Quando la distruzione di Israele ebbe inizio, Isaac Bloch stava meditando se suicidarsi o trasferirsi alla Casa ebraica. Aveva vissuto in un appartamento rivestito di libri fino al soffitto, con tappeti così folti da inghiottire dadi; poi in una stanza e mezza con il pavimento in terra battuta; su pavimenti di foresta sotto stelle incuranti; sotto le assi del pavimento di un cristiano che, a distanza di mezzo mondo e tre quarti di secolo, sarebbe stato ricordato con un albero piantato nel Giardino dei Giusti; in una buca, per tanti di quei giorni che le sue ginocchia non sarebbero mai più riuscite a distendersi del tutto; tra zingari e partigiani e polacchi non troppo disonesti; in campi di transito, di rifugiati e di profughi; su una nave, con una bottiglia con una nave dentro, miracolosa costruzione di un agnostico insonne; dall’altro lato di un oceano che non avrebbe mai completamente attraversato; sopra una mezza dozzina di negozi di alimentari che si era ammazzato a sistemare e rivendere con un profitto minimo; accanto a una donna che ricontrollava le serrature fino a romperle e che era morta di vecchiaia a quarantadue anni senza una sillaba di lode in gola, ma con le cellule della madre assassinata che ancora le si dividevano nel cervello; e infine, nell’ultimo quarto di secolo, in una casetta a due piani a Silver Spring, silenziosa come un globo di neve: un librone fotografico di Roman Vishniac che ingialliva sul tavolino del soggiorno; Nemici. Una storia d’amore che si smagnetizzava nell’ultimo videoregistratore funzionante al mondo; insalata di uova che diventava influenza aviaria in un frigorifero mummificato in un involucro di fotografie di pronipoti splendidi, geniali, senza tumori.Gli orticoltori tedeschi avevano potato l’albero genealogico di Isaac fino alle sue radici nel suolo galiziano. Ma grazie a fortuna e intuito e senza aiuti dall’alto, lui lo aveva trapiantato nei marciapiedi di Washington, D.C., ed era vissuto fino a vederne ricrescere i rami. E a meno che l’America non si fosse messa contro gli ebrei – o fino a quando, l’avrebbe corretto suo figlio Irv – l’albero avrebbe continuato a produrre rami e germogli. Naturalmente Isaac sarebbe stato di nuovo in una fossa, a quel punto. Non avrebbe mai raddrizzato le ginocchia, ma alla sua ignota età, dopo chissà quanti oltraggi chissà quanto vicini, era ora di disserrare i suoi pugni ebraici e ammettere l’inizio della fine. La distanza che separa l’ammettere dall’accettare è la depressione. Anche a prescindere dalla distruzione di Israele, la tempistica non era propizia: mancavano poche settimane al Bar Mitzvah del suo primo pronipote, che Isaac aveva fissato come traguardo della propria vita dopo aver varcato il traguardo precedente, la nascita dell’ultimo pronipote. Ma non si può stabilire quando l’anima di un vecchio ebreo lascerà libero il suo corpo e il corpo lascerà libera l’ambita stanza singola per il prossimo corpo in lista d’attesa. E neppure si può affrettare o rinviare il raggiungimento dell’età adulta. E d’altra parte, l’acquisto di una decina di biglietti aerei non rimborsabili, la prenotazione di un pacchetto di stanze al Washington Hilton, il versamento di ventitremila dollari di acconti e anticipi per un Bar Mitzvah che è in calendario dalle ultime Olimpiadi invernali non possono garantire che si farà.Un gruppo di ragazzini ciondolava per i corridoi dell’Adas Israel ridendo, spingendosi, sangue che galoppava da cervelli immaturi a genitali immaturi e ritorno in quel gioco a somma zero che è la pubertà. «Oh, sul serio» disse uno, con la seconda s che gli s’impigliava nell’apparecchio per i denti. «L’unico vantaggio dei pompini è che ci guadagni una sega umida.»«Parole sante.» «Per il resto è come scoparsi un bicchiere d’acqua con i denti.» «Che non ha senso» disse uno dalla testa rossa a cui metteva ancora i brividi pensare a cose come l’epilogo di Harry Potter e i Doni della Morte. «Nichilista.» Se Dio esisteva e giudicava, avrebbe perdonato tutto a questi ragazzini, sapendo che dentro di loro erano alla mercé di forze esterne a loro e che anch’essi erano fatti a Sua immagine e somiglianza. Silenzio mentre rallentavano per guardare Margot Wasserman che beveva a una fontanella. Si diceva che i suoi genitori parcheggiassero due macchine fuori dal loro garage da tre posti perché ne avevano cinque. Si diceva che il suo Pomerania avesse ancora le balle, e che balle. «Porca miseria, quanto vorrei essere quella fontanella» disse un ragazzo il cui nome ebraico era Peretz-Yitzchak. «Io vorrei essere la parte mancante di quel tanga aperto.» «Io vorrei riempirmi il cazzo di mercurio.» Pausa. «E questo che diavolo vuol dire?» «Sai» disse Marty Cohen-Rosenbaum, nato Chaim ben Kalman, «come... trasformare il cazzo in un termometro.»
Non eccomi
Felicità
Una mano grande come la tua, una casa grande come questa
ma non te lo meriti ancora
voglio vederti bagnata fino al buco del culo
tra le tue labbra strette?
che mi implorerai di smettere
Non eccomi
Epitome
«Papà?» disse Benjy, entrando di nuovo in cucina, con la nonna a ruota. Diceva sempre papà con il punto interrogativo, come per chiedere dov’era suo padre.
«Sì, tesoro?»
«Quando hai fatto la cena ieri sera, i miei broccoli toccavano il pollo.»
«E ti è venuto in mente adesso?»
«No. Tutto il giorno.»
«Tanto si mischia tutto nello stomaco» disse Max dalla porta.
«Da dove sei sbucato?» chiese Jacob.
«Dalla vagina di mamma» disse Benjy.
«E tanto morirai comunque» proseguì Max, «quindi chi se ne frega di cosa tocca il pollo, che comunque è morto.»
Benjy si rivolse a Jacob: «È vero, papà?»
«Che cosa?»
«Che morirò?»
«Perché, Max? Che bisogno c’era?»
«Morirò!»
«Tra molti, moltissimi anni.»
«Cambia qualcosa?» chiese Max.
«Potrebbe essere peggio» disse Irv. «Potresti essere Argo.»
«Perché sarebbe peggio essere Argo?»
«Sai, ha già una zampa nella fossa.»
Benjy emise un guaito straziante e proprio in quel momento, come trasportata da un raggio di luce ovunque fosse stata, Julia aprì la porta e corse dentro.
«Che succede?»
«Che ci fai a casa?» chiese Jacob, trovando tutto insopportabile in quel momento.
«Papà dice che morirò.»
«In realtà» disse Jacob con una risata forzata, «quello che stavo dicendo è che avrai una vita lunga, molto lunga, lunghissima.»
Julia si prese Benjy sulle ginocchia e disse: «Ma certo che non morirai».
«Allora fai due burritos surgelati» disse Irv.
«Ciao, cara» disse Deborah a Julia. «Si cominciava a sentire una certa carenza di estrogeni, qui dentro.»
«Perché mi sono fatto una bua, mamma?»
«Non hai nessuna bua» disse Jacob.
«Sul ginocchio» disse Benjy, indicando niente, «qui.»
«Sarai caduto» disse Julia.
«Perché?»
«Non c’è nessunissima bua.»
«Perché cadere fa parte della vita» gli disse Julia.
«È l’epitome della vita» disse Max.
«Che bella parola, Max.»
«Epitome?» chiese Benjy.
«Essenza della» disse Deborah.
«Perché cadere è l’epitome della vita?»
«Non lo è» disse Jacob.
«La terra non fa che cadere verso il sole» disse Max.
«Perché?» chiese Benjy.
«Per la gravità» disse Max.
«No» disse Benjy, rivolgendo la domanda a Jacob: «Perché non è cadere l’epitome della vita?»
«Perché non lo è?»
«Sì.»
«Non sono sicuro di capire la tua domanda.»
«Perché?»
«Perché non sono sicuro di capire la tua domanda?»
«Sì, quello.»
«Perché questa conversazione è sempre più confusa e perché io sono solo un essere umano con un’intelligenza molto limitata.»
«Jacob.»
«Sto morendo!»
«Stai esagerando.»
«A me non mi pare!»
«Non si dice a me mi.»
«A me non mi pare.»
«Non mi pare, Benjy.»
Deborah: «Dagli un bacino, Jacob».
Jacob diede un bacio alla bua inesistente di Benjy.
«Io posso sollevare il nostro frigorifero» disse Benjy, non del tutto sicuro di essere pronto a smetterla di piangere.
«Che meraviglia» disse Deborah.
«Ma figurati se puoi» disse Max.
«Max dice ma figurati se posso.»
«E lascialo stare!» sussurrò Jacob a Max a un volume troppo alto. «Se dice che può sollevare il frigo, può sollevare il frigo.»
«Posso portarlo lontano lontano.»
«Da qui in poi me ne occupo io» disse Julia.
«Io posso controllare il microonde con la mente» disse Max.
«Non serve» disse Jacob a Julia, con troppa disinvoltura per essere credibile. «Ce la stiamo cavando alla grande. Ci siamo proprio divertiti. Sei solo arrivata in un momento no. Poco indicativo. Ma è tutto magnifico e questa è la tua giornata.»
«Libera da cosa?» chiese Benjy a sua madre.
«Cosa?» chiese Julia.
«Da cosa ti serve una giornata libera?»
«Chi ha detto che ho bisogno di una giornata libera?»
«Papà.»
«Ho detto che ti stavamo dando una giornata libera.»
«Ma libera da cosa?» chiese Benjy.
«Esatto» disse Irv.
«Da noi, ovvio» disse Max.
Tutta quella sublimazione: la prossimità domestica era diventata distanza intima, la distanza intima era diventata vergogna, la vergogna era diventata rassegnazione, la rassegnazione era diventata paura, la paura era diventata risentimento, il risentimento era diventato autodifesa. Julia pensava spesso che se fossero riusciti a risalire alla vergogna originaria – alla fonte del loro tenersi le cose dentro – avrebbero potuto ritrovare davvero la sincerità. Era stato l’incidente di Sam? La domanda mai pronunciata su come fosse successo? Lei aveva sempre dato per scontato che si stessero proteggendo a vicenda con quel silenzio, ma se invece stavano cercando di ferire, di trasferire la ferita da Sam a loro stessi? O era una questione più vecchia? Si tenevano le cose dentro da prima di incontrarsi? Questa convinzione avrebbe cambiato tutto.
Il risentimento che era paura, che era rassegnazione, che era vergogna, che era distanza, che era vicinanza, era un peso troppo gravoso da portare tutto il giorno, tutti i giorni. Quindi dove scaricarlo? Sui bambini, naturalmente. Jacob e Julia erano entrambi colpevoli, ma Jacob di più. Era diventato sempre più brusco con loro, perché sapeva che loro avrebbero incassato. Faceva lo scorbutico, perché sapeva che loro non l’avrebbero ricambiato con la stessa moneta. Aveva paura di Julia, ma di loro non aveva paura, per cui trattava loro come non riusciva a trattare lei.
«Basta!» disse Jacob a Max, con la voce che si faceva ringhio. «Basta.»
«Basta lo dico io» disse Max.
Gli sguardi di Jacob e Julia si incrociarono, registrando che era la prima volta che rispondeva.
«Scusa?»
«Niente.»
Jacob sbottò: «Non ho intenzione di discutere di niente con te, Max. Sono stufo di discutere. Discutiamo troppo in questa famiglia».
«E chi discute?» chiese Max.
Deborah andò da suo figlio e disse: «Fai un bel respiro, Jacob».
«Ne faccio anche troppi di respiri.»
«Andiamo di sopra un minuto» disse Julia.
«No. Questo lo facciamo noi con loro. Non lo fai tu con me.» Poi rivolto a Max: «A volte, nella vita, in una famiglia, devi solo fare la cosa giusta senza cercare continuamente il pelo nell’uovo e poi spaccarlo in quattro. Si va avanti col programma».
«Sì, avanti col pogrom» disse Irv, facendo il verso a suo figlio.
«Papà, smettila. Va bene?»
«Io posso sollevare tutta la nostra cucina» disse Benjy, toccando il braccio di suo padre.
«Le cucine non si possono sollevare» disse Jacob.
«Invece sì.»
«No, Benjy. Non si può.»
«Sei fortissimo» disse Julia, avvolgendogli i polsi con le dita.
«Incenerito» disse Benjy. E poi in un bisbiglio: «Io posso alzare la nostra cucina».
Max guardò sua madre. Lei chiuse gli occhi, non volendo o non sapendo proteggerlo come aveva appena fatto con il suo fratello minore.
Un provvidenziale litigio tra cani portò tutti alla finestra. Non era un litigio, in realtà, erano solo due cani che abbaiavano a uno scoiattolo spavaldo su un ramo. Comunque, provvidenziale. Quando la famiglia riprese posizione in cucina, dagli ultimi dieci minuti parevano trascorsi dieci anni. Julia si scusò e salì a farsi la doccia. Non si faceva mai la doccia a metà della giornata e si sorprese per la forza della mano che la condusse di sopra. Passando davanti alla camera di Sam sentì degli effetti audio – era evidente che non stava osservando il primo comandamento del suo esilio – ma non si fermò.
Chiuse a chiave la porta del bagno, posò la borsa, si spogliò e si esaminò allo specchio. Allungando il braccio in alto, poteva seguire una vena che le correva di traverso sotto il seno destro. Le si era infossato il torace, le era venuta la pancetta. Era stata una serie di cambiamenti minuscoli, impercettibili. La riga di peli pubici che le arrivava alla pancia si era scurita, la pelle stessa sembrava più scura. Non era una novità, niente di tutto questo, era un processo; Julia aveva osservato e sentito l’indesiderato rinnovamento del suo corpo almeno dalla nascita di Sam: l’espansione e successivo rattrappimento dei suoi seni, le cosce rilassate a buccia d’arancia, l’adagiarsi di tutto quello che era stato sodo. Jacob le aveva detto, la seconda volta che erano stati nell’albergo in Pennsylvania e in altre occasioni, che amava il suo corpo esattamente com’era. Ma anche se gli credeva, alcune notti sentiva il bisogno di scusarsi con lui.
E poi ricordò. Certo che ricordò: era stato messo lì perché lei lo ricordasse in quel momento. Prima non l’aveva capito. Non aveva capito perché lei, che non aveva mai rubato niente in vita sua, stesse rubando. Ma ecco il perché.
Alzò un piede appoggiandolo al lavandino e si portò il pomello alla bocca, scaldandolo e umettandolo con il fiato. Scostò le labbra del suo sesso e vi premette contro il pomello facendolo ruotare, prima con delicatezza, poi sempre meno. Fu attraversata da una prima ondata di piacere e sentì le gambe molli. Si accovacciò come un ricevitore sul campo da baseball, tirò in giù la scollatura per scoprire un seno, poi umettò di nuovo il pomello con la lingua e lo riposizionò sul sesso, premendolo con minuscoli movimenti circolari contro il clitoride, poi esercitando solo piccole pressioni, e le piaceva come il metallo intiepidito cominciava ad appiccicarsi alla pelle, tirando un po’ ogni volta.
Era a quattro zampe. No. Era in piedi. Dov’era? Fuori. Sì. Appoggiata alla sua macchina. In un parcheggio. In un campo. No, piegata, la metà superiore del corpo sul sedile posteriore della macchina, i piedi per terra. Pantaloni e mutande abbassati giusto a scoprirle il culo. La faccia premuta sul sedile e il sedere che sporgeva all’infuori. Gambe aperte quanto era possibile con i pantaloni. Le voleva strette. Voleva che fosse difficile. Potevano sorprenderli in qualunque momento. Devi sbrigarti, gli disse. A chi? Scopami duro. Era Jacob. Fammi godere. Scopami come vuoi, Jacob, e poi vai via. Lasciami qui con la tua sborra che mi cola tra le cosce. Scopami e vattene. No. Era cambiato. Adesso era nel negozio di maniglie su misura. Niente uomini. Solo maniglie e pomelli. Piantò il pomello sul clitoride, leccò tre dita e se le fece scivolare dentro per sentire le contrazioni dell’orgasmo.
Sentì un tonfo improvviso, come l’atterraggio violento che qualche volta la faceva sobbalzare riscuotendola dal dormiveglia. Ma non era quello: non era lei che si schiantava sul pavimento, era qualcosa che si schiantava su di lei. Che diavolo stava succedendo? Possibile che le fosse affluito troppo sangue verso l’inguine troppo in fretta, provocando un qualche evento neurologico? La masturbazione era un esercizio mentale, ma di colpo si ritrovava in balia della propria mente.
Attraverso la bara di pino vedeva Sam sopra di lei, così bello nel suo completo, con una pala in mano. Non era una sua scelta. Non le dava piacere. Che bel ragazzo. Che bell’uomo. Va tutto bene, amore. Bene, bene, bene. Lei gemette e lui guaì, tutti e due animali. Lui prese un’altra palata di terra e gliela rovesciò sopra. Quindi è così che succede. Ora so, e niente sarà diverso.
E poi Sam se ne andò.
E Jacob e Max e Benjy con lui.
Tutti i suoi uomini se ne andarono.
E arrivò altra terra, questa volta dalle pale di estranei, quattro alla volta.
E poi anche quelli se ne andarono.
E lei rimase sola, nella casa più minuscola della sua vita.
Fu riportata al mondo, alla vita, da un ronzio che la riscosse dalle sue fantasie involontarie, e fu colpita dalla totale assurdità di quello che stava facendo. Chi pensava di essere? I suoceri di sotto, il figlio dall’altra parte del corridoio, più soldi sul fondo pensione che sul conto in banca. Non provò vergogna; si sentì stupida.
Un altro ronzio.
Non riusciva a localizzare da dove venisse.
Era un cellulare, ma quella vibrazione non l’aveva mai sentita.
Jacob aveva preso uno smartphone a Sam per sostituire quella baracca di seconda mano che aveva usato nell’ultimo anno per digitare messaggi alla velocità di Joseph Mitchell in pieno blocco dello scrittore? Avevano parlato della possibilità di prendergliene uno per il Bar Mitzvah, ma mancava ancora qualche settimana ed era stato prima che Sam si mettesse nei pasticci e comunque avevano escluso l’idea. C’erano già troppe cose che risucchiavano tutti lontano, in un rumoroso altrove. L’esperimento con Other Life aveva in pratica sequestrato la vita cosciente di Sam.
Sentì il ronzio.
Cercò nel cestino di vimini pieno di cianfrusaglie varie, nell’armadietto delle medicine: bottigline e bottigliette di Advil, acetone, assorbenti interni bio, Aquaphor, acqua ossigenata, alcol isopropilico, Benadryl, Neosporin, Polysporin, Nurofen per bambini, Sudafed, Purell, Imodium, Colace, Amoxicillina, Aspirina, Triamcinolone acetonide crema, Lidocaina crema, Dermoplast spray, supposte Debrox, soluzione fisiologica, Bactroban crema, filo interdentale, lozione alla vitamina E... tutte le cose di cui i corpi potrebbero avere bisogno. Quand’era che i corpi avevano sviluppato così tanti bisogni? Per anni lei non aveva avuto bisogno di nulla.
Sentì il ronzio.
Dov’era? Si sarebbe potuta convincere che veniva dall’appartamento dei vicini, al di là del muro, o persino che se l’era immaginato, ma vibrò di nuovo, e questa volta riuscì a individuarne la provenienza, l’angolo, sul pavimento.
Si mise in ginocchio. Il cestino delle riviste? Dietro il water? Fece girare la mano intorno alla tazza e non appena l’ebbe toccato lo sentì vibrare di nuovo, come per restituirle il contatto. Di chi era? Una vibrazione finale: una chiamata persa daJULIA.
Julia?
Ma era lei, Julia.
che fine hai fatto?
n-o-n-6-q-u-e-l-l-a-g-i-u-s-t-a
Sam sapeva che tutto sarebbe andato in rovina, solo che non sapeva esattamente come e quando. I suoi genitori avrebbero divorziato e avrebbero finito per odiarsi a vicenda e spargere distruzione come quel reattore nucleare giapponese. Questo era chiaro, anche se forse non a loro. Sam aveva provato a non fare caso alle loro vite, ma era impossibile ignorare quante volte papà si addormentava di fronte all’assenza di notizie, quante volte mamma si ritirava a potare gli alberi dei suoi plastici, o che papà aveva cominciato a servire il dolce tutte le sere, che mamma diceva ad Argo che aveva «bisogno di spazio» ogni volta che la leccava, che mamma si era appassionata alle rubriche di viaggi, che la cronologia di papà era tutta siti di agenzie immobiliari, che mamma prendeva in braccio Benjy ogni volta che papà era nella stanza, la violenza con cui papà aveva preso a odiare gli sportivi viziati che non ci provano neanche, che mamma aveva donato tremila dollari per la raccolta fondi autunnale della NPR e papà per ritorsione si era comprato una Vespa, la fine degli antipasti al ristorante, la fine della terza storia della buonanotte per Benjy, la fine del guardarsi negli occhi.
Vedeva quello che loro o non sapevano o non potevano permettersi di vedere e questo lo faceva solo incavolare ancora di più, perché essere meno stupido dei tuoi genitori è ripugnante, come bersi un sorso di latte pensando che nel bicchiere ci sia aranciata. Siccome era meno stupido dei suoi genitori, sapeva che un giorno gli avrebbero detto che non gli sarebbe toccato scegliere anche se gli sarebbe toccato. Sapeva che avrebbe cominciato a perdere la voglia e l’abilità di fingere a scuola, i suoi voti sarebbero scivolati lungo un piano inclinato secondo una formula che avrebbe dovuto conoscere alla perfezione e le manifestazioni di affetto da parte dei suoi si sarebbero ingigantite per reazione alla loro tristezza per la sua tristezza e lui sarebbe stato ricompensato per essere andato in pezzi. I sensi di colpa dei suoi per avergli chiesto così tanto l’avrebbero liberato dall’incubo degli sport di squadra e sarebbe riuscito a rinegoziare in modo più favorevole le ore di tv e le cene avrebbero cominciato ad avere un aspetto molto meno bio e ben presto lui avrebbe cominciato a virare verso l’iceberg mentre i suoi si sfidavano in un duello di virtuosismo genitoriale.
Gli piacevano i fatti interessanti, ma era quasi sempre turbato dai suoi strani pensieri ricorrenti. Tipo: e se avesse assistito a un miracolo? Come avrebbe fatto a convincere gli altri che non stava scherzando? Se un neonato gli avesse raccontato un segreto? Se un albero si fosse messo a camminare? Se avesse incontrato un se stesso più grande e avesse saputo di tutti gli evitabili errori madornali che non sarebbe stato in grado di evitare? S’immaginava i dialoghi con sua mamma e suo papà, con i finti amici di scuola e i veri amici di Other Life. La maggior parte di loro avrebbe riso e basta. Forse uno o due potevano essere spinti a dargli un piccolo attestato di fiducia. Max avrebbe quantomeno voluto credergli. Benjy gli avrebbe creduto, ma solo perché credeva a tutto. Billie? No. Sam sarebbe stato solo con un miracolo.
Bussarono alla porta. Non alla porta del tempio, ma a quella della sua camera da letto.
«Fuori dalle palle!»
«Come?» disse sua mamma aprendo la porta ed entrando.
«Mi dispiace» disse Sam, girando l’iPad all’ingiù sulla scrivania. «Pensavo fosse Max.»
«E secondo te è un bel modo di parlare a tuo fratello?»
«No.»
«O a chiunque altro?»
«No.»
«E allora perché?»
«Non lo so.»
«Magari prenditi un momento per rifletterci.»
Non sapeva se fosse una frase retorica, ma sapeva che non era il momento di non prendere sua madre alla lettera.
Dopo un attimo di riflessione, il meglio che riuscì a mettere insieme fu: «Magari sono uno che dice le cose pur sapendo che non le deve dire».
«Magari.»
«Ma migliorerò.»
Julia esaminò la stanza. Dio, Sam odiava quelle occhiate rubate: ai suoi compiti, ai suoi oggetti, al suo aspetto. Quell’essere continuamente giudicato lo scavava dentro come un fiume, creando due rive opposte.
«Che cosa stavi facendo?»
«Niente mail né messaggi, e non ero su Other Life.»
«Okay, ma che cosa stavi facendo?»
«Non saprei.»
«Non so bene come sia possibile.»
«Non è la tua giornata libera?»
«No, non è la mia giornata libera. È la mia giornata per fare alcune delle cose che rimando perché per farle mi serve un momento libero. Come respirare e pensare. Ma poi abbiamo dovuto fare una visita inaspettata all’Adas Israel stamattina, come ricorderai, e poi ho dovuto incontrare un cliente...»
«Perché hai dovuto?»
«Perché è il mio lavoro.»
«Ma perché oggi?»
«Sentivo di doverlo fare, okay?»
«Okay.»
«E poi, in macchina, mi è venuto in mente che anche se quasi sicuramente hai compromesso il Bar Mitzvah, probabilmente dovremmo continuare a fare come se si facesse. E tra le molte, moltissime cose che solo a me viene in mente di farmi venire in mente c’è il tuo completo.»
«Quale completo?»
«Esatto.»
«Vero. Non ho un completo.»
«Non appena lo si dice sembra ovvio, eh?»
«Sì.»
«Non finisco mai di stupirmi di quante cose siano così.»
«Scusa.»
«Di cosa ti stai scusando?»
«Non so.»
«Allora, dobbiamo prenderti un completo.»
«Oggi?»
«Sì.»
«Davvero?»
«I primi tre posti in cui andremo non avranno quello che fa per noi e se trovassimo qualcosa di passabile non ti starà bene e il sarto sbaglierà le modifiche almeno due volte.»
«Devo venire anch’io?»
«Dove?»
«Nel posto dei vestiti.»
«No, no, ma certo, non serve che vieni. Facilitiamo le cose e costruiamoci la nostra stampante 3D personale con stecchini dei ghiaccioli e maccheroni e creiamo un clone di te che posso portarmi fino al posto dei vestiti da sola nella mia giornata libera.»
«Potremmo insegnargli anche la miahaftorah?»
«Le tue battute non mi fanno ridere, in questo momento.»
«Non c’era bisogno di dirlo.»
«Come?»
«Non c’è bisogno che tu dica che non ti fa ridere se uno vede che non stai ridendo.»
«Neanche questo c’era bisogno di dirlo, Sam.»
«Bene. Mi dispiace.»
«Quando papà torna dalla sua riunione parleremo per bene, ma qualcosa te lo voglio dire. È fondamentale.»
«Bene.»
«Smettila di dire bene.»
«Mi dispiace.»
«Smettila di dire mi dispiace.»
«Avevo capito che il punto era che mi dovevo scusare.»
«Per quello che hai fatto.»
«Ma non sono stato io...»
«Sono molto delusa.»
«Lo so.»
«Tutto qui? Non hai altro da dire? Tipo, magari: ‘Sono stato io e mi dispiace?’»
«Non sono stato io.»
Si portò le mani ai fianchi, con gli indici alla cintura. «Metti in ordine questo casino. È invivibile.»
«È la mia camera.»
«Ma è casa nostra.»
«Non posso spostare quella scacchiera. Siamo a metà partita. Papà ha detto che possiamo finirla quando non sarò più nei guai.»
«Sai perché lo batti sempre?»
«Perché mi lascia vincere.»
«Sono anni che non ti lascia vincere.»
«Non s’impegna.»
«Non è vero. Tu lo batti perché lui si esalta a mangiare i pezzi, ma tu ragioni sempre quattro mosse avanti. Per questo sei bravo a scacchi e bravo nella vita.»
«Non sono bravo nella vita.»
«Sì, invece, quando pensi a quello che fai.»
«Papà non è bravo nella vita?»
«Non è di questo che stiamo parlando adesso.»
«Se si concentrasse, potrebbe battermi.»
«Potrebbe anche essere, ma non lo scopriremo mai.»
«Di che cosa stiamo parlando?»
Lei tirò fuori il telefono dalla tasca. «Cos’è questo?»
«Un cellulare.»
«È tuo?»
«Io non sono autorizzato ad avere un cellulare.»
«Che è il motivo per cui mi arrabbierei se fosse tuo.»
«Allora non c’è bisogno che ti arrabbi.»
«Di chi è?»
«Non ne ho idea.»
«I cellulari non sono come le ossa di dinosauro. Non spuntano fuori così.»
«Neanche le ossa di dinosauro.»
«Se fossi in te, farei un po’ meno il brillante.» Girò il cellulare. Lo rigirò. «Come faccio a guardarci dentro?»
«Immagino abbia una password.»
«Ce l’ha.»
«Non sei fortunata.»
«Potrei sempre provare 6quellagiusta, o no?»
«Penso di sì.»
Tutti i membri adulti della famiglia Bloch usavano quella password ridicola per qualunque cosa: da Amazon a Netflix all’antifurto di casa ai telefoni.
«Niente» disse, mostrando lo schermo a Sam.
«Valeva la pena provarci.»
«Devo portarlo al negozio?»
«Non sbloccano nemmeno i telefoni dei terroristi.»
«Magari provo la stessa password ma con le maiuscole.»
«Prova.»
«Come si fanno le maiuscole?»
Sam prese il cellulare. Batteva sui tasti come pioggia su un lucernario, ma Julia vide solo il suo pollice deturpato al rallentatore.
«Niente» disse lui.
«Prova a scrivere il numero in lettere.»
«Come?»
«s-e-i.»
«Sarebbe da scemi.»
«Sarebbe geniale rispetto a usare la stessa password che si usa per tutto.»
«s-e-i-q-u-e-l-l-a-g-i-u-s-t-a... Niente. Mi dispiace. Voglio dire, non mi dispiace.»
«Prova di nuovo così ma con la prima maiuscola.»
«Eh?»
«S-e-i-q-u-e-l-l-a-g-i-u-s-t-a.»
Questa volta Sam digitò più lentamente, con attenzione. «Mmm.»
«Si è sbloccato?»
Julia allungò la mano per prendere il cellulare, ma Sam lo trattenne giusto una frazione di secondo, abbastanza per produrre un sobbalzo impacciato. Sam guardò sua madre. L’enorme pollice antico di Julia spinse le parole su per la minuscola montagna di vetro. Julia guardò Sam.
«Cosa?» chiese lui.
«Cosa cosa?»
«Perché mi stai guardando?»
«Perché ti sto guardando?»
«In questo modo?»
Jacob non riusciva ad addormentarsi senza un podcast. Diceva che le notizie lo calmavano, ma Julia sapeva che lo faceva per la compagnia. Di solito lei dormiva già quando lui arrivava a letto – inconfessata coreografia – ma ogni tanto lei si ritrovava ad ascoltarne uno da sola. Una sera, con il marito che le russava accanto, aveva sentito uno scienziato del sonno che parlava del sogno lucido: un sogno durante il quale si è consapevoli che si sta sognando. La tecnica più comune per far venire un sogno lucido è prendere l’abitudine, nello stato di veglia, di guardare un testo – una pagina di un libro o di una rivista, una bacheca, uno schermo –, distogliere gli occhi e poi guardare di nuovo. Nei sogni, i testi non rimangono uguali. Esercitandosi, diventa un riflesso. E se lo eserciti, il riflesso si inserisce nei sogni. La discontinuità del testo indicherà che stai sognando, a quel punto non solo sarai consapevole, ma avrai il controllo.
Julia distolse gli occhi e guardò di nuovo il cellulare.
«So che tu non giochi a Other Life. Cos’è che fai?»
«Eh?»
«Qual è la parola per quello che fai?»
«Vivere?» disse lui, cercando di interpretare il cambiamento che si stava verificando sulla faccia di sua madre.
«Voglio dire in Other Life.»
«Sì, lo so.»
«Vivi Other Life?»
«Di solito non devo descrivere quello che ci faccio, ma sì.»
«Puoi vivere Other Life.»
«Giusto.»
«No, voglio dire che hai il permesso.»
«Adesso?»
«Sì.»
«Pensavo di essere in castigo.»
«Infatti lo sei» disse lei, mettendosi il cellulare in tasca. «Ma adesso puoi viverlo, se vuoi.»
«Possiamo andare a prendere il completo.»
«Un altro giorno. C’è tempo.»
Sam distolse gli occhi e guardò di nuovo sua madre.
Aveva controllato tutti i congegni. Non era arrabbiato, voleva solo dire quello che andava detto e poi trasformare la sinagoga in un cumulo di macerie. Non andava bene. Aveva collegato tutto con doppia ridondanza e aveva piazzato tre volte l’esplosivo necessario: sotto ogni banco, in cima alla libreria che conteneva i siddurim, dove non si vedeva, sepolto in fondo al cassone di legno ottagonale sotto un metro di yarmulkes.
Samanta tirò fuori la Torah dall’Arca santa che la custodiva. Salmodiò qualche assurdità mandata a memoria, spogliò la Torah dei suoi arredi sacri e la srotolò davanti a sé sulla bimah. Tutte quelle belle lettere nerissime. Tutte quelle belle frasi minimaliste, combinate per raccontare tutte quelle belle storie dall’eco infinita che avrebbero dovuto e ancora potrebbero essere perse per la storia. L’innesco era dentro il puntatore che si usa per seguire la lettura sul rotolo della Torah. Samanta lo afferrò, trovò il punto sulla pergamena e cominciò a salmodiare.
> Bar’khu et adonai hamm’vorakh.
> Che sarebbe?
> Ho portato mio fratello piccolo allo zoo e i rinoceronti si sono messi a trombare, roba da pazzi. Lui si è fermato a guardare. La cosa che mi ha fatto più ridere è che non capiva neanche che faceva ridere.
> State attenti!
> Fa ridere quando uno non sa che fa ridere.
> Come fa a mancarmi una persona che non ho mai conosciuto?
> Barukh adonai hamm’vorakh l’olam va-ed...
> Preferirò sempre, sempre, sempre la disonestà a una falsa onestà.
> App: tutto quello che dici un giorno sarà usato contro di te.
> Barukh attà adonai...
> Ci sono: Benedetto sei tu Signore...
> Ho questa strana cosa che non riesco a ricordare come sono le persone che conosco. O mi convinco che non ci riesco. Mi ritrovo a cercare di immaginare la faccia di mio fratello e non ci riesco. Non è che non riesco a distinguerlo tra la gente o che non lo riconoscerei. Ma quando cerco di visualizzarlo, non ci riesco.
> ... elohenu, melekh ha-olam...
> Scaricati un programma che si chiama VeryPDF. È semplicissimo.
> Nostro Dio, re del mondo...
> Scusate, stavo cenando. Sono a Kyoto. Le stelle sono in cielo da ore.
> Avete visto il video di quel giornalista ebreo decapitato?
> ... asher bachar banu mikkol ha-amim...
> VeryPDF ha milioni di bug.
> Che ci hai scelto tra tutti i popoli...
> Il mio iPhone mi sta facendo venire il mal di mare.
> ... v’natan lanu et torato...
> Devi bloccare la rotazione. Doppio clic sul tasto home per far comparire la barra degli strumenti. Scorri a destra finché arrivi a qualcosa che assomiglia a una freccia circolare: abilita e disabilita la rotazione.
> Si può diventare ciechi guardando un film sul sole?
> Qualcuno sa qualcosa di questo nuovo telescopio che i cinesi dicono di voler costruire? Dovrebbe vedere il doppio all’indietro nel tempo di qualunque telescopio mai costruito.
> Barukh attà adonai...
> Lo so che sembrerò fuori di testa, ma non dovremmo ammettere che hai detto una cosa strana? Può vedere il doppio all’indietro nel tempo?
> Potrei far entrare tutto quello che ho scritto in vita mia in una chiavetta.
> Che cosa vuol dire?
> Benedetto sei tu Signore...
> Immagina se mettessero uno specchio gigantesco nello spazio, lontanissimo da noi. Noi non potremmo, puntando un telescopio, vedere noi stessi nel passato?
> Sarebbe?
> Più è lontano, più potremmo vedere nel passato: la nostra nascita, il primo bacio dei nostri genitori, gli uomini delle caverne.
> I dinosauri.
> I miei genitori non si sono mai baciati e hanno scopato una sola volta.
> La vita che strisciava fuori dall’oceano.
> ... noten ha-torah.
> E se fosse puntato dritto, potresti vedere te stesso non esserci.
> ... che ci dà la Torah.
Samanta alzò gli occhi.
Che cosa ci vorrebbe perché un essere umano fondamentalmente buono venga visto? Non notato, ma visto. Non apprezzato, non stimato e neppure amato. Ma visto appieno.
Samanta contemplò la congregazione di avatar. Erano persone irreali fondamentalmente simpatiche, fidate, generose. Le persone più fondamentalmente simpatiche che avrebbe mai conosciuto erano persone che non avrebbe mai conosciuto.
Guardò simultaneamente alla e oltre la vetrata del Presente ebraico.
Sam aveva sentito ogni parola detta al di là della porta del rabbino Singer. Sapeva che suo padre gli credeva e sua madre no. Sapeva che sua madre stava cercando di fare quello che secondo lei era meglio e che suo padre stava cercando di fare quello che secondo lui era meglio. Ma meglio per chi?
Aveva trovato il cellulare un giorno prima che lo trovasse sua madre.
Molte scuse erano dovute, ma lui non doveva scuse a nessuno.
Senza una gola da schiarirsi, Samanta cominciò a parlare, a dire quello che andava detto.
Epitome
Più si invecchia più diventa difficile rendere conto del tempo. I bambini chiedono: «Siamo arrivati?» Gli adulti: «Come abbiamo fatto ad arrivare così in fretta?»
In un modo o nell’altro, era tardi. In un modo o nell’altro, le ore erano andate da qualche parte. Irv e Deborah erano tornati a casa. I ragazzi avevano cenato presto, fatto il bagno presto. Jacob e Julia erano riusciti a collaborare evitandosi: tu porti fuori Argo mentre io aiuto Max a fare matematica, mentre tu pieghi la biancheria, mentre io cerco il pezzo di Lego da cui dipende tutto, mentre tu fai finta di sapere come riparare lo scarico di un water che perde, e in un modo o nell’altro, quello che era cominciato come il giorno che Julia avrebbe avuto per sé finì con Jacob apparentemente fuori a bere qualcosa con qualcuno di non meglio precisato della HBO e Julia che sistemava una volta per tutte il macello della giornata. Così tanto macello fatto da così poche persone in così poco tempo. Stava lavando i piatti quando Jacob entrò in cucina.
«È durato più di quanto pensassi» disse preventivamente. E a sua ulteriore discolpa: «Noiosissimo».
«Sarai ubriaco.»
«No.»
«Come fai a bere per quattro ore senza ubriacarti?»
«Ho bevuto solo un bicchiere» disse lui, appendendo la giacca allo sgabello, «non di più. E sono state solo tre ore e mezza.»
«Te lo sei proprio sorseggiato goccia a goccia.» Il tono era pungente, ma poteva essere stato affilato da un certo numero di cose: la giornata libera andata in fumo, lo stress di quella mattina, il Bar Mitzvah.
Julia si asciugò la fronte con la parte del braccio non insaponata e disse: «Dovevamo parlare con Sam».
Bene, pensò Jacob. Tra i conflitti a disposizione, quello era il meno spaventoso. Poteva scusarsi, mettere le cose a posto, tornare alla felicità.
«Lo so» disse, sentendosi l’alcol sui denti.
«Dici lo so e intanto è notte e non gli stiamo parlando.»
«Sono appena arrivato. Volevo prendermi un bicchiere d’acqua e poi vado a parlargli.»
«E il piano era di parlargli insieme.»
«Be’, posso risparmiarti il ruolo del poliziotto cattivo.»
«Risparmiargli di avere un poliziotto cattivo, vuoi dire.»
«Farò io tutti e due i poliziotti.»
«No, tu farai il paramedico.»
«Non capisco cosa vuoi dire.»
«Gli chiederai scusa per il fatto di doverlo punire e finirete a ridere e a me lascerete il ruolo della madre pignola e rompiscatole. Tu ti becchi sette minuti di strizzatine d’occhio e io un mese di risentimento.»
«Non è vero niente di tutto quello che hai detto.»
«Certo.»
Julia sfregò il residuo carbonizzato da una padella.
«Max dorme?» chiese Jacob, con le labbra rivolte a lei e gli occhi di lato.
«Sono le dieci e mezza.»
«Sam è in camera sua?»
«Un bicchiere in quattro ore?»
«Tre ore e mezza. Uno è arrivato a metà ed è...»
«Sì, Sam è nel suo rifugio antiatomico emotivo.»
«Sta giocando a Other Life?»
«Lo sta vivendo.»
Avevano sviluppato una paura pazzesca di non avere attorno i bambini a riempire il vuoto. A volte Julia si chiedeva se li faceva stare alzati solo per proteggersi dal silenzio, se si prendeva Benjy in braccio perché le facesse da scudo umano.
«E com’è andata la serata di Max?»
«È depresso.»
«Depresso? Non è vero.»
«Hai ragione. Avrà la mononucleosi.»
«Ha solo undici anni.»
«Ne ha solo dieci.»
«Depresso è una parola forte.»
«Funziona per definire un’esperienza forte.»
«E Benjy?» chiese Jacob rovistando in un cassetto.
«Che cosa hai perso?»
«Come?»
«Sembra che tu stia cercando qualcosa.»
«Vado a dare un bacio a Benjy.»
«Lo sveglierai.»
«Farò il ninja.»
«Ci ha messo un’ora per addormentarsi.»
«Un’ora di orologio? O ti è sembrata un’ora?»
«Sessanta minuti di orologio, a pensare alla morte.»
«È un bambino fantastico.»
«Perché è ossessionato dalla morte?»
«Perché è sensibile.»
Jacob frugò tra la posta mentre Julia riempiva la lavastoviglie: opuscolo giallo mensile pieno di mobili grigi di Restoration Hardware, lettera dell’American Civil Liberties Union a settimanale violazione della sua privacy, lettera della Georgetown Day School che nessuno avrebbe aperto con una richiesta di sostegno finanziario, dépliant di un immobiliarista con l’apparecchio per i denti che strombazzava ai quattro venti il prezzo a cui aveva venduto la casa del vicino, varie conferme cartacee di servizi di pagamento online, catalogo di una ditta di vestiti per bambini il cui algoritmo di marketing non era abbastanza sofisticato per capire che la prima infanzia è uno stato temporaneo.
Julia tese il braccio mostrandogli il cellulare.
Lui tese il corpo, mentre dentro tutto crollava: come uno di quei pagliacci gonfiabili con il peso in fondo, che continuano a tornare su per prendersi altri pugni.
«Sai di chi è?»
«È mio» disse lui prendendolo. «Ne ho comprato uno nuovo.»
«Quando?»
«Qualche settimana fa.»
«Perché?»
«Perché... la gente cambia cellulare.»
Julia mise troppo detersivo nella lavastoviglie e la chiuse con troppa energia.
«Ha una password.»
«Sì.»
«Il tuo vecchio cellulare non ce l’aveva.»
«Sì che ce l’aveva.»
«Non è vero.»
«Come fai a saperlo?»
«Perché non dovrei saperlo?»
«Come vuoi.»
«C’è qualcosa che devi dirmi?»
All’università, Jacob era stato accusato di plagio. Prima che esistessero software in grado di scoprire certe cose, quindi per farsi beccare bisognava attingere a man bassa al lavoro altrui, come aveva fatto lui. Ma non l’avevano beccato; aveva confessato per sbaglio. Era stato convocato nell’ufficio del professore di «Epica americana», che lo aveva lasciato a fermentare nel suo alito mefitico mentre finiva di leggere le ultime tre pagine di un libro, poi aveva rovistato goffamente tra le pile di tesine accumulate sulla scrivania finché aveva trovato quella di Jacob.
«Signor Bloch.»
Era un’affermazione? Una conferma che aveva di fronte la persona giusta? «Sì?»
«Signor Bloch» disse scuotendo le pagine come un lulav «da dove vengono queste idee?»
Ma prima che il professore avesse una chance di aggiungere: «Perché sono molto sofisticate per la sua età», Jacob disse: «Harold Bloom».
Nonostante il voto insufficiente e nonostante il provvedimento disciplinare, era stato grato di esserselo lasciato sfuggire di bocca, non perché l’onestà fosse così importante per lui in questo caso ma perché non c’era niente che odiava più di una colpa messa a nudo. Lo riduceva a un bambino terrorizzato e avrebbe fatto qualunque cosa per liberarsene.
«I telefoni nuovi hanno bisogno di una password» disse Jacob. «Credo che la richiedano.»
«Buffo modo di dire no.»
«Qual era la domanda?»
«C’è qualcosa che devi dirmi?»
«Ho sempre un sacco di cose da dirti.»
«Ho detto devi.»
Argo emise un guaito.
«Non capisco questa conversazione» disse Jacob. «E cos’è questo schifo di odore?»
Così tanti giorni di vita in comune. Così tante esperienze. Come avevano fatto a passare gli ultimi sedici anni a disimpararsi a vicenda? Come aveva fatto la somma di tutta la presenza a tradursi in assenza?
E adesso, con il loro primogenito sulla soglia dell’età adulta e l’ultimogenito che faceva domande sulla morte, si ritrovavano in cucina con qualcosa di cui finalmente valeva la pena di non parlare.
Julia si accorse di una macchiolina sulla camicia e cominciò a sfregarsela pur sapendo che era vecchia e indelebile.
«Sbaglio o non sei passato in lavanderia a prendere la roba?»
La sola cosa che Julia odiava più di sentirsi come si sentiva era avere il tono che aveva. Come Irv le aveva detto che Golda Meir aveva detto ad Anwar Sadat: «Possiamo perdonarvi di avere ucciso i nostri figli, ma non vi perdoneremo mai per averci costretto a uccidere i vostri». Odiava il tono che Jacob la costringeva ad assumere: la moglie piattola, lagnosa, asfissiante e rancorosa che si sarebbe ammazzata pur di non diventare.
«Ho una pessima memoria» disse lui. «Mi dispiace.»
«Anch’io ho una pessima memoria ma non mi dimentico le cose.»
«Mi dispiace, okay?»
«Sarebbe più facile crederci senza l’okay.»
«Ti comporti come se io non facessi altro che sbagliare.»
«Dammi una mano» disse lei. «Quali sono le cose che fai bene, in questa casa?»
«Stai parlando sul serio?»
Argo emise un lungo guaito.
Jacob si girò e trattò lui come non riusciva a trattare lei: «Basta, eccheccazzo!» Poi, senza cogliere l’ironia nella propria risposta: «Non alzo mai la voce».
Lei invece la colse: «Vero, Argo?»
«Non con te e con i bambini» fece lui.
«Non alzare la voce – o non picchiarmi o non molestare i bambini, del resto – non equivale a dire che fai bene qualcosa. È solo il minimo della decenza. E comunque tu non alzi la voce perché sei represso.»
«Non è vero.»
«Se lo dici tu.»
«Se anche fosse questo il motivo per cui non alzo la voce, e non ne sono convinto, è comunque una cosa buona. Un sacco di uomini strillano.»
«Sono gelosa delle loro mogli.»
«Vuoi che sia uno stronzo?»
«Voglio che tu sia una persona.»
«Che cosa vorresti dire?»
«Sei sicuro che non c’è niente che devi dirmi?»
«Non capisco perché continui a farmi questa domanda.»
«La riformulerò in un altro modo: qual è la password?»
«Di cosa?»
«Del cellulare che stai tenendo in mano.»
«È il mio cellulare nuovo. Cosa c’è di così importante?»
«Io sono tua moglie. Sono io la cosa importante.»
«Non capisco.»
«Cosa c’è da capire?»
«Che cosa vuoi, Julia?»
«La tua password.»
«Perché?»
«Perché voglio sapere quello che tu non puoi dirmi.»
«Julia.»
«Mi hai di nuovo identificato correttamente.»
Jacob aveva passato più ore da sveglio in quella cucina che in qualunque altra stanza. Nessun lattante sa che è l’ultima volta che gli viene tolto di bocca il capezzolo. Nessun bambino sa che è l’ultima volta che chiama sua madre «mami». Nessun ragazzino sa che il libro si sta chiudendo sull’ultima fiaba della buona notte che gli sarà mai letta. Nessun fratello sa che la vasca si sta riempiendo per l’ultimo bagno che farà mai col fratello. Nessun ragazzo sa, la prima volta che arriva al culmine del piacere, che da quel momento tutto per lui sarà collegato al sesso. Nessuna donna sulla soglia della pubertà sa, mentre dorme, che ci vorranno quattro decenni prima che si svegli di nuovo infertile. Nessuna madre sa che sta sentendo la parola «mami» per l’ultima volta. Nessun padre sa che il libro si è chiuso sull’ultima fiaba della buona notte che leggerà mai: Da quel giorno, e per molti anni a venire, la pace regnò nell’isola di Itaca e gli dei guardarono con favore Ulisse, sua moglie e suo figlio. Jacob sapeva che, qualunque cosa fosse successa, avrebbe rivisto la cucina. Eppure i suoi occhi si fecero spugne per assorbire i dettagli – la maniglia brunita del cassetto degli snack; la giuntura fra le lastre di steatite; l’adesivo PREMIO SPECIALE AL CORAGGIO incollato sullo sbalzo dell’isola, vinto da Max per la caduta di quello che nessuno sapeva fosse il suo ultimo dente da latte, un adesivo che Argo vedeva moltissime volte al giorno e solo Argo vedeva – perché Jacob sapeva che un giorno li avrebbe spremuti per cavarne le ultime gocce di quegli ultimi istanti; come fossero lacrime.
«Bene» disse Jacob.
«Bene cosa?»
«Bene ti dirò la password.»
Posò il cellulare sul piano della cucina con una forza ponderata che forse, ma forse, poteva bastare a far saltare i circuiti, e disse: «Ma sappi che questa mancanza di fiducia rimarrà sempre fra noi».
«Me ne farò una ragione.»
Lui guardò il cellulare.
«In realtà sto cercando di ricordare qual è la password. L’ho persa subito dopo averlo comprato. Mi sa che non l’ho neppure mai usata.»
Prese il cellulare e lo fissò.
«Magari la password che i Bloch usano per tutto?» suggerì Julia.
«Giusto» disse lui. «Avrei sicuramente usato quella. 6-q-u-e-l-l-a-g-i-u-s-t-a. E... niente.»
«Mmm. Mi sa di no.»
«Probabilmente posso farmelo sbloccare dal negozio.»
«Magari, dico solo così per dire, potresti digitare il numero in lettere s-e-i con l’iniziale maiuscola?»
«Non la scriverei così» disse lui.
«No?»
«No. La scriviamo sempre nello stesso modo.»
«Prova lo stesso.»
Jacob avrebbe voluto non provare quel terrore infantile, ma avrebbe voluto essere bambino.
«Non la scriverei così.»
«Chi può dire cosa uno farebbe o non farebbe. Prova lo stesso.»
Lui esaminò il cellulare, e le dita che lo stringevano, e la casa intorno, e con un impulso immediato – un riflesso come di una gamba che scalcia per un martelletto sul ginocchio – lo scagliò contro la finestra fracassando il vetro.
«Pensavo fosse aperta.»
E poi un silenzio che sprofondava fino alle viscere della terra.
Julia disse: «Pensi che io non sia in grado di andare a recuperare il telefono sul prato?»
«Io...»
«E perché non hai creato una password giusto un po’ più sofisticata? Una password che Sam non potesse indovinare?»
«Sam ha guardato il cellulare?»
«No. Ma solo perché hai una fortuna incredibile.»
«Sei sicura?»
«Come hai potuto scrivere quelle cose?»
«Quali cose?»
«È troppo tardi per far finta di non saperlo.»
Jacob sapeva che era troppo tardi e assorbì i solchi dei taglieri, le piante grasse tra il lavandino e la finestra, i disegni dei bambini appiccicati alle piastrelle.
«Non significavano niente» disse poi.
«Mi dispiace che una persona sia capace di dire così tante cose che non significano niente.»
«Julia, dammi la possibilità di spiegare.»
«Ma perché non puoi dire a me cose che non significano niente?»
«Eh?»
«Dici a una che non è la madre dei tuoi figli che vuoi leccarle la sborra dal buco del culo e l’unica persona che mi fa sentire bella è quel cazzo di fiorista coreano dietro il supermercato che non è nemmeno un fiorista.»
«Sono una merda.»
«Non ci provare.»
«Julia, ci puoi credere o no, ma erano solo messaggi. Non è successo altro.»
«Primo, ci credo benissimo. Nessuno più di me sa che non hai il coraggio per una vera trasgressione. So che sei troppo fichetta per leccare qualunque culo, con o senza sborra.»
«Julia.»
«Ma più importante ancora, quanto serve che succeda? Credi di potertene andare in giro a dire e a scrivere quello che vuoi come se niente fosse? Forse tuo padre può farlo. Forse tua madre è così debole da tollerare quel genere di porcheria. Ma io no. La decenza e l’indecenza sono cose diverse. Il bene e il male sono cosediverse. Non lo sapevi?»
«Ma certo che...»
«No, certo che no. Hai scritto a una donna che non è tua moglie che la sua figa stretta non ti merita?»
«Non ho scritto proprio così. Ed è successo in un contesto di...»
«E tu non sei proprio una brava persona e non c’è contesto che renda accettabile una cosa così.»
«È stato un momento di debolezza, Julia.»
«Non ti ricordi che non hai mai cancellatonessuno di quei messaggi? Che c’è una storia da consultare? Non è stato un momento di debolezza, è stata una persona di debolezza. E potresti smetterla di dire il mio nome?»
«È finita.»
«Vuoi sapere la cosa peggiore? Non me ne importa niente. La cosa più triste per me è stato rendermi conto che non ero triste.»
Jacob non ci credette ma non riusciva neppure a credere che lo stesse dicendo. Fingere un rapporto d’amore aveva reso sopportabile l’assenza di un rapporto d’amore. Ma adesso Julia stava rinunciando a salvare le apparenze.
«Senti, io credo...»
«Leccarle la sborra che esce dal buco del culo?» Rise. «Tu? Tu sei un vigliacco con la fobia dei germi. Volevi solo scriverlo. E va bene. È magnifico. Ma ammetti che era tutta una finta. Tuvorresti volere una sorta di vita sessualmente supereccitante, ma quello che vuoi in realtà è il passeggino consegnato al check-in, la crema protettiva per la pelle e persino la tua arida esistenza senza pompini perché ti risparmia di preoccuparti delle erezioni. Cristo, Jacob, ti porti dietro le salviette per non dover mai usare la carta igienica. Di sicuro non ti comporti come un uomo che vuole leccare sborra dal buco del culo di qualcuno.»
«Julia, basta.»
«E comunque, se mai ti ritrovassi in quella situazione, con il buco del culo vero di una donna vera pieno della tua sborra vera che invita la tua lingua? Sai cosa faresti? Ti prenderebbe la tremarella, inzupperesti la camicia di sudore, perderesti quella mezza erezione budinosa che avevi avuto la fortuna di racimolare e probabilmente ti trascineresti in bagno a controllare l’Huffington Post in cerca di filmati puerili e poco divertenti o a riascoltare Radiolabche canta le lodi delle tartarughe. Ecco cosa succederebbe. E lei saprebbe che sei la barzelletta che sei.»
«Non indosserei la camicia.»
«Eh?»
«Non inzupperei la camicia di sudore perché non avrei una camicia addosso.»
«Cazzo, che commento squallido!»
«Smettila di provocarmi.»
«Dici sul serio? Non può essere. Non è possibile che tu dica sul serio.» Si girò verso il rubinetto del lavandino, senza una ragione apparente. «E credi di essere l’unico che ha voglia di trasgressione?»
«Vuoi un amante?»
«Voglio lasciare che le cose si sfascino.»
«Io non ho un’amante e non sto sfasciando le cose.»
«Oggi ho visto Mark. Lui e Jennifer stanno divorziando.»
«Ottimo. Oppure terribile. Cosa ti aspetti che dica?»
«E Mark flirtava con me.»
«Dove vuoi arrivare?»
«Io ti ho protetto tantissimo. Mi sono preoccupata della tua patetica insicurezza da pulcino bagnato. Ti ho risparmiato cose innocenti da cui non avresti avuto il diritto di farti turbare ma che ti avrebbero schiacciato. E credi che io non mi sia mai fatta delle fantasie? Credi che mi masturbo sempre pensando a te? È così?»
«Questo non ci porterà a niente di buono.»
«Una parte di me si sarebbe voluta scopare Mark, oggi? Ebbene sì. Tutta quella parte che sta sotto il cervello, in effetti. Ma non l’ho fatto perché non avrei potuto, perché non sono come te...»
«Io non mi sono scopato nessuno, Julia.»
«... ma avrei voluto.»
Jacob alzò la voce per la seconda volta nel corso della conversazione: «Santo Dio, ma cos’è questa puzza?»
«Il tuo cane ha fatto un’altra volta la cacca in casa.»
«Il mio cane?»
«Sì, il cane che tu hai portato qui, nonostante avessimo esplicitamente stabilito insieme di nonprendere un cane.»
«I bambini lo volevano.»
«I bambini vogliono farsi iniettare gelato banana e cioccolato in vena e farsi risucchiare il cervello dalle eiaculazioni di Steve Jobs. Essere dei buoni genitori non vuole dire soddisfare ogni loro capriccio.»
«Erano tristi per qualcosa.»
«Tutti sono tristi per qualcosa. Smettila di dare la colpa ai bambini, Jacob. Avevi bisogno di fare l’eroe o avevi bisogno di farmi fare la cattiva...»
«Sei ingiusta.»
«Sono ingiustissima, hai ragione. Tu hai portato a casa un cane dopo che avevamo stabilito insieme che sarebbe stato sbagliato prenderlo, e tu sei passato per il supereroe e io per la supercattiva e adesso c’è una baguette di merda puzzolente sul pavimento del nostro soggiorno.»
«E non hai pensato di raccoglierla?»
«No. Esattamente come a te non è venuto in mente di abituarlo a non sporcare in casa.»
«Ma non può farci niente, poveretto. È...»
«O di portarlo fuori, o di portarlo dal veterinario, o di lavargli la cuccia o di fargli prendere le pastiglie contro la filariosi o di controllare se ha le zecche o di comprargli la pappa o dargliela. Io raccolgo la sua cacca tutti i santi giorni. Due volte al giorno. O anche di più. Cristo, Jacob, io odio i cani e odio questo cane e non volevo e non voglio questo cane ma se non fosse stato per me questo cane sarebbe morto da anni.»
«Lui capisce quando dici queste cose.»
«E invece tu no. Il tuo cane...»
«Il nostro cane.»
«... è più intelligente di mio marito.»
E allora lui urlò. Era la prima volta che alzava la voce con lei o in generale con chiunque. Fu un urlo che gli era cresciuto dentro per sedici anni di matrimonio e per quattro decadi di vita e per cinque millenni di storia: un urlo che era diretto a lei ma anche a tutti, vivi e morti, e in primo luogo a se stesso. Per anni era sempre stato altrove, sempre sotterrato dietro porte spesse trenta centimetri, sempre al riparo in un monologo interiore a cui nessuno – lui compreso – aveva accesso o intrappolato in un dialogo in un cassetto della scrivania chiuso a chiave. Ma questo era lui.
Fece quattro passi verso di lei, avvicinando le lenti degli occhiali ai suoi occhi quanto lo erano ai propri, e urlò: «Tu sei il mio nemico!»
Qualche minuto prima, Julia aveva detto a Jacob che la cosa più triste era stata rendersi conto che non era triste. Era vero in quel momento, ma non era più vero, adesso. Attraverso le lacrime, guardò la cucina: la guarnizione di gomma fessurata del doccino del lavello, le finestre che avevano ancora un bell’aspetto ma i cui telai si sarebbero sbriciolati a prenderli in mano. Vide la sala da pranzo e il soggiorno: avevano ancora un bell’aspetto, ma erano due mani di bianco su una mano di fondo su una quindicina d’anni di lenta decadenza. Suo marito: non il suo compagno.
Sam un giorno era arrivato a casa e aveva detto a Julia tutto eccitato: «Se la terra fosse grande come una mela, l’atmosfera sarebbe più sottile della buccia».
«Eh?»
«Se la terra fosse grande come una mela, l’atmosfera sarebbe più sottile della buccia.»
«Forse non sono abbastanza intelligente, ma non capisco che cosa ci sia di interessante. Me lo puoi spiegare?»
«Guarda in su» disse lui. «Ti sembra sottile?»
«Il soffitto?»
«Se fossimo fuori.»
Il guscio era sottilissimo ma si era sempre sentita al sicuro.
Decine di domeniche prima, a una svendita di roba usata, avevano comprato un bersaglio per freccette da appendere sulla porta in fondo al corridoio. I ragazzi mancavano il bersaglio più spesso di quanto lo centrassero e ogni freccetta estratta dalla porta aveva un po’ del colore della porta sulla punta. Julia aveva tolto il bersaglio il giorno che Max era arrivato in soggiorno con la spalla sanguinante dicendo: «Non è colpa di nessuno». Quel che ne restava era un cerchio, delimitato e circondato da centinaia di buchi.
Mentre fissava il guscio della sua cucina, la cosa più triste era sapere quello che c’era sotto, quello che un minuscolo graffio in un punto vulnerabile avrebbe rivelato.
«Mamma?»
Si girarono e videro Benjy fermo sulla porta, appoggiato al grafico della crescita, con le mani che cercavano tasche che il pigiama non aveva. Da quanto tempo era lì?
«Mamma e io stavamo solo...»
«Vuoi dire epitome.»
«Cosa, amore?»
«Hai detto nemico, ma volevi dire epitome.»
«Adesso puoi avere il tuo bacio» disse Julia a Jacob asciugandosi le lacrime e nascondendole con schiuma di sapone.
Jacob si abbassò in ginocchio e prese le mani di Benjy nelle sue.
«Un brutto sogno, tesoro?»
«Mi va bene morire» disse Benjy.
«Eh?»
«Mi va bene morire.»
«Davvero?»
«Se tutti gli altri muoiono con me, mi va bene morire. Ho paura solo se tutti gli altri non muoiono.»
«Hai fatto un brutto sogno.»
«No. Stavate litigando.»
«Non stavamo litigando. Noi...»
«E ho sentito un vetro che si rompeva.»
«Stavamo litigando» disse Julia. «Gli esseri umani hanno sentimenti, a volte anche sentimenti molto complicati. Ma va tutto bene. Adesso torna a letto.»
Jacob lo riportò di sopra, la guancia di Benjy sulla sua spalla. Com’era ancora leggero. Quanto stava diventando pesante. Nessun padre sa che sta portando suo figlio su per le scale per l’ultima volta.
Jacob rimboccò di nuovo le coperte a Benjy e gli fece una carezza sulla testa.
«Papà?»
«Sì?»
«Sono d’accordo con te che probabilmente il paradiso non esiste.»
«Non ho detto questo. Ho detto che non c’è modo di saperlo con certezza e quindi probabilmente non è una grande idea organizzare le nostre vite intorno a quell’idea.»
«Sì, è con questo che sono d’accordo.»
Jacob poteva perdonare a se stesso di negarsi qualsiasi consolazione, ma perché la negava anche a tutti gli altri? Perché non poteva lasciare che quel suo figlio di cinque anni si sentisse felice e al sicuro in un mondo giusto, bello e irreale?
«Quindi intorno a che cosa le dobbiamo organizzare, le nostre vite?» chiese Benjy.
«Alle nostre famiglie?»
«Anch’io lo penso.»
«Buonanotte, campione.»
Jacob arrivò alla porta ma non se ne andò.
Dopo qualche lungo momento di quel silenzio, Benjy lo chiamò: «Papà? Ho bisogno di te».
«Sono qui.»
«Gli scoiattoli si sono evoluti con la coda folta. Perché?»
«Forse per l’equilibrio? O per scaldarsi? È ora di dormire.»
«Domani lo cerchiamo su Google.»
«Okay. Ma adesso dormi.»
«Papà?»
«Sono proprio qui.»
«Se il mondo dura abbastanza, ci saranno fossili dei fossili?»
«Oh, Benjy. Questa sì che è una bella domanda. Ne parliamo domani mattina.»
«Sì. Ho bisogno di dormire.»
«Giusto.»
«Papà?»
Adesso Jacob stava perdendo la pazienza: «Benjy».
«Papà?»
«Sono qui.»
Rimase sulla porta finché sentì il respiro del suo figlio più piccolo farsi pesante. Jacob era un uomo che negava consolazione ma rimaneva sulla porta quando altri se ne sarebbero andati via da un pezzo. Rimaneva sempre sulla porta d’ingresso finché la macchina non era partita. Esattamente come rimaneva alla finestra finché la ruota posteriore della bici di Sam non era scomparsa dietro l’angolo. Esattamente come guardava se stesso scomparire.
Non eccomi
> È con un senso di consapevolezza dell’importanza di questo momento e di estremo disagio che mi presento oggi davanti a questa bimah, per compiere il cosiddetto rito di passaggio nell’età adulta, qualunque cosa esso sia. Voglio ringraziare il cantore Fleischman, perché nel corso degli ultimi sei mesi mi ha aiutato a trasformarmi in un automa ebraico. Nel caso estremamente improbabile in cui tra un anno dovessi ricordare ancora qualcosa, continuerò a non conoscerne il significato, e per questo gli sono riconoscente. Voglio anche ringraziare quel clistere di acido solforico che è il rabbino Singer. Il mio unico bisnonno in vita è Isaac Bloch. Mio padre ha detto che dovevo accettare tutto questo per lui, una cosa che il mio bisnonno personalmente non mi ha mai chiesto. Ci sono cose che invece ha chiesto, come di non essere costretto a trasferirsi nella Casa ebraica. La mia famiglia si preoccupa molto di preoccuparsi di lui ma non abbastanza da preoccuparsi davvero, e io posso non aver capito niente di quello che ho salmodiato oggi ma questo l’ho capito. Voglio ringraziare i miei nonni, Irv e Deborah Bloch, perché sono un punto di riferimento nella mia vita e perché mi spingono sempre a impegnarmi un po’ di più, a scavare un po’ più a fondo, ad arricchirmi e a dire tutto quello che voglio quando mi pare. E anche i miei nonni Allen e Leah Selman, che abitano in Florida e della cui condizione mortale sono a conoscenza solo grazie ai soldi che mi mandano per Channukah e per il compleanno, il cui importo non è stato adeguato all’aumento del costo della vita dal giorno della mia nascita. Voglio ringraziare i miei fratelli, Benjy e Max, per la gran quantità di attenzioni che richiedono da parte dei miei genitori. Non riesco a immaginare come potrei sopravvivere in un’esistenza in cui mi toccasse l’onere indiviso del loro amore. E poi, quando una volta ho vomitato addosso a Benjy in aereo, lui ha detto: «Lo so che vomitare è brutto». E Max una volta si è offerto di fare le analisi del sangue al posto mio. Il che mi porta ai miei genitori, Jacob e Julia Bloch. La verità è che io non volevo fare il Bat Mitzvah. Niente in me voleva farlo, neppure una parte minuscola. Neanche per tutti i buoni di risparmio del mondo. Ne abbiamo discusso più di una volta, come se la mia opinione contasse qualcosa. Era tutta una farsa, una farsa per mettere in moto questa farsa, che a sua volta è solo un trampolino per la farsa della mia identità ebraica. Il che vuol dire, nel senso più letterale, che senza di loro tutto questo non sarebbe stato possibile. Io non ce l’ho con loro perché sono quelli che sono. Ma ce l’ho con loro perché ce l’hanno con me perché io sono quello che sono. Basta ringraziamenti. Dunque, la miaparashah oggi è Vayyera: E apparve. È una delle porzioni di Torah più conosciute e più studiate e a quanto mi hanno detto è un grande onore leggerla. Considerata la mia totale mancanza di interesse per la Torah, sarebbe stato meglio assegnarla a un ragazzo a cui interessa davvero questa roba ebraica, sempre che esista, e assegnare a me una di quelle porzioni a perdere sulle regole imposte alle lebbrose con il mestruo. Ci siete cascati tutti, mi sa. Un’ultima cosa: nell’interpretazione che segue alcune parti sono spudoratamente scopiazzate. Per fortuna gli ebrei credono solo nelle punizioni collettive. Okay... Dio mette alla prova Abramo, e il testo dice: «Qualche tempo dopo, Dio mise alla prova Abramo. Gli disse: ‘Abramo!’ ‘Eccomi’ rispose Abramo». La maggior parte della gente dà per scontato che la prova sia che Dio chiede ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco. Ma secondo me si potrebbe anche leggere che la prova è quando Dio lo chiama. Abramo non dice: «Che cosa vuoi?» Non dice: «Sì?» Risponde con una dichiarazione: «Eccomi». Qualunque cosa Dio voglia, Abramo è completamente presente per Lui, senza condizioni o riserve o necessità di spiegazioni. Quella parola – hinneni: eccomi – ritorna altre due volte in questo brano. Quando Abramo porta Isacco sul monte Moriah, Isacco si rende conto di quello che stanno per fare e di quanto le cose si mettano male. Sa che sta per essere sacrificato, come tutti i bambini che sanno sempre quello che sta per succedere. Si legge: «E Isacco si rivolse ad Abramo, suo padre, e gli disse: ‘Padre mio!’, ed egli: ‘Eccomi, figlio mio’. E Isacco disse: ‘Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per il sacrificio?’ E Abramo disse: ‘Dio provvederà all’agnello per il sacrificio, figlio mio’». Isacco non dice: «Padre», dice: «Padre mio». Abramo è il padre del popolo ebraico, ma è anche il padre di Isacco, il suo padre personale. E Abramo non chiede: «Che cosa vuoi?» Dice: «Eccomi». Quando Dio chiama Abramo, Abramo è completamente presente per Dio. Quando Isacco chiama Abramo, Abramo è completamente presente per suo figlio. Ma com’è possibile? Dio chiede ad Abramo di uccidere Isacco e Isacco chiede a suo padre di proteggerlo. Come può Abramo essere due cose opposte contemporaneamente? Hinneni è usato un’altra volta nel brano, nel momento più drammatico. «E arrivarono al luogo che Dio gli aveva detto e Abramo costruì un altare e preparò la legna, poi legò Isacco, suo figlio, e lo mise sull’altare sopra la legna. E Abramo stese la mano e prese il coltello per sgozzare suo figlio. E un messo del Signore lo chiamò dal cielo e disse: ‘Abramo, Abramo!’, ed egli: ‘Eccomi’. E quegli disse: ‘Non alzare la tua mano sul ragazzo e non fargli niente, perché adesso so che temi Dio e non mi hai negato tuo figlio, il tuo unico’.» Abramo non chiede: «Che cosa vuoi?» Dice: «Eccomi». La porzione di Torah per il mio Bat Mitzvah tocca molti temi, ma secondo me il più importante è la riflessione su quali sono le persone per cui noi siamo completamente presenti e come questo, più di qualunque altra cosa, definisca la nostra identità. Il mio bisnonno, che ho già nominato prima, ha chiesto aiuto. Non vuole andare alla Casa ebraica. Ma nessuno in famiglia ha risposto: «Eccomi». Hanno invece cercato di convincerlo che non sa qual è la cosa migliore per lui e che non sa neppure bene quello che vuole. Davvero, non hanno neppure cercato di convincerlo, gli hanno solo detto che cosa dovrà fare. Stamattina, alla scuola ebraica, mi è stata rivolta l’accusa di avere usato delle brutte parole. Non so neanche bene se «usato» sia il termine giusto: fare un elenco non è certousare qualcosa. Comunque, quando i miei genitori sono venuti a parlare con il rabbino Singer, non mi hanno detto: «Eccoci». Hanno chiesto: «Cos’hai fatto?» Vorrei che mi avessero almeno concesso il beneficio del dubbio, perché me lo merito. Tutti quelli che mi conoscono sanno che faccio un casino di errori, ma sanno anche che sono una brava persona. Ma non è perché sono una brava persona che merito il beneficio del dubbio, è perché loro sono i miei genitori che avrebbero dovuto concedermelo. Anche se non mi credevano, avrebbero dovuto far finta di sì. Mio padre una volta mi ha raccontato che prima che io nascessi, quando l’unica prova della mia vita erano le ecografie, doveva credere in me. In altre parole, il fatto di nascere permette ai tuoi genitori di smettere di credere in te. Okay, grazie per essere venuti, adesso tutti fuori.
> Tutto finito?
> No. Non proprio. Farò esplodere questo posto.
> Che cazzo dici?
> Ho organizzato un ricevimento sul tetto della vecchia fabbrica di rullini a colori dall’altra parte della strada. Guarderemo da lì.
> Scappiamo!
> Rullini a colori?
> Non c’è bisogno di scappare. Nessuno si farà male.
> Fidatevi di lei.
> Rullini per vecchie macchine fotografiche.
> Non c’è neanche bisogno di fidarsi di me. Pensateci: se aveste avuto bisogno di scappare, sareste già morti.
> Che logica perversa.
> Eccheccazzo!
> Un’ultima cosa, prima che andiamo: qualcuno sa perché sugli aerei smorzano le luci al decollo e all’atterraggio?
> Così il pilota vede meglio?
> Andiamocene e basta, okay?
> Per risparmiare corrente?
> Non voglio morire.
> Buone ipotesi, ma no. È perché quelli sono i momenti più critici del volo. Più dell’ottanta per cento degli incidenti si verifica al decollo o all’atterraggio. Abbassano le luci per dare agli occhi il tempo di adattarsi al buio di una cabina piena di fumo.
> Dovrebbe esserci una parola per cose così.
> Potete seguire il percorso illuminato che vi porterà fuori dalla sinagoga. Vi indicherà la strada. Oppure potete seguire me.
Qualcuno! Qualcuno!
Julia era al suo lavandino, Jacob al proprio. Doppi lavandini: una configurazione molto ricercata nelle vecchie case di Cleveland Park, come gli intarsi intricati lungo i bordi dei parquet, le mensole dei camini originali e i candelabri a gas riconvertiti. C’erano così poche differenze tra le case che il minimo dettaglio andava esaltato, in modo che nessuno lavorasse troppo per troppo poco. D’altra parte, chi vuole davvero i doppi lavandini?
«Sai che cosa mi ha appena chiesto Benjy?» disse Jacob, guardandosi nello specchio sopra il suo lavandino.
«Se il mondo dura abbastanza, ci saranno fossili dei fossili?»
«Come fai a saperlo?»
«Il monitor sa tutto.»
«Giusto.»
Jacob si passava quasi sempre il filo interdentale, se aveva un testimone. Quasi quarant’anni a usare occasionalmente il filo interdentale e aveva avuto solo tre carie – tutto tempo risparmiato. Quella sera, con sua moglie come testimone, lo usò. Voleva rimanere un po’ di tempo a quei doppi lavandini. O risparmiarsi un po’ di tempo nell’unico letto.
«Quand’ero bambino mi ero creato un mio sistema di posta personale. Avevo fatto un piccolo ufficio postale con lo scatolone di un frigorifero. Mamma mi aveva cucito un’uniforme. Avevo persino dei francobolli con la faccia di mio nonno.»
«Perché me lo stai raccontando?» chiese lei.
«Non lo so. È solo che ci stavo pensando» disse lui con il filo interdentale tra i due incisivi.
«E perché ci stavi pensando?»
Jacob ridacchiò: «Sembri il dottor Silvers».
Lei non ridacchiò: «Tu ami il dottor Silvers».
«Non avevo niente da consegnare» proseguì lui, «per cui cominciai a scrivere lettere a mia mamma. Era il sistema ad affascinarmi; dei messaggi non mi importava. Comunque, il primo diceva: ‘Se stai leggendo questo, il nostro sistema postale funziona!’ Me lo ricordo.»
«Il nostro» disse lei.
«Cosa?»
«Nostro. Il nostro sistema postale. Non il mio sistema postale.»
«Forse avevo scritto mio» disse lui srotolando il filo dalle dita, rivelando solchi circolari. «Non me lo ricordo.»
«Invece sì.»
«Non lo so.»
«Invece sì. Ed è per questo che me lo stai raccontando.»
«Mia mamma era fantastica» disse lui.
«Lo so. L’ho sempre saputo. Riesce a far sentire ai ragazzi che nessuno al mondo è migliore di loro e che loro non sono migliori di nessun altro. È un equilibrio difficile.»
«Mio padre non ci riesce.»
«Tuo padre non sa cosa sia l’equilibrio.»
I solchi erano già scomparsi.
Julia prese uno spazzolino e lo passò al marito.
Jacob provò a far uscire a forza qualcosa che non voleva uscire, e disse: «È finito il dentifricio».
«Ce n’è un altro nell’armadietto.»
Un momento di silenzio mentre si lavavano i denti. Se ci mettevano dieci minuti ogni sera a prepararsi per andare a dormire – e ce li mettevano senz’altro, almeno dieci minuti – il totale era sessanta ore l’anno. Più ore insieme per prepararsi per dormire che svegli in vacanza insieme. Erano sposati da sedici anni. Nel frattempo avevano trascorso l’equivalente di quaranta giornate intere a prepararsi per andare a dormire, quasi sempre davanti a quegli ambiti doppi lavandini solitari, quasi sempre in silenzio.
Qualche mese dopo aver traslocato, Jacob avrebbe creato un sistema postale con i suoi figli. Max si era fatto sfuggente. Rideva meno, si incupiva meno, cercava sempre di sedersi il più vicino possibile alla finestra. Jacob era riuscito a negare l’evidenza a se stesso, ma gli altri cominciarono a notarlo e a parlarne; Deborah lo prese in disparte, a un brunch, e gli chiese: «Come lo vedi, Max?»
Jacob trovò su Etsy delle buche delle lettere di seconda mano e le appese alle porte delle camere dei ragazzi e una alla sua. Disse che avrebbero avuto un loro sistema di posta segreto, da usare per i messaggi che sembravano impossibili da dire ad alta voce.
«Come i bigliettini che la gente lasciava nel Muro del Pianto» buttò lì Benjy.
No, pensò Jacob, ma disse: «Sì. Una cosa del genere».
«A parte il fatto che tu non sei Dio» disse Max, cosa che, pur essendo straovvia e in linea con l’atteggiamento che Jacob sperava di vedere nei suoi figli (in quanto atei e in quanto ragazzi che non hanno paura dei loro genitori), gli bruciò lo stesso.
Jacob controllava la sua buca delle lettere tutti i giorni. Benjy era l’unico a scrivere: «Pace nel mondo»; «Nevica»; «Televisore più grande».
Fare il genitore da solo era difficile su molti fronti: la logistica necessaria per far preparare tre ragazzini in tempo per la scuola con due mani soltanto, la mole di spostamenti da coordinare stile torre di controllo di Heathrow, la necessità di ricorrere al multitasking del multitasking. Ma la sfida più difficile era trovare il tempo per parlare a tu per tu con ciascuno di loro. Erano sempre insieme, c’era sempre chiasso, c’era sempre qualcosa da fare e non c’era nessuno con cui dividere il carico. Per cui quando si ritrovavano in due da soli sentiva da una parte il bisogno di cogliere l’occasione (per quanto innaturale potesse risultare in quel momento) e dall’altra una dose concentrata della vecchia paura di dire troppo o troppo poco.
Una sera, poche settimane dopo la creazione del sistema postale, Sam stava leggendo un libro a Benjy e Max e Jacob si ritrovarono a fare pipì nello stesso bagno.
«Non incrociare i flussi, Ray.»
«Eh?»
«Da Ghostbusters.»
«So che è un film, ma non l’ho mai visto.»
«Stai scherzando.»
«No.»
«Ma io ricordo di averlo visto con...»
«Io non l’ho visto.»
«Okay. Be’ c’è questa scena fantastica in cui fanno fuoco con i loro nonsocosaprotonici per la prima volta, ed Egon dice: ‘Non incrociare i flussi, Ray’, perché sarebbe una vera catastrofe, e da quel momento mi viene sempre in mente quella battuta quando piscio nello stesso bagno con qualcuno. Ma noi due abbiamo finito, quindi adesso non ha più senso.»
«Vabbè.»
«Ho notato che non hai messo niente nella mia buca delle lettere.»
«Sì. Lo farò.»
«Non sei obbligato. Pensavo solo che potesse essere un modo utile per toglierti qualche peso di dosso.»
«Okay.»
«Tutti ci teniamo delle cose per noi. Lo fanno i tuoi fratelli. Lo faccio io. Lo fa la mamma. Ma può rendere la vita molto difficile.»
«Mi dispiace.»
«No, io dicevo per te. Ho passato la vita a fare sforzi enormi per proteggere me stesso dalle cose che mi fanno più paura e alla fine non sarebbe giusto dire che non c’era niente di cui avere paura, ma forse se le mie paure peggiori si fossero concretizzate non sarebbe stato poi tanto male. Forse i miei sforzi sono stati peggio. Mi ricordo la sera in cui sono andato all’aeroporto. Vi ho dato un bacio come se stessi partendo per un viaggio qualunque e vi ho detto qualcosa tipo: ‘Ci vediamo tra un paio di settimane’. E mentre mi preparavo per andare, la mamma mi ha chiesto che cosa aspettavo. Ha detto che era una cosa enorme e che sicuramente avevo molte cose enormi dentro e sicuramente anche voi.»
«Ma non sei tornato indietro per dirci qualcos’altro.»
«Avevo troppa paura.»
«Paura di cosa?»
«Non c’era niente di cui avere paura. È questo che sto cercando di dirti.»
«Lo so che non c’era niente di cui avere davvero paura. Ma tu di che cosa avevi paura?»
«Di renderlo vero?»
«Il fatto di partire?»
«No. Quello che avevamo. Quello che abbiamo.»
Julia si infilò in profondità lo spazzolino nella guancia e appoggiò le mani sul lavandino. Jacob sputò e disse: «Sono una delusione per la mia famiglia proprio come mio padre è stato una delusione per noi».
«Non è vero» disse lei. «Ma evitare i suoi errori non basta.»
«Come?»
Lei si tolse lo spazzolino di bocca e ripeté: «Non è vero. Ma evitare i suoi errori non basta».
«Sei una mamma fantastica.»
«Cosa te lo fa dire?»
«Stavo pensando a come mia mamma era una mamma fantastica.»
Julia chiuse l’anta del mobiletto, rimase in silenzio come se stesse decidendo se dire qualcosa, poi disse: «Tu non sei felice».
«Cosa fa dire questo a te?»
«È la verità. Sembri felice. Magari pensi persino di essere felice. Ma non lo sei.»
«Pensi che sia depresso?»
«No, penso che dai un’importanza enorme alla felicità, a quella tua e a quella degli altri, e ti senti così minacciato dall’infelicità che preferiresti affondare insieme alla nave piuttosto che ammettere l’esistenza di una falla.»
«Secondo me non è vero.»
«E sì, penso che tu sia depresso.»
«Probabilmente è solo mononucleosi.»
«Sei stanco di scrivere una serie tv che non è tua e che tutti amano tranne te.»
«Non la amano tutti.»
«Be’, tu di sicuro no.»
«Mi piace.»
«E tu odi che quello che fai ti piaccia soltanto.»
«Non so.»
«Sì che lo sai, invece» disse lei. «Sai che c’è qualcosa dentro di te – un libro, o una serie, o un film, quello che è – e se solo potesse uscire, allora tutti i sacrifici che senti di aver fatto non ti sembrerebbero più sacrifici.»
«Non sento di aver dovuto fare...»
«Vedi come hai cambiato la grammatica? Io ho detto i sacrifici che senti di aver fatto. Tu hai detto, aver dovuto fare. Vedi la differenza?»
«Cristo, dovresti proprio prenderti un diploma e un divano.»
«Non sto scherzando.»
«Lo so.»
«E sei stanco di fare finta di essere felicemente sposato...»
«Julia.»
«... e odi che la relazione più importante della tua vita ti piaccia soltanto.»
Spesso Jacob non sopportava Julia, a volte arrivava persino a odiarla, ma non c’erano mai momenti in cui volesse ferirla.
«Non è vero» disse.
«Sei troppo gentile o hai troppa paura per ammetterlo, ma è vero.»
«Non lo è.»
«E sei stanco di essere un padre e un figlio.»
«Perché stai cercando di ferirmi?»
«Non sto cercando di ferirti. E ci sono cose peggiori che ferirsi a vicenda.» Sistemò sul ripiano i vari prodotti contro l’invecchiamento e la morte e disse: «Andiamo a letto».
Andiamo a letto. Queste tre parole distinguono un matrimonio da qualunque altro tipo di relazione. Non troviamo un modo per arrivare a un accordo, ma andiamo a letto. Non perché vogliamo, ma perché dobbiamo. In questo preciso momento ci odiamo, ma andiamo a letto. Nell’unico letto che abbiamo. Andiamo ciascuno dal suo lato, ma i lati dello stesso letto. Ritiriamoci in noi stessi, ma insieme. Quante conversazioni sono finite con queste tre parole? Quanti litigi?
Qualche volta andavano a letto e facevano un ultimo sforzo, a quel punto orizzontale, per risolvere le cose. Qualche volta andare a letto rendeva possibili cose che non lo erano nella stanza infinitamente grande. L’intimità di essere sotto lo stesso lenzuolo, due stufe che contribuivano al tepore comune, ma allo stesso tempo non erano costrette a vedersi. La vista del soffitto, e tutto quello che i soffitti fanno venire in mente. O forse il lobo della generosità si trovava nel retro del cervello, dove in quel momento affluiva tutto il sangue.
Qualche volta andavano a letto e rotolavano alle due estremità del materasso, che senza dirselo entrambi avrebbero desiderato di formato extra large, e desideravano senza dirselo che tutto passasse, senza riuscire a mettere a fuoco che cosa fosse quel tutto. La notte? Il matrimonio? Tutto il carico di difficoltà della vita famigliare di questa famiglia? Andavano a dormire nello stesso letto non perché non avessero scelta – kein briere iz oich a breire, come avrebbe detto il rabbino al funerale tre settimane dopo; anche non avere scelta è una scelta. Il matrimonio è il contrario del suicidio, ma è l’unico atto di volontà che abbia la stessa definitività.
Andiamo a letto...
Subito prima di stendersi, Jacob fece una faccia perplessa e si tastò le tasche inesistenti dei boxer attillati, come se di colpo si fosse reso conto che non sapeva dove aveva messo le chiavi, e disse: «Vado a fare pipì». Esattamente come faceva tutte le sere a quel punto.
Chiuse a chiave la porta, aprì il cassetto centrale dell’armadietto delle medicine, sollevò la pila di New Yorker e prese la scatola di supposte di idrocortisone acetato. Stese un asciugamano grande sul pavimento, ne arrotolò un altro a formare un cuscino, si sdraiò sul fianco sinistro con il ginocchio destro piegato, pensò a Terri Schiavo o a Bill Buckner o a Nicole Brown Simpson e la spinse dentro con delicatezza. Aveva il sospetto che Julia sapesse che cosa faceva ogni sera, ma non riusciva a imporsi di chiederglielo, perché avrebbe dovuto prima ammettere di avere un intero corpo umano. Quasi tutto del suo corpo si poteva condividere quasi sempre, così come quasi tutto quello di lei quasi sempre, ma talvolta alcune parti dovevano essere nascoste. Avevano trascorso innumerevoli ore ad analizzare la grammatica dei movimenti intestinali dei loro figli; avevano applicato la crema all’ossido di zinco direttamente con le dita nude; avevano fatto ruotare termometri rettali secondo le indicazioni della dottoressa Donowitz, per stimolare lo sfintere nel tentativo di liberare un bambino dalla stitichezza. Ma per quanto riguardava loro due, era richiesta una certa misura di negazione.
non ti meriti di essere scopata nel culo
Il buco del culo, da cui ogni membro della famiglia Bloch era, nel suo personalissimo modo, ossessionato, rappresentava l’epicentro della negazione di Jacob e Julia. Era necessario alla vita ma non andava mai nominato. Pur avendocelo, bisognava nasconderlo. Era il punto dove tutto si riconciliava – la certezza del corpo umano – e dove niente poteva andare, soprattutto non attenzione, e soprattutto non un dito o un cazzo, e soprattutto soprattutto non una lingua. Accanto al gabinetto c’erano abbastanza fiammiferi sia per accendere sia per alimentare un falò.
Tutte le sere Jacob diceva di dover andare a fare pipì e tutte le sere Julia lo aspettava e sapeva che lui nascondeva l’involucro della supposta in un involto di carta igienica sul fondo del cestino e sapeva che, quando tirava l’acqua, tirava l’acqua a vuoto. Quei minuti a nascondersi, a vergognarsi in silenzio, avevano pareti e soffitto. Proprio come i loro Shabbat e l’orgoglio confessato in un sussurro, erano diventati un’architettura del tempo. Senza bisogno di assoldare uomini nerboruti o di inviare biglietti con il cambio d’indirizzo o anche solo di sostituire una chiave all’anello del loro cuore, avevano traslocato da una casa a un’altra.
A Max piaceva giocare a nascondino e nessuno, neanche Benjy, lo sopportava. Conoscevano la casa troppo bene, l’avevano esplorata in tutti i suoi recessi, era un gioco esaurito, come la dama. Per cui Max riusciva a costringerli a giocarci solo in qualche occasione speciale (un compleanno o come premio per un atto particolarmente encomiabile). Ed era tutto noioso come tutti si aspettavano: qualcuno tratteneva il respiro dietro le camicette di Julia nell’armadio, qualcuno stava disteso nella vasca da bagno o rannicchiato sotto il lavandino, qualcuno si nascondeva tenendo gli occhi chiusi, incapace di superare la convinzione istintiva che questo lo rendesse meno visibile.
Anche quando i bambini non si stavano nascondendo, Jacob e Julia li cercavano: per paura, per amore. Ma potevano passare ore senza che notassero l’assenza di Argo. Sbucava sempre fuori quando si apriva la porta d’ingresso o scorreva l’acqua nella vasca da bagno o si metteva da mangiare in tavola. La sua ricomparsa era data per scontata. A cena Jacob cercava di stimolare una discussione animata, per aiutare i ragazzi a sviluppare eloquenza e pensiero critico. Nel mezzo di uno di quei dibattiti – doveva essere Gerusalemme o Tel Aviv la capitale di Israele? – Julia chiese se qualcuno avesse visto Argo. «La sua cena è rimasta lì.»
Dopo qualche minuto che lo chiamavano piano e lo cercavano senza scomporsi, i ragazzi cominciarono ad andare nel panico. Suonarono il campanello. Prepararono una ciotola di cibo per umani. Max suonò qualche nota a caso dal primo volume del metodo Suzuki, cosa che strappava sempre un guaito. Niente.
La porta dietro era chiusa, ma quella davanti era aperta, per cui era plausibile che fosse uscito. (Chi aveva lasciato la porta aperta? si chiese Jacob – arrabbiato, ma con nessuno in particolare.) Cercarono nei dintorni, chiamandolo, prima con amore e poi con disperazione. Alcuni vicini si unirono alla ricerca. Jacob non riuscì a non chiedersi – tenendosi la domanda per sé, naturalmente – se Argo non fosse scappato per andare a morire, come pare che facciano alcuni cani. Venne buio, era difficile vedere.
Saltò fuori che era rimasto nel bagno degli ospiti al piano di sopra. In qualche modo ci si era chiuso dentro ed era troppo vecchio o troppo buono per abbaiare. O forse, almeno finché non gli era venuta fame, aveva preferito stare lì dentro. Quella notte gli fu concesso di dormire nel lettone. E ai bambini lo stesso. Perché pensavano di averlo perso e perché era stato per tutto il tempo così vicino.
A cena, la sera dopo, Jacob disse: «È deciso: ad Argo dovrebbe essere permesso di dormire nel lettone tutte le sere». I ragazzi si misero a gridare. Sorridendo, Jacob disse: «Ne deduco che siete a favore».
Senza sorridere, Julia disse: «Alt, alt, alt».
Fu l’ultima volta che quei sei animali dormirono sotto la stessa coperta.
Jacob e Julia si nascondevano dentro il lavoro che si nascondevano a vicenda.
Cercavano la felicità che non avevano a spese della felicità di qualcun altro.
Si nascondevano dietro la gestione della vita famigliare.
Il loro cercare più puro era di Shabbat, quando chiudevano gli occhi e rinnovavano la casa e loro stessi.
Quell’architettura di minuti, quando Jacob andava in bagno e Julia non leggeva il libro che aveva in mano, era il loro nascondersi più puro.
adesso ti meriti di essere scopata nel culo
Andarono a letto, Julia in camicia da notte, Jacob in maglietta e boxer. Lei teneva il reggiseno. Diceva che il sostegno la faceva sentire più comoda, e forse questa era tutta la verità. Lui diceva che il tepore della maglietta gli facilitava il sonno e forse anche questa era tutta la verità. Spensero le luci, si tolsero gli occhiali e fissarono attraverso lo stesso soffitto, lo stesso tetto, con due paia di occhi i cui difetti si potevano compensare ma che per conto loro non sarebbero mai migliorati.
«Vorrei che mi avessi conosciuto quand’ero bambino» disse Jacob.
«Bambino?»
«O solo... prima. Prima che diventassi così.»
«Vorresti che ti avessi conosciuto prima che tu conoscessi me.»
«No. Non capisci.»
«Trova un altro modo per dirlo.»
«Julia, io non sono... me stesso.»
«Allora chi sei?»
Jacob avrebbe voluto piangere, ma non poteva. Ma non poteva neanche nascondere il suo nascondersi. Lei gli accarezzò i capelli. Non lo stava perdonando di niente. Di niente. Non dei messaggi, non degli anni. Ma non riusciva a non rispondere al suo bisogno. Non voleva, ma non riusciva a non farlo. Era una versione dell’amore. Ma una religione non si regge sulle doppie negazioni.
Jacob disse: «Non ho mai detto quello che provo».
«Mai?»
«No.»
«È un’accusa pesante.»
«È vero.»
«Be’» disse lei, con la prima risatina da quando aveva trovato il cellulare, «ci sono moltissime altre cose che fai bene.»
«Questo suono dice che non tutto è perduto?»
«Cosa?»
«La tua risatina.»
«Quella? No, dice che apprezzo l’ironia.»
Addormentati, implorò Jacob rivolto a se stesso. Addormentati.
«Che cosa faccio bene?» chiese.
«Parli sul serio?»
«Dimmi solo una cosa.»
Era ferito. E per quanto Julia sentisse che se lo meritava, non riusciva a sopportarlo. Aveva dedicato così tanto di sé – rinunciando a così tanto di sé – a proteggerlo. Quante esperienze, quanti argomenti di conversazione, quante parole erano stati sacrificati per placare la sua profonda vulnerabilità? Non potevano andare in una città dove lei era stata con un ragazzo vent’anni prima. Non poteva fare un’osservazione garbata sulla mancanza di regole a casa dei genitori di lui e tantomeno sulle sue scelte genitoriali che spesso assomigliavano a non scelte. Lei raccoglieva le cacche di Argo perché Argo non poteva farci niente e perché, anche se non l’aveva scelto né voluto, e anche se era un carico ingiusto, Argo era anche suo.
«Sei gentile» disse al marito.
«No. Non è affatto vero.»
«Potrei farti centinaia di esempi...»
«Tre o quattro sarebbero di estremo aiuto in questo momento.»
Julia non voleva comportarsi così, ma non poteva farne a meno.
«Riporti sempre il carrello della spesa al posto giusto. Ripieghi la tua copia del Post e la lasci per un altro lettore sulla metro. Disegni mappe per i turisti che si sono persi...»
«È gentilezza o coscienziosità?»
«Allora sei coscienzioso.»
Lui poteva sopportare che fosse ferita? Julia avrebbe voluto saperlo, ma non era sicura che lui gliel’avrebbe detto.
Gli chiese: «Ti rende triste che amiamo i bambini più di quanto ci amiamo tra noi?»
«Io non la metterei in questi termini.»
«No, tu diresti che io sono il tuo nemico.»
«Ero esasperato.»
«Lo so.»
«Non volevo dire quello che stavo dicendo.»
«Lo so» disse lei. «Ma lo hai detto.»
«Non credo che la rabbia riveli la verità. A volte dici delle cose e basta.»
«Lo so. Ma non credo che le cose escano fuori dal nulla.»
«Io non amo i bambini più di quanto amo te.»
«Sì, invece» disse lei. «Io sì. Magari è così che si deve fare. Magari l’evoluzione ci costringe a farlo.»
«Io ti amo» disse lui, girandosi verso di lei.
«Lo so. Non ne ho mai dubitato e non ne dubito adesso. Ma è un tipo di amore diverso da quello di cui ho bisogno.»
«E questo cosa vuol dire per noi?»
«Non lo so.»
Addormentati, Jacob.
Lui disse: «Hai presente l’effetto della novocaina che ti lascia in dubbio su dove finisca la bocca e dove cominci il mondo?»
«Credo di sì.»
«O di come a volte pensi che ci sarà un altro gradino ma non c’è e il piede inciampa in un gradino immaginario?»
«Certo.»
Perché gli era così difficile attraversare lo spazio fisico? Non avrebbe dovuto esserlo, ma lo era.
«Non so che cosa sto dicendo.»
Lei lo sentiva dibattersi.
«Cosa?»
«Non lo so.»
Lui le infilò la mano dietro ai capelli, stringendole la nuca.
«Sei stanca» disse.
«Sono proprio stremata.»
«Siamo stanchi. Non ci siamo proprio risparmiati. Dobbiamo trovare il modo di riposare.»
«Io capirei se tu avessi una storia. Mi arrabbierei e ne sarei ferita e probabilmente sarei indotta a fare qualcosa che non voglio neanche fare...»
«Come cosa?»
«Ti odierei, Jacob, ma almeno ti capirei. Ti ho sempre capito. Ricordi che te lo dicevo? Che sei l’unica persona che ha senso per me? Adesso ogni cosa che fai mi disorienta.»
«Ti disorienta?»
«La tua ossessione per gli annunci immobiliari.»
«Io non ho un’ossessione per gli annunci immobiliari.»
«Ogni volta che passo di fianco al tuo computer, lo schermo è pieno di case in vendita.»
«Sono solo curioso.»
«Ma perché? E perché non dici a Sam che è più bravo di te a scacchi?»
«Glielo dico.»
«Non è vero. Gli fai credere che lo lasci vincere. E perché sei una persona completamente diversa in situazioni diverse? Diventi silenziosamente passivo-aggressivo con me, ma scatti con i bambini, ma ti lasci mettere i piedi in testa da tuo padre. Sono dieci anni che non mi scrivi una lettera di Shabbat ma passi tutto il tuo tempo libero a lavorare a qualcosa che ami ma che non condividi con nessuno e poi scrivi quei messaggi che sostieni non significhino niente. Ho tracciato sette cerchi camminandoti intorno quando ci siamo sposati. E adesso non ti trovo più.»
«Non ho una storia.»
«Non ce l’hai?»
«Non ce l’ho.»
Julia cominciò a piangere.
«Ho scambiato dei messaggi orribilmente fuori luogo con una persona del lavoro.»
«Un’attrice.»
«No.»
«Chi?»
«È importante?»
«Se importa a me, è importante.»
«Una della regia.»
«Che si chiama come me.»
«No.»
«È quella con i capelli rossi?»
«No.»
«Sai, non m’interessa neppure.»
«Bene. Meglio così. Non c’è ragione...»
«Com’è cominciata?»
«È... evoluta. Come succede sempre. Ha preso una...»
«Non m’interessa.»
«Non siamo mai andati oltre le parole.»
«Per quanto tempo?»
«Non lo so.»
«Certo che lo sai.»
«Forse quattro mesi.»
«Mi stai chiedendo di credere che per quattro mesi hai scambiato messaggi sessualmente espliciti con una con cui lavori tutti i giorni e che questo non ha mai portato a niente di fisico?»
«Non ti sto chiedendo di credermi. Ti sto dicendo la verità.»
«La cosa triste è che ci credo.»
«Non è triste. È speranza.»
«No, è triste. Sei l’unica persona che conosco, o che potrei mai immaginare, capace di scrivere delle frasi così audaci e al tempo stesso vivere in modo così inoffensivo. In realtà credo che tu sia stato capace di scrivere a una che volevi leccarle il buco del culo e quando sei stato costretto a scoprire le carte ti sei seduto accanto a lei ogni giorno per quattro mesi interi senza permettere alla tua mano di oltrepassare i quindici centimetri che ti separavano dalla sua coscia. Senza mettere insieme il coraggio necessario. Senza mai neppure mandarle il segnale che andava bene se, data la tua codardia, prendeva lei l’iniziativa e ti metteva una mano sulla coscia. Pensa ai segnali che devi averle mandato per tenerla con la fica bagnata e la mano lontana.»
«Stai esagerando, Julia.»
«Esagerando? Dici sul serio? Sei tu in questa stanza la persona che non sa che cosa significa esagerare.»
«So di aver esagerato in quello che ho scritto.»
«Io ti sto dicendo che non sei stato in grado di esagerare in quello che hai vissuto.»
«Che cosa dovrebbe voler dire? Vuoi che abbia una storia?»
«No, voglio che tu mi scriva lettere di Shabbat. Ma se scrivi messaggi pornografici a un’altra, allora sì, voglio che tu abbia una storia. Perché così potrei rispettarti.»
«Quello che dici non ha senso.»
«Quello che dico ha senso eccome. Ti avrei rispettato molto, molto di più se te la fossi scopata. Mi avrebbe dimostrato qualcosa che ho trovato sempre più difficile da credere.»
«Cosa?»
«Che sei un essere umano.»
«Non credi che io sia umano?»
«Non credo che tu ci sia punto e basta.»
Jacob aprì la bocca, senza sapere che cosa gli sarebbe uscito. Avrebbe voluto renderle pan per focaccia, catalogare le sue nevrosi e irrazionalità e debolezze e ipocrisie e brutture. Avrebbe anche voluto ammettere che tutto quello che lei gli aveva detto era vero, ma contestualizzando la propria mostruosità: non era stata tutta colpa sua. Voleva cementare mattoni con una mano e romperli a martellate con l’altra.
Ma invece della voce di Jacob, sentirono quella di Benjy: «Venite! Venite!»
Julia scoppiò a ridere.
«Perché ridi?»
«Non significa che non tutto è perduto.»
Era la risata nervosa dei litigi. La risata cupa della consapevolezza della fine. La risata religiosa dell’incredulità.
Benjy chiamò di nuovo attraverso il monitor: «Qualcuno! Qualcuno!»
Si zittirono.
Julia scrutò il buio in cerca degli occhi del marito, per scrutarli.
«Qualcuno!»
La parola con la n
Quando Jacob tornò dopo aver calmato Benjy, Julia si era addormentata. O imitava in modo perfettamente credibile una persona che dormiva. Jacob era agitato. Non voleva leggere – né un libro né una rivista, nemmeno un blog di annunci immobiliari. Non voleva guardare la televisione. Scrivere era fuori questione. Masturbarsi, idem. Non gli andava nessuna attività, qualunque cosa gli sarebbe sembrata una recita, come se fingesse di essere una persona.
Andò alla stanza di Sam, sperando di poter trascorrere qualche momento di pace osservando il corpo dormiente del suo primogenito. Una luce instabile filtrava nel corridoio da sotto la porta, poi si ritirava: onde dall’oceano digitale dall’altra parte. Sam, sempre vigile sulla propria privacy, aveva sentito il passo pesante di suo padre.
«Papà?»
«L’unico e solitario.»
«Allora... Te ne stai lì? Hai bisogno di qualcosa?»
«Posso entrare?»
Senza aspettare una risposta, Jacob aprì la porta.
«Era una domanda retorica?» chiese Sam, senza distogliere gli occhi dallo schermo.
«Che cosa stai facendo?»
«Guardo la tv.»
«Non hai una tv.»
«Sul computer.»
«Quindi non stai guardando il computer?»
«Certo.»
«Cosa trasmettono?»
«Tutto.»
«Che cosa stai guardando?»
«Niente.»
«Hai un secondo?»
«Sì: uno...»
«Era una domanda retorica.»
«Ah.»
«Come va?»
«È una conversazione?»
«Sono solo venuto a vedere come va.»
«Bene.»
«Non è stupendo sentirsi bene?»
«Cosa?»
«Non so. Mi sa che l’ho sentita da qualche parte. Allora... Sam.»
«Già, provaci ancora...»
«Buona questa. Comunque, senti. Mi dispiace dover affrontare questo discorso. Ma devo. La cosa di stamattina alla scuola ebraica.»
«Non sono stato io.»
«Bene. È solo...»
«Non mi credi?»
«Il problema non è neanche questo.»
«Sì, invece.»
«Sarebbe molto più facile tirarti fuori da questa faccenda se tu avessi qualche spiegazione alternativa.»
«Non ce l’ho.»
«Un certo numero di quelle parole non sono particolarmente gravi. Detto tra noi, non mi darebbero fastidio neanche se le avessi scritte davvero.»
«Non le ho scritte.»
«Ma la parola che comincia con la n.»
Sam rivolse finalmente l’attenzione a suo padre.
«Quale, divorzio?»
«Cosa?»
«Lascia stare.»
«Perché hai detto questa cosa?»
«Non l’ho detta.»
«Stai parlando di me e della mamma?»
«Non lo so. Non riesco neanche a sentirmi tra litigi e vetri che si rompono.»
«Prima? No, quello che hai sentito...»
«A posto. Mamma è salita e abbiamo parlato un po’.»
Jacob lanciò un’occhiata alla tv sul computer. Pensò a Guy de Maupassant che pranzava tutti i giorni al ristorante sulla Tour Eiffel perché era l’unico posto di Parigi da cui non si vedesse la torre. I Nats stavano giocando con i Dodgers, extra inning. Con un accesso di entusiasmo improvviso, batté le mani. «Andiamo alla partita, domani!»
«Eh?»
«Ci divertiamo! Potremmo arrivare presto per esercitarci nella battuta. Mangiare tonnellate di merda.»
«Mangiare tonnellate di merda?»
«Schifezze.»
«Ti va bene se mi guardo questa e basta?»
«Ma ho avuto un’idea grandiosa.»
«Ah sì?»
«Ah no?»
«Ho calcio e violoncello e le lezioni per il Bar Mitzvah, sempre che si faccia ancora, Dio ce ne scampi.»
«Posso esonerarti.»
«Dalla mia vita?»
«Temo che a quella posso solo farti partecipare.»
«E poi giocano a Los Angeles.»
«Giusto» disse Jacob, e più piano: «Avrei dovuto capirlo».
Quella voce silenziosa indusse Sam a chiedersi se avesse ferito suo padre. Provò il brivido di una sensazione che, pur riconoscendone la totale assurdità, avrebbe provato con crescente frequenza e intensità negli anni a venire: che forse tutto era almeno un po’ colpa sua.
«Finiamo la partita a scacchi?»
«Naaa.»
«Hai soldi a sufficienza?»
«Sì.»
«E questa cosa della scuola ebraica. Ovviamente non è per il nonno, vero?»
«No, a meno che non sia anche il nonno di chiunque sia stato.»
«Lo pensavo anch’io. Comunque...»
«Papà, Billie è nera, quindi come potrei essere razzista?»
«Billie?»
«La ragazza di cui sono innamorato.»
«Hai una ragazza?»
«No.»
«Non ti seguo.»
«È la ragazza di cui sono innamorato.»
«Okay. E hai detto Billie? Ma è una ragazza, giusto?»
«Sì. Ed è nera. Quindi come potrei essere razzista?»
«Non sono sicuro che il ragionamento funzioni.»
«Funziona.»
«Sai chi sono quelli che stanno sempre a ribadire che alcuni dei loro migliori amici sono neri? Quelli che sono a disagio con i neri.»
«Nessuno dei miei migliori amici è nero.»
«E per quel che vale, sono abbastanza sicuro che preferiscano la dicitura afroamericano.»
«Dicitura?»
«Terminologia.»
«Non dovrebbe essere quello innamorato di una ragazza nera a stabilire la dicitura?»
«Non è il corvo che dice al merlo quanto è afroamericano?»
«Il corvo?»
«Era una battuta. È un nome interessante, tutto qui. Non è un giudizio. Tu sai che hai il nome di un pro-prozio che è morto a Birkenau. Gli ebrei hanno sempre bisogno che ci sia qualche significato annesso.»
«Qualche sofferenza, volevi dire.»
«I gentili scelgono un nome perché suona bene. Oppure se lo inventano.»
«Billie si chiama così per Billie Holiday.»
«Quindi è l’eccezione che conferma la regola.»
«Tu da chi hai preso il nome?» chiese Sam, facendo la piccola concessione del suo interesse in cambio del senso di colpa per aver ridotto la voce di suo padre a una tristezza silenziosa.
«Un lontano parente di nome Yakov. Di cui si dice che fosse eccezionale, fuori dall’ordinario. Pare avesse fracassato la testa di un cosacco a mani nude.»
«Fico.»
«Io evidentemente non sono così forte.»
«Ma non conosciamo neanche nessun cosacco.»
«E al massimo sono ordinario.»
Uno dei loro stomaci brontolò, ma nessuno dei due capì quale.
«Be’, in sostanza, secondo me è stupendo che tu abbia una ragazza.»
«Non è la mia ragazza.»
«La dicitura colpisce ancora. Secondo me è stupendo che tu sia innamorato.»
«Non sono innamorato. La amo.»
«Qualunque cosa sia, è chiaro che rimane tra noi. Puoi contare su di me.»
«Ne ho già parlato alla mamma.»
«Davvero? Quando?»
«Non lo so. Un paio di settimane fa?»
«È una notizia vecchia?»
«È tutto relativo.»
Jacob fissò lo schermo di Sam. Era questo ad attirare Sam? Non la capacità di essere altrove, ma di non essere da nessuna parte?
«Che cosa le hai detto?» chiese Jacob.
«A chi?»
«A tua madre.»
«Vuoi dire alla mamma?»
«Proprio lei.»
«Non lo so.»
«Non lo sai nel senso che non hai voglia di parlarne con me adesso?»
«Giusto.»
«È strano, perché lei è convinta che tu le abbia scritte, quelle parole.»
«Non le ho scritte.»
«Okay. Ti sto dando fastidio. Me ne vado.»
«Non ho detto che mi stavi dando fastidio.»
Jacob si mosse verso la porta per andarsene, ma si fermò. «Vuoi sentire una barzelletta?»
«No.»
«È sporca.»
«Allora assolutamente no.»
«Qual è la differenza tra una Subaru e un’erezione?»
«No vuol dire no.»
«Davvero. Qual è la differenza?»
«Davvero, non mi interessa.»
Jacob si allungò in avanti e sussurrò: «Io non ho una Subaru».
Suo malgrado, Sam scoppiò in una grassa risata, con tanto di sbuffi e sputi. Jacob rise non per la barzelletta ma per la risata di suo figlio. Risero insieme a crepapelle, sguaiatamente.
Sam si sforzò senza successo di riprendere un contegno e disse: «La cosa buffa... la cosa proprio buffa... è... che tu hai una Subaru».
E risero ancora di più e Jacob sputò un po’ e gli vennero le lacrime agli occhi e ricordò com’era orribile avere l’età di Sam, com’era penoso e ingiusto.
«È vero» disse Jacob. «Ho proprio una Subaru. Avrei dovuto dire una Toyota. Dove avevo la testa?»
«Dove avevi la testa?»
Dove aveva la testa?
Si calmarono.
Jacob arrotolò di un altro giro le maniche della camicia: un po’ stretto, ma le voleva sopra il gomito.
«Secondo mamma bisogna che ti scusi.»
«E secondo te?»
In tasca, chiuse la mano intorno a niente, intorno a un coltello, e disse: «Anche».
L’unico e falso.
«Okay, allora» disse Sam.
«Non sarà così terribile.»
«Sì, invece.»
«Sì» disse Jacob, dando a Sam un bacio sopra la testa: l’ultimo punto baciabile. «Sarà uno schifo.»
Sulla porta, Jacob si girò.
«Come va in Other Life?»
«Eh.»
«Su cosa stai lavorando?»
«Sto costruendo una nuova sinagoga.»
«Davvero?»
«Sì.»
«Posso chiederti perché?»
«Perché ho distrutto la vecchia sinagoga.»
«Distrutto? Tipo con una sfera da demolizione?»
«Tipo.»
«Quindi adesso te ne costruisci una per te?»
«Avevo costruito anche quella vecchia.»
«Alla mamma piacerebbe tantissimo» disse Jacob, capendo la genialità e la bellezza di quello che Sam non condivideva mai. «E probabilmente avrebbe milioni di idee.»
«Ti prego, non dirglielo.»
Jacob provò una punta di piacere che non avrebbe voluto. Fece di sì con la testa e disse: «Ma certo», poi scosse la testa e disse: «Non lo farei mai».
«Okay» disse Sam, «quindi, se non c’è altro...»
«E la vecchia sinagoga? Perché l’avevi costruita?»
«Per poterla far saltare in aria.»
«Farla saltare in aria? Sai, se io fossi un padre diverso e tu fossi un figlio diverso, probabilmente mi sentirei obbligato a denunciarti all’FBI.»
«Ma se tu fossi un padre diverso e io un figlio diverso, non avrei avuto bisogno di far saltare in aria una sinagoga virtuale.»
«Touché» disse Jacob. «Ma non è possibile che tu non la stessi costruendo per distruggerla? O almeno non solo per distruggerla?»
«No, non è possibile.»
«Come, tipo, magari stavi cercando di ottenere qualcosa di esattamente giusto e siccome non lo era non hai potuto far altro che distruggerla?»
«Nessuno mi crede.»
«Io sì. Io credo che tu voglia che le cose siano giuste.»
«Tu non capisci e basta» disse Sam, perché non avrebbe mai ammesso che suo padre aveva capito qualcosa. Ma suo padre aveva capito. Sam non aveva costruito la sinagoga per distruggerla. Non era uno di quei nonsocosa dei mandala di sabbia tibetani che era stato costretto a sorbirsi durante un tragitto in macchina: cinque tizi che lavorano in silenzio per migliaia di ore su un progetto artistico-artigianale la cui funzione è di non avere funzione. («E io che pensavo che l’opposto degli ebrei fossero i nazisti» aveva detto suo padre, scollegando il telefono dallo stereo dell’auto.) No, lui aveva costruito la sinagoga nella speranza di sentirsi, finalmente, a proprio agio da qualche parte. Non era semplicemente che la poteva creare secondo le proprie personali specifiche esoteriche; lui poteva essere lì senza esserci. Non come la masturbazione. Ma come per la masturbazione, se non era esattamente giusto era completamente e irrimediabilmente sbagliato. A volte, nel peggior momento possibile, il suo Es ubriaco virava di colpo e nel suo faro mentale diventava Rabbi Singer o Seal (il cantante) o sua madre. E non c’era mai modo di tornare indietro. Anche con la sinagoga, la minima imperfezione – una rotonda infinitesimamente asimmetrica, scale con l’alzata troppo alta per bambini bassi, una stella di Davide capovolta – e tutto doveva sparire. Non era una reazione impulsiva. Era attenzione e cura. Non avrebbe potuto aggiustare quello che non andava bene? No. Perché avrebbe sempre saputo che era stato sbagliato: «Quella è la stella che una volta era stata appesa capovolta». Per un altro la correzione l’avrebbe reso ancora più perfetto che se fosse stato giusto la prima volta. Sam non era un altro. E neppure Samanta.
Jacob si sedette sul letto di Sam e disse: «Quand’ero giovane, forse alle superiori, mi piaceva trascrivere i testi delle mie canzoni preferite. Non so perché. Credo perché mi dava quella sensazione di quando le cose sono al posto giusto. Comunque, era molto prima di internet. Quindi mi mettevo lì con il mio walkman...»
«Il tuo walkman?»
«Un piccolo registratore con le cuffiette.»
«Dicevo per sfotterti.»
«D’accordo... be’... mi mettevo lì con il mio walkman e ascoltavo una canzone per un secondo o due, poi scrivevo quello che avevo sentito, poi riavvolgevo e riascoltavo di nuovo per essere sicuro di aver capito bene e poi andavo avanti e scrivevo un altro po’, poi riavvolgevo per riascoltare le parti che non avevo sentito bene o che non ero sicuro di avere sentito, poi scrivevo. Riavvolgere un nastro è un’operazione imprecisa, per cui finivo inevitabilmente troppo indietro o non abbastanza indietro. Era incredibilmente laborioso. Ma mi piaceva un sacco. Mi piaceva la cura che richiedeva. Mi piaceva la sensazione di farlo bene. Ho passato chissà quante migliaia di ore così. Qualche volta un testo mi metteva davvero in difficoltà, soprattutto quando arrivarono il grunge e l’hip-hop. E non mi accontentavo di tirare a indovinare, perché avrebbe rovinato tutto il senso di scrivere il testo: capire bene. Qualche volta dovevo ascoltare lo stesso pezzetto a oltranza, decine di volte, centinaia. Ascoltavo quel pezzo fino a consumare il nastro, letteralmente, al punto che quando dopo riascoltavo la canzone, la parte che avevo voluto capire meglio di tutte non c’era più. Mi ricordo una frase di All Apologies... la conosci, giusto?»
«No.»
«Nirvana? Bella, bella, bellissima canzone. Comunque, a Kurt Cobain sembrava che le rotelle gli fossero rotolate in bocca e c’era una frase che avevo trovato particolarmente difficile da decifrare. L’ipotesi migliore che avevo formulato, dopo centinaia di ascolti, era stata I can see from shame. Non mi sono reso conto che mi ero sbagliato fino a molti anni dopo, mentre la stavo cantando a squarciagola come un idiota, con la mamma. Eravamo sposati da poco.»
«Lei ti ha fatto notare che ti eri sbagliato?»
«Sì.»
«È proprio tipico di mamma.»
«Io le sono stato grato.»
«Ma stavi cantando.»
«Cantando sbagliato.»
«Vabbè. Avrebbe dovuto lasciar perdere.»
«No, ha fatto la cosa giusta.»
«E quindi qual è il testo giusto?»
«Tieniti forte. Era: aqua seafoam shame.»
«Non ci credo.»
«Vero?»
«E che cosa dovrebbe voler dire?»
«Non vuol dire niente. Era stato quello il mio errore. Ero convinto che dovesse voler dire qualcosa.»
II
Imparare l’impermanenza
Antietam
Né Jacob né Julia capirono esattamente che cosa stava succedendo in quelle due prime settimane dopo che Julia ebbe scoperto il cellulare: che cosa era stato concordato, implicato, affrontato in via ipotetica, chiesto. Nessuno dei due capiva che cos’era reale. Era come muoversi fra tante mine emotive; procedevano da un’ora all’altra e da una stanza all’altra con i cuori in punta di piedi, con grosse cuffie collegate a sensibilissimi metal detector capaci di scovare tracce di sentimenti sepolti, anche a costo di tagliare fuori il resto della vita.
Nel corso di una colazione che a un pubblico televisivo sarebbe potuta sembrare in tutto e per tutto felice, Julia disse con la testa nel frigo: «Rimaniamo sempre senza latte», e attraverso le proprie cuffie Jacob sentì: «Non ti sei mai preso abbastanza cura di noi», ma non sentì Max che diceva: «Non venite allo spettacolo della scuola domani».
E il giorno dopo, alla scuola di Max, costretti a condividere lo spazio angusto dell’ascensore, insieme da soli, Jacob disse: «Il pulsante per chiudere la porta non è collegato a niente. Puramente psicologico». Attraverso le proprie cuffie, Julia sentì: «Facciamola finita». Ma non si sentì dire: «Pensavo che tutto fosse puramente psicologico». Che, attraverso le cuffie di Jacob, suonò come: «Anni e anni di terapia e sei quello che sa meno sulla felicità». E non si sentì dire: «C’è puro e puro». Un genitore probabilmente soddisfatto di una famiglia probabilmente intatta entrò e chiese a Jacob se aveva premuto apposta il bottone per aprire la porta.
Tutto quell’andare in punta di piedi, tutte quelle preziose sovrainterpretazioni e quelle elusioni, e alla fine non era affatto un campo minato. Era un campo di battaglia della Guerra di secessione. Jacob aveva portato Sam ad Antietam, esattamente come Irv ci aveva portato Jacob. E anche lui aveva tenuto un discorso analogo sul privilegio di essere americano. Sam aveva trovato un proiettile semisepolto. Le armi nel terreno di Jacob e Julia erano altrettanto innocue: residui di vecchie battaglie, potevano essere esaminate, esplorate, persino soppesate in tutta sicurezza. Se avessero saputo che non c’era da averne paura.
Le consuetudini domestiche erano così ben radicate che sfuggirsi era abbastanza facile e passava inosservato. Lei si faceva la doccia, lui preparava la colazione. Lei serviva la colazione, lui si faceva la doccia. Lui supervisionava il lavaggio dei denti, lei metteva i vestiti sui letti, lui verificava i contenuti degli zaini, lei controllava il meteo e adeguava le giacche, lui metteva in moto Ed la Iena (per scaldarla nei sei mesi di freddo eccessivo, per raffreddarla nei sei mesi di caldo eccessivo), lei accompagnava fuori i ragazzi e faceva un passo sulla Newark per controllare se giù dalla collina arrivavano macchine, lui faceva retromarcia.
Trovarono due posti nelle prime file dell’auditorium, ma dopo aver posato la borsa Jacob disse: «Vado a prendere due tazze di caffè». Cosa che fece. E poi aspettò all’ingresso della scuola fino a tre minuti prima che alzassero il sipario. A metà di un’esecuzione priva di talento di Let it Go, Jacob sussurrò all’orecchio di Julia: «Quella ragazza dovrebbe davvero lasciar perdere». Nessuna risposta. Un gruppo di ragazzini rifece una scena di Avatar. Quella che probabilmente era una ragazza usò tipi diversi di pasta per spiegare come funziona l’euro. Né Jacob né Julia volevano ammettere di non sapere che cosa avrebbe fatto Max. Nessuno dei due riusciva a sopportare la vergogna di essere stato troppo preso dalle proprie ferite personali per prestare attenzione al figlio. E nessuno riusciva a sopportare la vergogna che l’altro fosse stato un genitore migliore. Ciascuno in privato ipotizzò che Max avrebbe fatto il trucco di carte che gli aveva insegnato il mago al quarantesimo compleanno di Julia. Due ragazze fecero quel giochino con i bicchieri mentre cantavano When I’m Gone di Anna Kendrick, e Jacob sussurrò: «E allora vai».
«Eh?»
«No. Lei. Quella che canta.»
«Fai il bravo.»
Per il finale, gli insegnanti di musica e teatro erano saliti insieme sul palco per una versione edulcorata della prima scena di The Book of Mormon – così avevano realizzato il proprio sogno, e anche fatto capire perché era solo un sogno. Molti applausi, un breve ringraziamento dal preside e i ragazzi uscirono in fila per tornare in classe.
Jacob e Julia tornarono in silenzio alle loro macchine. E dello spettacolo non fu fatta parola quella sera a casa. Max si era tirato indietro all’ultimo? Si considerava privo di talento? La sua astensione era un atto di aggressione o un grido d’aiuto? Se avessero posto a lui una qualunque di quelle domande, Max avrebbe sottolineato che aveva detto di non andare.
Tre sere dopo, quando Jacob arrivò a letto dopo avere aspettato l’ora stabilita, trovò Julia che stava ancora leggendo, per cui disse: «Oh, ho dimenticato una cosa», e tornò giù a non leggere il giornale mentre non guardava un’altra puntata di Homeland, dispiacendosi, come spesso gli capitava, che Mandy Patinkin non avesse dieci anni di più – sarebbe stato perfetto per interpretare Irv.
Due giorni dopo, Julia entrò nella dispensa, dove Jacob stava controllando se per caso negli ultimi dieci minuti qualche centinaio di miliardi di atomi si fossero spontaneamente organizzati in una merendina malsana. Julia girò sui tacchi e se ne andò. (A differenza di Jacob, non dava mai una parvenza di spiegazione per allontanarsi da lui, non aveva mai «dimenticato qualcosa».) La dispensa non era tra gli spazi assegnati in via ufficiosa – come la stanza della tv era di Jacob e il salottino era di Julia – ma era troppo piccola per starci in due.
Il decimo giorno, Jacob aprì la porta del bagno e vide Julia che si stava asciugando. Julia si coprì. Jacob l’aveva vista uscire dalla vasca centinaia di volte, aveva visto tre figli uscire dal suo corpo. L’aveva vista vestirsi e svestirsi migliaia e migliaia di volte più due all’alberghetto in Pennsylvania. Avevano fatto l’amore in ogni posizione, offrendo ogni prospettiva di ogni parte del corpo. «Scusa» disse lui, senza sapere a che cosa si riferisse con quella parola, solo che con il piede aveva quasi innescato una mina.
O forse si era imbattuto nel residuo di una vecchia battaglia che avrebbe potuto esaminare, esplorare, persino soppesare in tutta sicurezza.
E se, invece di scusarsi e voltarsi, le avesse chiesto se quello di nascondersi fosse un bisogno nuovo o un bisogno vecchio con una nuova giustificazione?
Quando la linea difensiva di Robert E. Lee a Petersburg era stata infranta e l’evacuazione di Richmond era imminente, Jefferson Davis aveva ordinato di portare via il tesoro dei Confederati. Viaggiò in treno e poi su un carro, sotto moltissimi occhi e moltissime mani. L’Unione avanzava, la Confederazione si sgretolò e dove siano finite quelle cinque tonnellate di lingotti d’oro rimane un mistero, anche se si presume che siano sepolte da qualche parte.
E se, invece di scusarsi e voltarsi, fosse andato da lei, l’avesse toccata, le avesse mostrato che non solo voleva ancora fare l’amore con lei ma era ancora capace di rischiare un rifiuto?
La prima volta che Jacob era andato in Israele, suo cugino Shlomo aveva portato la famiglia alla Cupola della Roccia, dove all’epoca potevano entrare anche i non musulmani. Jacob si era profondamente commosso per la devozione degli uomini sui tappeti da preghiera, come si era commosso per gli ebrei lì sotto. Ma si era commosso di più perché la devozione era meno impacciata: al Muro del Pianto gli uomini si limitavano a ondeggiare; qui piangevano. Shlomo aveva spiegato che si trovavano sopra una grotta scavata nella Pietra della Fondazione. E nel pavimento di questa grotta c’era una lieve depressione che si pensava fosse sopra un’altra grotta, cui spesso si faceva riferimento come il Pozzo delle Anime. Era lì che Abramo aveva risposto alla chiamata divina e preparato il sacrificio dell’amato figlio; era lì che Maometto era asceso al cielo; lì che era sepolta l’Arca dell’Alleanza, piena di tavolette rotte e intere. Secondo il Talmud, quella pietra segna il centro del mondo e serve per coprire l’abisso in cui ancora infuriano le acque del Diluvio.
«Ci troviamo sopra il più importante sito archeologico che non ci sarà mai al mondo» disse Shlomo, «pieno di oggetti preziosissimi, un luogo dove storia e religione si incontrano. Tutto sottoterra, intoccabile.»
Irv era stato categorico: Israele doveva scavare a qualunque costo. Era un obbligo storico, culturale e intellettuale. Ma per Jacob, finché quelle cose rimanevano sepolte – finché non potevano essere viste o toccate – rimanevano irreali. Quindi era meglio tenerle fuori dalla vista.
E se, invece di scusarsi e voltarsi, Jacob fosse andato da Julia e le avesse sollevato l’asciugamano come le aveva sollevato il velo prima del matrimonio, confermando che lei era ancora la donna che diceva di essere, la donna che lui ancora voleva?
Jacob cercava di mantenere le conversazioni con Julia sottoterra, ma lei aveva bisogno che la fine della loro famiglia fosse vista e toccata. Esprimeva il suo immutato rispetto per Jacob, il suo desiderio che restassero amici, migliori amici, e con una buona cooperazione genitoriale, la migliore, e che facessero ricorso a un mediatore famigliare per non perdersi in tutto quello di cui non bisognava occuparsi e preoccuparsi e che vivessero vicini e andassero in vacanza insieme e ballassero insieme ai rispettivi secondi matrimoni, anche se lei giurava che non si sarebbe mai risposata. Jacob concordava, senza credere che nulla di quello che lei diceva stesse succedendo o sarebbe successo. Avevano vissuto così tanti passaggi necessari: gli addormentamenti dei bambini, le dentizioni, le cadute dalle prime biciclette, la fisioterapia di Sam. Anche questo probabilmente sarebbe passato.
Erano in grado di tenere la rotta per casa evitandosi e di tenere la rotta nelle conversazioni mantenendo l’illusione della sicurezza, ma non c’era un sottoterra quando uno dei figli era nella stanza o nella conversazione. Molte volte, Julia vedeva uno dei ragazzi – Benjy che alzava gli occhi pensieroso da un disegno di Ulisse di fronte ai ciclopi, Max che si scrutava i peli del braccio, Sam che metteva i salvabuchi alle pagine che ne avevano bisogno nel quadernone ad anelli – e pensava: non posso.
E Jacob pensava: non lo faremo.
Damasco
Il giorno prima che iniziasse la distruzione di Israele, Julia e Sam si stavano affannando a radunare le loro cose per evitare che Mohammed, l’autista Uber, finisse per assegnargli una sola stella, suggellando così il loro destino di passeggeri haram. Jacob stava preparando Benjy, vestito da pirata, per andare dai nonni.
«Hai preso tutto?» chiese Julia a Sam.
«Sì» disse lui, incapace dello sforzo erculeo di nascondere il suo immotivato fastidio.
«Non usare quel tono con la mamma» disse Jacob a beneficio di Julia e di se stesso. Era stato difficile trovare il cameratismo in quelle ultime due settimane: non che ci fosse stata crudeltà, solo assenza di interazione diretta. C’erano stati alcuni momenti, di solito innescati da uno stupore condiviso per qualcosa che uno dei ragazzi aveva detto o fatto, in cui Jacob e Julia si erano ritrovati a indossare la stessa uniforme. Il giorno in cui Oliver Sacks era morto, Jacob aveva raccontato ai ragazzi alcuni aneddoti della vita del suo eroe, spiegando la vastità dei suoi interessi, la sua omosessualità non dichiarata, il famoso uso che aveva fatto della L-dopa con materiale umano, e di come la persona forse più curiosa e impegnata degli ultimi cinquant’anni avesse passato più di trenta di quegli anni casto.
«Casto?» chiese Max.
«Senza fare sesso.»
«E allora?»
«E allora aveva una gran voglia di assorbire tutto quello che il mondo aveva da offrire ma non voleva o non poteva condividere se stesso.»
«Magari era impotente» ipotizzò Julia.
«No» disse Jacob, sentendo la ferita aprirsi, «è solo che lui...»
«O magari era paziente.»
«Io sono casto» disse Benjy.
«Tu?» disse Sam. «Tu hai avuto più donne di Wilt Chamberlain.»
«No, chiunque sia, io non sono lui, e non ho infilato il mio pene nella vagina di un’altra persona.»
Come rivendicazione della propria castità era piuttosto buffa. Il riferimento alla «vagina di un’altra persona» era piuttosto buffo. Ma diceva cose più buffe, cose più precoci, ogni due per tre. Questa non sembrava una metafora o una casuale perla di saggezza. Non toccava un nervo scoperto. Ma per la prima volta da quando aveva scoperto il cellulare, Julia era stata costretta a guardare Jacob negli occhi. E in quel momento lui aveva sentito con certezza che avrebbero ritrovato il modo.
Ma adesso il cameratismo scarseggiava.
«Che cos’ho detto?» chiese Sam.
«Il punto è come l’hai detto» disse Jacob.
«E come ho detto qualunque cosa abbia detto?»
«Così» disse Jacob imitando il «sì» di Sam.
«Sono in grado di gestire da sola la mia metà di conversazione con mio figlio» disse Julia a Jacob. Poi chiese a Sam: «Ti sei ricordato dello spazzolino?»
«Ma certo che ha lo spazzolino» disse Jacob, facendo un piccolo cambio di alleanza.
«Merda» disse Sam, facendo dietrofront e correndo su per le scale.
«Avrebbe voluto che fossi tu l’accompagnatore maschile» disse Julia.
«No. Secondo me non è vero.»
Julia prese in braccio Benjy e disse: «Mi mancherai, ometto».
«Opi ha detto che a casa sua posso dire le parolacce.»
«A casa sua fa lui le regole» disse Jacob.
«Be’, no» lo corresse Julia.
«Merda o pene...»
«Pene non è una parolaccia» disse Jacob.
«Dubito che a Omi piacerebbe se parlassi così.»
«Opi ha detto che non conta.»
«Non hai capito bene.»
«Ha detto: ‘Omi non conta’.»
«Stava scherzando» disse Jacob.
«Stronzo è una parolaccia.»
Sam tornò giù dalle scale con lo spazzolino da denti.
«Scarpe eleganti?» chiese Julia.
«Caaazzooo.»
«Anche cazzo» disse Benjy.
Sam corse su per le scale.
«Magari stargli un po’ meno addosso?» suggerì Jacob in forma di domanda apparentemente rivolta alla loro coscienza collettiva.
«Non mi pare di essere stata invadente.»
«Ma certo che no. Volevo solo dire che il cattivo della compagnia può farlo Mark. Se è necessario.»
«Si spera che non lo sia.»
«Quaranta adolescenti lontani da casa?»
«Non descriverei Sam come un adolescente.»
«Adolescente?» chiese Benjy.
«Sono contento che ci sia Mark» disse Jacob. «Sai, magari non te lo ricordi neanche, ma mi hai detto una cosa su di lui, un paio di settimane fa, nel contesto di...»
«Mi ricordo.»
«Ci siamo detti molte cose.»
«Sì.»
«Volevo solo dirtelo.»
«Non sono sicura di aver capito.»
«Solo quello.»
«Sfrutta l’opportunità per conoscerlo un po’» disse Julia, cambiando argomento.
«Max?»
«Non restatevene ognuno nel proprio mondo.»
«Io non ho un mondo, per cui non dovrebbe essere un problema.»
«Sarà divertente andare a prendere gli israeliani domani.»
«Ah sì?»
«Tu e Max potete fare Team America.»
Max venne giù dalle scale. «Perché parlate di me?»
«Non stiamo parlando di te» disse Jacob.
«Stavo solo dicendo a papà che voi due dovreste trovare delle cose da fare insieme mentre noi siamo via.»
Suonò il campanello.
«I miei» disse Jacob.
«Insieme insieme?» bisbigliò Max a Julia.
Jacob aprì la porta. Benjy si liberò dall’abbraccio di Julia e corse da Deborah.
«Omi!»
«Ciao, Omi» disse Max.
«Ho l’Ebola?» chiese Irv.
«Ebola?»
«Ciao, Opi.»
«Bel costume da Moshe Dayan.»
«Sono un pirata.»
Irv si abbassò all’altezza di Benjy e interpretò quella che poteva benissimo essere un’imitazione perfetta di Dayan, a sapere com’era Dayan: «I siriani impareranno presto che la strada che porta da Damasco a Gerusalemme va anche da Gerusalemme a Damasco!»
«Arrrggg!»
«Ti ho scritto i suoi orari» disse Julia a Deborah. «E ti ho preparato una borsa con un po’ di cose pronte da mangiare.»
«Ho preparato da mangiare una o due milioni di volte, ai miei tempi.»
«Lo so» disse Julia, cercando di ricambiare l’evidente affetto di Deborah. «Volevo solo facilitarti le cose il più possibile.»
«Ho un freezer pieno di cibo congelatissimo» disse Deborah a Benjy.
«Strisce di pancetta vegetariana Morningstar Farms?»
«Mmm.»
«Caaazzooo!»
«Benjy!»
Sam arrivò correndo giù dalle scale con le scarpe, si fermò, disse «Merda!» e corse di nuovo su.
«Moderiamo il linguaggio» disse Julia.
«Papà dice che non esistono brutte parole.»
«Ho detto che esiste un cattivo uso delle parole. E questo era un cattivo uso.»
«Facciamo le ore piccole?» chiese Irv a Benjy.
«Non lo so.»
«Non troppo piccole» disse Julia a Deborah.
«E domani andiamo a prendere gli israeliani?»
«Lo porto allo zoo» disse Deborah. «Ti ricordi?»
Irv si rivolse al proprio telefono: «Siri, mi ricordo di cosa sta parlando questa donna?»
Sam corse giù dalle scale con una cintura.
«Ciao, ragazzo» disse Irv.
«Ciao, Opi. Ciao, Omi.»
«Tutto a posto con gli insulti?»
«Non sono stato io.»
«Sai, una volta ho accompagnato la classe di tuo padre a una Simulazione ONU.»
«Non è vero» disse Jacob.
«Sì che è vero.»
«Credimi, non è vero.»
«Hai ragione» disse Irv, facendo l’occhiolino a Sam. «Stavo pensando alla volta che l’ho accompagnato all’ONU vera.» E poi, dandosi un buffetto sulla mano. «Pessimo padre.»
«Mi hai dimenticato lì.»
«Non per sempre, evidentemente.» E poi, a Sam: «Sei pronto a fargli vedere i sorci verdi, a quelli?»
«Credo di sì.»
«Ricordati, se fanno sedere una delegazione della cosiddetta Palestina, tu gli dici come stanno le cose, poi ti alzi e te ne vai. Mi hai sentito. Picchia con la lingua e fai parlare i piedi.»
«Noi rappresentiamo la Micronesia...»
«Siri, cos’è la Micronesia?»
«E sai, noi discutiamo risoluzioni e affrontiamo le eventuali crisi che tireranno fuori.»
«Che tireranno fuori chi? Gli arabi?»
«I facilitatori.»
«Sa quello che fa, papà.»
Tre suoni prolungati poi nove colpetti di clacson – sh’varim, teruah.
«Mohammed sta perdendo la pazienza» disse Julia.
«E non è mai stata la sua dote migliore» disse Irv.
«Sarà meglio che andiamo» disse Julia.
«Anche noi andiamo» disse Deborah. «Abbiamo una giornata piena di programmi: storie, attività manuali, passeggiata nella natura...»
«... mangiare schifezze, prendere in giro Charlie Rose...»
«Argo!» chiamò Jacob.
«Io adoro le schifezze.»
«Noi andiamo dal veterinario» spiegò Max a Deborah.
«Va tutto bene» disse Jacob, per alleviare una preoccupazione che nessuno sentiva.
«A parte il fatto che fa la cacca in casa due volte al giorno» disse Max.
«È vecchio. È normale.»
«Il bisnonno fa la cacca in casa due volte al giorno?» chiese Benjy.
Silenzio, mentre ciascuno ammetteva fra sé che, essendosi le loro visite estremamente diradate, era impossibile escludere la possibilità che Isaac facesse la cacca in casa due volte al giorno.
«In realtà, tutti fanno la cacca in casa due volte al giorno, o no?» chiese Benjy.
«Tuo fratello intendeva in casa, ma non in bagno.»
«Il bisnonno ha una sacca per colostomia» disse Irv. «Ovunque vada, lì c’è la sua cacca.»
«Cos’è la sacca qualcosa?» chiese Benjy.
Jacob si schiarì la gola e cominciò: «L’intestino del bisnonno...»
«È tipo una doggy bag, ma per la cacca» disse Irv. «Come quelle che ti danno al ristorante per gli avanzi.»
«Ma perché dovrebbe volersela mangiare dopo?» chiese Benjy.
«Magari qualcuno potrebbe passare a vedere come sta mentre noi non ci siamo» disse Julia. «Potreste anche fare un salto da lui con gli israeliani mentre venite a casa.»
«Era quello che avevo in mente» mentì Jacob.
Mohammed suonò di nuovo, questa volta con veemenza.
Uscirono tutti insieme: Deborah, Irv e Benjy per andare a vedere un Pinocchio di marionette al Glen Echo; Julia e Sam per prendere l’autobus che partiva dalla scuola; Jacob, Max e Argo per andare dal veterinario. Julia abbracciò Max e Benjy e non abbracciò Jacob, ma gli disse: «Non dimenticarti di...»
«Vai» le disse lui. «Divertiti. Fai la pace nel mondo.»
«Una pace duratura» disse Julia, e le parole si erano messe in fila da sole.
«E salutami Mark. Davvero.»
«Non adesso, okay?»
«Stai sentendo qualcosa che io non ho detto.»
Un secco: «Ciao».
A metà della veranda, Benjy esclamò: «E se non mi mancate?»
«Puoi sempre chiamarci» disse Jacob. «Io avrò il telefono sempre acceso e non sarò mai troppo lontano da dove sei tu.»
«Ho detto: se non mi mancate?»
«Cosa?»
«Va bene ugualmente?»
«Ma certo che va bene» disse Julia, dando a Benjy un ultimo bacio. «Non potrei essere più felice se tu ti divertissi così tanto da non pensare a noi.»
Jacob scese i gradini per dare a Benjy un ultimissimo bacio.
«E comunque ti mancheremo» disse.
E in quel momento, per la prima volta nella sua vita, Benjy decise di non esprimere un pensiero ad alta voce.
Il lato nascosto
Lungo la strada, si fermarono al McDonald’s. Faceva parte del cerimoniale della visita dal veterinario, una cosa che Jacob aveva cominciato a fare dopo avere sentito un podcast su un ambulatorio di Los Angeles dove si effettuavano più eutanasie che in qualunque altro posto in America. Era la donna che lo gestiva a fare la puntura letale a ogni singolo cane, qualche volta più di dieci in un giorno. Chiamava il cane per nome, gli faceva fare una bella passeggiata proporzionata alle sue forze, gli parlava, lo accarezzava e, come ultimo gesto prima dell’iniezione, gli dava da mangiare i McNuggets. Per dirla con le sue parole: «Chiederebbero questo come ultima cena».
Negli ultimi due anni Argo era andato dal veterinario per dolori articolari, annebbiamento della vista, lipomi addominali e incontinenza. Niente che facesse pensare a una fine imminente, ma Jacob sapeva quanto l’ambulatorio del veterinario lo innervosisse e sentiva di dovere una ricompensa al suo amico, che magari poteva anche servire come associazione positiva. Chissà se Argo avrebbe scelto i McNuggets come ultima cena, di certo se li divorava inghiottendoli interi quasi tutti. Per tutto il tempo in cui era stato un membro della famiglia Bloch, aveva mangiato il cibo secco per cani Newman’s Own due volte al giorno senza eccezioni. (Julia aveva condotto una battaglia aperta per bandire gli avanzi della tavola, che avrebbero costretto Argo «a mendicare».) I McNuggets gli facevano venire la diarrea e qualche volta il vomito. Ma di solito ci voleva qualche ora, per cui si poteva fare in modo che la tempistica coincidesse con una passeggiata al parco. E ne valeva la pena.
Anche Jacob e Max presero i McNuggets. A casa non mangiavano quasi mai carne – anche questa una decisione di Julia – e il fast food veniva subito dopo il cannibalismo nella classifica delle cose da non fare. Né a Jacob né a Max mancavano i McNuggets, ma condividere qualcosa che Julia disapprovava era un’esperienza che li univa. Parcheggiarono al Fort Reno Park e fecero un picnic improvvisato. Argo era abbastanza leale e abbastanza letargico da poter stare senza guinzaglio. Max lo accarezzò mentre si divorava un McNugget dopo l’altro, dicendogli: «Sei un bravo cane. Bravo. Bravo».
Per patetico che fosse, Jacob era geloso. I commenti crudeli di Julia – per quanto oggettivi, per quanto meritati – aleggiavano dolorosamente nella sua testa. Continuava a pensare alla frase: «Non credo che tu ci sia punto e basta». Era una delle cose meno specifiche, meno graffianti che gli aveva detto nel corso del loro primo litigio per il cellulare e la mente di una persona diversa si sarebbe probabilmente attaccata a qualcos’altro. Ma era questo che riecheggiava nella sua: «Non credo che tu ci sia punto e basta».
«Venivo un sacco qui quand’ero più giovane» disse Jacob a Max. «Scendevamo in slitta da quella collina.»
«Scendevamo chi?»
«In genere amici. Il nonno mi ci avrà portato un paio di volte, ma non me lo ricordo. Quando faceva caldo, venivamo qui a giocare a baseball.»
«Partite? O giusto per passare il tempo?»
«Soprattutto per passare il tempo. Non era facile mettere insieme un minyan. Qualche volta capitava. Magari negli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze.»
«Sei proprio bravo, Argo. Proprio bravo.»
«Quand’ero più grande, compravamo la birra al Tenleytown Grocery, proprio laggiù. Non ci chiedevano mai i documenti.»
«Che cosa vuol dire?»
«Bisogna avere ventun anni per comprare la birra legalmente, quindi di solito nei negozi ti chiedono un documento d’identità, tipo la patente, per controllare quanti anni hai. Da Tenleytown non chiedevano mai niente. Perciò compravamo sempre lì la birra.»
«Infrangevate la legge.»
«Erano altri tempi. E tu lo sai che cos’ha detto Martin Luther King sulle leggi giuste e le leggi ingiuste.»
«Non lo so.»
«In pratica, era una nostra responsabilità morale comprare la birra.»
«Bravo Argo.»
«Ovviamente sto scherzando. Non è una bella cosa comprare birra prima di avere l’età per farlo, e per piacere non dire alla mamma che ti ho raccontato questa storia.»
«Okay.»
«Sai cos’è un minyan?»
«No.»
«Perché non me l’hai chiesto?»
«Non so.»
«Sono dieci uomini sopra i tredici anni. È il minimo richiesto perché la preghiera in sinagoga sia valida.»
«Detto così, sembra una discriminazione contro le donne e i bambini.»
«Decisamente sì, contro entrambi» disse Jacob, strappando un fiore selvatico. «I Fugazi facevano un concerto gratis qui tutte le estati.»
«Chi sono i Fugazi?»
«Solo la più grande band mai esistita, secondo qualunque definizione di grande. Era grande la loro musica. Grandi i loro principi etici. Erano grandi e basta.»
«Cosa sono i principi etici?»
«Le convinzioni in base a cui agisci.»
«Quali erano i loro principi etici?»
«Non imporre ai fan prezzi esagerati, non tollerare violenze ai concerti, non fare video e non vendere merchandising. E invece, fare musica che trasmettesse coscienza di classe, contro il capitalismo, contro la misoginia, e che avesse un impatto sonoro sconvolgente.»
«Sei un bravo cane, Argo.»
«Probabilmente dovremmo cominciare ad andare.»
«Il mio principio etico è ‘trovare la luce nel mare bellissimo, io scelgo di essere felice’.»
«Ottimo principio etico, Max.»
«È un verso di una canzone di Rihanna.»
«Be’, Rihanna è saggia.»
«Non l’ha scritta lei, la canzone.»
«Chiunque l’abbia scritta.»
«Sia.»
«Allora Sia è saggia.»
«E stavo solo scherzando.»
«Certo.»
«E il tuo qual è?»
«Cosa?»
«Principio etico.»
«Non imporre ai fan prezzi esagerati, non tollerare violenze a...»
«No, sul serio.»
Jacob rise.
«Sul serio» disse Max.
«Fammici pensare.»
«Probabilmente è questo il tuo principio etico.»
«Quello è il principio etico di Amleto. Hai presente Amleto, vero?»
«Ho dieci anni, non sono nato ieri.»
«Scusa.»
«E Sam lo sta leggendo in classe.»
«Chissà che fine hanno fatto i Fugazi. Chissà se sono ancora idealisti, qualunque cosa stiano facendo.»
«Sei bravo, Argo.»
Quando arrivarono dal veterinario furono condotti in un ambulatorio sul retro.
«Per qualche strano motivo mi ricorda la casa del bisnonno.»
«In effetti è proprio strano.»
«Tutte le foto dei cani sono un po’ come le foto di me, Sam e Benjy. E il barattolo con i biscotti è come il barattolo di caramelle.»
«E c’è odore di...»
«Cosa?»
«Niente.»
«Cosa?»
«Stavo per dire morte, ma non mi sembrava una cosa carina da dire, per cui ho cercato di tenermelo per me.»
«E che odore ha la morte?»
«Come questo.»
«E tu come lo sai?»
Jacob non aveva mai sentito l’odore di una persona morta. Gli altri suoi tre nonni erano morti o prima che nascesse o quand’era abbastanza piccolo da non dover affrontare certi eventi. Nessuno dei suoi colleghi o amici o ex colleghi o ex amici era morto. Qualche volta si stupiva di essere riuscito a vivere quarantadue anni senza mai trovarsi in prossimità della morte. E quello stupore era sempre seguito dalla paura che la statistica si rimettesse in pari con lui infliggendogli una gran quantità di morte tutta assieme. E che lui non sarebbe stato pronto.
Il veterinario li fece aspettare mezz’ora prima di riceverli, e Max diede ad Argo un biscotto dopo l’altro.
«Magari non gli fa bene, con i McNuggets» lo avvertì Jacob.
«Sei bravo, sei bravissimo.»
Argo tirava fuori un lato diverso di Max, una dolcezza, o una vulnerabilità, che di solito rimaneva nascosta. Jacob ripensò a una giornata che aveva passato con suo padre al Museo nazionale di Storia naturale quando aveva l’età di Max. Aveva pochi ricordi da solo con suo padre – Irv lavorava a tempo pieno alla rivista e quando non scriveva insegnava, e quando non insegnava socializzava con persone importanti per dare prova di essere una persona importante – ma Jacob ricordava quella giornata.
Erano davanti a un diorama. Un bisonte.
«Bello, eh?» disse Irv.
«Bellissimo» disse Jacob, toccato – addirittura commosso – dalla presenza vividissima dell’animale, dalla sua autosufficienza.
«Nulla di tutto questo è messo qui a caso» disse Irv.
«Che cosa vuol dire?»
«Fanno tutto il possibile per ricreare uno scenario naturale accurato. Il punto è questo. Ma avevano un sacco di scenari accurati tra cui scegliere, no? Avrebbero potuto far galoppare il bisonte invece di farlo stare fermo. Avrebbero potuto farlo combattere o cercare cibo o mangiare. Avrebbero potuto metterne due invece di uno. Avrebbero potuto appollaiargli un uccellino sul dorso. C’erano svariate opzioni.»
A Jacob piaceva tantissimo quando suo padre gli insegnava le cose. Gli dava un senso di vertigine, ma anche di sicurezza. E confermava che Jacob era una persona importante nella vita di suo padre.
«Ma le opzioni non sono sempre libere» disse Irv.
«Perché no?»
«Perché devono nascondere ciò che ha portato qui gli animali.»
«Che cosa vuol dire?»
«Da dove pensi che arrivino tutti questi animali?»
«Dall’Africa o qualcosa del genere?»
«Ma come fanno a finire nei diorama? Credi che si offrano volontari per farsi imbalsamare? Che siano animali investiti sulla strada in cui gli scienziati si imbattono per puro caso?»
«Mi sa che non lo so.»
«Li cacciano.»
«Davvero?»
«E la caccia non è pulita.»
«No?»
«Nessuno ha mai preso qualcosa che non voleva farsi prendere senza combinare un casino.»
«Ah.»
«Le pallottole lasciano buchi, a volte anche buchi grandi. Le frecce lo stesso. E non si tira giù un bisonte con un buco piccolo.»
«Mi sa di no.»
«Perciò, quando posizionano gli animali nei diorama, li girano in modo che non si vedano i buchi, gli squarci e gli strappi. Gli unici a vederli sono gli animali dipinti nel paesaggio. Ma ricordarsi che ci sono cambia tutto.»
Una volta, quando Jacob gli aveva fatto un esempio di come Julia lo sminuisse in modo subdolo, il dottor Silvers aveva detto: «La maggior parte delle persone si comporta male quando è ferita. Se ci ricordiamo delle ferite, è molto più facile perdonare il comportamento».
Julia era nella vasca da bagno quand’era tornato a casa quella sera. Jacob aveva cercato – bussando con garbo, chiamandola, producendo rumori inutili – di farle notare la propria presenza, ma lo scroscio dell’acqua era troppo forte e, quando aveva aperto la porta, l’aveva spaventata. Dopo avere ripreso fiato e riso della propria paura, Julia aveva appoggiato il mento sul bordo della vasca. Avevano ascoltato l’acqua insieme. Una conchiglia portata all’orecchio diventa una camera dell’eco del proprio sistema circolatorio. L’oceano che senti è il tuo stesso sangue. Il bagno, quella sera, divenne una camera dell’eco della loro vita in comune. E dietro Julia, dove avrebbero dovuto stare appesi asciugamani e accappatoi, Jacob vide un paesaggio dipinto, una distesa per sempre occupata da una scuola, un campo da calcio, il reparto prodotti sfusi di Whole Foods (una griglia di bidoni di plastica pieni di piselli spezzati di vari colori e riso integrale, mango essiccato e anacardi), una Subaru e una Volvo, una casa, casa loro, e attraverso una finestra del secondo piano una stanza, dipinta con una precisione e una minuzia che poteva essere opera solo di un maestro, e sul tavolo di quella stanza, che era diventata l’ufficio di Julia dopo che non c’era più stato bisogno di un fasciatoio, c’era il plastico di una casa, e in quella casa, in quella casa in quella casa nella casa in cui accadeva la vita c’era una donna, posizionata con cura.
Alla fine il veterinario arrivò. E non era come Jacob se l’era immaginato o come aveva sperato che fosse: un goy anziano e affabile, una specie di nonno. Tanto per cominciare, era una donna. Nell’esperienza di Jacob, i veterinari erano come i piloti di aerei: virtualmente tutti maschi, grigi (o con un principio di grigio) e tranquillizzanti. La dottoressa Shelling aveva l’aria di una troppo giovane per offrirgli da bere – e comunque non si sarebbe mai presentata la situazione giusta –, era tonica, soda e indossava un camice che sembrava fatto su misura.
«A che cosa dobbiamo questa visita?» chiese, scorrendo i dati di Argo.
Max vedeva quello che vedeva Jacob? Era già abbastanza grande per farci caso? Per essere imbarazzato?
«Ha avuto qualche problema» disse Jacob, «probabilmente sono cose del tutto normali per un cane della sua età: incontinenza, articolazioni. Il nostro veterinario precedente – il dottor Hazel di Animal Kind – gli aveva prescritto Rimadyl e Cosequin e aveva detto che si poteva valutare se aumentare il dosaggio nel caso la situazione non fosse migliorata. Siccome non è migliorata, abbiamo raddoppiato il dosaggio e aggiunto una pastiglia per la demenza, ma non è successo nulla. Così ho pensato di chiedere un secondo parere.»
«Okay» disse lei posando la cartellina. «E questo cane ha un nome?»
«Argo» disse Max.
«Che bel nome» disse lei, appoggiando un ginocchio a terra.
Prese il muso di Argo tra le mani e lo guardò negli occhi mentre gli accarezzava la testa.
«Ha male» disse Max.
«Ha qualche fastidio» spiegò Jacob. «Ma non sono costanti e non è dolore.»
«Hai male?» chiese la dottoressa Shelling ad Argo.
«Guaisce quando si alza e quando si sdraia» disse Max.
«Questo non va bene.»
«Ma guaisce anche quando non lasciamo cadere abbastanza popcorn durante i film» disse Jacob. «È un piagnone cattolico.»
«Mi sapete dire altre volte in cui guaisce per fastidio?»
«Be’, quasi sempre guaisce per avere cibo o per uscire. Ma non è dolore e non è neppure fastidio. È solo desiderio.»
«Guaisce quando tu e mamma litigate.»
«Lì è mamma che guaisce» disse Jacob, cercando di scacciare l’imbarazzo che provava di fronte alla veterinaria.
«Va abbastanza a passeggio?» chiese la dottoressa. «Non dovrebbe guaire per uscire.»
«Va un sacco a passeggio» disse Jacob.
«Tre volte» disse Max.
«Un cane dell’età di Argo ha bisogno di uscire cinque volte. Come minimo.»
«Cinque passeggiate al giorno?» chiese Jacob.
«E il dolore che avete notato. Da quanto tempo va avanti?»
«Fastidio» la corresse Jacob. «Dolore è una parola troppo forte.»
«Tanto tempo» disse Max.
«Non così tanto. Forse sei mesi?»
«È peggiorato molto negli ultimi sei mesi» disse Max, «ma guaisce da quando Benjy aveva tre anni.»
«Si potrebbe dire lo stesso per Benjy.»
La veterinaria fissò Argo negli occhi qualche altro istante, adesso in silenzio. Jacob avrebbe voluto essere guardato così.
«Okay» disse la dottoressa, «misuriamogli la temperatura, gli controllerò gli organi vitali e se va bene possiamo fargli le analisi del sangue.»
Sfilò un termometro da un recipiente di vetro sul ripiano, gli spremette sopra del lubrificante e si mise dietro Argo. La cosa fece fremere Jacob? Lo depresse? Lo depresse. Ma perché? Per lo stoicismo con cui Argo reagiva quando gli capitava una cosa del genere? Perché gli ricordava la propria riluttanza, o incapacità, di mostrare disagio? No, aveva a che fare con la veterinaria: la sua bellezza giovane (sembrava ringiovanire man mano che la visita andava avanti), ma ancora di più la tenerezza con cui si prendeva cura del cane. Scatenava delle fantasie in Jacob, ma non c’entrava un incontro sessuale. E nemmeno lei che gli infilava una supposta. Se la immaginava che gli premeva uno stetoscopio sul petto; le sue dita che gli esaminavano con garbo le ghiandole del collo; che gli faceva stendere e piegare braccia e gambe, ascoltando la differenza tra fastidio e dolore con la premura partecipe e silenziosa di chi sta cercando di scassinare una cassaforte.
Max si inginocchiò piazzandosi di fronte ad Argo e gli disse: «Bravo, il mio ragazzo. Guardami. Ci siamo, ragazzo».
«Okay» disse la dottoressa, sfilando il termometro. «Un po’ alta, ma nella norma.»
Poi passò le mani sul corpo di Argo, esaminandogli l’interno delle orecchie, sollevandogli il labbro per guardargli denti e gengive, premendogli la pancia, ruotandogli la coscia fino a farlo guaire.
«Sensibile su questa gamba.»
«È stato operato a tutte e due le anche» disse Max.
«Sostituzione totale delle anche?»
Jacob alzò le spalle.
«Alla sinistra ha avuto un’ostectomia della testa del femore» disse Max.
«Una scelta interessante.»
«Sì» proseguì Max, «era al limite come peso e il veterinario ha pensato di risparmiargli una sostituzione totale. Ma è stato un errore.»
«Direi che tu hai prestato parecchia attenzione.»
«È il mio cane» disse Max.
«Okay» disse la dottoressa. «È chiaro che qui c’è una certa sensibilità. Probabilmente un po’ di artrite.»
«Fa la cacca in casa da circa un anno» disse Max.
«Non è un anno» lo corresse Jacob.
«Non ti ricordi al pigiama party di Sam?»
«Giusto, ma era stata un’eccezione. Il problema è diventato costante solo parecchi mesi dopo.»
«E fa anche la pipì in casa?»
«Quasi solo la cacca» disse Jacob. «Qualche pipì, negli ultimi tempi.»
«Si accovaccia per fare la cacca? Spesso è davvero un problema di artrite, più che un problema intestinale o rettale: il cane non riesce più ad assumere la posizione e fa la cacca mentre cammina.»
«Spesso fa la cacca mentre cammina» disse Jacob.
«Ma qualche volta la fa nella sua cuccia» disse Max.
«Come se non si rendesse conto che la sta facendo» ipotizzò la veterinaria. «O semplicemente non avesse il controllo.»
«Giusto» disse Max. «Non so se i cani si imbarazzano o si intristiscono, però.»
Jacob ricevette un sms da Julia: Arrivati in albergo.
«Non lo sapremo mai» disse la dottoressa, «ma di sicuro non dev’essere gradevole.»
Tutto qui?, pensò Jacob. Arrivati in albergo? Come se scrivesse a un collega qualunque, ovvero il minimo indispensabile per soddisfare un obbligo legale. E poi pensò, Perché mi dà sempre così poco? E quel pensiero lo sorprese, non solo perché arrivò a cavallo di un’improvvisa ondata di rabbia, ma per il sollievo che gli dava – insieme a quella parola: sempre – nonostante non fosse mai stato consapevole di averlo pensato. Perché mi dà sempre così poco? Così poco beneficio del dubbio. Così rari complimenti. Così scarso apprezzamento. Quand’era stata l’ultima volta che non aveva soffocato una risata a una delle sue battute? Quand’era stata l’ultima volta che aveva letto quello a cui lui stava lavorando? O che aveva preso l’iniziativa per fare sesso? Così poco di cui vivere. Si era comportato male, ma solo dopo una decina d’anni di ferite di frecce troppo smussate per fare il loro lavoro fino in fondo.
Pensava spesso a quella performance di Andy Goldsworthy in cui lui si sdraia per terra mentre arriva un temporale e rimane lì finché passa. Quando si rialza, rimane una sagoma asciutta. Come il contorno in gesso di un cadavere. Come il cerchio senza fori dove c’era una volta il bersaglio delle freccette.
«Al parco si diverte ancora» disse Jacob alla veterinaria.
«Come ha detto?»
«Dicevo che al parco si diverte ancora.»
E con quell’osservazione non consequenziale la conversazione ruotò di centottanta gradi portando allo scoperto il lato nascosto.
«Qualche volta» disse Max. «Ma se ne sta quasi sempre sdraiato e basta. E ha grosse difficoltà a fare le scale a casa.»
«L’altro giorno ha corso.»
«E poi ha zoppicato per tipo i tre giorni successivi.»
«Senti» disse Jacob, «è ovvio che la sua qualità della vita è peggiorata. È ovvio che non è più il cane di una volta. Ma ha una vita che merita di essere vissuta.»
«Chi lo dice?»
«I cani non vogliono morire.»
«Il bisnonno vuole.»
«Ehi, aspetta. Cos’è che hai detto?»
«Il bisnonno vuole morire» disse Max con realismo.
«Il bisnonno non è un cane.» L’assurdità di quel commento cominciò ad arrampicarsi strisciando lungo le pareti della stanza. Jacob provò a circoscriverla aggiungendo la correzione più ovvia: «E non vuole morire».
«Chi lo dice?»
«Vi serve un po’ di tempo per voi due?» chiese la veterinaria, incrociando le braccia e facendo un lungo passo indietro verso la porta.
«Il bisnonno ha delle speranze per il futuro» disse Jacob. «Come vivere fino al Bar Mitzvah di Sam. E ha il piacere dei ricordi.»
«Come Argo.»
«Credi che Argo aspetti con ansia che Sam faccia il Bar Mitzvah?»
«Nessuno aspetta con ansia che Sam faccia il Bar Mitzvah.»
«Il bisnonno sì.»
«Chi lo dice?»
«I cani si godono ogni minimo piacere nella vita» disse la veterinaria. «Stare sdraiati in una pozza di sole. Un boccone di cibo umano di tanto in tanto. È difficile dire quanto più in là si spinga la loro esperienza mentale. Le ipotesi spettano a noi.»
«Argo sente che l’abbiamo dimenticato» disse Max, esplicitando la sua ipotesi.
«Dimenticato?»
«Proprio come il bisnonno.»
Jacob rivolse alla veterinaria un abbozzo di sorriso e disse: «Chi l’ha detto che il bisnonno si sente dimenticato?»
«Lo dice lui.»
«Quando?»
«Quando parliamo.»
«E quando sarebbe?»
«Su Skype.»
«Non lo dice sul serio.»
«E allora come fai a sapere quello che vuole dire Argo quando guaisce?»
«I cani non vogliono dire cose.»
«Glielo spieghi» disse Max alla veterinaria.
«Spieghi cosa?»
«Gli spieghi che Argo va fatto sopprimere.»
«Ah. Non sta a me dirlo. È una decisione molto personale.»
«Okay, ma se lei pensasse che non va fatto sopprimere, avrebbe detto che non va fatto sopprimere.»
«Corre al parco, Max. Guarda i film sul divano.»
«Glielo spieghi» disse Max alla veterinaria.
«Il mio lavoro, come veterinaria, è prendermi cura di Argo, aiutarlo a rimanere sano. Non offrire consigli su decisioni che riguardano il fine vita.»
«Quindi in altre parole è d’accordo con me.»
«Non ha detto questo, Max.»
«Non ho detto questo.»
«Lei crede che il mio bisnonno andrebbe fatto sopprimere?»
«No» disse la veterinaria, pentendosi subito per il credito che la sua risposta dava alla domanda.
«Glielo spieghi.»
«Spieghi cosa?»
«Gli spieghi che pensa che Argo dovrebbe essere fatto sopprimere.»
«Davvero, non sta a me dirlo.»
«Vedi?» disse Max a suo padre.
«Ti rendi conto che Argo è in questa stanza, Max?»
«Lui non capisce.»
«Certo che capisce.»
«Aspetta un attimo. Tu credi che Argo capisca e il bisnonno non capisca?»
«Il bisnonno capisce.»
«Davvero?»
«Sì.»
«Allora tu sei un mostro.»
«Max.»
«Glielo spieghi.»
Argo vomitò una dozzina di McNuggets dalla forma quasi perfetta ai piedi della veterinaria.
«Come fanno a tenere il vetro pulito?» aveva chiesto Jacob a suo padre, trent’anni prima.
Irv gli aveva lanciato un’occhiata perplessa. «Windex?»
«Voglio dire, dall’altro lato. Dove la gente non può andare. Rovinerebbero tutta la roba per terra.»
«Ma se non ci va nessuno, rimane pulito.»
«Non è vero» disse Jacob. «Ti ricordi quando siamo tornati da Israele ed era tutto sporco? Anche se non c’era stato nessuno per tre settimane? Ti ricordi che avevamo scritto i nostri nomi in ebraico nella polvere delle finestre?»
«Una casa non è un ambiente chiuso.»
«Sì che lo è.»
«Non chiuso come un diorama.»
«Sì invece.»
L’unica cosa che Irv amava di più che insegnare a suo figlio era che lui lo sfidasse: l’indizio che un giorno suo figlio l’avrebbe superato.
«Magari è per questo che non guardano quel lato del vetro» disse con un sorriso, ma nascondendo le dita tra i capelli di suo figlio che, con il tempo, sarebbero cresciuti abbastanza per seppellirle.
«Non credo che il vetro funzioni così.»
«No?»
«Non puoi nascondere l’altro lato.»
«Gli animali funzionano così?»
«Cosa intendi?»
«Guarda la faccia di quel bisonte»
«Cosa?»
«Guardalo attentamente.»
Non ancora
Sam e Billie erano seduti in fondo al pullman, molte file vuote dietro il resto del gruppo.
«Voglio farti vedere una cosa» disse lei.
«Okay.»
«Sul tuo iPad.»
«L’ho lasciato a casa.»
«Davvero?»
«Mi ha costretto mia madre» disse Sam, che avrebbe voluto inventarsi una spiegazione meno infantilizzante.
«Ha letto un editoriale o qualcosa del genere?»
«Vuole che io sia ‘presente’ durante la gita.»
«Che cos’è che consuma quaranta litri di benzina ma non si muove?»
«Cosa?»
«Un monaco buddista.»
Sam rise, senza capirla.
«Hai visto quello dell’alligatore che morde l’anguilla elettrica?» gli chiese lei.
«Sì, è una roba pazzesca.»
Billie tirò fuori il tablet sfigato quanto un adulto in motorino che i suoi genitori le avevano regalato per Natale e cominciò a digitare. «Hai visto il tipo delle previsioni meteo che ce l’ha duro?»
Lo guardarono insieme e risero.
«La parte migliore è quando dice: ‘Notiamo qui una zona calda’.»
Caricò un nuovo video e disse: «E vedi un po’ questo porcellino d’India con la sifilide».
«Secondo me quello è un criceto.»
«Ti perdi le piaghe ai genitali per un dettaglio.»
«Non sopporto di sembrare mio padre, ma non è una follia che abbiamo accesso a questa merda?»
«Non è una follia. È il mondo.»
«Be’, allora il mondo non è una follia?»
«Non può esserlo per definizione. Folli è come sono gli altri.»
«Mi piace proprio un sacco il tuo modo di pensare.»
«Mi piace proprio un sacco che tu me lo dica.»
«Non è che te lo sto dicendo; è la verità.»
«E un’altra cosa che mi piace proprio un sacco è che non riesci a deciderti a dire la parola con la a perché hai paura che io pensi che stai dicendo qualcosa che non stai dicendo.»
«Eh?»
«Mi piace proprio proprio un sacco.»
L’amava.
Billie mise il tablet in coma e disse: «Emet hi hasheker hatov beyoter».
«Che è?»
«Ebraico.»
«Parli ebraico?»
«Come notoriamente rispose Franz Rosenzweig a chi gli chiedeva se era un ebreo religioso: ‘Non ancora’. Ma ho pensato che uno di noi due dovesse impararne un po’ in onore del tuo Bar Mitzvah.»
«Franz chi? E aspetta, che cosa vuol dire?»
«La verità è la bugia migliore.»
«Ah. Be’: Anata wa subete o rikai shite iru baai wa, gokai suru hitsuyo ga arimasu.»
«E che cosa dovrebbe voler dire?»
«‘Se capisci tutto, devi essere male informato.’ Giapponese, credo. Era l’epigrafe di Call of Duty: Black Ops.»
«Sì, studio giapponese il giovedì. Solo che non avevo capito in che senso lo dicevi.»
Sam avrebbe voluto farle vedere la nuova sinagoga cui aveva lavorato nelle ultime due settimane. Si chiese se esprimesse nel modo migliore il meglio di lui e se a lei sarebbe piaciuta.
L’autobus parcheggiò al Washington Hilton – l’albergo in cui in teoria si sarebbe dovuta tenere la festa per il Bar Mitzvah di Sam due settimane dopo, se fossero riusciti a estorcergli delle scuse – e i ragazzi scesero e si sparpagliarono. Nella hall era appeso un grosso striscione: BENVENUTI ALLA SIMULAZIONE ONU 2016. In un angolo erano impilate alcune decine di trolley e borsoni, quasi tutti con dentro qualcosa che non avrebbero dovuto contenere. Mentre Mark si prodigava a contare le teste, Sam prese da parte sua madre.
«Non essere pesante, quando parli a tutti, okay?»
«Pesante su cosa?»
«Qualunque cosa. Pesante e basta.»
«Hai paura che ti metta in imbarazzo?»
«Sì. Mi hai costretto tu a dirtelo.»
«Sam, siamo qui per spassarcela...»
«Non dire spassarcela.»
«... e fare la lagna è assolutamente l’ultima cosa che voglio.»
«O lagna.»
Mark fece a Julia un pollice alzato e lei si rivolse al gruppo: «Posso avere l’attenzione di tutti?»
Tutti si tennero la loro attenzione per sé.
«Yuu-huu!»
«O yuu-huu» sussurrò Sam a nessuno.
Mark tirò fuori una voce baritonale che fece tintinnare i pendagli dei braccialetti come campane a vento: «Bocche chiuse e qui gli occhi, adesso!»
I ragazzi si zittirono.
«Okay» disse Julia. «Bene, come probabilmente sapete, io sono la mamma di Sam. Mio figlio mi ha detto di non essere pesante per cui mi limiterò all’essenziale. Primo, voglio che sappiate che sono strafelice di essere qui con voi.»
Sam chiuse gli occhi, cercando di disimparare la permanenza dell’oggetto.
«Sarà interessante, stimolante e divertentissimo.»
Julia vide Sam con gli occhi chiusi ma non capì che cos’aveva fatto.
«Allora... giusto qualche piccola cosa di gestione prima di distribuire le chiavi delle camere, che credo siano tessere e non chiavi, ma noi le chiamiamo chiavi. Scoprirete che sono una persona molto tranquilla e rilassata. Ma la tranquillità è una strada a doppio senso. So che siete qui per divertirvi, ma ricordate che siete anche qui a rappresentare la Georgetown Day School, senza dimenticare gli Stati Federati di Micronesia, il nostro arcipelago.»
Restò in attesa di un applauso. O di qualunque cosa. Billie riempì il silenzio con un unico battito di mani e a quel punto la patata bollente della goffaggine passò a lei.
Julia proseguì: «Allora, sono sicura che non ci sia bisogno di dirlo, ma le sostanze stupefacenti o psicotrope non sono ammesse».
Sam perse il controllo muscolare del collo, la sua testa crollò in avanti.
«Se avete una prescrizione per qualcosa, naturalmente va bene, purché non sia usata per divertimento e non ci siano abusi. Ora, mi rendo conto che la maggior parte di voi non ha neppure tredici anni, ma vorrei anche affrontare la questione dei rapporti sessuali.»
Sam svicolò di lato. Billie lo seguì.
Mark si rese conto di quello che stava succedendo e intervenne: «Credo che la signora Bloch stia cercando di dirvi di non fare niente che non vorreste che noi raccontassimo ai vostri genitori. Perché noi lo racconteremo ai vostri genitori e voi sarete nella merda fino al collo. Capito?»
Gli studenti fecero un segno di assenso collettivo.
«Mia madre è il motivo per cui Kurt Cobain si è suicidato» sussurrò Sam a Billie.
«Dalle tregua.»
«Perché?»
Mentre distribuiva le tessere, Mark disse: «Portate le vostre cose in stanza, disfate i bagagli, non accendete la tv e non vi azzardate neanche ad avvicinarvi al minibar. Ci incontriamo da me, stanza 1124, alle due in punto. Se avete qualche congegno elettronico, segnatevelo: 1124 alle due. Se non ce l’avete, mettete alla prova il vostro cervello. Ora, essendo dei ragazzi intelligenti e motivati, userete questo tempo per rileggere il materiale informativo, così sarete preparatissimi per le minisessioni di oggi pomeriggio. Nel caso in cui succeda qualcosa, e solo in quel caso, avete il mio cellulare. Sappiate che sono onnisciente. Vale a dire che, anche senza essere presente fisicamente, vedo tutto e sento tutto. Andate».
I ragazzi presero le loro tessere e si dileguarono.
«E questa è per te» disse Mark, porgendo a Julia la sua tessera.
«Suite presidenziale, immagino.»
«Esatto. Ma da presidente della Micronesia, temo.»
«Grazie per avermi salvato, prima.»
«Grazie per aver fatto di me l’icona della disinvoltura.»
Julia rise.
«Ci beviamo qualcosa?» chiese lui.
«Parli sul serio? Qualcosa qualcosa?»
«Un rilassante in forma liquida. Sì.»
«Dovrei fare uno squillo ai genitori di Jacob. Tengono Benjy per il fine settimana.»
«Carino.»
«Sì, se quando torna non è un Meir Kahane in fase latente.»
«Eh?»
«Uno squilibrato dell’ultradestra...»
«Hai un bisogno bisogno di berti qualcosa qualcosa.»
E poi, di colpo, non ci fu nessuna questione logistica da risolvere, nessuna chiacchiera da portare avanti, solo l’ombra incombente della loro conversazione allo showroom delle maniglie su misura e tutto quello che Julia sapeva ma non era disposta a condividere.
«Vai a fare la tua telefonata.»
«Ci vorranno solo cinque minuti.»
«Quel che è, è. Mandami un sms quando sei pronta e ci troviamo al bar. Abbiamo un sacco di tempo.»
«Non è troppo presto per bere?»
«Nel millennio?»
«Nella giornata.»
«Nella tua vita?»
«Nella giornata, Mark. Sei già ubriaco di celibato.»
«Un ubriaco non starebbe a puntualizzare che un celibe è uno che non è mai stato sposato.»
«Allora sei ubriaco della tua libertà.»
«Non volevi dire solitudine?»
«Stavo immaginando quello che avresti detto tu.»
«Sono ubriaco della mia nuova sobrietà.»
Julia riteneva di essere particolarmente sagace nel cogliere le motivazioni altrui, ma non riusciva a capire fino in fondo che cosa stesse facendo Mark. Flirtava con una persona che desiderava? Consolava una persona che gli faceva pena? La prendeva in giro in modo innocente? E lei che cosa stava facendo? Qualunque vago senso di colpa potesse provare all’idea di flirtare con qualcuno era ormai tramontato all’orizzonte, tanto che poteva benissimo essere dietro di lei. Semmai, avrebbe voluto che Jacob fosse lì a guardare.
Una volta avevano i loro canali di comunicazione segreti, modi per passarsi messaggi in modo clandestino: sillabare le parole davanti ai bambini piccoli; sussurrare davanti a Isaac; scriversi bigliettini mentre uno dei due era impegnato al telefono; gesti delle mani e movimenti facciali sviluppati sistematicamente nel corso degli anni, come quando, nell’ufficio del rabbino Singer, Julia si era premuta due dita sulla fronte e aveva scosso leggermente la testa arricciando il naso, che voleva dire: lascia perdere. Riuscivano a trovare il modo di raggiungersi aggirando qualunque ostacolo. Ma avevano bisogno di un ostacolo.
La sua mente scartò: Jacob aveva costretto Sam ad ascoltare un podcast sugli uccelli usati come messaggeri durante la Prima guerra mondiale, e Sam ne era rimasto affascinato – per il suo undicesimo compleanno aveva chiesto un piccione viaggiatore. Incantata dall’originalità della richiesta e desiderosa, come sempre, non solo di fare il massimo per i suoi figli ma anche di essere vista fare il massimo per i suoi figli, Julia l’aveva preso sul serio.
«Sono animali magnifici da tenere in casa» prometteva Sam. «C’è un...»
«In casa?»
«Sì. Hanno bisogno di una grossa gabbia, ma...»
«E Argo?»
«Con un po’ di condizionamento...»
«Bella parola.»
«Mamma. Con un po’ di condizionamento possono essere amici senza problemi. E una volta...»
«E che mi dici della cacca?»
«Portano delle mutande da piccione. In pratica dei pannolini. Vanno cambiati ogni tre ore.»
«Una cosa da niente.»
«Lo farò io.»
«Tu sei a scuola più di tre ore al giorno.»
«Mamma, sarà divertentissimo» disse, scuotendo i pugni nel modo che una volta indusse Jacob a chiedersi se non avesse un pizzico di sindrome di Asperger. «Potremmo portarlo al parco, o a scuola, o da Omi e Opi, o dove vogliamo, attaccargli un messaggio al collare e lui volerebbe a casa.»
«Posso chiederti cosa c’è di divertente?»
«Davvero?»
«Con parole tue.»
«Se non è evidente, non so come spiegartelo.»
«E sono difficili da addestrare?»
«È facilissimo. In pratica, gli devi fare una casa stupenda e loro vorranno tornarci.»
«Che cosa rende stupenda una casa?»
«È spaziosa, illuminata dal sole e la rete metallica che la circonda è troppo fitta perché ci ficchi in mezzo la testa rimanendo bloccato.»
«Che bella immagine.»
«E il fondo è rivestito di zolle erbose da cambiare regolarmente. E ha una vaschetta, da pulire regolarmente.»
«Giusto.»
«E un sacco di piccole golosità, tipo indivia, bacche, grano saraceno, semi di lino, germogli di soia, veccia.»
«Veccia?»
«Non so, l’ho letto.»
«E quanto dev’essere grande la gabbia di cui stiamo parlando?»
«Il massimo sarebbe due per tre.»
«Due per tre cosa?»
«Metri. Due metri per lato di base e tre metri di altezza.»
«E dove la metteremmo una gabbia così spaziosa?»
«In camera mia.»
«Dovremmo alzare il soffitto.»
«È una cosa che possiamo fare?»
«No.»
«Allora potrebbe essere un po’ meno alta, andrebbe comunque bene.»
«E se non gli piace casa sua?»
«Gli piacerà.»
«Ma se non gli piace?»
«Mamma, gli piacerà, perché io farò tutte le cose come si deve per fargli una casa magnifica in modo che la ami.»
«Stavo solo chiedendo e se.»
«Mamma.»
«Non posso fare una domanda?»
«Credo che non torni più. Okay? Va avanti e non si ferma.»
Sam ci aveva messo solo una settimana per dimenticare che al mondo esistevano i piccioni viaggiatori – aveva scoperto che al mondo esistono cose come le armi Nerf – ma Julia non aveva mai dimenticato quello che aveva detto: Va avanti e non si ferma.
«Perché no?» disse a Mark, rimpiangendo di non avere una superficie vicina contro cui dare un colpo di nocche. «Beviamoci qualcosa qualcosa.»
«Solo un bicchiere?»
«Hai ragione» disse lei, lisciandosi il lato nascosto delle ali prima del volo che avrebbe rivelato la comodità della sua gabbia. «Probabilmente è troppo tardi.»