lunedì 30 settembre 2024

ECCOMI Jonathan Safran Foer


ECCOMI
Jonathan Safran Foer

Uno dei temi centrali del libro è il modo in cui la cura dei figli entri dentro l’amore tra due persone, lo trasformi e possa consumarlo. Il romanzo "Eccomi" è la descrizione di una generazione, quella dei quarantenni e cinquantenni, che vive l’essere madri e padri come una prestazione pubblica, qualcosa in cui realizzarsi. «Sei più preoccupata di farti vedere come una mamma fica che di essere in realtà una brava mamma», dice a sua madre, Sam, il maggiore. «Ti rende triste il fatto che amiamo i bambini più di quanto ci amiamo noi?», chiede Julia a Jacob, ripetendo senza saperlo una frase scritta da Jacob per la sua serie tv. Come in tutti i romanzi di Safran Foer la storia intima dei personaggi si intreccia con quella degli ebrei, del loro passato e dell’impossibilità di essere certi di avere una terra, un posto nel mondo. Nella seconda metà del libro un terribile terremoto distrugge Israele e impone ai personaggi la scelta se esserci o no.

                     ECCOMI
             Prima della guerra
Tornare alla felicità

Quando la distruzione di Israele ebbe inizio, Isaac Bloch stava meditando se suicidarsi o trasferirsi alla Casa ebraica. Aveva vissuto in un appartamento rivestito di libri fino al soffitto, con tappeti così folti da inghiottire dadi; poi in una stanza e mezza con il pavimento in terra battuta; su pavimenti di foresta sotto stelle incuranti; sotto le assi del pavimento di un cristiano che, a distanza di mezzo mondo e tre quarti di secolo, sarebbe stato ricordato con un albero piantato nel Giardino dei Giusti; in una buca, per tanti di quei giorni che le sue ginocchia non sarebbero mai più riuscite a distendersi del tutto; tra zingari e partigiani e polacchi non troppo disonesti; in campi di transito, di rifugiati e di profughi; su una nave, con una bottiglia con una nave dentro, miracolosa costruzione di un agnostico insonne; dall’altro lato di un oceano che non avrebbe mai completamente attraversato; sopra una mezza dozzina di negozi di alimentari che si era ammazzato a sistemare e rivendere con un profitto minimo; accanto a una donna che ricontrollava le serrature fino a romperle e che era morta di vecchiaia a quarantadue anni senza una sillaba di lode in gola, ma con le cellule della madre assassinata che ancora le si dividevano nel cervello; e infine, nell’ultimo quarto di secolo, in una casetta a due piani a Silver Spring, silenziosa come un globo di neve: un librone fotografico di Roman Vishniac che ingialliva sul tavolino del soggiorno; Nemici. Una storia d’amore che si smagnetizzava nell’ultimo videoregistratore funzionante al mondo; insalata di uova che diventava influenza aviaria in un frigorifero mummificato in un involucro di fotografie di pronipoti splendidi, geniali, senza tumori.Gli orticoltori tedeschi avevano potato l’albero genealogico di Isaac fino alle sue radici nel suolo galiziano. Ma grazie a fortuna e intuito e senza aiuti dall’alto, lui lo aveva trapiantato nei marciapiedi di Washington, D.C., ed era vissuto fino a vederne ricrescere i rami. E a meno che l’America non si fosse messa contro gli ebrei – o fino a quando, l’avrebbe corretto suo figlio Irv – l’albero avrebbe continuato a produrre rami e germogli. Naturalmente Isaac sarebbe stato di nuovo in una fossa, a quel punto. Non avrebbe mai raddrizzato le ginocchia, ma alla sua ignota età, dopo chissà quanti oltraggi chissà quanto vicini, era ora di disserrare i suoi pugni ebraici e ammettere l’inizio della fine. La distanza che separa l’ammettere dall’accettare è la depressione. Anche a prescindere dalla distruzione di Israele, la tempistica non era propizia: mancavano poche settimane al Bar Mitzvah del suo primo pronipote, che Isaac aveva fissato come traguardo della propria vita dopo aver varcato il traguardo precedente, la nascita dell’ultimo pronipote. Ma non si può stabilire quando l’anima di un vecchio ebreo lascerà libero il suo corpo e il corpo lascerà libera l’ambita stanza singola per il prossimo corpo in lista d’attesa. E neppure si può affrettare o rinviare il raggiungimento dell’età adulta. E d’altra parte, l’acquisto di una decina di biglietti aerei non rimborsabili, la prenotazione di un pacchetto di stanze al Washington Hilton, il versamento di ventitremila dollari di acconti e anticipi per un Bar Mitzvah che è in calendario dalle ultime Olimpiadi invernali non possono garantire che si farà.Un gruppo di ragazzini ciondolava per i corridoi dell’Adas Israel ridendo, spingendosi, sangue che galoppava da cervelli immaturi a genitali immaturi e ritorno in quel gioco a somma zero che è la pubertà. «Oh, sul serio» disse uno, con la seconda s che gli s’impigliava nell’apparecchio per i denti. «L’unico vantaggio dei pompini è che ci guadagni una sega umida.»«Parole sante.» «Per il resto è come scoparsi un bicchiere d’acqua con i denti.» «Che non ha senso» disse uno dalla testa rossa a cui metteva ancora i brividi pensare a cose come l’epilogo di Harry Potter e i Doni della Morte«Nichilista.» Se Dio esisteva e giudicava, avrebbe perdonato tutto a questi ragazzini, sapendo che dentro di loro erano alla mercé di forze esterne a loro e che anch’essi erano fatti a Sua immagine e somiglianza. Silenzio mentre rallentavano per guardare Margot Wasserman che beveva a una fontanella. Si diceva che i suoi genitori parcheggiassero due macchine fuori dal loro garage da tre posti perché ne avevano cinque. Si diceva che il suo Pomerania avesse ancora le balle, e che balle. «Porca miseria, quanto vorrei essere quella fontanella» disse un ragazzo il cui nome ebraico era Peretz-Yitzchak. «Io vorrei essere la parte mancante di quel tanga aperto.» «Io vorrei riempirmi il cazzo di mercurio.» Pausa. «E questo che diavolo vuol dire?» «Sai» disse Marty Cohen-Rosenbaum, nato Chaim ben Kalman, «come... trasformare il cazzo in un termometro.»

«Facendogli mangiare sushi?»
«O iniettandolo. O quel che è. Insomma, ci siamo capiti.»
Quattro scuotimenti di testa, con sincronicità involontaria, come spettatori di ping-pong.
In un sussurro: «Per metterglielo nel culo».
Gli altri avevano la fortuna di avere madri del ventunesimo secolo che sapevano prendere la temperatura con un termometro digitale nell’orecchio. E Chaim fu fortunato, perché l’attenzione dei ragazzi fu distolta prima che avessero il tempo di affibbiargli un soprannome di cui non si sarebbe mai sbarazzato.
Sam era seduto su una panca fuori dall’ufficio del rabbino Singer, a testa bassa, a fissarsi i palmi delle mani come un monaco in attesa di immolarsi. I ragazzi si fermarono, rivolgendo a lui il loro odio di sé.
«Sappiamo cos’hai scritto» disse uno, puntandogli un dito contro il petto. «Hai superato il limite.»
«Una cazzata enorme, fratello.»
Era strano, perché di solito Sam cominciava a produrre sudore in abbondanza solo quando la minaccia era passata.
«Non l’ho scritto e non chiamarmi» – virgolette in aria – «fratello
Sam avrebbe potuto dirlo ma non lo disse. Avrebbe potuto spiegare perché niente era come sembrava. Ma non lo spiegò. Subì e basta, come sempre quando nella vita si trovava dalla parte sbagliata.
Dall’altra parte, al di là della porta del rabbino, al di là della scrivania del rabbino, stavano seduti i genitori di Sam, Jacob e Julia. Che non volevano essere lì. Nessuno voleva essere lì. Il rabbino aveva da imbastire qualche parola che sembrasse meditata su un certo Ralph Kremberg prima che lo interrassero alle due. Jacob avrebbe preferito lavorare alla bibbia del Popolo eternamente morente oppure setacciare la casa a caccia del cellulare scomparso o fare ricerche in internet sulla dopamina. E avrebbe dovuto essere la giornata libera di Julia: quello era l’esatto opposto di libera.
«Sam non dovrebbe essere qui con noi?» chiese Jacob.
«Penso sia meglio parlarci tra adulti» rispose il rabbino Singer.
«Sam è adulto.»
«Sam non è affatto adulto» disse Julia.
«Solo perché gli mancano tre versetti per sapere a menadito le benedizioni che seguono le benedizioni alla fine della sua haftorah
Ignorando Jacob, Julia appoggiò la mano sulla scrivania del rabbino e disse: «È chiaro che rispondere all’insegnante è inammissibile e vorremmo trovare un modo per sistemare le cose».
«E comunque» disse Jacob, «la sospensione non è una misura un po’ draconiana per una cosa che, tutto considerato, non è poi così grave?»
«Jacob...»
«Cosa?»
Nel tentativo di comunicare con il marito ma non con il rabbino, Julia si premette due dita in fronte e scosse leggermente la testa arricciando il naso. Sembrava più un allenatore di baseball che una moglie, madre e membro della comunità impegnata a tenere lontano il mare dal castello di sabbia di suo figlio.
«Adas Israel è una sinagoga progressista» disse il rabbino, suscitando in Jacob un’occhiata al cielo involontaria quanto un conato di vomito. «Nella nostra lunga storia abbiamo coltivato con orgoglio la capacità di guardare al di là delle norme culturali consolidate e di trovare la luce divina, la or ein sof, in ogni persona. Usare epiteti razziali, qui dentro, è decisamente grave, sì.»
«Cosa?» chiese Julia, trovando la propria postura.
«Non può essere» disse Jacob.
Il rabbino emise il suo sospiro da rabbino e fece scorrere un foglio di carta sul piano della scrivania passandolo a Julia.
«Ha detto queste cose?» chiese Julia.
«Le ha scritte.»
«Scritto cosa?» chiese Jacob.
Scuotendo la testa incredula, Julia lesse la lista a bassa voce: «Arabo schifoso, muso giallo, troia, bangla, frocio, mangiatortillas, sporco ebreo, n...»
«Ha scritto ‘n’?» chiese Jacob. «O ha proprio scritto la parola che comincia con la n?»
«La parola» disse il rabbino.
Benché la questione di suo figlio avrebbe dovuto avere la priorità nella sua mente, Jacob si distrasse a pensare che quella era l’unica parola che nessuno si azzardava neppure a ripetere ad alta voce.
«Dev’esserci sicuramente un malinteso» disse Julia, passando finalmente il foglietto a Jacob. «Sam cura gli animali a...»
«Ha scritto spagnola? Ma questo non è un insulto razziale. È un atto sessuale. Credo. Forse.»
«Non sono tutti insulti» disse il rabbino.
«Sa, sono quasi sicuro che anche ‘arabo schifoso’ sia un atto sessuale.»
«Mi tocca crederle sulla parola.»
«Voglio dire che forse stiamo fraintendendo completamente questo elenco.»
Ignorando di nuovo il marito, Julia chiese: «Che spiegazione ha dato Sam?»
Il rabbino si tormentò la barba, cercando le parole come un macaco che cerca i pidocchi.
«Ha negato tutto. Con veemenza. Ma prima della lezione il foglio con le parole non c’era e lui è l’unico che si siede a quel banco.»
«Non è stato lui» disse Jacob.
«È la sua scrittura» disse Julia.
«I tredicenni scrivono tutti uguale.»
Il rabbino disse: «Non è stato in grado di dare una spiegazione alternativa su come sia finito lì».
«Non spetta a lui» disse Jacob. «E comunque, se fosse stato Sam a scrivere quelle parole, perché mai le avrebbe lasciate sul banco? La sfrontatezza è prova d’innocenza. Come in Basic Instinct
«Ma in Basic Instinct è stata lei.»
«È stata lei?»
«Non ti ricordi il punteruolo?»
«Sarà. Ma quello è un film. Deve avercelo messo qualche ragazzino che è razzista sul serio e che ce l’ha con Sam.»
Julia si rivolse direttamente al rabbino: «Ci assicureremo che Sam capisca perché quello che ha scritto è così offensivo».
«Julia» disse Jacob.
«Scusarsi con l’insegnante sarebbe sufficiente per non far saltare il Bar Mitzvah?»
«È quello che volevo proporre. Anche se ho paura che nella comunità si sia già sparsa la voce. Per cui...»
Jacob emise uno sbuffo di insofferenza: una cosa che Sam aveva imparato da lui o forse lui aveva imparato da Sam. «E offensivo nei confronti di chi, se posso chiederlo? C’è una differenza abissale tra rompere il naso a qualcuno e boxare a vuoto.»
Il rabbino studiò Jacob. «Ultimamente Sam ha difficoltà a casa?» chiese.
«È oberato di compiti...» cominciò Julia.
«Non è stato lui.»
«E ha studiato per il Bar Mitzvah, che almeno in teoria fa un’altra ora tutte le sere. E il violoncello, e il calcio. E il fratello di mezzo, Max, è nel pieno di una crisi esistenziale che sta mettendo alla prova un po’ tutti. E il più piccolo, Benjy...»
«Ne ha di carne al fuoco» disse il rabbino. «E su questo ha tutta la mia comprensione. Chiediamo molto ai nostri figli. Più di quanto veniva chiesto a noi. Ma ribadisco, qui per il razzismo non c’è posto.»
«Certo che no» disse Julia.
«Aspetti un attimo. Sta dando a Sam del razzista?»
«Non ho detto questo, signor Bloch.»
«L’ha detto eccome. L’ha appena detto. Julia...»
«Non ricordo le parole esatte.»
«Ho detto ‘qui per il razzismo non c’è posto’.»
«Il razzismo è l’espressione di una persona razzista.»
«Lei ha mai mentito, signor Bloch?» Jacob tastò di riflesso per l’ennesima volta la tasca della giacca in cerca del telefono. «Immagino che, come a qualunque altra persona al mondo, le sia capitato di dire una bugia. Ma questo non fa di lei un bugiardo.»
«Mi sta dando del bugiardo?» chiese Jacob, con le dita avvolte intorno a niente.
«Sta boxando a vuoto, signor Bloch.»
Jacob si girò verso Julia. «Sì, è chiaro che quella parola con la n è una brutta parola. Brutta brutta, bruttissima. Ma era una parola in mezzo a tante.»
«Lei pensa che inserita in un contesto di misoginia, omofobia e perversione assuma una luce migliore?»
«Ma non è stato lui.»
Il rabbino ebbe un moto di disagio. «Se posso parlare con franchezza per un attimo...» Si interruppe e si infilò il pollice nella narice come se niente fosse. «Non deve essere facile per Sam... essere il nipote di Irving Bloch.»
Julia si appoggiò all’indietro e pensò ai castelli di sabbia e al portale di un tempio scintoista che era finito su una spiaggia in Oregon due anni dopo lo tsunami.
Jacob tornò a rivolgersi al rabbino. «Scusi?»
«Come modello di comportamento...»
«Questa è bella» disse Jacob.
Il rabbino si rivolse a Julia. «Lei senz’altro sa cosa intendo.»
«So cosa intende.»
«Noi non sappiamo cosa intende.»
«Forse, se Sam non avesse l’impressione che qualsiasi cosa uno dica, senza...»
«Lei ha letto il secondo volume della biografia di Lyndon Johnson scritta da Robert Caro?»
«No.»
«Be’, se lei fosse un rabbino informato e avesse letto quel classico del suo genere, saprebbe che le pagine dalla 432 alla 435 sono dedicate a come Irving Bloch abbia fatto più di chiunque altro, a Washington o altrove, per assicurare che passasse il Voting Rights Act. Un bambino non potrebbe trovare modello migliore.»
«Un bambino non dovrebbe neanche cercarlo» disse Julia, con gli occhi fissi davanti a sé.
«Ora... mio padre ha scritto sul suo blog cose di cui pentirsi? Sì. Le ha scritte. C’era di che pentirsene. Se ne pente. Un intero banchetto di nozze di pentimenti. Ma se lei insinua che la sua rettitudine sia altro che fonte d’ispirazione per i suoi nipoti...»
«Con il dovuto rispetto, signor Bloch...»
Jacob si girò verso Julia: «Facciamo quelli che se ne vanno».
«Facciamo quelli che fanno quello di cui Sam ha bisogno.»
«Sam non ha bisogno di niente in questo posto. È stato un errore costringerlo a fare il Bar Mitzvah.»
«Cosa? Jacob, noi non l’abbiamo costretto. Magari possiamo avergli dato una spintarella di incoraggiamento, ma...»
«La spintarella di incoraggiamento gliel’abbiamo data perché fosse circonciso. Con il Bar Mitzvah abbiamo proprio usato la forza.»
«Negli ultimi due anni tuo nonno non ha fatto che ripetere che la sua unica ragione per tirare avanti era essere presente al Bar Mitzvah di Sam.»
«Un motivo in più per non farlo.»
«E volevamo che Sam sapesse di essere ebreo.»
«C’era qualche remota possibilità che non lo sapesse?»
«Essere ebreo.»
«Ebreo, sì. Ma un ebreo religioso
Jacob non sapeva mai come rispondere alla domanda «Sei religioso?» Non era mai non appartenuto a una sinagoga, non aveva mai non mostrato una qualche attenzione alle regole alimentari della kasherut, non aveva mai non dato per scontato – neppure nei momenti di massima frustrazione nei confronti di Israele o di suo padre o dell’ebraismo americano o dell’assenza di Dio – che avrebbe cresciuto i propri figli con un qualche grado di pratica e di istruzione ebraica. Ma una religione non si regge sulle doppie negazioni. O come avrebbe detto Max, il fratello di Sam, tre anni dopo nel suo discorso per il Bar Mitzvah: «Alla fine riesci a tenerti solo quello che ti rifiuti di lasciare andare». E per quanto Jacob volesse la continuità (di storia, cultura, pensiero e valori), per quanto volesse credere che esistesse un significato più profondo non solo per sé ma anche per i suoi figli e per i loro figli, la quadratura del cerchio era lontana.
Quando avevano cominciato a frequentarsi, Jacob e Julia parlavano spesso di una «religione per due». Sarebbe stato imbarazzante, se non fosse stato nobilitante. Il loro Shabbat: ogni venerdì sera Jacob leggeva una lettera che aveva scritto a Julia nel corso della settimana e Julia recitava una poesia a memoria; e senza illuminazione dall’alto, con il telefono staccato e gli orologi nascosti sotto il cuscino della poltrona di velluto rosso, mangiavano lentamente la cena che avevano lentamente preparato insieme; e riempivano la vasca da bagno e facevano l’amore mentre l’acqua saliva. Le passeggiate all’alba del mercoledì: il tragitto si era fatto inconsapevolmente ritualizzato, percorso e ripercorso una settimana dopo l’altra, finché sul marciapiede si era impressa la loro impronta: impercettibile, ma presente. Ogni Rosh ha-Shanah, anziché andare in sinagoga, eseguivano il rituale del tashlich: lanciavano nel Potomac briciole di pane a simboleggiare i pentimenti per l’anno trascorso. Alcune affondavano, altre venivano portate via dalla corrente, alcuni pentimenti venivano presi dai gabbiani per nutrire i loro piccoli ancora ciechi. Ogni mattina, prima di alzarsi dal letto, Jacob baciava Julia in mezzo alle gambe: non con un intento sessuale (il rituale esigeva che il bacio non portasse mai a nulla), ma religioso. Cominciarono a collezionare, durante i viaggi, cose che in qualche modo sembravano più grandi dentro che fuori: l’oceano contenuto in una conchiglia, il nastro consumato di una macchina per scrivere, il mondo in uno specchio di vetro mercurizzato. Tutto sembrava tendere a una dimensione rituale: Jacob che andava a prendere Julia al lavoro il giovedì, il caffè della mattina condiviso in silenzio, Julia che sostituiva i segnalibri di Jacob con dei bigliettini... finché, come un universo che ha raggiunto il limite della sua espansione e torna a contrarsi verso le origini, tutto si era disfatto.
Alcuni venerdì sera era troppo tardi e alcuni mercoledì mattina era troppo presto. Dopo una discussione difficile non c’erano baci in mezzo alle gambe e senza uno slancio di generosità quante cose si possono davvero definire più grandi dentro che fuori? (Non si può mettere il risentimento su uno scaffale.) Si aggrappavano a quello che potevano e si sforzavano di non ammettere quanto si erano secolarizzati. Ma ogni tanto, di solito quando erano sulla difensiva e, con tutte le migliori intenzioni, non riuscivano proprio a non usare un tono accusatorio, uno dei due diceva: «Mi mancano i nostri Shabbat».
La nascita di Sam fu percepita come una nuova opportunità, e così quella di Max e quella di Benjy. Una religione per tre, per quattro, per cinque. Segnavano ritualisticamente l’altezza dei figli sullo stipite della porta all’inizio di ogni anno, secolare ed ebraico, sempre il primo giorno appena svegli, prima che la gravità compisse la sua opera di compressione. Gettavano nel fuoco i buoni propositi ogni 31 dicembre, portavano Argo a fare una passeggiata tutti insieme ogni martedì sera dopo cena e leggevano ad alta voce le pagelle mentre andavano da Vace a bere aranciate e limonate altrimenti proibite. Rimboccavano le coperte in un certo ordine, in base a un certo complesso protocollo, e quando c’era un compleanno si dormiva tutti insieme nel lettone. Spesso osservavano lo Shabbat – tanto nel senso di assistere consapevolmente a un rituale religioso quanto nel senso di compierlo – con una challah di Whole Foods, succo d’uva Kedem e candele di cera d’api a rischio d’estinzione infilate in candelieri d’argento di antenati estinti. Dopo le benedizioni e prima di mangiare, Jacob e Julia andavano da ciascuno dei figli, gli posavano le mani sulla testa e gli sussurravano all’orecchio qualcosa che quella settimana li aveva resi orgogliosi di lui. L’intimità estrema delle dita tra i capelli, l’amore che non era segreto ma andava sussurrato, mandava brividi attraverso i filamenti delle lampadine regolate al minimo.
Dopo cena, compivano un rituale di cui nessuno ricordava le origini e di cui nessuno metteva in dubbio il significato: chiudevano gli occhi e camminavano per la casa. Andava bene parlare, fare gli sciocchi, ridere, ma la loro cecità sfociava sempre nel silenzio. Nel corso del tempo, avevano sviluppato una buona resistenza al buio silenzioso che poteva durare fino a dieci minuti, poi anche venti. Si ritrovavano al tavolo della cucina e a quel punto aprivano gli occhi tutti insieme. Ogni volta era rivelatorio. Due rivelazioni: l’estraneità di una casa in cui i bambini avevano vissuto per tutta la vita e l’estraneità della vista.
Uno Shabbat, mentre erano in macchina per andare a trovare il bisnonno Isaac, Jacob disse: «Un tizio si sbronza a una festa e mentre torna a casa investe e uccide un bambino. Un altro si sbronza altrettanto e torna a casa sano e salvo. Perché il primo va in prigione per il resto della sua vita e il secondo può alzarsi al mattino dopo come se niente fosse?»
«Perché ha ucciso un bambino.»
«Ma se consideriamo quello che hanno fatto di sbagliato, sono ugualmente colpevoli.»
«Ma il secondo non ha ucciso un bambino.»
«Non perché era innocente, ma perché è stato fortunato.»
«Ma in ogni caso il primo ha ucciso un bambino.»
«Ma quando pensiamo alla colpa, non dovremmo pensare alle azioni e alle intenzioni, oltre che agli esiti?»
«Che tipo di festa era?»
«Come?»
«Sì, e che cosa ci faceva quel bambino in giro così tardi?»
«Secondo me il punto...»
«I suoi genitori avrebbero dovuto proteggerlo. Sono loro che dovrebbero finire in prigione. Ma poi il bambino non avrebbe più i genitori. A meno che non vada a vivere in prigione con loro.»
«Dimentichi che è morto.»
«Ah sì, vero.»
Sam e Max erano rimasti affascinati dal concetto di intenzionalità. Una volta, Max era corso in cucina piangendo, tenendosi la pancia. «Gli ho dato un pugno» aveva detto Sam dal soggiorno, «ma non l’ho fatto apposta.» O quando, per ritorsione, Max era saltato sulla casetta di Lego che Sam stava finendo di costruire e aveva detto: «Non l’ho fatto apposta; volevo solo saltare sul tappeto che c’era sotto». I broccoli finivano ad Argo sotto il tavolo «per sbaglio». Non si studiava per i compiti in classe «apposta». La prima volta che Max disse a Jacob «Stai zitto» – in risposta al padre che gli diceva di smettere di giocare a una sottospecie di Tetris proprio mentre stava per entrare tra i dieci migliori punteggi della giornata, peccato che in teoria non avrebbe dovuto giocarci per niente – lasciò giù il telefono di Jacob, corse da lui, lo abbracciò e con gli occhi lucidi di paura disse: «Non volevo dirlo».
Quando le dita della mano sinistra di Sam erano rimaste schiacciate nei cardini della pesante porta di ferro e lui aveva gridato: «Perché è successo?», continuando a gridarlo all’infinito, «Perché è successo?» e Julia, mentre lo abbracciava stretto, con il sangue che le sbocciava sulla camicetta come un tempo faceva il suo latte appena sentiva un bambino piangere, aveva detto semplicemente: «Amore, sono qui, ti voglio bene», e Jacob: «Dobbiamo andare al pronto soccorso», Sam, che aveva più paura dei dottori che di qualunque cosa i dottori potessero curare, aveva implorato: «No! Non andiamo. Non andiamo. L’ho fatto apposta! L’ho fatto apposta!»
Il tempo era passato, il mondo aveva fatto la sua parte, e Jacob e Julia avevano cominciato a dimenticare di fare le cose apposta e non si rifiutavano più di lasciare andare e – come i buoni propositi, le passeggiate del martedì, le telefonate per fare gli auguri di compleanno ai cugini in Israele, i tre bustoni pieni di scorte di gastronomia ebraica da portare al bisnonno Isaac la prima domenica di ogni mese, saltare la scuola per la prima partita di stagione dei Nats, cantare Singin’ in the Rain mentre Ed la Iena passava nell’autolavaggio a gettoni, il «diario della gratitudine», le «ispezioni auricolari», raccogliere e intagliare le zucche ogni anno e poi tostare i semi e lasciarle decomporre per un mese – anche i sussurri d’orgoglio erano svaniti.
La vita era diventata molto più piccola dentro che fuori, creando una cavità, un vuoto. Per questo il Bar Mitzvah sembrava così importante: era l’ultimo filo di un legame sfilacciato. Reciderlo, come Sam avrebbe così fortemente voluto, e come Jacob stava adesso proponendo di fare contro il suo stesso bisogno reale, avrebbe mandato non solo Sam ma l’intera famiglia a fluttuare in quel vuoto: ossigeno più che sufficiente per durare una vita, ma che genere di vita?
Julia si rivolse al rabbino: «Se Sam si scusasse...»
«Per cosa?» chiese Jacob.
«Se si scusasse...»
«Con chi
«Con tutti» disse il rabbino.
«Con tutti? Tutti i vivi e i morti?»
Jacob mise insieme quella frase – tutti i vivi e i morti – non alla luce di quello che stava per accadere, ma nel buio pesto totale del momento: prima che le preghiere ripiegate sbocciassero dal Muro del Pianto, prima della «crisi giapponese», prima dei diecimila bambini dispersi e della Marcia del milione, prima che «Adia» diventasse la parola più cercata nella storia di internet. Prima delle devastanti scosse di assestamento, prima dello schieramento di nove eserciti e della distribuzione di compresse di iodio, prima che l’America non inviasse gli F-16, prima che il Messia fosse troppo distratto o non-esistente per svegliare i vivi o i morti. Sam stava diventando un uomo. Isaac stava meditando se suicidarsi o trasferirsi da una casa a una Casa.
«Vorremmo archiviare questa cosa» disse Julia al rabbino. «Vogliamo appianare tutto e arrivare al Bar Mitzvah com’era in programma.»
«Scusandoci di tutto con tutti?»
«Vogliamo tornare alla felicità.»
Jacob e Julia registrarono in silenzio la speranza, la tristezza e la stranezza di quello che Julia aveva detto, mentre le parole si dissipavano nella stanza andando a posarsi in cima a pile di volumi religiosi e sulla moquette macchiata. Avevano perso la strada e perso la bussola, ma non la convinzione che fosse possibile tornare indietro, per quanto nessuno dei due sapesse esattamente a quale felicità si stesse riferendo Julia.
Il rabbino intrecciò le dita, come fanno i rabbini, e disse: «C’è un proverbio chassidico: ‘Inseguendo la felicità, smarriamo la soddisfazione’».
Jacob si alzò, ripiegò il foglio di carta, se lo infilò in tasca e disse: «Se la sta prendendo con la persona sbagliata.

Non eccomi

Mentre Sam aspettava sulla panca fuori dall’ufficio del rabbino Singer, Samanta si avvicinava alla bimah, il pulpito che Sam aveva costruito col legno di vecchi olmi digitali salvati dal fondo di un lago d’acqua dolce digitale che aveva scavato e in cui aveva affondato un piccolo boschetto un anno prima quando, come uno di quei cani innocenti su uno di quei malefici pavimenti elettrificati, aveva scoperto cosa significhi sentirsi impotenti.
«Non importa se vuoi o non vuoi un Bar Mitzvah» gli aveva detto suo padre. «Ma cerca di pensarlo come uno stimolo.»
Perché, tra l’altro, era così ossessionato dalla crudeltà verso gli animali? Perché provava un’attrazione irrefrenabile per filmati che, lo sapeva, non avrebbero fatto altro che rafforzare le sue convinzioni sul genere umano? Passava un tempo esagerato a cercare violenza: crudeltà verso gli animali, ma anche combattimenti di animali (organizzati dagli uomini e in natura), animali che attaccavano persone, toreri che facevano la fine che si meritavano, skater che facevano la fine che si meritavano, atleti con ginocchia piegate in modo innaturale, persone decapitate da elicotteri, risse tra barboni, e ancora: ferite da masturbazione, incidenti con il tritarifiuti, lobotomie causate dalle antenne delle macchine, vittime civili di guerre chimiche, teste sciite infilzate su palizzate sunnite, operazioni chirurgiche andate male, ustioni, spiegazioni su come ridurre le morti deplorabili di animali sulle strade (come se ce ne fossero di non deplorabili), spiegazioni su come suicidarsi in modo indolore (come se non fosse impossibile per definizione), eccetera, eccetera. Le immagini erano oggetti affilati che usava contro se stesso: aveva così tanto dentro che aveva bisogno di portare fuori, ma il processo imponeva di farsi del male.
Nel tragitto silenzioso in macchina, tornando a casa, esplorò il luogo di culto che aveva costruito intorno alla bimah: i piedi a zampa di leone a tre artigli dei banchi senza peso da due tonnellate; i nodi gordiani alle frange terminali del tappeto multicolore che correva lungo il corridoio; i libri di preghiera in cui ogni parola veniva costantemente aggiornata con un suo sinonimo: il Signore è Uno... il Sovrano è Solo... l’Assoluto è Abbandonato... Se il processo fosse andato avanti a sufficienza, le preghiere, anche solo per un istante, sarebbero tornate quelle originarie. Ma se anche l’aspettativa di vita fosse aumentata di un anno ogni anno, ci sarebbe voluta un’eternità per arrivare a vivere un’eternità, quindi probabilmente nessuno l’avrebbe mai visto.
In Sam la pressione di quel che aveva intrappolato dentro spesso prendeva la forma di una genialità inutile, non condivisa, e mentre suo padre, i suoi fratelli e i suoi nonni pranzavano al piano di sotto, mentre era ovvio che stessero parlando di quello di cui lui era stato accusato e di che cosa fare con lui, mentre si supponeva che lui stesse memorizzando parole e melodie ebraiche di una haftorah del cui significato non importava niente a nessuno, lui creava vetrate digitali animate. La vetrata alla destra di Samanta raffigurava Mosè neonato trascinato dalle acque del Nilo, da una madre all’altra. Era un loop, ma realizzato in modo da evocare un viaggio infinito.
Sam pensava che sarebbe stato perfetto che la vetrata più grande rappresentasse il Presente ebraico in tempo reale per cui, invece di imparare quell’Ashrei insulso e del tutto inutile, creò uno script che estraeva parole chiave da un feed di Google News di notizie ebraiche, le processava con un algoritmo di ricerca video creato da lui (per eliminare ridondanze, risultati non pertinenti e propaganda antisemita), processava il risultato in un filtro video creato da lui (che riduceva le immagini per adattarle meglio alla cornice rotonda e ritoccava i colori) e proiettava il tutto sulla vetrata. Funzionava meglio nella sua testa che nella realtà, ma questo valeva per tutto.
Intorno gli aveva costruito la sinagoga vera e propria: il labirinto di corridoi che si biforcavano letteralmente all’infinito; le fontane da cui zampillava aranciata e gli orinatoi fatti con le ossa dei trafficanti d’avorio; la scorta segreta di video porno di facesitting, autenticamente amorevoli e non misogini, nell’armadio del salone delle attività sociali maschili; il posto per handicappati messo ironicamente nel parcheggio per i passeggini; la parete commemorativa con minuscole lampadine che non funzionavano mai accanto ai nomi di quelli a cui augurava una morte rapida e indolore, ma comunque una morte (ex migliori amici, gente che inventava di proposito prodotti contro l’acne che bruciavano sulla pelle, eccetera); varie finte grotte dove ragazze dolci ed incredibilmente simpatiche vestite come nelle pubblicità di American Apparel e appassionate fan di Percy Jackson si lasciavano succhiare le tette perfette da ragazzini imbranati; lavagne che davano scosse elettriche a 600 volt se grattate dalle unghie di sbruffoni idioti spaccapalle tutti destinati – anche se forse era evidente solo a Sam – a diventare tra quindici anni dei tripponi del cazzo con un lavoro noioso e una moglie chiattona; piccole targhe su qualunque superficie per far sapere a tutti che era grazie alla beneficenza di Samanta, alla sua innata bontà, al suo amore per la misericordia, per l’equità e per il beneficio del dubbio, alla sua onestà, al suo valore personale, al fatto di non essere una merda tossica, che quella scala per salire sul tetto esisteva, che il tetto esisteva, che il Dio in perenne buffering esisteva.
La sinagoga in origine sorgeva al margine di una comunità che si era sviluppata intorno a una passione condivisa per i filmati in cui un cane aveva combinato qualcosa di cui si vergognava. Sam poteva passare intere giornate a guardare filmati così – più di una volta l’aveva fatto davvero – senza stare troppo a chiedersi che cosa ci trovasse di tanto interessante. La spiegazione più ovvia sarebbe stata che si identificava con il cane, ed era ovvio che in quello ci fosse una parte di verità. («Sei stato tu, Sam? Hai scritto tu quelle parole? Sei stato cattivo?») Ma era attirato anche dai proprietari. Ciascuno di quei filmati era stato girato da qualcuno che amava il proprio cane più di se stesso; il rimprovero era sempre enfatizzato in modo buffo e bonario e alla fine c’era sempre la riconciliazione. (Aveva provato a girare qualche filmato del genere, ma Argo era troppo vecchio e stanco per fare qualunque cosa a parte cacarsi addosso, e per quello non ci poteva essere un rimprovero bonario.) Quindi doveva avere qualcosa a che vedere con il peccatore e qualcosa con il giudice e con la paura di non essere perdonati e con il sollievo di essere amati di nuovo. Forse nella prossima vita i sentimenti non l’avrebbero risucchiato in modo così totale e gli sarebbe rimasta una parte di sé per capire.
Non c’era niente che fosse proprio sbagliato nella collocazione originaria, ma la vita è dove tocca accontentarsi, Other Life è dove si possono mettere le cose dove desiderano stare davvero. Sam era segretamente convinto che tutto sia in grado di desiderare, o meglio, che tutto desideri, sempre. Quindi dopo il cazziatone fattogli più tardi da sua madre per indurlo a vergognarsi, pagò con valuta digitale dei traslocatori digitali perché smontassero la sinagoga nei pezzi più grandi che potevano essere trasportati dai camion più grandi, trasferirli e rimontarli in base ai fermi immagine dell’originale.
«Quando papà torna dalla sua riunione parleremo per bene, ma qualcosa te lo voglio dire. È fondamentale
«Bene.»
«Smettila di dire ‘bene’.»
«Mi dispiace.»
«Smettila di dire ‘mi dispiace’.»
«Avevo capito che il punto era che mi dovevo scusare.»
«Per quello che hai fatto.»
«Ma non sono stato io...»
«Sono molto delusa.»
«Lo so.»
«Tutto qui? Non hai altro da dire? Tipo, magari: ‘Sono stato io e mi dispiace’?»
«Non sono stato io.»
«Metti in ordine questo casino. È invivibile.»
«È la mia camera.»
«Ma è casa nostra.»
«Non posso spostare quella scacchiera. Siamo a metà partita. Papà ha detto che possiamo finirla quando non sarò più nei guai.»
«Sai perché lo batti sempre?»
«Perché mi lascia vincere.»
«Sono anni che non ti lascia vincere.»
«Non s’impegna.»
«Non è vero. Tu lo batti perché lui si esalta a mangiare i pezzi ma tu ragioni sempre quattro mosse avanti. Per questo sei bravo a scacchi e bravo nella vita.»
«Non sono bravo nella vita.»
«Sì, invece, quando pensi a quello che fai.»
«Papà non è bravo nella vita?»
Era andata in modo quasi perfetto, ma i traslocatori sono meno quasi-perfetti del resto dell’umanità e c’erano stati piccoli contrattempi, quasi tutti difficili da notare – chi, a parte Sam, avrebbe capito che una stella di David era ammaccata e appesa al contrario? – specie considerando che quasi niente era stato notato, tanto per cominciare. Quella minuscola distanza dalla perfezione la rendeva una merda.
Suo padre gli aveva dato un articolo su un ragazzo in un campo di concentramento che aveva celebrato il proprio Bar Mitzvah scavando una sinagoga immaginaria e riempiendola di rametti dritti a formare una congregazione silenziosa. Naturalmente suo padre non avrebbe mai immaginato che Sam l’avesse letto per davvero e non ne avevano mai parlato, e può essere definito ricordare il fatto di pensare costantemente a qualcosa?
Era tutto per quell’occasione. L’intero edificio della religione organizzata concepito, costruito e curato semplicemente per un breve rituale. Malgrado la sua incomprensibile vastità, in Other Life non c’era una sinagoga. E malgrado la profonda riluttanza di Sam a mettere piede in una sinagoga vera, una sinagoga doveva esserci. Non desiderava una sinagoga, ne aveva bisogno: non puoi distruggere quello che non esiste.


Felicità

Tutte le mattine felici si assomigliano, esattamente come tutte le mattine infelici, ed è questo, in fondo, a renderle così profondamente infelici: la sensazione che quest’infelicità sia già accaduta prima, che gli sforzi per evitarla al massimo la rafforzino e probabilmente non facciano che esacerbarla, che l’universo, per qualche inconcepibile, inutile e ingiusta ragione, cospiri contro l’innocente sequenza di vestiti, colazione, denti e ciuffi sparati, zaini, scarpe, giacche, saluti.
Jacob aveva insistito perché Julia arrivasse all’incontro con il rabbino Singer con la propria macchina, in modo che potesse poi andarsene direttamente e prendersi lo stesso la sua giornata libera. Attraversarono la scuola e poi si diressero al parcheggio in un cupo silenzio. A Sam nessuno aveva mai spiegato che un imputato ha diritto a rimanere in silenzio, perché qualsiasi cosa dice potrà essere usata contro di lui in tribunale, ma lo intuiva. E i suoi genitori non volevano parlare davanti a lui prima di essersi parlati alle sue spalle. Per cui lo lasciarono all’ingresso, tra uomini-bambini con i baffi che giocavano a Yu-Gi-Oh!, mentre loro andavano alle macchine.
«Vuoi che passi a comprare qualcosa?» chiese Jacob.
«Quando?»
«Adesso.»
«Devi tornare a casa per il brunch con i tuoi.»
«Volevo solo toglierti qualche incombenza.»
«Del pane in cassetta sarebbe utile.»
«Qualche tipo particolare?»
«Il tipo particolare che compriamo sempre.»
«Cosa?»
«Cosa cosa?»
«Mi sembri seccata.»
«Tu non sei seccato?»
Aveva trovato il cellulare?
«Non vogliamo parlare di quello che è appena successo?»
Non aveva trovato il cellulare.
«Certo» disse lui. «Ma non qui nel parcheggio. Non con Sam che ci aspetta sui gradini e i miei che mi aspettano a casa.»
«Allora quando?»
«Stasera?»
«Stasera? Con il punto di domanda? Oppure: stasera
«Stasera
«Promesso?»
«Julia.»
«E non permettergli di starsene tutto ingrugnito nella sua stanza con l’iPad. Deve sapere che siamo arrabbiati.»
«Lo sa.»
«Sì, ma voglio che lo sappia anche mentre io non ci sono.»
«Lo saprà
«Promesso?» chiese, questa volta facendo scendere il tono verso il punto interrogativo, invece di farlo salire.
«Te lo giuro su quello che vuoi.»
Avrebbe potuto aggiungere qualcosa – fargli qualche esempio recente o spiegargli perché non era la punizione a preoccuparla ma il loro progressivo cristallizzarsi in ruoli genitoriali completamente sbagliati – ma preferì invece dargli una stretta prolungata e affettuosa sul braccio.
«Ci vediamo nel pomeriggio.»
In passato il contatto fisico li aveva sempre salvati. Per quanto intensa fosse la rabbia o per quanto si sentissero feriti, per quanto fosse profondo l’abisso della solitudine, un contatto, anche un contatto fugace, bastava a restituire la storia del loro legame. Una mano sul collo: riemergeva tutto. Una testa appoggiata alla spalla: la chimica montava, la memoria dell’amore. Certe volte era quasi impossibile superare la distanza tra i corpi, cercare il contatto. Certe volte era impossibile. Entrambi conoscevano bene quella sensazione, nel silenzio di una camera da letto buia, gli occhi fissi sullo stesso soffitto: se potessi aprire le mie dita, potrebbero aprirsi le dita del mio cuore. Ma non posso. Voglio arrivare a superare la distanza e voglio essere raggiunto. Ma non posso.
«Mi dispiace per stamattina» disse Jacob. «Avrei voluto che avessi tutta la giornata.»
«Non le hai scritte tu quelle parole.»
«Neanche Sam.»
«Jacob.»
«Cosa?»
«Non esiste che uno di noi gli crede e l’altro no, non va bene.»
«Allora credigli.»
«È chiaro che è stato lui.»
«Credigli lo stesso. Siamo i suoi genitori.»
«Giusto. E bisogna che gli insegniamo che le azioni hanno delle conseguenze.»
«Credergli è più importante» disse Jacob, ma la conversazione si svolgeva troppo in fretta perché lui stesso riuscisse a tenere dietro a quello che voleva dire. Perché voleva combattere quella battaglia?
«No» disse Julia, «volergli bene è più importante. E una volta scontata la punizione, si renderà conto che il risultato finale è il nostro amore, che ogni tanto impone di farlo stare male.»
Jacob aprì la portiera a Julia e disse: «Continua alla prossima puntata...»
«Sì, alla prossima puntata. Ma ho bisogno che tu mi dica che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, in questa storia.»
«Che non gli credo?»
«Che qualunque cosa tu creda, mi aiuterai a mettere in chiaro che siamo delusi e che si deve scusare.»
Jacob odiava tutta quella situazione. Odiava Julia perché lo costringeva a tradire Sam e odiava se stesso perché non si opponeva a Julia. Fosse rimasto dell’odio, sarebbe stato per Sam.
«Okay» disse.
«Sì?»
«Sì.»
«Grazie» disse, salendo in macchina. «Prossima puntata, stasera.»
«Okay» disse lui, richiudendole la portiera. «E prenditi pure tutto il tempo che vuoi, oggi.»
«E che succede se tutto il tempo che voglio è più di una giornata?»
«E ho quella riunione dell’HBO.»
«Quale riunione?»
«Ma non prima delle sette. Te l’avevo accennato. Probabilmente a quel punto sarai tornata comunque.»
«Non si sa mai.»
«È una seccatura che sia nel weekend, ma durerà solo un’ora o due.»
«Va bene.»
Le diede una strizzatina al braccio e disse: «Prenditi quel che resta».
«Di cosa?»
«Della giornata.»


Tornarono a casa in silenzio, a parte l’autoradio sintonizzata sulla NPR, la cui onnipresenza assumeva il carattere del silenzio. Jacob lanciava occhiate a Sam nello specchietto retrovisore.
«Ah, Miss Daisy, ieri mi sono preso la libertà di mangiarmi una scatola di tonno.»
«Hai avuto un ictus o cosa?»
«Citazione cinematografica. E forse era salmone.»
Sapeva che non avrebbe dovuto permettere a Sam di giocare con l’iPad sul sedile posteriore, ma quel povero ragazzo ne aveva passate abbastanza quella mattina. Una piccola autoconsolazione sembrava accettabile. E rimandava la conversazione che non se la sentiva di affrontare in quel momento, o anche mai.
Il programma di Jacob sarebbe stato di preparare un brunch elaborato, ma quando alle nove e un quarto era arrivata la telefonata del rabbino Singer, aveva chiesto ai suoi genitori, Irv e Deborah, di arrivare presto per stare con Max e Benjy. Adesso, altro che French toast fatti con il pan brioche e ripieni di ricotta. Altro che insalata di lenticchie, altro che insalata di cavolini di Bruxelles affettati fini fini. Ci sarebbero state calorie e basta.
«Due tramezzini di pane di segale con burro d’arachidi cremoso» disse Jacob, porgendo il piatto a Benjy.
Max intercettò il cibo: «Questo in realtà è per me».
«Giusto» disse Jacob, porgendo a Benjy una scodella, «perché per te, Benjy, ci sono i Cheerios al miele e nocciole con uno spruzzo di latte di riso.»
Max scrutò la ciotola di Benjy. «Questi sono Cheerios normali con sopra un po’ di miele.»
«Sì.»
«Allora perché gli hai detto una bugia?»
«Grazie, Max.»
«E avevo detto pane tostato, non incenerito
«Ince... cosa?» chiese Benjy.
«Distrutto dal fuoco» disse Deborah.
«Che gli prende a Camus?» chiese Irv.
«Lascialo in pace» disse Jacob.
«Ehi, Maxy» disse Irv attirando a sé il nipote, «una volta uno mi ha raccontato del museo più incredibile...»
«Dov’è Sam?» chiese Deborah.
«Non si dicono le bugie» disse Benjy.
Max scoppiò a ridere.
«Buona questa» disse Irv. «Vero?»
«Ne ha combinata una alla scuola ebraica, questa mattina, ed è confinato in camera sua.» E a Benjy: «Non ho detto una bugia».
Max sbirciò nella scodella di Benjy e gli disse: «Guarda, non è neppure miele. È sciroppo d’agave».
«Voglio la mamma.»
«Le stiamo dando una giornata libera.»
«Libera da noi?» chiese Benjy.
«No, no. Non ha mai bisogno di essere libera da voi.»
«Libera da te?» chiese Max.
«Uno dei miei amici, Joey, ha due papà. Ma i bambini escono dalla vagina. Perché?»
«Perché cosa?»
«Perché mi hai detto una bugia?»
«Nessuno ha detto una bugia a nessuno.»
«Voglio un burrito surgelato.»
«Il freezer è rotto» disse Jacob.
«Per colazione?» chiese Deborah.
«Brunch» la corresse Max.
«Sí, se puede» disse Irv.
«Posso fare un salto a prendertene uno squisito» propose Deborah.
«Uno surgelato.»
Nel corso degli ultimi mesi, le abitudini alimentari di Benjy erano virate verso quello che si poteva definire cibo incompiuto: verdure surgelate (nel senso, ancora surgelate al momento di mangiarle), fiocchi d’avena crudi, tagliatelle per il ramen crude, impasto crudo, quinoa cruda, maccheroni crudi con sopra formaggio liofilizzato non ricostituito. A parte adattare la lista della spesa, Jacob e Julia non ne avevano mai parlato; affrontare la cosa era troppo impegnativo dal punto di vista psicologico.
«Allora, cos’ha combinato Sammy?» chiese Irv, con la bocca piena di glutine.
«Te lo dico dopo.»
«Un burrito surgelato, ti prego.»
«Potrebbe non esserci un dopo.»
«A quanto pare ha scritto delle parolacce su un foglietto in classe.»
«A quanto pare?»
«Dice che non è stato lui.»
«Ma è stato lui?»
«Non lo so. Julia pensa di sì.»
«A prescindere da quello che è vero o non vero e a prescindere da quello che ciascuno di voi crede, dovete affrontare la cosa insieme» disse Deborah.
«Lo so.»
«E mi ricorderesti che cos’è una parolaccia?» disse Irv.
«Puoi arrivarci da solo.»
«In realtà no. Posso arrivare a pensare a cattivi contesti...»
«Quelle parole e il contesto della scuola ebraica facevano decisamente a pugni.»
«Quali parole?»
«È davvero importante?»
«Ma certo che è davvero importante.»
«Non è importante» disse Deborah.
«Ti basti sapere che c’era anche la parola che inizia con la n.»
«Voglio un... Cos’è che comincia con la n?»
«Contento, adesso?» chiese Jacob a suo padre.
«L’ha usata in modo attivo o passivo?» chiese Irv.
«Te lo dico dopo» disse Max al fratellino.
«Non esiste un uso passivo di quella parola» disse Jacob a Irv. «E no, non ti azzardare» disse a Max.
«Potrebbe non esserci un dopo» disse Benjy.
«Ho davvero tirato su un figlio che si riferisce a una parola dicendo quella parola
«No» disse Jacob, «non hai tirato su un figlio.»
Benjy andò dalla nonna, che non gli diceva mai di no: «Se mi vuoi bene mi prendi un burrito surgelato e mi dici cosa comincia con la n.»
«E qual era il contesto?» chiese Irv.
«Non ha importanza» disse Jacob, «chiudiamola qui.»
«Non c’è niente di più importante. In assenza di contesto, saremmo tutti mostri.»
«N...» disse Benjy.
Jacob posò coltello e forchetta.
«Okay, visto che insisti, il contesto è che Sam ti vede metterti in ridicolo tutte le mattine al telegiornale e poi ti vede messo in ridicolo tutte le sere nei talk show.»
«Permetti ai tuoi figli di guardare troppa televisione.»
«Non la guardano quasi mai.»
«Possiamo guardare la tv?» chiese Max.
Jacob lo ignorò e andò avanti con Irv: «È stato sospeso finché non accetterà di scusarsi. Se non si scusa, niente Bar Mitzvah».
«Scusarsi con chi
«Programmi via cavo?» chiese Max.
«Con tutti.»
«Perché non andare fino in fondo ed estradarlo in Uganda per un’elettrocuzione scrotale?»
Jacob porse un piatto a Max sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Max fece di sì con la testa e si alzò da tavola.
«Ha fatto una cosa sbagliata» disse Jacob.
«Esercitando la sua libertà di parola?»
«Libertà d’insulto.»
«Sei già anche andato a battere i pugni sulla scrivania dell’insegnante?»
«No, no. Assolutamente no. Abbiamo parlato con il rabbino e adesso siamo in piena modalità ‘salviamo il Bar Mitzvah’.»
«Avete parlato? Credi che per andarcene dall’Egitto o da Entebbe sia servito parlare? Ah, ah. Piaghe e uzi. Parlando ottieni un buon posto in fila per una doccia che non è una doccia.»
«Santo cielo, papà. Ma sempre?»
«Certo, sempre. ‘Sempre’, perché sia ‘mai più’.»
«Be’, che ne dici se questa me la sbroglio io?»
«Visto l’ottimo lavoro che stai facendo?»
«Visto che il padre di Sam è lui» disse Deborah. «Non tu.»
«Visto che una cosa è raccogliere la cacca del tuo cane» disse Jacob, «un’altra è raccogliere quella di tuo padre.»
«Cacca» fece eco Benjy.
«Mamma, ti spiace salire a leggere qualcosa a Benjy?»
«Io voglio stare con gli adulti.»
«Qui l’unica adulta sono io» disse Deborah.
«Prima di andare in bestia» disse Irv, «voglio essere sicuro di aver capito bene. Stai cercando di dire che c’è un nesso tra il modo in cui il mio blog viene frainteso e il problema di Sam col Primo emendamento?»
«Il tuo blog non viene frainteso.»
«Completamente travisato.»
«Hai scritto che gli arabi odiano i loro bambini.»
«Sbagliato. Ho scritto che l’odio che gli arabi provano per gli ebrei ha trasceso l’amore che provano per i loro stessi figli.»
«E che sono degli animali.»
«Sì. Ho scritto anche quello. Sono animali. Gli esseri umani sono animali. Lo sono per definizione.»
«Gli ebrei sono animali?»
«Non è così semplice, no.»
«Qual è la parola che comincia con la n?» chiese Benjy a Deborah in un sussurro.
«Nonna» gli sussurrò lei.
«No, non è vero.» Deborah prese in braccio Benjy e se lo portò fuori dalla stanza. «La parola che comincia con la n è no, giusto?»
«Sì.»
«No, non è vero.»
«Di psicologi da strapazzo ce n’è abbastanza» disse Irv. «A Sam serve uno che rimetta a posto le cose. Qui è in gioco la libertà di espressione, poche storie, e come tu sai o dovresti sapere, io non solo sono membro del direttivo nazionale dell’American Civil Liberties Union, ma ogni anno a Pesach i suoi membri raccontano la mia storia. Se tu fossi me...»
«Mi suiciderei per risparmiare la mia famiglia.»
«... getteresti esche nelle acque dell’Adas Israel per attirare un avvocato pazzamente brillante e artisticamente monomaniacale che ha sacrificato le gratificazioni del mondo per il piacere di difendere le libertà civili. Guarda, sono il primo ad apprezzare il piacere di lamentarsi delle ingiustizie, ma tu non sei un imbelle, Jacob, e Sam è tuo figlio. Nessuno ti condannerebbe per non avere aiutato te stesso, ma nessuno ti perdonerebbe per non aver aiutato tuo figlio.»
«Stai idealizzando razzismo, misoginia e omofobia.»
«Hai mai letto quello che Caro...»
«Ho visto il film.»
«Sto cercando di tirare fuori da un guaio mio nipote. Che c’è di male?»
«Magari non bisognerebbe cercare di tirarlo fuori.»
Benjy sgambettò di nuovo nella stanza: «È marito
«È marito cosa?»
«La parola che comincia con la n.»
«Marito comincia con la m.»
Benjy girò i tacchi e sgambettò via.
«Sai, quello che ha detto tua madre prima, del fatto che tu e Julia dovete affrontare questa cosa insieme... Era sbagliato. Tu devi difendere Sam. Lascia che siano gli altri a preoccuparsi di che cosa è successo in realtà.»
«Io gli credo.»
E poi, come accorgendosi per la prima volta della sua assenza: «Dov’è Julia, a proposito?»
«Si è presa una giornata libera.»
«Libera da cosa?»
«Libera
«Grazie, Anne Sullivan, ma ti avevo sentito benissimo. Libera da cosa
«Libera e basta. Non puoi accontentarti?»
«Certo» fece Irv, annuendo. «È una possibilità. Ma lascia che ti dia qualche perla di saggezza che neanche la Vergine Maria.»
«Non vedo l’ora.»
«Niente passa da solo. O affronti tu le cose o loro affrontano te.»
«Anche questo passerà...?»
«Salomone non era perfetto. In tutta la storia umana, niente è mai passato per conto suo.»
«L’odore delle scoregge» disse Jacob, come per onorare l’assenza di Sam.
«Casa tua puzza, Jacob. Tu non lo senti perché ci stai dentro.»
Jacob avrebbe potuto ribattere che doveva esserci una cacca di Argo da qualche parte nel raggio di tre stanze. L’aveva capito appena aveva aperto la porta.
Benjy tornò nella stanza. «Mi sono ricordato la mia domanda» disse, anche se non aveva dato alcun segnale che stesse cercando di ricordare qualcosa.
«Sì?»
«Il suono del tempo. Che fine ha fatto?»

Una mano grande come la tua, una casa grande come questa

A Julia piaceva che lo sguardo fosse indirizzato dove il corpo non può andare. Le piacevano i muri di mattoni irregolari, che non si capisce se sono fatti a casaccio o a regola d’arte. Le piaceva la sensazione di contenimento con un’idea di espansione. Le piaceva che la vista non fosse centrata nella finestra ma le piaceva anche ricordare che le viste sono, per natura, centrate. Le piacevano le maniglie che vorresti tenere in mano ancora un po’. Le piacevano le scale che salivano e le scale che scendevano. Le piacevano le ombre che si posavano su altre ombre. Le piacevano le colazioni a buffet. Le piacevano i legni chiari (betulla, acero) e non le piacevano i legni «virili» (noce, mogano) e non amava l’acciaio e odiava l’acciaio inossidabile (finché non era tutto graffiato) e le imitazioni dei materiali naturali erano intollerabili, a meno che non fossero dichiaratamente finti – e che il punto fosse proprio che erano finti –, nel qual caso potevano essere decisamente belli. Le piacevano le trame che potevano essere riconosciute dalle dita e dai piedi anche quando gli occhi non le riconoscono. Le piacevano i caminetti centrati nelle cucine centrate nella zona giorno. Le piacevano più librerie di quante ne servissero. Le piacevano i lucernari nei bagni, ma solo nei bagni. Le piacevano le imperfezioni volute, ma non sopportava quelle casuali, ma le piaceva anche ricordare che non possono esistere imperfezioni volute. La gente confonde sempre le cose belle di aspetto con le cose che fanno stare bene.

mi supplichi di scopare la tua fica stretta
ma non te lo meriti ancora

Non le piacevano le sensazioni tattili uniformi: non corrispondono a come sono le cose. Non le piacevano i tappeti centrati nelle stanze. La buona architettura dovrebbe far sentire come se si stesse in una caverna con vista sull’orizzonte. Non le piacevano i soffitti alti il doppio del normale. Non le piacevano troppi vetri. La funzione delle finestre è di far entrare la luce, non di mettere in cornice una vista. Un soffitto dovrebbe essere appena fuori dalla portata delle dita tese di una mano alzata dall’occupante più alto in punta di piedi. Non le piacevano i soprammobili disposti ad arte: le cose sono al posto giusto quando non sono al loro posto. Un soffitto di tre metri e mezzo è troppo alto. Fa sentire perduti, abbandonati. Un soffitto di tre metri è troppo alto. Come se fosse tutto fuori portata. Due metri e settantacinque è troppo alto. Qualcosa che fa stare bene – sicuro, comodo, pensato per viverci – può sempre essere reso bello. Non le piacevano le luci incassate né le luci controllate da interruttori a parete: applique, lampadari. Non le piacevano le funzioni occultate: frigoriferi dietro ai pannelli, prodotti da toeletta dietro agli specchi, televisori dentro ai mobili.

non ne hai ancora abbastanza bisogno
voglio vederti bagnata fino al buco del culo

Ogni architetto fantastica di costruirsi la casa, e così ogni donna. Da che aveva memoria, Julia provava un fremito segreto ogni volta che passava accanto a un piccolo parcheggio o a un terreno non edificato: potenziale. Per cosa? Per costruire qualcosa di bello? Intelligente? Nuovo? O semplicemente per una casa che ti faccia sentire a casa? Le sue gioie erano condivise, non completamente sue, ma i suoi fremiti erano privati.
Non aveva mai voluto diventare architetto, ma aveva sempre voluto farsi una casa per sé. Buttava via le bambole per liberare le scatole. Aveva trascorso un’estate ad arredare lo spazio sotto il suo letto. I suoi vestiti coprivano tutte le superfici della stanza perché non si dovevano sprecare gli armadi riempiendoli di cose utili. Era stato solo quando aveva cominciato a progettarsi delle case – tutte sulla carta, ciascuna fonte di orgoglio e vergogna – che era arrivata a capire che cosa significasse «se stessa».
«È davvero stupendo» diceva Jacob mentre lei gli illustrava un progetto. Julia non condivideva mai il suo lavoro privato con lui se non era lui a chiederglielo esplicitamente. Non era segreto, ma l’esperienza di condivisione le lasciava sempre un senso di umiliazione. Jacob non era mai abbastanza entusiasta o non nel modo giusto. E quando l’entusiasmo c’era, faceva l’effetto di un regalo con un fiocco troppo appariscente. (Il davvero rovinava tutto.) Jacob archiviava il suo entusiasmo per la prossima volta in cui lei gli avrebbe rinfacciato di non essere mai entusiasta del suo lavoro. E si sentiva umiliata, oltretutto, di avere bisogno del suo entusiasmo, persino di desiderarlo.
Che cosa c’era di sbagliato in quel desiderio e in quel bisogno? Niente. E l’enorme distanza tra dove sei e quello che ti eri sempre immaginata non deve per forza indicare un fallimento. La delusione non dev’essere necessariamente deludente. Il desiderio, il bisogno, la distanza, la delusione: crescere, conoscere, impegnarsi, invecchiare accanto a un altro. Da soli si può vivere perfettamente. Ma non una vita.
«È stupenda» disse lui una volta, con il naso così vicino che quasi toccava la versione bidimensionale della fantasia di Julia. «Magnifica, sul serio. Ma come fai a pensare certe cose?»
«Non sono sicura di pensarle
«E questo cos’è, un giardino interno?»
«Sì, la tromba delle scale ci salirà intorno.»
«Sam direbbe, ‘Tromba...’»
«Poi tu rideresti e io farei finta di niente.»
«Oppure faremmo finta di niente tutti e due. Comunque, davvero, davvero bello.»
«Grazie.»
Jacob mise il dito sul progetto e lo fece muovere per una serie di stanze, sempre passando dalle porte. «Lo so che non sono bravo a leggere queste cose, ma dove dormirebbero i bambini?»
«In che senso?»
«Magari mi è sfuggito qualcosa, anzi senz’altro, ma qui c’è solo una camera da letto.»
Julia inclinò la testa, strinse gli occhi.
Jacob disse: «La sai quella della coppia che divorzia dopo ottant’anni di matrimonio?»
«No.»
«Tutti chiedono: ‘Perché adesso? Perché non qualche decina di anni fa, quando avevate ancora della vita da vivere? O perché non tirare avanti fino alla fine?’ E loro rispondono: ‘Aspettavamo che i nipoti fossero morti’.»
A Julia piacevano le calcolatrici scriventi – gli ebrei dell’elettronica per ufficio, sopravvissute testardamente a molti aggeggi più promettenti – e mentre i bambini preparavano il materiale per la scuola, lei stampava metri di numeri. Una volta aveva calcolato quanti minuti mancavano a quando Benjy sarebbe andato al college. Aveva lasciato lì il foglio, come prova.
Le sue case erano solo piccoli giochini stupidi, un hobby. Lei e Jacob non avrebbero mai avuto i soldi, o il tempo, o le energie, e lei aveva un’esperienza di edilizia residenziale abbastanza vasta da sapere che il desiderio di spremere qualche goccia in più di felicità quasi sempre distrugge la felicità che avevi la fortuna di avere e di cui sei stato così sciocco da non accorgerti. Era una costante: i quarantamila dollari per rifare una cucina diventano settantacinquemila (perché tutti si convincono che ci sono piccole differenze che fanno la differenza), diventano una nuova apertura sul giardino (per dare più luce alla cucina rinnovata), diventano un nuovo bagno (già che stai bloccando tutto il piano con i lavori), diventano uno stupido rifacimento dell’impianto elettrico per avere una casa intelligente (così puoi controllare la musica in cucina col telefono), diventano discussioni passivo-aggressive su dove mettere le nuove librerie (per valorizzare gli intarsi lungo il bordo del parquet), diventano discussioni aggressivo-aggressive di cui nessuno ricorda più il motivo. Si può costruire una casa perfetta, ma non viverci.

ti piace la mia lingua che si apre un varco
tra le tue labbra strette?
dimostramelo
vienimi in bocca

C’era stata una notte in un alberghetto di campagna in Pennsylvania, all’inizio del loro matrimonio. Lei e Jacob si erano fumati una canna insieme – per tutti e due era la prima da quando avevano finito il college – e, nudi nel letto, si erano promessi di condividere tutto, tutto senza eccezione, senza preoccuparsi della vergogna o dell’imbarazzo o di quanto avrebbe potuto ferirli. Era sembrata la promessa più ambiziosa che due persone potessero farsi. Raccontarsi la nuda verità era sembrata una rivelazione.
«Niente eccezioni» disse Jacob.
«Ne basterebbe una per compromettere tutto.»
«Pipì a letto. Cose così.»
Julia prese la mano di Jacob e disse: «Sai quanto ti amerei per avere condiviso con me una cosa del genere?»
«Non è che io faccia la pipì a letto, comunque. Stavo solo tracciando i confini.»
«Niente confini. Il punto è questo.»
«Esperienze sessuali del passato?» chiese Jacob, perché sapeva che quello era il punto su cui era più vulnerabile e quindi quello che la condivisione sarebbe andata a toccare. Sempre, anche dopo che aveva perso il desiderio di toccarla o di essere toccato da lei, gli faceva orrore il pensiero di lei che toccava un altro o, peggio, di lei toccata da un altro. Persone con cui era stata, piacere che aveva dato e ricevuto, cose che l’avevano fatta gemere. In altri ambiti non era un insicuro, ma il suo cervello, come chi rivive all’infinito il ripetersi di un trauma senza riuscire a liberarsene, era ossessionato dall’immagine di lei in intimità con altri. Che cosa diceva a loro che aveva già detto a lui? Perché sentiva quella ripetizione come il tradimento supremo?
«Certo che sarebbe doloroso» disse lei. «Ma il punto non è che voglio sapere tutto di te. È che non voglio che tu ti tenga dentro niente.»
«E allora non lo farò.»
«E neanch’io.»
Si passarono qualche volta la canna avanti e indietro, con la sensazione di essere coraggiosissimi, di essere ancora giovani.
«Cosa ti stai tenendo dentro adesso?» gli chiese lei, quasi euforica.
«In questo preciso momento, niente.»
«Ma ti sei mai tenuto dentro qualcosa?»
«Dunque sono.»
Lei rise. Amava la sua arguzia, il calore stranamente confortante della sua prontezza mentale.
«Qual è l’ultima cosa che ti sei tenuto dentro?»
Lui ci pensò. Lo spinello gli rendeva più difficile pensare, ma più facile condividere i pensieri.
«Okay» disse. «È una cosa piccola.»
«Le voglio tutte.»
«Okay. L’altro giorno eravamo a casa. Mercoledì, forse. E io ti ho preparato la colazione. Ti ricordi? La frittata con il caprino.»
«Sì» disse lei, mettendogli una mano sulla coscia, «è stato bello.»
«Ti ho lasciato dormire e senza fare rumore ti ho preparato la colazione.»
Lei espirò una colonna di fumo che mantenne la forma più di quanto sembrasse plausibile e disse: «Potrei mangiarmene una montagna, in questo momento».
«Te l’avevo preparata perché volevo fare una cosa carina per te.»
«L’ho capito» disse lei, mentre con la mano gli risaliva la coscia, facendoglielo venire duro.
«E ti avevo messo tutto bene nel piatto. Con l’insalata vicino.»
«Come al ristorante» disse lei, prendendoglielo in mano.
«E dopo il primo boccone...»
«Sì?»
«C’è un motivo per cui la gente si tiene dentro le cose.»
«Noi non siamo la gente.»
«Okay. Va bene, dopo il primo boccone, invece di ringraziarmi o di dirmi che era squisita, mi hai chiesto se ci avevo messo il sale.»
«E allora?» chiese lei, muovendo la mano su e giù.
«E allora ci sono rimasto di merda.»
«Perché ti ho chiesto se ci avevi messo il sale?»
«Forse non rimasto di merda. Mi ha irritato. Deluso. Qualunque cosa abbia provato, non te l’ho detta.»
«Ma la mia era solo una domanda pratica.»
«Che bello.»
«Bello, amore.»
«Ma capisci che in quella situazione, considerato lo sforzo che stavo facendo per te, chiedendomi se ci avevo messo il sale mi comunicavi una critica più che gratitudine.»
«Per te è uno sforzo prepararmi la colazione?»
«Era una colazione speciale.»
«E così è bello?»
«È fantastico.»
«Allora per il futuro, se penso che un piatto manca di sale devo tacere?»
«O forse sono io che dovrei tacere il mio dispiacere.»
«La tua delusione
«Potrei già venire.»
«Allora vieni.»
«Non voglio ancora venire.»
Lei rallentò, rallentò fino a una stretta ferma.
«Che cosa ti stai tenendo dentro, adesso?» chiese lui. «E non rispondermi che sei un po’ dispiaciuta, irritata e delusa dal mio dispiacere, dalla mia irritazione e dalla mia delusione, perché non è quello che ti stai tenendo dentro.»
Lei rise.
«Allora?»
«Non mi sto tenendo dentro niente» disse lei.
«Scava.»
Lei scosse la testa e rise.
«Cosa?»
«In macchina, stavi cantando All apologies e continuavi a dire I can see from shame
«E allora?»
«E allora non fa così.»
«Ma certo che fa così.»
«Aqua seafoam shame
«Ma figurati!»
«Già.»
«Aqua. Seafoam. Shame?»
«Già. Mano sulla Bibbia ebraica.»
«Vuoi dire che la frase perfettamente sensata I can see from shame – sensata in sé e nel contesto – è solo un’espressione inconscia di un mio nonsocosa represso e che Kurt Cobain invece aveva messo insieme intenzionalmente le parole aqua seafoam shame
«Proprio quello che ti sto dicendo.»
«Be’, non ci posso credere. E mi sento molto in imbarazzo.»
«Non sentirti in imbarazzo.»
«Che funziona sempre quando uno è in imbarazzo.»
Julia rise.
«Ma questa non vale» disse lui. «È da dilettanti. Tirane fuori una buona.»
«Buona?»
«Una davvero difficile.»
Julia sorrise.
«Cosa?» chiese lui.
«Niente.»
«Cosa?»
«Niente
«A me sembra che qualcosa ci sia.»
«Okay» disse lei. «Mi sto tenendo dentro qualcosa. Qualcosa di proprio difficile.»
«Ottimo.»
«Ma non credo di essere abbastanza evoluta da condividerlo.»
«Come dicevano i dinosauri.»
Julia si premette un cuscino in faccia e chiuse le gambe a forbice.
«Sono solo io» disse lui.
«Okay» fece lei con un sospiro. «Okay. Bene. Sdraiata qui, fumata, tutti e due nudi, mi è venuta una voglia.»
D’istinto lui le allungò una mano tra le gambe e la trovò già tutta bagnata.
«Dimmela» le disse.
«Non posso.»
«Scommetto che puoi.»
Lei rise.
«Chiudi gli occhi» disse lui. «Sarà più facile.»
Lei chiuse gli occhi.
«No» disse lei. «Non è più facile. Magari se tu chiudi i tuoi?»
Lui chiuse gli occhi.
«Mi è presa questa voglia. Non so da dove mi venga. Non so perché ce l’ho.»
«Ma ce l’hai.»
«Sì.»
«Dimmela.»
«Mi è presa voglia.» Rise di nuovo e gli incastrò la faccia nell’incavo dell’ascella. «Ho voglia di allargare le gambe e voglio che tu metta la testa lì in mezzo e mi guardi finché vengo.»
«Solo guardarla?»
«Niente dita. Niente lingua. Voglio che mi fai venire con gli occhi.»
«Apri gli occhi.»
«E tu apri i tuoi.»
Jacob non disse una parola e non emise suono. Con una certa forza, ma non troppa, la fece rotolare sulla pancia. Intuiva che quello che lei voleva c’entrava con l’impossibilità di vedere lui che la guardava, con la rinuncia a quell’ultima misura di sicurezza. Lei gemette, facendogli capire che aveva ragione. Lui fece scivolare il proprio corpo lungo il corpo di lei. Le divaricò le gambe, gliele fece allargare ancora. Le infilò la faccia in mezzo così vicina da sentire il suo odore.
«Mi stai guardando?»
«Ti guardo.»
«Ti piace quello che vedi?»
«Voglio quello che vedo.»
«Ma non puoi toccarla.»
«Non la toccherò.»
«Ma puoi accarezzarti mentre mi guardi.»
«Lo sto facendo.»
«Ti vuoi scopare quello che vedi.»
«Certo.»
«Ma non puoi.»
«No.»
«Vorresti sentire quanto sono bagnata.»
«Certo.»
«Ma non puoi.»
«Ma lo vedo.»
«Ma non puoi vedere quanto mi si stringe quando sto per venire.»
«Non posso.»
«Dimmi come sono e vengo.» Vennero insieme, senza toccarsi, e poteva finire lì. Lei avrebbe potuto rotolare sul fianco, appoggiargli la testa sul petto. Si sarebbero potuti addormentare. Ma accadde qualcosa: lei lo fissò, sostenne il suo sguardo e chiuse di nuovo gli occhi. Jacob chiuse gli occhi. E poteva finire lì. Avrebbero potuto esplorarsi a vicenda nel letto, ma Julia si alzò ed esplorò la stanza. Jacob non lo sapeva – capiva che non doveva aprire gli occhi – ma la sentiva. Senza dire niente, si alzò anche lui. Toccarono tutti e due la panchetta ai piedi del letto, la scrivania e la tazza con le penne dentro, i fiocchi sui nastri che legavano le tende. Lui toccò lo spioncino, lei toccò la manopola che controllava il ventilatore al soffitto, lui premette il palmo sul top tiepido del minifrigo.
Julia disse: «Tu hai senso per me».
Jacob disse: «E tu per me».
Lei disse: «Ti amo tanto, Jacob. Ma per piacere, di’ solo ‘lo so’».
Lui disse: «Lo so», e continuò a tastare le pareti, il patchwork incorniciato, finché raggiunse l’interruttore. «Credo di avere appena spento la luce.»
Julia rimase incinta di Sam un anno dopo. Poi di Max. Poi di Benjy. Cambiò il suo corpo, ma non il desiderio di Jacob. Fu il volume delle cose che si tenevano dentro a cambiare. Continuarono a fare sesso, ma quello che era sempre venuto spontaneo arrivò ad avere bisogno di uno stimolo (sbronzarsi, guardare La vita di Adele sul portatile di Jacob a letto, San Valentino) o di uno sforzo per vincere il disagio e l’ipotetico imbarazzo, il che di solito portava a orgasmi potenti e niente baci. Capitava ancora che si dicessero cose che, un attimo dopo essere venuti, suonavano così umilianti da indurre il bisogno di sparire fisicamente andandosi a prendere un bicchiere d’acqua non desiderato. Tutti e due si masturbavano ancora pensando all’altro, anche se quelle fantasie non avevano alcuna parentela con la vita vissuta e spesso coinvolgevano qualche altro altro. Ma persino il ricordo di quella notte in Pennsylvania dovevano tenerlo dentro, perché segnava una tacca sullo stipite della porta: Guarda come siamo cambiati.
C’erano cose che Jacob voleva e che voleva da Julia. Ma la possibilità di condividere i desideri diminuiva mentre il bisogno di Julia di sentirseli dire aumentava. E viceversa. Amavano sinceramente la compagnia reciproca, più che stare soli o in compagnia di chiunque altro, ma più stavano bene insieme, più vita condividevano, più si estraniavano dalle rispettive vite interiori.
All’inizio era tutto un consumarsi a vicenda o consumare il mondo insieme. Tutti i bambini vogliono vedere le tacche salire sullo stipite della porta, ma quante coppie sono in grado di considerare un progresso il semplice rimanere uguali? Quanti sono capaci di guadagnare di più senza fantasticare su quello che potrebbero comprarsi? Quanti, quando si avvicina la fine degli anni di fertilità, possono dire di avere il giusto numero di figli?
Jacob e Julia non erano mai stati di quelli che si oppongono per principio alle convenzioni, ma non si erano neppure mai immaginati di diventare così convenzionali: avevano preso una seconda macchina (e l’assicurazione sulla seconda macchina); si erano iscritti a una palestra con un’offerta di corsi di venti pagine; avevano smesso di fare la dichiarazione dei redditi congiunta; ogni tanto avevano mandato indietro una bottiglia di vino; avevano comprato una casa con i doppi lavandini (e l’assicurazione sulla casa); avevano raddoppiato saponi e dentifrici; si erano fatti costruire uno steccato di tek per i bidoni della spazzatura; avevano sostituito la cucina con una più bella; avevano fatto un figlio (e avevano fatto l’assicurazione sulla vita); avevano ordinato vitamine dalla California e materassi dalla Svezia; avevano comprato vestitini bio il cui prezzo, diviso per il numero di volte in cui erano stati indossati, in pratica rendeva necessario fare un altro figlio per ammortizzarli. Avevano fatto un altro figlio. Avevano valutato se un tappeto avrebbe conservato il suo valore, imparato qual era il meglio di tutto (aspirapolvere Miele, frullatore Vitamix, coltelli Misono, vernice Farrow and Ball), consumato quantità freudiane di sushi e lavorato di più per potersi permettere le migliori baby-sitter a cui affidare i loro figli mentre lavoravano. Avevano fatto un altro figlio.
Le loro vite interiori erano schiacciate da tutto quel vivere: non solo per il tempo e l’energia richiesti da una famiglia di cinque persone, ma per i muscoli che erano costretti a potenziarsi e quelli costretti ad atrofizzarsi. L’incrollabile padronanza di sé che Julia dimostrava con i figli era cresciuta fino a sembrare onnipazienza, mentre la sua capacità di esprimere pulsioni con suo marito si era ridotta agli sms con la poesia del giorno. L’abilità con cui Jacob toglieva il reggiseno a Julia senza mani era stata rimpiazzata dalla straordinaria e deprimente abilità nel montare il box dei bambini mentre lo portava su per le scale. Julia sapeva tagliare le unghie di un neonato con i denti e allattare mentre preparava le lasagne e togliere schegge senza pinzette né dolore e farsi implorare dai bambini perché li pettinasse con il pettine contro i pidocchi e imporre il sonno con un massaggio del terzo occhio, ma aveva dimenticato come toccare suo marito. Jacob insegnava ai bambini la differenza tra altro e altrui, ma non sapeva più come parlare a sua moglie.
Alimentavano le loro vite interiori in privato. Julia progettava case per se stessa; Jacob lavorava alla sua bibbia e si era comprato un secondo telefono, e tra loro si era innescato un ciclo distruttivo: con l’incapacità di Julia di esprimere pulsioni, Jacob era diventato sempre meno sicuro di essere desiderato e sempre più timoroso di rischiare il ridicolo, e così la distanza tra la mano di Julia e il corpo di Jacob era ulteriormente aumentata, senza che Jacob avesse parole per definirla. Il desiderio era diventato una minaccia – un nemico – nella loro vita domestica.
Quando Max aveva cinque anni regalava tutto. Qualunque amichetto venisse a giocare a casa finiva immancabilmente per andarsene con una macchinina o un peluche. Se entrava in qualche modo in possesso di soldi – monete trovate sul marciapiede, un biglietto da cinque dollari regalatogli dal nonno perché aveva fatto un discorso convincente – li offriva a Julia mentre era in fila alla cassa per pagare o a Jacob al parcometro. Invitava Sam a prendere quanto voleva del suo dolce. «Forza» diceva quando Sam tentennava, «prendi, prendi.»
Non era una reazione ai bisogni altrui, che Max era capace di ignorare come qualunque altro bambino. E non era generosità, che avrebbe implicato una consapevolezza nel dare, mentre era esattamente quella che gli mancava. Tutti hanno un condotto da cui far passare quello che vogliono e sono in grado di condividere di sé col mondo, e attraverso cui prendere del mondo tutto quello che vogliono e sono in grado di recepire. Il condotto di Max non era più grande di quello di chiunque altro, solo che non era ostruito.
Quello che era stato motivo di orgoglio divenne per Jacob e Julia motivo di preoccupazione: Max sarebbe rimasto senza niente. Stando attenti a non lasciar intendere che ci fosse qualcosa di sbagliato nel suo modo di fare, introdussero con garbo i concetti di valore e di risorse finite. Inizialmente Max oppose resistenza – «Ce n’è sempre ancora» – ma, come succede ai bambini, finì per capire che c’era qualcosa di sbagliato nel suo modo di fare.
Sviluppò un’ossessione per i paragoni di valore. «Si può avere una casa in cambio di quaranta macchine?» («Dipende dalla casa e dalle macchine.») Oppure: «Preferiresti avere una mano piena di diamanti o una casa piena di argenteria? Una mano grande come la tua e una casa grande come questa». Cominciò un periodo di scambi compulsivi: giochi con gli amici, effetti personali con Sam, azioni con i suoi. («Se mangio metà del cavolo mi fate andare a letto venti minuti dopo?») Voleva sapere se era meglio essere un autista FedEx o un maestro di musica e si indispettì quando i suoi genitori misero in discussione il suo uso di «meglio». Voleva sapere se andava bene che suo papà dovesse pagare un biglietto in più quando portavano il suo amico Clive allo zoo. «Sto sprecando la mia vita!» esclamava spesso quando non era impegnato in qualche attività. Si infilò nel lettone una mattina, troppo presto, chiedendo se questo era essere morto.
«Questo cosa?»
«Questo non avere niente.»
Tenersi dentro i bisogni sessuali era per Jacob e Julia la più frustrante e primitiva delle privazioni, ma non certo la più deleteria. Il processo di estraniamento – l’uno dall’altro e ciascuno da se stesso – avveniva a passi molto più impercettibili e insidiosi. Continuavano ad avvicinarsi progressivamente nell’ambito del fare – coordinavano routine sempre più complicate, parlavano e si scambiavano sempre più messaggi (e in modo sempre più efficiente), ripulivano insieme lo sporco prodotto dai figli che avevano prodotto – e ad allontanarsi nel sentire.
Una volta Julia si era comprata della lingerie. Aveva posato il palmo sulla pila morbida, non perché le interessasse ma perché, come sua madre, non riusciva a controllare l’impulso di toccare la merce nei negozi. Aveva prelevato cinquecento dollari dal bancomat perché l’acquisto non comparisse sul conto della carta di credito. Avrebbe voluto condividere l’acquisto con Jacob e aveva fatto del suo meglio per trovare o creare l’occasione giusta. Una sera, dopo che i bambini erano andati a dormire, si era messa la culotte. Avrebbe voluto scendere le scale, tappare la penna di Jacob e comunicargli, senza dire una parola: Guarda come sono. Ma non ci era riuscita. Esattamente come non riusciva a convincersi a indossarla prima di andare a letto per paura che lui non la notasse. Esattamente come non riusciva neppure a lasciarla sul letto in modo che lui la vedesse e le chiedesse qualcosa. Esattamente come non riusciva a restituirla.
Una volta Jacob scrisse quella che secondo lui era la migliore battuta che avesse mai scritto. Avrebbe voluto condividerla con Julia – non perché fosse fiero di sé ma perché voleva capire se era ancora possibile raggiungerla come in passato, indurla a dire qualcosa come: «Sei il mio scrittore preferito». Si era portato le pagine in cucina, mettendole a faccia in giù sul piano di lavoro.
«Come va?» gli chiese lei.
«Va» rispose lui, proprio nel modo che odiava di più.
«Progressi?»
«Sì, ma non è chiaro se è la direzione giusta.»
«C’è una direzione giusta?»
Lui avrebbe voluto dire: «Di’ solo: ‘Sei il mio scrittore preferito’».
Ma non poteva superare la distanza che non esisteva. L’ampiezza della loro vita in comune rendeva impossibile condividere le loro unicità. Avevano bisogno di una distanza che non fosse un ritrarsi ma un tendere la mano. E quando Jacob tornò su quella battuta la mattina dopo, fu stupito e rattristato nel vedere che era ancora ottima.
Una volta Julia si stava lavando le mani nel lavandino in bagno, dopo avere raccolto l’ennesima cacca di Argo, osservava il sapone formarle un reticolo tra le dita mentre l’applique a muro sfarfallava senza spegnersi, e fu inaspettatamente travolta da quel genere di tristezza che non si riferisce a nulla e non ha un significato ma solo un peso opprimente. Avrebbe voluto portare quella tristezza a Jacob, non nella speranza che lui capisse qualcosa che lei non riusciva a capire, ma che potesse aiutarla a sopportare quello che lei non riusciva a sopportare. Ma la distanza che non esisteva era troppo grande. Argo aveva fatto la cacca nella sua cuccia e non se n’era accorto oppure non si era preoccupato di spostarsi; si era sporcato tutto il fianco e la coda. Mentre Julia lo ripuliva con lo shampoo e una maglietta umida di qualche squadra di calcio dimenticata per cui una volta avevano fatto un tifo sfegatato, gli aveva detto: «Ecco fatto. Tutto a posto, ho quasi finito».
Una volta Jacob aveva pensato se comprare una spilla a Julia. Era entrato per caso in un negozio di Connecticut Avenue, di quelli che vendono insalatiere fatte con legni di recupero e posate da insalata con i manici di corno. Non era alla ricerca di qualcosa e non c’erano ricorrenze in vista per cui servisse fare un regalo. La persona con cui aveva appuntamento a pranzo gli aveva mandato un sms dicendo che era bloccata dietro un camion della spazzatura, lui non aveva pensato di portarsi un libro o un giornale e da Starbucks tutte le sedie erano occupate da gente che avrebbe visto i giorni della propria vita assottigliarsi fino all’ultimo prima di terminare il romanzo sottilmente autobiografico della propria vita, così Jacob non aveva posto per immergersi nel suo sottilissimo telefono.
«Quella è bella?» chiese alla donna dall’altra parte della teca. «Che domanda sciocca.»
«A me piace molto» disse lei.
«Certo, è scontato.»
«Questo non mi piace» disse indicando un braccialetto nella teca.
«È una spilla, vero?»
«Esatto. Una fusione d’argento di un rametto vero. È un pezzo unico.»
«E questi sono opali?»
«Esatto.»
Andò in un altro settore, finse di esaminare un tagliere intarsiato, poi tornò alla spilla. «È bella, però, giusto? Ma non capisco se sia troppo vistosa.»
«Per niente» disse lei, prendendola dalla teca e posandola su un vassoietto rivestito di velluto.
«Può darsi» disse Jacob senza prenderla.
Era bella? Era un rischio? Si portano le spille? Era stucchevole nel suo simbolismo? Sarebbe finita in un portagioie per non essere mai più guardata fino a quando sarebbe toccata in eredità alla moglie di uno dei ragazzi, per finire in un altro portagioie fino al giorno in cui fosse passata di mano un’altra volta? Settecentocinquanta dollari era un prezzo congruo per una cosa del genere? Non erano i soldi a preoccuparlo, ma il rischio di sbagliare, l’imbarazzo di tentare e fallire, un arto teso si rompe più facilmente di uno piegato. Dopo pranzo, Jacob tornò al negozio.
«Mi scusi se le sembro ridicolo» disse rivolgendosi alla donna che l’aveva aiutato, «ma le dispiacerebbe indossarla?»
Lei l’aveva di nuovo tolta dalla teca e se l’era appuntata alla maglia.
«E non è pesante? Non tira il tessuto?»
«È piuttosto leggera.»
«È pretenziosa?»
«Si può portare con un vestito o su una giacca o su una maglia.»
«E lei sarebbe contenta se gliela regalassero?»
La distanza genera distanza, ma se la distanza è nulla, da che cosa si origina? Non c’era trasgressione né crudeltà e neppure indifferenza. La distanza iniziale era stata vicinanza: l’incapacità di superare la vergogna di bisogni sotterranei che non avevano più posto in superficie.

voglio vederti venire
poi puoi avere il mio cazzo

Solo nel privato della sua mente Julia poteva fantasticare su come sarebbe stata casa sua. Quello che avrebbe guadagnato e quello che avrebbe perso. Poteva vivere senza vedere i bambini tutte le mattine e tutte le sere? E se avesse dovuto ammettere che poteva? Di lì a sei milioni e mezzo di minuti avrebbe dovuto farlo. Nessuno giudica una madre perché fa andare i figli al college. Lasciare andare non era un delitto. Il delitto era scegliere di lasciare andare.

non ti meriti di essere scopata nel culo

Se si fosse costruita una nuova vita per conto suo, lo avrebbe fatto anche Jacob. Si sarebbe risposato. Gli uomini lo fanno. Si riprendono, vanno avanti. Costantemente. Era facile immaginarselo sposare la prima con cui sarebbe uscito. Meritava una che non si costruiva case immaginarie per una sola occupante. Non meritava Julia, ma meritava di meglio. Meritava una che al risveglio si stirasse, anziché ritirarsi. Una che non annusasse il cibo prima di mangiarlo. Una che non considerasse gli animali domestici come un peso, che lo chiamasse con un nomignolo affettuoso e facesse battute con gli amici su quanto le piacesse farsi scopare da lui. Un nuovo condotto non ostruito verso una nuova persona e, se anche alla fine fosse stato destinato a fallire, almeno il fallimento sarebbe stato preceduto dalla felicità.

adesso ti meriti di essere scopata nel culo

Aveva bisogno di una giornata libera. Le sarebbe piaciuta molto la sensazione di non sapere come riempire il tempo, di vagare senza meta per il Rock Creek Park, di mangiare godendosi fino in fondo piatti che per i suoi figli sarebbero stati improponibili, di leggere qualcosa di più lungo e articolato di un trafiletto su come dosare al meglio le emozioni o le spezie. Ma c’erano dei clienti che avevano bisogno di aiuto per scegliere le maniglie delle porte. E potevano soltanto il sabato, perché se qualcuno può permettersi maniglie su misura quando ha tempo di esaminarle se non il sabato? Ed è ovvio che nessuno ha bisogno di aiuto per le maniglie delle porte, ma Mark e Jennifer erano un caso particolarmente disperato quando si trattava di trovare un compromesso tra due mancanze di gusto tra loro incompatibili, e la maniglia di una porta era esattamente il genere di oggetto irrilevante e simbolico che richiedeva una mediazione.
A irritare ulteriormente Julia era il fatto che Mark e Jennifer, essendo i genitori di un amico di Sam ed essendo convinti che Jacob e Julia fossero loro amici, avessero in mente poi di prendersi un caffè con lei «per fare due chiacchiere». A Julia piacevano Mark e Jennifer e, nella misura in cui era in grado di racimolare un po’ di entusiasmo per i rapporti esterni alla famiglia, li considerava amici. Ma non riusciva a racimolare un granché. Perlomeno finché non fosse riuscita a fare due chiacchiere con se stessa.
Bisognava inventare un modo per essere vicini alle persone senza doverle vedere o parlarci per telefono o scrivere (o leggere) lettere, email o sms. Solo le madri capivano quant’era prezioso il tempo? Che non ce n’era mai, proprio mai? E che non puoi prenderti un caffè con qualcuno così, neppure e soprattutto con qualcuno che vedi di rado, perché ci vuole mezz’ora per arrivare al caffè (se ti va bene) e mezz’ora per tornare a casa (se ti va bene di nuovo), senza considerare la tassa di venti minuti che paghi solo per guadagnare la porta, e un caffè veloce finisce per durare quarantacinque minuti se si fa a tempo di record olimpico. E quella mattina c’era stato quell’orribile sproloquio alla scuola ebraica, e gli israeliani che arrivavano tra meno di due settimane, e il Bar Mitzvah che diceva addio dal reparto terapia intensiva, e anche se è possibilissimo farsi aiutare, farsi aiutare non va bene, farsi aiutare è una vergogna. Si può ordinare la spesa online e farsela portare a casa, ma poi devi ammettere il fallimento, è come abdicare ai propri doveri di madre, ai propri privilegi di madre. Andare in macchina fino al negozio che ha i prodotti buoni, scegliere gli avocado che saranno perfettamente maturi quando sarà il momento di mangiarli, fare attenzione che non si schiaccino nel sacchetto e che il sacchetto non rimanga schiacciato nel carrello... è un dovere di qualunque madre. Non un dovere, una gioia. E se lei lo sentiva solo come un dovere e non come una gioia?
Non sapeva come porsi verso il suo desiderio di volere di più per se stessa: tempo, spazio, silenzio. Avesse avuto delle figlie femmine magari sarebbe stato diverso, ma aveva dei maschi. Per un anno aveva vissuto in simbiosi con loro, ma dopo quella vacanza insonne era rimasta in balia della loro fisicità: le loro urla, le lotte, il baccano sul tavolo e le gare di scoregge e le infinite esplorazioni dei loro scroti. Amava tutto, tutto quanto, ma aveva bisogno di tempo, spazio, silenzio. Magari se avesse avuto delle figlie femmine, magari sarebbero state più contemplative, meno brutali, più costruttive, meno animalesche. Anche solo avvicinarsi a questi pensieri la faceva sentire poco materna, pur essendo sempre stata sicura di essere una buona madre. E allora perché era così complicato? C’erano donne che spendevano fino all’ultimo centesimo per fare le cose che a lei davano fastidio. Tutte le benedizioni promesse alle eroine sterili della Bibbia le erano scese come pioggia sulle mani aperte. E attraverso le dita.

voglio leccare la sborra che ti esce dal buco del culo

Incontrò Mark allo showroom. Che era elegante, e disgustoso, e in un mondo in cui i corpi dei bambini siriani vengono deposti sulla spiaggia dalle onde, era immorale o quantomeno volgare. Ma faceva salire le sue provvigioni.
Mark stava già esaminando i modelli di maniglie quando Julia arrivò. Era inappuntabile: barba corta curata appena striata di grigio; vestiti fatti per calzare a pennello e non comprati a tre per volta. Fisicamente, aveva la sicurezza di chi sa quanti soldi ha sul conto in banca con un’approssimazione che non guarda ai centomila dollari. Non era attraente, ma neppure ignorabile.
«Julia.»
«Mark.»
«Non abbiamo l’Alzheimer, a quanto pare.»
«L’Alzheimer? Che cos’è?»
Flirtare un po’ in modo innocente era un toccasana: un dolce titillare della lingua che andava dolcemente a titillare l’ego. Era brava a farlo e le piaceva, le era sempre piaciuto, ma nel corso del matrimonio aveva finito per sentirsi in colpa. Sapeva che non c’era niente di male; lei non voleva che Jacob ci rinunciasse. Però sapeva anche della gelosia incontenibile e irrazionale del marito. E per quanto potesse essere frustrante – qualunque esperienza erotica o sentimentale del passato era tabù e qualunque esperienza anche lontanamente passibile di equivoco nel presente richiedeva spiegazioni estenuanti – faceva parte di lui, per cui era qualcosa di cui lei voleva avere cura.
Ed era una parte di lui che la attraeva. La sua insicurezza sessuale era così profonda che poteva solo avere radici profonde. E anche quando sentiva di conoscere tutto di lui, non sapeva che cosa creasse quell’insaziabile bisogno di essere rassicurato. A volte, dopo avere deliberatamente omesso una cosa innocente che sapeva avrebbe turbato la sua fragile serenità, guardava il marito intenerita e pensava: Che cosa ti è successo?
«Scusa, ho fatto tardi» disse, aggiustandosi il bavero. «Sam ha combinato un guaio alla scuola ebraica.»
«Oy vey. Davvero?»
«Comunque, sono qui. Nel corpo e nello spirito.»
«Vogliamo andare prima a prenderci quel famoso caffè?»
«Sto cercando di smettere.»
«Perché?»
«Dipendenza eccessiva.»
«È un problema solo se non c’è caffè in giro.»
«E Jacob dice...»
«È un problema solo se c’è Jacob in giro.»
Julia ridacchiò, senza sapere se fosse per la battuta o perché si sentiva una ragazzina incapace di resistere al suo fascino da ragazzino.
«Guadagniamoci la caffeina» disse, prendendogli di mano un pomello di bronzo troppo anticato.
«Ho delle novità» disse Mark.
«Anch’io. Aspettiamo Jennifer?»
«No. È questa la mia novità.»
«In che senso?»
«Jennifer e io divorziamo.»
«Cosa
«Siamo separati da maggio.»
«Hai parlato di divorzio
«Prima ci siamo separati. Adesso stiamo divorziando.»
«No» disse lei stringendo il pomello, che così sembrava ancora più anticato, «non è vero.»
«Non è vero cosa?»
«Che vi siete separati.»
«Lo saprò, no?»
«Ma ci siamo visti insieme. Siamo andati al Kennedy Center.»
«Sì, a uno spettacolo.»
«Ridevate e vi toccavate. Vi ho visti.»
«Siamo amici. Gli amici ridono.»
«Ma non si toccano.»
Mark allungò la mano a toccare la spalla di Julia. Lei si ritrasse di riflesso, strappando una risata a tutti e due.
«Siamo amici che erano sposati» disse.
Julia si aggiustò i capelli dietro l’orecchio e disse: «Che ancora sono sposati».
«Ma che presto non lo saranno più.»
«Secondo me è sbagliato.»
«Sbagliato
«Non sta succedendo.»
Lui le mostrò la mano senza anello: «Sta succedendo da un numero di mesi sufficiente a cancellare il segno dell’abbronzatura».
Si avvicinò una donna magra magra.
«In cosa posso esservi d’aiuto, oggi?»
«Magari domani.»
«Credo che per adesso siamo a posto» disse Mark, con un sorriso che a Julia sembrò ammiccante quanto quello che aveva rivolto a lei.
«Se serve, sono laggiù» disse la donna.
Julia posò il pomello con un po’ troppo vigore e ne prese un altro, un ottagono d’acciaio inox: assurdamente impegnativo, stomachevolmente mascolino.
«Be’, Mark... non so cosa dire.»
«Congratulazioni?»
«Congratulazioni?»
«Certo.»
«Questo sì che mi sembra completamente sbagliato.»
«Ma sono i miei sentimenti che contano, in questo caso.»
«Congratulazioni? Davvero?»
«Sono giovane. Per poco, ma ancora giovane.»
«Non solo per poco.»
«Hai ragione. Siamo giovani e basta. Se avessimo settant’anni sarebbe diverso. Magari anche se ne avessimo sessanta o cinquanta. Allora magari direi: Io sono così. Quel che è fatto è fatto. Ma ho quarantaquattro anni. Ne ho ancora da vivere. E lo stesso vale per Jennifer. Abbiamo capito tutti e due che saremmo più felici di vivere altre vite. E questo è un bene. Senz’altro meglio che fingere o reprimere o farsi consumare dalla responsabilità di recitare una parte senza chiederti mai se quella parte te la sceglieresti. Sono ancora giovane, e voglio scegliere la felicità.»
«La felicità?»
«La felicità.»
«La felicità di chi
«La mia. Anche quella di Jennifer. La nostra felicità, ma separatamente.»
«Inseguendo la felicità, smarriamo la soddisfazione.»
«Be’, né la mia felicità né la mia soddisfazione sono con lei. E la sua felicità di sicuro non è con me.»
«Dov’è? Sotto il cuscino del divano?»
«Più che altro, sotto il suo insegnante di francese.»
«Oh cazzo!» esclamò Julia sbattendosi il pomolo sulla fronte più forte di quanto volesse.
«Non capisco perché reagisci così a una buona notizia.»
«Ma se lei il francese non lo parla nemmeno.»
«Adesso sappiamo il perché.»
Julia cercò con gli occhi la commessa anoressica. Qualunque cosa, pur di non guardare Mark.
«E la tua felicità?» chiese. «Quale lingua non stai imparando?»
Lui rise.
«Per adesso, sono felice da solo. Ho passato tutta la vita con altri – genitori, ragazze, Jennifer. Magari voglio qualcosa di diverso.»
«La solitudine è dura.»
«Stare soli non è solitudine.»
«Questo pomello è orrendo.»
«Sei arrabbiata?»
«O è troppo anticato o troppo poco, non ci vuole una scienza.»
«Per questo lasciamo che la scienza la facciano gli scienziati.»
«Non posso credere che non hai detto una parola sui bambini.»
«È doloroso.»
«Le conseguenze per loro. Le conseguenze per voi vedendoli metà del tempo.»
Si schiacciò contro la vetrinetta, si piegò di qualche grado. Nessun aggiustamento di alcun genere poteva eliminare il disagio provocato da quella conversazione, ma almeno poteva deviare il colpo. Julia posò il pomello e ne prese uno il cui unico termine di paragone onesto era il dildo che le avevano regalato per l’addio al nubilato e che non assomigliava a un pene più di quanto quel pomello assomigliasse a un pomello. Le sue amiche avevano riso e lei aveva riso, quattro mesi dopo l’aveva ripescato per caso mentre frugava nell’armadio con la speranza di riciclare per un regalo un frullino da tè matcha nuovo, e si era ritrovata così annoiata o in preda agli ormoni da provarlo. Non ne aveva cavato niente. Troppo secco. Troppo forzato. Ma in quel momento, con quel pomello ridicolo in mano, non riusciva a pensare ad altro.
«Ho perso il mio monologo interiore» disse Mark.
«Il tuo monologo interiore?» ripeté Julia con un ghigno sprezzante.
«Esatto.»
Gli porse il pomello. «Mark, ho in linea il tuo monologo interiore. È stato sequestrato dal tuo Es in Nigeria, devi versargli duecentocinquantamila dollari entro stasera.»
«Sembrerà sciocco. E sembrerà egoista...»
«Sì e sì.»
«... ma ho perso quello che mi rendeva me stesso.»
«Sei un uomo adulto, Mark, non un personaggio di Shel Silverstein che contempla i suoi patatrac emotivi sul ceppo di un albero di cui ha usato il tronco per costruire una dacia o quel che è.»
«Più insisti a darmi contro, più ho la certezza che mi dai ragione» disse lui.
«Ragione? Ragione su cosa? Stiamo parlando della tua, di vita.»
«Stiamo parlando delle giornate passate a preoccuparti per i figli e delle nottate passate a rimuginare sulle litigate non fatte con tuo marito. Non saresti un’architetta più felice, ambiziosa e produttiva se fossi sola? Non saresti meno stremata
«Cosa? Io stremata?»
«Più ci scherzi, più sono sicuro...»
«Ma certo che lo sarei.»
«E le vacanze? Non te le godresti di più da sola?»
«Non parlare così forte.»
«Se no qualcuno potrebbe scoprire che sei umana?»
Lei fece scorrere il pollice sulla testa del pomello.
«Senz’altro i miei figli mi mancherebbero» disse. «A te no?»
«Non era questa la domanda.»
«Sì, preferirei averli con me e averli in vacanza.»
«Una frase piuttosto difficile da mettere insieme...»
«Sceglierei la loro presenza. Se ci fosse scelta.»
«Che vuol dire non dormire mai fino a tardi, non goderti mai un pranzo o una cena, stare in uno stato di vigilanza perenne sul bordo di una sedia a sdraio su cui non appoggerai mai la schiena?»
«Che vuol dire una pienezza che nient’altro ti può dare. Il primo pensiero che ho al mattino e l’ultimo la sera è per i miei figli.»
«Proprio quello che dicevo io.»
«Quello che dicevo io
«Quando pensi a te stessa?»
«Quando penso che un giorno, tra qualche decina di anni, che sembreranno poche ore da adesso, mi ritroverò sola davanti alla morte, salvo il fatto che non sarò sola perché sarò circondata dalla mia famiglia.»
«Vivere la vita sbagliata è molto peggio che morire della morte sbagliata.»
«Non ci credo! Ho pescato lo stesso biscotto della fortuna, ieri sera!»
Mark si avvicinò a Julia ancora un po’.
«Dimmi solo una cosa» disse, «non ti piacerebbe riavere indietro il tuo tempo e la tua mente? Non ti sto chiedendo di parlare male di tuo marito o dei tuoi figli. Diamo per acquisito che non ti è mai importato di nient’altro neanche la metà e che non c’è nient’altro di cui potrebbe importarti di più. Non ti sto chiedendo la risposta che vuoi dare o che ti senti in dovere di dare. So che è difficile pensarci, e ancora di più parlarne. Ma onestamente: non saresti più felice da sola?»
«Dai per scontato che la felicità sia l’ambizione suprema.»
«Niente affatto. Ti sto solo chiedendo se non saresti più felice da sola.»
Non era certo la prima volta che Julia si confrontava con quella domanda, ma era la prima volta che era qualcun altro a fargliela. Era la prima volta che non le era possibile schivarla. Sarebbe stata più felice da sola? Sono una madre, pensò: non era una risposta alla domanda che le era stata fatta e neppure la sua vera ambizione suprema, più ancora della felicità, ma la sua identità suprema. Non aveva altre vite con cui paragonare la sua, nessuna solitudine con cui misurare il proprio stare sola. Stava semplicemente facendo quello che pensava fosse la cosa giusta da fare. Vivendo quella che pensava fosse la vita giusta.
«No» disse. «Non sarei più felice da sola.»
Mark passò un dito intorno a un pomello platonicamente sferico e disse: «Allora hai tutto. Beata te».
«Sì. Beata me. So che sono fortunata.»
Alcuni lunghi secondi a toccare il metallo in silenzio, e poi Mark posò di nuovo il pomello sul piano e chiese: «Allora?»
«Cosa?»
«Qual è la tua novità?»
«In che senso?»
«Avevi detto che avevi una novità.»
«Ah, giusto» disse lei, scuotendo la testa. «No, non è una novità.»
E non lo era. Lei e Jacob avevano parlato dell’idea di cercarsi un posticino in campagna. Qualcosa di grazioso che avrebbero potuto reinventarsi. E non ne avevano neppure parlato, in realtà, avevano piuttosto lasciato che la battuta aleggiasse abbastanza a lungo da perdere la carica comica. Non era una novità. Era un processo. La mattina dopo la notte nell’alberghetto in Pennsylvania quindici anni prima, Julia e Jacob erano andati a fare una camminata in una riserva naturale. All’entrata, un cartello di benvenuto insolitamente loquace spiegava che i sentieri esistenti non erano quelli originari ma erano «linee del desiderio», scorciatoie prese dai visitatori, su cui l’erba smetteva di crescere e che con il tempo sembravano intenzionali.
Julia e Jacob avevano camminato cinque ore e avevano trascorso i quindici anni successivi a seguire sentieri che sembravano intenzionali ma erano scorciatoie.
Processi, negoziati infiniti, minuscoli aggiustamenti erano diventati la costante della vita famigliare di Jacob e Julia. Forse quest’anno dovremmo mandare all’aria ogni cautela e togliere le zanzariere. Forse la scherma è un’attività di troppo per Max, e troppo indiscutibilmente borghese per i suoi genitori. Forse se sostituissimo le spatole di metallo con spatole di plastica non dovremmo cambiare tutte le padelle antiaderenti che ci fanno venire il cancro. Forse dovremmo prendere una macchina con una terza fila di sedili. Forse uno di quei videoproiettori ci starebbe bene. Forse la maestra di violoncello di Sam ha ragione e lui dovrebbe suonare solo quello che gli piace, anche se significa sorbirsi Watch Me (Whip/Nae Nae). Forse più natura non sarebbe una pessima idea. Forse farsi portare la spesa a casa ci spronerebbe a cucinare meglio, facendo diminuire il senso di colpa inutile ma irremovibile per il fatto di farsi portare la spesa a casa.
La loro vita famigliare era una somma di spintarelle di incoraggiamento e correzioni di rotta. Aggiustamenti infinitesimali. Le novità capitano al pronto soccorso, nello studio dell’avvocato e, a quanto pareva, all’Alliance Française. Vanno individuate e rifuggite con tutte le proprie forze.
«Le maniglie guardiamole un’altra volta» disse Julia, facendo scivolare il pomello nella borsetta.
«Non facciamo più i lavori.»
«Ah, no?»
«In quella casa non ci vive più nessuno.»
«Giusto.»
«Mi dispiace, Julia. Naturalmente ti pagheremo per...»
«No, giusto. Certo. Sono solo un po’ lenta a capire, oggi.»
«Ci hai lavorato così tanto.»
Dopo una nevicata ci sono solo linee del desiderio. Ma poi la temperatura si alza sempre e anche se ci mette più di quanto dovrebbe la neve inevitabilmente si scioglie, svelando quel che era stato scelto.

non m’interessa se vieni ma ti farò venire comunque

Per il loro decimo anniversario erano tornati nell’alberghetto di campagna in Pennsylvania. La prima volta ci erano capitati per caso: prima dei navigatori, prima di TripAdvisor, prima che la rarità della libertà sciupasse la libertà.
La visita dell’anniversario richiese una settimana di preparazione, che cominciò con l’arduo compito di individuare il posto. (Da qualche parte nella zona degli Amish, trapunte patchwork alle pareti, porta d’ingresso rossa, corrimano di legno grezzo, non c’era un viale alberato?) Dovettero trovare una sera in cui Irv e Deborah potessero fermarsi a dormire per guardare i bambini e in cui Jacob e Julia non avessero scadenze urgenti di lavoro e in cui non ci fosse niente in programma per i ragazzi – riunioni con gli insegnanti, visite mediche, saggi – che richiedesse la presenza dei genitori, e in cui fosse libera proprio quella stanza. Trovarono il bandolo di quel groviglio di matasse per una sera di tre settimane dopo. Julia non seppe dire se in prospettiva le sembrasse tanto o poco.
Jacob prenotò e Julia studiò il percorso. Non sarebbero arrivati prima del tramonto ma sarebbero arrivati per il tramonto. Il giorno dopo avrebbero fatto colazione in albergo (aveva chiamato in anticipo per sapere il menu), avrebbero rifatto la prima metà della passeggiata nella riserva naturale, visitato il fienile più vecchio e la terza chiesa più vecchia del Nordest, guardato qualche negozietto di antiquariato... chissà, magari avrebbero trovato qualcosa per la collezione.
«Collezione?»
«Cose che sono più grandi dentro che fuori.»
«Benissimo.»
«E poi possiamo pranzare in una piccola vineria che ho visto su Remodelista. Come avrai notato non ho parlato di trovare un posto dove comprare un ricordino ai ragazzi.»
«Notato.»
«E torneremo in tempo per cenare tutti insieme.»
«Avremo tempo per così tante cose?»
«Meglio avere qualche opzione di troppo» disse Julia.
(Ai negozi di antiquariato non andarono perché in quella vacanza i dentro furono più grandi dei fuori.)
Come si erano ripromessi, non lasciarono istruzioni scritte a Deborah e Irv, non lasciarono cose pronte da scaldare per la cena o pranzi pronti già incartati, non dissero a Sam di fare «l’ometto di casa» mentre loro non c’erano. Chiarirono a tutti che non avrebbero telefonato per avere notizie ma che, naturalmente, per qualunque necessità, avrebbero avuto i cellulari carichi e a portata di mano tutto il tempo.
Durante il tragitto, parlarono – non dei bambini – finché non ebbero più niente da dire. Il silenzio non fu imbarazzante o minaccioso, ma condiviso, piacevole e sicuro. Era l’apoteosi dell’autunno, esattamente come dieci anni prima, e guidando verso nord attraversarono uno spettro di colori, ogni manciata di chilometri di qualche sfumatura più freddi, di qualche tono più accesi. Dieci anni di autunno.
«Ti dispiace se metto un podcast?» chiese Jacob, imbarazzato dal suo bisogno di distrarsi quanto dal bisogno di chiedere il permesso a Julia. «Ottima idea» disse lei, attenuando il disagio che percepiva in lui senza saperne l’origine.
Dopo pochi secondi, Jacob disse: «Ah, questo l’ho già sentito».
«Allora mettine un altro.»
«No, è proprio fantastico. Voglio che lo senta anche tu.»
Lei gli mise una mano sulla sua, che stringeva la leva del cambio, e disse: «Sei gentile», e la distanza tra l’atteso che gentile e il suo sei gentile fu un atto di gentilezza.
Il podcast cominciava con una descrizione dei Mondiali di dama del 1863, in cui tutte le partite di una serie di quaranta finirono patte, di cui ventuno identiche, mossa dopo mossa.
«Ventuno partite identiche. Ogni singola mossa.»
«Pazzesco.»
Il problema era che la dama ha un numero relativamente limitato di combinazioni possibili e siccome alcune mosse sono senz’altro migliori di altre, era possibile conoscere e ricordare la partita «ideale». Il commentatore spiegava che quando si parla dello storico si fa riferimento alla storia complessiva di tutte le partite giocate. Una partita è nello storico se la configurazione della scacchiera si è già presentata prima. Una partita non è nello storico se la configurazione non ha precedenti. Lo storico della dama è relativamente limitato. I Mondiali del 1863 dimostrarono in sostanza che la dama era stata perfezionata e lo storico memorizzato. Per cui non c’era più altro che ripetizione monotona, ogni partita era patta.
Gli scacchi, invece, sono infinitamente complessi. Esistono più partite di scacchi possibili che atomi nell’universo.
«Incredibile. Più degli atomi dell’universo
«Come fanno a sapere quanti atomi ci sono nell’universo?»
«Contandoli, credo.»
«Pensa a quante dita ci vorrebbero.»
«Sei proprio buffo.»
«Però non stai ridendo.»
«Sto ridendo dentro. In silenzio.»
Jacob fece scivolare le dita tra quelle di Julia.
Lo storico degli scacchi fu creato nel Cinquecento e a metà del Novecento occupava l’intera biblioteca del Club degli scacchi di Mosca: centinaia di scatole piene di cartoncini che documentavano ogni partita professionale di scacchi mai giocata. Negli anni Ottanta lo storico era stato messo online: per molti questo aveva segnato l’inizio della fine del gioco, anche se la fine non sarebbe mai stata raggiunta. Da quel momento in poi, due giocatori, affrontandosi, avevano l’opportunità di scandagliare la storia dell’avversario: come reagiva alle diverse situazioni, i suoi punti di forza e di debolezza, cos’avrebbe probabilmente fatto.
L’accesso allo storico ha reso intere fasi delle partite di scacchi simili a quelle della dama – sequenze che seguono uno schema ideale mandato a memoria –, in particolare le aperture. Si possono eseguire le prime sedici o venti mosse semplicemente «recitando» lo storico. Ma, fatta eccezione per rarissimi casi, a un certo punto si arriva a una «novità», una configurazione di pezzi che non si è mai verificata nella storia dell’universo. Nel gergo scacchistico la mossa successiva è definita «fuori dallo storico». I due avversari a quel punto sono soli, senza una storia, senza stelle morte a indicare la rotta.
Jacob e Julia arrivarono all’albergo mentre il sole si tuffava al di là dell’orizzonte, come dieci anni prima. «Rallenta un pochino» aveva detto Julia a Jacob, quando mancavano una ventina di minuti di strada. Lui aveva pensato che volesse sentire il podcast fino alla fine, il che lo aveva commosso, ma lei voleva regalargli lo stesso arrivo che avevano avuto l’altra volta, il che lo avrebbe commosso se l’avesse saputo.
Jacob infilò quasi tutta la macchina nella piazzola del parcheggio e la lasciò in folle. Spense lo stereo e guardò Julia, che era sua moglie da moltissimo tempo. La rotazione terrestre portò il sole sotto l’orizzonte e lo spazio tutto sotto la macchina. Era buio: dieci anni di tramonto.
«Non è cambiato niente» disse Jacob, facendo correre la mano sul muro a secco, mentre percorrevano il sentiero muschioso verso l’ingresso. Jacob si chiese, come se l’era chiesto dieci anni prima, come diavolo avessero fatto a costruire quel muro.
«Mi ricordo tutto tranne noi» disse Julia con una risata sonora.
Si erano registrati ma, prima di portare il borsone in camera, andarono al caminetto e sprofondarono nelle poltrone di pelle da torpore comatoso che all’inizio non ricordavano ma che ora non riuscivano a smettere di ricordare.
«Che cos’avevamo bevuto mentre eravamo qui seduti, l’altra volta?» chiese Jacob.
«Io me lo ricordo» disse Julia, «perché la tua ordinazione mi aveva stupito. Rosé.»
Jacob scoppiò a ridere e chiese: «E cos’ha il rosé che non va?»
«Niente» disse Julia ridendo, «solo che non me l’aspettavo.»
Ordinarono due bicchieri di rosé.
Cercarono di ricordare tutto del loro primo soggiorno, ogni minimo dettaglio: che cosa indossavano (quali abiti, quali accessori), che cosa avevano detto quando, quale musica c’era (se c’era musica), che cosa trasmettevano nella tv sopra il bar self service, quali stuzzichini venivano offerti, quali battute aveva fatto Jacob per fare colpo su di lei, quali battute aveva fatto Jacob per schivare conversazioni che non voleva affrontare, che cosa pensava ciascuno dei due, chi aveva avuto il coraggio di dare una spintarella di incoraggiamento al neonato matrimonio perché varcasse il ponte invisibile tra dov’erano (che era elettrizzante ma instabile) e dove avrebbero voluto essere (che sarebbe stato elettrizzante e stabile), al di là di un baratro d’immenso dolore potenziale.
Si tennero al corrimano di legno grezzo delle scale che portavano alla sala da pranzo, dove cenarono a lume di candela, con cibo quasi tutto locale.
«Mi sa che è stato durante quel viaggio che ti ho spiegato perché non piego mai le stanghette degli occhiali prima di metterli sul comodino.»
«Mi sa che hai ragione.»
Altro bicchiere di rosé.
«Ti ricordi quando eri tornata dal bagno e ci avevi messo tipo venti minuti a vedere il messaggio che ti avevo scritto con la panna nel piattino?»
«Sei il mio cuore di panna.»
«Sì. Davvero pessima. Mi dispiace.»
«Fossimo stati seduti vicino al fuoco, ti saresti risparmiato la brutta figura.»
«Ma sarebbe stato difficile spiegare la panna sciolta. Oh, be’. La monterò meglio la prossima volta.»
«La prossima volta è adesso» disse lei: un’offerta e un appello.
«E dovrei sbatterne fuori a volontà?» Le fece l’occhiolino: «Sbatterne?»
«L’ho capita.»
«Il tuo stoicismo è una pillola di panna acida.»
«Allora offrimi qualcosa di meglio.»
«Lo so a che cosa stai pensando: Che battute mosce, si smontano come panna al sole!»
A questa Julia ridacchiò, sforzandosi istintivamente di trattenere la risata (non per lui, ma per se stessa), e provò un inaspettato desiderio di allungare la mano e toccarlo.
«Cosa vuoi di più? Non credi che ne valga la panna?»
Altra risata.
«La panna precede l’essenza.»
«Questa non l’ho capita. Che ne diresti di passare a battute sul pane o magari a un dialogo?»
«Ho munto troppo la corda?»
«Smettila, Jacob.»
«Sennò che fai? Vai in panne?»
«Questa è la migliore. Senz’altro quella con cui concludere.»
«Tanto per liberare l’aria pannosa, sono l’uomo che fa più ridere che tu abbia mai conosciuto, eh?»
«Solo perché Benjy non è ancora un uomo» disse lei, ma la combinazione dell’arguzia strabordante di suo marito e del suo strabordante bisogno di essere amato produceva ondate di amore, la trascinava in quell’oceano.
«Non sono le armi a uccidere le persone, sono le persone a uccidere le persone. Non sono i tostapane a tostare i toast, sono i toast a tostare i toast.» 
«I tostapane tostano il pane.»
«Certo, senza margarina d’errore.»
E se lei gli avesse dato l’amore di cui lui aveva bisogno e che lei aveva bisogno di dargli, se gli avesse detto: «La tua mente mi fa venire voglia di toccarti»?
E se lui fosse stato in grado di fare la battuta giusta al momento giusto o meglio ancora di stare zitto?
Altro bicchiere di rosé.
«Tu avevi rubato un orologio dallo scrittoio! Mi è appena tornato in mente!»
«Non ho rubato un orologio.»
«Sì, invece» disse Julia. «L’hai rubato, eccome.»
L’unica volta in vita sua che imitò Nixon: «Non sono un farabutto».
«Be’, lo sei stato, senza il minimo dubbio. Era un affarino pieghevole da due soldi. Dopo che abbiamo fatto l’amore. Sei andato allo scrittoio, hai fermato l’orologio e te lo sei infilato nella tasca della giacca.»
«E perché l’avrei fatto?»
«Magari perché doveva essere romantico? O divertente? Oppure stavi cercando di dimostrarmi quant’eri spontaneo? Non ne ho idea. Torna indietro e chiedilo a te stesso.»
«Sei sicura che quello ero io? E non qualcun altro? Qualcun altro con cui hai passato un’altra notte romantica in un altro alberghetto di campagna?»
«Non ho mai passato notti romantiche in alberghetti di campagna con nessun altro» disse Julia, anche se non ci sarebbe stato bisogno di dirlo e non era vero, ma voleva rassicurare Jacob, specie in quel momento. Nessuno dei due sapeva, dopo pochissimi passi su quel ponte invisibile, che non c’era una fine, che il resto della loro vita insieme avrebbe richiesto a ogni passo un atto di fede che avrebbe portato solo all’atto di fede successivo. Voleva rassicurare Jacob, in quel momento, ma quella volontà non sarebbe durata per sempre.
Rimasero al loro tavolo finché il cameriere, balbettando scuse a profusione, spiegò che il ristorante stava per chiudere.
«Qual era il titolo di quel film che non avevamo guardato?»
Era ora di andare in camera.
Jacob mise il borsone sul letto, proprio come allora. Julia lo spostò sulla panchetta ai piedi del letto, proprio come allora. Jacob prese il beauty case.
Julia disse: «So che non dovrei, ma mi chiedo cosa stiano facendo i bimbi adesso».
Jacob ridacchiò. Julia si mise il suo pigiama «pretenzioso». Jacob la guardò cambiarsi, senza notare se qualcosa era cambiato nel suo corpo nei dieci anni da quando erano stati lì l’ultima volta, perché da allora aveva visto il suo corpo praticamente tutti i giorni. Le rubava ancora, come un adolescente, sbirciatine ai seni, al sedere, era ancora pieno di fantasie su quello che era al tempo stesso reale e suo. Julia sapeva che lui la stava guardando e le piaceva, perciò si prese il suo tempo. Jacob si mise in maglietta e boxer. Julia andò al lavandino e allungò il collo all’indietro secondo il rituale, un’abitudine consolidata, studiandosi con lo sguardo a mezz’asta, come se stesse per mettersi una lente a contatto. Jacob tirò fuori gli spazzolini e mise il dentifricio a tutti e due, appoggiando quello di Julia all’insù sul lavandino.
«Grazie» disse Julia.
«Non-c’è-di-che» rispose Jacob con una buffa voce da robot, la cui comparsa improvvisa non poteva che essere frutto dell’ansia per le emozioni e le azioni che ci si aspettava da loro. O così pensò Julia.
Jacob si lavò i denti e pensò: E se non mi viene duro? Julia si lavò i denti, scrutando lo specchio alla ricerca di qualcosa che non voleva vedere. Jacob si spruzzò cinque secondi di deodorante Old Spice in ciascuna ascella, anche se quando dormiva restava inerte e non sudava, si lavò la faccia con il detergente Cetaphil per pelli da normali a grasse, anche se aveva una pelle da normale a secca, poi applicò la crema idratante protettiva per il viso Eucerin con fattore di protezione 30, anche se il sole era scomparso da ore e anche se stava per dormire sotto un tetto. Diede un tocco extra di Eucerin nei punti problematici: intorno alle ali (un termine che conosceva solo da ricerche nevrotiche su Google: Ah, povero Yorick, le ali del tuo perduto naso) e in mezzo alle sopracciglia e sopra alle palpebre. Il regime di Julia era più complicato: lavarsi la faccia con il detergente S.W. Basics, applicare la crema notte Retinol 1.0 Maximum Strength Refining di Skinceuticals, applicare la crema idratante Water Bank Moisture Cream di Laneige, picchiettare con delicatezza un po’ di crema notte Rénergie Multi-Lift di Lancôme per il contorno occhi. Jacob andò in camera e fece gli esercizi di stretching per cui tutti in famiglia lo prendevano in giro nonostante il chiropratico insistesse che erano indispensabili per chi conduceva una vita sedentaria come la sua e nonostante fossero in effetti molto utili. Julia si passò tra i denti la forcella tendifilo usa e getta Oral-B che, nonostante fosse un incubo a livello di impatto ambientale e costasse un occhio della testa, le risparmiava i conati di vomito. Jacob tornò in bagno e si passò il filo interdentale più economico che aveva trovato in farmacia, perché il filo è sempre filo.
«I denti li hai già lavati?» chiese Julia.
Jacob disse: «Di fianco a te. Un minuto fa».
Julia inghiottì tra i palmi uno spruzzo di crema.
Andarono in camera e Jacob disse: «Devo fare pipì», come diceva sempre a quel punto. Tornò in bagno, chiuse a chiave la porta, fece il suo rituale notturno solitario e tirò l’acqua senza aver usato il water per completare la messa in scena. Quando tornò in camera, Julia era appoggiata contro la testiera del letto e si applicava della Ricarica Collagene Notte di L’Oréal sulla coscia della gamba piegata. Jacob spesso aveva la tentazione di dirle che non era necessario, che lui l’avrebbe amata com’era, esattamente come lei avrebbe amato lui; ma volersi sentire attraente era parte dell’identità di Julia, esattamente come era parte dell’identità di Jacob, e anche quello era da amare. Julia si legò i capelli all’indietro.
Jacob accarezzò un arazzo che raffigurava una battaglia navale sotto la scritta: LA SITUAZIONE AMERICANAGUERRA DEL 1812, e disse: «Bello». Julia si ricordava?
Julia disse: «Per piacere, dimmi di non chiamare i bambini».
«Non chiamare i bambini.»
«Ovviamente non dovrei.»
«Oppure chiamali. Non siamo integralisti della vacanza.»
Julia rise.
Jacob non era mai immune alla sua risata.
«Vieni» disse lei, battendo la mano sul letto di fianco a sé.
Jacob disse: «Domani ci aspetta una giornata intensa», illuminando in un colpo solo varie uscite di emergenza: avevano bisogno di riposare; il giorno dopo era più importante di quella notte; se lei avesse ammesso di essere stanca non sarebbe stata una delusione.
«Devi essere a pezzi» disse lei, riaggiustando leggermente il tiro perché la responsabilità ricadesse su di lui.
«Lo sono» disse Jacob quasi con il punto di domanda, quasi accettando il ruolo, «e senz’altro devi esserlo anche tu», chiedendole di accettare il proprio.
«Vieni» disse lei, «abbracciami.»
Jacob spense le luci, appoggiò sul comodino gli occhiali non ripiegati e s’infilò nel letto, accanto a quella che era sua moglie da dieci anni. Lei si girò sul fianco, mettendo la testa nell’incavo della spalla del marito. Lui le baciò il Polo nord della testa. Adesso erano soli, senza storia, senza stelle morte a indicare la rotta.
Se avessero detto quello che stavano pensando, Jacob avrebbe detto: «A essere sinceri, non è bello come me lo ricordavo».
E lei avrebbe detto: «Non poteva esserlo».
«Quand’ero bambino scendevo sempre con la bici per una collina dietro casa. A ogni discesa mi facevo la telecronaca, sai, tipo: ‘Jacob Bloch è pronto a stabilire un nuovo record di velocità terrestre. Ecco che stringe il manubrio. Ce la farà?’ Lo chiamavo ‘Il collinone’. Da bambino era la cosa che mi faceva sentire più coraggioso. L’altro giorno ci sono tornato, mentre andavo a una riunione: era di strada e avevo qualche minuto. Non sono riuscito a trovarla. Ho individuato dov’era, o dove avrebbe dovuto essere, ma non c’era. Era solo una discesina da niente.»
«Sei cresciuto» avrebbe detto lei.
Se avessero detto quello che stavano pensando, Jacob avrebbe detto: «Stavo pensando al fatto che non stiamo facendo sesso. Anche tu?»
E senza mettersi sulla difensiva o sentirsi ferita, Julia avrebbe detto: «Sì, anch’io».
«Non ho niente da chiederti in questo momento. Giuro. Voglio solo spiegarti dove sono. Okay?»
«Okay.»
E arrischiando un altro passo su quel ponte invisibile, Jacob avrebbe detto: «Ho paura che tu non voglia fare sesso con me. Che tu non mi desideri».
«Non ti devi preoccupare» avrebbe detto Julia, posandogli la mano sulla guancia.
«Io ti desidero sempre» avrebbe detto lui. «Ti guardavo spogliarti...»
«Lo so. Lo sentivo.»
«Sei bella come dieci anni fa, in tutto e per tutto.»
«Questa è una pietosa bugia. Ma grazie.»
«È vero per me.»
«Grazie.»
E Jacob si sarebbe trovato a metà di quel ponte invisibile, sopra il baratro di dolore potenziale nel punto più lontano dalla salvezza: «Perché pensi che non stiamo facendo sesso?»
E Julia sarebbe stata lì e senza abbassare gli occhi avrebbe detto: «Forse perché le aspettative sono così alte?»
«Forse. E siamo davvero stanchi.»
«Io lo sono senz’altro.»
«Sto per dirti una cosa che non è facile da dire.»
«Puoi stare tranquillo» gli avrebbe promesso lei.
Lui si sarebbe girato verso di lei e avrebbe detto: «Non parliamo mai del fatto che a volte non riesco a farmelo venire duro. Ti è mai capitato di pensare che dipende da te?»
«Sì.»
«Non dipende da te.»
«Grazie di avermelo detto.»
«Julia» avrebbe detto lui, «non dipende da te.»
Ma lui non disse nulla e lei neppure. Non perché si tenessero deliberatamente dentro le parole, ma perché il condotto tra di loro era troppo ostruito per trovare il coraggio. Troppi piccoli accumuli: parole sbagliate, parole mancate, silenzi imposti, attacchi facili da ritrattare ai punti deboli noti, cose dette che sarebbe stato meglio non dire, fraintendimenti e incidenti, momenti di debolezza, minuscoli atti di meschina rappresaglia per minuscoli atti di meschina rappresaglia per minuscoli atti di meschina rappresaglia per un’offesa originaria che nessuno ricordava più. O per nessuna offesa.
Non si ritrassero l’uno dall’altra quella notte. Non rotolarono ai lati opposti del letto e non si nascosero in due silenzi. Rimasero abbracciati a condividere un silenzio nel buio. Ma era silenzio. Per cui nessuno dei due propose di esplorare la stanza con gli occhi chiusi come avevano fatto la volta precedente. Esplorarono la stanza in modo indipendente, nelle loro menti, uno accanto all’altra. E nella tasca della giacca c’era l’orologio fermo – dieci anni di 1:43 – che Jacob si era tenuto lì in attesa del momento giusto per tirarlo fuori.

continuerò a farti venire anche dopo
che mi implorerai di smettere

Nel parcheggio dello showroom, Julia era seduta in macchina – la sua Volvo anonima, di un colore che le era parso evidentemente sbagliato nell’istante in cui non era più stato possibile cambiarlo – senza sapere che cosa fare ma consapevole solo che qualcosa doveva fare. Non era sufficientemente abile con il telefono per sprecare la quantità di tempo che aveva bisogno di sprecare. Ma poteva dilapidarne almeno un po’. Trovò la sua azienda preferita di minialberelli per plastici di architettura. Non erano i più realistici e neppure quelli fatti meglio. Non le piacevano perché evocavano gli alberi ma perché evocavano la tristezza che gli alberi evocano: come quando una fotografia sfuocata cattura al meglio l’essenza di un soggetto. Era estremamente improbabile che quella fosse l’intenzione del fabbricante, ma era possibile, e comunque non aveva importanza.
Presentavano una nuova linea di alberi autunnali. Chi poteva essere l’acquirente di un prodotto del genere? Acero arancione, acero rosso, acero giallo, platano autunnale, pioppo aranciato, pioppo giallognolo, acero multicolore, platano multicolore. S’immaginò un minuscolo Jacob più giovane e una minuscola Julia più giovane in una minuscola Saab ammaccata e graffiata, che guidavano per stradine filiformi bordate di un’infinità di minuscoli alberi multicolori sotto un’infinità di minuscole stelle enormi e, come gli alberi, la minuscola coppia giovane non era realistica o ben fatta e non evocava loro più grandi e più vecchi, ma evocava la tristezza che sarebbero arrivati a evocare.
Mark le picchiettò sul finestrino. Julia provò ad abbassarlo, ma si rese conto che per farlo la macchina doveva essere accesa, mentre la chiave non era nel cruscotto e neppure nella sua mano, e non aveva voglia di mettersi a frugare nella borsa, per cui aprì goffamente la portiera.
«Ci vediamo alla Simulazione ONU.»
«Cosa?»
«La gita fra due settimane. Sono io l’accompagnatore maschile.»
«Ah, non lo sapevo.»
«Così potremo continuare la nostra chiacchierata.»
«Non so che altro ci sia da dire.»
«C’è sempre qualcos’altro.»
«Qualche volta no.»
E a quel punto, nella sua giornata libera, con la voglia di andare il più lontano possibile dalla sua vita, si ritrovò a percorrere una linea di desiderio verso casa.
 quando basta lo dico io

Non eccomi

> Qualcuno sa come si fa a scattare una fotografia alle stelle?
> Intendi quelle nel cielo o quelle che lasciano l’impronta delle mani in un marciapiede di cemento fresco?
> Col flash del telefono viene tutto bianco. L’ho tolto ma l’otturatore rimane aperto per troppo tempo e il minimo movimento fa sfuocare tutto. Ho provato a tenermi il braccio fermo con l’altra mano ma è venuto sfuocato lo stesso.
> I telefoni di notte sono inutili.
> A parte quando sei in un corridoio buio.
> Il mio telefono sta morendo.
> O se devi chiamare qualcuno.
> Cerca di stargli vicino.
> Samanta, questo posto è fichissimo!
> Pazzesco.
> Dove sei che ci sono le stelle?
> Il tipo mi ha detto che non ha niente che non va. Gli ho detto: «Se non ha niente che non va, perché è rotto?» E lui: «Perché è rotto se non ha niente che non va?» E io ci ho riprovato, per fargli vedere, ma naturalmente in quel momento ha funzionato di nuovo. Volevo urlare oppure ucciderlo.
> Che cosa si fa a un Bat Mitzvah?

In un qualunque momento, nel mondo ci sono quaranta orari diversi. Altro fatto interessante: la Cina una volta aveva cinque fusi orari, ma adesso ne ha solo uno e per alcuni cinesi il sole non sorge prima delle dieci. Un altro: molto prima che l’uomo viaggiasse nello spazio, i rabbini discutevano di come osservare lo Shabbat lassù: non perché prevedessero i viaggi spaziali, ma perché mentre i buddhisti aspirano a convivere con le domande, gli ebrei piuttosto morirebbero. Sulla Terra, il sole sorge e tramonta una volta al giorno. Un’astronave completa un’orbita intorno alla Terra ogni novanta minuti, il che richiederebbe uno Shabbat ogni nove ore. Una linea di pensiero sosteneva che gli ebrei semplicemente non dovrebbero andare in un posto che solleva dubbi sulla preghiera e l’osservanza. Un’altra che gli obblighi terrestri sono legati alla Terra: quello che succede nello spazio rimane nello spazio. Alcuni sostenevano che un astronauta ebreo dovesse comportarsi come se si trovasse sulla Terra. Altri che lo Shabbat andasse osservato in base all’ora su cui era regolata la strumentazione, nonostante la città di Houston fosse ebrea più o meno quanto lo spogliatoio della sua squadra di basket. Due astronauti ebrei sono morti nello spazio. Nessun astronauta ebreo ha osservato lo Shabbat.
Il padre aveva dato a Sam un articolo su Ilan Ramon, l’unico israeliano ad aver mai preso parte a una missione spaziale. Prima di partire, Ramon era andato al Museo dell’Olocausto per trovare un oggetto da portare con sé. Aveva scelto il disegno della Terra di un anonimo bambino morto durante la guerra.
«Pensa a quel bambino tenero che scarabocchia» aveva detto il padre di Sam. «Se un angelo gli si fosse posato sulla spalla e gli avesse detto: ‘Ti uccideranno prima del tuo prossimo compleanno e fra sessant’anni un rappresentante dello Stato Ebraico porterà il tuo disegno della Terra come si vede dallo spazio nello spazio...’»
«Se gli angeli esistessero, non sarebbe stato ucciso» aveva detto Sam.
«Se gli angeli fossero angeli buoni.»
«Crediamo negli angeli cattivi?»
«Probabilmente non crediamo negli angeli in generale.»
A Sam piaceva conoscere. L’accumulo e la distribuzione di fatti gli dava una sensazione di controllo, di utilità, il contrario dello stato di impotenza che deriva dall’avere un corpo piuttosto piccolo e sottosviluppato che non sempre risponde in modo affidabile agli ordini mentali di un cervello piuttosto grande e sovrastimolato.
Era sempre il crepuscolo in Other Life, per cui una volta al giorno l’«altra» ora coincideva con quella «vera». Alcuni chiamavano quel momento «L’armonia». Alcuni non volevano perderselo. Alcuni non volevano essere davanti allo schermo quando succedeva. Il Bar Mitzvah di Sam era ancora lontano. Il Bat Mitzvah di Samanta era oggi. Il disegno si era incenerito quando lo space shuttle era esploso? Qualcuno dei suoi frammenti era ancora in orbita? Erano caduti in acqua, depositandosi sul fondale nel corso delle ore a nascondere una di quelle creature degli abissi così aliene da sembrare che vengano dallo spazio?
I banchi erano pieni di tutti quelli che Samanta conosceva, gente che Sam non aveva mai incontrato. Venivano da Kyoto e da Lisbona, da Sacramento e da Lagos, da Toronto e da Oklahoma City e da Beirut. Ventisette crepuscoli. Stavano seduti insieme nel santuario virtuale creato da Sam: loro ne vedevano la bellezza; Sam vedeva tutto quello che c’era di sbagliato, tutto quello che c’era di sbagliato in lui. Erano venuti per Samanta, una comunità delle sue comunità. Per quanto ne sapevano, era un’occasione felice.

> Portalo da qualcun altro. Insisti perché lo sblocchino.
> Ma buttalo giù dal ponte, quel cazzo di telefono.
> Qualcuno mi spiega che cosa sta per succedere qui?
> Buffo, proprio adesso mi trovo sopra un ponte, ma sono sul treno e non si può aprire il finestrino.
> Manda una foto dell’acqua.
> Oggi Samanta diventa una donna.
> C’è più di un modo per aprire un finestrino.
> Le sono venute le sue cose?
> Immaginati migliaia di telefoni spiaggiati.
> Lettere d’amore in bottiglie digitali.
> Perché immaginare? Vai in India.
> Oggi diventa una donna ebrea.
> Anch’io sono in treno.
> Una donna ebrea in che senso?
> Più che altro lettere d’odio.
> Non cerchiamo di capire se siamo sullo stesso treno, ok?
> Israele è il peggio del peggio.
> Wiki: «Quando una ragazza arriva a 12 anni diventa Bat Mitzvah – figlia del comandamento – e nella tradizione ebraica le vengono riconosciuti gli stessi diritti di un adulto. Adesso è responsabile dal punto di vista etico e morale delle sue decisioni e delle sue azioni».
> Metti il timer alla macchina fotografica del telefono e appoggialo al pavimento a faccia in su.
> Gli ebrei sono il peggio.
> Toc toc.
> Perché dovresti aver voglia di scattare una foto alle stelle?
> Chi è?
> Per ricordarmele.
> Non sei milioni di ebrei!
> ?
> Morire dal ridere.
> Antisemita!
> Morire, comunque.
> Io sono ebrea!

Nessuno aveva mai chiesto a Sam perché si fosse scelto una latinoamericana come avatar, perché nessuno lo sapeva, a parte Max. La scelta di Sam poteva sembrare strana. Qualcuno avrebbe persino potuto giudicarla offensiva. Ma si sarebbe sbagliato. Essere Sam era strano e offensivo. Avere ghiandole salivari e sudoripare così produttive. Non essere in grado di non concentrarsi sul camminare mentre cammini. Brufoli sulla schiena e sul sedere. Nessuna esperienza era più umiliante e deprimente che comprare vestiti. Ma come spiegare a sua mamma che avrebbe preferito non avere niente che gli andava bene che vedersi confermare, in una camera di tortura dotata di specchi, che niente gli sarebbe mai andato bene? Le maniche non sarebbero mai arrivate al punto giusto. I colletti non sarebbero mai non stati troppo a punta o troppo alti o inclinati nel modo sbagliato. I bottoni di una camicia sarebbero sempre stati a intervalli tali che il penultimo bottone dall’alto avrebbe reso la scollatura o troppo costrittiva o troppo rivelatrice. C’era un punto – un singolo punto nello spazio, letteralmente – in cui un bottone poteva trovarsi nella posizione giusta per creare la sensazione e l’effetto naturali. Ma non era mai stata fatta nessuna camicia con il bottone in quella posizione, probabilmente perché nessuno aveva la parte superiore del corpo sproporzionata come la sua.
Dal momento che i suoi genitori erano dei ritardati tecnologici, Sam sapeva che periodicamente controllavano la sua cronologia internet, ripulire la quale aveva solo l’effetto di farlo sentire una merda patetica, essendo l’unico preadolescente con un cromosoma Y che guardava tutorial su YouTube per imparare a cucire i bottoni. E durante quelle sere dietro la porta della sua stanza chiusa a chiave, quando i suoi genitori si preoccupavano che lui stesse cercando informazioni sulle armi da fuoco o sulla bisessualità o sull’Islam, lui si era messo a spostare il penultimo bottone e la penultima asola delle sue ripugnanti camicie nell’unica posizione sopportabile. Metà delle cose che faceva erano tipiche cose da gay. Di fatto, probabilmente molte di più, se escludevi dal conto cose come portare a spasso un cane di taglia media o dormire, che non avevano connotati gay o etero. Non gli interessava. Lui non aveva il minimo problema con i gay, nemmeno dal punto di vista estetico. Ma gli sarebbe piaciuto puntualizzare, perché tra tutti i suoi problemi il più grande era essere incompreso.
Una mattina, a colazione, sua mamma gli aveva chiesto se aveva staccato e ricucito i bottoni delle camicie. Lui aveva negato con noncurante veemenza.
Lei aveva detto: «Proprio un lavoro ben fatto».
E così da quel momento in poi la metà superiore della sua uniforme quotidiana per tutte le stagioni erano diventate le magliette American Apparel, anche se mettevano in risalto le tette che misteriosamente crescevano sul suo petto per il resto rachitico.
Era strano avere dei capelli che mai una volta, nonostante ripetute e generose applicazioni di gel, stavano come si deve. Era strano camminare e spesso si ritrovava a scivolare in una iper- (o ipo-) stilizzazione della camminata da indossatrice, sculettando a destra e a sinistra e mettendo i piedi per terra come se cercasse non solo di ammazzare insetti ma di perpetrare un insetticidio cosmico. Perché camminava in quel modo? Perché voleva camminare come se niente fosse e quello sforzo supremo generava un orrido spettacolo di orrida deambulazione da parte di un essere umano che era un tale impiastro da usare davvero il termine deambulazione. Era strano doversi sedere sulle sedie, dover guardare gli altri negli occhi, dover parlare con una voce che era la sua, lo sapeva, ma che non riconosceva oppure riconosceva solo come appartenente all’ennesimo autoproclamatosi sceriffo di Wikipedia che non avrebbe mai posseduto una pagina biografica visitata né tanto meno editata da qualcuno che non fosse lui.
Dava per scontato che ci fossero stati momenti, a parte quelli in cui si masturbava, in cui si era sentito a casa nel suo corpo, ma non se li ricordava: forse prima di fracassarsi le dita? Samanta non era il suo primo avatar in Other Life, ma era il primo a cui la pelle logaritmica andasse bene. Non aveva mai dovuto spiegare la sua scelta a nessun altro – Max era abbastanza ingenuo e abbastanza onesto da non farci caso – ma come la spiegava a se stesso? Non desiderava essere una ragazza. Non desiderava essere una latina. Ma d’altra parte, non desiderava neanche non essere una ragazza latina. Nonostante il quasi costante dispiacere di essere se stesso, non confondeva mai se stesso con il problema. Il problema era il mondo. Era il mondo che non era della taglia giusta. Ma quanta felicità è mai stata prodotta puntualizzando che la colpa era del mondo?

> Sono stato su fino alle tre di notte a vagare per il mio quartiere su Google Street View.
> Ma dopo c’è una specie di festa?
> Qualcuno sa come modificare un pdf? Sono troppo pigro per capirlo da solo.
> Il titolo della mia autobiografia quando sarò famoso: Era il periodo peggiore, era il periodo peggiore.
> Che tipo di pdf?
> Fra tre anni finisce lo sciroppo d’acero?
> Sarà in ebraico? Nel caso, qualcuno meno pigro di me può creare uno script per farlo passare da un traduttore automatico?
> Anch’io l’ho letto.
> Perché mi sembra così incredibilmente triste?
> Qualcuno ha una chiavetta NexTek?
> Perché ti piacciono i waffle.
> Il titolo della mia autobiografia quando sarò famoso: I Did It Your Way.
> Ho appena saltato l’articolo sui rifugiati siriani. So che è una tragedia orribile e so che in teoria mi rende triste, ma è una cosa per cui non riesco a provare vere emozioni. Lo sciroppo invece mi ha fatto venire voglia di rifugiarmi sotto il letto.
> Funzionano solo per qualche settimana.
> Allora vai a nasconderti per piangere le tue lacrime d’acero.
> Samanta, ti ho preso una cosa che ti piacerà un sacco se non ce l’hai già, anche se probabilmente ce l’hai già. Comunque, sto inviando.
> Sento la canzone più bella del mondo dagli auricolari di una ragazza da cui mi separa solo il corridoio.
> I più visti di oggi: ragazzini russi con un elastico fai da te per lanciarsi nel vuoto, un alligatore che morde un’anguilla elettrica, un vecchio negoziante coreano che gonfia di botte un ladro, cinque gemelli che ridono, due ragazzine nere che si gonfiano di botte in un parco giochi...
> Che canzone?
> Voglio fare qualcosa di enorme, ma cosa?
> Lasciate perdere, ce l’ho fatta.
> Cazzo, non sapevo che bisognava portare un regalo a un Bat Mitzvah.
> L’invio ci sta mettendo una vita.

Sam voleva mandare un messaggio a Billie per chiederle di andare con lui sabato a uno spettacolo di danza moderna (o performance, o comunque si chiamino) che sembrava fico, almeno stando a quello che Billie aveva scritto sul suo diario, che Sam aveva sfilato dallo zaino incustodito mentre lei era a ginnastica, aveva nascosto dietro il libro di chimica, molto più grosso e molto meno interessante, e aveva compulsato, una parola che ha un significato molto diverso da quello che crede la maggior parte della gente. Non gli piaceva scrivere messaggi perché era costretto a guardarsi il pollice: il dito più malridotto, quello che era guarito peggio. Quello che gli altri cercavano di non notare. Settimane dopo che le altre dita avevano approssimativamente ripreso colore e forma, il pollice era nero e storto. Il medico disse che non guariva e che andava amputato per proteggere il resto della mano dall’infezione. Lo disse davanti a Sam. Suo papà disse: «È sicuro?» Sua mamma insistette per sentire un altro parere. Il secondo parere fu identico al primo; suo papà sospirò e sua mamma insistette per sentire ancora qualcun altro. Il terzo medico disse che non c’erano rischi immediati di infezione e che i bambini hanno capacità di recupero quasi sovrumane e che «quasi sempre queste cose trovano il modo di guarire da sole». A suo papà non era sembrato molto affidabile, a sua mamma sì, e nell’arco di due settimane il nero si era ritirato verso la punta. Sam aveva quasi otto anni. Non ricorda niente dei medici e neppure della fisioterapia. Si ricorda a malapena anche dell’incidente in sé e qualche volta si chiede se quello che ricorda sono i ricordi dei suoi genitori.
Sam non ricorda di avere urlato: «Perché è successo?» con tutte le sue forze, non per il terrore o la rabbia o la confusione ma per la portata della domanda. Ci sono storie di madri che alzano una macchina per liberare un figlio intrappolato sotto, questo lo ricorda, ma non ricorda la compostezza sovrumana di sua mamma quando incrociò i suoi occhi sconvolti e li soggiogò dicendogli: «Amore, sono qui, ti voglio bene». Non ricorda di essere stato immobilizzato mentre il dottore gli riattaccava le estremità delle dita. Non ricorda di essersi svegliato dal sonnellino postoperatorio di cinque ore e aver scoperto che suo papà gli aveva riempito la stanza con il contenuto di un negozio di giocattoli. Ma ricorda un giochino che facevano quand’era piccolo: Dov’è il pollice? Dov’è il pollice? Eccomi! Eccomi! Non ci giocarono mai con Benjy dopo l’incidente, neanche una volta, e non ammisero mai che avevano smesso di farlo. I suoi genitori cercavano di proteggere Sam, senza capire che la vergogna insinuata da quel silenzio era ciò da cui avrebbero potuto proteggerlo.

> Ecco un’app che dovrebbero inventare: punti il telefono su qualcosa e ti fa vedere il video di com’era quella cosa qualche secondo prima. (Ovvio che bisognerebbe che più o meno tutti filmassero e caricassero più o meno tutto più o meno sempre, ma più o meno ci siamo.) Così vedresti il mondo com’è appena stato.
> Fico. E potresti cambiare configurazione per aumentare il divario temporale.
> Per vedere il mondo com’era ieri o un mese fa o il giorno del tuo compleanno o – ma per questo bisogna aspettare il futuro, quando saranno caricati abbastanza video – ci potremmo muovere nel mondo di quando eravamo bambini.
> Immaginati uno che sta morendo, che non è ancora nato, che un giorno cammina in quella che era casa sua da bambino.
> E se l’hanno tirata giù?
> E ci sarebbero anche i fantasmi?
> Fantasmi come?
> «Uno che sta morendo, che non è ancora nato.»
> Comincerà mai questa cosa?

Sam fu riportato dall’altro lato dello schermo da qualcuno che bussò.
«Vattene.»
«Va bene.»
«Cosa?» chiese aprendo la porta a Max.
«Me ne vado.»
«Quello che è?»
«Roba da mangiare.»
«Non è vero.»
«Il pane tostato si mangia.»
«E perché cazzo dovrei volerlo?»
«Per tapparti le orecchie?»
Sam fece segno a Max di entrare.
«Parlano di me?»
«Eh, già.»
«Brutte cose?»
«Di sicuro non ti stanno cantando ‘Perché è un bravo ragazzo’ o cose del genere.»
«Papà è deluso?»
«Direi di sì.»
Sam tornò al suo schermo, mentre Max cercava di registrare i dettagli della camera di suo fratello facendo finta di niente.
«Da me?» chiese Sam, senza guardare suo fratello.
«Eh?»
«Deluso da me?»
«Pensavo intendessi quello.»
«A volte è proprio una fichetta.»
«Sì, la mamma invece a volte è proprio cazzuta.»
Sam rise. «Verissimo.» Fece il logout e si girò verso Max: «Sono così lenti a togliere il cerotto che i peli fanno in tempo a ricrescere e rimanere appiccicati».
«Eh?»
«Vorrei che fossero già al divorzio.»
«Divorzio?» chiese Max, mentre il corpo deviava il sangue verso l’area del cervello che nasconde il panico.
«Ovvio.»
«Davvero?»
«Ma cosa sei, uno sprovveduto?»
«Sarebbe come stupido?»
«Uno che non si accorge.»
«No.»
«Allora» chiese Sam, facendo scorrere il dito intorno al suo iPad, intorno allo squarcio rettangolare nel mondo fisico, «tu chi sceglieresti?»
«Per cosa?»
«Scegliere. Per viverci insieme.»
Questo a Max non piacque per niente.
«Ma tipo i bambini non si dividono il tempo o quel che è?»
«Sì, si comincia così, ma poi, sai, si arriva a una scelta.»
Questo a Max risultò insopportabile.
«Secondo me papà è più divertente» disse. «E mi beccherei molte meno sgridate. E magari avrei cose più belle e più tempo di televisione...»
«... per godertela prima di morire di scorbuto o di melanoma perché non metti mai la crema solare o semplicemente prima di finire in prigione perché sei arrivato tardi a scuola ogni singolo giorno.»
«Ti mandano in prigione?»
«Di sicuro la legge dice che a scuola ci devi andare.»
«E poi la mamma mi mancherebbe.»
«In che senso?»
«Che lei è lei.»
Questo a Sam non piacque per niente.
«Ma se andassi con mamma mi mancherebbe papà» disse Max, «per cui mi sa che non lo so. Tu chi sceglieresti?»
«Per te?»
«No, per te. Io vorrei solo stare dove stai tu.»
Questo a Sam risultò insopportabile.
Max inclinò la testa all’insù a fissare il soffitto, ricacciando indietro le lacrime. Sembrava quasi un robot, ma la sua incapacità di affrontare in modo diretto un’emozione umana così diretta era ciò che lo rendeva umano. O quantomeno figlio di suo padre.
Si mise le mani in tasca – una carta di caramella, una matitina avuta al minigolf, uno scontrino con la scritta ormai cancellata – e disse: «Allora, una volta sono stato in un museo...»
«Sei stato in un sacco di musei.»
«È una barzelletta.»
«Ah.»
«Allora, una volta sono stato in un museo perché mi avevano detto che era il museo più bello del mondo. E sai, volevo vederlo di persona.»
«Doveva essere davvero uno spettacolo.»
«Be’, la cosa strana è che in tutto il museo c’era un unico oggetto.»
«Ma non mi dire.»
«Davvero. Ed era uno strumento musicale.»
«Un piffero?»
«Mi hai appena rovinato il finale.»
«Allora riprendi dalla penultima battuta.»
«Ricomincio dall’inizio.»
«Okay.»
«Allora, una volta ho visto un museo perché mi avevano detto che era il museo più bello del mondo. Ma il fatto è che c’era un unico oggetto in tutto il museo. Ed era uno strumento musicale.»
«Cavoli!»
«Sì, e viene fuori che era un museo del kazoo... L’hai capita?»
«Fa proprio ridere» disse Sam, senza riuscire a ridere, nonostante la trovasse proprio divertente davvero.
«Ma l’hai capita, vero? Kazoo?»
«Sì.»
«Il museo del...»
«Grazie, Max.»
«Ti sto dando fastidio?»
«Per niente.»
«Sì, invece.»
«Al contrario.»
«Qual è il contrario di dare fastidio?»
Sam inclinò la testa all’insù, conficcò gli occhi sul soffitto e disse: «Senti, grazie per non avermi chiesto se sono stato io».
«Oh» disse Max, stropicciando lo scontrino cancellato tra pollice e indice. «È che a me non interessa.»
«Lo so. Sei l’unico a cui non interessa.»
«Viene fuori che era una famiglia del cazzo» disse Max, chiedendosi dove andare dopo essere uscito da quella camera.
«Questa non fa ridere.»
«Forse non l’hai capita.»

Epitome

«Papà?» disse Benjy, entrando di nuovo in cucina, con la nonna a ruota. Diceva sempre papà con il punto interrogativo, come per chiedere dov’era suo padre.

«Sì, tesoro?»

«Quando hai fatto la cena ieri sera, i miei broccoli toccavano il pollo.»

«E ti è venuto in mente adesso?»

«No. Tutto il giorno.»

«Tanto si mischia tutto nello stomaco» disse Max dalla porta.

«Da dove sei sbucato?» chiese Jacob.

«Dalla vagina di mamma» disse Benjy.

«E tanto morirai comunque» proseguì Max, «quindi chi se ne frega di cosa tocca il pollo, che comunque è morto.»

Benjy si rivolse a Jacob: «È vero, papà?»

«Che cosa?»

«Che morirò?»

«Perché, Max? Che bisogno c’era?»

«Morirò!»

«Tra molti, moltissimi anni.»

«Cambia qualcosa?» chiese Max.

«Potrebbe essere peggio» disse Irv. «Potresti essere Argo.»

«Perché sarebbe peggio essere Argo?»

«Sai, ha già una zampa nella fossa.»

Benjy emise un guaito straziante e proprio in quel momento, come trasportata da un raggio di luce ovunque fosse stata, Julia aprì la porta e corse dentro.

«Che succede?»

«Che ci fai a casa?» chiese Jacob, trovando tutto insopportabile in quel momento.

«Papà dice che morirò.»

«In realtà» disse Jacob con una risata forzata, «quello che stavo dicendo è che avrai una vita lunga, molto lunga, lunghissima.»

Julia si prese Benjy sulle ginocchia e disse: «Ma certo che non morirai».

«Allora fai due burritos surgelati» disse Irv.

«Ciao, cara» disse Deborah a Julia. «Si cominciava a sentire una certa carenza di estrogeni, qui dentro.»

«Perché mi sono fatto una bua, mamma?»

«Non hai nessuna bua» disse Jacob.

«Sul ginocchio» disse Benjy, indicando niente, «qui

«Sarai caduto» disse Julia.

«Perché?»

«Non c’è nessunissima bua.»

«Perché cadere fa parte della vita» gli disse Julia.

«È l’epitome della vita» disse Max.

«Che bella parola, Max.»

«Epitome?» chiese Benjy.

«Essenza della» disse Deborah.

«Perché cadere è l’epitome della vita?»

«Non lo è» disse Jacob.

«La terra non fa che cadere verso il sole» disse Max.

«Perché?» chiese Benjy.

«Per la gravità» disse Max.

«No» disse Benjy, rivolgendo la domanda a Jacob: «Perché non è cadere l’epitome della vita?»

«Perché non lo è?»

«Sì.»

«Non sono sicuro di capire la tua domanda.»

«Perché?»

«Perché non sono sicuro di capire la tua domanda?»

«Sì, quello.»

«Perché questa conversazione è sempre più confusa e perché io sono solo un essere umano con un’intelligenza molto limitata.»

«Jacob

«Sto morendo!»

«Stai esagerando.»

«A me non mi pare!»

«Non si dice a me mi.»

«A me non mi pare.»

«Non mi pare, Benjy.»

Deborah: «Dagli un bacino, Jacob».

Jacob diede un bacio alla bua inesistente di Benjy.

«Io posso sollevare il nostro frigorifero» disse Benjy, non del tutto sicuro di essere pronto a smetterla di piangere.

«Che meraviglia» disse Deborah.

«Ma figurati se puoi» disse Max.

«Max dice ma figurati se posso.»

«E lascialo stare!» sussurrò Jacob a Max a un volume troppo alto. «Se dice che può sollevare il frigo, può sollevare il frigo.»

«Posso portarlo lontano lontano.»

«Da qui in poi me ne occupo io» disse Julia.

«Io posso controllare il microonde con la mente» disse Max.

«Non serve» disse Jacob a Julia, con troppa disinvoltura per essere credibile. «Ce la stiamo cavando alla grande. Ci siamo proprio divertiti. Sei solo arrivata in un momento no. Poco indicativo. Ma è tutto magnifico e questa è la tua giornata.»

«Libera da cosa?» chiese Benjy a sua madre.

«Cosa?» chiese Julia.

«Da cosa ti serve una giornata libera?»

«Chi ha detto che ho bisogno di una giornata libera?»

«Papà.»

«Ho detto che ti stavamo dando una giornata libera.»

«Ma libera da cosa?» chiese Benjy.

«Esatto» disse Irv.

«Da noi, ovvio» disse Max.

Tutta quella sublimazione: la prossimità domestica era diventata distanza intima, la distanza intima era diventata vergogna, la vergogna era diventata rassegnazione, la rassegnazione era diventata paura, la paura era diventata risentimento, il risentimento era diventato autodifesa. Julia pensava spesso che se fossero riusciti a risalire alla vergogna originaria – alla fonte del loro tenersi le cose dentro – avrebbero potuto ritrovare davvero la sincerità. Era stato l’incidente di Sam? La domanda mai pronunciata su come fosse successo? Lei aveva sempre dato per scontato che si stessero proteggendo a vicenda con quel silenzio, ma se invece stavano cercando di ferire, di trasferire la ferita da Sam a loro stessi? O era una questione più vecchia? Si tenevano le cose dentro da prima di incontrarsi? Questa convinzione avrebbe cambiato tutto.

Il risentimento che era paura, che era rassegnazione, che era vergogna, che era distanza, che era vicinanza, era un peso troppo gravoso da portare tutto il giorno, tutti i giorni. Quindi dove scaricarlo? Sui bambini, naturalmente. Jacob e Julia erano entrambi colpevoli, ma Jacob di più. Era diventato sempre più brusco con loro, perché sapeva che loro avrebbero incassato. Faceva lo scorbutico, perché sapeva che loro non l’avrebbero ricambiato con la stessa moneta. Aveva paura di Julia, ma di loro non aveva paura, per cui trattava loro come non riusciva a trattare lei.

«Basta!» disse Jacob a Max, con la voce che si faceva ringhio. «Basta.»

«Basta lo dico io» disse Max.

Gli sguardi di Jacob e Julia si incrociarono, registrando che era la prima volta che rispondeva.

«Scusa?»

«Niente.»

Jacob sbottò: «Non ho intenzione di discutere di niente con te, Max. Sono stufo di discutere. Discutiamo troppo in questa famiglia».

«E chi discute?» chiese Max.

Deborah andò da suo figlio e disse: «Fai un bel respiro, Jacob».

«Ne faccio anche troppi di respiri.»

«Andiamo di sopra un minuto» disse Julia.

«No. Questo lo facciamo noi con loro. Non lo fai tu con me.» Poi rivolto a Max: «A volte, nella vita, in una famiglia, devi solo fare la cosa giusta senza cercare continuamente il pelo nell’uovo e poi spaccarlo in quattro. Si va avanti col programma».

«Sì, avanti col pogrom» disse Irv, facendo il verso a suo figlio.

«Papà, smettila. Va bene?»

«Io posso sollevare tutta la nostra cucina» disse Benjy, toccando il braccio di suo padre.

«Le cucine non si possono sollevare» disse Jacob.

«Invece sì.»

«No, Benjy. Non si può.»

«Sei fortissimo» disse Julia, avvolgendogli i polsi con le dita.

«Incenerito» disse Benjy. E poi in un bisbiglio: «Io posso alzare la nostra cucina».

Max guardò sua madre. Lei chiuse gli occhi, non volendo o non sapendo proteggerlo come aveva appena fatto con il suo fratello minore.

 

 

Un provvidenziale litigio tra cani portò tutti alla finestra. Non era un litigio, in realtà, erano solo due cani che abbaiavano a uno scoiattolo spavaldo su un ramo. Comunque, provvidenziale. Quando la famiglia riprese posizione in cucina, dagli ultimi dieci minuti parevano trascorsi dieci anni. Julia si scusò e salì a farsi la doccia. Non si faceva mai la doccia a metà della giornata e si sorprese per la forza della mano che la condusse di sopra. Passando davanti alla camera di Sam sentì degli effetti audio – era evidente che non stava osservando il primo comandamento del suo esilio – ma non si fermò.

Chiuse a chiave la porta del bagno, posò la borsa, si spogliò e si esaminò allo specchio. Allungando il braccio in alto, poteva seguire una vena che le correva di traverso sotto il seno destro. Le si era infossato il torace, le era venuta la pancetta. Era stata una serie di cambiamenti minuscoli, impercettibili. La riga di peli pubici che le arrivava alla pancia si era scurita, la pelle stessa sembrava più scura. Non era una novità, niente di tutto questo, era un processo; Julia aveva osservato e sentito l’indesiderato rinnovamento del suo corpo almeno dalla nascita di Sam: l’espansione e successivo rattrappimento dei suoi seni, le cosce rilassate a buccia d’arancia, l’adagiarsi di tutto quello che era stato sodo. Jacob le aveva detto, la seconda volta che erano stati nell’albergo in Pennsylvania e in altre occasioni, che amava il suo corpo esattamente com’era. Ma anche se gli credeva, alcune notti sentiva il bisogno di scusarsi con lui.

E poi ricordò. Certo che ricordò: era stato messo lì perché lei lo ricordasse in quel momento. Prima non l’aveva capito. Non aveva capito perché lei, che non aveva mai rubato niente in vita sua, stesse rubando. Ma ecco il perché.

Alzò un piede appoggiandolo al lavandino e si portò il pomello alla bocca, scaldandolo e umettandolo con il fiato. Scostò le labbra del suo sesso e vi premette contro il pomello facendolo ruotare, prima con delicatezza, poi sempre meno. Fu attraversata da una prima ondata di piacere e sentì le gambe molli. Si accovacciò come un ricevitore sul campo da baseball, tirò in giù la scollatura per scoprire un seno, poi umettò di nuovo il pomello con la lingua e lo riposizionò sul sesso, premendolo con minuscoli movimenti circolari contro il clitoride, poi esercitando solo piccole pressioni, e le piaceva come il metallo intiepidito cominciava ad appiccicarsi alla pelle, tirando un po’ ogni volta.

Era a quattro zampe. No. Era in piedi. Dov’era? Fuori. Sì. Appoggiata alla sua macchina. In un parcheggio. In un campo. No, piegata, la metà superiore del corpo sul sedile posteriore della macchina, i piedi per terra. Pantaloni e mutande abbassati giusto a scoprirle il culo. La faccia premuta sul sedile e il sedere che sporgeva all’infuori. Gambe aperte quanto era possibile con i pantaloni. Le voleva strette. Voleva che fosse difficile. Potevano sorprenderli in qualunque momento. Devi sbrigarti, gli disse. A chi? Scopami duro. Era Jacob. Fammi godere. Scopami come vuoi, Jacob, e poi vai via. Lasciami qui con la tua sborra che mi cola tra le cosce. Scopami e vattene. No. Era cambiato. Adesso era nel negozio di maniglie su misura. Niente uomini. Solo maniglie e pomelli. Piantò il pomello sul clitoride, leccò tre dita e se le fece scivolare dentro per sentire le contrazioni dell’orgasmo.

Sentì un tonfo improvviso, come l’atterraggio violento che qualche volta la faceva sobbalzare riscuotendola dal dormiveglia. Ma non era quello: non era lei che si schiantava sul pavimento, era qualcosa che si schiantava su di lei. Che diavolo stava succedendo? Possibile che le fosse affluito troppo sangue verso l’inguine troppo in fretta, provocando un qualche evento neurologico? La masturbazione era un esercizio mentale, ma di colpo si ritrovava in balia della propria mente.

Attraverso la bara di pino vedeva Sam sopra di lei, così bello nel suo completo, con una pala in mano. Non era una sua scelta. Non le dava piacere. Che bel ragazzo. Che bell’uomo. Va tutto bene, amore. Bene, bene, bene. Lei gemette e lui guaì, tutti e due animali. Lui prese un’altra palata di terra e gliela rovesciò sopra. Quindi è così che succede. Ora so, e niente sarà diverso.

E poi Sam se ne andò.

E Jacob e Max e Benjy con lui.

Tutti i suoi uomini se ne andarono.

E arrivò altra terra, questa volta dalle pale di estranei, quattro alla volta.

E poi anche quelli se ne andarono.

E lei rimase sola, nella casa più minuscola della sua vita.

Fu riportata al mondo, alla vita, da un ronzio che la riscosse dalle sue fantasie involontarie, e fu colpita dalla totale assurdità di quello che stava facendo. Chi pensava di essere? I suoceri di sotto, il figlio dall’altra parte del corridoio, più soldi sul fondo pensione che sul conto in banca. Non provò vergogna; si sentì stupida.

Un altro ronzio.

Non riusciva a localizzare da dove venisse.

Era un cellulare, ma quella vibrazione non l’aveva mai sentita.

Jacob aveva preso uno smartphone a Sam per sostituire quella baracca di seconda mano che aveva usato nell’ultimo anno per digitare messaggi alla velocità di Joseph Mitchell in pieno blocco dello scrittore? Avevano parlato della possibilità di prendergliene uno per il Bar Mitzvah, ma mancava ancora qualche settimana ed era stato prima che Sam si mettesse nei pasticci e comunque avevano escluso l’idea. C’erano già troppe cose che risucchiavano tutti lontano, in un rumoroso altrove. L’esperimento con Other Life aveva in pratica sequestrato la vita cosciente di Sam.

Sentì il ronzio.

Cercò nel cestino di vimini pieno di cianfrusaglie varie, nell’armadietto delle medicine: bottigline e bottigliette di Advil, acetone, assorbenti interni bio, Aquaphor, acqua ossigenata, alcol isopropilico, Benadryl, Neosporin, Polysporin, Nurofen per bambini, Sudafed, Purell, Imodium, Colace, Amoxicillina, Aspirina, Triamcinolone acetonide crema, Lidocaina crema, Dermoplast spray, supposte Debrox, soluzione fisiologica, Bactroban crema, filo interdentale, lozione alla vitamina E... tutte le cose di cui i corpi potrebbero avere bisogno. Quand’era che i corpi avevano sviluppato così tanti bisogni? Per anni lei non aveva avuto bisogno di nulla.

Sentì il ronzio.

Dov’era? Si sarebbe potuta convincere che veniva dall’appartamento dei vicini, al di là del muro, o persino che se l’era immaginato, ma vibrò di nuovo, e questa volta riuscì a individuarne la provenienza, l’angolo, sul pavimento.

Si mise in ginocchio. Il cestino delle riviste? Dietro il water? Fece girare la mano intorno alla tazza e non appena l’ebbe toccato lo sentì vibrare di nuovo, come per restituirle il contatto. Di chi era? Una vibrazione finale: una chiamata persa daJULIA.

Julia?

Ma era lei, Julia.

 

che fine hai fatto?

n-o-n-6-q-u-e-l-l-a-g-i-u-s-t-a

Sam sapeva che tutto sarebbe andato in rovina, solo che non sapeva esattamente come e quando. I suoi genitori avrebbero divorziato e avrebbero finito per odiarsi a vicenda e spargere distruzione come quel reattore nucleare giapponese. Questo era chiaro, anche se forse non a loro. Sam aveva provato a non fare caso alle loro vite, ma era impossibile ignorare quante volte papà si addormentava di fronte all’assenza di notizie, quante volte mamma si ritirava a potare gli alberi dei suoi plastici, o che papà aveva cominciato a servire il dolce tutte le sere, che mamma diceva ad Argo che aveva «bisogno di spazio» ogni volta che la leccava, che mamma si era appassionata alle rubriche di viaggi, che la cronologia di papà era tutta siti di agenzie immobiliari, che mamma prendeva in braccio Benjy ogni volta che papà era nella stanza, la violenza con cui papà aveva preso a odiare gli sportivi viziati che non ci provano neanche, che mamma aveva donato tremila dollari per la raccolta fondi autunnale della NPR e papà per ritorsione si era comprato una Vespa, la fine degli antipasti al ristorante, la fine della terza storia della buonanotte per Benjy, la fine del guardarsi negli occhi.

Vedeva quello che loro o non sapevano o non potevano permettersi di vedere e questo lo faceva solo incavolare ancora di più, perché essere meno stupido dei tuoi genitori è ripugnante, come bersi un sorso di latte pensando che nel bicchiere ci sia aranciata. Siccome era meno stupido dei suoi genitori, sapeva che un giorno gli avrebbero detto che non gli sarebbe toccato scegliere anche se gli sarebbe toccato. Sapeva che avrebbe cominciato a perdere la voglia e l’abilità di fingere a scuola, i suoi voti sarebbero scivolati lungo un piano inclinato secondo una formula che avrebbe dovuto conoscere alla perfezione e le manifestazioni di affetto da parte dei suoi si sarebbero ingigantite per reazione alla loro tristezza per la sua tristezza e lui sarebbe stato ricompensato per essere andato in pezzi. I sensi di colpa dei suoi per avergli chiesto così tanto l’avrebbero liberato dall’incubo degli sport di squadra e sarebbe riuscito a rinegoziare in modo più favorevole le ore di tv e le cene avrebbero cominciato ad avere un aspetto molto meno bio e ben presto lui avrebbe cominciato a virare verso l’iceberg mentre i suoi si sfidavano in un duello di virtuosismo genitoriale.

Gli piacevano i fatti interessanti, ma era quasi sempre turbato dai suoi strani pensieri ricorrenti. Tipo: e se avesse assistito a un miracolo? Come avrebbe fatto a convincere gli altri che non stava scherzando? Se un neonato gli avesse raccontato un segreto? Se un albero si fosse messo a camminare? Se avesse incontrato un se stesso più grande e avesse saputo di tutti gli evitabili errori madornali che non sarebbe stato in grado di evitare? S’immaginava i dialoghi con sua mamma e suo papà, con i finti amici di scuola e i veri amici di Other Life. La maggior parte di loro avrebbe riso e basta. Forse uno o due potevano essere spinti a dargli un piccolo attestato di fiducia. Max avrebbe quantomeno voluto credergli. Benjy gli avrebbe creduto, ma solo perché credeva a tutto. Billie? No. Sam sarebbe stato solo con un miracolo.

Bussarono alla porta. Non alla porta del tempio, ma a quella della sua camera da letto.

«Fuori dalle palle!»

«Come?» disse sua mamma aprendo la porta ed entrando.

«Mi dispiace» disse Sam, girando l’iPad all’ingiù sulla scrivania. «Pensavo fosse Max.»

«E secondo te è un bel modo di parlare a tuo fratello?»

«No.»

«O a chiunque altro?»

«No.»

«E allora perché?»

«Non lo so.»

«Magari prenditi un momento per rifletterci.»

Non sapeva se fosse una frase retorica, ma sapeva che non era il momento di non prendere sua madre alla lettera.

Dopo un attimo di riflessione, il meglio che riuscì a mettere insieme fu: «Magari sono uno che dice le cose pur sapendo che non le deve dire».

«Magari.»

«Ma migliorerò.»

Julia esaminò la stanza. Dio, Sam odiava quelle occhiate rubate: ai suoi compiti, ai suoi oggetti, al suo aspetto. Quell’essere continuamente giudicato lo scavava dentro come un fiume, creando due rive opposte.

«Che cosa stavi facendo?»

«Niente mail né messaggi, e non ero su Other Life.»

«Okay, ma che cosa stavi facendo?»

«Non saprei.»

«Non so bene come sia possibile.»

«Non è la tua giornata libera?»

«No, non è la mia giornata libera. È la mia giornata per fare alcune delle cose che rimando perché per farle mi serve un momento libero. Come respirare e pensare. Ma poi abbiamo dovuto fare una visita inaspettata all’Adas Israel stamattina, come ricorderai, e poi ho dovuto incontrare un cliente...»

«Perché hai dovuto?»

«Perché è il mio lavoro.»

«Ma perché oggi?»

«Sentivo di doverlo fare, okay?»

«Okay.»

«E poi, in macchina, mi è venuto in mente che anche se quasi sicuramente hai compromesso il Bar Mitzvah, probabilmente dovremmo continuare a fare come se si facesse. E tra le molte, moltissime cose che solo a me viene in mente di farmi venire in mente c’è il tuo completo.»

«Quale completo?»

«Esatto.»

«Vero. Non ho un completo.»

«Non appena lo si dice sembra ovvio, eh?»

«Sì.»

«Non finisco mai di stupirmi di quante cose siano così.»

«Scusa.»

«Di cosa ti stai scusando?»

«Non so.»

«Allora, dobbiamo prenderti un completo.»

«Oggi?»

«Sì.»

«Davvero?»

«I primi tre posti in cui andremo non avranno quello che fa per noi e se trovassimo qualcosa di passabile non ti starà bene e il sarto sbaglierà le modifiche almeno due volte.»

«Devo venire anch’io?»

«Dove?»

«Nel posto dei vestiti.»

«No, no, ma certo, non serve che vieni. Facilitiamo le cose e costruiamoci la nostra stampante 3D personale con stecchini dei ghiaccioli e maccheroni e creiamo un clone di te che posso portarmi fino al posto dei vestiti da sola nella mia giornata libera.»

«Potremmo insegnargli anche la miahaftorah

«Le tue battute non mi fanno ridere, in questo momento.»

«Non c’era bisogno di dirlo.»

«Come?»

«Non c’è bisogno che tu dica che non ti fa ridere se uno vede che non stai ridendo.»

«Neanche questo c’era bisogno di dirlo, Sam.»

«Bene. Mi dispiace.»

«Quando papà torna dalla sua riunione parleremo per bene, ma qualcosa te lo voglio dire. È fondamentale.»

«Bene.»

«Smettila di dire bene.»

«Mi dispiace.»

«Smettila di dire mi dispiace.»

«Avevo capito che il punto era che mi dovevo scusare.»

«Per quello che hai fatto.»

«Ma non sono stato io...»

«Sono molto delusa.»

«Lo so.»

«Tutto qui? Non hai altro da dire? Tipo, magari: ‘Sono stato io e mi dispiace?’»

«Non sono stato io.»

Si portò le mani ai fianchi, con gli indici alla cintura. «Metti in ordine questo casino. È invivibile.»

«È la mia camera.»

«Ma è casa nostra.»

«Non posso spostare quella scacchiera. Siamo a metà partita. Papà ha detto che possiamo finirla quando non sarò più nei guai.»

«Sai perché lo batti sempre?»

«Perché mi lascia vincere.»

«Sono anni che non ti lascia vincere.»

«Non s’impegna.»

«Non è vero. Tu lo batti perché lui si esalta a mangiare i pezzi, ma tu ragioni sempre quattro mosse avanti. Per questo sei bravo a scacchi e bravo nella vita.»

«Non sono bravo nella vita.»

«Sì, invece, quando pensi a quello che fai.»

«Papà non è bravo nella vita?»

«Non è di questo che stiamo parlando adesso.»

«Se si concentrasse, potrebbe battermi.»

«Potrebbe anche essere, ma non lo scopriremo mai.»

«Di che cosa stiamo parlando?»

Lei tirò fuori il telefono dalla tasca. «Cos’è questo?»

«Un cellulare.»

«È tuo?»

«Io non sono autorizzato ad avere un cellulare.»

«Che è il motivo per cui mi arrabbierei se fosse tuo.»

«Allora non c’è bisogno che ti arrabbi.»

«Di chi è?»

«Non ne ho idea.»

«I cellulari non sono come le ossa di dinosauro. Non spuntano fuori così.»

«Neanche le ossa di dinosauro.»

«Se fossi in te, farei un po’ meno il brillante.» Girò il cellulare. Lo rigirò. «Come faccio a guardarci dentro?»

«Immagino abbia una password.»

«Ce l’ha.»

«Non sei fortunata.»

«Potrei sempre provare 6quellagiusta, o no?»

«Penso di sì.»

Tutti i membri adulti della famiglia Bloch usavano quella password ridicola per qualunque cosa: da Amazon a Netflix all’antifurto di casa ai telefoni.

«Niente» disse, mostrando lo schermo a Sam.

«Valeva la pena provarci.»

«Devo portarlo al negozio?»

«Non sbloccano nemmeno i telefoni dei terroristi.»

«Magari provo la stessa password ma con le maiuscole.»

«Prova.»

«Come si fanno le maiuscole?»

Sam prese il cellulare. Batteva sui tasti come pioggia su un lucernario, ma Julia vide solo il suo pollice deturpato al rallentatore.

«Niente» disse lui.

«Prova a scrivere il numero in lettere.»

«Come?»

«s-e-i.»

«Sarebbe da scemi.»

«Sarebbe geniale rispetto a usare la stessa password che si usa per tutto.»

«s-e-i-q-u-e-l-l-a-g-i-u-s-t-a... Niente. Mi dispiace. Voglio dire, non mi dispiace.»

«Prova di nuovo così ma con la prima maiuscola.»

«Eh?»

«S-e-i-q-u-e-l-l-a-g-i-u-s-t-a.»

Questa volta Sam digitò più lentamente, con attenzione. «Mmm.»

«Si è sbloccato?»

Julia allungò la mano per prendere il cellulare, ma Sam lo trattenne giusto una frazione di secondo, abbastanza per produrre un sobbalzo impacciato. Sam guardò sua madre. L’enorme pollice antico di Julia spinse le parole su per la minuscola montagna di vetro. Julia guardò Sam.

«Cosa?» chiese lui.

«Cosa cosa?»

«Perché mi stai guardando?»

«Perché ti sto guardando?»

«In questo modo?»

Jacob non riusciva ad addormentarsi senza un podcast. Diceva che le notizie lo calmavano, ma Julia sapeva che lo faceva per la compagnia. Di solito lei dormiva già quando lui arrivava a letto – inconfessata coreografia – ma ogni tanto lei si ritrovava ad ascoltarne uno da sola. Una sera, con il marito che le russava accanto, aveva sentito uno scienziato del sonno che parlava del sogno lucido: un sogno durante il quale si è consapevoli che si sta sognando. La tecnica più comune per far venire un sogno lucido è prendere l’abitudine, nello stato di veglia, di guardare un testo – una pagina di un libro o di una rivista, una bacheca, uno schermo –, distogliere gli occhi e poi guardare di nuovo. Nei sogni, i testi non rimangono uguali. Esercitandosi, diventa un riflesso. E se lo eserciti, il riflesso si inserisce nei sogni. La discontinuità del testo indicherà che stai sognando, a quel punto non solo sarai consapevole, ma avrai il controllo.

Julia distolse gli occhi e guardò di nuovo il cellulare.

«So che tu non giochi a Other Life. Cos’è che fai?»

«Eh?»

«Qual è la parola per quello che fai?»

«Vivere?» disse lui, cercando di interpretare il cambiamento che si stava verificando sulla faccia di sua madre.

«Voglio dire in Other Life.»

«Sì, lo so.»

«Vivi Other Life?»

«Di solito non devo descrivere quello che ci faccio, ma sì.»

«Puoi vivere Other Life.»

«Giusto.»

«No, voglio dire che hai il permesso.»

«Adesso?»

«Sì.»

«Pensavo di essere in castigo.»

«Infatti lo sei» disse lei, mettendosi il cellulare in tasca. «Ma adesso puoi viverlo, se vuoi.»

«Possiamo andare a prendere il completo.»

«Un altro giorno. C’è tempo.»

Sam distolse gli occhi e guardò di nuovo sua madre.

 

 

Aveva controllato tutti i congegni. Non era arrabbiato, voleva solo dire quello che andava detto e poi trasformare la sinagoga in un cumulo di macerie. Non andava bene. Aveva collegato tutto con doppia ridondanza e aveva piazzato tre volte l’esplosivo necessario: sotto ogni banco, in cima alla libreria che conteneva i siddurim, dove non si vedeva, sepolto in fondo al cassone di legno ottagonale sotto un metro di yarmulkes.

Samanta tirò fuori la Torah dall’Arca santa che la custodiva. Salmodiò qualche assurdità mandata a memoria, spogliò la Torah dei suoi arredi sacri e la srotolò davanti a sé sulla bimah. Tutte quelle belle lettere nerissime. Tutte quelle belle frasi minimaliste, combinate per raccontare tutte quelle belle storie dall’eco infinita che avrebbero dovuto e ancora potrebbero essere perse per la storia. L’innesco era dentro il puntatore che si usa per seguire la lettura sul rotolo della Torah. Samanta lo afferrò, trovò il punto sulla pergamena e cominciò a salmodiare.

 

> Bar’khu et adonai hamm’vorakh.

> Che sarebbe?

> Ho portato mio fratello piccolo allo zoo e i rinoceronti si sono messi a trombare, roba da pazzi. Lui si è fermato a guardare. La cosa che mi ha fatto più ridere è che non capiva neanche che faceva ridere.

> State attenti!

> Fa ridere quando uno non sa che fa ridere.

> Come fa a mancarmi una persona che non ho mai conosciuto?

> Barukh adonai hamm’vorakh l’olam va-ed...

> Preferirò sempre, sempre, sempre la disonestà a una falsa onestà.

> App: tutto quello che dici un giorno sarà usato contro di te.

> Barukh attà adonai...

> Ci sono: Benedetto sei tu Signore...

> Ho questa strana cosa che non riesco a ricordare come sono le persone che conosco. O mi convinco che non ci riesco. Mi ritrovo a cercare di immaginare la faccia di mio fratello e non ci riesco. Non è che non riesco a distinguerlo tra la gente o che non lo riconoscerei. Ma quando cerco di visualizzarlo, non ci riesco.

> ... elohenu, melekh ha-olam...

> Scaricati un programma che si chiama VeryPDF. È semplicissimo.

> Nostro Dio, re del mondo...

> Scusate, stavo cenando. Sono a Kyoto. Le stelle sono in cielo da ore.

> Avete visto il video di quel giornalista ebreo decapitato?

> ... asher bachar banu mikkol ha-amim...

> VeryPDF ha milioni di bug.

> Che ci hai scelto tra tutti i popoli...

> Il mio iPhone mi sta facendo venire il mal di mare.

> ... v’natan lanu et torato...

> Devi bloccare la rotazione. Doppio clic sul tasto home per far comparire la barra degli strumenti. Scorri a destra finché arrivi a qualcosa che assomiglia a una freccia circolare: abilita e disabilita la rotazione.

> Si può diventare ciechi guardando un film sul sole?

> Qualcuno sa qualcosa di questo nuovo telescopio che i cinesi dicono di voler costruire? Dovrebbe vedere il doppio all’indietro nel tempo di qualunque telescopio mai costruito.

> Barukh attà adonai...

> Lo so che sembrerò fuori di testa, ma non dovremmo ammettere che hai detto una cosa strana? Può vedere il doppio all’indietro nel tempo?

> Potrei far entrare tutto quello che ho scritto in vita mia in una chiavetta.

> Che cosa vuol dire?

> Benedetto sei tu Signore...

> Immagina se mettessero uno specchio gigantesco nello spazio, lontanissimo da noi. Noi non potremmo, puntando un telescopio, vedere noi stessi nel passato?

> Sarebbe?

> Più è lontano, più potremmo vedere nel passato: la nostra nascita, il primo bacio dei nostri genitori, gli uomini delle caverne.

> I dinosauri.

> I miei genitori non si sono mai baciati e hanno scopato una sola volta.

> La vita che strisciava fuori dall’oceano.

> ... noten ha-torah.

> E se fosse puntato dritto, potresti vedere te stesso non esserci.

> ... che ci dà la Torah.

 

Samanta alzò gli occhi.

Che cosa ci vorrebbe perché un essere umano fondamentalmente buono venga visto? Non notato, ma visto. Non apprezzato, non stimato e neppure amato. Ma visto appieno.

Samanta contemplò la congregazione di avatar. Erano persone irreali fondamentalmente simpatiche, fidate, generose. Le persone più fondamentalmente simpatiche che avrebbe mai conosciuto erano persone che non avrebbe mai conosciuto.

Guardò simultaneamente alla e oltre la vetrata del Presente ebraico.

Sam aveva sentito ogni parola detta al di là della porta del rabbino Singer. Sapeva che suo padre gli credeva e sua madre no. Sapeva che sua madre stava cercando di fare quello che secondo lei era meglio e che suo padre stava cercando di fare quello che secondo lui era meglio. Ma meglio per chi?

Aveva trovato il cellulare un giorno prima che lo trovasse sua madre.

Molte scuse erano dovute, ma lui non doveva scuse a nessuno.

Senza una gola da schiarirsi, Samanta cominciò a parlare, a dire quello che andava detto.


Epitome

Più si invecchia più diventa difficile rendere conto del tempo. I bambini chiedono: «Siamo arrivati?» Gli adulti: «Come abbiamo fatto ad arrivare così in fretta?»

In un modo o nell’altro, era tardi. In un modo o nell’altro, le ore erano andate da qualche parte. Irv e Deborah erano tornati a casa. I ragazzi avevano cenato presto, fatto il bagno presto. Jacob e Julia erano riusciti a collaborare evitandosi: tu porti fuori Argo mentre io aiuto Max a fare matematica, mentre tu pieghi la biancheria, mentre io cerco il pezzo di Lego da cui dipende tutto, mentre tu fai finta di sapere come riparare lo scarico di un water che perde, e in un modo o nell’altro, quello che era cominciato come il giorno che Julia avrebbe avuto per sé finì con Jacob apparentemente fuori a bere qualcosa con qualcuno di non meglio precisato della HBO e Julia che sistemava una volta per tutte il macello della giornata. Così tanto macello fatto da così poche persone in così poco tempo. Stava lavando i piatti quando Jacob entrò in cucina.

«È durato più di quanto pensassi» disse preventivamente. E a sua ulteriore discolpa: «Noiosissimo».

«Sarai ubriaco.»

«No.»

«Come fai a bere per quattro ore senza ubriacarti?»

«Ho bevuto solo un bicchiere» disse lui, appendendo la giacca allo sgabello, «non di più. E sono state solo tre ore e mezza.»

«Te lo sei proprio sorseggiato goccia a goccia.» Il tono era pungente, ma poteva essere stato affilato da un certo numero di cose: la giornata libera andata in fumo, lo stress di quella mattina, il Bar Mitzvah.

Julia si asciugò la fronte con la parte del braccio non insaponata e disse: «Dovevamo parlare con Sam».

Bene, pensò Jacob. Tra i conflitti a disposizione, quello era il meno spaventoso. Poteva scusarsi, mettere le cose a posto, tornare alla felicità.

«Lo so» disse, sentendosi l’alcol sui denti.

«Dici lo so e intanto è notte e non gli stiamo parlando.»

«Sono appena arrivato. Volevo prendermi un bicchiere d’acqua e poi vado a parlargli.»

«E il piano era di parlargli insieme.»

«Be’, posso risparmiarti il ruolo del poliziotto cattivo.»

«Risparmiargli di avere un poliziotto cattivo, vuoi dire.»

«Farò io tutti e due i poliziotti.»

«No, tu farai il paramedico.»

«Non capisco cosa vuoi dire.»

«Gli chiederai scusa per il fatto di doverlo punire e finirete a ridere e a me lascerete il ruolo della madre pignola e rompiscatole. Tu ti becchi sette minuti di strizzatine d’occhio e io un mese di risentimento.»

«Non è vero niente di tutto quello che hai detto.»

«Certo.»

Julia sfregò il residuo carbonizzato da una padella.

«Max dorme?» chiese Jacob, con le labbra rivolte a lei e gli occhi di lato.

«Sono le dieci e mezza

«Sam è in camera sua?»

«Un bicchiere in quattro ore?»

«Tre ore e mezza. Uno è arrivato a metà ed è...»

«Sì, Sam è nel suo rifugio antiatomico emotivo.»

«Sta giocando a Other Life?»

«Lo sta vivendo.»

Avevano sviluppato una paura pazzesca di non avere attorno i bambini a riempire il vuoto. A volte Julia si chiedeva se li faceva stare alzati solo per proteggersi dal silenzio, se si prendeva Benjy in braccio perché le facesse da scudo umano.

«E com’è andata la serata di Max?»

«È depresso.»

«Depresso? Non è vero.»

«Hai ragione. Avrà la mononucleosi.»

«Ha solo undici anni.»

«Ne ha solo dieci.»

«Depresso è una parola forte.»

«Funziona per definire un’esperienza forte.»

«E Benjy?» chiese Jacob rovistando in un cassetto.

«Che cosa hai perso?»

«Come?»

«Sembra che tu stia cercando qualcosa.»

«Vado a dare un bacio a Benjy.»

«Lo sveglierai.»

«Farò il ninja.»

«Ci ha messo un’ora per addormentarsi.»

«Un’ora di orologio? O ti è sembrata un’ora?»

«Sessanta minuti di orologio, a pensare alla morte.»

«È un bambino fantastico.»

«Perché è ossessionato dalla morte?»

«Perché è sensibile.»

Jacob frugò tra la posta mentre Julia riempiva la lavastoviglie: opuscolo giallo mensile pieno di mobili grigi di Restoration Hardware, lettera dell’American Civil Liberties Union a settimanale violazione della sua privacy, lettera della Georgetown Day School che nessuno avrebbe aperto con una richiesta di sostegno finanziario, dépliant di un immobiliarista con l’apparecchio per i denti che strombazzava ai quattro venti il prezzo a cui aveva venduto la casa del vicino, varie conferme cartacee di servizi di pagamento online, catalogo di una ditta di vestiti per bambini il cui algoritmo di marketing non era abbastanza sofisticato per capire che la prima infanzia è uno stato temporaneo.

Julia tese il braccio mostrandogli il cellulare.

Lui tese il corpo, mentre dentro tutto crollava: come uno di quei pagliacci gonfiabili con il peso in fondo, che continuano a tornare su per prendersi altri pugni.

«Sai di chi è?»

«È mio» disse lui prendendolo. «Ne ho comprato uno nuovo.»

«Quando?»

«Qualche settimana fa.»

«Perché?»

«Perché... la gente cambia cellulare.»

Julia mise troppo detersivo nella lavastoviglie e la chiuse con troppa energia.

«Ha una password.»

«Sì.»

«Il tuo vecchio cellulare non ce l’aveva.»

«Sì che ce l’aveva.»

«Non è vero.»

«Come fai a saperlo?»

«Perché non dovrei saperlo?»

«Come vuoi.»

«C’è qualcosa che devi dirmi?»

All’università, Jacob era stato accusato di plagio. Prima che esistessero software in grado di scoprire certe cose, quindi per farsi beccare bisognava attingere a man bassa al lavoro altrui, come aveva fatto lui. Ma non l’avevano beccato; aveva confessato per sbaglio. Era stato convocato nell’ufficio del professore di «Epica americana», che lo aveva lasciato a fermentare nel suo alito mefitico mentre finiva di leggere le ultime tre pagine di un libro, poi aveva rovistato goffamente tra le pile di tesine accumulate sulla scrivania finché aveva trovato quella di Jacob.

«Signor Bloch.»

Era un’affermazione? Una conferma che aveva di fronte la persona giusta? «Sì?»

«Signor Bloch» disse scuotendo le pagine come un lulav «da dove vengono queste idee?»

Ma prima che il professore avesse una chance di aggiungere: «Perché sono molto sofisticate per la sua età», Jacob disse: «Harold Bloom».

Nonostante il voto insufficiente e nonostante il provvedimento disciplinare, era stato grato di esserselo lasciato sfuggire di bocca, non perché l’onestà fosse così importante per lui in questo caso ma perché non c’era niente che odiava più di una colpa messa a nudo. Lo riduceva a un bambino terrorizzato e avrebbe fatto qualunque cosa per liberarsene.

«I telefoni nuovi hanno bisogno di una password» disse Jacob. «Credo che la richiedano.»

«Buffo modo di dire no.»

«Qual era la domanda?»

«C’è qualcosa che devi dirmi?»

«Ho sempre un sacco di cose da dirti.»

«Ho detto devi

Argo emise un guaito.

«Non capisco questa conversazione» disse Jacob. «E cos’è questo schifo di odore?»

Così tanti giorni di vita in comune. Così tante esperienze. Come avevano fatto a passare gli ultimi sedici anni a disimpararsi a vicenda? Come aveva fatto la somma di tutta la presenza a tradursi in assenza?

E adesso, con il loro primogenito sulla soglia dell’età adulta e l’ultimogenito che faceva domande sulla morte, si ritrovavano in cucina con qualcosa di cui finalmente valeva la pena di non parlare.

Julia si accorse di una macchiolina sulla camicia e cominciò a sfregarsela pur sapendo che era vecchia e indelebile.

«Sbaglio o non sei passato in lavanderia a prendere la roba?»

La sola cosa che Julia odiava più di sentirsi come si sentiva era avere il tono che aveva. Come Irv le aveva detto che Golda Meir aveva detto ad Anwar Sadat: «Possiamo perdonarvi di avere ucciso i nostri figli, ma non vi perdoneremo mai per averci costretto a uccidere i vostri». Odiava il tono che Jacob la costringeva ad assumere: la moglie piattola, lagnosa, asfissiante e rancorosa che si sarebbe ammazzata pur di non diventare.

«Ho una pessima memoria» disse lui. «Mi dispiace.»

«Anch’io ho una pessima memoria ma non mi dimentico le cose.»

«Mi dispiace, okay?»

«Sarebbe più facile crederci senza l’okay

«Ti comporti come se io non facessi altro che sbagliare.»

«Dammi una mano» disse lei. «Quali sono le cose che fai bene, in questa casa?»

«Stai parlando sul serio?»

Argo emise un lungo guaito.

Jacob si girò e trattò lui come non riusciva a trattare lei: «Basta, eccheccazzo!» Poi, senza cogliere l’ironia nella propria risposta: «Non alzo mai la voce».

Lei invece la colse: «Vero, Argo?»

«Non con te e con i bambini» fece lui.

«Non alzare la voce – o non picchiarmi o non molestare i bambini, del resto – non equivale a dire che fai bene qualcosa. È solo il minimo della decenza. E comunque tu non alzi la voce perché sei represso.»

«Non è vero.»

«Se lo dici tu.»

«Se anche fosse questo il motivo per cui non alzo la voce, e non ne sono convinto, è comunque una cosa buona. Un sacco di uomini strillano.»

«Sono gelosa delle loro mogli.»

«Vuoi che sia uno stronzo?»

«Voglio che tu sia una persona.»

«Che cosa vorresti dire?»

«Sei sicuro che non c’è niente che devi dirmi?»

«Non capisco perché continui a farmi questa domanda.»

«La riformulerò in un altro modo: qual è la password?»

«Di cosa?»

«Del cellulare che stai tenendo in mano.»

«È il mio cellulare nuovo. Cosa c’è di così importante?»

«Io sono tua moglie. Sono io la cosa importante.»

«Non capisco.»

«Cosa c’è da capire?»

«Che cosa vuoi, Julia?»

«La tua password.»

«Perché?»

«Perché voglio sapere quello che tu non puoi dirmi.»

«Julia.»

«Mi hai di nuovo identificato correttamente.»

Jacob aveva passato più ore da sveglio in quella cucina che in qualunque altra stanza. Nessun lattante sa che è l’ultima volta che gli viene tolto di bocca il capezzolo. Nessun bambino sa che è l’ultima volta che chiama sua madre «mami». Nessun ragazzino sa che il libro si sta chiudendo sull’ultima fiaba della buona notte che gli sarà mai letta. Nessun fratello sa che la vasca si sta riempiendo per l’ultimo bagno che farà mai col fratello. Nessun ragazzo sa, la prima volta che arriva al culmine del piacere, che da quel momento tutto per lui sarà collegato al sesso. Nessuna donna sulla soglia della pubertà sa, mentre dorme, che ci vorranno quattro decenni prima che si svegli di nuovo infertile. Nessuna madre sa che sta sentendo la parola «mami» per l’ultima volta. Nessun padre sa che il libro si è chiuso sull’ultima fiaba della buona notte che leggerà mai: Da quel giorno, e per molti anni a venire, la pace regnò nell’isola di Itaca e gli dei guardarono con favore Ulisse, sua moglie e suo figlio. Jacob sapeva che, qualunque cosa fosse successa, avrebbe rivisto la cucina. Eppure i suoi occhi si fecero spugne per assorbire i dettagli – la maniglia brunita del cassetto degli snack; la giuntura fra le lastre di steatite; l’adesivo PREMIO SPECIALE AL CORAGGIO incollato sullo sbalzo dell’isola, vinto da Max per la caduta di quello che nessuno sapeva fosse il suo ultimo dente da latte, un adesivo che Argo vedeva moltissime volte al giorno e solo Argo vedeva – perché Jacob sapeva che un giorno li avrebbe spremuti per cavarne le ultime gocce di quegli ultimi istanti; come fossero lacrime.

«Bene» disse Jacob.

«Bene cosa?»

«Bene ti dirò la password.»

Posò il cellulare sul piano della cucina con una forza ponderata che forse, ma forse, poteva bastare a far saltare i circuiti, e disse: «Ma sappi che questa mancanza di fiducia rimarrà sempre fra noi».

«Me ne farò una ragione.»

Lui guardò il cellulare.

«In realtà sto cercando di ricordare qual è la password. L’ho persa subito dopo averlo comprato. Mi sa che non l’ho neppure mai usata.»

Prese il cellulare e lo fissò.

«Magari la password che i Bloch usano per tutto?» suggerì Julia.

«Giusto» disse lui. «Avrei sicuramente usato quella. 6-q-u-e-l-l-a-g-i-u-s-t-a. E... niente.»

«Mmm. Mi sa di no.»

«Probabilmente posso farmelo sbloccare dal negozio.»

«Magari, dico solo così per dire, potresti digitare il numero in lettere s-e-i con l’iniziale maiuscola?»

«Non la scriverei così» disse lui.

«No?»

«No. La scriviamo sempre nello stesso modo.»

«Prova lo stesso.»

Jacob avrebbe voluto non provare quel terrore infantile, ma avrebbe voluto essere bambino.

«Non la scriverei così.»

«Chi può dire cosa uno farebbe o non farebbe. Prova lo stesso.»

Lui esaminò il cellulare, e le dita che lo stringevano, e la casa intorno, e con un impulso immediato – un riflesso come di una gamba che scalcia per un martelletto sul ginocchio – lo scagliò contro la finestra fracassando il vetro.

«Pensavo fosse aperta.»

E poi un silenzio che sprofondava fino alle viscere della terra.

Julia disse: «Pensi che io non sia in grado di andare a recuperare il telefono sul prato?»

«Io...»

«E perché non hai creato una password giusto un po’ più sofisticata? Una password che Sam non potesse indovinare?»

«Sam ha guardato il cellulare?»

«No. Ma solo perché hai una fortuna incredibile.»

«Sei sicura?»

«Come hai potuto scrivere quelle cose?»

«Quali cose?»

«È troppo tardi per far finta di non saperlo.»

Jacob sapeva che era troppo tardi e assorbì i solchi dei taglieri, le piante grasse tra il lavandino e la finestra, i disegni dei bambini appiccicati alle piastrelle.

«Non significavano niente» disse poi.

«Mi dispiace che una persona sia capace di dire così tante cose che non significano niente.»

«Julia, dammi la possibilità di spiegare.»

«Ma perché non puoi dire a me cose che non significano niente?»

«Eh?»

«Dici a una che non è la madre dei tuoi figli che vuoi leccarle la sborra dal buco del culo e l’unica persona che mi fa sentire bella è quel cazzo di fiorista coreano dietro il supermercato che non è nemmeno un fiorista

«Sono una merda.»

«Non ci provare.»

«Julia, ci puoi credere o no, ma erano solo messaggi. Non è successo altro.»

«Primo, ci credo benissimo. Nessuno più di me sa che non hai il coraggio per una vera trasgressione. So che sei troppo fichetta per leccare qualunque culo, con o senza sborra.»

«Julia.»

«Ma più importante ancora, quanto serve che succeda? Credi di potertene andare in giro a dire e a scrivere quello che vuoi come se niente fosse? Forse tuo padre può farlo. Forse tua madre è così debole da tollerare quel genere di porcheria. Ma io no. La decenza e l’indecenza sono cose diverse. Il bene e il male sono cosediverse. Non lo sapevi?»

«Ma certo che...»

«No, certo che no. Hai scritto a una donna che non è tua moglie che la sua figa stretta non ti merita?»

«Non ho scritto proprio così. Ed è successo in un contesto di...»

«E tu non sei proprio una brava persona e non c’è contesto che renda accettabile una cosa così.»

«È stato un momento di debolezza, Julia.»

«Non ti ricordi che non hai mai cancellatonessuno di quei messaggi? Che c’è una storia da consultare? Non è stato un momento di debolezza, è stata una persona di debolezza. E potresti smetterla di dire il mio nome?»

«È finita.»

«Vuoi sapere la cosa peggiore? Non me ne importa niente. La cosa più triste per me è stato rendermi conto che non ero triste.»

Jacob non ci credette ma non riusciva neppure a credere che lo stesse dicendo. Fingere un rapporto d’amore aveva reso sopportabile l’assenza di un rapporto d’amore. Ma adesso Julia stava rinunciando a salvare le apparenze.

«Senti, io credo...»

«Leccarle la sborra che esce dal buco del culo?» Rise. «Tu? Tu sei un vigliacco con la fobia dei germi. Volevi solo scriverlo. E va bene. È magnifico. Ma ammetti che era tutta una finta. Tuvorresti volere una sorta di vita sessualmente supereccitante, ma quello che vuoi in realtà è il passeggino consegnato al check-in, la crema protettiva per la pelle e persino la tua arida esistenza senza pompini perché ti risparmia di preoccuparti delle erezioni. Cristo, Jacob, ti porti dietro le salviette per non dover mai usare la carta igienica. Di sicuro non ti comporti come un uomo che vuole leccare sborra dal buco del culo di qualcuno.»

«Julia, basta.»

«E comunque, se mai ti ritrovassi in quella situazione, con il buco del culo vero di una donna vera pieno della tua sborra vera che invita la tua lingua? Sai cosa faresti? Ti prenderebbe la tremarella, inzupperesti la camicia di sudore, perderesti quella mezza erezione budinosa che avevi avuto la fortuna di racimolare e probabilmente ti trascineresti in bagno a controllare l’Huffington Post in cerca di filmati puerili e poco divertenti o a riascoltare Radiolabche canta le lodi delle tartarughe. Ecco cosa succederebbe. E lei saprebbe che sei la barzelletta che sei.»

«Non indosserei la camicia.»

«Eh?»

«Non inzupperei la camicia di sudore perché non avrei una camicia addosso.»

«Cazzo, che commento squallido!»

«Smettila di provocarmi.»

«Dici sul serio? Non può essere. Non è possibile che tu dica sul serio.» Si girò verso il rubinetto del lavandino, senza una ragione apparente. «E credi di essere l’unico che ha voglia di trasgressione?»

«Vuoi un amante?»

«Voglio lasciare che le cose si sfascino.»

«Io non ho un’amante e non sto sfasciando le cose.»

«Oggi ho visto Mark. Lui e Jennifer stanno divorziando.»

«Ottimo. Oppure terribile. Cosa ti aspetti che dica?»

«E Mark flirtava con me.»

«Dove vuoi arrivare?»

«Io ti ho protetto tantissimo. Mi sono preoccupata della tua patetica insicurezza da pulcino bagnato. Ti ho risparmiato cose innocenti da cui non avresti avuto il diritto di farti turbare ma che ti avrebbero schiacciato. E credi che io non mi sia mai fatta delle fantasie? Credi che mi masturbo sempre pensando a te? È così?»

«Questo non ci porterà a niente di buono.»

«Una parte di me si sarebbe voluta scopare Mark, oggi? Ebbene sì. Tutta quella parte che sta sotto il cervello, in effetti. Ma non l’ho fatto perché non avrei potuto, perché non sono come te...»

«Io non mi sono scopato nessuno, Julia.»

«... ma avrei voluto.»

Jacob alzò la voce per la seconda volta nel corso della conversazione: «Santo Dio, ma cos’è questa puzza?»

«Il tuo cane ha fatto un’altra volta la cacca in casa.»

«Il mio cane?»

«Sì, il cane che tu hai portato qui, nonostante avessimo esplicitamente stabilito insieme di nonprendere un cane.»

«I bambini lo volevano.»

«I bambini vogliono farsi iniettare gelato banana e cioccolato in vena e farsi risucchiare il cervello dalle eiaculazioni di Steve Jobs. Essere dei buoni genitori non vuole dire soddisfare ogni loro capriccio.»

«Erano tristi per qualcosa.»

«Tutti sono tristi per qualcosa. Smettila di dare la colpa ai bambini, Jacob. Avevi bisogno di fare l’eroe o avevi bisogno di farmi fare la cattiva...»

«Sei ingiusta.»

«Sono ingiustissima, hai ragione. Tu hai portato a casa un cane dopo che avevamo stabilito insieme che sarebbe stato sbagliato prenderlo, e tu sei passato per il supereroe e io per la supercattiva e adesso c’è una baguette di merda puzzolente sul pavimento del nostro soggiorno.»

«E non hai pensato di raccoglierla?»

«No. Esattamente come a te non è venuto in mente di abituarlo a non sporcare in casa.»

«Ma non può farci niente, poveretto. È...»

«O di portarlo fuori, o di portarlo dal veterinario, o di lavargli la cuccia o di fargli prendere le pastiglie contro la filariosi o di controllare se ha le zecche o di comprargli la pappa o dargliela. Io raccolgo la sua cacca tutti i santi giorni. Due volte al giorno. O anche di più. Cristo, Jacob, io odio i cani e odio questo cane e non volevo e non voglio questo cane ma se non fosse stato per me questo cane sarebbe morto da anni.»

«Lui capisce quando dici queste cose.»

«E invece tu no. Il tuo cane...»

«Il nostro cane.»

«... è più intelligente di mio marito.»

E allora lui urlò. Era la prima volta che alzava la voce con lei o in generale con chiunque. Fu un urlo che gli era cresciuto dentro per sedici anni di matrimonio e per quattro decadi di vita e per cinque millenni di storia: un urlo che era diretto a lei ma anche a tutti, vivi e morti, e in primo luogo a se stesso. Per anni era sempre stato altrove, sempre sotterrato dietro porte spesse trenta centimetri, sempre al riparo in un monologo interiore a cui nessuno – lui compreso – aveva accesso o intrappolato in un dialogo in un cassetto della scrivania chiuso a chiave. Ma questo era lui.

Fece quattro passi verso di lei, avvicinando le lenti degli occhiali ai suoi occhi quanto lo erano ai propri, e urlò: «Tu sei il mio nemico!»

Qualche minuto prima, Julia aveva detto a Jacob che la cosa più triste era stata rendersi conto che non era triste. Era vero in quel momento, ma non era più vero, adesso. Attraverso le lacrime, guardò la cucina: la guarnizione di gomma fessurata del doccino del lavello, le finestre che avevano ancora un bell’aspetto ma i cui telai si sarebbero sbriciolati a prenderli in mano. Vide la sala da pranzo e il soggiorno: avevano ancora un bell’aspetto, ma erano due mani di bianco su una mano di fondo su una quindicina d’anni di lenta decadenza. Suo marito: non il suo compagno.

Sam un giorno era arrivato a casa e aveva detto a Julia tutto eccitato: «Se la terra fosse grande come una mela, l’atmosfera sarebbe più sottile della buccia».

«Eh?»

«Se la terra fosse grande come una mela, l’atmosfera sarebbe più sottile della buccia.»

«Forse non sono abbastanza intelligente, ma non capisco che cosa ci sia di interessante. Me lo puoi spiegare?»

«Guarda in su» disse lui. «Ti sembra sottile?»

«Il soffitto?»

«Se fossimo fuori.»

Il guscio era sottilissimo ma si era sempre sentita al sicuro.

Decine di domeniche prima, a una svendita di roba usata, avevano comprato un bersaglio per freccette da appendere sulla porta in fondo al corridoio. I ragazzi mancavano il bersaglio più spesso di quanto lo centrassero e ogni freccetta estratta dalla porta aveva un po’ del colore della porta sulla punta. Julia aveva tolto il bersaglio il giorno che Max era arrivato in soggiorno con la spalla sanguinante dicendo: «Non è colpa di nessuno». Quel che ne restava era un cerchio, delimitato e circondato da centinaia di buchi.

Mentre fissava il guscio della sua cucina, la cosa più triste era sapere quello che c’era sotto, quello che un minuscolo graffio in un punto vulnerabile avrebbe rivelato.

«Mamma?»

Si girarono e videro Benjy fermo sulla porta, appoggiato al grafico della crescita, con le mani che cercavano tasche che il pigiama non aveva. Da quanto tempo era lì?

«Mamma e io stavamo solo...»

«Vuoi dire epitome

«Cosa, amore?»

«Hai detto nemico, ma volevi dire epitome

«Adesso puoi avere il tuo bacio» disse Julia a Jacob asciugandosi le lacrime e nascondendole con schiuma di sapone.

Jacob si abbassò in ginocchio e prese le mani di Benjy nelle sue.

«Un brutto sogno, tesoro?»

«Mi va bene morire» disse Benjy.

«Eh?»

«Mi va bene morire.»

«Davvero?»

«Se tutti gli altri muoiono con me, mi va bene morire. Ho paura solo se tutti gli altri non muoiono.»

«Hai fatto un brutto sogno.»

«No. Stavate litigando.»

«Non stavamo litigando. Noi...»

«E ho sentito un vetro che si rompeva.»

«Stavamo litigando» disse Julia. «Gli esseri umani hanno sentimenti, a volte anche sentimenti molto complicati. Ma va tutto bene. Adesso torna a letto.»

Jacob lo riportò di sopra, la guancia di Benjy sulla sua spalla. Com’era ancora leggero. Quanto stava diventando pesante. Nessun padre sa che sta portando suo figlio su per le scale per l’ultima volta.

Jacob rimboccò di nuovo le coperte a Benjy e gli fece una carezza sulla testa.

«Papà?»

«Sì?»

«Sono d’accordo con te che probabilmente il paradiso non esiste.»

«Non ho detto questo. Ho detto che non c’è modo di saperlo con certezza e quindi probabilmente non è una grande idea organizzare le nostre vite intorno a quell’idea.»

«Sì, è con questo che sono d’accordo.»

Jacob poteva perdonare a se stesso di negarsi qualsiasi consolazione, ma perché la negava anche a tutti gli altri? Perché non poteva lasciare che quel suo figlio di cinque anni si sentisse felice e al sicuro in un mondo giusto, bello e irreale?

«Quindi intorno a che cosa le dobbiamo organizzare, le nostre vite?» chiese Benjy.

«Alle nostre famiglie?»

«Anch’io lo penso.»

«Buonanotte, campione.»

Jacob arrivò alla porta ma non se ne andò.

Dopo qualche lungo momento di quel silenzio, Benjy lo chiamò: «Papà? Ho bisogno di te».

«Sono qui.»

«Gli scoiattoli si sono evoluti con la coda folta. Perché?»

«Forse per l’equilibrio? O per scaldarsi? È ora di dormire.»

«Domani lo cerchiamo su Google.»

«Okay. Ma adesso dormi.»

«Papà?»

«Sono proprio qui.»

«Se il mondo dura abbastanza, ci saranno fossili dei fossili?»

«Oh, Benjy. Questa sì che è una bella domanda. Ne parliamo domani mattina.»

«Sì. Ho bisogno di dormire.»

«Giusto.»

«Papà?»

Adesso Jacob stava perdendo la pazienza: «Benjy».

«Papà?»

«Sono qui.»

Rimase sulla porta finché sentì il respiro del suo figlio più piccolo farsi pesante. Jacob era un uomo che negava consolazione ma rimaneva sulla porta quando altri se ne sarebbero andati via da un pezzo. Rimaneva sempre sulla porta d’ingresso finché la macchina non era partita. Esattamente come rimaneva alla finestra finché la ruota posteriore della bici di Sam non era scomparsa dietro l’angolo. Esattamente come guardava se stesso scomparire.


Non eccomi

> È con un senso di consapevolezza dell’importanza di questo momento e di estremo disagio che mi presento oggi davanti a questa bimah, per compiere il cosiddetto rito di passaggio nell’età adulta, qualunque cosa esso sia. Voglio ringraziare il cantore Fleischman, perché nel corso degli ultimi sei mesi mi ha aiutato a trasformarmi in un automa ebraico. Nel caso estremamente improbabile in cui tra un anno dovessi ricordare ancora qualcosa, continuerò a non conoscerne il significato, e per questo gli sono riconoscente. Voglio anche ringraziare quel clistere di acido solforico che è il rabbino Singer. Il mio unico bisnonno in vita è Isaac Bloch. Mio padre ha detto che dovevo accettare tutto questo per lui, una cosa che il mio bisnonno personalmente non mi ha mai chiesto. Ci sono cose che invece ha chiesto, come di non essere costretto a trasferirsi nella Casa ebraica. La mia famiglia si preoccupa molto di preoccuparsi di lui ma non abbastanza da preoccuparsi davvero, e io posso non aver capito niente di quello che ho salmodiato oggi ma questo l’ho capito. Voglio ringraziare i miei nonni, Irv e Deborah Bloch, perché sono un punto di riferimento nella mia vita e perché mi spingono sempre a impegnarmi un po’ di più, a scavare un po’ più a fondo, ad arricchirmi e a dire tutto quello che voglio quando mi pare. E anche i miei nonni Allen e Leah Selman, che abitano in Florida e della cui condizione mortale sono a conoscenza solo grazie ai soldi che mi mandano per Channukah e per il compleanno, il cui importo non è stato adeguato all’aumento del costo della vita dal giorno della mia nascita. Voglio ringraziare i miei fratelli, Benjy e Max, per la gran quantità di attenzioni che richiedono da parte dei miei genitori. Non riesco a immaginare come potrei sopravvivere in un’esistenza in cui mi toccasse l’onere indiviso del loro amore. E poi, quando una volta ho vomitato addosso a Benjy in aereo, lui ha detto: «Lo so che vomitare è brutto». E Max una volta si è offerto di fare le analisi del sangue al posto mio. Il che mi porta ai miei genitori, Jacob e Julia Bloch. La verità è che io non volevo fare il Bat Mitzvah. Niente in me voleva farlo, neppure una parte minuscola. Neanche per tutti i buoni di risparmio del mondo. Ne abbiamo discusso più di una volta, come se la mia opinione contasse qualcosa. Era tutta una farsa, una farsa per mettere in moto questa farsa, che a sua volta è solo un trampolino per la farsa della mia identità ebraica. Il che vuol dire, nel senso più letterale, che senza di loro tutto questo non sarebbe stato possibile. Io non ce l’ho con loro perché sono quelli che sono. Ma ce l’ho con loro perché ce l’hanno con me perché io sono quello che sono. Basta ringraziamenti. Dunque, la miaparashah oggi è VayyeraE apparve. È una delle porzioni di Torah più conosciute e più studiate e a quanto mi hanno detto è un grande onore leggerla. Considerata la mia totale mancanza di interesse per la Torah, sarebbe stato meglio assegnarla a un ragazzo a cui interessa davvero questa roba ebraica, sempre che esista, e assegnare a me una di quelle porzioni a perdere sulle regole imposte alle lebbrose con il mestruo. Ci siete cascati tutti, mi sa. Un’ultima cosa: nell’interpretazione che segue alcune parti sono spudoratamente scopiazzate. Per fortuna gli ebrei credono solo nelle punizioni collettive. Okay... Dio mette alla prova Abramo, e il testo dice: «Qualche tempo dopo, Dio mise alla prova Abramo. Gli disse: ‘Abramo!’ ‘Eccomi’ rispose Abramo». La maggior parte della gente dà per scontato che la prova sia che Dio chiede ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco. Ma secondo me si potrebbe anche leggere che la prova è quando Dio lo chiama. Abramo non dice: «Che cosa vuoi?» Non dice: «Sì?» Risponde con una dichiarazione: «Eccomi». Qualunque cosa Dio voglia, Abramo è completamente presente per Lui, senza condizioni o riserve o necessità di spiegazioni. Quella parola – hinneni: eccomi – ritorna altre due volte in questo brano. Quando Abramo porta Isacco sul monte Moriah, Isacco si rende conto di quello che stanno per fare e di quanto le cose si mettano male. Sa che sta per essere sacrificato, come tutti i bambini che sanno sempre quello che sta per succedere. Si legge: «E Isacco si rivolse ad Abramo, suo padre, e gli disse: ‘Padre mio!’, ed egli: ‘Eccomi, figlio mio’. E Isacco disse: ‘Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per il sacrificio?’ E Abramo disse: ‘Dio provvederà all’agnello per il sacrificio, figlio mio’». Isacco non dice: «Padre», dice: «Padre mio». Abramo è il padre del popolo ebraico, ma è anche il padre di Isacco, il suo padre personale. E Abramo non chiede: «Che cosa vuoi?» Dice: «Eccomi». Quando Dio chiama Abramo, Abramo è completamente presente per Dio. Quando Isacco chiama Abramo, Abramo è completamente presente per suo figlio. Ma com’è possibile? Dio chiede ad Abramo di uccidere Isacco e Isacco chiede a suo padre di proteggerlo. Come può Abramo essere due cose opposte contemporaneamente? Hinneni è usato un’altra volta nel brano, nel momento più drammatico. «E arrivarono al luogo che Dio gli aveva detto e Abramo costruì un altare e preparò la legna, poi legò Isacco, suo figlio, e lo mise sull’altare sopra la legna. E Abramo stese la mano e prese il coltello per sgozzare suo figlio. E un messo del Signore lo chiamò dal cielo e disse: ‘Abramo, Abramo!’, ed egli: ‘Eccomi’. E quegli disse: ‘Non alzare la tua mano sul ragazzo e non fargli niente, perché adesso so che temi Dio e non mi hai negato tuo figlio, il tuo unico’.» Abramo non chiede: «Che cosa vuoi?» Dice: «Eccomi». La porzione di Torah per il mio Bat Mitzvah tocca molti temi, ma secondo me il più importante è la riflessione su quali sono le persone per cui noi siamo completamente presenti e come questo, più di qualunque altra cosa, definisca la nostra identità. Il mio bisnonno, che ho già nominato prima, ha chiesto aiuto. Non vuole andare alla Casa ebraica. Ma nessuno in famiglia ha risposto: «Eccomi». Hanno invece cercato di convincerlo che non sa qual è la cosa migliore per lui e che non sa neppure bene quello che vuole. Davvero, non hanno neppure cercato di convincerlo, gli hanno solo detto che cosa dovrà fare. Stamattina, alla scuola ebraica, mi è stata rivolta l’accusa di avere usato delle brutte parole. Non so neanche bene se «usato» sia il termine giusto: fare un elenco non è certousare qualcosa. Comunque, quando i miei genitori sono venuti a parlare con il rabbino Singer, non mi hanno detto: «Eccoci». Hanno chiesto: «Cos’hai fatto?» Vorrei che mi avessero almeno concesso il beneficio del dubbio, perché me lo merito. Tutti quelli che mi conoscono sanno che faccio un casino di errori, ma sanno anche che sono una brava persona. Ma non è perché sono una brava persona che merito il beneficio del dubbio, è perché loro sono i miei genitori che avrebbero dovuto concedermelo. Anche se non mi credevano, avrebbero dovuto far finta di sì. Mio padre una volta mi ha raccontato che prima che io nascessi, quando l’unica prova della mia vita erano le ecografie, doveva credere in me. In altre parole, il fatto di nascere permette ai tuoi genitori di smettere di credere in te. Okay, grazie per essere venuti, adesso tutti fuori.

> Tutto finito?

> No. Non proprio. Farò esplodere questo posto.

> Che cazzo dici?

> Ho organizzato un ricevimento sul tetto della vecchia fabbrica di rullini a colori dall’altra parte della strada. Guarderemo da lì.

> Scappiamo!

> Rullini a colori?

> Non c’è bisogno di scappare. Nessuno si farà male.

> Fidatevi di lei.

> Rullini per vecchie macchine fotografiche.

> Non c’è neanche bisogno di fidarsi di me. Pensateci: se aveste avuto bisogno di scappare, sareste già morti.

> Che logica perversa.

> Eccheccazzo!

> Un’ultima cosa, prima che andiamo: qualcuno sa perché sugli aerei smorzano le luci al decollo e all’atterraggio?

> Così il pilota vede meglio?

> Andiamocene e basta, okay?

> Per risparmiare corrente?

> Non voglio morire.

> Buone ipotesi, ma no. È perché quelli sono i momenti più critici del volo. Più dell’ottanta per cento degli incidenti si verifica al decollo o all’atterraggio. Abbassano le luci per dare agli occhi il tempo di adattarsi al buio di una cabina piena di fumo.

> Dovrebbe esserci una parola per cose così.

> Potete seguire il percorso illuminato che vi porterà fuori dalla sinagoga. Vi indicherà la strada. Oppure potete seguire me.

Qualcuno! Qualcuno!

Julia era al suo lavandino, Jacob al proprio. Doppi lavandini: una configurazione molto ricercata nelle vecchie case di Cleveland Park, come gli intarsi intricati lungo i bordi dei parquet, le mensole dei camini originali e i candelabri a gas riconvertiti. C’erano così poche differenze tra le case che il minimo dettaglio andava esaltato, in modo che nessuno lavorasse troppo per troppo poco. D’altra parte, chi vuole davvero i doppi lavandini?

«Sai che cosa mi ha appena chiesto Benjy?» disse Jacob, guardandosi nello specchio sopra il suo lavandino.

«Se il mondo dura abbastanza, ci saranno fossili dei fossili?»

«Come fai a saperlo?»

«Il monitor sa tutto.»

«Giusto.»

Jacob si passava quasi sempre il filo interdentale, se aveva un testimone. Quasi quarant’anni a usare occasionalmente il filo interdentale e aveva avuto solo tre carie – tutto tempo risparmiato. Quella sera, con sua moglie come testimone, lo usò. Voleva rimanere un po’ di tempo a quei doppi lavandini. O risparmiarsi un po’ di tempo nell’unico letto.

«Quand’ero bambino mi ero creato un mio sistema di posta personale. Avevo fatto un piccolo ufficio postale con lo scatolone di un frigorifero. Mamma mi aveva cucito un’uniforme. Avevo persino dei francobolli con la faccia di mio nonno.»

«Perché me lo stai raccontando?» chiese lei.

«Non lo so. È solo che ci stavo pensando» disse lui con il filo interdentale tra i due incisivi.

«E perché ci stavi pensando?»

Jacob ridacchiò: «Sembri il dottor Silvers».

Lei non ridacchiò: «Tu ami il dottor Silvers».

«Non avevo niente da consegnare» proseguì lui, «per cui cominciai a scrivere lettere a mia mamma. Era il sistema ad affascinarmi; dei messaggi non mi importava. Comunque, il primo diceva: ‘Se stai leggendo questo, il nostro sistema postale funziona!’ Me lo ricordo.»

«Il nostro» disse lei.

«Cosa?»

«Nostro. Il nostro sistema postale. Non il mio sistema postale.»

«Forse avevo scritto mio» disse lui srotolando il filo dalle dita, rivelando solchi circolari. «Non me lo ricordo.»

«Invece sì.»

«Non lo so.»

«Invece . Ed è per questo che me lo stai raccontando.»

«Mia mamma era fantastica» disse lui.

«Lo so. L’ho sempre saputo. Riesce a far sentire ai ragazzi che nessuno al mondo è migliore di loro e che loro non sono migliori di nessun altro. È un equilibrio difficile.»

«Mio padre non ci riesce.»

«Tuo padre non sa cosa sia l’equilibrio.»

I solchi erano già scomparsi.

Julia prese uno spazzolino e lo passò al marito.

Jacob provò a far uscire a forza qualcosa che non voleva uscire, e disse: «È finito il dentifricio».

«Ce n’è un altro nell’armadietto.»

Un momento di silenzio mentre si lavavano i denti. Se ci mettevano dieci minuti ogni sera a prepararsi per andare a dormire – e ce li mettevano senz’altro, almeno dieci minuti – il totale era sessanta ore l’anno. Più ore insieme per prepararsi per dormire che svegli in vacanza insieme. Erano sposati da sedici anni. Nel frattempo avevano trascorso l’equivalente di quaranta giornate intere a prepararsi per andare a dormire, quasi sempre davanti a quegli ambiti doppi lavandini solitari, quasi sempre in silenzio.

Qualche mese dopo aver traslocato, Jacob avrebbe creato un sistema postale con i suoi figli. Max si era fatto sfuggente. Rideva meno, si incupiva meno, cercava sempre di sedersi il più vicino possibile alla finestra. Jacob era riuscito a negare l’evidenza a se stesso, ma gli altri cominciarono a notarlo e a parlarne; Deborah lo prese in disparte, a un brunch, e gli chiese: «Come lo vedi, Max?»

Jacob trovò su Etsy delle buche delle lettere di seconda mano e le appese alle porte delle camere dei ragazzi e una alla sua. Disse che avrebbero avuto un loro sistema di posta segreto, da usare per i messaggi che sembravano impossibili da dire ad alta voce.

«Come i bigliettini che la gente lasciava nel Muro del Pianto» buttò lì Benjy.

No, pensò Jacob, ma disse: «Sì. Una cosa del genere».

«A parte il fatto che tu non sei Dio» disse Max, cosa che, pur essendo straovvia e in linea con l’atteggiamento che Jacob sperava di vedere nei suoi figli (in quanto atei e in quanto ragazzi che non hanno paura dei loro genitori), gli bruciò lo stesso.

Jacob controllava la sua buca delle lettere tutti i giorni. Benjy era l’unico a scrivere: «Pace nel mondo»; «Nevica»; «Televisore più grande».

Fare il genitore da solo era difficile su molti fronti: la logistica necessaria per far preparare tre ragazzini in tempo per la scuola con due mani soltanto, la mole di spostamenti da coordinare stile torre di controllo di Heathrow, la necessità di ricorrere al multitasking del multitasking. Ma la sfida più difficile era trovare il tempo per parlare a tu per tu con ciascuno di loro. Erano sempre insieme, c’era sempre chiasso, c’era sempre qualcosa da fare e non c’era nessuno con cui dividere il carico. Per cui quando si ritrovavano in due da soli sentiva da una parte il bisogno di cogliere l’occasione (per quanto innaturale potesse risultare in quel momento) e dall’altra una dose concentrata della vecchia paura di dire troppo o troppo poco.

Una sera, poche settimane dopo la creazione del sistema postale, Sam stava leggendo un libro a Benjy e Max e Jacob si ritrovarono a fare pipì nello stesso bagno.

«Non incrociare i flussi, Ray.»

«Eh?»

«Da Ghostbusters

«So che è un film, ma non l’ho mai visto.»

«Stai scherzando.»

«No.»

«Ma io ricordo di averlo visto con...»

«Io non l’ho visto.»

«Okay. Be’ c’è questa scena fantastica in cui fanno fuoco con i loro nonsocosaprotonici per la prima volta, ed Egon dice: ‘Non incrociare i flussi, Ray’, perché sarebbe una vera catastrofe, e da quel momento mi viene sempre in mente quella battuta quando piscio nello stesso bagno con qualcuno. Ma noi due abbiamo finito, quindi adesso non ha più senso.»

«Vabbè.»

«Ho notato che non hai messo niente nella mia buca delle lettere.»

«Sì. Lo farò.»

«Non sei obbligato. Pensavo solo che potesse essere un modo utile per toglierti qualche peso di dosso.»

«Okay.»

«Tutti ci teniamo delle cose per noi. Lo fanno i tuoi fratelli. Lo faccio io. Lo fa la mamma. Ma può rendere la vita molto difficile.»

«Mi dispiace.»

«No, io dicevo per te. Ho passato la vita a fare sforzi enormi per proteggere me stesso dalle cose che mi fanno più paura e alla fine non sarebbe giusto dire che non c’era niente di cui avere paura, ma forse se le mie paure peggiori si fossero concretizzate non sarebbe stato poi tanto male. Forse i miei sforzi sono stati peggio. Mi ricordo la sera in cui sono andato all’aeroporto. Vi ho dato un bacio come se stessi partendo per un viaggio qualunque e vi ho detto qualcosa tipo: ‘Ci vediamo tra un paio di settimane’. E mentre mi preparavo per andare, la mamma mi ha chiesto che cosa aspettavo. Ha detto che era una cosa enorme e che sicuramente avevo molte cose enormi dentro e sicuramente anche voi.»

«Ma non sei tornato indietro per dirci qualcos’altro.»

«Avevo troppa paura.»

«Paura di cosa?»

«Non c’era niente di cui avere paura. È questo che sto cercando di dirti.»

«Lo so che non c’era niente di cui avere davvero paura. Ma tu di che cosa avevi paura?»

«Di renderlo vero?»

«Il fatto di partire?»

«No. Quello che avevamo. Quello che abbiamo.»

Julia si infilò in profondità lo spazzolino nella guancia e appoggiò le mani sul lavandino. Jacob sputò e disse: «Sono una delusione per la mia famiglia proprio come mio padre è stato una delusione per noi».

«Non è vero» disse lei. «Ma evitare i suoi errori non basta.»

«Come?»

Lei si tolse lo spazzolino di bocca e ripeté: «Non è vero. Ma evitare i suoi errori non basta».

«Sei una mamma fantastica.»

«Cosa te lo fa dire?»

«Stavo pensando a come mia mamma era una mamma fantastica.»

Julia chiuse l’anta del mobiletto, rimase in silenzio come se stesse decidendo se dire qualcosa, poi disse: «Tu non sei felice».

«Cosa fa dire questo a te?»

«È la verità. Sembri felice. Magari pensi persino di essere felice. Ma non lo sei.»

«Pensi che sia depresso?»

«No, penso che dai un’importanza enorme alla felicità, a quella tua e a quella degli altri, e ti senti così minacciato dall’infelicità che preferiresti affondare insieme alla nave piuttosto che ammettere l’esistenza di una falla.»

«Secondo me non è vero.»

«E sì, penso che tu sia depresso.»

«Probabilmente è solo mononucleosi.»

«Sei stanco di scrivere una serie tv che non è tua e che tutti amano tranne te.»

«Non la amano tutti.»

«Be’, tu di sicuro no.»

«Mi piace.»

«E tu odi che quello che fai ti piaccia soltanto.»

«Non so.»

«Sì che lo sai, invece» disse lei. «Sai che c’è qualcosa dentro di te – un libro, o una serie, o un film, quello che è – e se solo potesse uscire, allora tutti i sacrifici che senti di aver fatto non ti sembrerebbero più sacrifici.»

«Non sento di aver dovuto fare...»

«Vedi come hai cambiato la grammatica? Io ho detto i sacrifici che senti di aver fatto. Tu hai detto, aver dovuto fare. Vedi la differenza?»

«Cristo, dovresti proprio prenderti un diploma e un divano.»

«Non sto scherzando.»

«Lo so.»

«E sei stanco di fare finta di essere felicemente sposato...»

«Julia.»

«... e odi che la relazione più importante della tua vita ti piaccia soltanto.»

Spesso Jacob non sopportava Julia, a volte arrivava persino a odiarla, ma non c’erano mai momenti in cui volesse ferirla.

«Non è vero» disse.

«Sei troppo gentile o hai troppa paura per ammetterlo, ma è vero.»

«Non lo è.»

«E sei stanco di essere un padre e un figlio.»

«Perché stai cercando di ferirmi?»

«Non sto cercando di ferirti. E ci sono cose peggiori che ferirsi a vicenda.» Sistemò sul ripiano i vari prodotti contro l’invecchiamento e la morte e disse: «Andiamo a letto».

Andiamo a letto. Queste tre parole distinguono un matrimonio da qualunque altro tipo di relazione. Non troviamo un modo per arrivare a un accordo, ma andiamo a letto. Non perché vogliamo, ma perché dobbiamo. In questo preciso momento ci odiamo, ma andiamo a letto. Nell’unico letto che abbiamo. Andiamo ciascuno dal suo lato, ma i lati dello stesso letto. Ritiriamoci in noi stessi, ma insieme. Quante conversazioni sono finite con queste tre parole? Quanti litigi?

Qualche volta andavano a letto e facevano un ultimo sforzo, a quel punto orizzontale, per risolvere le cose. Qualche volta andare a letto rendeva possibili cose che non lo erano nella stanza infinitamente grande. L’intimità di essere sotto lo stesso lenzuolo, due stufe che contribuivano al tepore comune, ma allo stesso tempo non erano costrette a vedersi. La vista del soffitto, e tutto quello che i soffitti fanno venire in mente. O forse il lobo della generosità si trovava nel retro del cervello, dove in quel momento affluiva tutto il sangue.

Qualche volta andavano a letto e rotolavano alle due estremità del materasso, che senza dirselo entrambi avrebbero desiderato di formato extra large, e desideravano senza dirselo che tutto passasse, senza riuscire a mettere a fuoco che cosa fosse quel tutto. La notte? Il matrimonio? Tutto il carico di difficoltà della vita famigliare di questa famiglia? Andavano a dormire nello stesso letto non perché non avessero scelta – kein briere iz oich a breire, come avrebbe detto il rabbino al funerale tre settimane dopo; anche non avere scelta è una scelta. Il matrimonio è il contrario del suicidio, ma è l’unico atto di volontà che abbia la stessa definitività.

Andiamo a letto...

Subito prima di stendersi, Jacob fece una faccia perplessa e si tastò le tasche inesistenti dei boxer attillati, come se di colpo si fosse reso conto che non sapeva dove aveva messo le chiavi, e disse: «Vado a fare pipì». Esattamente come faceva tutte le sere a quel punto.

Chiuse a chiave la porta, aprì il cassetto centrale dell’armadietto delle medicine, sollevò la pila di New Yorker e prese la scatola di supposte di idrocortisone acetato. Stese un asciugamano grande sul pavimento, ne arrotolò un altro a formare un cuscino, si sdraiò sul fianco sinistro con il ginocchio destro piegato, pensò a Terri Schiavo o a Bill Buckner o a Nicole Brown Simpson e la spinse dentro con delicatezza. Aveva il sospetto che Julia sapesse che cosa faceva ogni sera, ma non riusciva a imporsi di chiederglielo, perché avrebbe dovuto prima ammettere di avere un intero corpo umano. Quasi tutto del suo corpo si poteva condividere quasi sempre, così come quasi tutto quello di lei quasi sempre, ma talvolta alcune parti dovevano essere nascoste. Avevano trascorso innumerevoli ore ad analizzare la grammatica dei movimenti intestinali dei loro figli; avevano applicato la crema all’ossido di zinco direttamente con le dita nude; avevano fatto ruotare termometri rettali secondo le indicazioni della dottoressa Donowitz, per stimolare lo sfintere nel tentativo di liberare un bambino dalla stitichezza. Ma per quanto riguardava loro due, era richiesta una certa misura di negazione.

 

non ti meriti di essere scopata nel culo

 

Il buco del culo, da cui ogni membro della famiglia Bloch era, nel suo personalissimo modo, ossessionato, rappresentava l’epicentro della negazione di Jacob e Julia. Era necessario alla vita ma non andava mai nominato. Pur avendocelo, bisognava nasconderlo. Era il punto dove tutto si riconciliava – la certezza del corpo umano – e dove niente poteva andare, soprattutto non attenzione, e soprattutto non un dito o un cazzo, e soprattutto soprattutto non una lingua. Accanto al gabinetto c’erano abbastanza fiammiferi sia per accendere sia per alimentare un falò.

Tutte le sere Jacob diceva di dover andare a fare pipì e tutte le sere Julia lo aspettava e sapeva che lui nascondeva l’involucro della supposta in un involto di carta igienica sul fondo del cestino e sapeva che, quando tirava l’acqua, tirava l’acqua a vuoto. Quei minuti a nascondersi, a vergognarsi in silenzio, avevano pareti e soffitto. Proprio come i loro Shabbat e l’orgoglio confessato in un sussurro, erano diventati un’architettura del tempo. Senza bisogno di assoldare uomini nerboruti o di inviare biglietti con il cambio d’indirizzo o anche solo di sostituire una chiave all’anello del loro cuore, avevano traslocato da una casa a un’altra.

A Max piaceva giocare a nascondino e nessuno, neanche Benjy, lo sopportava. Conoscevano la casa troppo bene, l’avevano esplorata in tutti i suoi recessi, era un gioco esaurito, come la dama. Per cui Max riusciva a costringerli a giocarci solo in qualche occasione speciale (un compleanno o come premio per un atto particolarmente encomiabile). Ed era tutto noioso come tutti si aspettavano: qualcuno tratteneva il respiro dietro le camicette di Julia nell’armadio, qualcuno stava disteso nella vasca da bagno o rannicchiato sotto il lavandino, qualcuno si nascondeva tenendo gli occhi chiusi, incapace di superare la convinzione istintiva che questo lo rendesse meno visibile.

Anche quando i bambini non si stavano nascondendo, Jacob e Julia li cercavano: per paura, per amore. Ma potevano passare ore senza che notassero l’assenza di Argo. Sbucava sempre fuori quando si apriva la porta d’ingresso o scorreva l’acqua nella vasca da bagno o si metteva da mangiare in tavola. La sua ricomparsa era data per scontata. A cena Jacob cercava di stimolare una discussione animata, per aiutare i ragazzi a sviluppare eloquenza e pensiero critico. Nel mezzo di uno di quei dibattiti – doveva essere Gerusalemme o Tel Aviv la capitale di Israele? – Julia chiese se qualcuno avesse visto Argo. «La sua cena è rimasta lì.»

Dopo qualche minuto che lo chiamavano piano e lo cercavano senza scomporsi, i ragazzi cominciarono ad andare nel panico. Suonarono il campanello. Prepararono una ciotola di cibo per umani. Max suonò qualche nota a caso dal primo volume del metodo Suzuki, cosa che strappava sempre un guaito. Niente.

La porta dietro era chiusa, ma quella davanti era aperta, per cui era plausibile che fosse uscito. (Chi aveva lasciato la porta aperta? si chiese Jacob – arrabbiato, ma con nessuno in particolare.) Cercarono nei dintorni, chiamandolo, prima con amore e poi con disperazione. Alcuni vicini si unirono alla ricerca. Jacob non riuscì a non chiedersi – tenendosi la domanda per sé, naturalmente – se Argo non fosse scappato per andare a morire, come pare che facciano alcuni cani. Venne buio, era difficile vedere.

Saltò fuori che era rimasto nel bagno degli ospiti al piano di sopra. In qualche modo ci si era chiuso dentro ed era troppo vecchio o troppo buono per abbaiare. O forse, almeno finché non gli era venuta fame, aveva preferito stare lì dentro. Quella notte gli fu concesso di dormire nel lettone. E ai bambini lo stesso. Perché pensavano di averlo perso e perché era stato per tutto il tempo così vicino.

A cena, la sera dopo, Jacob disse: «È deciso: ad Argo dovrebbe essere permesso di dormire nel lettone tutte le sere». I ragazzi si misero a gridare. Sorridendo, Jacob disse: «Ne deduco che siete a favore».

Senza sorridere, Julia disse: «Alt, alt, alt».

Fu l’ultima volta che quei sei animali dormirono sotto la stessa coperta.

Jacob e Julia si nascondevano dentro il lavoro che si nascondevano a vicenda.

Cercavano la felicità che non avevano a spese della felicità di qualcun altro.

Si nascondevano dietro la gestione della vita famigliare.

Il loro cercare più puro era di Shabbat, quando chiudevano gli occhi e rinnovavano la casa e loro stessi.

Quell’architettura di minuti, quando Jacob andava in bagno e Julia non leggeva il libro che aveva in mano, era il loro nascondersi più puro.

 

adesso ti meriti di essere scopata nel culo

 

Andarono a letto, Julia in camicia da notte, Jacob in maglietta e boxer. Lei teneva il reggiseno. Diceva che il sostegno la faceva sentire più comoda, e forse questa era tutta la verità. Lui diceva che il tepore della maglietta gli facilitava il sonno e forse anche questa era tutta la verità. Spensero le luci, si tolsero gli occhiali e fissarono attraverso lo stesso soffitto, lo stesso tetto, con due paia di occhi i cui difetti si potevano compensare ma che per conto loro non sarebbero mai migliorati.

«Vorrei che mi avessi conosciuto quand’ero bambino» disse Jacob.

«Bambino?»

«O solo... prima. Prima che diventassi così

«Vorresti che ti avessi conosciuto prima che tu conoscessi me.»

«No. Non capisci.»

«Trova un altro modo per dirlo.»

«Julia, io non sono... me stesso.»

«Allora chi sei?»

Jacob avrebbe voluto piangere, ma non poteva. Ma non poteva neanche nascondere il suo nascondersi. Lei gli accarezzò i capelli. Non lo stava perdonando di niente. Di niente. Non dei messaggi, non degli anni. Ma non riusciva a non rispondere al suo bisogno. Non voleva, ma non riusciva a non farlo. Era una versione dell’amore. Ma una religione non si regge sulle doppie negazioni.

Jacob disse: «Non ho mai detto quello che provo».

«Mai?»

«No.»

«È un’accusa pesante.»

«È vero.»

«Be’» disse lei, con la prima risatina da quando aveva trovato il cellulare, «ci sono moltissime altre cose che fai bene.»

«Questo suono dice che non tutto è perduto?»

«Cosa?»

«La tua risatina.»

«Quella? No, dice che apprezzo l’ironia.»

Addormentati, implorò Jacob rivolto a se stesso. Addormentati.

«Che cosa faccio bene?» chiese.

«Parli sul serio?»

«Dimmi solo una cosa.»

Era ferito. E per quanto Julia sentisse che se lo meritava, non riusciva a sopportarlo. Aveva dedicato così tanto di sé – rinunciando a così tanto di sé – a proteggerlo. Quante esperienze, quanti argomenti di conversazione, quante parole erano stati sacrificati per placare la sua profonda vulnerabilità? Non potevano andare in una città dove lei era stata con un ragazzo vent’anni prima. Non poteva fare un’osservazione garbata sulla mancanza di regole a casa dei genitori di lui e tantomeno sulle sue scelte genitoriali che spesso assomigliavano a non scelte. Lei raccoglieva le cacche di Argo perché Argo non poteva farci niente e perché, anche se non l’aveva scelto né voluto, e anche se era un carico ingiusto, Argo era anche suo.

«Sei gentile» disse al marito.

«No. Non è affatto vero.»

«Potrei farti centinaia di esempi...»

«Tre o quattro sarebbero di estremo aiuto in questo momento.»

Julia non voleva comportarsi così, ma non poteva farne a meno.

«Riporti sempre il carrello della spesa al posto giusto. Ripieghi la tua copia del Post e la lasci per un altro lettore sulla metro. Disegni mappe per i turisti che si sono persi...»

«È gentilezza o coscienziosità

«Allora sei coscienzioso.»

Lui poteva sopportare che fosse ferita? Julia avrebbe voluto saperlo, ma non era sicura che lui gliel’avrebbe detto.

Gli chiese: «Ti rende triste che amiamo i bambini più di quanto ci amiamo tra noi?»

«Io non la metterei in questi termini.»

«No, tu diresti che io sono il tuo nemico.»

«Ero esasperato.»

«Lo so.»

«Non volevo dire quello che stavo dicendo.»

«Lo so» disse lei. «Ma lo hai detto.»

«Non credo che la rabbia riveli la verità. A volte dici delle cose e basta.»

«Lo so. Ma non credo che le cose escano fuori dal nulla.»

«Io non amo i bambini più di quanto amo te.»

«Sì, invece» disse lei. «Io sì. Magari è così che si deve fare. Magari l’evoluzione ci costringe a farlo.»

«Io ti amo» disse lui, girandosi verso di lei.

«Lo so. Non ne ho mai dubitato e non ne dubito adesso. Ma è un tipo di amore diverso da quello di cui ho bisogno.»

«E questo cosa vuol dire per noi?»

«Non lo so.»

Addormentati, Jacob.

Lui disse: «Hai presente l’effetto della novocaina che ti lascia in dubbio su dove finisca la bocca e dove cominci il mondo?»

«Credo di sì.»

«O di come a volte pensi che ci sarà un altro gradino ma non c’è e il piede inciampa in un gradino immaginario?»

«Certo.»

Perché gli era così difficile attraversare lo spazio fisico? Non avrebbe dovuto esserlo, ma lo era.

«Non so che cosa sto dicendo.»

Lei lo sentiva dibattersi.

«Cosa?»

«Non lo so.»

Lui le infilò la mano dietro ai capelli, stringendole la nuca.

«Sei stanca» disse.

«Sono proprio stremata.»

«Siamo stanchi. Non ci siamo proprio risparmiati. Dobbiamo trovare il modo di riposare.»

«Io capirei se tu avessi una storia. Mi arrabbierei e ne sarei ferita e probabilmente sarei indotta a fare qualcosa che non voglio neanche fare...»

«Come cosa?»

«Ti odierei, Jacob, ma almeno ti capirei. Ti ho sempre capito. Ricordi che te lo dicevo? Che sei l’unica persona che ha senso per me? Adesso ogni cosa che fai mi disorienta.»

«Ti disorienta?»

«La tua ossessione per gli annunci immobiliari.»

«Io non ho un’ossessione per gli annunci immobiliari.»

«Ogni volta che passo di fianco al tuo computer, lo schermo è pieno di case in vendita.»

«Sono solo curioso.»

«Ma perché? E perché non dici a Sam che è più bravo di te a scacchi?»

«Glielo dico.»

«Non è vero. Gli fai credere che lo lasci vincere. E perché sei una persona completamente diversa in situazioni diverse? Diventi silenziosamente passivo-aggressivo con me, ma scatti con i bambini, ma ti lasci mettere i piedi in testa da tuo padre. Sono dieci anni che non mi scrivi una lettera di Shabbat ma passi tutto il tuo tempo libero a lavorare a qualcosa che ami ma che non condividi con nessuno e poi scrivi quei messaggi che sostieni non significhino niente. Ho tracciato sette cerchi camminandoti intorno quando ci siamo sposati. E adesso non ti trovo più.»

«Non ho una storia.»

«Non ce l’hai?»

«Non ce l’ho.»

Julia cominciò a piangere.

«Ho scambiato dei messaggi orribilmente fuori luogo con una persona del lavoro.»

«Un’attrice.»

«No.»

«Chi?»

«È importante?»

«Se importa a me, è importante.»

«Una della regia.»

«Che si chiama come me.»

«No.»

«È quella con i capelli rossi?»

«No.»

«Sai, non m’interessa neppure.»

«Bene. Meglio così. Non c’è ragione...»

«Com’è cominciata?»

«È... evoluta. Come succede sempre. Ha preso una...»

«Non m’interessa.»

«Non siamo mai andati oltre le parole.»

«Per quanto tempo?»

«Non lo so.»

«Certo che lo sai.»

«Forse quattro mesi.»

«Mi stai chiedendo di credere che per quattro mesi hai scambiato messaggi sessualmente espliciti con una con cui lavori tutti i giorni e che questo non ha mai portato a niente di fisico?»

«Non ti sto chiedendo di credermi. Ti sto dicendo la verità.»

«La cosa triste è che ci credo.»

«Non è triste. È speranza.»

«No, è triste. Sei l’unica persona che conosco, o che potrei mai immaginare, capace di scrivere delle frasi così audaci e al tempo stesso vivere in modo così inoffensivo. In realtà credo che tu sia stato capace di scrivere a una che volevi leccarle il buco del culo e quando sei stato costretto a scoprire le carte ti sei seduto accanto a lei ogni giorno per quattro mesi interi senza permettere alla tua mano di oltrepassare i quindici centimetri che ti separavano dalla sua coscia. Senza mettere insieme il coraggio necessario. Senza mai neppure mandarle il segnale che andava bene se, data la tua codardia, prendeva lei l’iniziativa e ti metteva una mano sulla coscia. Pensa ai segnali che devi averle mandato per tenerla con la fica bagnata e la mano lontana.»

«Stai esagerando, Julia.»

«Esagerando? Dici sul serio? Sei tu in questa stanza la persona che non sa che cosa significa esagerare

«So di aver esagerato in quello che ho scritto.»

«Io ti sto dicendo che non sei stato in grado di esagerare in quello che hai vissuto.»

«Che cosa dovrebbe voler dire? Vuoi che abbia una storia?»

«No, voglio che tu mi scriva lettere di Shabbat. Ma se scrivi messaggi pornografici a un’altra, allora sì, voglio che tu abbia una storia. Perché così potrei rispettarti.»

«Quello che dici non ha senso.»

«Quello che dico ha senso eccome. Ti avrei rispettato molto, molto di più se te la fossi scopata. Mi avrebbe dimostrato qualcosa che ho trovato sempre più difficile da credere.»

«Cosa?»

«Che sei un essere umano.»

«Non credi che io sia umano?»

«Non credo che tu ci sia punto e basta.»

Jacob aprì la bocca, senza sapere che cosa gli sarebbe uscito. Avrebbe voluto renderle pan per focaccia, catalogare le sue nevrosi e irrazionalità e debolezze e ipocrisie e brutture. Avrebbe anche voluto ammettere che tutto quello che lei gli aveva detto era vero, ma contestualizzando la propria mostruosità: non era stata tutta colpa sua. Voleva cementare mattoni con una mano e romperli a martellate con l’altra.

Ma invece della voce di Jacob, sentirono quella di Benjy: «Venite! Venite!»

Julia scoppiò a ridere.

«Perché ridi?»

«Non significa che non tutto è perduto.»

Era la risata nervosa dei litigi. La risata cupa della consapevolezza della fine. La risata religiosa dell’incredulità.

Benjy chiamò di nuovo attraverso il monitor: «Qualcuno! Qualcuno!»

Si zittirono.

Julia scrutò il buio in cerca degli occhi del marito, per scrutarli.

«Qualcuno!»

La parola con la n

Quando Jacob tornò dopo aver calmato Benjy, Julia si era addormentata. O imitava in modo perfettamente credibile una persona che dormiva. Jacob era agitato. Non voleva leggere – né un libro né una rivista, nemmeno un blog di annunci immobiliari. Non voleva guardare la televisione. Scrivere era fuori questione. Masturbarsi, idem. Non gli andava nessuna attività, qualunque cosa gli sarebbe sembrata una recita, come se fingesse di essere una persona.

Andò alla stanza di Sam, sperando di poter trascorrere qualche momento di pace osservando il corpo dormiente del suo primogenito. Una luce instabile filtrava nel corridoio da sotto la porta, poi si ritirava: onde dall’oceano digitale dall’altra parte. Sam, sempre vigile sulla propria privacy, aveva sentito il passo pesante di suo padre.

«Papà?»

«L’unico e solitario.»

«Allora... Te ne stai lì? Hai bisogno di qualcosa?»

«Posso entrare?»

Senza aspettare una risposta, Jacob aprì la porta.

«Era una domanda retorica?» chiese Sam, senza distogliere gli occhi dallo schermo.

«Che cosa stai facendo?»

«Guardo la tv.»

«Non hai una tv.»

«Sul computer.»

«Quindi non stai guardando il computer?»

«Certo.»

«Cosa trasmettono?»

«Tutto.»

«Che cosa stai guardando?»

«Niente.»

«Hai un secondo?»

«Sì: uno...»

«Era una domanda retorica.»

«Ah

«Come va?»

«È una conversazione?»

«Sono solo venuto a vedere come va.»

«Bene.»

«Non è stupendo sentirsi bene?»

«Cosa?»

«Non so. Mi sa che l’ho sentita da qualche parte. Allora... Sam.»

«Già, provaci ancora...»

«Buona questa. Comunque, senti. Mi dispiace dover affrontare questo discorso. Ma devo. La cosa di stamattina alla scuola ebraica.»

«Non sono stato io.»

«Bene. È solo...»

«Non mi credi?»

«Il problema non è neanche questo.»

«Sì, invece.»

«Sarebbe molto più facile tirarti fuori da questa faccenda se tu avessi qualche spiegazione alternativa.»

«Non ce l’ho.»

«Un certo numero di quelle parole non sono particolarmente gravi. Detto tra noi, non mi darebbero fastidio neanche se le avessi scritte davvero.»

«Non le ho scritte.»

«Ma la parola che comincia con la n.»

Sam rivolse finalmente l’attenzione a suo padre.

«Quale, divorzio

«Cosa?»

«Lascia stare.»

«Perché hai detto questa cosa?»

«Non l’ho detta.»

«Stai parlando di me e della mamma?»

«Non lo so. Non riesco neanche a sentirmi tra litigi e vetri che si rompono.»

«Prima? No, quello che hai sentito...»

«A posto. Mamma è salita e abbiamo parlato un po’.»

Jacob lanciò un’occhiata alla tv sul computer. Pensò a Guy de Maupassant che pranzava tutti i giorni al ristorante sulla Tour Eiffel perché era l’unico posto di Parigi da cui non si vedesse la torre. I Nats stavano giocando con i Dodgers, extra inning. Con un accesso di entusiasmo improvviso, batté le mani. «Andiamo alla partita, domani!»

«Eh?»

«Ci divertiamo! Potremmo arrivare presto per esercitarci nella battuta. Mangiare tonnellate di merda.»

«Mangiare tonnellate di merda?»

«Schifezze.»

«Ti va bene se mi guardo questa e basta?»

«Ma ho avuto un’idea grandiosa.»

«Ah sì?»

«Ah no?»

«Ho calcio e violoncello e le lezioni per il Bar Mitzvah, sempre che si faccia ancora, Dio ce ne scampi.»

«Posso esonerarti.»

«Dalla mia vita?»

«Temo che a quella posso solo farti partecipare.»

«E poi giocano a Los Angeles.»

«Giusto» disse Jacob, e più piano: «Avrei dovuto capirlo».

Quella voce silenziosa indusse Sam a chiedersi se avesse ferito suo padre. Provò il brivido di una sensazione che, pur riconoscendone la totale assurdità, avrebbe provato con crescente frequenza e intensità negli anni a venire: che forse tutto era almeno un po’ colpa sua.

«Finiamo la partita a scacchi?»

«Naaa.»

«Hai soldi a sufficienza?»

«Sì.»

«E questa cosa della scuola ebraica. Ovviamente non è per il nonno, vero?»

«No, a meno che non sia anche il nonno di chiunque sia stato.»

«Lo pensavo anch’io. Comunque...»

«Papà, Billie è nera, quindi come potrei essere razzista?»

«Billie?»

«La ragazza di cui sono innamorato.»

«Hai una ragazza?»

«No.»

«Non ti seguo.»

«È la ragazza di cui sono innamorato

«Okay. E hai detto Billie? Ma è una ragazza, giusto?»

«Sì. Ed è nera. Quindi come potrei essere razzista?»

«Non sono sicuro che il ragionamento funzioni.»

«Funziona.»

«Sai chi sono quelli che stanno sempre a ribadire che alcuni dei loro migliori amici sono neri? Quelli che sono a disagio con i neri.»

«Nessuno dei miei migliori amici è nero.»

«E per quel che vale, sono abbastanza sicuro che preferiscano la dicitura afroamericano

«Dicitura?»

«Terminologia.»

«Non dovrebbe essere quello innamorato di una ragazza nera a stabilire la dicitura?»

«Non è il corvo che dice al merlo quanto è afroamericano?»

«Il corvo?»

«Era una battuta. È un nome interessante, tutto qui. Non è un giudizio. Tu sai che hai il nome di un pro-prozio che è morto a Birkenau. Gli ebrei hanno sempre bisogno che ci sia qualche significato annesso.»

«Qualche sofferenza, volevi dire.»

«I gentili scelgono un nome perché suona bene. Oppure se lo inventano.»

«Billie si chiama così per Billie Holiday.»

«Quindi è l’eccezione che conferma la regola.»

«Tu da chi hai preso il nome?» chiese Sam, facendo la piccola concessione del suo interesse in cambio del senso di colpa per aver ridotto la voce di suo padre a una tristezza silenziosa.

«Un lontano parente di nome Yakov. Di cui si dice che fosse eccezionale, fuori dall’ordinario. Pare avesse fracassato la testa di un cosacco a mani nude.»

«Fico.»

«Io evidentemente non sono così forte.»

«Ma non conosciamo neanche nessun cosacco.»

«E al massimo sono ordinario.»

Uno dei loro stomaci brontolò, ma nessuno dei due capì quale.

«Be’, in sostanza, secondo me è stupendo che tu abbia una ragazza.»

«Non è la mia ragazza.»

«La dicitura colpisce ancora. Secondo me è stupendo che tu sia innamorato.»

«Non sono innamorato. La amo.»

«Qualunque cosa sia, è chiaro che rimane tra noi. Puoi contare su di me.»

«Ne ho già parlato alla mamma.»

«Davvero? Quando?»

«Non lo so. Un paio di settimane fa?»

«È una notizia vecchia?»

«È tutto relativo.»

Jacob fissò lo schermo di Sam. Era questo ad attirare Sam? Non la capacità di essere altrove, ma di non essere da nessuna parte?

«Che cosa le hai detto?» chiese Jacob.

«A chi?»

«A tua madre.»

«Vuoi dire alla mamma

«Proprio lei.»

«Non lo so.»

«Non lo sai nel senso che non hai voglia di parlarne con me adesso?»

«Giusto.»

«È strano, perché lei è convinta che tu le abbia scritte, quelle parole.»

«Non le ho scritte.»

«Okay. Ti sto dando fastidio. Me ne vado.»

«Non ho detto che mi stavi dando fastidio.»

Jacob si mosse verso la porta per andarsene, ma si fermò. «Vuoi sentire una barzelletta?»

«No.»

«È sporca.»

«Allora assolutamente no

«Qual è la differenza tra una Subaru e un’erezione?»

«No vuol dire no.»

«Davvero. Qual è la differenza?»

«Davvero, non mi interessa.»

Jacob si allungò in avanti e sussurrò: «Io non ho una Subaru».

Suo malgrado, Sam scoppiò in una grassa risata, con tanto di sbuffi e sputi. Jacob rise non per la barzelletta ma per la risata di suo figlio. Risero insieme a crepapelle, sguaiatamente.

Sam si sforzò senza successo di riprendere un contegno e disse: «La cosa buffa... la cosa proprio buffa... è... che tu hai una Subaru».

E risero ancora di più e Jacob sputò un po’ e gli vennero le lacrime agli occhi e ricordò com’era orribile avere l’età di Sam, com’era penoso e ingiusto.

«È vero» disse Jacob. «Ho proprio una Subaru. Avrei dovuto dire una Toyota. Dove avevo la testa?»

«Dove avevi la testa?»

Dove aveva la testa?

Si calmarono.

Jacob arrotolò di un altro giro le maniche della camicia: un po’ stretto, ma le voleva sopra il gomito.

«Secondo mamma bisogna che ti scusi.»

«E secondo te?»

In tasca, chiuse la mano intorno a niente, intorno a un coltello, e disse: «Anche».

L’unico e falso.

«Okay, allora» disse Sam.

«Non sarà così terribile.»

«Sì, invece.»

«Sì» disse Jacob, dando a Sam un bacio sopra la testa: l’ultimo punto baciabile. «Sarà uno schifo.»

Sulla porta, Jacob si girò.

«Come va in Other Life?»

«Eh.»

«Su cosa stai lavorando?»

«Sto costruendo una nuova sinagoga.»

«Davvero?»

«Sì.»

«Posso chiederti perché?»

«Perché ho distrutto la vecchia sinagoga.»

«Distrutto? Tipo con una sfera da demolizione?»

«Tipo.»

«Quindi adesso te ne costruisci una per te?»

«Avevo costruito anche quella vecchia.»

«Alla mamma piacerebbe tantissimo» disse Jacob, capendo la genialità e la bellezza di quello che Sam non condivideva mai. «E probabilmente avrebbe milioni di idee.»

«Ti prego, non dirglielo.»

Jacob provò una punta di piacere che non avrebbe voluto. Fece di sì con la testa e disse: «Ma certo», poi scosse la testa e disse: «Non lo farei mai».

«Okay» disse Sam, «quindi, se non c’è altro...»

«E la vecchia sinagoga? Perché l’avevi costruita?»

«Per poterla far saltare in aria.»

«Farla saltare in aria? Sai, se io fossi un padre diverso e tu fossi un figlio diverso, probabilmente mi sentirei obbligato a denunciarti all’FBI.»

«Ma se tu fossi un padre diverso e io un figlio diverso, non avrei avuto bisogno di far saltare in aria una sinagoga virtuale.»

«Touché» disse Jacob. «Ma non è possibile che tu non la stessi costruendo per distruggerla? O almeno non solo per distruggerla?»

«No, non è possibile.»

«Come, tipo, magari stavi cercando di ottenere qualcosa di esattamente giusto e siccome non lo era non hai potuto far altro che distruggerla?»

«Nessuno mi crede.»

«Io sì. Io credo che tu voglia che le cose siano giuste.»

«Tu non capisci e basta» disse Sam, perché non avrebbe mai ammesso che suo padre aveva capito qualcosa. Ma suo padre aveva capito. Sam non aveva costruito la sinagoga per distruggerla. Non era uno di quei nonsocosa dei mandala di sabbia tibetani che era stato costretto a sorbirsi durante un tragitto in macchina: cinque tizi che lavorano in silenzio per migliaia di ore su un progetto artistico-artigianale la cui funzione è di non avere funzione. («E io che pensavo che l’opposto degli ebrei fossero i nazisti» aveva detto suo padre, scollegando il telefono dallo stereo dell’auto.) No, lui aveva costruito la sinagoga nella speranza di sentirsi, finalmente, a proprio agio da qualche parte. Non era semplicemente che la poteva creare secondo le proprie personali specifiche esoteriche; lui poteva essere lì senza esserci. Non come la masturbazione. Ma come per la masturbazione, se non era esattamente giusto era completamente e irrimediabilmente sbagliato. A volte, nel peggior momento possibile, il suo Es ubriaco virava di colpo e nel suo faro mentale diventava Rabbi Singer o Seal (il cantante) o sua madre. E non c’era mai modo di tornare indietro. Anche con la sinagoga, la minima imperfezione – una rotonda infinitesimamente asimmetrica, scale con l’alzata troppo alta per bambini bassi, una stella di Davide capovolta – e tutto doveva sparire. Non era una reazione impulsiva. Era attenzione e cura. Non avrebbe potuto aggiustare quello che non andava bene? No. Perché avrebbe sempre saputo che era stato sbagliato: «Quella è la stella che una volta era stata appesa capovolta». Per un altro la correzione l’avrebbe reso ancora più perfetto che se fosse stato giusto la prima volta. Sam non era un altro. E neppure Samanta.

Jacob si sedette sul letto di Sam e disse: «Quand’ero giovane, forse alle superiori, mi piaceva trascrivere i testi delle mie canzoni preferite. Non so perché. Credo perché mi dava quella sensazione di quando le cose sono al posto giusto. Comunque, era molto prima di internet. Quindi mi mettevo lì con il mio walkman...»

«Il tuo walkman

«Un piccolo registratore con le cuffiette.»

«Dicevo per sfotterti.»

«D’accordo... be’... mi mettevo lì con il mio walkman e ascoltavo una canzone per un secondo o due, poi scrivevo quello che avevo sentito, poi riavvolgevo e riascoltavo di nuovo per essere sicuro di aver capito bene e poi andavo avanti e scrivevo un altro po’, poi riavvolgevo per riascoltare le parti che non avevo sentito bene o che non ero sicuro di avere sentito, poi scrivevo. Riavvolgere un nastro è un’operazione imprecisa, per cui finivo inevitabilmente troppo indietro o non abbastanza indietro. Era incredibilmente laborioso. Ma mi piaceva un sacco. Mi piaceva la cura che richiedeva. Mi piaceva la sensazione di farlo bene. Ho passato chissà quante migliaia di ore così. Qualche volta un testo mi metteva davvero in difficoltà, soprattutto quando arrivarono il grunge e l’hip-hop. E non mi accontentavo di tirare a indovinare, perché avrebbe rovinato tutto il senso di scrivere il testo: capire bene. Qualche volta dovevo ascoltare lo stesso pezzetto a oltranza, decine di volte, centinaia. Ascoltavo quel pezzo fino a consumare il nastro, letteralmente, al punto che quando dopo riascoltavo la canzone, la parte che avevo voluto capire meglio di tutte non c’era più. Mi ricordo una frase di All Apologies... la conosci, giusto?»

«No.»

«Nirvana? Bella, bella, bellissima canzone. Comunque, a Kurt Cobain sembrava che le rotelle gli fossero rotolate in bocca e c’era una frase che avevo trovato particolarmente difficile da decifrare. L’ipotesi migliore che avevo formulato, dopo centinaia di ascolti, era stata I can see from shame. Non mi sono reso conto che mi ero sbagliato fino a molti anni dopo, mentre la stavo cantando a squarciagola come un idiota, con la mamma. Eravamo sposati da poco.»

«Lei ti ha fatto notare che ti eri sbagliato?»

«Sì.»

«È proprio tipico di mamma.»

«Io le sono stato grato.»

«Ma stavi cantando.»

«Cantando sbagliato.»

«Vabbè. Avrebbe dovuto lasciar perdere.»

«No, ha fatto la cosa giusta.»

«E quindi qual è il testo giusto?»

«Tieniti forte. Era: aqua seafoam shame

«Non ci credo.»

«Vero?»

«E che cosa dovrebbe voler dire?»

«Non vuol dire niente. Era stato quello il mio errore. Ero convinto che dovesse voler dire qualcosa.»


II

Imparare l’impermanenza

Antietam

Né Jacob né Julia capirono esattamente che cosa stava succedendo in quelle due prime settimane dopo che Julia ebbe scoperto il cellulare: che cosa era stato concordato, implicato, affrontato in via ipotetica, chiesto. Nessuno dei due capiva che cos’era reale. Era come muoversi fra tante mine emotive; procedevano da un’ora all’altra e da una stanza all’altra con i cuori in punta di piedi, con grosse cuffie collegate a sensibilissimi metal detector capaci di scovare tracce di sentimenti sepolti, anche a costo di tagliare fuori il resto della vita.


Nel corso di una colazione che a un pubblico televisivo sarebbe potuta sembrare in tutto e per tutto felice, Julia disse con la testa nel frigo: «Rimaniamo sempre senza latte», e attraverso le proprie cuffie Jacob sentì: «Non ti sei mai preso abbastanza cura di noi», ma non sentì Max che diceva: «Non venite allo spettacolo della scuola domani».


E il giorno dopo, alla scuola di Max, costretti a condividere lo spazio angusto dell’ascensore, insieme da soli, Jacob disse: «Il pulsante per chiudere la porta non è collegato a niente. Puramente psicologico». Attraverso le proprie cuffie, Julia sentì: «Facciamola finita». Ma non si sentì dire: «Pensavo che tutto fosse puramente psicologico». Che, attraverso le cuffie di Jacob, suonò come: «Anni e anni di terapia e sei quello che sa meno sulla felicità». E non si sentì dire: «C’è puro e puro». Un genitore probabilmente soddisfatto di una famiglia probabilmente intatta entrò e chiese a Jacob se aveva premuto apposta il bottone per aprire la porta.


Tutto quell’andare in punta di piedi, tutte quelle preziose sovrainterpretazioni e quelle elusioni, e alla fine non era affatto un campo minato. Era un campo di battaglia della Guerra di secessione. Jacob aveva portato Sam ad Antietam, esattamente come Irv ci aveva portato Jacob. E anche lui aveva tenuto un discorso analogo sul privilegio di essere americano. Sam aveva trovato un proiettile semisepolto. Le armi nel terreno di Jacob e Julia erano altrettanto innocue: residui di vecchie battaglie, potevano essere esaminate, esplorate, persino soppesate in tutta sicurezza. Se avessero saputo che non c’era da averne paura.


Le consuetudini domestiche erano così ben radicate che sfuggirsi era abbastanza facile e passava inosservato. Lei si faceva la doccia, lui preparava la colazione. Lei serviva la colazione, lui si faceva la doccia. Lui supervisionava il lavaggio dei denti, lei metteva i vestiti sui letti, lui verificava i contenuti degli zaini, lei controllava il meteo e adeguava le giacche, lui metteva in moto Ed la Iena (per scaldarla nei sei mesi di freddo eccessivo, per raffreddarla nei sei mesi di caldo eccessivo), lei accompagnava fuori i ragazzi e faceva un passo sulla Newark per controllare se giù dalla collina arrivavano macchine, lui faceva retromarcia.


Trovarono due posti nelle prime file dell’auditorium, ma dopo aver posato la borsa Jacob disse: «Vado a prendere due tazze di caffè». Cosa che fece. E poi aspettò all’ingresso della scuola fino a tre minuti prima che alzassero il sipario. A metà di un’esecuzione priva di talento di Let it Go, Jacob sussurrò all’orecchio di Julia: «Quella ragazza dovrebbe davvero lasciar perdere». Nessuna risposta. Un gruppo di ragazzini rifece una scena di Avatar. Quella che probabilmente era una ragazza usò tipi diversi di pasta per spiegare come funziona l’euro. Né Jacob né Julia volevano ammettere di non sapere che cosa avrebbe fatto Max. Nessuno dei due riusciva a sopportare la vergogna di essere stato troppo preso dalle proprie ferite personali per prestare attenzione al figlio. E nessuno riusciva a sopportare la vergogna che l’altro fosse stato un genitore migliore. Ciascuno in privato ipotizzò che Max avrebbe fatto il trucco di carte che gli aveva insegnato il mago al quarantesimo compleanno di Julia. Due ragazze fecero quel giochino con i bicchieri mentre cantavano When I’m Gone di Anna Kendrick, e Jacob sussurrò: «E allora vai».


«Eh?»


«No. Lei. Quella che canta.»


«Fai il bravo.»


Per il finale, gli insegnanti di musica e teatro erano saliti insieme sul palco per una versione edulcorata della prima scena di The Book of Mormon – così avevano realizzato il proprio sogno, e anche fatto capire perché era solo un sogno. Molti applausi, un breve ringraziamento dal preside e i ragazzi uscirono in fila per tornare in classe.


Jacob e Julia tornarono in silenzio alle loro macchine. E dello spettacolo non fu fatta parola quella sera a casa. Max si era tirato indietro all’ultimo? Si considerava privo di talento? La sua astensione era un atto di aggressione o un grido d’aiuto? Se avessero posto a lui una qualunque di quelle domande, Max avrebbe sottolineato che aveva detto di non andare.


Tre sere dopo, quando Jacob arrivò a letto dopo avere aspettato l’ora stabilita, trovò Julia che stava ancora leggendo, per cui disse: «Oh, ho dimenticato una cosa», e tornò giù a non leggere il giornale mentre non guardava un’altra puntata di Homeland, dispiacendosi, come spesso gli capitava, che Mandy Patinkin non avesse dieci anni di più – sarebbe stato perfetto per interpretare Irv.


Due giorni dopo, Julia entrò nella dispensa, dove Jacob stava controllando se per caso negli ultimi dieci minuti qualche centinaio di miliardi di atomi si fossero spontaneamente organizzati in una merendina malsana. Julia girò sui tacchi e se ne andò. (A differenza di Jacob, non dava mai una parvenza di spiegazione per allontanarsi da lui, non aveva mai «dimenticato qualcosa».) La dispensa non era tra gli spazi assegnati in via ufficiosa – come la stanza della tv era di Jacob e il salottino era di Julia – ma era troppo piccola per starci in due.


Il decimo giorno, Jacob aprì la porta del bagno e vide Julia che si stava asciugando. Julia si coprì. Jacob l’aveva vista uscire dalla vasca centinaia di volte, aveva visto tre figli uscire dal suo corpo. L’aveva vista vestirsi e svestirsi migliaia e migliaia di volte più due all’alberghetto in Pennsylvania. Avevano fatto l’amore in ogni posizione, offrendo ogni prospettiva di ogni parte del corpo. «Scusa» disse lui, senza sapere a che cosa si riferisse con quella parola, solo che con il piede aveva quasi innescato una mina.


O forse si era imbattuto nel residuo di una vecchia battaglia che avrebbe potuto esaminare, esplorare, persino soppesare in tutta sicurezza.


E se, invece di scusarsi e voltarsi, le avesse chiesto se quello di nascondersi fosse un bisogno nuovo o un bisogno vecchio con una nuova giustificazione?


Quando la linea difensiva di Robert E. Lee a Petersburg era stata infranta e l’evacuazione di Richmond era imminente, Jefferson Davis aveva ordinato di portare via il tesoro dei Confederati. Viaggiò in treno e poi su un carro, sotto moltissimi occhi e moltissime mani. L’Unione avanzava, la Confederazione si sgretolò e dove siano finite quelle cinque tonnellate di lingotti d’oro rimane un mistero, anche se si presume che siano sepolte da qualche parte.


E se, invece di scusarsi e voltarsi, fosse andato da lei, l’avesse toccata, le avesse mostrato che non solo voleva ancora fare l’amore con lei ma era ancora capace di rischiare un rifiuto?


La prima volta che Jacob era andato in Israele, suo cugino Shlomo aveva portato la famiglia alla Cupola della Roccia, dove all’epoca potevano entrare anche i non musulmani. Jacob si era profondamente commosso per la devozione degli uomini sui tappeti da preghiera, come si era commosso per gli ebrei lì sotto. Ma si era commosso di più perché la devozione era meno impacciata: al Muro del Pianto gli uomini si limitavano a ondeggiare; qui piangevano. Shlomo aveva spiegato che si trovavano sopra una grotta scavata nella Pietra della Fondazione. E nel pavimento di questa grotta c’era una lieve depressione che si pensava fosse sopra un’altra grotta, cui spesso si faceva riferimento come il Pozzo delle Anime. Era lì che Abramo aveva risposto alla chiamata divina e preparato il sacrificio dell’amato figlio; era lì che Maometto era asceso al cielo; lì che era sepolta l’Arca dell’Alleanza, piena di tavolette rotte e intere. Secondo il Talmud, quella pietra segna il centro del mondo e serve per coprire l’abisso in cui ancora infuriano le acque del Diluvio.


«Ci troviamo sopra il più importante sito archeologico che non ci sarà mai al mondo» disse Shlomo, «pieno di oggetti preziosissimi, un luogo dove storia e religione si incontrano. Tutto sottoterra, intoccabile.»


Irv era stato categorico: Israele doveva scavare a qualunque costo. Era un obbligo storico, culturale e intellettuale. Ma per Jacob, finché quelle cose rimanevano sepolte – finché non potevano essere viste o toccate – rimanevano irreali. Quindi era meglio tenerle fuori dalla vista.


E se, invece di scusarsi e voltarsi, Jacob fosse andato da Julia e le avesse sollevato l’asciugamano come le aveva sollevato il velo prima del matrimonio, confermando che lei era ancora la donna che diceva di essere, la donna che lui ancora voleva?


Jacob cercava di mantenere le conversazioni con Julia sottoterra, ma lei aveva bisogno che la fine della loro famiglia fosse vista e toccata. Esprimeva il suo immutato rispetto per Jacob, il suo desiderio che restassero amici, migliori amici, e con una buona cooperazione genitoriale, la migliore, e che facessero ricorso a un mediatore famigliare per non perdersi in tutto quello di cui non bisognava occuparsi e preoccuparsi e che vivessero vicini e andassero in vacanza insieme e ballassero insieme ai rispettivi secondi matrimoni, anche se lei giurava che non si sarebbe mai risposata. Jacob concordava, senza credere che nulla di quello che lei diceva stesse succedendo o sarebbe successo. Avevano vissuto così tanti passaggi necessari: gli addormentamenti dei bambini, le dentizioni, le cadute dalle prime biciclette, la fisioterapia di Sam. Anche questo probabilmente sarebbe passato.


Erano in grado di tenere la rotta per casa evitandosi e di tenere la rotta nelle conversazioni mantenendo l’illusione della sicurezza, ma non c’era un sottoterra quando uno dei figli era nella stanza o nella conversazione. Molte volte, Julia vedeva uno dei ragazzi – Benjy che alzava gli occhi pensieroso da un disegno di Ulisse di fronte ai ciclopi, Max che si scrutava i peli del braccio, Sam che metteva i salvabuchi alle pagine che ne avevano bisogno nel quadernone ad anelli – e pensava: non posso.


E Jacob pensava: non lo faremo.

Damasco

Il giorno prima che iniziasse la distruzione di Israele, Julia e Sam si stavano affannando a radunare le loro cose per evitare che Mohammed, l’autista Uber, finisse per assegnargli una sola stella, suggellando così il loro destino di passeggeri haram. Jacob stava preparando Benjy, vestito da pirata, per andare dai nonni.

«Hai preso tutto?» chiese Julia a Sam.

«» disse lui, incapace dello sforzo erculeo di nascondere il suo immotivato fastidio.

«Non usare quel tono con la mamma» disse Jacob a beneficio di Julia e di se stesso. Era stato difficile trovare il cameratismo in quelle ultime due settimane: non che ci fosse stata crudeltà, solo assenza di interazione diretta. C’erano stati alcuni momenti, di solito innescati da uno stupore condiviso per qualcosa che uno dei ragazzi aveva detto o fatto, in cui Jacob e Julia si erano ritrovati a indossare la stessa uniforme. Il giorno in cui Oliver Sacks era morto, Jacob aveva raccontato ai ragazzi alcuni aneddoti della vita del suo eroe, spiegando la vastità dei suoi interessi, la sua omosessualità non dichiarata, il famoso uso che aveva fatto della L-dopa con materiale umano, e di come la persona forse più curiosa e impegnata degli ultimi cinquant’anni avesse passato più di trenta di quegli anni casto.

«Casto?» chiese Max.

«Senza fare sesso.»

«E allora?»

«E allora aveva una gran voglia di assorbire tutto quello che il mondo aveva da offrire ma non voleva o non poteva condividere se stesso.»

«Magari era impotente» ipotizzò Julia.

«No» disse Jacob, sentendo la ferita aprirsi, «è solo che lui...»

«O magari era paziente.»

«Io sono casto» disse Benjy.

«Tu?» disse Sam. «Tu hai avuto più donne di Wilt Chamberlain.»

«No, chiunque sia, io non sono lui, e non ho infilato il mio pene nella vagina di un’altra persona.»

Come rivendicazione della propria castità era piuttosto buffa. Il riferimento alla «vagina di un’altra persona» era piuttosto buffo. Ma diceva cose più buffe, cose più precoci, ogni due per tre. Questa non sembrava una metafora o una casuale perla di saggezza. Non toccava un nervo scoperto. Ma per la prima volta da quando aveva scoperto il cellulare, Julia era stata costretta a guardare Jacob negli occhi. E in quel momento lui aveva sentito con certezza che avrebbero ritrovato il modo.

Ma adesso il cameratismo scarseggiava.

«Che cos’ho detto?» chiese Sam.

«Il punto è come l’hai detto» disse Jacob.

«E come ho detto qualunque cosa abbia detto?»

«Così» disse Jacob imitando il «sì» di Sam.

«Sono in grado di gestire da sola la mia metà di conversazione con mio figlio» disse Julia a Jacob. Poi chiese a Sam: «Ti sei ricordato dello spazzolino?»

«Ma certo che ha lo spazzolino» disse Jacob, facendo un piccolo cambio di alleanza.

«Merda» disse Sam, facendo dietrofront e correndo su per le scale.

«Avrebbe voluto che fossi tu l’accompagnatore maschile» disse Julia.

«No. Secondo me non è vero.»

Julia prese in braccio Benjy e disse: «Mi mancherai, ometto».

«Opi ha detto che a casa sua posso dire le parolacce.»

«A casa sua fa lui le regole» disse Jacob.

«Be’, no» lo corresse Julia.

«Merda o pene...»

«Pene non è una parolaccia» disse Jacob.

«Dubito che a Omi piacerebbe se parlassi così.»

«Opi ha detto che non conta.»

«Non hai capito bene.»

«Ha detto: ‘Omi non conta’.»

«Stava scherzando» disse Jacob.

«Stronzo è una parolaccia.»

Sam tornò giù dalle scale con lo spazzolino da denti.

«Scarpe eleganti?» chiese Julia.

«Caaazzooo

«Anche cazzo» disse Benjy.

Sam corse su per le scale.

«Magari stargli un po’ meno addosso?» suggerì Jacob in forma di domanda apparentemente rivolta alla loro coscienza collettiva.

«Non mi pare di essere stata invadente.»

«Ma certo che no. Volevo solo dire che il cattivo della compagnia può farlo Mark. Se è necessario.»

«Si spera che non lo sia.»

«Quaranta adolescenti lontani da casa?»

«Non descriverei Sam come un adolescente.»

«Adolescente?» chiese Benjy.

«Sono contento che ci sia Mark» disse Jacob. «Sai, magari non te lo ricordi neanche, ma mi hai detto una cosa su di lui, un paio di settimane fa, nel contesto di...»

«Mi ricordo.»

«Ci siamo detti molte cose.»

«Sì.»

«Volevo solo dirtelo.»

«Non sono sicura di aver capito.»

«Solo quello.»

«Sfrutta l’opportunità per conoscerlo un po’» disse Julia, cambiando argomento.

«Max?»

«Non restatevene ognuno nel proprio mondo.»

«Io non ho un mondo, per cui non dovrebbe essere un problema.»

«Sarà divertente andare a prendere gli israeliani domani.»

«Ah sì?»

«Tu e Max potete fare Team America.»

Max venne giù dalle scale. «Perché parlate di me?»

«Non stiamo parlando di te» disse Jacob.

«Stavo solo dicendo a papà che voi due dovreste trovare delle cose da fare insieme mentre noi siamo via.»

Suonò il campanello.

«I miei» disse Jacob.

«Insieme insieme?» bisbigliò Max a Julia.

Jacob aprì la porta. Benjy si liberò dall’abbraccio di Julia e corse da Deborah.

«Omi!»

«Ciao, Omi» disse Max.

«Ho l’Ebola?» chiese Irv.

«Ebola?»

«Ciao, Opi.»

«Bel costume da Moshe Dayan.»

«Sono un pirata

Irv si abbassò all’altezza di Benjy e interpretò quella che poteva benissimo essere un’imitazione perfetta di Dayan, a sapere com’era Dayan: «I siriani impareranno presto che la strada che porta da Damasco a Gerusalemme va anche da Gerusalemme a Damasco!»

«Arrrggg!»

«Ti ho scritto i suoi orari» disse Julia a Deborah. «E ti ho preparato una borsa con un po’ di cose pronte da mangiare.»

«Ho preparato da mangiare una o due milioni di volte, ai miei tempi.»

«Lo so» disse Julia, cercando di ricambiare l’evidente affetto di Deborah. «Volevo solo facilitarti le cose il più possibile.»

«Ho un freezer pieno di cibo congelatissimo» disse Deborah a Benjy.

«Strisce di pancetta vegetariana Morningstar Farms?»

«Mmm.»

«Caaazzooo!»

«Benjy!»

Sam arrivò correndo giù dalle scale con le scarpe, si fermò, disse «Merda!» e corse di nuovo su.

«Moderiamo il linguaggio» disse Julia.

«Papà dice che non esistono brutte parole.»

«Ho detto che esiste un cattivo uso delle parole. E questo era un cattivo uso.»

«Facciamo le ore piccole?» chiese Irv a Benjy.

«Non lo so.»

«Non troppo piccole» disse Julia a Deborah.

«E domani andiamo a prendere gli israeliani?»

«Lo porto allo zoo» disse Deborah. «Ti ricordi?»

Irv si rivolse al proprio telefono: «Siri, mi ricordo di cosa sta parlando questa donna?»

Sam corse giù dalle scale con una cintura.

«Ciao, ragazzo» disse Irv.

«Ciao, Opi. Ciao, Omi.»

«Tutto a posto con gli insulti?»

«Non sono stato io.»

«Sai, una volta ho accompagnato la classe di tuo padre a una Simulazione ONU.»

«Non è vero» disse Jacob.

«Sì che è vero.»

«Credimi, non è vero.»

«Hai ragione» disse Irv, facendo l’occhiolino a Sam. «Stavo pensando alla volta che l’ho accompagnato all’ONU vera.» E poi, dandosi un buffetto sulla mano. «Pessimo padre.»

«Mi hai dimenticato lì.»

«Non per sempre, evidentemente.» E poi, a Sam: «Sei pronto a fargli vedere i sorci verdi, a quelli?»

«Credo di sì.»

«Ricordati, se fanno sedere una delegazione della cosiddetta Palestina, tu gli dici come stanno le cose, poi ti alzi e te ne vai. Mi hai sentito. Picchia con la lingua e fai parlare i piedi.»

«Noi rappresentiamo la Micronesia...»

«Siri, cos’è la Micronesia?»

«E sai, noi discutiamo risoluzioni e affrontiamo le eventuali crisi che tireranno fuori.»

«Che tireranno fuori chi? Gli arabi?»

«I facilitatori.»

«Sa quello che fa, papà.»

Tre suoni prolungati poi nove colpetti di clacson – sh’varimteruah.

«Mohammed sta perdendo la pazienza» disse Julia.

«E non è mai stata la sua dote migliore» disse Irv.

«Sarà meglio che andiamo» disse Julia.

«Anche noi andiamo» disse Deborah. «Abbiamo una giornata piena di programmi: storie, attività manuali, passeggiata nella natura...»

«... mangiare schifezze, prendere in giro Charlie Rose...»

«Argo!» chiamò Jacob.

«Io adoro le schifezze.»

«Noi andiamo dal veterinario» spiegò Max a Deborah.

«Va tutto bene» disse Jacob, per alleviare una preoccupazione che nessuno sentiva.

«A parte il fatto che fa la cacca in casa due volte al giorno» disse Max.

«È vecchio. È normale.»

«Il bisnonno fa la cacca in casa due volte al giorno?» chiese Benjy.

Silenzio, mentre ciascuno ammetteva fra sé che, essendosi le loro visite estremamente diradate, era impossibile escludere la possibilità che Isaac facesse la cacca in casa due volte al giorno.

«In realtà, tutti fanno la cacca in casa due volte al giorno, o no?» chiese Benjy.

«Tuo fratello intendeva in casa, ma non in bagno.»

«Il bisnonno ha una sacca per colostomia» disse Irv. «Ovunque vada, lì c’è la sua cacca.»

«Cos’è la sacca qualcosa?» chiese Benjy.

Jacob si schiarì la gola e cominciò: «L’intestino del bisnonno...»

«È tipo una doggy bag, ma per la cacca» disse Irv. «Come quelle che ti danno al ristorante per gli avanzi.»

«Ma perché dovrebbe volersela mangiare dopo?» chiese Benjy.

«Magari qualcuno potrebbe passare a vedere come sta mentre noi non ci siamo» disse Julia. «Potreste anche fare un salto da lui con gli israeliani mentre venite a casa.»

«Era quello che avevo in mente» mentì Jacob.

Mohammed suonò di nuovo, questa volta con veemenza.

Uscirono tutti insieme: Deborah, Irv e Benjy per andare a vedere un Pinocchio di marionette al Glen Echo; Julia e Sam per prendere l’autobus che partiva dalla scuola; Jacob, Max e Argo per andare dal veterinario. Julia abbracciò Max e Benjy e non abbracciò Jacob, ma gli disse: «Non dimenticarti di...»

«Vai» le disse lui. «Divertiti. Fai la pace nel mondo.»

«Una pace duratura» disse Julia, e le parole si erano messe in fila da sole.

«E salutami Mark. Davvero.»

«Non adesso, okay?»

«Stai sentendo qualcosa che io non ho detto.»

Un secco: «Ciao».

A metà della veranda, Benjy esclamò: «E se non mi mancate?»

«Puoi sempre chiamarci» disse Jacob. «Io avrò il telefono sempre acceso e non sarò mai troppo lontano da dove sei tu.»

«Ho detto: se non mi mancate?»

«Cosa?»

«Va bene ugualmente?»

«Ma certo che va bene» disse Julia, dando a Benjy un ultimo bacio. «Non potrei essere più felice se tu ti divertissi così tanto da non pensare a noi.»

Jacob scese i gradini per dare a Benjy un ultimissimo bacio.

«E comunque ti mancheremo» disse.

E in quel momento, per la prima volta nella sua vita, Benjy decise di non esprimere un pensiero ad alta voce.

Il lato nascosto

Lungo la strada, si fermarono al McDonald’s. Faceva parte del cerimoniale della visita dal veterinario, una cosa che Jacob aveva cominciato a fare dopo avere sentito un podcast su un ambulatorio di Los Angeles dove si effettuavano più eutanasie che in qualunque altro posto in America. Era la donna che lo gestiva a fare la puntura letale a ogni singolo cane, qualche volta più di dieci in un giorno. Chiamava il cane per nome, gli faceva fare una bella passeggiata proporzionata alle sue forze, gli parlava, lo accarezzava e, come ultimo gesto prima dell’iniezione, gli dava da mangiare i McNuggets. Per dirla con le sue parole: «Chiederebbero questo come ultima cena».

Negli ultimi due anni Argo era andato dal veterinario per dolori articolari, annebbiamento della vista, lipomi addominali e incontinenza. Niente che facesse pensare a una fine imminente, ma Jacob sapeva quanto l’ambulatorio del veterinario lo innervosisse e sentiva di dovere una ricompensa al suo amico, che magari poteva anche servire come associazione positiva. Chissà se Argo avrebbe scelto i McNuggets come ultima cena, di certo se li divorava inghiottendoli interi quasi tutti. Per tutto il tempo in cui era stato un membro della famiglia Bloch, aveva mangiato il cibo secco per cani Newman’s Own due volte al giorno senza eccezioni. (Julia aveva condotto una battaglia aperta per bandire gli avanzi della tavola, che avrebbero costretto Argo «a mendicare».) I McNuggets gli facevano venire la diarrea e qualche volta il vomito. Ma di solito ci voleva qualche ora, per cui si poteva fare in modo che la tempistica coincidesse con una passeggiata al parco. E ne valeva la pena.

Anche Jacob e Max presero i McNuggets. A casa non mangiavano quasi mai carne – anche questa una decisione di Julia – e il fast food veniva subito dopo il cannibalismo nella classifica delle cose da non fare. Né a Jacob né a Max mancavano i McNuggets, ma condividere qualcosa che Julia disapprovava era un’esperienza che li univa. Parcheggiarono al Fort Reno Park e fecero un picnic improvvisato. Argo era abbastanza leale e abbastanza letargico da poter stare senza guinzaglio. Max lo accarezzò mentre si divorava un McNugget dopo l’altro, dicendogli: «Sei un bravo cane. Bravo. Bravo».

Per patetico che fosse, Jacob era geloso. I commenti crudeli di Julia – per quanto oggettivi, per quanto meritati – aleggiavano dolorosamente nella sua testa. Continuava a pensare alla frase: «Non credo che tu ci sia punto e basta». Era una delle cose meno specifiche, meno graffianti che gli aveva detto nel corso del loro primo litigio per il cellulare e la mente di una persona diversa si sarebbe probabilmente attaccata a qualcos’altro. Ma era questo che riecheggiava nella sua: «Non credo che tu ci sia punto e basta».

«Venivo un sacco qui quand’ero più giovane» disse Jacob a Max. «Scendevamo in slitta da quella collina.»

«Scendevamo chi?»

«In genere amici. Il nonno mi ci avrà portato un paio di volte, ma non me lo ricordo. Quando faceva caldo, venivamo qui a giocare a baseball.»

«Partite? O giusto per passare il tempo?»

«Soprattutto per passare il tempo. Non era facile mettere insieme un minyan. Qualche volta capitava. Magari negli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze.»

«Sei proprio bravo, Argo. Proprio bravo.»

«Quand’ero più grande, compravamo la birra al Tenleytown Grocery, proprio laggiù. Non ci chiedevano mai i documenti.»

«Che cosa vuol dire?»

«Bisogna avere ventun anni per comprare la birra legalmente, quindi di solito nei negozi ti chiedono un documento d’identità, tipo la patente, per controllare quanti anni hai. Da Tenleytown non chiedevano mai niente. Perciò compravamo sempre lì la birra.»

«Infrangevate la legge.»

«Erano altri tempi. E tu lo sai che cos’ha detto Martin Luther King sulle leggi giuste e le leggi ingiuste.»

«Non lo so.»

«In pratica, era una nostra responsabilità morale comprare la birra.»

«Bravo Argo.»

«Ovviamente sto scherzando. Non è una bella cosa comprare birra prima di avere l’età per farlo, e per piacere non dire alla mamma che ti ho raccontato questa storia.»

«Okay.»

«Sai cos’è un minyan

«No.»

«Perché non me l’hai chiesto?»

«Non so.»

«Sono dieci uomini sopra i tredici anni. È il minimo richiesto perché la preghiera in sinagoga sia valida.»

«Detto così, sembra una discriminazione contro le donne e i bambini.»

«Decisamente sì, contro entrambi» disse Jacob, strappando un fiore selvatico. «I Fugazi facevano un concerto gratis qui tutte le estati.»

«Chi sono i Fugazi?»

«Solo la più grande band mai esistita, secondo qualunque definizione di grande. Era grande la loro musica. Grandi i loro principi etici. Erano grandi e basta.»

«Cosa sono i principi etici?»

«Le convinzioni in base a cui agisci.»

«Quali erano i loro principi etici?»

«Non imporre ai fan prezzi esagerati, non tollerare violenze ai concerti, non fare video e non vendere merchandising. E invece, fare musica che trasmettesse coscienza di classe, contro il capitalismo, contro la misoginia, e che avesse un impatto sonoro sconvolgente.»

«Sei un bravo cane, Argo.»

«Probabilmente dovremmo cominciare ad andare.»

«Il mio principio etico è ‘trovare la luce nel mare bellissimo, io scelgo di essere felice’.»

«Ottimo principio etico, Max.»

«È un verso di una canzone di Rihanna.»

«Be’, Rihanna è saggia.»

«Non l’ha scritta lei, la canzone.»

«Chiunque l’abbia scritta.»

«Sia.»

«Allora Sia è saggia.»

«E stavo solo scherzando.»

«Certo.»

«E il tuo qual è?»

«Cosa?»

«Principio etico.»

«Non imporre ai fan prezzi esagerati, non tollerare violenze a...»

«No, sul serio.»

Jacob rise.

«Sul serio» disse Max.

«Fammici pensare.»

«Probabilmente è questo il tuo principio etico.»

«Quello è il principio etico di Amleto. Hai presente Amleto, vero?»

«Ho dieci anni, non sono nato ieri.»

«Scusa.»

«E Sam lo sta leggendo in classe.»

«Chissà che fine hanno fatto i Fugazi. Chissà se sono ancora idealisti, qualunque cosa stiano facendo.»

«Sei bravo, Argo.»

 

 

Quando arrivarono dal veterinario furono condotti in un ambulatorio sul retro.

«Per qualche strano motivo mi ricorda la casa del bisnonno.»

«In effetti è proprio strano.»

«Tutte le foto dei cani sono un po’ come le foto di me, Sam e Benjy. E il barattolo con i biscotti è come il barattolo di caramelle.»

«E c’è odore di...»

«Cosa?»

«Niente.»

«Cosa?»

«Stavo per dire morte, ma non mi sembrava una cosa carina da dire, per cui ho cercato di tenermelo per me.»

«E che odore ha la morte?»

«Come questo.»

«E tu come lo sai?»

Jacob non aveva mai sentito l’odore di una persona morta. Gli altri suoi tre nonni erano morti o prima che nascesse o quand’era abbastanza piccolo da non dover affrontare certi eventi. Nessuno dei suoi colleghi o amici o ex colleghi o ex amici era morto. Qualche volta si stupiva di essere riuscito a vivere quarantadue anni senza mai trovarsi in prossimità della morte. E quello stupore era sempre seguito dalla paura che la statistica si rimettesse in pari con lui infliggendogli una gran quantità di morte tutta assieme. E che lui non sarebbe stato pronto.

Il veterinario li fece aspettare mezz’ora prima di riceverli, e Max diede ad Argo un biscotto dopo l’altro.

«Magari non gli fa bene, con i McNuggets» lo avvertì Jacob.

«Sei bravo, sei bravissimo.»

Argo tirava fuori un lato diverso di Max, una dolcezza, o una vulnerabilità, che di solito rimaneva nascosta. Jacob ripensò a una giornata che aveva passato con suo padre al Museo nazionale di Storia naturale quando aveva l’età di Max. Aveva pochi ricordi da solo con suo padre – Irv lavorava a tempo pieno alla rivista e quando non scriveva insegnava, e quando non insegnava socializzava con persone importanti per dare prova di essere una persona importante – ma Jacob ricordava quella giornata.

Erano davanti a un diorama. Un bisonte.

«Bello, eh?» disse Irv.

«Bellissimo» disse Jacob, toccato – addirittura commosso – dalla presenza vividissima dell’animale, dalla sua autosufficienza.

«Nulla di tutto questo è messo qui a caso» disse Irv.

«Che cosa vuol dire?»

«Fanno tutto il possibile per ricreare uno scenario naturale accurato. Il punto è questo. Ma avevano un sacco di scenari accurati tra cui scegliere, no? Avrebbero potuto far galoppare il bisonte invece di farlo stare fermo. Avrebbero potuto farlo combattere o cercare cibo o mangiare. Avrebbero potuto metterne due invece di uno. Avrebbero potuto appollaiargli un uccellino sul dorso. C’erano svariate opzioni.»

A Jacob piaceva tantissimo quando suo padre gli insegnava le cose. Gli dava un senso di vertigine, ma anche di sicurezza. E confermava che Jacob era una persona importante nella vita di suo padre.

«Ma le opzioni non sono sempre libere» disse Irv.

«Perché no?»

«Perché devono nascondere ciò che ha portato qui gli animali.»

«Che cosa vuol dire?»

«Da dove pensi che arrivino tutti questi animali?»

«Dall’Africa o qualcosa del genere?»

«Ma come fanno a finire nei diorama? Credi che si offrano volontari per farsi imbalsamare? Che siano animali investiti sulla strada in cui gli scienziati si imbattono per puro caso?»

«Mi sa che non lo so.»

«Li cacciano.»

«Davvero?»

«E la caccia non è pulita.»

«No?»

«Nessuno ha mai preso qualcosa che non voleva farsi prendere senza combinare un casino.»

«Ah.»

«Le pallottole lasciano buchi, a volte anche buchi grandi. Le frecce lo stesso. E non si tira giù un bisonte con un buco piccolo.»

«Mi sa di no.»

«Perciò, quando posizionano gli animali nei diorama, li girano in modo che non si vedano i buchi, gli squarci e gli strappi. Gli unici a vederli sono gli animali dipinti nel paesaggio. Ma ricordarsi che ci sono cambia tutto.»

Una volta, quando Jacob gli aveva fatto un esempio di come Julia lo sminuisse in modo subdolo, il dottor Silvers aveva detto: «La maggior parte delle persone si comporta male quando è ferita. Se ci ricordiamo delle ferite, è molto più facile perdonare il comportamento».

Julia era nella vasca da bagno quand’era tornato a casa quella sera. Jacob aveva cercato – bussando con garbo, chiamandola, producendo rumori inutili – di farle notare la propria presenza, ma lo scroscio dell’acqua era troppo forte e, quando aveva aperto la porta, l’aveva spaventata. Dopo avere ripreso fiato e riso della propria paura, Julia aveva appoggiato il mento sul bordo della vasca. Avevano ascoltato l’acqua insieme. Una conchiglia portata all’orecchio diventa una camera dell’eco del proprio sistema circolatorio. L’oceano che senti è il tuo stesso sangue. Il bagno, quella sera, divenne una camera dell’eco della loro vita in comune. E dietro Julia, dove avrebbero dovuto stare appesi asciugamani e accappatoi, Jacob vide un paesaggio dipinto, una distesa per sempre occupata da una scuola, un campo da calcio, il reparto prodotti sfusi di Whole Foods (una griglia di bidoni di plastica pieni di piselli spezzati di vari colori e riso integrale, mango essiccato e anacardi), una Subaru e una Volvo, una casa, casa loro, e attraverso una finestra del secondo piano una stanza, dipinta con una precisione e una minuzia che poteva essere opera solo di un maestro, e sul tavolo di quella stanza, che era diventata l’ufficio di Julia dopo che non c’era più stato bisogno di un fasciatoio, c’era il plastico di una casa, e in quella casa, in quella casa in quella casa nella casa in cui accadeva la vita c’era una donna, posizionata con cura.

 

 

Alla fine il veterinario arrivò. E non era come Jacob se l’era immaginato o come aveva sperato che fosse: un goy anziano e affabile, una specie di nonno. Tanto per cominciare, era una donna. Nell’esperienza di Jacob, i veterinari erano come i piloti di aerei: virtualmente tutti maschi, grigi (o con un principio di grigio) e tranquillizzanti. La dottoressa Shelling aveva l’aria di una troppo giovane per offrirgli da bere – e comunque non si sarebbe mai presentata la situazione giusta –, era tonica, soda e indossava un camice che sembrava fatto su misura.

«A che cosa dobbiamo questa visita?» chiese, scorrendo i dati di Argo.

Max vedeva quello che vedeva Jacob? Era già abbastanza grande per farci caso? Per essere imbarazzato?

«Ha avuto qualche problema» disse Jacob, «probabilmente sono cose del tutto normali per un cane della sua età: incontinenza, articolazioni. Il nostro veterinario precedente – il dottor Hazel di Animal Kind – gli aveva prescritto Rimadyl e Cosequin e aveva detto che si poteva valutare se aumentare il dosaggio nel caso la situazione non fosse migliorata. Siccome non è migliorata, abbiamo raddoppiato il dosaggio e aggiunto una pastiglia per la demenza, ma non è successo nulla. Così ho pensato di chiedere un secondo parere.»

«Okay» disse lei posando la cartellina. «E questo cane ha un nome?»

«Argo» disse Max.

«Che bel nome» disse lei, appoggiando un ginocchio a terra.

Prese il muso di Argo tra le mani e lo guardò negli occhi mentre gli accarezzava la testa.

«Ha male» disse Max.

«Ha qualche fastidio» spiegò Jacob. «Ma non sono costanti e non è dolore.»

«Hai male?» chiese la dottoressa Shelling ad Argo.

«Guaisce quando si alza e quando si sdraia» disse Max.

«Questo non va bene.»

«Ma guaisce anche quando non lasciamo cadere abbastanza popcorn durante i film» disse Jacob. «È un piagnone cattolico.»

«Mi sapete dire altre volte in cui guaisce per fastidio?»

«Be’, quasi sempre guaisce per avere cibo o per uscire. Ma non è dolore e non è neppure fastidio. È solo desiderio.»

«Guaisce quando tu e mamma litigate.»

«Lì è mamma che guaisce» disse Jacob, cercando di scacciare l’imbarazzo che provava di fronte alla veterinaria.

«Va abbastanza a passeggio?» chiese la dottoressa. «Non dovrebbe guaire per uscire.»

«Va un sacco a passeggio» disse Jacob.

«Tre volte» disse Max.

«Un cane dell’età di Argo ha bisogno di uscire cinque volte. Come minimo.»

«Cinque passeggiate al giorno?» chiese Jacob.

«E il dolore che avete notato. Da quanto tempo va avanti?»

«Fastidio» la corresse Jacob. «Dolore è una parola troppo forte.»

«Tanto tempo» disse Max.

«Non così tanto. Forse sei mesi?»

«È peggiorato molto negli ultimi sei mesi» disse Max, «ma guaisce da quando Benjy aveva tre anni.»

«Si potrebbe dire lo stesso per Benjy.»

La veterinaria fissò Argo negli occhi qualche altro istante, adesso in silenzio. Jacob avrebbe voluto essere guardato così.

«Okay» disse la dottoressa, «misuriamogli la temperatura, gli controllerò gli organi vitali e se va bene possiamo fargli le analisi del sangue.»

Sfilò un termometro da un recipiente di vetro sul ripiano, gli spremette sopra del lubrificante e si mise dietro Argo. La cosa fece fremere Jacob? Lo depresse? Lo depresse. Ma perché? Per lo stoicismo con cui Argo reagiva quando gli capitava una cosa del genere? Perché gli ricordava la propria riluttanza, o incapacità, di mostrare disagio? No, aveva a che fare con la veterinaria: la sua bellezza giovane (sembrava ringiovanire man mano che la visita andava avanti), ma ancora di più la tenerezza con cui si prendeva cura del cane. Scatenava delle fantasie in Jacob, ma non c’entrava un incontro sessuale. E nemmeno lei che gli infilava una supposta. Se la immaginava che gli premeva uno stetoscopio sul petto; le sue dita che gli esaminavano con garbo le ghiandole del collo; che gli faceva stendere e piegare braccia e gambe, ascoltando la differenza tra fastidio e dolore con la premura partecipe e silenziosa di chi sta cercando di scassinare una cassaforte.

Max si inginocchiò piazzandosi di fronte ad Argo e gli disse: «Bravo, il mio ragazzo. Guardami. Ci siamo, ragazzo».

«Okay» disse la dottoressa, sfilando il termometro. «Un po’ alta, ma nella norma.»

Poi passò le mani sul corpo di Argo, esaminandogli l’interno delle orecchie, sollevandogli il labbro per guardargli denti e gengive, premendogli la pancia, ruotandogli la coscia fino a farlo guaire.

«Sensibile su questa gamba.»

«È stato operato a tutte e due le anche» disse Max.

«Sostituzione totale delle anche?»

Jacob alzò le spalle.

«Alla sinistra ha avuto un’ostectomia della testa del femore» disse Max.

«Una scelta interessante.»

«Sì» proseguì Max, «era al limite come peso e il veterinario ha pensato di risparmiargli una sostituzione totale. Ma è stato un errore.»

«Direi che tu hai prestato parecchia attenzione.»

«È il mio cane» disse Max.

«Okay» disse la dottoressa. «È chiaro che qui c’è una certa sensibilità. Probabilmente un po’ di artrite.»

«Fa la cacca in casa da circa un anno» disse Max.

«Non è un anno» lo corresse Jacob.

«Non ti ricordi al pigiama party di Sam?»

«Giusto, ma era stata un’eccezione. Il problema è diventato costante solo parecchi mesi dopo.»

«E fa anche la pipì in casa?»

«Quasi solo la cacca» disse Jacob. «Qualche pipì, negli ultimi tempi.»

«Si accovaccia per fare la cacca? Spesso è davvero un problema di artrite, più che un problema intestinale o rettale: il cane non riesce più ad assumere la posizione e fa la cacca mentre cammina.»

«Spesso fa la cacca mentre cammina» disse Jacob.

«Ma qualche volta la fa nella sua cuccia» disse Max.

«Come se non si rendesse conto che la sta facendo» ipotizzò la veterinaria. «O semplicemente non avesse il controllo.»

«Giusto» disse Max. «Non so se i cani si imbarazzano o si intristiscono, però.»

Jacob ricevette un sms da Julia: Arrivati in albergo.

«Non lo sapremo mai» disse la dottoressa, «ma di sicuro non dev’essere gradevole.»

Tutto qui?, pensò Jacob. Arrivati in albergo? Come se scrivesse a un collega qualunque, ovvero il minimo indispensabile per soddisfare un obbligo legale. E poi pensò, Perché mi dà sempre così poco? E quel pensiero lo sorprese, non solo perché arrivò a cavallo di un’improvvisa ondata di rabbia, ma per il sollievo che gli dava – insieme a quella parola: sempre – nonostante non fosse mai stato consapevole di averlo pensato. Perché mi dà sempre così poco? Così poco beneficio del dubbio. Così rari complimenti. Così scarso apprezzamento. Quand’era stata l’ultima volta che non aveva soffocato una risata a una delle sue battute? Quand’era stata l’ultima volta che aveva letto quello a cui lui stava lavorando? O che aveva preso l’iniziativa per fare sesso? Così poco di cui vivere. Si era comportato male, ma solo dopo una decina d’anni di ferite di frecce troppo smussate per fare il loro lavoro fino in fondo.

Pensava spesso a quella performance di Andy Goldsworthy in cui lui si sdraia per terra mentre arriva un temporale e rimane lì finché passa. Quando si rialza, rimane una sagoma asciutta. Come il contorno in gesso di un cadavere. Come il cerchio senza fori dove c’era una volta il bersaglio delle freccette.

«Al parco si diverte ancora» disse Jacob alla veterinaria.

«Come ha detto?»

«Dicevo che al parco si diverte ancora.»

E con quell’osservazione non consequenziale la conversazione ruotò di centottanta gradi portando allo scoperto il lato nascosto.

«Qualche volta» disse Max. «Ma se ne sta quasi sempre sdraiato e basta. E ha grosse difficoltà a fare le scale a casa.»

«L’altro giorno ha corso.»

«E poi ha zoppicato per tipo i tre giorni successivi.»

«Senti» disse Jacob, «è ovvio che la sua qualità della vita è peggiorata. È ovvio che non è più il cane di una volta. Ma ha una vita che merita di essere vissuta.»

«Chi lo dice?»

«I cani non vogliono morire.»

«Il bisnonno vuole.»

«Ehi, aspetta. Cos’è che hai detto?»

«Il bisnonno vuole morire» disse Max con realismo.

«Il bisnonno non è un cane.» L’assurdità di quel commento cominciò ad arrampicarsi strisciando lungo le pareti della stanza. Jacob provò a circoscriverla aggiungendo la correzione più ovvia: «E non vuole morire».

«Chi lo dice?»

«Vi serve un po’ di tempo per voi due?» chiese la veterinaria, incrociando le braccia e facendo un lungo passo indietro verso la porta.

«Il bisnonno ha delle speranze per il futuro» disse Jacob. «Come vivere fino al Bar Mitzvah di Sam. E ha il piacere dei ricordi.»

«Come Argo.»

«Credi che Argo aspetti con ansia che Sam faccia il Bar Mitzvah?»

«Nessuno aspetta con ansia che Sam faccia il Bar Mitzvah.»

«Il bisnonno sì.»

«Chi lo dice?»

«I cani si godono ogni minimo piacere nella vita» disse la veterinaria. «Stare sdraiati in una pozza di sole. Un boccone di cibo umano di tanto in tanto. È difficile dire quanto più in là si spinga la loro esperienza mentale. Le ipotesi spettano a noi.»

«Argo sente che l’abbiamo dimenticato» disse Max, esplicitando la sua ipotesi.

«Dimenticato?»

«Proprio come il bisnonno.»

Jacob rivolse alla veterinaria un abbozzo di sorriso e disse: «Chi l’ha detto che il bisnonno si sente dimenticato?»

«Lo dice lui.»

«Quando?»

«Quando parliamo.»

«E quando sarebbe?»

«Su Skype.»

«Non lo dice sul serio.»

«E allora come fai a sapere quello che vuole dire Argo quando guaisce?»

«I cani non vogliono dire cose.»

«Glielo spieghi» disse Max alla veterinaria.

«Spieghi cosa?»

«Gli spieghi che Argo va fatto sopprimere.»

«Ah. Non sta a me dirlo. È una decisione molto personale.»

«Okay, ma se lei pensasse che non va fatto sopprimere, avrebbe detto che non va fatto sopprimere.»

«Corre al parco, Max. Guarda i film sul divano.»

«Glielo spieghi» disse Max alla veterinaria.

«Il mio lavoro, come veterinaria, è prendermi cura di Argo, aiutarlo a rimanere sano. Non offrire consigli su decisioni che riguardano il fine vita.»

«Quindi in altre parole è d’accordo con me.»

«Non ha detto questo, Max.»

«Non ho detto questo.»

«Lei crede che il mio bisnonno andrebbe fatto sopprimere?»

«No» disse la veterinaria, pentendosi subito per il credito che la sua risposta dava alla domanda.

«Glielo spieghi.»

«Spieghi cosa?»

«Gli spieghi che pensa che Argo dovrebbe essere fatto sopprimere.»

«Davvero, non sta a me dirlo.»

«Vedi?» disse Max a suo padre.

«Ti rendi conto che Argo è in questa stanza, Max?»

«Lui non capisce.»

«Certo che capisce.»

«Aspetta un attimo. Tu credi che Argo capisca e il bisnonno non capisca?»

«Il bisnonno capisce.»

«Davvero?»

«Sì.»

«Allora tu sei un mostro.»

«Max

«Glielo spieghi

Argo vomitò una dozzina di McNuggets dalla forma quasi perfetta ai piedi della veterinaria.

«Come fanno a tenere il vetro pulito?» aveva chiesto Jacob a suo padre, trent’anni prima.

Irv gli aveva lanciato un’occhiata perplessa. «Windex?»

«Voglio dire, dall’altro lato. Dove la gente non può andare. Rovinerebbero tutta la roba per terra.»

«Ma se non ci va nessuno, rimane pulito.»

«Non è vero» disse Jacob. «Ti ricordi quando siamo tornati da Israele ed era tutto sporco? Anche se non c’era stato nessuno per tre settimane? Ti ricordi che avevamo scritto i nostri nomi in ebraico nella polvere delle finestre?»

«Una casa non è un ambiente chiuso.»

«Sì che lo è.»

«Non chiuso come un diorama.»

«Sì invece.»

L’unica cosa che Irv amava di più che insegnare a suo figlio era che lui lo sfidasse: l’indizio che un giorno suo figlio l’avrebbe superato.

«Magari è per questo che non guardano quel lato del vetro» disse con un sorriso, ma nascondendo le dita tra i capelli di suo figlio che, con il tempo, sarebbero cresciuti abbastanza per seppellirle.

«Non credo che il vetro funzioni così.»

«No?»

«Non puoi nascondere l’altro lato.»

«Gli animali funzionano così?»

«Cosa intendi?»

«Guarda la faccia di quel bisonte»

«Cosa?»

«Guardalo attentamente.»

Non ancora

Sam e Billie erano seduti in fondo al pullman, molte file vuote dietro il resto del gruppo.

«Voglio farti vedere una cosa» disse lei.

«Okay.»

«Sul tuo iPad.»

«L’ho lasciato a casa.»

«Davvero?»

«Mi ha costretto mia madre» disse Sam, che avrebbe voluto inventarsi una spiegazione meno infantilizzante.

«Ha letto un editoriale o qualcosa del genere?»

«Vuole che io sia ‘presente’ durante la gita.»

«Che cos’è che consuma quaranta litri di benzina ma non si muove?»

«Cosa?»

«Un monaco buddista.»

Sam rise, senza capirla.

«Hai visto quello dell’alligatore che morde l’anguilla elettrica?» gli chiese lei.

«Sì, è una roba pazzesca.»

Billie tirò fuori il tablet sfigato quanto un adulto in motorino che i suoi genitori le avevano regalato per Natale e cominciò a digitare. «Hai visto il tipo delle previsioni meteo che ce l’ha duro?»

Lo guardarono insieme e risero.

«La parte migliore è quando dice: ‘Notiamo qui una zona calda’.»

Caricò un nuovo video e disse: «E vedi un po’ questo porcellino d’India con la sifilide».

«Secondo me quello è un criceto.»

«Ti perdi le piaghe ai genitali per un dettaglio.»

«Non sopporto di sembrare mio padre, ma non è una follia che abbiamo accesso a questa merda?»

«Non è una follia. È il mondo.»

«Be’, allora il mondo non è una follia?»

«Non può esserlo per definizione. Folli è come sono gli altri.»

«Mi piace proprio un sacco il tuo modo di pensare.»

«Mi piace proprio un sacco che tu me lo dica.»

«Non è che te lo sto dicendo; è la verità.»

«E un’altra cosa che mi piace proprio un sacco è che non riesci a deciderti a dire la parola con la a perché hai paura che io pensi che stai dicendo qualcosa che non stai dicendo.»

«Eh?»

«Mi piace proprio proprio un sacco.»

L’amava.

Billie mise il tablet in coma e disse: «Emet hi hasheker hatov beyoter».

«Che è?»

«Ebraico.»

«Parli ebraico?»

«Come notoriamente rispose Franz Rosenzweig a chi gli chiedeva se era un ebreo religioso: ‘Non ancora’. Ma ho pensato che uno di noi due dovesse impararne un po’ in onore del tuo Bar Mitzvah.»

«Franz chi? E aspetta, che cosa vuol dire?»

«La verità è la bugia migliore.»

«Ah. Be’: Anata wa subete o rikai shite iru baai wa, gokai suru hitsuyo ga arimasu

«E che cosa dovrebbe voler dire?»

«‘Se capisci tutto, devi essere male informato.’ Giapponese, credo. Era l’epigrafe di Call of Duty: Black Ops.»

«Sì, studio giapponese il giovedì. Solo che non avevo capito in che senso lo dicevi.»

Sam avrebbe voluto farle vedere la nuova sinagoga cui aveva lavorato nelle ultime due settimane. Si chiese se esprimesse nel modo migliore il meglio di lui e se a lei sarebbe piaciuta.

L’autobus parcheggiò al Washington Hilton – l’albergo in cui in teoria si sarebbe dovuta tenere la festa per il Bar Mitzvah di Sam due settimane dopo, se fossero riusciti a estorcergli delle scuse – e i ragazzi scesero e si sparpagliarono. Nella hall era appeso un grosso striscione: BENVENUTI ALLA SIMULAZIONE ONU 2016. In un angolo erano impilate alcune decine di trolley e borsoni, quasi tutti con dentro qualcosa che non avrebbero dovuto contenere. Mentre Mark si prodigava a contare le teste, Sam prese da parte sua madre.

«Non essere pesante, quando parli a tutti, okay?»

«Pesante su cosa?»

«Qualunque cosa. Pesante e basta.»

«Hai paura che ti metta in imbarazzo?»

«Sì. Mi hai costretto tu a dirtelo.»

«Sam, siamo qui per spassarcela...»

«Non dire spassarcela

«... e fare la lagna è assolutamente l’ultima cosa che voglio.»

«O lagna

Mark fece a Julia un pollice alzato e lei si rivolse al gruppo: «Posso avere l’attenzione di tutti?»

Tutti si tennero la loro attenzione per sé.

«Yuu-huu!»

«O yuu-huu» sussurrò Sam a nessuno.

Mark tirò fuori una voce baritonale che fece tintinnare i pendagli dei braccialetti come campane a vento: «Bocche chiuse e qui gli occhi, adesso

I ragazzi si zittirono.

«Okay» disse Julia. «Bene, come probabilmente sapete, io sono la mamma di Sam. Mio figlio mi ha detto di non essere pesante per cui mi limiterò all’essenziale. Primo, voglio che sappiate che sono strafelice di essere qui con voi.»

Sam chiuse gli occhi, cercando di disimparare la permanenza dell’oggetto.

«Sarà interessante, stimolante e divertentissimo.»

Julia vide Sam con gli occhi chiusi ma non capì che cos’aveva fatto.

«Allora... giusto qualche piccola cosa di gestione prima di distribuire le chiavi delle camere, che credo siano tessere e non chiavi, ma noi le chiamiamo chiavi. Scoprirete che sono una persona molto tranquilla e rilassata. Ma la tranquillità è una strada a doppio senso. So che siete qui per divertirvi, ma ricordate che siete anche qui a rappresentare la Georgetown Day School, senza dimenticare gli Stati Federati di Micronesia, il nostro arcipelago.»

Restò in attesa di un applauso. O di qualunque cosa. Billie riempì il silenzio con un unico battito di mani e a quel punto la patata bollente della goffaggine passò a lei.

Julia proseguì: «Allora, sono sicura che non ci sia bisogno di dirlo, ma le sostanze stupefacenti o psicotrope non sono ammesse».

Sam perse il controllo muscolare del collo, la sua testa crollò in avanti.

«Se avete una prescrizione per qualcosa, naturalmente va bene, purché non sia usata per divertimento e non ci siano abusi. Ora, mi rendo conto che la maggior parte di voi non ha neppure tredici anni, ma vorrei anche affrontare la questione dei rapporti sessuali.»

Sam svicolò di lato. Billie lo seguì.

Mark si rese conto di quello che stava succedendo e intervenne: «Credo che la signora Bloch stia cercando di dirvi di non fare niente che non vorreste che noi raccontassimo ai vostri genitori. Perché noi lo racconteremo ai vostri genitori e voi sarete nella merda fino al collo. Capito?»

Gli studenti fecero un segno di assenso collettivo.

«Mia madre è il motivo per cui Kurt Cobain si è suicidato» sussurrò Sam a Billie.

«Dalle tregua.»

«Perché?»

Mentre distribuiva le tessere, Mark disse: «Portate le vostre cose in stanza, disfate i bagagli, non accendete la tv e non vi azzardate neanche ad avvicinarvi al minibar. Ci incontriamo da me, stanza 1124, alle due in punto. Se avete qualche congegno elettronico, segnatevelo: 1124 alle due. Se non ce l’avete, mettete alla prova il vostro cervello. Ora, essendo dei ragazzi intelligenti e motivati, userete questo tempo per rileggere il materiale informativo, così sarete preparatissimi per le minisessioni di oggi pomeriggio. Nel caso in cui succeda qualcosa, e solo in quel caso, avete il mio cellulare. Sappiate che sono onnisciente. Vale a dire che, anche senza essere presente fisicamente, vedo tutto e sento tutto. Andate».

I ragazzi presero le loro tessere e si dileguarono.

«E questa è per te» disse Mark, porgendo a Julia la sua tessera.

«Suite presidenziale, immagino.»

«Esatto. Ma da presidente della Micronesia, temo.»

«Grazie per avermi salvato, prima.»

«Grazie per aver fatto di me l’icona della disinvoltura.»

Julia rise.

«Ci beviamo qualcosa?» chiese lui.

«Parli sul serio? Qualcosa qualcosa

«Un rilassante in forma liquida. Sì.»

«Dovrei fare uno squillo ai genitori di Jacob. Tengono Benjy per il fine settimana.»

«Carino.»

«Sì, se quando torna non è un Meir Kahane in fase latente.»

«Eh?»

«Uno squilibrato dell’ultradestra...»

«Hai un bisogno bisogno di berti qualcosa qualcosa

E poi, di colpo, non ci fu nessuna questione logistica da risolvere, nessuna chiacchiera da portare avanti, solo l’ombra incombente della loro conversazione allo showroom delle maniglie su misura e tutto quello che Julia sapeva ma non era disposta a condividere.

«Vai a fare la tua telefonata.»

«Ci vorranno solo cinque minuti.»

«Quel che è, è. Mandami un sms quando sei pronta e ci troviamo al bar. Abbiamo un sacco di tempo.»

«Non è troppo presto per bere?»

«Nel millennio?»

«Nella giornata.»

«Nella tua vita?»

«Nella giornata, Mark. Sei già ubriaco di celibato.»

«Un ubriaco non starebbe a puntualizzare che un celibe è uno che non è mai stato sposato.»

«Allora sei ubriaco della tua libertà.»

«Non volevi dire solitudine?»

«Stavo immaginando quello che avresti detto tu.»

«Sono ubriaco della mia nuova sobrietà.»

Julia riteneva di essere particolarmente sagace nel cogliere le motivazioni altrui, ma non riusciva a capire fino in fondo che cosa stesse facendo Mark. Flirtava con una persona che desiderava? Consolava una persona che gli faceva pena? La prendeva in giro in modo innocente? E lei che cosa stava facendo? Qualunque vago senso di colpa potesse provare all’idea di flirtare con qualcuno era ormai tramontato all’orizzonte, tanto che poteva benissimo essere dietro di lei. Semmai, avrebbe voluto che Jacob fosse lì a guardare.

Una volta avevano i loro canali di comunicazione segreti, modi per passarsi messaggi in modo clandestino: sillabare le parole davanti ai bambini piccoli; sussurrare davanti a Isaac; scriversi bigliettini mentre uno dei due era impegnato al telefono; gesti delle mani e movimenti facciali sviluppati sistematicamente nel corso degli anni, come quando, nell’ufficio del rabbino Singer, Julia si era premuta due dita sulla fronte e aveva scosso leggermente la testa arricciando il naso, che voleva dire: lascia perdere. Riuscivano a trovare il modo di raggiungersi aggirando qualunque ostacolo. Ma avevano bisogno di un ostacolo.

La sua mente scartò: Jacob aveva costretto Sam ad ascoltare un podcast sugli uccelli usati come messaggeri durante la Prima guerra mondiale, e Sam ne era rimasto affascinato – per il suo undicesimo compleanno aveva chiesto un piccione viaggiatore. Incantata dall’originalità della richiesta e desiderosa, come sempre, non solo di fare il massimo per i suoi figli ma anche di essere vista fare il massimo per i suoi figli, Julia l’aveva preso sul serio.

«Sono animali magnifici da tenere in casa» prometteva Sam. «C’è un...»

«In casa?»

«Sì. Hanno bisogno di una grossa gabbia, ma...»

«E Argo?»

«Con un po’ di condizionamento...»

«Bella parola.»

«Mamma. Con un po’ di condizionamento possono essere amici senza problemi. E una volta...»

«E che mi dici della cacca?»

«Portano delle mutande da piccione. In pratica dei pannolini. Vanno cambiati ogni tre ore.»

«Una cosa da niente.»

«Lo farò io.»

«Tu sei a scuola più di tre ore al giorno.»

«Mamma, sarà divertentissimo» disse, scuotendo i pugni nel modo che una volta indusse Jacob a chiedersi se non avesse un pizzico di sindrome di Asperger. «Potremmo portarlo al parco, o a scuola, o da Omi e Opi, o dove vogliamo, attaccargli un messaggio al collare e lui volerebbe a casa.»

«Posso chiederti cosa c’è di divertente?»

«Davvero?»

«Con parole tue.»

«Se non è evidente, non so come spiegartelo.»

«E sono difficili da addestrare?»

«È facilissimo. In pratica, gli devi fare una casa stupenda e loro vorranno tornarci.»

«Che cosa rende stupenda una casa?»

«È spaziosa, illuminata dal sole e la rete metallica che la circonda è troppo fitta perché ci ficchi in mezzo la testa rimanendo bloccato.»

«Che bella immagine.»

«E il fondo è rivestito di zolle erbose da cambiare regolarmente. E ha una vaschetta, da pulire regolarmente.»

«Giusto.»

«E un sacco di piccole golosità, tipo indivia, bacche, grano saraceno, semi di lino, germogli di soia, veccia.»

«Veccia?»

«Non so, l’ho letto.»

«E quanto dev’essere grande la gabbia di cui stiamo parlando?»

«Il massimo sarebbe due per tre.»

«Due per tre cosa

«Metri. Due metri per lato di base e tre metri di altezza.»

«E dove la metteremmo una gabbia così spaziosa?»

«In camera mia.»

«Dovremmo alzare il soffitto.»

«È una cosa che possiamo fare?»

«No.»

«Allora potrebbe essere un po’ meno alta, andrebbe comunque bene.»

«E se non gli piace casa sua?»

«Gli piacerà.»

«Ma se non gli piace?»

«Mamma, gli piacerà, perché io farò tutte le cose come si deve per fargli una casa magnifica in modo che la ami.»

«Stavo solo chiedendo e se

«Mamma

«Non posso fare una domanda?»

«Credo che non torni più. Okay? Va avanti e non si ferma.»

Sam ci aveva messo solo una settimana per dimenticare che al mondo esistevano i piccioni viaggiatori – aveva scoperto che al mondo esistono cose come le armi Nerf – ma Julia non aveva mai dimenticato quello che aveva detto: Va avanti e non si ferma.

«Perché no?» disse a Mark, rimpiangendo di non avere una superficie vicina contro cui dare un colpo di nocche. «Beviamoci qualcosa qualcosa

«Solo un bicchiere?»

«Hai ragione» disse lei, lisciandosi il lato nascosto delle ali prima del volo che avrebbe rivelato la comodità della sua gabbia. «Probabilmente è troppo tardi.»