli disse: - Quando lascerà l’ospedale, verrà a vivere con me. Matilda ci starà durante il giorno e nel resto del tempo ci sarò io - Matilda era la bambinaia di Antigua che aveva cominciato a badare ai bambini quando Nancy si era rimessa a lavorare.

- Bene - disse lui. - Guarirà completamente, ma la riabilitazione richiederà molto tempo.

Avrebbe dovuto recarsi a New York proprio quel giorno per iniziare la ricerca di un appartamento per tutti loro; invece, dopo essersi consultato con Nancy, andò in città a trovare Phoebe all’ospedale e poi la sera tornò sulla costa per riprendervi la sua vita solitaria. Nancy, i gemelli e lui: era stata un’idea ridicola, tanto per cominciare, e anche sleale, un rimangiarsi la promessa che aveva fatto a se stesso dopo essersi trasferito sulla costa, che era di isolare quella figlia fin troppo sensibile dalle paure e dalle vulnerabilità di un vecchio. Ora che Phoebe stava così male, il cambiamento che aveva immaginato per loro era impossibile in ogni caso, e allora decise di non prendere mai più in considerazione nessun piano del genere per Nancy. Non poteva permettere che lei lo vedesse com’era.

All’ospedale, Phoebe era là distesa con un’aria inebetita. Oltre al biascicare cagionato dall’ictus, la sua voce era appena percettibile, e lei faceva fatica a deglutire. Dovette protendersi verso la sponda del letto per capire quello che diceva. Non erano mai stati fisicamente così vicini in più di vent’anni, da quando lui era andato a Parigi ed era là con Merete nel momento in cui sua madre subiva l’ictus che l’aveva uccisa.

- La paralisi è terrificante, - gli disse lei, abbassando lo sguardo al braccio destro senza vita che aveva lungo il fianco. Lui annuì. - Lo guardi, - disse lei, - gli ordini di muoversi... - Lui attese, mentre le lacrime le scorrevano sul viso e Phoebe lottava per finire la frase. Quando non ci riuscì, la finì lui per lei. - E non si muove, - disse sottovoce. Al che lei annuì, e a lui venne in mente il tumultuoso fiume di parole che le erano uscite di bocca dopo il suo tradimento. Come avrebbe voluto che potesse ustionarlo con quella lava, in quel momento! Qualunque cosa, qualunque cosa, un’accusa, una poesia, una protesta, una campagna pubblicitaria per le American Airlines, un annuncio a tutta pagina per il «Reader’s Digest» Qualunque cosa, purché potesse ritrovare la favella! Phoebe che amava lanciarsi in rutilanti giochi di parole, la schietta e aperta Phoebe, imbavagliata! - È proprio come immagini, - si sforzò di scandire.

 

* * *

 

La sua bellezza, già fragile, era spezzata e disfatta, e lei, alta com’era, sotto le lenzuola ospedaliere sembrava rinsecchita e già in decomposizione. Con che coraggio il medico poteva dire a Nancy che la crudeltà di ciò che era capitato a sua madre non avrebbe lasciato segni permanenti? Si sporse in avanti per toccarle i capelli, i soffici capelli bianchi, facendo del suo meglio per non piangere anche lui e tornando a ricordare... le emicranie, la nascita di Nancy, il giorno in cui aveva incontrato Phoebe Lambert all’agenzia, fresca, intimidita, inquietante nella sua innocenza, una ragazza come si deve e, diversamente da Cecilia, non offuscata dalla brutta storia di una caotica infanzia, ragionevole ed equilibrata in tutto, felicemente poco propensa alle sfuriate, ma senza essere affatto semplice: come spontaneità e naturalezza, la migliore che la Pennsylvania quacchera e il Swarthmore College potessero produrre. Ricordò quando gli recitava a memoria, senza ostentazione e in un impeccabile Middle English, il prologo dei Racconti di Canterbury, e le antiche e sorprendenti locuzioni che aveva preso dal rigido padre, cose come «Ci vorrà del bello e del buono per capirlo» e «Non sarebbe un’esagerazione dire», cosa che avrebbe potuto farlo innamorare di lei anche senza quella prima occhiata, quando l’aveva vista passare con aria decisa davanti alla porta aperta del suo ufficio, una ragazza dall’aria matura, l’unica in ufficio che non usasse il rossetto, alta e piatta, con i capelli biondi pettinati all’indietro per mostrare la lunghezza del collo e le orecchie delicate con i lobi piccoli da bambina. - Perché certe volte ridi di quello che dico? - gli chiese la seconda volta che lui la invitò a cena; - perché ridi quando io sono assolutamente seria? - Perché mi incanti tanto, e sembri così ignara del tuo fascino. - Ci sono tante cose da imparare, - disse lei mentre l’accompagnava a casa in taxi; quando lui rispose sottovoce, soffocando l’impulso che provava: - Ti insegnerò io, - fu costretta a coprirsi la faccia con le mani. - Sto arrossendo. Arrossisco, - disse. - Chi non arrossisce? - le disse lui, e credeva che fosse arrossita perché pensava che lui alludesse non all’argomento della conversazione - tutte le opere d’arte che non aveva mai visto - ma all’ardore sessuale, come in effetti stava facendo. Lui non pensava, in taxi, di mostrarle i Rembrandt del Metropolitan Museum, ma alle sue lunghe dita e alla sua bocca larga, anche se abbastanza presto l’aveva accompagnata non soltanto al Metropolitan ma anche al Modern, al Frick e al Guggenheim. Ricordava quando si era tolta il costume da bagno tra le dune, in un posto dove nessuno poteva vederli. Ricordava che più tardi, lo stesso pomeriggio, erano tornati indietro insieme a nuoto attraverso la baia. Ricordava come ogni cosa di questa donna candida e senza affettazione fosse così imprevedibilmente eccitante. Ricordava la nobiltà della sua dirittura morale. Anche a dispetto di sé, brillava. Ricordava di averle detto: «Non posso vivere senza di te», e la risposta di Phoebe: «Non me l’ha mai detto nessuno», e la sua ammissione: «Non l’avevo mai detto nemmeno io».

L’estate del 1967. Phoebe aveva ventisei anni.

 

* * *

 

Poi, il giorno dopo, arrivò la notizia riguardante gli ex colleghi, gli stessi uomini con cui lavorava e spesso andava a mangiare quando erano tutti all’agenzia. Uno era un creative supervisor di nome Brad Karr, che era stato ricoverato all’ospedale per una depressione con tendenza al suicidio; il secondo era Ezra Pollock, che a settant’anni aveva un cancro terminale; e il terzo, il suo capo, era un lucido e gentile capoccione che aveva in tasca gli account più redditizi dell’agenzia, che era quasi materno con i suoi favoriti, che aveva sofferto per anni di disturbi cardiaci e degli effetti di un colpo, e davanti al cui ritratto nella pagina dei necrologi del «Times» lui rimase a bocca aperta: «Clarence Spraco, consigliere di Eisenhower durante la guerra e innovatore della pubblicità, muore a 84 anni».

Telefonò subito alla moglie nella casa sulle montagne del Berkshire dove si erano trasferiti quando Clarence era andato in pensione.

- Pronto, Gwen, - disse.

- Ciao, caro. Come stai?

- Io sto bene. Tu come te la passi? - chiese.

- Bene. Sono arrivati i ragazzi. Ho molta compagnia. E molto aiuto. Ci sono tante cose che potrei dirti. In un certo senso, ero preparata, e in un certo senso non lo si è mai. Quando sono tornata a casa l’ho trovato morto sul pavimento, ed è stato uno choc terribile. Era morto da un paio d’ore. Sembra che fosse morto all’ora di pranzo. Io ero andata fuori a pranzo, eccetera. Sai, per lui è stata una bella fine. È stata una cosa improvvisa, e non ha avuto un altro colpo che lo avrebbe debilitato e costretto ad andare all’ospedale.

- È stato un ictus o un attacco cardiaco? - le chiese.

- È stato un infarto miocardico.

- Stava male?

- Be’, la pressione era... Be’, aveva un mucchio di problemi con la pressione. E poi sabato scorso non si sentiva molto bene. La pressione era tornata a salire.

- Non potevano tenerla sotto controllo con le medicine?

- La tenevano sotto controllo. Prendeva medicine di ogni genere. Ma probabilmente le sue arterie erano molto danneggiate. Arterie vecchie e malandate, sai, e viene il momento che il corpo si logora. Ed era così stanco, ormai. Solo un paio di sere fa mi ha detto: «Sono così stanco» Aveva voglia di vivere, ma non c’era più niente che si potesse fare per tenerlo ancora in vita. La vecchiaia è una battaglia, caro, se non per un motivo, per un altro. È una battaglia inesorabile, e proprio quando sei più debole e meno capace di fare appello alla tua combattività.

- C’era un bellissimo omaggio a lui oggi nel necrologio. Emergeva quanto fosse speciale. Vorrei aver avuto la possibilità di dire alcune cose sulla sua straordinaria capacità di riconoscere il valore delle persone che lavoravano con lui. Oggi ho visto il suo ritratto, - disse lui, - e mi è venuto in mente un giorno di tanti anni fa, un giorno in cui un cliente mi aveva invitato a pranzo al Four Seasons, e stavamo scendendo le scale che portavano nell’atrio quando abbiamo incontrato Clarence. E il mio cliente si sentiva espansivo e disse: «Clarence, come va? Conosci questo giovane art director?» E Clarence disse: «Certo. Grazie a Dio. E grazie a Dio lo conosce l’agenzia». Lo ha fatto tante volte, e non solo con me.

- Per te aveva la massima considerazione, caro. Era assolutamente sincero. Ricordo, - disse lei, - che ti mise gli occhi addosso quando eri all’agenzia da meno di un anno. Tornò a casa e mi parlò di te. Clarence aveva occhio per il talento creativo, e ti tirò fuori dalla gabbia e ti nominò art director prima che tu avessi scontato i lavori forzati alle brochure.

- Con me è stato generoso. L’ho sempre considerato «il Generale»

- Sotto Eisenhower era arrivato solo al grado di colonnello.

- Per me era un generale. Potrei raccontarti dozzine di cose che ora mi affollano la mente - Tra le quali. non c’era il consiglio che gli aveva dato Clarence: di scopare la segretaria a casa sua e non in ufficio.

- Sì, ti prego. Quando parli di lui, è come se fosse ancora qui, - disse Gwen.

- Be’, c’è stata quella volta che abbiamo lavorato come matti tutte le sere per due o tre settimane fin dopo mezzanotte, a volte fino alle due o alle tre del mattino, per la campagna della Mercedes Benz. Era una delle più grosse, e sgobbammo come facchini, e non ce l’aggiudicammo. Ma quando finimmo Clarence mi disse: «Voglio che tu e tua moglie andiate a Londra per un weekend lungo. Voglio che prendiate una camera al Savoy perché è il mio albergo preferito, e voglio che tu e Phoebe andiate a cena al Connaught. Offro io». A quei tempi era un grosso regalo, e ce lo fece anche se avevamo perso il cliente. Vorrei averlo potuto dire ai giornali, questo e tutte le storie come questa.

- Be’, la stampa è stata superba, - disse Gwen. - Persino quassú. C’era un articolo su di lui nel «Berkshire Eagle» di oggi. Era lungo, con un magnifico ritratto, e molto elogiativo. Attribuivano grande importanza a quello che aveva fatto in guerra e al fatto che era il più giovane colonnello dell’esercito. Credo che Clarence si sarebbe divertito, e che sarebbe soddisfatto dei riconoscimenti che ha ricevuto.

- Ti sento bene, per il momento.

- Be’, certo, ora va meglio... Sono occupata e ho tanta compagnia. La parte più difficile verrà quando sarò sola.

- Cosa intendi fare? Pensi di restare nel Massachusetts?

- Sì, per ora. Ne avevo parlato con Clarence. Gli avevo detto: «Se quella che rimane sono io, venderò la casa e tornerò a New York» Ma i ragazzi non vogliono che lo faccia, perché secondo loro dovrei darmi un anno di tempo.

- Forse hanno ragione. A volte la gente si pente delle cose che fa a caldo.

- Credo anch’io, - disse lei. - E Nancy come sta?

- Sta bene.

- Ogni volta che penso a Nancy da bambina, mi viene da sorridere. Era la vita bella e buona. Ricordo quando cantavate Smile in coro a casa nostra. Noi stavamo a Turtle Bay. Un pomeriggio di tanti anni fa. Gliel’avevi insegnata tu. Doveva avere sei anni compiuti. «Smile, tho your heart is aching...», come fa?, «smile even tho it’s breaking...» Le avevi comprato il disco di Nat «King» Cole. Ricordi? Io sì.

- Anch’io.

- E lei? E Nancy?

- Sono certo che se lo ricorda. Gwen, il mio cuore e i miei pensieri sono con te.

- Grazie, caro. Ha chiamato tanta gente. Il telefono squilla da due giorni. Tanta gente ha pianto, tanta gente mi ha detto cosa significava Clarence per loro. Se potesse vedere tutto questo... Sapeva quello che valeva per la società, ma sai, aveva bisogno anche lui delle stesse rassicurazioni di cui tutti hanno bisogno a questo mondo.

- Be’, è stato incredibilmente importante per tutti noi. Eh, ne parleremo ancora, - disse lui.

- Okay, caro. Ho molto apprezzato la tua telefonata.

 

* * *

 

Gli ci volle un po’ di tempo per recuperare una voce di cui potersi fidare con la quale parlare di nuovo al telefono. La moglie di Brad Karr gli diede il nome dell’ospedale psichiatrico di Manhattan dove Brad era ricoverato. Poté chiamare direttamente la sua camera, pensando a quella volta in cui avevano fatto insieme lo spot Tranche de vie del caffè Maxwell House, quando erano due ragazzi sulla ventina, all’inizio della carriera, accoppiati come copywriter e art director, e fecero saltare il banco al recall score del giorno dopo. Ottennero un 34, il punteggio più alto nella storia di Maxwell House. Era il giorno in cui il gruppo festeggiava il Natale e Brad, sapendo che Clarence sarebbe venuto, aveva fatto confezionare dal suo socio dei bottoni di cartone col numero 34, e tutti li portavano all’occhiello, e Clarence si fermò un momento per congratularsi con Brad e con lui e si mise anche un bottone, e da lì i due hanno spiccato il volo.

- Pronto, Brad? Il tuo vecchio amico chiama dalla costa del New jersey.

- Ehi. Ciao, bello.

- Che succede, ragazzo? Ho chiamato casa tua qualche minuto fa. Mi era venuta voglia di parlarti dopo tutto questo tempo, e Mary mi ha detto che eri all’ospedale. È così che ho avuto il tuo numero. Come te la passi?

- Be’, non me la passo male. Visto l’andazzo generale...

- Come ti senti?

- Be’, ci sono posti migliori.

- È brutto?

- Potrebbe essere peggio. Cioè, a quanto pare è fra quelli buoni. Non è male. Non lo raccomando per una vacanza, ma è andata bene.

- Da quanto tempo sei lì?

- Oh, da circa una settimana - Mary Karr gli aveva appena detto che era passato già un mese, e che era il secondo ricovero in un anno, e che tra l’uno e l’altro le cose non erano andate proprio bene. Brad parlava con molta lentezza e in tono esitante, forse a causa delle medicine che prendeva e la sua voce sembrava oppressa dalla disperazione. - Conto di uscire presto, - disse.

- Cosa si fa tutto il giorno?

- Oh, si ritagliano pupazzetti di carta. Cose così. Gironzolo per i corridoi. Cerco di non perdere il mio equilibrio mentale.

- Che altro?

- Faccio sedute di terapia. Prendo delle medicine. Mi sembra di essere il deposito di tutti i farmaci che puoi nominare. Oltre agli antidepressivi, c’è altra roba?

- Sì. Sono sedativi, per lo più. Non tranquillanti, antidepressivi. Funzionano, mi pare.

- Riesci a dormire?

- Oh, sì. All’inizio c’era un problemino, ma ora questa parte è sistemata.

- Parli con un medico durante il giorno?

- Sì - Brad rise, e per la prima volta sembrò proprio lui. - Non serve a niente. È gentile. Ti dice di farti coraggio e che andrà tutto bene.

- Bradford, ricordi quando ti sei incazzato con Clarence per qualche motivo e gli hai dato gli otto giorni? Io ti dicevo di non andare via. Tu dicevi: «Ma ho dato le dimissioni» «Ritirale», dicevo io. E tu l’hai fatto. Chi al posto di Clarence e quale altra agenzia avrebbe sopportato quella stronzata da parte di un copywriter? Due volte l’hai fatto, ricordo. E, ci sei rimasto altri dieci anni.

Era riuscito a farlo ridere di nuovo. Già. Sono sempre stato un po’ matto, - disse Brad.

- Abbiamo lavorato insieme per tanti anni. Quante ore abbiamo passato insieme, in silenzio, centinaia e centinaia, forse migliaia e migliaia di ore in silenzio nel tuo ufficio o nel mio cercando di risolvere un problema.

- Una cannonata, - disse Brad.

- Eccome. Eri tu la cannonata. E non dimenticarlo.

- Grazie, socio.

- E allora, quando esci? chiese a Brad.

- Quando credi che possa accadere?

- Be’, veramente non lo so. Credo sia questione di un paio di settimane. Da quando sono qui sono assai meno depresso di quando ero fuori. Mi sento quasi tranquillo. Credo che guarirò.

- Questa è una bella notizia. Ti richiamo. Spero di parlarti tra pochissimo in circostanze migliori.

- Okay. Grazie per la telefonata, - disse Brad. - Grazie mille. Sono molto contento che tu mi abbia chiamato.

Dopo avere riagganciato, si chiese: sapeva che ero io? Ricordava veramente ciò che ricordavo io? Dalla voce, non riesco proprio a immaginare che possa uscire da quell’ospedale.

Poi la terza telefonata. Non poteva non farla, anche se la notizia del ricovero di Brad e della morte di Clarence e la vista dei danni provocati dall’ictus di Phoebe gli avevano dato da pensare. Come quando Gwen gli aveva ricordato che aveva insegnato a Nancy a cantare Smile come Nat «King» Cole. Questa telefonata era a Ezra Pollock, che non doveva arrivare alla fine del mese ma che, sorprendentemente, quando rispose al telefono sembrava felice e contento e non meno ringalluzzito del solito.

- Ez, - disse lui, - come va? Sembri su di giri.

- Cerco di essere all’altezza perché la conversazione è il mio unico diversivo.

- E non sei depresso?

- Per nulla. Non ho il tempo di essere depresso. Sono concentratissimo - Ridendo, Ezra disse: - Vedo le persone come se fossero trasparenti.

- Te compreso?

- Sì, che tu ci creda o no. Ho lasciato perdere tutte le mie balle e finalmente sto venendo al sodo. Ho cominciato a scrivere i miei ricordi del mondo della pubblicità. Prima di andartene devi affrontare la realtà, campione. Se campo, scriverò qualcosa di buono.

- Be’, non dimenticarti di parlare di quando entravi nel mio ufficio e dicevi: «Okay, ecco una scadenza che ti getterà nel panico: domani, per prima cosa, voglio quello storyboard sulla scrivania»

- Funzionava, no?

- Eri diligente, Ez. Un giorno ti ho chiesto perché quel detersivo del cazzo non irritava le mani delicate delle signore. E tu mi hai dato venti pagine sull’aloe. Vinsi il premio degli art director per quella campagna, e fu grazie a quelle pagine. Avrebbe dovuto essere tuo. Quando starai meglio andremo a mangiare insieme e ti porterò la statuetta.

- Affare fatto, - disse Ez. - E i dolori come vanno? Ci sono dei dolori?

- Sì, ci sono, li ho. Ma ho imparato a tenerli a bada. Ho delle speciali medicine e cinque dottori. Cinque. Un oncologo, un urologo, uno specialista in medicina interna, un’infermiera per malati terminali e un ipnotizzatore che mi aiuta a combattere la nausea.

- La nausea di che, della terapia?

- Sì, e anche il cancro ti dà la nausea. Vomito abbondantemente.

- È la cosa peggiore?

- A volte mi sento come se stessi cercando di espellere la prostata.

- Non te la possono togliere?

- Non servirebbe a niente. È troppo tardi. Ed è una grossa operazione. Sono dimagrito. Ho pochi globuli rossi. Mi indebolirebbe molto e dovrei rinunciare anche alle cure. È una grossa bugia che si muova lentamente, - disse Ezra. - Si muove come un razzo. Non avevo niente alla prostata a metà giugno, ma a metà agosto era già troppo esteso per tagliarlo via. Si muove, altroché. Dunque, occhio alla prostata, ragazzo mio.

- Mi spiace che le cose stiano così. Ma sono lieto di sentirti parlare in questo modo. Sei sempre lo stesso, anzi, più che mai.

- Voglio solo buttar giù questi ricordi, - disse Ez. - Ne ho parlato abbastanza, ora li devo scrivere. Tutto quello che mi è capitato in questo lavoro. Se riuscirò a scrivere questi ricordi, avrò detto alla gente chi sono. Se riuscirò a scriverli, morirò con un sorriso sulle labbra. E tu, lavori bene? Sei contento? Dipingi? Dicevi sempre che lo avresti fatto. Lo fai?

- Sì, lo faccio. Tutti i giorni. È piacevole, - mentì lui.

- Be’, io non sono mai riuscito a scrivere questo libro, sai. Appena sono andato in pensione mi è venuto il blocco. Ma quando mi sono ammalato di cancro quasi tutti i miei blocchi se ne sono andati. Ora faccio quello che voglio.

- È una terapia brutale per il blocco dello scrittore.

- Già, - disse Ez, - credo di sì. Non la consiglio. Posso farcela, sai? Allora faremo quel pranzo e tu mi darai la statuetta. Se ce la faccio, i medici dicono che posso fare una vita normale.

Se aveva già un’infermiera per malati terminali, sembrava poco probabile che i medici avessero detto una cosa simile. Anche se forse l’avevano fatto per tirarlo su di morale, o forse lo aveva immaginato lui, o forse a parlare era solo l’arroganza, quella sua magnifica, inestirpabile arroganza.

- Be’, io tifo per te, Ez, - disse. - Se ti venisse voglia di parlarmi, ecco il mio numero - Glielo diede.

- Bene - disse Ezra.

- Sono sempre qui. Se ne hai voglia fallo, chiamami. A qualunque ora. D’accordo?

- Magnifico. Lo farò.

- Ottimamente. Benissimo. A presto.

- A presto. Ciao, - disse Ezra. - Lucida la statuetta.

Per ore dopo le tre telefonate consecutive - e dopo la prevedibile banalità e futilità dei suoi incoraggiamenti, dopo il tentativo di ravvivare il vecchio spirito cameratesco riesumando ricordi della vita dei colleghi, cercando di trovare cose da dire per fargli coraggio e tirarli su di morale - ciò che ebbe voglia di fare non fu solo telefonare e parlare con sua figlia, che trovò all’ospedale con Phoebe, ma ravvivare il proprio spirito telefonando e parlando con i suoi genitori. Ma ciò che aveva imparato era niente in confronto a quell’assalto furibondo e inevitabile che è la fine della vita. Fosse stato consapevole delle terribili sofferenze di ogni uomo e ogni donna che per caso aveva conosciuto in tutti i suoi anni di vita professionale, consapevole della storia dolorosa di rimpianti, di sconfitte e di stoicismo di ciascuno, storia di paura e di panico e di solitudine e terrore, se avesse saputo di tutte le cose da cui avevano dovuto infine separarsi, cose che un tempo per loro erano state di importanza vitale, e della sistematica distruzione che stavano subendo, avrebbe dovuto stare al telefono per tutto il giorno e fino a notte fonda, facendo almeno altre cento chiamate. La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro.

 

* * *

 

Quando si presentò nuovamente all’ospedale per l’annuo check-up delle carotidi, il sonogramma rivelò che adesso la seconda carotide era seriamente ostruita e richiedeva un intervento chirurgico. Quello sarebbe stato il settimo anno di fila in cui avrebbe dovuto essere ricoverato. La notizia lo fece sussultare - soprattutto perché quella mattina aveva saputo per telefono della morte di Ezra Pollock - ma almeno avrebbe avuto lo stesso chirurgo vascolare e l’operazione nello stesso ospedale, e questa volta la sapeva abbastanza lunga per non accontentarsi dell’anestesia locale e chiedere invece di farsi addormentare per tutta la durata dell’intervento. Cercò tanto di lasciarsi convincere dall’esperienza del primo intervento alla carotide che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che non volle dire a Nancy dell’operazione imminente, soprattutto mentre Nancy doveva ancora assistere sua madre. Fece però un vigoroso tentativo di rintracciare Maureen Mrazek, anche se in poche ore esaurì ogni indicazione di dove poteva trovarsi.

Rimaneva così solo Howie, al quale non telefonava da un po’ di tempo. Era come se, morti da un pezzo i loro genitori, dentro di lui si fossero scatenati impulsi di ogni genere prima messi al bando o solo inesistenti, e come se lo sfogarli, con la rabbia del malato - con la rabbia e la disperazione di un triste malato incapace di evitare la trappola più micidiale della lunga malattia, il peggioramento del proprio carattere - avesse distrutto l’ultimo anello che lo univa alle persone più care che aveva conosciuto. La sua prima storia d’amore era stata con suo fratello. L’unica cosa solida in tutta la sua vita era stata l’ammirazione per quest’uomo davvero buono. Aveva mandato in malora tutti i suoi matrimoni, ma da grandi, per tutta la vita, lui e suo fratello erano stati reciprocamente fedeli. A Howie non aveva mai dovuto chiedere nulla. E ora lo aveva perduto, e nello stesso modo aveva perduto Phoebe, facendosi del male con le sue stesse mani. Come se non fossero già ridotte quasi a zero le persone che per lui significavano qualcosa, aveva completato la dissoluzione della famiglia originaria. Ma dissolvere famiglie era la sua specialità. Non aveva forse privato tre figli di un’infanzia coesa e dell’affettuosa e costante protezione di un padre come quello che lui stesso aveva adorato, che era appartenuto esclusivamente a lui e Howie, un padre che era stato soltanto loro e di nessun altro?

Alla constatazione di tutto ciò che aveva spazzato via, per conto proprio, apparentemente senza valide ragioni e, peggio ancora, contro le sue intenzioni, contro la sua volontà alla constatazione della sua asprezza verso un fratello che mai una volta lo aveva trattato con asprezza, che non aveva mai mancato di consolarlo e venirgli in aiuto, e dell’effetto che le sue ripetute diserzioni avevano avuto sui suoi figli all’umiliante constatazione che si era degradato non soltanto fisicamente, diventando la persona che non voleva essere, cominciò a battersi il petto col pugno, colpendosi al ritmo dei rimproveri che si rivolgeva e mancando di millimetri il defibrillatore. In quel momento comprese, assai meglio di quanto avrebbero mai potuto fare Randy o Lonny, in che cosa consisteva la propria insufficienza. Quest’uomo in genere pacato ora si batteva furiosamente il pugno sul cuore come un fanatico immerso nella preghiera e, assalito dai rimorsi non soltanto per questo errore ma per tutti i suoi errori, tutti gli stupidi, inesorabili, inestirpabili errori che aveva commesso - travolto dalla miseria dei suoi limiti, ma comportandosi come se tutte le incomprensibili contingenze della vita fossero opera sua - disse ad alta voce: - Senza Howie! Finire così, anche senza di lui!

Nel ranch di Howie a Santa Barbara c’era un’accogliente foresteria per gli ospiti grande quasi come il suo appartamento nel condominio. Tanti anni prima lui, Phoebe e Nancy ci avevano abitato per due settimane, d’estate, mentre Howie e la sua famiglia erano in vacanza in Europa. La piscina era davanti alla porta, e i cavalli di Howie erano sulle colline, e la servitù aveva preparato i pasti e badato a loro. Dalle ultime notizie ricevute, uno dei figli di Howie - Steve, l’oceanografo - ci abitava temporaneamente con un’amica. Avrebbe avuto il coraggio di chiederglielo? Se la sarebbe sentita di dire a suo fratello che avrebbe voluto passare un paio di mesi nella casa per gli ospiti finché non fosse riuscito a capire dove e come andare a vivere? Se dopo l’intervento avesse potuto prendere un aereo per la California e godersi la compagnia di suo fratello durante la convalescenza...

Prese il telefono e fece il numero di Howie. Rispose la segreteria, e lui lasciò nome e numero. Circa un’ora dopo fu richiamato dal figlio minore di Howie, Rob. - I miei, disse Rob, - sono nel Tibet.

- Nel Tibet? Che ci fanno nel Tibet? - Era convinto che si trovassero a Santa Barbara e che Howie semplicemente non volesse rispondere al telefono.

- Papà doveva andare a Hong Kong per affari, credo a un consiglio di amministrazione, e la mamma lo ha accompagnato. Poi sono andati a visitare il Tibet.

- Ma li fanno entrare, gli occidentali, nel Tibet? - chiese lui al nipote.

- Oh, certo, - disse Rob. - Staranno via altre tre settimane. Devo dire qualcosa? Posso inviare un’email. Faccio così, quando telefona qualcuno.

- No, non occorre, - disse lui. - Come stanno i tuoi fratelli, Rob?

- Tutti bene. E tu?

- Tiro avanti, - disse lui, e riattaccò.

 

* * *

 

Be’, aveva collezionato tre divorzi, era un ex serial husband famoso per la sua devozione non meno che per i suoi errori e le sue malefatte, e avrebbe dovuto continuare ad arrangiarsi da solo. D’ora in poi avrebbe dovuto fare tutto da solo. Già a vent’anni, quando si considerava un conformista, e via via fino ai sessanta, aveva avuto da parte delle donne tutta l’attenzione che poteva desiderare; da quando si era iscritto all’accademia non era mai venuta meno. Sembrava che non fosse destinato ad altro. Ma poi era successo qualcosa di imprevisto, imprevisto e imprevedibile: era campato fin quasi a tre quarti di secolo, e la sua vita attiva, produttiva, era cessata. Non aveva più né il maschio allure dell’uomo produttivo né la capacità di far germinare le gioie virili, e ora si sforzava di non sentirne troppo la mancanza. Da solo, per qualche tempo aveva creduto che la componente mancante in qualche modo sarebbe ritornata per renderlo ancora una volta inviolabile e per ribadire il suo dominio, che il diritto annullato per errore sarebbe stato ripristinato, e che lui avrebbe potuto riprendere da dove si era interrotto solo qualche anno prima. Ora invece pareva che, come tutte le persone anziane, anche lui si trovasse nella fase in cui si diventa sempre meno, e che avrebbe dovuto arrivare alla fine dei suoi giorni vuoti così com’era: i giorni vuoti e le notti incerte e l’impotente rassegnazione al deterioramento fisico e alla tristezza finale e a quell’attesa che è l’attesa del nulla. È così che funziona, pensò, ecco ciò che non potevi sapere.

L’uomo che aveva attraversato a nuoto la baia con la madre di Nancy era arrivato dove non aveva mai sognato di arrivare. Era ora di tormentarsi per l’oblio. Era arrivato il futuro remoto.

 

* * *

 

Un sabato mattina, meno di una settimana prima dell’operazione - dopo una notte di sogni orribili in cui si era svegliato alle tre del mattino lottando per respirare e aveva dovuto accendere tutte le luci dell’appartamento per calmare le sue paure ed era riuscito ad assopirsi solo con la luce accesa - decise che gli avrebbe fatto bene andare a New York a trovare Nancy e i gemelli e a far visita nuovamente a Phoebe, che adesso era a casa con un’infermiera. Normalmente la sua deliberata indipendenza costituiva il fondamento della sua forza; era questo il motivo per cui poteva iniziare una nuova vita in un posto nuovo senza preoccuparsi di lasciarsi alle spalle amici e familiari. Ma da quando aveva abbandonato ogni speranza di vivere con Nancy o di stabilirsi da Howie gli sembrava di trasformarsi in una creatura infantile sempre più debole di giorno in giorno. Era l’imminenza del suo settimo anno di ricovero che stava distruggendo la sua sicurezza? Era la prospettiva di arrivare progressivamente a essere dominato da pensieri di medici e ospedali a esclusione di ogni altra cosa? O era la constatazione che a ogni soggiorno ospedaliero, ripercorrendo il tempo dall’infanzia fino all’operazione in arrivo, il numero delle presenze al suo capezzale diminuiva e l’esercito con cui aveva cominciato si era ridotto a zero? O era solo il presentimento dell’impotenza futura?

Ciò che aveva sognato era che giaceva, nudo, accanto a Millicent Kramer, la sua allieva. Abbracciava il suo freddo cadavere sul letto come aveva abbracciato Phoebe il giorno in cui l’emicrania era diventata così forte che il dottore era venuto a praticarle un’iniezione di morfina, che eliminava il dolore ma produceva terrificanti allucinazioni. Svegliandosi nel cuore della notte e accese tutte le luci, bevve un goccio d’acqua e spalancò una finestra e passeggiò nell’appartamento per ritrovare la stabilità, ma suo malgrado aveva in mente una cosa sola: come doveva essere stato uccidersi, per lei. L’aveva fatto di corsa, inghiottendo le pillole prima di cambiare idea? E alla fine, dopo averle prese, aveva gridato che non voleva morire, che semplicemente non poteva più affrontare dei dolori così paralizzanti, che voleva solo che i dolori cessassero, aveva pianto e urlato che voleva solo una cosa, che Gerald l’aiutasse e la esortasse a tener duro e le assicurasse che poteva sopportarli e che insieme ce l’avrebbero fatta? Era morta tra le lacrime, mormorando il suo nome? O aveva fatto tutto con calma, finalmente sicura che non stava commettendo un errore? Se l’era presa comoda, tenendo contemplativamente il flacone delle pillole tra le mani prima di vuotarsene il contenuto sulla palma e inghiottirle lentamente con l’ultimo bicchier d’acqua, sentendo per l’ultima volta il sapore dell’acqua sulla lingua? Era rassegnata e immersa nei suoi pensieri - si chiedeva - guardava con coraggio tutto ciò che si lasciava dietro, e magari sorrideva ricordando tra le lacrime tutte le gioie, tutte le cose che l’avevano soddisfatta e riempita di emozione, la mente colma di centinaia di momenti consueti che allora avevano avuto poca importanza ma che ora sembravano essere stati destinati apposta a riempire i suoi giorni di una banale felicità? O aveva perduto ogni interesse per le cose che si lasciava dietro? Non aveva dato segni di paura, pensando solo: «Finalmente il dolore se n’è andato, il dolore è passato, finalmente, e ora devo solo assopirmi per abbandonare questa cosa strabiliante?»

Ma come si fa a scegliere volontariamente di lasciare la nostra pienezza per quel nulla sconfinato? Come avrebbe fatto, lui? Poteva starsene tranquillamente lì sdraiato a dire addio? Aveva la forza di sradicare ogni cosa come Millicent Kramer? Quella donna aveva la sua età. Perché no? In una situazione come la sua, cosa cambia qualche anno in più o in meno? Chi oserebbe criticarla perché lascia precipitosamente la vita? Io devo, io devo, pensò, i miei sei stent mi dicono che un giorno, presto, dovrò intrepidamente dire addio. Ma lasciare Nancy... Non posso farlo! Cosa non poteva capitarle mentre andava a scuola! Sua figlia lasciata indietro senz’altra protezione paterna che il loro vincolo biologico! E lui privato per l’eternità delle sue telefonate mattutine! Si vedeva correre in tutte le direzioni contemporaneamente attraverso l’incrocio principale di Elizabeth - il padre fallito, il fratello invidioso, il marito fedifrago, il figlio impotente - e ad appena qualche isolato di distanza dalla gioielleria di famiglia si sentiva invocare tutti i nomi dei parenti più stretti sui quali non riusciva a guadagnare terreno per quanto perseverasse nell’inseguimento. «Mamma, papà, Howie, Phoebe, Nancy, Randy, Lonny... Se solo avessi saputo come fare! Mi sentite? Me ne vado! E finita, e vi lascio tutti qui!» E quelli, involandosi davanti a lui con la stessa rapidità con la quale lui si involava davanti a loro, voltavano appena la testa per gridare a loro volta, e fin troppo significativamente: «Troppo tardi!»

Me ne vado: le stesse parole che lo avevano svegliato, togliendogli il respiro e gettandolo nel panico, pronunciate da un uomo ancora vivo che abbracciava un cadavere.

 

* * *

 

A New York non arrivò mai. Mentre viaggiava verso nord sulla Jersey Turnpike gli venne in mente che a sud dell’aeroporto di Newark c’era l’uscita del cimitero dov’erano sepolti i suoi genitori, e quando l’ebbe raggiunto lasciò l’autostrada e segui la strada che serpeggiava attraverso un decrepito quartiere residenziale e poi oltre una vecchia e arcigna scuola elementare fino a sfociare in una malconcia traversa piena di camion che costeggiava i circa cinque acri di cimitero ebraico. All’altro capo del cimitero c’era una strada deserta dove gli istruttori di guida portavano gli allievi per insegnargli a fare le inversioni di marcia. Passò lentamente attraverso il cancello aperto irto di punte e parcheggiò davanti a un piccolo edificio che una volta doveva essere stato una casa di preghiera e adesso era un rudere fatiscente e cavo. La sinagoga che aveva gestito gli affari del cimitero era stata sciolta alcuni anni prima quando i suoi membri si erano trasferiti nei sobborghi delle contee di Union, Essex e Morris, e non sembrava che qualcuno si occupasse più di niente. Il terreno era cedevole e sprofondava intorno a molte tombe, e le pietre poste ai piedi delle tombe erano crollate dappertutto, e tutto ciò nemmeno nel cimitero originario dov’erano sepolti i suoi nonni, tra centinaia di lapidi annerite strette insieme, ma nei settori più nuovi dove le scritte incise nel granito risalivano alla seconda metà del ventesimo secolo. Non si era accorto di nulla quando si erano riuniti per seppellire suo padre. L’unica cosa che aveva visto allora era la bara posata sulle cinghie che attraversavano la fossa spalancata. Semplice e modesta com’era, riempiva il mondo intero. Vennero poi la brutalità della sepoltura e la bocca piena di polvere.

Nell’arco dell’ultimo mese era stato tra coloro che avevano assistito a due funerali in due diversi cimiteri della contea di Monmouth, entrambi un po’ meno squallidi di questo, e anche meno pericolosi. Negli ultimi decenni, a parte i vandali che danneggiavano e distruggevano le pietre tombali e i fabbricati dov’erano sepolti i suoi genitori, c’erano stati anche dei rapinatori che avevano battuto il cimitero. In pieno giorno aggredivano gli anziani che ogni tanto, soli o a coppie, venivano a passare un po’ di tempo su una tomba di famiglia. Durante la sepoltura di suo padre era stato informato dal rabbino che, se era solo, sarebbe stato più prudente visitare i suoi genitori nei giorni di punta delle festività religiose, quando il locale dipartimento di polizia, su richiesta di un comitato di consiglieri del cimitero, aveva acconsentito a fornire protezione agli osservanti che venivano a recitare i salmi appropriati e a ricordare i loro morti. Aveva ascoltato il rabbino e annuito, ma poiché non si annoverava tra i credenti, e tanto meno tra gli osservanti, e provava una forte avversione per i giorni di punta delle feste religiose, non avrebbe mai scelto di venire al cimitero in quel momento.

I defunti erano le due donne del suo corso di pittura che avevano il cancro ed erano morte a una settimana di distanza l’una dall’altra. C’era molta gente di Starfish Beach a questi funerali. Mentre si guardava intorno non poteva far a meno di chiedersi chi tra loro sarebbe stato il prossimo ad andarsene. Tutti pensano, un giorno o l’altro, che tra cent’anni nessuno di coloro che oggi sono vivi sarà ancora sulla terra: quella forza irresistibile ripulirà il pianeta. Ma lui ragionava in termini di giorni. Almanaccava come un uomo segnato.

A entrambi i funerali partecipò una donna anziana bassa e grassottella che piangeva così incontrollabilmente da sembrare qualcosa di più che una semplice amica delle defunte e invece, cosa impossibile, la madre di ambedue. Al secondo funerale singhiozzava, ritta a pochi passi da lui e dal grasso sconosciuto al suo fianco, che doveva essere il marito, anche se (o forse perché), con le braccia conserte e i denti stretti e il mento in aria, appariva stranamente scostante e lontano da lei, uno spettatore indifferente che non sopportava più quella persona. Se mai, sembrava che le lacrime della donna suscitassero più spocchioso disprezzo che interessata simpatia, perché a metà del funerale, mentre il rabbino intonava in inglese le parole del libro di preghiere, il marito si voltò spontaneamente e con impazienza gli disse: - Sa perché si comporta così? - Credo di sì, - rispose lui con un filo di voce, intendendo dire: perché per lei è com’è stato per me fin da ragazzo. Perché per lei è come per ognuno. Perché la più inquietante intensità della vita è la morte. Perché la morte è così ingiusta. Perché quando uno ha gustato il sapore della vita, la morte non sembra neppure una cosa naturale. Io credevo, dentro di me ne ero certo, che la vita durasse in eterno. - Ebbene, lei si sbaglia, - disse l’uomo seccamente, come se gli avesse letto nel pensiero. - Quella è sempre così. È così da cinquant’anni, - soggiunse con un cipiglio inesorabile. - È così perché non ha più diciotto anni.

 

* * *

 

I suoi genitori erano vicino al perimetro del cimitero, e ci volle un po’ di tempo per trovare le loro tombe accanto all’inferriata che separava l’ultima fila da una stretta traversa che sembrava un parcheggio di fortuna per i camionisti che facevano una sosta uscendo dall’autostrada. Negli anni passati dall’ultima volta che era stato lì aveva dimenticato l’effetto che gli faceva a prima vista la pietra tombale. Vide i due nomi incisi là sopra e fu sopraffatto dallo stesso tipo di singhiozzi che assalgono i bambini piccoli e li lasciano svuotati e senza energia. Evocò facilmente l’ultimo ricordo che aveva di ciascuno dei due - il ricordo dell’ospedale - ma quando cercò di evocare il primissimo ricordo, lo sforzo che fece per spingersi più indietro che poteva nel passato che avevano in comune sollevò un’altra ondata di emozione che lo travolse.

Erano ossa e basta, ossa dentro una bara, ma le loro ossa erano le sue ossa, e lui andò a mettersi più vicino a quelle ossa che poteva, come se la vicinanza potesse unirlo a loro e mitigare l’isolamento scaturito dalla perdita del futuro e ricollegarlo a tutto quello che se n’era andato. Per i novanta minuti successivi quelle ossa furono la cosa che contava di più. Furono l’unica cosa che contava, nonostante l’influenza dell’ambiente degradato dove sorgeva quel cimitero abbandonato. Una volta riunito a quelle ossa, non poteva più lasciarle, non poteva non parlare con loro, non poteva che ascoltare quello che dicevano. Tra lui e quelle ossa c’era un rapporto molto stretto, molto più stretto di quello che esisteva tra lui e le ossa non ancora spolpate. La carne si dilegua, ma le ossa durano. Le ossa erano l’unico conforto che esistesse per uno che non credeva nell’aldilà e sapeva con certezza che Dio era un’invenzione e che questa era l’unica vita che avrebbe mai avuto. Come Phoebe, da ragazza, avrebbe potuto dire quando si erano incontrati per la prima volta, non era un’esagerazione dire che oggi la gioia più grande che provava era al cimitero. Solo lì ci si poteva sentire appagati.

Non aveva l’impressione di fingere. Non stava cercando di fare in modo che qualcosa si avverasse. Questa era la verità, l’intenso rapporto che aveva con quelle ossa.

Sua madre era morta a ottant’anni, suo padre a novanta. Ad alta voce disse loro: - Ho settantun anni. Il vostro ragazzo ha settantun anni. - Bene. Hai vissuto, - rispose sua madre, e suo padre disse: - Voltati indietro ed espia le colpe che puoi espiare, e con quello che ti resta tira avanti meglio che puoi.

Non poteva andare via. La tenerezza che sentiva era incontrollabile. Come il desiderio irresistibile che fossero tutti ancora vivi. E che tutto potesse ricominciare da capo.

 

* * *

 

Stava riattraversando il cimitero per tornare all’automobile quando incontrò un nero che scavava una fossa con la vanga. L’uomo era dentro la fossa incompiuta fino al ginocchio, e smise di scavare e di buttare la terra di fianco allo scavo quando il visitatore si avvicinò. Portava una tuta scura e un vecchio berretto da baseball, e dal grigio che aveva nei baffi e dalle rughe sul viso dimostrava almeno cinquant’anni. Il suo fisico, però, era ancora solido e forte.

- Io credevo che lo facessero con una macchina, - disse lui al becchino.

- Nei grandi cimiteri, dove ci sono tante fosse da scavare, molte volte usano le macchine, è vero - Parlava come uno del sud, ma con molta cura, con molta precisione, più come un maestro pedante che come uno sterratore. - Io non uso macchine, - continuò il becchino, - perché potrebbero rovinare le altre tombe. Il terreno potrebbe cedere e schiacciare la cassa. E poi bisogna stare attenti alle lapidi. Nel mio caso è più comodo fare tutto a mano. Molto più ordinato. È più facile togliere la terra senza rovinare qualcos’altro. Io uso un trattore piccolissimo che posso manovrare facilmente, e scavo a mano.

Lui allora notò il trattore sul sentiero erboso tra le tombe. - Il trattore a cosa serve?

- Lo adopero per portare via la terra. Da tanto tempo faccio questo lavoro che so bene quanta terra bisogna portar via e quanta ne devo lasciare. I primi dieci carichi di terra li porto via. Quella che resta, l’ammucchiò sulle assi. Ci metto dei pannelli di compensato. Può vederle. La metto su tre pannelli di compensato, così la terra non finisce sull’erba. L’ultima parte la butto sulle assi. Per riempire la fossa, più tardi. Poi copro tutto con questo tappeto verde. Cerco di fare le cose per bene, per la famiglia. Così sembra che sia erba.

- Come si svolge il suo lavoro? Posso chiederglielo?

- Certo, - disse il becchino, sempre dentro la fossa, fermo nel punto dove stava scavando - Alla maggior parte della gente non importa. Per la maggior parte della gente, meno ne sanno meglio è.

- Io vorrei saperlo, - disse lui. Ed era vero. Non aveva voglia di andar via.

- Be’, ho una mappa. Mostra tutte le tombe che sono state vendute o scavate nel cimitero. Con la mappa si trova il lotto, comprato chissà quando, cinquant’anni fa, settantacinque anni fa. Una volta individuato, vengo qui con una sonda. Eccola là. Quei due metri di tondino, là per terra. Prendo questa sonda e l’affondo per un metro, ed è così che trovo la tomba più vicina. Toc... La tocchi e la senti. E poi prendo un bastone e segno sul terreno il posto della tomba nuova. Poi ho un telaio di legno che metto sul prato e che mi dà la misura della fossa. Prima prendo un tagliabordi e taglio il prato tutt’intorno. Poi lo faccio a pezzi, lo divido in zolle grandi come una piastrella, e le metto dietro la fossa, al riparo... Perché non voglio pasticciare dove fanno il funerale. Meno terra c’è, più facile è pulire. Non voglio lasciare niente in giro. Metto un pannello dietro la fossa, dove posso sistemare le zolle che trasporto col forcone. Le deposito a scacchiera com’erano dove le ho tolte. Per far questo ci vuole un’oretta. È la parte più difficile del lavoro. Una volta fatto questo, scavo. Porto qui il trattore, col rimorchio. Prima scavo. Come sto facendo adesso. Dove il terreno è più duro scava mio figlio, che è più forte di me. Lui comincia quando ho finito io. Se ha da fare o non è disponibile, faccio tutto da solo. Ma quando è qui, lascio sempre a lui la parte più faticosa. Ho cinquantotto anni, io. Non sono più forte come una volta. Quando ha cominciato, lo tenevo sempre qui con me, e scavavamo a turno. Era divertente, perché lui era giovane e io avevo il tempo di parlare con lui, noi due soli.

- Di cosa gli parlava?

- Non di cimiteri, - disse lui, con una gran risata. Non come adesso con lei.

- Allora di cosa?

- Delle cose in generale. La vita in generale. Comunque, io scavo la prima metà. Uso due vanghe, una quadrata quando scavare è facile e puoi tirare su più terra, e poi uso una vanga con la punta rotonda, una vanga normale. Quella che si usa per scavare normalmente, una vanga come tutte le altre. Se lo scavo non è difficile, soprattutto in primavera quando il terreno non è troppo duro, quando la terra è bagnata, uso la vanga grande e posso fare delle grandi palate e buttarle nel rimorchio. Scavo dalla testa ai piedi, e scavo a scacchiera, e lavorando uso il tagliabordi per pareggiare i bordi della fossa. Uso quello e un forcone diritto che chiamano forca per scavare. Uso quella anche per pareggiare, per darci sotto, tagliare i bordi e tenerli pareggiati. Devi pareggiarla mentre scavi. I primi dieci carichi vanno nel rimorchio, e io lo porto in un’area del cimitero dove il livello del terreno è basso e la stiamo colmando, quell’area, e ribalto il rimorchio, torno indietro, lo riempio di nuovo. Dieci carichi. A questo punto sono circa a metà strada. Circa un metro.

- E così, dall’inizio alla fine, quanto tempo ci vuole?

- Per fare la mia parte ci vogliono circa tre ore. Anche quattro, potrebbero essere. Dipende dallo scavo. Mio figlio è un bravo sterratore... Lui ci mette altre due ore e mezzo. È una giornata di lavoro. Io di solito arrivo verso le sei del mattino, e mio figlio verso le dieci. Ma lui è impegnato, adesso, e io gli dico che può farlo quando vuole. Se fa caldo, viene di sera, quando è più fresco. Con gli ebrei ci danno solo un giorno di preavviso, e bisogna spicciarsi. Al cimitero cristiano - indicò il grande cimitero che si estendeva in lungo e in largo dall’altro lato della stradale pompe funebri ci danno due o tre giorni di preavviso.

- E da quanto tempo lei fa questo lavoro?

- Trentaquattro anni. Molto tempo. È un buon lavoro. Tranquillo. Ti permette di riflettere. Ma il lavoro è tanto. Io comincio ad avere mal di schiena. Un giorno o l’altro passerò tutto a mio figlio. Lui prenderà il mio posto e io andrò dove fa caldo tutto l’anno. Perché, badi, io le ho parlato solo della fossa da scavare. Poi bisogna venire a riempirla. Per questo ci vogliono tre ore. Rimettere a posto il prato, eccetera. Ma torniamo a quando si scava la fossa. Mio figlio ha finito. L’ha pareggiata ai lati e spianata sul fondo. È profonda un metro e ottanta, fatta bene, ci potresti saltar dentro. Come diceva il vecchio con cui lavoravo una volta, il fondo dev’essere abbastanza piano per sistemarci un letto. Io ridevo di lui quando diceva così. Ma è vero: hai scavato questa fossa, un metro e ottanta di profondità, e dev’essere tutto in ordine, per la famiglia e per il morto.

- Le spiace se sto qui a guardare?

- Per niente. Il terreno è buono. Niente sassi. Si va giù che è un piacere.

Lo guardò mentre affondava la vanga e sollevava una palata di terra e la rovesciava con disinvoltura sulle assi. Ogni quattro o cinque minuti usava i rebbi del forcone per pareggiare i lati e poi sceglieva una delle due vanghe per rimettersi a scavare. Ogni tanto un sassolino cadeva sulle assi, ma quella che usciva dalla fossa era per lo più una terra umida e bruna che lasciando la vanga si sbriciolava facilmente.

Lui si teneva da un lato della lapide dietro la quale il becchino aveva steso i quadrelli del tappeto erboso che poi avrebbe rimesso sulla tomba. Il tappeto si adattava perfettamente al pannello di compensato sul quale erano posate le zolle. E lui non aveva più voglia di andarsene, non mentre solo voltando la testa poteva vedere la lapide dei suoi genitori. Non voleva andare più via.

Indicando la pietra tombale, il becchino disse: - Questo qui ha combattuto nella seconda guerra mondiale. Prigioniero di guerra in Giappone. Una persona davvero perbene. Lo conoscevo da quando veniva a trovare la moglie. Una persona perbene. Sempre gentile. Se ti impantanavi con la macchina, era il tipo che ti tirava fuori.

- Lei dunque conosce alcune di queste persone. - Certo. C’è un ragazzo, qui, di diciassette anni. Morto in un incidente stradale. I suoi amici vengono a mettergli delle lattine di birra sulla tomba. O una canna da pesca. Gli piaceva andare a pescare.

Staccò un grumo di terra dalla vanga battendola su un’asse e riprese a scavare. - Ohi, - disse, guardando verso la strada in fondo al cimitero, - eccola che viene, - e mise immediatamente da parte la vanga e si tolse i sudici guanti da lavoro gialli. Per la prima volta uscì dalla fossa e batté le logore scarpe da lavoro l’una contro l’altra per staccare la terra che si era incrostata alle suole.

Un’anziana donna nera si stava avvicinando alla fossa aperta tenendo una piccola borsa termica a scacchi in una mano e un termos nell’altra. Aveva un paio di scarpe da ginnastica, un paio di calzoni di nylon dello stesso colore dei guanti da lavoro del becchino e una giacca a vento blu con la cerniera lampo della squadra dei New York Yankees.

Il becchino le disse: - Questo è un gentile signore che è venuto a trovarmi stamattina. Lei annuì e gli porse la borsa e il termos, che lui depose accanto al trattore. - Grazie, gioia. Arnold dorme ancora? - Si è alzato, - disse lei. - Te ne ho fatti due col polpettone e uno con la mortadella. - Bene. Grazie.

La donna fece un altro piccolo inchino e poi si voltò e uscì dal cimitero, dove sali in macchina e si allontanò. - Sua moglie? - chiese lui al becchino. - Quella è Thelma - Sorridendo, l’uomo aggiunse: - La mia nutrice. - Non è sua madre. - Oh, no, no... Nossignore, - disse il becchino con una risata, - Thelma no. - E non le secca venire qui? - Uno deve fare il suo dovere. Ecco, in breve, la sua filosofia. Per Thelma, tutto si riduce a una buca da scavare. Non è niente di speciale, per lei. - Lei vorrà mangiare in pace, e così la lascio e me ne vado. Ma volevo farle una domanda: mi chiedevo se ha scavato lei le tombe dei miei genitori. Sono sepolti laggiù. Gliele faccio vedere.

Il becchino lo seguì fino a un punto del sentiero dal quale si poteva vedere chiaramente il luogo dove sorgeva la lapide della famiglia.

- Le ha scavate lei? - gli chiese.

- Certo, le ho fatte io, - disse il becchino.

- Be’, volevo ringraziarla. La ringrazio per tutto quello che mi ha raccontato e per la sua chiarezza. Non avrebbe potuto essere più concreto. È una buona lezione per una persona anziana. La ringrazio per la sua concretezza, e la ringrazio per essere stato così attento e premuroso quando ha scavato le tombe dei miei genitori. Mi chiedevo se potrei darle qualcosa.

- Ho ricevuto il mio compenso allora, grazie. - Sì, ma vorrei darle qualcosa per lei e per suo figlio. Mio padre diceva sempre: «E meglio dare quando la tua mano è ancora calda» - Gli allungò due biglietti da cinquanta, e mentre la palma larga e incallita del becchino si chiudeva sulle banconote lo guardò da vicino, scrutando attentamente la faccia rugosa e gioviale e la pelle butterata del nero baffuto che un giorno o l’altro avrebbe forse scavato per lui una fossa dal fondo abbastanza piano per sistemarvi un letto.

 

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Nei giorni che seguirono doveva solo pensare nostalgicamente a loro per evocarli, e non solo i genitori d’ossa dell’uomo anziano, ma quelli di carne del ragazzo ancora in boccio, sull’autobus diretto all’ospedale con L’isola del tesoro e Kim nella borsa che sua madre teneva sulle ginocchia. Un ragazzo ancora in boccio, ma che grazie alla presenza di sua madre non mostrava la paura e seppelliva in un angolo della mente tutti i pensieri sul corpo gonfio del marinaio che la guardia costiera aveva rimosso dall’orlo della spiaggia coperta di nafta.

 

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Un mercoledì mattina di buonora andò a farsi operare alla carotide destra. La procedura era esattamente la stessa dell’intervento alla carotide sinistra. Aspettò il suo turno in anticamera con tutti gli altri pazienti in programma finché non chiamarono il suo nome, e nel camice leggerissimo e nelle pantofole di carta venne accompagnato in sala operatoria da un’infermiera. Questa volta, quando l’anestesista mascherato gli chiese se voleva l’anestesia locale o generale, scelse l’anestesia generale, per rendere l’operazione più sopportabile della prima volta.

Le parole pronunciate dalle ossa lo facevano sentire allegro e indistruttibile. così pure il sudato controllo dei suoi pensieri più cupi. Nulla poteva estinguere la vitalità di quel ragazzo dal corpo liscio come un piccolo siluro che un tempo, arrivato a cento metri dalla costa nell’oceano tempestoso, si lasciava portare a riva dai cavalloni dell’Atlantico. Oh, che abbandono, e che odore d’acqua salata e che sole cocente! La luce del giorno, pensò, penetrava dappertutto, estati piene di quella luce dardeggiante da un mare sempre in moto, un tesoro visivo così vasto e prezioso che attraverso la lente da gioielliere con incise le iniziali di suo padre gli sembrava di guardare il pianeta stesso, perfetto e inestimabile: la sua casa, il pianeta Terra da un miliardo, un miliardo di miliardi, un quadrilione di carati! Perse conoscenza sentendosi tutt’altro che abbattuto, tutt’altro che condannato, ancora una volta impaziente di realizzare i propri sogni, ma ciò nonostante non si svegliò più. Arresto cardiaco. Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio.