IL RITMO DEL DESIDERIO
Roberto Cecchetti
Capitolo primo
L'epoca della scoperta
All’epoca non sapevo che gli sciamani portassero con sé un tamburo, e che il tamburo potesse essere in realtà una riproduzione del mondo. Non sapevo che sulla pelle tirata, su quella membrana bianca, quasi perennemente vergine, l’uomo spirituale avesse riprodotto sezioni di mondi, parti di cielo, schiere di demoni. All’epoca non sapevo nemmeno che il cosmo, così sezionato, non era altro che una rappresentazione della mente e che il ritmo che da sempre esiste, aveva creato il mondo, come le lettere di un alfabeto magico. Non sapevo neanche che in realtà la creazione non fu una e una sola volta, ma che la sua attività è un ricominciare continuamente da capo. All’epoca, e avevo undici anni, mentre passeggiavo per il cortile della scuola di musica comunale, non sapevo che chi conosceva i ritmi poteva essere “ogni cosa”. Non sapevo neppure che il segreto dei ritmi fosse un segreto e che da esso dipendesse la forma di ogni cosa che appare. Non sapevo neppure che tutte queste cose già erano contenute nella mia mente, cioè nella creazione, cioè nei ritmi, cioè di nuovo nella mia mente. Per questo, ma ancora non lo sapevo, quando vidi dalla finestra della mia casa un ragazzo che suonava la batteria seppi che quella era la cosa che più desideravo. Avrei fatto di tutto per dare un colpo di bacchetta sulla pelle di un rullante. Da fuori si sentiva la vibrazione potente, una acuta, l’altra grave, del rullante e della cassa; era un senso di potere incontenibile. Ancora non potevo sapere che il potere è conoscenza dei ritmi, riconoscerli in noi come nella natura, e riconoscere quindi l’unità di mente e creazione. I ritmi hanno a che fare con la caccia, perché i ritmi stessi sono una cattura, anzi i ritmi stessi sono l’animale cacciato e il polso fremente del cacciatore. Cassa e rullante riproducevano una regolarità costante, assolutamente geometrica, assolutamente matematica e quel ragazzo che suonava si muoveva, cioè era posseduto nel corpo da quella geometria, al punto da aderire corpo e mente a un’idea, diventando l’idea stessa della figura e del suono che manifestava. Un maestro ne vagliava la precisione, la giusta mollezza negli arti, la rilassatezza dei piedi. Anche lo sguardo, a mano a mano che il ritmo continuava a essere portato nell’orizzonte delle cose manifeste, era tenuto sotto controllo dal maestro perché proprio lo sguardo rivela l’esito giusto dell’esecuzione, in quanto il centro della giustezza è in questo caso la fusione. Non sapevo che lo scopo ultimo del ritmo potesse risiedere nell’abbandono dello stato cosciente dell’io, ma vedevo lo sguardo di quel ragazzo e capivo che in lui c’era ancora il grande sforzo della concentrazione, che manteneva l’io in funzione: per questo era ancora un allievo. Cassa e rullante, la prima sta a terra e ha un suono grave, il secondo sta all’altezza del sesso, dell’ombelico e proietta un colpo acuto che non può essere inascoltato. Il colpo del rullante è quanto di più penetrante vi sia. Non sapevo che con l’accordatura, il legno oppure il metallo, la profondità del fusto, il rullante poteva generare colori sonori differenti, più molli, più tesi, più caldi e panciuti, altri più secchi e squillanti, ma intuivo che si trattava di qualcosa di potente. Ricordo il senso di soddisfazione che ricevevo da quei suoni, come fossero un pasto, come fossero cibo. Ruminarli, pensarli e ascoltarli nutriva. Come si compongono terra e cielo? Il suono della cassa ha la profondità dello squasso tellurico, delle crepe profonde che raggiungono il magma, mentre il rullante può essere, in una triade, lo stato mediano della manifestazione che ogni tanto raggiunge il cielo, lo tocca finalmente, e il piatto allora, di metallo sottile, esplode come un boato celeste. Ci sono diversi modi con cui la gran cassa, il rullante e i piatti – terra, dimensione mediana e cielo – possono comporsi all’interno di un ritmo preso a modello. Queste sono in effetti le possibilità che l’uomo ha di stare con l’alto e il basso: c’è bisogno di entrambi. Molti colpi di cassa manifestano un attaccamento alla terra, alla potenza del terremoto, rivelano la volontà di manifestarsi potenti sulla superficie terrestre, di farsi intendere, di mostrare i muscoli, di far sentire che la terra ci appartiene e che la sua solidità è anche la nostra solidità. Viceversa se si useranno molti colpi di rullante, con la sua cordiera militare, che ricorda una casta guerriera, mediana, custode della legge degli uomini, sarà la volontà umana a prevalere, la potenza del gesto dell’uomo, forse anche della sua parola, senz’altro della sua mano che raccoglie oggetti e li scaglia attraverso lo spazio contro l’altro da sé. Non sapevo ancora queste cose, ma forse sono cose che non “si sanno” mai. Non sapevo, però intuivo, che certi modi di comporre questi due o tre elementi danno vita a manifestazioni sonore pacificanti, altri rendono l’atmosfera stucchevole. Così, ad esempio, se si vorrà percuotere troppo spesso il piatto, il risultato sarà quello di essere eterei, inconcludenti, smisurati, idealizzanti, si manifesterà la volontà folle di vivere nei cieli. Se i ritmi formano le cose e i ritmi sono nella mente, e quindi nel corpo, e le cose stesse sono già comprese nel mondo della mente, ancora non sapevo che la parte meno “frequentata” della mente, quella meno governabile, che alcuni vollero chiamare inconscio, è fatta della stessa potenza evocata dai ritmi, è energia. Così la costanza di un tempo di batteria crea in chi l’ascolta uno stato di tensione, di accumulazione di energia, paragonabile ai momenti che dovettero precedere l’origine della creazione e del tempo, i momenti in cui la divinità si concentrava in un punto prima di generare quello che aveva in mente. Suppongo che, guardate in senso esoterico, le ricerche di Sigmund Freud, di Carl Gustav Jung e poi dì Erich Neumann sulla libido si possano riferire a questo. Come si può osservare e dimostrare quella coincidenza fra mente e mondo che talvolta, al di là delle necessità causali, semplicemente avviene? E se la libido è una volontà inconscia capace di generare, come può essere governata? Di qui a mio avviso l’accostamento alla sapienza iniziatica che Julius Evola e poi Jung riscoprirono nell’alchimia, e che Mircea Eliade confermò. L’energia libidica può certo essere colta nella sua dimensione sessuale, a patto che il sesso sia un’operazione metafisica, in cui cielo e terra si compongono secondo le loro leggi per generare un’idea nuova di realtà. Il ritmo e il sesso; ma prima ancora il ritmo e la metafisica, e certamente l’Oriente con i suoi misteri e le sue fascinazioni. Le posizioni tantriche dell’unione fra uomo e donna sono altre espressioni della sensualità percussiva che si genera attraverso i tamburi: siamo dentro la stessa metafora. Allo stesso modo, suonando i tamburi l’Io si perde, come in prossimità dell’esperienza dell’orgasmo e allora ogni opposizione è tolta, il desiderio più profondo si scatena, eiacula proprio come un colpo di cassa insieme a un piatto (è sconsigliato suonare il piatto senza cassa!) e l’energia si dissipa. Quello che poi divenne il mio maestro di tamburo mi disse: “Sai qual è la differenza fra un buon dilettante e un vero professionista? Il professionista sa come trattenersi”. Ho riflettuto a lungo su questo insegnamento, mi pare ancora uno dei più saggi, una metafora che resta valida in diverse espressioni dell’umano. Qui “il professionista” può essere sostituito con “il saggio”, “l’uomo avveduto”, “l’essere cosciente di se stesso” il quale desidera trattenersi dinnanzi alla propria dissipazione, che vuole riunire le proprie membra sparse, le proprie facoltà che nella quotidianità malata sono invece prese nella rete dell’oggetto, sono catturate nella brama dissipativa della rincorsa ai desideri imposti dall’esposizione perpetua e universale degli idoli. Cos’è l’ascesi se non una via per andare contro l’impulso incontrollato e trattenersi? Provate ad ascoltare il bravo musicista che si trattiene, egli saprà conservare l’energia e insieme celebrare tutta la sua umanità, cioè saprà rinunciare alla propria animalità bruta e sgraziata rivelando attraverso il suono il possesso di questa dignità. Qui l’estetica rispecchia un’etica della raffinatezza. Ma la raffinatezza non è sapienza? Che la raffinata capacità di discernere e di differenziare sia la strada maestra verso un ampliamento delle facoltà interiori e mentali ce lo dice in metafora Elémire Zolla in una sua trasognata memoria di una passeggiata per la campagna inglese in compagnia del nonno; il racconto lo troviamo in un elzeviro apparso sul Corriere della Sera nel marzo del 1962. Seguiamo il ragazzo in questa scoperta: Il vecchio coglie una mela grassa, la mostra al fanciullo, aiutando l’occhio a posarsi sulla superficie, tracciandone la forma col dito. Proprio l’imbarazzo per la lentezza del gesto è una forza che costringe il fanciullo a seguire il tocco del dito sulla scorza, ruvida quasi al punto di raggrinzirsi. Mentre il fanciullo mangia la fetta tagliata dalla mela che con tanta meticolosità era stata prima considerata, il vecchio gli dice: “È una mela cotogna”, e si incammina verso un altro albero, spiccandone un altro frutto, mostrandolo dopo averlo lustrato sulla manica affinché restituisca limpidamente tutta la luce che può; dice: “una mela limoncella”, invitando a paragonare i sapori, la cui diversità appare straordinaria al fanciullo perché non s’aspettava di scoprirla, avendolo il vecchio preparato all’esercizio del gusto con quello degli occhi, usando cioè una finta, tanto che insensibilmente il palato si apprestava a emulare l’attenzione della vista, nella misura in cui non era chiamato con un ordine a prodigarsi. La differenza appare ancora più vasta, come fra due case o due ore della giornata, perché nulla ha distratto il fanciullo, non una parola superflua, né un sorriso di ingiunzione o esortazione, e neanche un soffio d’aria, essendo molto silenzioso il tramonto alla villa.3 È necessario ingannare la mante attraverso pittoriche sinestesie per accedere d’un tratto a un nuovo stato interiore. Così il giovane avvertiva il senso rituale della confusione dei sensi, imparava a connettere il “fuori” con l’esperienza interiore e “scopriva che il vecchio, portandolo sotto i meli, gli aveva insegnato a dire la verità”4. Il vecchio introduce il giovane Zolla nei luoghi dell’identità e nei meandri della differenza, del mutamento e della permanenza, e gli insegna ad allenare i sensi in quel processo che rende complesso il semplice, che estrae una quantità di indefinite possibilità da ciò che appariva semplicissimo. Spicca da un albero un tipo di mela, glielo porge, l’attenzione del ragazzo si concentra con la vista sul luccicare della buccia strofinata ma si tratta d’una finta: il ragazzo è preso dal colore, dalla lucentezza, dalla forma, e il suo palato è colto alla sprovvista, il gusto dell’inatteso adesso gli riempie la bocca. Stirpe di artisti quella di Zolla, pittore il padre e pianista la madre. Gente abituata ad avere a che fare con il fondo filosofico delle cose, con i suoni delle forme e i colori degli accordi. Il nonno artista e saggio proponeva al nipote la grande domanda metafisica, che non vuole oltrepassare il reale ma vuole conoscere la leva segreta della sua possibile santificazione. La stessa domanda che dovette porsi il grande Giorgio de Chirico, pittore metafisico per eccellenza, quando pensò a un’arte che si doveva manifestare quale ponte con l’al-di-là e si avvide della necessità di un’arte che sapesse farsi raffinata separazione: “Che cosa separerebbe dunque, di propriamente inseparabile, l’immagine dell’arte realizzando questa operazione in forma finalmente ‘concreta’?”5: si tratta dell’opera di santificazione-separazione di cui scrive Massimo Donà. Secondo Donà, de Chirico: mette radicalmente in questione una delle convinzioni più diffuse del ‘900’: che “pensare” significhi essere originariamente parlati dal linguaggio proposizionale. No, per lui, “pensare” significa anzitutto farsi un’immagine di quel che diciamo di pensare, come aveva già perfettamente capito Kant (il maestro di Schopenhauer), secondo il quale, appunto, i concetti senza le intuizioni sensibili (ossia senza le immagini che possiamo farci dei medesimi) sono determinatezze assolutamente vuote.6 Ed è così che si deve raggiungere la separatezza fra le cose, fra gli attributi degli oggetti e fra i fenomeni e il contesto in cui sono collocati, attraverso il superamento del pensiero ordinariamente e utilitaristicamente orientato. Continua Donà, ricordandosi qui della lezione di Georges Bataille sul tema del sacro: D’altronde, come non ricordare che l’immagine metafisica, così come la forma da essa portata alla luce [...], indicano per De Chirico qualcosa che “si distacca dall’atmosfera” – da cui il processo di santificazione del reale [...]. Sì, bisogna innanzitutto separare (e dunque santificare) la cosa dall’atmosfera che la circonda, ossia dal contesto pratico-utilitaristico entro il cui orizzonte siamo soliti farne esperienza.7 E allora Donà si chiede, seguendo la domanda fondamentale in virtù della quale viene sviluppato il senso artistico e metafisico del giovane ragazzo che cammina nella foschia della campagna inglese, di quale separazione-santificazione si tratti. Che cosa separerebbe dunque il gesto artistico che può essere assimilato al gesto propriamente filosofico? “La cosa e il suo altro. O anche, la parte e la totalità”8. Il punto è che se cerchiamo di definire il “questo qui”, l’oggetto che ci troviamo di fronte, non possiamo che chiamare in causa tutto il contesto, che appunto può identificare, conoscere la cosa nella sua speciale relazione con ciò che la circonda. Il “questo qui” richiama necessariamente “l’altro”. In questo modo non si riesce a cogliere quasi mai la mela ma sempre la mela in relazione al contesto. Quindi non solo occorre distinguere le qualità interne alla mela, ma anche separare la mela dal contesto, santificarla. E forse i due momenti non sono che due facce dello stesso processo proprio perché la cosa rimane kantianamente inconoscibile e quindi carica di infinite potenzialità: nella cosa in sé esistono tante potenzialità quante ce ne sono nel contesto. Separando dal contesto consueto in cui determino l’oggetto divento finalmente anche capace di assaporare con raffinatezza le qualità della cosa. Ecco perché la metafisica di de Chirico ci spinge, secondo l’analisi di Donà, a separare gli inseparabili. Da questa separazione si ha accesso a un mondo qualificato (ovvero a un mondo destato dall’attenzione del soggetto) in cui è possibile contemplare le cose prese per se stesse. Da qui l’accesso dell’umano a uno stato di attenzione-cura nei confronti delle cose, del tutto superiore a quella consueta. Ce lo confermano le teorie costruttiviste e le nuove ricognizioni sull’ipnosi9. È soffermandosi su una monoidea che l’ipnotista induce lo stato di potenziamento della mente in cui si può non avvertire dolore oppure provocarlo a comando, in cui sembra possibile il raggiungimento degli stati più profondi dell’essere, dove le separazioni si fanno più vaghe e indefinite e le connessioni fra le cose sono assolutamente più originarie. Lo stato di ipnosi sembra essere indotto da una elevata concentrazione dell’attenzione e da una drastica riduzione delle distrazioni. È come se focalizzandosi su una monoidea, su una particolare qualità, colui che entra in uno stato ipnotico riesca a oltrepassare la condizione del dominio consueto della ragione, che ordina in categorie, per giungere in un luogo dove la percezione spazio-temporale è soppressa. Una volta separato l’inseparabile, una volta distillata la qualità particolare, la monoidea, è possibile che avvenga una sorta di ribaltamento per cui focalizzandosi su di essa si accede a uno stato di trance dove siamo più prossimi all’Unità, rivolti alla rappresentazione interna (insight). Se la mente si focalizza su una sola qualità, magari nemmeno notata prima di allora, ogni altra percezione esterna scompare, il consueto categorizzare svanisce, e si ritorna in uno stato che precede ogni divisione, stato in cui la memoria, la creatività, l’intuizione sono amplificate, spazio e tempo svaniscono, il dolore può essere eliminato o indotto. Anche questa via è aperta a chi diventa capace di “vedere”. Esiste quindi una qualità di mela che avrà proprietà differenti da un’altra mela, e proprio per questo è contraddistinta, signata, da un nome differente: una avrà una scorza più sottile, l’altra più spessa, una avrà una polpa dolce, l’altra risulterà aspra. La non acquisizione così come la perdita del lessico va qui di pari passo alla perdita del gusto, alla facoltà di assaporare le qualità degli enti. Chi non è capace di separare-santificare non possiede un destino personale, desiderato, voluto. Una raffinata consapevolezza sembra dominio di chi sappia riscontrare, soppesare, gustare, osservare con animo ben disposto le differenti qualità di ciò che ci sta dinnanzi, per poi ricomprenderle in noi. È quanto avviene nell’arte, nella letteratura, così come nella pratica del filosofo e, a mio avviso, dell’analista filosofo10. Occorre spingersi nei luoghi caotici e innominati, negli spazi mai attraversati dalla visione, mai ancora lambiti dall’idea, per scorgere per la prima volta qualità passate inosservate e portarle alla luce, rivelarle. Leggere un libro così come si legge una vita, guardare le differenze all’interno della stessa specie non per classificare con l’occhio limitato dell’illuminista che non conosce sfumature, ma per comprendere che si tratta dello stesso tipo di lavoro, il lavoro lento del discernimento, del trarre forme nuove dal caos, lavoro fra tutti il più vero, il più artigianale, il più divino. In una seduta di analisi può avvenire qualcosa di simile. I frutti del profondo paiono a prima vista tutti uguali, hanno tutti le medesime connotazioni: cose di poco conto, scarti, accostamenti inutili, volti, forme e nomi che tendono a sfuggire. Così anche le cose di superficie, con le quali più spesso entriamo in contatto, ci stanno davanti sotto il manto comune dell’indifferenziato. Sappiamo bene che l’inconscio riesce a mettere in relazione contemporaneamente una quantità esponenzialmente più elevata di elementi rispetto alla facoltà della coscienza. Forse questo lo sapeva bene Gustav Meyrink che si spinge alle “frontiere dell’occulto” nel breve scritto Magia nel sonno profondo quando sostiene che: “il perno è nel sonno profondo: lì è il punto d’appoggio dell’universo, sul quale può essere poggiata la leva di Archimede per far uscire le stelle dalle loro orbite”11. Tutto questo ha infatti a che fare con il destino di ciascuno, e la magia da sempre ambisce a giocare con le stelle. Dopo quel primo incontro dal cortile della scuola, decisi di impegnarmi in ogni modo per apprendere l’arte del tamburo. Non era facile tenere in mano le bacchette, soprattutto riuscire a produrre un rullo continuo era il mio desiderio più grande. Si trattava di capire il rimbalzo della bacchetta, che doveva suonare due colpi velocissimi, uno dietro l’altro, due con la destra e due con la sinistra, senza fermarsi. Ci si siede rilassati, quasi ingobbiti sullo sgabello, gli avambracci stanno ad angolo retto rispetto alla pelle del tamburo e la bacchetta va stretta ma non troppo, fra pollice e indice, le altre mani seguono il rimbalzo della bacchetta che ruotando si allontana e si avvicina al palmo della mano. Mi feci comprare un tamburo muto, di quelli che non fanno rumore, e passavo le giornate cercando di capire il segreto della velocità del rullo. Destra destra, sinistra sinistra, destra destra, sinistra sinistra... Per imparare occorre partire con estrema lentezza, una lentezza innaturale, dato che la velocità più spontanea per il cervello umano si aggira intorno ai 90 bpm (battiti per minuto). Invece lo sforzo immane consiste proprio nel partire con la serie dei colpi a una velocità scomoda, intorno ai 60 bpm, per poi raggiungere, in modo graduale, la velocità più elevata possibile, cercando di non sbagliare, e poi piano piano si ritorna alla velocità di partenza. Si tratta di stare con ciò che è scomodo, per accoglierlo, comprenderlo e dominarlo. Ma perché il mio sogno era quello di produrre, con la velocità estrema dei colpi, proprio il rullo? Cioè quella serie ininterrotta di colpi velocissimi? Ancora non lo sapevo, ma certamente presentivo che nel rullo la mente si placa, l’Io scompare e ciò che avviene non è altro che una vera e propria congiunzione degli opposti, tanto cara agli alchimisti. La velocità estrema provoca nel rullo un effetto di continuità assolutamente statica, di modo che il contrario trapassa nel suo opposto e viceversa: il veloce diventa immobile, l’immobile si rivela composto dal movimento. A scuola picchiettavo con le dita tutto il tempo. Oppure con la penna. Ascoltavo il suono dell’astuccio, il suono del legno delle varie parti del banco, il suono di un libro grosso e quello di uno più sottile. Stavo cercando l’essenza degli oggetti, grazie a una “bacchetta magica”. Il gesto di toccare ciò che ci appare come altro da noi ha una dialettica segreta, è come una lotta per il riconoscimento: l’oggetto dovrà riconoscerci e noi dovremo riconoscere che l’essenza dell’oggetto risponde a un ritmo, il quale poi in noi darà vita a una catena di rimandi metaforici, significativi. Velocità del tempo significa velocità dello stato interno; la nostra mente si disporrà conformemente al ritmo forse in vista di una fuga, di una corsa gioiosa, di un ballo frenetico. Zolla insegnò a riconoscere le proprietà e le virtù dei ritmi, ma ancora non lo sapevo. Jung scrive in Simboli della trasformazione12 che l’energia libidica in regressione attiva zone antiche del cervello, luoghi arcaici che sono più prossimi ai ritmi: per questo alcuni psicotici sembrano posseduti dai ritmi, barcollano, si picchiano con una ritmicità perfetta, rivelando il substrato libidico-ritmico dell’essere. Martin Heidegger del resto penserà all’esser-ci come temporalità e motilità; per Emanuele Severino invece questa è pura follia, la follia dell’Occidente, che consisterebbe proprio nell’aver introdotto, con una metafisica corrotta, la temporalità nell’Essere che non può mai divenire altro e ritornare nel Nulla, giacché Essere e Nulla sono originariamente opposti. È interessante ritrovare nel testo di Jung, una particolare interpretazione della vicenda ritmica dell’umano nella quale è ricompresa anche la genesi dell’idea del divino. Jung tenta una ricostruzione antropologica curiosa e creativa in cui avanza l’ipotesi che se dallo sfregamento ritmico nasce il fuoco e se questo sfregamento ritmico allude a una masturbazione, ovvero alla volontà d’inseminare le cose con il desiderio, il ritmo corrisponderebbe allora all’energia fallica creatrice di cui la luce e il fuoco non sono che altrettanti simboli. Così anche la parola, da questa angolazione, è figlia del ritmo ed è Verbo luminoso che contrasta le tenebre. Dio è il Verbo, Dio è luce, Dio è un fuoco che zampilla grazie a un ritmo, ritmo mosso dalla mano di un uomo che attraverso la propria libido, cioè la propria energia inconscia, vuole in primo luogo rinascere diventando come Dio, immortale come Dio. Tutto è dunque ritmo che si rinnova e che porta le forme al livello estremo della loro manifestazione. Ecco la catena dei significati ritmici: dallo sfregamento regressivo a Dio. Forse anch’io a mio modo cercavo Dio picchiettando sul banco, cercavo di esprimere la mia volontà segreta di rinascita, la mia impossibilità di masturbarmi, costretto a trattenermi immobile in un banco troppo piccolo. Di fronte a dei tamburi non si riesce a frenare la voglia di sperimentarne il suono. Per il neofita il primo colpo sul tamburo è sempre impressionante. Il fatto è che nessuno si aspetterebbe una potenza acustica simile, e la prima reazione è quella del riso. Può assomigliare al riso del fanciullo che ha da poco scoperto il segreto di una potenza accessibile e riproducibile, una forza che nemmeno immaginava ma che è stato lui a scatenare. C’è spesso una grande timidezza di fronte alla pelle tesa del tamburo, si è attratti e respinti da questo cilindro affascinante, da questo cerchio di faggio, acero, betulla, oppure di acciaio od ottone a cui si somma l’elemento animale, ancestrale della pelle. Marius Schneider dice che il tamburo è il sommo strumento sacrificale, la pelle attesta un’immolazione, il suono è come un grido forse di dolore, di morte, il quale ci rammenta che ogni forma visibile proviene dall’invisibilità sonora e ad essa fa inesorabilmente ritorno. Qui i misteri si moltiplicano. Bataille sfiorò queste verità quando si riferì, in termini marxiani, alla violenza implicita nell’utensile, e alla menzogna della scissione che lo stesso utensile inaugura. L’utensile è una negazione che non si riconosce come momento da sacrificare, momento parziale, il quale occulta la verità del riconoscimento nell’Uno. Così la produzione, che nel capitale costituisce la forma alienata delle relazioni umane, corrisponde alla scomparsa del sacrificio, del dispendio gratuito del lusso, non essendo altro che accumulazione della menzogna del negativo quale elemento insuperabile. Allora il sacrificio mostra la violenza radicale come fondamento dell’esistenza, ma la stessa metafora è all’opera ad esempio nell’immaginario giuridico, nell’origine della legge, così come nella psiche dell’ossessivo che si domanda con quale norma imbrigliare l’inaspettato, l’imprevisto, l’avventuroso della vita, vale a dire ciò che sfugge da ogni costruzione, da ogni giurisdizione. Guai a scoprire che il fondamento della legge è un atto di sovrana violenza che precede il pensiero: ne saremmo sconvolti. Violenza non solo fisica, quanto logica, perché, come può essere inviolabile ciò che è soltanto arbitrario, come appunto lo è la legge fatta di articoli in continuo mutamento? E come può essere solida la costruzione che vuole escludere l’eccezione pur fondandosi su di essa? Forse si potrebbe pensare che i ritmi abbiano una valenza giuspositiva, si possono intendere come norme primordiali, le quali ordinano secondo il numero la mente e le cose. Ma se ci si fermasse a questo punto si perderebbe di vista proprio il carattere sacrificale del ritmo e del tamburo, che risiede nel suo sottrarsi al visibile, nel ricondurre tutto alla propria forma potenziale che solo si trascina come onda nello spazio. Il ritmo non nasconde il proprio fondamento ma anzi ne è la costante memoria. In questo senso porta in sé il seme della Verità, essendo indice di ogni inizio di una nuova forma e rivelazione della sua stessa disgregazione. Ecco allora che la voglia di percuotere il tamburo è una bramosia temibile. Si ha paura della nota pulsante che uscirà dal fusto, come dall’albero della vita e della morte, e ridiamo inebetiti per la potenza di ogni colpo che manifesta il suono e subito lo lascia svanire, lo sacrifica. Si ha paura del tamburo perché ci mostra la verità del fondamento e dell’origine, per cui far apparire il suono sulla pelle dell’essere implica il suo prossimo svanire nel silenzio. Durante il primo anno il tirocinio è quello del rullante, niente piedi, niente cassa, come non si fosse ancora pronti alla profondità, niente piatti, ancora non si è preparati per il cielo e i suoi boati, per l’acuto grido mutevole del metallo. I tamburi, i tom, il timpano, che degradano verso la gravità profonda, sono interdetti. Vedevo il maestro seduto alla batteria, un tutt’uno con lo strumento, piegava un poco la testa, era un impegno studiato, una coincidenza di articolazioni e clave13 che lo rendeva un essere perfetto nella coordinazione del suo aspetto e della sua intimità e nella creazione addizionale della loro somma. Entrava nel sancta sanctorum del ritmo in cui decideva di calarsi, si camuffava con le forme più sorprendenti. La batteria mi sembrava irraggiungibile, era come sedersi su un trono, andava conquistato. Solo rullante per adesso. Al muro dell’aula di percussioni era appesa la fotocopia dei rulli fondamentali: i rudiments. Colpi singoli, doppi, rullo a tre, a quattro, cinque, sette, nove e dodici e poi il paradiddle fondamentale. Non sapevo ancora che ogni numero possiede una qualità, anzi è una qualità. Nell’I Ching c’è chi suggerisce14 di provare a svolgere su un tamburo gli esagrammi, nelle diverse combinazioni possibili di linee lunghe o brevi. Il risultato? Il miracolo dell’evocazione. Lo stesso miracolo lo ritroviamo nella metrica della poesia, e la concezione è simile a quella della cabbala dove ogni lettera designa un campo semantico, un’idea, un archetipo con cui si compone ogni creazione possibile. Per sedere sulla batteria bisogna prima possedere le nozioni rudimentali che compongono ogni possibile idea di tempo nell’esecuzione di un accompagnamento, di un passaggio, o di un assolo. Un tempo di batteria è costruito dai rudimenti del tamburo, così in un solo il suonatore si esibirà nella padronanza di ogni rudimento, fino a dimostrare a chi ascolta – ma, prima ancora, il musicista lo dimostra a se stesso – l’emersione mentale e corporea dei numeri fondamentali e dei rulli corrispondenti, in sequenze e successioni inedite, impensate, estremamente ardite. Tale sapienza inebria. Si può anche far coesistere magicamente il due e il tre in un tempo che procederà androgino, binario per un verso, ternario per l’altro, dando l’impressione che i due poli non possano in alcun modo trovarsi uniti, fino a che periodicamente si sentiranno coincidenti, assimilati perfettamente. A questo allude il musicista suonando il due sul tre: egli si scinde, si divide in una postura, in un atteggiamento profondamente convinto dell’opposizione duale da una parte, e della triangolazione ternaria dall’altra, fino al punto in cui queste due posture rispetto alla realtà non appaiano contrarie e inconciliabili, ma poi ecco il “miracolo”: due e tre possono esprimersi nelle loro differenziazioni ma nel processo del loro dispiegamento arriveranno periodicamente a un accordo. Questo la sa bene chi sviluppa nella propria individualità tipologie di personalità apparentemente opposte che nel tempo di una vita potranno arrivare a integrarsi in una personalità progressivamente più completa. Forse è questa una prefigurazione ritmica dei tipi psicologici15? Quando bussai per la prima volta alla porta della nuova psicoterapeuta, non avrei potuto sapere che gran parte del lavoro insieme sarebbe stato quello di far coesistere in un’unica forma, la mia, due modi di essere divergenti. Da una parte ero stato preso dal potere della conoscenza filosofica, del potere della dimostrazione e della verità, dall’altra subivo il richiamo della “follia” ritmica, sospetta, inaffidabile, che non dimostra ma scuote, che non scava ma espone, e che è fatta della verità di ciò che si mostra senza il tempo della riflessione. Gli anni del liceo furono attraversati dallo studio del tamburo: alla filosofia si aggiungevano il rito del ritmo, delle sale prova, l’esperienza dei primi concerti. Cos’è più potente? Questo mi chiedevo allora, ovviamente senza saperlo. C’è una parola che costringe con il ragionamento, e un ritmo che costringe con il suo sapere mimetico, da sempre compromesso con la verità degli esseri. Quando il professore di filosofia tenne le prime lezioni a una classe inspiegabilmente concentrata, avvertii fra il cuore e lo stomaco l’emergere di una fascinazione irresistibile, che per certi versi avrebbe trasformato le aspettative carnali, fisiche, sessuali, costantemente represse. La spinta al “dominio fallico” si eclissava davanti alla sicura noncuranza delle ragazze, al loro essere altrove, al loro cambiare forma. La parola e il tamburo furono strade apparentemente distanti – e noi tutti cadiamo nei tranelli dell’apparenza (o in quanto pensiamo che essa sia la forma definitiva della realtà oppure in quanto nella ricerca di un fondamento ultimo non siamo disposti a vedere la maschera che sta oltre ogni maschera) – per inseguire lo scopo di mostrarmi quale essere magnifico, unico nella conoscenza della costrizione necessaria dei sillogismi e dei piedi di ogni metrica, così da trasformarmi in qualcosa di metafisicamente irresistibile. Se le ragazze ballavano, io certo non trovavo il coraggio di muovermi insieme a loro, a ben guardare avrei dovuto scavalcare il muro di ogni regola, il confine della legge con la sua decente sicurezza. Non ci sarei mai riuscito. Potevo perdermi, certo, ma nei ragionamenti, nelle deduzioni, oppure nel libro cerimoniale della maglia incantatoria dei ritmi, ma sempre in un involucro giurisprudenziale, come al riparo nella legge. Il ballo avrebbe richiesto una sorta di gesto fondativo della legge, della mia legge, un gesto folle del corpo lasciato, abbandonato alla corrente incorrotta della fanciullezza. Non avrei mai ballato alle feste in casa delle compagne, già elevate in spirito dai loro tacchi carnali. Eppure conoscevo il perché del loro moto insensato nell’evidenza del loro tempo giovane, comprendevo i principi del loro piroettare, quindi in qualche modo ne comprendevo l’approdo, il vano affanno, così da considerarlo perfettamente inutile. Ancora non sapevo che l’inutile è il sommo sacrificio e che sono pochi coloro che sanno praticarlo, perché il rituale stesso in questo sacrificio è bandito, è come risucchiato esso stesso nel vortice della danza dell’improduttivo. Proprio per questo i ragazzi si vergognano davanti al ballo femminile: dovrebbero mostrarsi inutili, convintamente ridicoli, improduttivi, capaci cioè di smarrire ogni forma, in una parola: sapienti. Ero un Ulisse borghese, incapace di godere del canto delle sirene; in questo mi sono riconosciuto come formato dallo spirito di questo tempo, in questo la parola filosofica mi ha anche guarito, perché mi ha mostrato la mia condizione, me l’ha posta specularmente davanti agli occhi: grande insegnamento iniziatico, quello dello specchio. Si dice che nel Rito Scozzese, in Francia16, nel rituale d’iniziazione il profano sia a un tratto posto dinnanzi a uno specchio mentre una voce gli suggerisce che quello che lui vede è da sempre il suo peggior nemico. Forse esiste un punto in cui la filosofia si converte in qualcos’altro, qualcosa di sapienziale, qualcosa capace di trasformare l’uomo virtuale in un Uomo reale. L’Ulisse della Dialettica dell’illuminismo17 assomiglia, come figura del mito, al mio intimo terrore adolescente di accedere al regno proibito del godimento, di andare oltre le forme, nel “regno delle madri”, nel luogo in cui i ritmi si confondono e l’armonia è primordiale dissonanza. Come scrisse Theodor Adorno nella sua Estetica: La dissonanza è la verità dell’armonia. Presa rigorosamente, quest’ultima, in base al suo stesso criterio, si dimostra irraggiungibile. I suoi desiderata vengono soddisfatti solo quando tale raggiungibilità si manifesta come una parte di essenza; come nel cosiddetto stile tardo di artisti di rilievo. Esso, molto al di là dell’oeuvre individuale, ha una forza esemplare, la sospensione storica dell’armonia estetica nel suo complesso. La rinuncia all’ideale classicista non è un mutamento di stile o addirittura un mutamento dell’equivoco sentimento della vita, ma è frutto dei coefficienti d’attrito dell’armonia, che presenta come concretamente conciliato ciò che non lo è, e così trasgredisce il postulato dell’essenza manifestantesi al quale invece mira proprio l’ideale dell’armonia. L’emancipazione da esso è una estrinsecazione del contenuto di verità dell’arte.18 Che la dissonanza sia la verità dell’armonia lo si riscontra non appena certe manifestazioni abusate di bellezza che equivalgono a forme abusate di morale – estetica e morale spesso procedono appaiate – si rivelano come noiose, poco comunicative. Ma questo va di pari passo con la crescita individuale, anzi ne è l’indice: chi fotografa fiorellini e tramonti, come chi si riconosce in troppo comode formulazioni morali, è a mio avviso alla ricerca di quella conciliazione armonica propria dell’ideologia, che se potrà sopraggiungere non potrà essere che una ri-conciliazione, la quale dovrà portare il peso della dissonanza dell’altro da sé, del negativo (almeno in una prospettiva dialettica). La questione la ritroveremo tutt’intera nel problema contemporaneo dell’annullamento del rituale nella consumazione della carne. Come osserva Roberto Calasso nell’Ardore19, la ritualità vedica in talune circostanze assolveva al compito di riconoscere il fondamento violento, dissonante, negativo, che si instaura nel rapporto con l’animale ucciso, nella dialettica necessaria della vita. Chi oggi vuole astenersi dalla carne perché non vuole immischiarsi, compromettersi con la violenza, con il dolore dell’esistenza, applica una morale ingenua che mira a una facile armonia la quale riconcilierebbe ciò che di per sé rimane inconciliabile: vita e dolore. La dissonanza è il grido di dolore della vita stessa e finché si è vivi si è anche chiamati a fare i conti con questo dato primo, che ci dice della umana ex-sistenza, della separazione dall’Essere. Si tratterà di comprendere, attraverso la lezione dell’idealismo e dell’idealismo radicale, se tale separazione che in ogni istante si rigenera non sia il soggetto stesso a generarla: sono, come narra Platone in forma mitica, le anime che hanno varcato il fiume della dimenticanza a scegliere il loro destino, senza sapere che cosa tale scelta comporti sul piano dell’esistenza. Volendo armonizzare il dolore senza vedere il dolore stesso e la sua dissonanza come da sempre implicati nella questione dell’esistenza, si approda così a una morale dell’autoassoluzione che forse ha poco a che fare con la relazione amorevole con l’animale. Con il sentimento di non implicazione nei processi inevitabilmente violenti dell’esistenza, la quale di per sé reitera la violenza del distacco dall’Essere, la visione del male e del dolore precipitano in uno sfondo sempre più dimenticato, sempre più pericolosamente rimosso, e insieme alla rimozione del negativo si rimuove anche il metodo per accostarsi adeguatamente alla potenza del negativo cioè, a questo punto, alla potenza del sacro come ambivalente: allora il rito come metodo sembra non essere più necessario. Con l’esclusione della ritualità, il riconoscimento della colpa di ciascuno – della colpa originaria del voler essere e voler essere individui, degli in sé separati ma non si sa come già anche conciliati e armonizzati – diventa cosa quasi impossibile. Si è già buoni, già armonizzati, già conciliati, anche se non si è mai visto il negativo, anzi proprio perché non si è mai visto. Il grido della bestia sacrificata è una dissonanza inaudibile, scavalcarla, non volerla udire, illudersi di campare senza dissonanza è un compromettersi con il male di gran lunga maggiore rispetto al riconoscimento struggente del dolore indispensabile dell’altro che con la sua dissonanza mi dona la vita. Questioni sonore, questioni ritmiche, per le quali occorre farsi l’orecchio, questioni forse già comprese nello studio del tamburo, per cui all’inizio ci si appassiona alla regolare quadratura dei tempi pari ma poi ci si annoia per la loro monotona e ingenua conciliazione cardinale, e si aspira al fuoritempo, al colpo dissonante, inatteso, per certi versi “ingiusto”, che vuole stare dove apparentemente non gli era concesso. Ma c’è qualcosa che non è concesso a ciò che regola ogni concessione? Così si sperimenta una nuova morale ritmica, una morale in cinque o in sette, fondata su una metafisica dispari che disorienta. I batteristi contemporanei cercano di suonare dando la sensazione di non andare a tempo anche se seguono rigorosamente il metronomo, e il loro errore è una finzione barocca che riproduce artificialmente l’errore vero, si tratta di un errore simulato, dell’illusione dell’errore. Si sente il desiderio di errare. Questo può far pensare a una sorta di schiavitù moderna nei confronti della precisione, alla perfezione richiesta anche dalla musica pop come espressione tecnicizzata di una musica industriale in cui appunto non c’è possibilità di fuga, non c’è margine di errore. Anche quello che viene percepito come dissonante, come impreciso, è qui in realtà compreso già da sempre nella precisione computerizzata, e appartiene di diritto all’architettura dell’intrattenimento. Ci si sente sicuri: anche l’errore, la dissonanza sono controllati e non cadranno mai oltre l’ancoraggio sicuro del ritmo stabilito. Spaesamenti controllati, gli stessi che stanno agli albori del consumo di massa e che privarono l’uomo della sua condizione di essere errante: si pensi al camminare di Henry David Thoureau e alle visioni di Jean Baudrillard nel suo America20, in cui i moderni maratoneti sperimentano un impulso di morte massificato, dove a dominare è l’insensatezza del “just do it”, del “ce l’ho fatta”, “posso farcela”. Siamo soltanto nella fase che doveva precedere l’installazione di telecamere su bastoni estensibili, sui caschi dei ciclisti-eroi, per filmare imprese eroiche quotidiane, telecamere di un brand che ha deciso di chiamare i propri modelli “hero”, be a hero! Anche tu puoi diventarlo! Ognuno è sovrano e ognuno è un eroe che gioca con la morte senza aver mai sperimentato l’intensità di una camminata. Una cosa è sperimentare più ritmi, evocarli, utilizzarli in sequenze impensate, altra cosa è esercitarsi a creare l’artificio dell’errore per mentire, per spaesare, per far credere all’ascoltatore di condurlo in un paesaggio inaspettato mentre invece ci si barcamena sempre nello stesso confine. La mia forma... ancora pensavo di dover trovare una forma, non sapevo che sono le forme che ci vengono a trovare e che spesso non possiamo fare altro che accoglierle, guardarle da dentro, sperimentarne i benefici e i limiti. Quando si suona uno strumento si è costretti a non rimanere a lungo dentro lo stesso tempo, lo stesso ritmo; allo stesso modo, quando si studia la storia della filosofia non si rimane mai dentro l’orizzonte di una cornice filosofica ma si è costretti ad andare oltre, a riconoscersi nei sistemi passati in rassegna, e ogni sistema di per sé è “giusto”, ognuno presenterà elementi più o meno convincenti. Spesso il lavoro di analisi, nella stanza dell’analista filosofo, a mio avviso si gioca nel passaggio dal due al tre, nel superamento dell’opposizione a favore dell’integrazione, la quale comporta un ampliamento della coscienza. Così imparai che si può essere musicisti e filosofi e che il possesso dei ritmi e il possesso delle argomentazioni riguardano in entrambi i casi l’aspirazione alla potenza. Si tratta di accorgersi del fatto che ogni nostra azione si muove sempre all’interno di un orizzonte metaforico, ciò che conta è essere il più possibile presenti a noi stessi quando ci ritroviamo a sperimentare la stessa metafora in contesti differenti. Forse l’abbandono della volontà di potenza sarà simile alla somma di ogni ritmo, oppure al silenzio che si raggiunge dopo aver suonato a lungo ogni numero ritmico possibile, oppure ancora assomiglierà a una filosofia più vicina a una narrativa o a una poetica della contemplazione. Oggi si preferisce imbattersi in individui monotoni, monolitici, specializzati; si diffida dei conoscitori dei ritmi, degli sperimentatori di tipi psicologici distinti. Un tempo accadde che ritmo e contenuto si separarono, cioè avvenne la nascita della modernità. Cos’altro è in fin dei conti la cesura del moderno se non lo stravolgimento dei ritmi e la dimenticanza circa il loro significato? I ritmi continuano a esistere, si riproducono incessantemente, continuamente si generano e rigenerano, ma per noi sono divenuti come muti, hanno cessato di significare. Se l’uomo greco possedeva la certezza della visione divina, riconosceva gli dei e, come si dice, era sicuro del loro apparire intramondano, noi moderni non riusciamo più a riconoscerli, anche se, come dei, nella loro immortalità certo non possono essere morti. Eccoci di colpo a un passo dalla tradizione eraclitea, secondo cui la natura amerebbe nascondersi. Eppure può trattarsi anche solo di un divino che, mostrandosi continuamente in superficie, sulla crosta terrestre dell’apparenza, non si nasconde affatto, ma rimane lì in superficie, composto come di vortici ritmici, di colori sonori, di intensità e di tensioni armoniche, di diesis e bemolli: