giovedì 9 luglio 2020


ČECHOV E LE DONNE
Ho raccolto alcuni dei racconti di Čechov che hanno le donne come protagoniste.
 L'autore si propone di cogliere le molteplici problematiche  che riguardano  la femminilità, vista nel  controverso ruolo delle donne nella società. Čechov ci presenta una moltitudine di tipologie: donne giovani, vecchie, streghe, ammogliate, fidanzate, ingenue, furbe, fragili, disperate, avide, superficiali, riflessive, manipolatrici, provenienti da diversi ambienti e da diverse classi sociali; donne tutte diverse fra loro sì, ma sottoposte al giudizio sempre negativo dell'autore 


LA FORTUNA DI ESSERE DONNA
di Anton Čechov

Si facevano i funerali del tenente generale Zapupyrin. Verso la casa del defunto, dove echeggiava la marcia funebre e risuonavano parole di comando, la gente accorreva da ogni parte, desiderosa di assistere al trasporto del feretro. In uno dei gruppi che accorrevano, si trovavano due impiegati, Probkin e Svistkòv. Tutti e due erano con la moglie. 
- Non si può passare - li fermò un vice commissario di polizia, dal viso buono e simpatico, quand'essi si avvicinarono ai cordoni. - No-on si può! Prego, un pochino più indietro! Signori, non dipende da noi! Prego, indietro! Del resto, e sia, le signore possono passare...prego, mesdames, ma...voi signori, per amor di Dio...
Le mogli di Probkin e di Svistkòv si fecero rosse per l'inattesa amabilità del vice commissario e sgusciarono attraverso i cordoni, ma i mariti rimasero dall'altra parte della barriera vivente a contemplare le schiene delle guardie a piedi e a cavallo.
- Sono passate! - disse Probkin, guardando con invidia, quasi con odio, le donne che si allontanavano. - Hanno fortuna, per Dio, queste gonnelle! Al sesso maschile non saranno mai concessi i privilegi di cui gode il sesso femminile. Ma che c'è in loro di straordinario? Sono donne, si può dire, delle più comuni, piene di pregiudizi, e le hanno lasciate passare; ma io e te, anche se fossimo consiglieri di Stato, per nulla al mondo ci lascerebbero passare. 
- Il vostro modo di ragionare è strano, signori! - disse il vice-commissario, guardando Probkin con aria di rimprovero. - Se vi lasciassero passare, voi comincereste subito a spingere e a far disordine: ma una signora, con la sua finezza, non si permetterà mai nulla di simile!
- Smettetela, per carità! - si irritò Probkin. - Nella folla la donna è sempre la prima a spingere. L'uomo sta fermo e gurada in un punto, ma la donna lavora di gomiti e spinge perché non le sciupino le vesti. Non c'è che dire! Il sesso femminile ha sempre fortuna in tutto. Le donne non vanno a fare il soldato, partecipano gratuitamente alle serate danzanti e sono esenti dalle pene corporali...E per quali meriti, domando io? Una signorina lascia cadere un fazzoletto e tu glielo raccogli; lei entra e tu ti alzi e le cedi la tua sedia; esce, tu l'accompagni...E prendete i titoli! Per giungere, mettiamo, a consigliere di Stato, tu ed io dobbiamo sgobbare tutta la vita, ma una ragazza in quattro e quattr'otto si sposa con un consigliere di Stato: ecco che è già una personalità. Perché io sia fatto principe o conte è necessario che conquisti il mondo, prenda una città ai Turchi, diventi ministro; ma una qualsiasi, che Dio mi perdoni, Vàren'ka o Kàten'ka, con ancora il latte sulle labbra, fa la ruota davanti a un conte, strizza gli occhiettini, ed eccola sua altezza...Tu sei ora segretario provinciale...Questo grado, si può dire, te lo sei guadagnato con sudore e sangue; ma la tua Mar'ja Fomišna? per qual ragione è segretaria provinciale? da figlia di pope, è diventata direttamente funzionaria! Bella funzionaria! Dàlle da fare il nostro lavoro e lei ti scriverà le entrate al posto delle uscite.
- Però la donna partorisce i figli con dolore - osservò Svistkòv.
- Bella roba! Se dovesse star dritta davanti a un superiore quando ti fa venir freddo, gli stessi figli le sembrerebbero una delizia. In tutto e per tutto esse godono di privilegi! Una qualunque signorina o signora del nostro ambiente può dire a bruciapelo a un generale cose che tu non osersti dire a un usciere. Sì...La tua Mar'ja Fomišna può arditamente andare a braccetto con un consigliere di Stato, ma rendilo un po' tu a braccetto un consigliere di Stato! Provaci e vedrai! Nella nostra casa, proprio sotto di noi, fratello, abita un professore con la moglie...Un generale, capisci, insignito dell'ordine di Sant'Anna di primo grado, ma si sente di continuo la moglie come lo tratta: " Stupido! stupido! stupido!". E non è che una semplice donnetta, di famiglia piccolo-borghese. Del resto, qui si tratta della moglie legittima e non c'è niente da fare...da che mondo è mondo, è ammesso che le mogli legittime insultino, ma tu prendi quelle che non lo sono! che cosa si permettono queste!  Per tutta l'eternità non mi dimenticherò un caso. Poco mancò che non mi rovinassi e, se sono scampato, fu senza dubbio per le preghiere dei miei genitori. L'anno scorso, ricordi, quando il nostro generale andò in permesso a casa sua in campagna, mi prese con sé per sbrigare la corrispondenza...Una cosa da nulla, un'ora di lavoro. Dopo averlo sbrigato, ero libero di andarmene per il bosco o di ascoltare i canti della servitù. Il nostro generale era scapolo. la casa ea piena di tutto, i servi erano numerosi come i cani, ma non c'era una moglie, nessuno che governasse la casa. Gente sempre indisciplinata e disobbediente...e a tutti comandava una donnetta, l'economa Vera Nikìtišna. Lei versava il tè, ordinava il pranzo e sgridava i servi. Era una donna, fratellino mia, cattiva, velenosa, dallo sguardo satanico. Grassa, rossa, stridula...Quando cominciava a gridare contro qualcuno, quando levava certi strilli, sarebbero fuggiti anche i santi. Non tanto gli insulti davano ai nervi, quanto quegli strilli. Oh, Signore! Non lasciava vivere nessuno. Non solo con la servitù, ma anche con me cominciò a prendersela, quella briccona...Ebbene, penso, aspetta un po': troverò io il momento e racconterò tutto al generale. Egli è immerso, penso, nelle cose del suo servizio e non vede come tu lo derubi e maltratti la gente, aspetta che gli aprirò gli occhi. E glieli aprii, fratello, gli occhi, glieli aprii in modo tale che poco mancò che non chiudessi per sempre i miei e anche adesso, se ci ripenso, mi sento riempire di spavento. Vado un giorno per il corridoio e a un tratto sento degli strilli. Da principio pensai che scannassero un maiale, ma poi tesi l'orecchio e sentii che era Vera Nikìtišna la quale inveiva contro qualcuno: "Animale! Schifoso! Demonio!". "Chi sarà costui?" penso. E a un tratto, fratellino mio, vedo che si apre la porta e ne sguscia fuori il nostro generale, tutto rosso, con gli occhi fuori dell'orbita e i capelli come se il diavolo ci avesse soffiato sopra. E lei gli grida dietro: "Schifoso! Diavolo!". 
- Tu menti!
- Parola d'onore. Mi sentii avvampare, sai. Il nostro generale fugge nella sua camera e io me ne sto nel corridio, come un imbecille, senza capir nulla. Una semplice donnetta ignorante, una cuoca, una zotica, si permette tutt'a un tratto di parlare e di agire a questo modo! Vuol dire, penso, che il generale voleva lincenziarla e lei, approfittando che non c'erano testimoni, glie n'ha dette di cotte e di crude. Tanto se ne deve andare! Mi sentii indignato...Andai da lei nella sua camera e le dissi: " Come hai osato, tu, miserabile, dir simili parole ad una persona così altolocata? Credi tu, perché egli è un vecchio impotente, che non ci sia nessuno per prendere le sue parti?" La presi, capisci, e le affibbiai due ceffoni sulle guance paffute. Alzò tali strilli, fretellino mio, si mise a urlare così forte che io dissi fra me: che tu sia tre volte maledetta! Signore aiutami! Mi turai gli orecchi e andai nel bosco. Dopo circa due orette mi corre incontro un ragazzotto: "Favorite dal padrone". Vado. Entro. Siede tutto imbronciato come un tacchino, e non mi guarda.
- " Che state mai combinando, dice, in casa mia?". "Come sarebbe a dire?, domando. Se, dico, voi parlate della Nikìtišna, vostra eccellenza, io ho preso le vostre parti". "Non è affar vostro, dice, immischiarvi nelle faccende familiari altrui!". "Capisci? Faccende familiari! E come cominciò, fratello, a tartassarmi, come cominciò a strigliarmi! Per poco non ne morii! Parlava e parlava, borbottava e borbottava, e a un tratto, fratello, che è che non è, scoppia a ridere. "Ma come avete potuto far ciò?!...dice. Come avete trovato il coraggio? È sorprendente! Ma spero, amico mio, che tutto questo rimarrà fra noi...Capisco la vostra impetuosità, ma conviene che una vostra ulteriore permanenza in casa mia è impossibile...". Ecco, vedi, fratello! Gli riusciva perfino sorprendente che io avessi potuto picchiare una tacchina così tronfia. Quella donnetta lo aveva accecato! Un consigliere segreto, insignito dell'Aquila Bianca, che non conosce superiori al di sopra di sé, era sottomesso a una donnetta...Grandi sono, fratello, i privilegi del sesso femminile! Ma...levati il berretto! Portano fuori il generale...Quante decorazioni, santi del paradiso! Ma perché diamine hanno lasciato passare le donne, forse che ne capiscono qualche cosa di decorazioni?
La musica cominciò a suonare.
«La concisione è sorella del talento»
«più breve è, più vale»
In questo caso, aggiungo io, non vale molto.


LA STREGA
Anton Čechov
 In questo racconto una giovane e bellissima donna è vittima del proprio status di moglie di un orribile e squallido marito imposto dall'alto, ed è vittima impotente dei propri istinti sessuali (frustrati).

LA STREGA
Si avvicinava la notte. Il sagrestano Savelij Gykin se ne stava sdraiato sul suo enorme letto nella casetta attigua alla chiesa e non dormiva, sebbene avesse l'abitudine di addormentarsi con le galline. Da un'estremità della sudicia coperta, fatta di multicolori pezzetti d'indiana cuciti insieme, sporgevano i suoi ispidi capelli rossicci, dall'altra i grossi piedi, non lavati da un pezzo. Stava in ascolto... La sua casetta era attaccata al muro di cinta e l'unica finestra dava nei campi. E su quei campi, in quel momento, si svolgeva una vera e propria battaglia. Non era facile capire chi era che mandava l'avversario all'altro mondo, e per la rovina di chi la natura fosse in tale subbuglio; certo è che, a giudicare dal rombo incessante, lugubre, c'era qualcuno che stava passando brutti momenti... Una forza vittoriosa inseguiva qualcuno per i campi, infuriava nella foresta e sul tetto della chiesa, picchiava rabbiosamente i pugni contro la finestra, lanciava oggetti all'impazzata e urlava, qualcun altro, vinto, gemeva e singhiozzava... Il pianto lamentoso si faceva udire ora fuori della finestra, ora nella stufa, ora sopra il tetto. In esso non c'era un'invocazione di aiuto, ma piuttosto una grande angoscia, e la certezza che ormai era troppo tardi, che non c'era più via di scampo. I cumuli di neve si erano ricoperti di una sottile crosta di ghiaccio; su essi e sugli alberi tremolavano lacrime, e per strade e per viottoli dilagava una fanghiglia scura fatta di mota e di neve sciolta. Insomma, sulla terra era giunta l'ora del disgelo, ma pareva che il cielo, attraverso il buio della notte, non se ne accorgesse, e con tutte le sue forze continuava a soffiare sulla terra ormai in via di sgelarsi, fiocchi di neve fresca. E il vento impazzava come un ubriaco... Non dava tempo alla neve di posarsi sulla terra e la faceva turbinare nelle tenebre a suo piacere.
Gykin tendeva l'orecchio a quella musica e si accigliava. Il fatto è che egli sapeva, o almeno indovinava, a che cosa mirasse tutto quello scompiglio fuori della finestra e di chi fosse opera.
«Io lo so-o!» borbottava, minacciando qualcuno col dito sotto la coperta. «So tutto, io!»
Presso la finestra, su uno sgabello, era seduta sua moglie, Raisa Nilovna. Un lumino di latta, posto su un altro sgabello, incerto e come senza fiducia nelle proprie forze, spandeva una luce fioca e tremula sulle sue belle e ampie spalle, sulle curve appetitose del suo corpo, sulla sua grossa treccia che arrivava a toccare il pavimento. Stava cucendo dei sacchi di rozza canapa. Le mani si muovevano rapidamente, mentre tutto il corpo, l'espressione degli occhi, le sopracciglia, le labbra tumide e il collo bianco, restavano immobili, immersi in quel monotono, meccanico lavoro, e pareva che dormissero. Solo di rado la donna alzava la testa, per far riposare un poco il collo affaticato, gettava una rapida occhiata alla finestra, al di là della quale infuriava la bufera, e di nuovo si chinava sulla tela. Il suo bel volto, col naso all'insù e le fossette nelle gote, non esprimeva nulla, né desideri, né tristezza, né gioia... come nulla esprime una bella fontana quando non c'è l'acqua.
Ma ecco che ha finito un sacco, l'ha buttato da un lato e, stirandosi languidamente, ha fissato il suo sguardo torbido, immoto sulla finestra... I vetri, rigati di goccioline, biancheggiavano di effimeri fiocchi di neve. Fiocchi che cadevano sul vetro, guardavano un attimo la donna, e subito si scioglievano...
«Vieni a letto!» brontolò il sagrestano.
La moglie taceva, ma ad un tratto le sue ciglia ebbero un guizzo, e nei suoi occhi brillò un lampo d'attenzione. Savelij, che per tutto il tempo aveva spiato da sotto la coperta l'espressione del suo viso, tirò fuori la testa e domandò: «Che c'è?»
«Nulla... M'è sembrato che passasse una vettura...» rispose piano la donna.
Il sagrestano si gettò via da dosso la coperta, con le mani e coi piedi, si rizzò in ginocchio sul letto e guardò con aria ebete la moglie. La timida luce del lumino rischiarò il suo viso butterato, peloso, e scivolò sui capelli irti e ruvidi. «Senti?» domandò la moglie.
Tra il monotono ululare della bufera colse anche lui un gemito sottile, appena percettibile, simile al ronzio di una zanzara quando vuole posarsi sulla guancia e si irrita di esserne impedita.
«È il postale...» brontolò Savelij, accovacciandosi sui calcagni. A tre verste dalla chiesa passava la strada postale. Nelle giornate in cui il vento soffiava dalla strada maestra in direzione della chiesa, gli abitanti della casetta potevano udire le sonagliere.
«Dio mio, chi avrà la voglia di viaggiare con questo tempo!» sospirò la moglie del sagrestano.
«Roba governativa, ti piaccia o no, tocca andare...»
Il gemito risuonò ancora un po' nell'aria, poi si spense.
«È passata!» disse Savelij tornando a sdraiarsi.
Ma non aveva fatto in tempo a tirarsi addosso la coperta, che gli giunse all'orecchio, nitido, un tintinnio di campanelli. Il sagrestano guardò con aria allarmata la moglie, balzò giù dal letto e, dondolandosi sui fianchi, avanzò lungo la stufa. Il tintinnio di campanelli durò ancora per un poco e poi cessò di nuovo, come troncato di colpo.
«Non si sente più...» mormorò il sagrestano, fermandosi e osservando con gli occhi socchiusi la moglie.
Ma in quello stesso istante il vento batté alla finestra e portò di nuovo il sottile gemito tintinnante... Savelij impallidì, tossicchiò, e riprese a camminare strascicando sul pavimento a piedi nudi.
«Fa fare il girotondo al postale!» sibilò, lanciando alla moglie occhiate in tralice, cariche d'odio. «Senti? Gli fa fare il girotondo!... Io... io lo so! Credi che non... capisca?» brontolò. «So tutto, che il diavolo ti prenda!»
«Che cosa, sai?» domandò piano la donna, senza staccare gli occhi dalla finestra.
«Ecco, so che sono tutti maneggi tuoi, satanassa! Maneggi tuoi, che il diavolo ti prenda! La bufera, il postale che gira intorno... tutto questo è opera tua! Opera tua!»
«Ti ha dato di volta il cervello, stupido...» ribatté tranquilla la donna.
«È un pezzo che me ne sono accorto. L'ho capito subito, fin dal primo giorno che t'ho sposata, che nelle vene hai sangue di cagna.»
«Pfu!» si stupì Raisa, stringendosi nelle spalle e facendosi il segno della croce. «Segnati anche tu, imbecille!»
«Una strega è una strega,» continuò Savelij con voce sorda, piagnucolosa, dopo essersi soffiato in fretta il naso nel lembo della camicia. «Anche se sei mia moglie, e vieni da una famiglia di ecclesiastici, in coscienza lo devo dire che razza di donna sei... E come! Che Dio mi protegga e abbia pietà di me! L'anno scorso, il giorno del profeta Daniele e dei tre giovinetti, ci fu una bufera, e che successe? Entrò un artigiano a ripararsi. Poi il giorno di Alessio, servo di Dio, il ghiaccio sul fiume si ruppe e capitò qui il commissario di polizia. Tutta la notte, maledetto, la passò a chiacchierare con te, e la mattina, quando uscì di casa, e io gli gettai uno sguardo, aveva i cerchi sotto gli occhi, e le guance tutte incavate! Eh? Per la festa del Salvatore ci fu due volte temporale, e tutt'e due le volte venne a passare la notte qui un cacciatore. Ho visto tutto io, che possa crepare! Ho visto tutto! Oh, ti sei fatta più rossa di un gambero! Ah!»
«Niente, hai visto...»
«Eh! E quest'invemo, prima di Natale, nella ricorrenza dei dieci martiri di Creta, quando la bufera durò un giorno e una notte... ti ricordi? Lo scrivano del maresciallo della nobiltà perse la strada e capitò proprio qua, quel cane!... Guarda un po' di chi ti era presa la voglia! Puah, per uno scrivano! Valeva la pena, per un tipo simile, di metter sottosopra il tempo che Dio ci manda! Uno scribacchino, un moccioso, un nanerottolo col muso tutto coperto di bitorzoli e il collo tutto storto... Fosse stato almeno bello, ma così, puah! Pareva il diavolo!»
Il sagrestano si fermò a prender fiato, si asciugò le labbra e tese l'orecchio. Non si udivano più le sonagliere, ma sopra il tetto passò una raffica di vento e nelle tenebre, fuori della finestra, si udì di nuovo un tintinnio.
«Un'altra volta!» esclamò Savelij. «Non per niente sta girando in tondo! Sputami in faccia se non è vero che sta cercando te! Il diavolo sa il fatto suo, è un buon alleato! Lo farà girare e rigirare, e alla fine lo condurrà qui. Lo so-o! Lo ve-edo! Non puoi nascondermelo, pupattola di Satana, lascivia idolatrica! Appena si è alzata la bufera ho capito subito i tuoi pensieri.»
«Ma che stupido sei!» sorrise la donna. «Credi davvero, in quel tuo cervello stolto, che sia io a far venire il maltempo?»
«Uhm... Ridi pure! Che sia tu o no, io questo vedo: appena il sangue mi si comincia a scaldare, ecco che subito viene maltempo, e, come viene il maltempo, capita qua qualche matto. Ogni volta succede così. Vuol dire che sei tu!»
Il sagrestano, per riuscire più persuasivo, si pose un dito sulla fronte, socchiuse l'occhio sinistro, ed esclamò con voce canterellante:
«Oh, follia! Oh, empietà giudea! Se fossi davvero un essere umano e non una strega, dovresti ragionare così nella tua mente: e se quelli non erano né un artigiano né un cacciatore, né uno scrivano, ma il diavolo con le loro sembianze? Eh? Così dovresti pensare!»
«Ma quanto sei sciocco, Savelij!» sospirò la donna guardando il marito con aria di compassione. «Quando il babbino era ancora vivo e viveva qui, tanta gente veniva da lui a farsi curare la febbre: dal villaggio, dai poderi, dalle fattorie degli armeni. Venivano quasi ogni giorno e nessuno li prendeva per demoni! Ed ora, se una volta all'anno, per il maltempo, qualcuno viene qui da noi a scaldarsi, ecco che tu, sciocco, ti meravigli e ti metti a pensare chissà quali stramberie.»
La logica della moglie turbò Savelij. Piantò I larghi piedi nudi, chinò la testa e si mise a meditare. Non era ancora del tutto convinto di quei suoi sospetti, e il tono sicuro, pacato della moglie lo aveva completamente sconcertato, eppure, dopo aver riflettuto un po', scosse la testa e continuò:
«Capitassero almeno vecchi o storpi, no, son sempre dei giovani a chiedere di passare qui la notte... Come mai? E pazienza se si contentassero di riscaldarsi, no, quelli vengono per dar soddisfazione al diavolo. E no, donna, al mondo non c'è creatura più furba della vostra razza di femmine! Di vera intelligenza, Dio mio, ce n'è meno in voi che in un merlo, ma in cambio avete tanta di quella furberia diabolica, uh, uh! che ce ne salvi la Regina dei cieli! Ecco, senti come squilla il postale! La bufera era appena cominciata, e io già sapevo tutti i tuoi pensieri. Le hai fatte, le tue stregonerie, brutta tarantola!»
«Ma che vuoi da me, maledetto?» questa volta alla donna scappò la pazienza. «Ti appiccichi a me come la pece!»
«Mi sono appiccicato perché se stanotte, Dio non voglia, succede qualcosa... stammi a sentire!... se succede qualcosa, domani, appena farà giorno, vado a Djakovo da padre Nikodim e gli racconto tutto. Così e così, gli dico, padre Nikodim, vogliate scusarmi, ma è una strega. Perché? Uhm, volete sapere il perché? Ecco... Così e così. E allora per te saranno guai, donna! Non solo nel giorno del giudizio, ma anche nella vita terrena sarai punita. Non per niente nel messale ci sono scritte le preghiere per le persone della vostra risma!»
A un tratto qualcuno bussò alla finestra, in maniera così rumorosa e inconsueta, che Savelij impallidì e si rannicchiò dallo spavento. La moglie del sagrestano balzò in piedi e si fece anch'essa pallida.
«Per l'amor di Dio, lasciate che entri a riscaldarmi!» si udì una profonda, tremante voce di basso. «Chi c'è qui? Fate la carità! Abbiamo perso la strada!»
«E voi chi siete?» domandò la donna, timorosa di guardare alla finestra.
«Il corriere postale!» rispose l'altra voce.
«Non per nulla hai fatto le tue stregonerie!» esclamò Savelij con un gesto della mano. «Ecco fatto! Avevo ragione io... Ebbene, guarda cosa faccio!»
Il sagrestano fece due salti davanti al letto, poi si buttò lungo sul piumino e, bofonchiando rabbiosamente si rivoltò con la faccia al muro. Subito dopo sentì un soffio gelido investirgli la schiena; la porta cigolò e sulla soglia apparve una figura alta, coperta di neve dalla testa ai piedi. Dietro di essa ne apparve un'altra, anch'essa bianca di neve...
«Devo portare dentro anche i colli?» domandò la seconda con voce rauca.
«Non vorrai mica lasciar lì!»
Detto questo, il primo cominciò a slacciarsi il cappuccio e, senza aspettare che i lacci fossero slegati, se lo strappò dalla testa insieme col berretto, e lo scaraventò rabbiosamente verso la stufa. Poi, sfilatosi il cappotto, lo gettò nella stessa direzione e, senza salutare, si mise a camminare su e giù per la stanza. Era un corriere giovane, biondo, con un'uniforme logora e stivali rossicci tutti infangati, Dopo essersi riscaldato un po' camminando, si sedette al tavolo, allungò gli stivali sudici verso i sacchi, e appoggiò la testa sui pugni. Il suo viso pallido, chiazzato di rosso, portava ancora i segni della sofferenza e della paura or ora provate. Contratto dalla rabbia, con le tracce fresche dei recenti patimenti fisici e morali, con la neve che gli si scioglieva sulle sopracciglia, sui baffi e sulla barbetta tonda, il suo viso era molto bello.
«Vita da cani!» brontolò il postiglione voltando lo sguardo alle pareti intorno, quasi non credesse ancora di trovarsi al caldo. «Per un pelo non andavamo all'altro mondo. Se non fosse stato per il vostro lume, non so cosa sarebbe successo... Sa il diavolo quando finirà questa storia. Non finisce mai questa vitaccia da cani! Dov'è che siamo capitati?» domandò, abbassando la voce e alzando gli occhi verso la moglie del sagrestano.
«Sul poggio di Guljaevo nella tenuta del generale Kalinovskij,» rispose la moglie del sagrestano, sussultando e facendosi rossa.
«Senti, Stepan?» si volse il postiglione verso il vetturino, fermatosi nel vano della porta con il suo grosso sacco sulle spalle. «Siamo capitati sul poggio di Guljaevo!»
«Lo-ontanuccio!»
Pronunciata questa parola come un sospiro rotto e rauco, il vetturino uscì, e poco dopo tornò dentro portando un collo più piccolo, poi uscì di nuovo, e questa volta tornò con la sciabola del postiglione, attaccata a una larga cinta, somigliava a quelle spade lunghe e piatte con le quali è rappresentata Giuditta accanto al letto di Oloferne nelle stampe popolari. Deposti i colli lungo una parete, il vetturino uscì, andò nell'ingresso, si mise seduto e accese la pipa.
«Gradite forse un po' di te dopo un simile viaggio?» domandò la donna.
«Macché te!» s'accigliò il postiglione. «Bisogna scaldarsi in fretta e ripartire, altrimenti non arriviamo in tempo al treno postale. Stiamo seduti una decina di minuti e poi partiamo. Fateci solo il favore di indicarci la strada.»
«Che castigo di Dio questo tempo!» sospirò la moglie del sagrestano.
«Eh, già... Ma voi chi siete?»
«Noi? Siamo di qui, addetti alla chiesa... Siamo del ceto ecclesiastico... Ecco, lì è coricato mio marito. Savelij, alzati dunque e vieni a salutare! Prima qui era una parrocchia ma un anno e mezzo fa l'hanno abolita: Certo, quando i signori abitavano qui, c'era anche più gente e valeva la pena di tenere una parrocchia, ma ora, senza i signori, giudicate voi stesso, di che devono campare gli ecclesiastici se il villaggio più vicino è Markovka, e anche quello a cinque verste! Ora Savelij è fuori ruolo, e... insomma fa il custode. Ha l'incarico di occuparsi della chiesa.»
E il postiglione venne a sapere che se Savelij fosse andato dalla generalessa e le avesse chiesto una lettera di raccomandazione per sua eminenza, avrebbe ottenuto un buon posto; ma lui non si decide ad andare dalla generalessa perché è pigro e ha paura della gente.
«Comunque, siamo di ceto ecclesiastico...» aggiunse la moglie del sagrestano.
«E di che vivete?» domandò il corriere.
«La chiesa ha un prato e degli orti. Ma ci fruttano poco...» sospirò la donna: «Padre Nikodim, il sacerdote di Djakovo, anima invidiosa, viene a dir la messa a san Nicola d'estate e a san Nicola d'inverno, e per questo si piglia quasi tutto lui. Non c'è nessuno che ci difenda!»
«Tu menti!» sibilò Savelij. «Padre Nikodim è un'anima santa, un luminare della chiesa, e se prende qualcosa lo fa secondo le regole.»
«Com'è rabbioso, tuo marito!» sorrise il postiglione. «È molto che sei sposata?»
«Dalla domenica del Perdono sono quattro anni. Qui prima c'è stato come sagrestano il mio povero papà; poi, quando si accorse che era arrivata per lui l'ora di morire, perché il posto restasse a me, andò al concistoro e chiese che mandassero un qualche sagrestano celibe come fidanzato. E così mi sposai.»
«Ah, sarebbe a dire due piccioni con una fava!» disse il postiglione gettando un'occhiata alla schiena di Savelij.
«Hai trovato un posto e insieme la moglie.»
Savelij agitò un piede in un moto d'impazienza e si accostò ancor più alla parete. Il postiglione si alzò da tavola, si stirò e andò a sedersi su un collo postale.
Dopo aver riflettuto un po', aggiustò i colli premendoli con le mani, cambiò posto alla sciabola, e si sdraiò sopra i sacchi, lasciando penzolare una gamba sul pavimento.
«Vita da cani...» brontolò, incrociando le braccia sotto la testa e socchiudendo gli occhi. «Neanche a un perfido tartaro augurerei una vitaccia simile!»
Ben presto si fece silenzio. Si udiva solo Savelij che sbuffava, e il corriere che, addormentatosi, respirava lentamente e in modo ritmico, emettendo a ogni espirazione un prolungato e profondo «K-ch-ch-ch». Di tanto in tanto nella sua gola sembrava mettersi a cigolare una rotellina, o, sussultando, frusciava un piede contro i sacchi di tela.
Savelij prese ad agitarsi sotto la coperta e lentamente si voltò a guardare. La moglie era seduta sullo sgabello e, premendosi le guance con il palmo delle mani, fissava il viso del postiglione. Il suo sguardo era immobile, come quello di una persona attonita, spaurita.
«Be', che hai da guardare con quegli occhi?» sibilò rabbiosamente Savelij.
«A te che importa? Dormi!» rispose la moglie senza staccare lo sguardo da quella testa bionda.
Savelij, in collera, buttò fuori tutta l'aria che aveva nei polmoni e si voltò bruscamente verso la parete. Ma dopo tre minuti cominciò di nuovo ad agitarsi inquieto, si mise in ginocchio sul letto, e, appoggiandosi con le braccia sul cuscino, sbirciò sua moglie. Questa, continuava a fissare, immobile, l'ospite. Le sue guance s'erano fatte pallide, e gli occhi s'erano accesi di una strana fiamma. Il sagrestano tossicchiò, scivolò giù dal letto a panciasotto e, avvicinatosi al postiglione, gli coprì il viso con un fazzoletto.
«Perché fai così?» domandò la moglie.
«Perché la luce non gli batta negli occhi.»
«E allora spegni il lume!»
Il sagrestano guardò con diffidenza la moglie, tese le labbra verso il lume, ma di colpo si arrestò e batté uno contro l'altro i palmi della mano.
«Hm, non sarà un'astuzia diabolica?» esclamò. «Eh? Esiste forse creatura più furba della razza delle femmine?»
«Ah, diavolo in tonaca!» sibilò la moglie, contraendo il viso in una smorfia di dispetto. «Aspetta!»
E, accomodandosi meglio sullo sgabello, tornò a fissare il postiglione.
Non importava che il viso fosse coperto. Non la interessava tanto il viso, quanto tutto l'aspetto insolito di quell'uomo. Il suo petto era largo, possente, le mani belle e sottili, le gambe muscolose, diritte, immensamente più belle e virili delle «zampacce» di Savelij! Non c'era confronto.
«Può darsi che io sia uno spirito maligno in tonaca,» fece Savelij, dopo essere rimasto zitto per un po' di tempo. «Ma lui non può restare a dormire qui... Già... Lui è in servizio governativo, e ne dovremo rispondere anche noi, di averlo trattenuto qui! Se devi portar la posta, portala, non c'è tempo di dormire... Ehi, senti!» gridò Savelij nell'ingresso. «Vetturino, parlo con te... come ti chiami? Devo accompagnarvi io, forse? Alzati, con la posta c'è poco da dormire!» E Savelij, fuori dai gangheri, fece un balzo verso il postiglione e lo tirò per la manica.
«Ehi, vostra nobiltà! Visto che dovete viaggiare, viaggiate, e se invece non volete, allora son guai!... Non vi conviene, di dormire.»
Il postiglione balzò su a sedere, abbracciò con uno sguardo assonnato la stanza, e si coricò di nuovo.
«Quando volete partire?» ricominciò a tamburellare con la lingua Savelij, tirandolo per la manica. «La posta serve appunto perché arrivi in tempo, mi senti? Vi accompagno io.»
Il postiglione aprì gli occhi. Riscaldato, illanguidito dalla dolcezza del primo sonno, non ancora sveglio del tutto, vide, come in una nebbia, il bianco collo e lo sguardo lucido, immobile della moglie del sagrestano, richiuse gli occhi e sorrise, come se avesse sognato.
«Ma dove vuoi che vadano con un tempo simile?» udì una morbida voce femminile. «Lascia che dormano in pace, e che buon pro gli faccia!»
«E la posta?» s'inquietò Savelij. «Chi la porta la posta? La vuoi portare tu? Tu?»
Il postiglione aprì di nuovo gli occhi, osservò le mobili fossette sulle guance della donna, si ricordò dov'era, comprese le parole di Savelij. Il pensiero di doversi rimettere in viaggio nel gelo e nelle tenebre, dalla testa gli corse giù lungo tutto il corpo con un freddo formicolio e rabbrividì.
«Si potrebbe dormire ancora cinque minuti,» disse sbadigliando. «Tanto, ormai siamo in ritardo...»
«Chissà, magari facciamo proprio in tempo!» si udì la voce del vetturino dall'ingresso. «Con questo tempaccio chissà che anche il treno, per fortuna nostra, non ritardi.» Il corriere si alzò e, stirandosi languidamente, cominciò a infilarsi il cappotto. Savelij, vedendo che gli ospiti si accingevano a partire, si mise addirittura a nitrire di gioia.
«Aiutaci un po'!» gli gridò il vetturino alzando un collo da terra.
Il sagrestano balzò verso di lui, e insieme trascinarono nel cortile il bagaglio del postale. Il postiglione si mise a sciogliere il nodo del cappuccio. E la donna lo fissava negli occhi, e pareva volesse penetrargli nell'anima.
«Potevate bere un goccio di tè...» disse.
«Per conto mio... quelli, vedete, son già pronti,» acconsentì. «Ma tanto ormai siamo in ritardo.»
«E voi rimanete!» bisbigliò la donna abbassando gli occhi e sfiorandogli una manica.
Il postiglione riuscì finalmente a sciogliere il nodo, e, indeciso, si gettò il cappuccio sul braccio. Così, in piedi accanto alla moglie del sagrestano, provava una gradevole sensazione di tepore.
«Che bel collo... che hai...»
E le sfiorò con due dita il collo. Vedendo che non incontrava resistenza, le accarezzò con la mano il collo, le spalle... «Ah, come sei...»
«Potreste rimanere... bere un po' di tè...»
«Ma dove lo metti, rammollito!» echeggiò la voce del vetturino dal cortile. «Mettilo di traverso!»
«Perché non rimanete?... Sentite come urla la bufera.»
Ancora mezzo addormentato, senza aver avuto ancora il tempo di scuotersi dall'incanto di quel suo sfibrante sonno giovanile, il postiglione fu preso a un tratto dal desiderio, da quel desiderio per il quale si dimenticano i colli e i treni postali... e tutto il mondo. Timoroso, come se volesse fuggire, o nascondersi, sbirciò verso la porta, afferrò per la vita la moglie del sagrestano, e già si stava chinando sul lume per spegnerlo, quando nell'ingresso risuonò un tonfo di stivaloni e sulla soglia apparve il vetturino... Alle sue spalle fece capolino il viso di Savelij. Il corriere ritirò svelto le mani e rimase fermo, come sopra pensiero.
«È tutto pronto!» disse il vetturino.
Il postiglione rimase per un po' immobile, poi scosse bruscamente il capo, come se finalmente si destasse, e si avviò dietro al vetturino. La donna rimase sola.
Pigramente cominciò a tintinnare una sonagliera, poi un'altra, e i suoni squillanti, sottili, come una lunga catena, si allontanarono dalla casetta.
Quando, a mano a mano, ogni suono si spense, la moglie del sagrestano si riscosse dalla sua immobilità e cominciò a camminare nervosamente da un angolo all'altro della stanza. Da principio era pallida, poi s'infiammò tutta. Il suo viso era sfigurato dall'odio, il respiro le si fece affannoso, gli occhi brillavano di un rancore selvaggio, feroce, e andando su e giù come in gabbia, somigliava ad una tigre che sia stata spaventata con un ferro rovente. Si fermò un momento ad osservare la sua abitazione; poco meno della metà della stanza era occupata dal letto, che si stendeva lungo tutta una parete ed era composto di un piumino sudicio, di cuscini mvidi e grigi, di una coperta e di vari stracci indefinibili. Questo letto era un brutto cumulo informe, poco diverso da quello che si ergeva sulla testa di Savelij, quando gli veniva l'estro di impomatarsi i capelli. Tra il letto e la porta che dava nel gelido ingresso c'era la grande stufa scura, con dei tegamini e dei cenci appesi. Tutto, compreso Savelij che in quell'attimo era uscito, era sporco fino all'inverosimile, unto, fuligginoso, tanto che era strano vedere in mezzo ad un tale sudiciume il collo bianco e la pelle tenera e delicata di una donna. La moglie del sagrestano corse verso il letto, stese le braccia come se volesse buttare all'aria, calpestare, mandare in polvere tutta quella roba, ma poi, quasi inorridita dal contatto con quel sudiciume, balzò indietro e si mise di nuovo a camminare da un angolo all'altro.
Quando, circa due ore dopo, Savelij tornò esausto e coperto di neve, la donna era già a letto, spogliata, Aveva gli occhi chiusi, ma, dal sottile tremito che percorreva il suo viso, egli indovinò che non dormiva, Tornando a casa si era ripromesso di tacere, e di non molestarla fino al mattino, ma ora non seppe trattenersi dallo stuzzicarla.
«Non sono servite a niente le tue stregonerie: è partito!» disse sogghignando dispettosamente.
La moglie del sagrestano taceva, solo il suo mento ebbe un tremito. Savelij si spogliò lentamente, scavalcò la moglie e si coricò verso la parete.
«Domani, però, spiegherò a padre Nikodim che razza di moglie sei!» brontolò, raggomitolandosi tutto.
La moglie voltò di colpo il viso dalla sua parte e lo fulminò con gli occhi.
«Perderai il posto!» disse. «E la moglie va' a cercartela nel bosco! Che razza di moglie sono io per te? Che tu possa crepare! Mi si è appiccicato addosso, questo dormiglione, questo orso, che Dio mi perdoni!»
«Via, via, dormi!»
«Sono una disgraziata io!» singhiozzò la donna. «Se non ci fossi stato tu, chissà, ìo forse avrei sposato un commerciante o un qualche nobile. Se non ci fossi stato tu, io adesso vorrei bene a mio marito! Perché non sei rimasto sepolto sotto la neve, perché non sei morto lì, sulla strada, Erode!»
La donna pianse a lungo. Alla fine tirò un sospiro profondo e si calmò. Fuori continuava ad infuriare la bufera. Nella stufa, nel camino, dietro tutti i muri qualcosa piangeva, e a Savelij pareva che il pianto fosse dentro di lui, nelle sue orecchie. Quella sera si era definitivamente convinto della giustezza delle sue supposizioni riguardo alla moglie. Non dubitava più del fatto che sua moglie, con l'aiuto di forze demoniache, avesse potere sul tempo e sulle trojke della posta. Ma, quasi a raddoppiargli la pena, quel misterioso, soprannaturale selvaggio potere conferiva alla donna coricata accanto a lui un fascino tutto particolare, incomprensibile, che fino a quel momento non aveva mai notato. Da quando per stupidità, senza rendersene conto, l'aveva egli stesso poetizzata, sembrava che fosse diventata più bianca, più liscia, più inaccessibile...
«Strega!» s'indignava. «Ah, schifosa!»
E tuttavia, dopo aver atteso che si fosse calmata, quando la sentì respirare regolarmente, provò a toccarle la nuca con un dito... strinse nella mano la sua grossa treccia.
Lei non sentiva nulla... Allora, fattosi più ardito, la accarezzò sul collo.
«Smettila!» gridò lei, e col gomito gli diede un colpo così violento alla radice del naso, che il sagrestano vide le stelle.
Il dolore al naso cessò presto, ma il tormento continuava ancora.


IL RACCONTO DELLA SIGNORINA N. N.
di Anton Čechov
In questo racconto troviamo invece la vittima di se stessa, della propria vanità e di quella frequente propensione delle donne a intrappolarsi nella procrastinazione (o, al contrario, in un decisionismo folle e precipitoso guidato da una natura volubile). Molto diversa è, invece, la nostra fidanzatina Nadja; per lei l'autore ha predisposto delle possibilità impossibili per le sue colleghe, per lei la società e una classe sociale priviliegiata hanno previsto una via d'uscita. Nadja è stata educata a pensare, ed in effetti ha sempre pensato, che il naturale obiettivo della sua vita fosse il matrimonio. Nascita, crescita, fidanzamento, matrimonio, zero sforzi (fatta eccezione per quel "partorirai con dolore"), zero problemi, morte: è così che deve vivere una ragazza. Nessuno potrà mai interrompere questa linea retta tracciata nei secoli passati e futuri. Ma l'imprevedibilità della natura femminile può giocare dei brutti scherzi alle regole scritte e non delle strutture sociali, soprattutto se la donna incontra sulla propria strada l'uomo giusto, cioè l'uomo sbagliato.

IL RACCONTO DELLA SIGNORINA N.N.
Circa nove anni fa, poco prima di sera, al tempo della falciatura, io e Pëtr Sergeič, che faceva le funzioni di giudice istruttore, ci recammo a cavallo alla stazione per ritirare la corrispondenza.
Il tempo era splendido, ma al ritorno si udirono dei brontolii di tuono, e vedemmo una nuvola nera minacciosa che si muoveva diritta verso di noi. La nuvola s'avvicinava a noi mentre noi ci avvicinavamo ad essa. Sullo sfondo biancheggiavano la nostra casa e la chiesa, e luccicavano argentei gli alti pioppi. C'era odore di pioggia e di fieno falciato. Il mio compagno era era in vena. Rideva e diceva una gran quantità di sciocchezze. Diceva che non sarebbe mica stato male se strada facendo ci fossimo imbattuti d'un tratto in un castello medievale dalle torri merlate, ricoperte di muschio, popolato di gufi, perché potessimo ripararci lì dalla pioggia e perché alla fine la folgore ci uccidesse...
Ma ecco che sulla segale e sul campo d'avena corse una prima ondata, si scatenò il vento e nell'aria cominciò a turbinare la polvere. Pëtr Sergeič scoppiò in una risata e spronò il cavallo. 
- Bene! - esclamò. - Benissimo!
Io, contagiata dalla sua allegria, e al pensiero che in pochi istanti mi sarei bagnata fino alle ossa e che potevo essere uccisa dalla folgore, mi misi a ridere anch'io.
Il turbine e la rapida corsa, quando si respira trafelati per il vento e ci si sente leggeri come un uccello, agitano e solleticano il petto. Quando entrammo nel nostro cortile, non c'era più vento e grossi spruzzi di pioggia battevano sull'erba e sui tetti. Presso la scuderia non c'era anima viva. Pëtr Sergeič tolse lui stesso i finimenti ai cavalli e li condusse alla mangiatoia. Aspettando che avesse finito, stavo presso la soglia e guardavo le strisce oblique della pioggia violenta; l'odore greve, eccitante del fieno si sentiva qui più forte che nel campo; per le nuvole e la pioggia si era fatto quasi buio. 
- Che colpo! - disse Pëtr Sergeič, avvicinandosi a me dopo il rimbombo fortissimo di un tuono, che echeggiò a lungo, per cui parve che il cielo si fosse spaccato in due. - Che ne dite?
Stava accanto a me sulla soglia e respirando affannosamente per la rapida corsa, mi guardava. Mi accorsi che mi guardava con ammirazione. 
- Natal'ja Vladìmirovna - disse - darei tutto per poter soltanto rimanere qui a osservarvi. Oggi siete meravigliosa. Nei suoi occhi c'era un'espressione entusiasta e supplichevole, il viso era pallido, sulla barba e sui baffi luccicavano delle gocce di pioggia che pareva mi osservassero pure amorevolmente.
- Vi amo - egli disse. - Vi amo e sono felice di vedervi. So che non potete diventare mia moglie, ma non  voglio nulla, non mi occorre nulla. Basta che sappiate che vi amo. Tacete, non rispondete, non badate a quel che io dico, ma solo sappiate che mi siete cara e permettetevi di guardarvi. 
Il suo entusiasmo si comunicò anche a me. Guardavo il suo viso ispirato, ascoltavo la voce che si mescolava allo scrosciare della pioggia e, come ammaliata, non riuscivo a muovermi.
Avrei voluto guardare senza fine quegli occhi lucenti e ascoltare. 
- Voi tacete, ed è bellissimo! - disse Pëtr Sergeič. - Continuate a tacere. 
Mi sentivo felice. Risi di soddisfazione e corsi sotto la pioggia a dirotto verso casa; rise anch'egli e, saltellando, mi corse dietro.
Facendo un gran chiasso, come bambini, bagnati, trafelati, battendo i piedi sulle scale, ci precipitammo nelle stanze. Mio padre e mio fratello non abituati a vedermi ridente e allegra, mi osservarono stupiti e si misero anch'essi a ridere. Le nubi temporalesche erano già passate, il tuono era cessato, ma sulla barba di Pëtr Sergeič brillavano ancora le gocce di pioggia. Fino all'ora di cena non smise mai di cantare, di fischiettare, di scherzare rumorosamente col cane inseguendolo per le stanze, tanto che mancò poco non facesse cadere il servo col samovàr. A cena poi mangiò molto, disse una quantità di sciocchezze e assicurò che se d'inverno si mangiano dei cetrioli freschi, si sente in bocca un profumo di primavera. 
Andando a letto accesi una candela e spalancai la finestra, ed un senso indefinito s'impadronì della mia anima. Mi ricordai che ero libera, sana, ricca, di famiglia illustre, che ero amata, ma soprattutto, appunto che ero ricca e di famiglia illustre, come era bello questo, mio Dio!...Più tardi, mentre nel letto mi rannicchiavo tutta per il fresco che si insinuava in me dal giardino insieme alla rugiada, cercai di rendermi conto se amavo Pëtr Sergeič o no...e senza esservi riuscita, mi addormentai.
Quando la mattina vidi sul mio letto le chiazze tremolanti del sole e le ombre dei rami del tiglio, risuscitarono vivi nella mia memoria gli avvenimenti del giorno prima. La vita mi parve ricca, varia, colma di bellezza. Canticchiando mi vestii in fretta e corsi nel giardino...E che cosa avvenne dopo? Dopo, nulla. D'inverno, mentre abitavamo in città Pëtr Sergeič di tanto in tanto veniva a trovarci. Le conoscenze fatte in campagna sono incantevoli soltanto in campagna e d'estate, in città invece e d'inverno perdono metà del loro fascino. Quando in città offri loro il tè, sembra che abbiano addosso delle giacche prese in prestito e che troppo a lungo rigirino il cucchiaino nella tazza. Anche in città Pëtr Sergeič mi parlava talvolta del suo amore, ma veniva fuori qualcosa di interamente diverso che in campagna. In città sentivamo più fortemente il muro che era fra noi: io ricca e di famiglia illustre, lui invece povero, neanche nobile, figlio d'un diacono, soltanto facente funzione di giudice istruttore, nient'altro; e tutt'e due noi, io per la mia giovane età, e lui Dio sa perché, credevamo che quel muro fosse molto alto e grosso, ed egli, quando veniva a trovarci in città, sorrideva forzatamente e criticava il mondo aristocratico, o taceva tetro, quando in salotto si trovava un'altra persona. Non c'è muro che non possa essere abbattuto, ma gli eroi del romanzo contemporaneo, per quanto io li conosca, sono troppo timidi, fiacchi, pigri e sospettosi, e troppo rapidamente si rassegnano al pensier di non aver fortuna e di essere stati ingannati dalla loro vita personale; invece di lottare, non fanno altro che criticare e chiamano triviale il mondo, dimenticando che la stessa loro critica a poco a poco finisce col diventare triviale.
Ero amata, la felicità era vicina, sembrava vivesse alle mie costole; e io passavo la vita canticchiando, senza sforzarmi di comprendere, senza sapere che cosa m'aspettavo, che cosa volevo della vita, e intanto il tempo passava passava...Passavano accanto a me uomini con il loro amore, si dileguavano le giornate limpide e le notti tiepide, cantavano gli usignoli, l'aria odorava di fieno, e tutto questo, che è caro, meraviglioso nel ricordo, in me, come in tutti, passava rapidamente senza lasciare tracce, senza essere apprezzato e si dileguava come la nebbia...Dov'è ora tutto questo?
Mio padre morì, io invecchiai, tutto quel che piaceva, blandiva, suscitava una speranza - il rumore della pioggia, il rimbombo del tuono, i pensieri sulla felicità, i discorsi d'amore - tutto questo è diventato un puro ricordo, e ora vedo davanti a me una pianura sconfinata, deserta: e su questa pianura non c'è anima viva, e laggiù all'orizzonte soltanto buio e paura...
Ecco il campanello che squilla...è venuto Pëtr Sergeič. Quando d'inverno vedo gli alberi e mi ricordo come verdeggiano per me d'estate, bisbiglio: "Oh, miei cari!".
E quando vedo delle persone con cui ho trascorso la mia primavera, mi prende un sentimento di tristezza, un senso di tepore, e bisbiglio le stesse parole. Da molto tempo già lo hanno trasferito, grazie alla protezione di mio padre, in città. 


È un poco invecchiato, cammina un po' curvo. Ha smesso da un pezzo di farmi dichiarazioni d'amore, non racconta più sciocchezze, non ama il suo impiego, è sofferente di non so quale male, deluso di qualcosa, non si aspetta più nulla dalla vita, vive senza gioia. Ecco, si è messo a sedere presso il caminetto, fissa silenziosa la fiamma...io, non sapendo che dire, gli ho chiesto: «E allora?». «Niente...» ha risposto. E di nuovo silenzio. Il bagliore rosso del fuoco giuoca sul suo viso triste. Mi sono ricordata del passato, e d'un tratto le mie spalle si sono messe a sussultare, la testa si è inclinata, e sono scoppiata in un pianto amaro. Ho provato una pena intollerabile di me stessa e di quell'uomo, e ho desiderato appassionatamente quello che è passato e che la vita ormai ci rifiuta. E ora non pensavo più al fatto che ero di famiglia illustre e ricca. Singhiozzavo forte, premendomi le tempie, e mormoravo: «Dio mio, Dio mio, la vita è finita». Lui intanto stava seduto, taceva; e non mi ha detto: «Non piangete». Capiva che era necessario piangere e che era venuto il tempo delle lacrime. Vedevo dai suoi occhi che aveva compassione di me; e anch'io di lui, e al tempo stesso m'indispettiva quel fallito, quel timido, che non aveva saputo costruire né la mia vita né la sua. Mentre lo accompagnavo, mi è parso che nell'ingresso indugiasse apposta nell'infilarsi la pelliccia. Due volte mi baciò la mano senza dire una parola, e a lungo mi guardò nel viso lacrimoso. Credo che in quel momento gli tornassero alla memoria il temporale, quelle strisce oblique di pioggia, il nostro riso, il mio viso d'allora. Aveva voglia di dirmi qualcosa, e sarebbe stato lieto di dirmelo, ma non ha detto nulla, ha scosso soltanto il capo e mi ha stretto forte la mano. Che Dio lo protegga!
Dopo averlo accompagnato, sono tornata nel salotto e mi sono di nuovo seduta sul tappeto davanti al caminetto. I carboni ardenti si erano velati di cenere e si spegnevano a poco a poco. Il gelo si è messo a battere ancora più iroso alle finestre, e il vento a cantare  qualcosa nella gola del camino. È entrata la cameriera e, credendo che mi fossi addormentata, mi ha chiamata ad alta voce...

LA FIDANZATA
racconto, 1903
di Anton Čechov
In questo racconto, la ribellione, interna prima ed esterna poi, della protagonista sono in realtà indotte non già da un'autonoma presa di coscienza sviscerata dallo squallore della propria condizione e del proprio destino, ma dall'intervento diretto di una figura maschile "imprevista", totalmente eccentrica rispetto al contesto (Saša). Siamo cioè messi al centro dell'ennesima situazione in cui è in realtà l'uomo a trascinare la volontà femminile, in cui la decisione, una decisione qualsiasi (in questo caso il rifiuto del matrimonio e la fuga verso la conquista di un futuro e di una coscienza critica), è qualcosa di indotto e preordinato da una coscienza esterna e, naturalmente, maschile. Tuttavia in questo caso Saša altro non è che l'esperienza, la storia, l'a posteriori, il vissuto, quelle categorie assenti e non intuibili nell'universo ovattato in cui è cresciuta Nadja. Saša è dunque non già il fantasma dell'autore nel racconto, intervenuto per dire della non autonomia femminile, ma è il segno dell'intervento dell'esperienza e di un sapere altro necessario e imprescindibile per il cambiamento. La condanna dunque non è al mondo femminile, che è piuttosto preso come emblema dell'arcaicità della società e di una condizione universale da sovvertire e sovvertibile; la condanna ricade sulla testa di un sistema di funzionari e di mantenuti in cui le figure maschili hanno una funzione reazionaria o rivoluzionaria e il loro intervento si rende necessario perché chi più conosce, chi più ha vissuto, ha la possibilità se non la responsabilità del cambiamento. I due personaggi maschili principali Saša e il fidanzato Andrèj sono figure tipiche della letteratura russa dell'epoca: l'intellettuale critico e il giovane velleitario, ma Saša possiede anche dei tratti autobiografici dell'autore (in primis la malattia polmonare) che ne fanno un personaggio sfaccettato e affascinante e, in una certa misura non completamente coglibile. Di certo c'è che Čechov, attraverso Saša scruta la società, donne, uomini e quant'altro, e senza dare giudizi definitivi, coglie la possibilità del cambiamento riconoscendo agli intellettuali una funzione trainante.

LA FIDANZATA

I.
Erano già all'incirca le dieci di sera, e in giardino splendeva la luna piena. In casa degli Šumin era appena terminata la funzione del vespro che la nonna Marfa Michàjlovna aveva fatto celebrare, e Nadja, uscita per un momento nel giardino, vedeva che nel salone veniva apparecchiata la tavola per gli antipasti e che nel suo sontuoso abito di seta la nonna era tutta affaccendata; il padre Andrèj, arciprete della cattedrale, stava discorrendo con la madre di Nadja, Nina Ivànovna, la quale ora, nella luce serale, attraverso i vetri della finestra, pareva, chissà perché, molto giovane; accanto a loro stava il figlio dell'ecclesiastico, Andrèj Andreič, e ascoltava attentamente. Nel giardino silenzioso l'aria era fresca e ombre scure e immobili si stendevano sul suolo. Lontano, molto lontano, probabilmente fuori città, si udiva un gracidare di rane. Si sentiva nell'aria il maggio, il caro maggio! Si respirava a pieni polmoni e veniva voglia di pensare che non quaggiù, ma in qualche luogo sotto il cielo, sopra gli alberi, lontano, fuori della città, nei campi e nei boschi, fioriva ora una propria vita primaverile, una vita misteriosa e bellissima, ricca e sacra, inaccessibile all'intendimento, della debole e peccaminosa creatura umana. E veniva voglia, chissà perché, di piangere.
Lei, Nadja, aveva già ventitré anni; fin dai suoi sedici anni aveva appassionatamente sognato il matrimonio, e ora, finalmente, era fidanzata a Andrèj Andreič, quello stesso che ora stava al di là della finestra. Il giovane le piaceva, le nozze erano già fissate per il sette di luglio, e tuttavia Nadja non provava alcuna gioia, di notte dormiva male e la sua allegria d'una volta era scomparsa...
Dal sottosuolo, dove si trovava la cucina, giungevano attraverso la finestra aperta lo scalpiccio affaccendato della servitù, il tintinnio di coltelli, lo sbattere di una porta; veniva l'odore di tacchino arrosto e di ciliegie marinate. E chissà perché, pareva che sarebbe stato così per tutta la vita, senza mutamenti, senza fine! Ecco che qualcuno è uscito dalla casa e si è fermato sulla scalinata; è Aleksàndr Timofeič, o più semplicemente Saša, un ospite arrivato da Mosca dieci giorni fa. Molti anni addietro veniva di tanto in tanto dalla nonna per aver un sussidio una sua lontana parente, Mar'ja Petrovna, una vedova di nobile famiglia, caduta in miseria, una donnetta piccola, magrolina, malata. Aveva un figlio, Saša. Si diceva di lui, chissà perché,  che aveva la stoffa d'un eccellente artista, e quando sua madre morì, la nonna, pensando alla salute della propria anima, lo mandò a Mosca, all'istituto Komissàrovskij; due anni dopo era passato però alla scuola di pittura, dove era rimasto quasi quindici anni, finendovi alla men peggio i corsi di architettura. Ma non si era messo a esercitare la professione di architetto e lavorava invece in una litografia di Mosca. Quasi ogni anno d'estate veniva, gravemente malato, a stare dalla nonna, per riposare e rimettersi in salute. Portava ora una giacca abbottonata e pantaloni di tela, lisi, sfilacciati in fondo. Anche la camicia non era stirata, e tutta la sua figura aveva qualcosa di logoro. Magrissimo, con occhi grandi, con delle dita lunghe e scarne, barbuto e scuro, aveva tuttavia un che di bello. Agli Šumin si era avvezzato come a dei parenti e si sentiva da loro come in casa sua. E la camera dove abitava, durante i suoi soggiorni estivi, già da tempo si chiamava la camera di Saša. Fermatosi sulla scalinata, scorse Nadja e le si avvicinò.
- Si sta bene qui da voi - disse.
- Certo che si sta bene. Dovreste rimanere qui fino all'autunno.
- Già, mi converrà forse far così. Può darsi che mi trattenga qui da voi fino a settembre.
Rise senza motivo e le si sedette accanto.
- Io ecco, me ne sto seduta qui e guardo la mamma - disse Nadja. Vista da qui sembra tanto giovane! La mia mamma, certo, ha le sue debolezze - aggiunse dopo un po' - tuttavia è una donna straordinaria.
- Sì, buona - acconsentì Saša. - La vostra mamma secondo me certo è una donna di cuore, e molto cara, ma ...come devo dirvelo? Stamani presto sono entrato un momento nella vostra cucina, e vedo che le vostre quattro domestiche dormono addirittura sul pavimento, non ci sono letti, e al posto dei letti ci sono dei mucchi di cenci, e un puzzo, cimici, scarafaggi...Tale e quale a vent'anni fa, nessun cambiamento. Bé, la nonna, che Dio l'abbia in pace, è della vecchia generazione; ma la mamma, mi pare, è diversa, parla francese, prende parte agli spettacoli. Certe cose si potrebbero anche capire, direi. Quando parlava, Saša aveva l'abitudine di protendere verso l'interlocutore due dita lunghe, scarne.
- Tutto qui ha per me qualcosa di strano, perché non ci sono più abituato - proseguì. - Diavolo, qui nessuno ha un'occupazione. La mammina non fa altro che passeggiare tutto il giorno, come una duchessa, e anche la nonna non ha nulla da fare, e voi lo stesso. E anche il vostro fidanzato, Andrèj Andreič, non si occupa di nulla. Questi discorsi Nadja li aveva sentiti anche l'anno passato, e già due anni prima, le pareva. Sapeva che Saša non era capace di ragionare diversamente ma mentre per l'innanzi essa ne rideva, ora invece, chissà perché, provò un senso di dispetto.
-Tutto questo ha fatto la muffa e mi è venuto a noia da un pezzo - disse alzandosi. - Almeno inventaste qualcosa di nuovo. Saša si mise a ridere, si alzò anch'egli, e ambedue si avviarono verso casa. Alta e slanciata, bella, la ragazza pareva ora accanto a lui piena di salute ed elegante; ella stessa se ne rendeva conto e sentì compassione e disagio.
- E poi dite molte cose superflue - proseguì. - Ecco, poco fa avete parlato del mio Andrèj...eppure non lo conoscete.
- Il mio Andrèj...Che Dio lo protegga, il vostro Andrèj! Mi rincresce per la vostra giovinezza, Nadja.
Quando entrarono nella sala, gli altri si stavano mettendo a tavola per cenare. La nonna, o, come la chiamavano in casa, la babulja, pingue e brutta, con sopracciglia folte e baffetti, parlava forte, e anche solo dalla sua voce e dalla maniera di discorrere, si capiva che qui in casa comandava lei. Era proprietari di intere file di negozi al mercato e di una vecchia casa con colonne e giardino, ma ogni mattina invocava Dio perché la salvasse dalla miseria e durante la preghiera versava lacrime. Sua nuora, la madre di Nadja, Nina Ivànovna, bionda, stretta nel busto, col pince-nez, con dei brillanti a ogni dito, e padre Andréj, un vecchio magro e sdentato e che aveva sempre un'espressione come se si accingesse a raccontare qualcosa di molto buffo; e suo figlio, Andrèj Andreič, il fidanzato di Nadja, un bel giovane ben in carne, dai capelli ricciuti, somigliante a un attore o a un artista, tutti e tre stavano discutendo di ipnotismo. 
- Tu qui in casa mia ti rimetterai in una settimana - disse la nonnetta volgendosi a Saša - però devi mangiare di più. Non vedi che aspetto hai? - sospirò. - Da far paura! tale e quale il figliuol prodigo, davvero. - Del dono paterno avendo dissipato la ricchezza - proferì padre Andrèj lentamente, con gli occhi ridenti - si ridusse lo sciagurato con gli animali insensati...
- Che bene gli voglio al mio papà - disse Andrèj Andreič e toccò la spalla di suo padre. - Un bravo vecchio. E di buon cuore. Tutti tacquero. Saša d'un tratto si mise a ridere premendosi il tovagliolo sulla bocca. - Dunque voi credete nell'ipnotismo? - domandò padre Andrèj a Nina Ivànovna, assumendo un'espressione molto grave, anzi severa - ma devo riconoscere che nella natura c'è molto di misterioso e d'incomprensibile. - Sono perfettamente d'accordo con voi, anche se devo aggiungere da parte mia che la fede ci riduce notevolmente il campo del misterioso. Fu servito un tacchino grande e molto grasso. Padre Andrèj e Nina Ivànovna continuarono la loro conversazione, I brillanti luccicarono sulle dita di Nina Ivànovna, ma a un certo punto, quando si commosse, luccicarono anche le lacrime nei suoi occhi.
- Sebbene non osi discutere con voi - disse - dovete però convenire che nella vita ci sono tanti enigmi insolubili. - Nemmeno uno, oso assicurarvi. Dopo cena Andrèj Andreič si mise a suonare il violino, accompagnato al pianoforte da Nina Ivànovna. Egli aveva finito dieci anni prima gli studi alla Facoltà Filologica, ma non aveva assunto nessun impiego, non si dedicava a nessuna occupazione determinata, e solo di tanto in tanto prendeva parte a qualche concerto per beneficenza; e in città passava per artista. Mentre Andrèj Andreič suonava, tutti ascoltavano in silenzio. Sulla tavola il samovàr bolliva pian piano, e Saša, solo, beveva il tè. Poi, passata da poco la mezzanotte, una corda del violino si ruppe; tutti si misero a ridere, a muoversi, ad accomiatarsi. Dopo aver accompagnato il fidanzato, Nadja salì in camera sua, al piano superiore, dove abitava con la madre (mentre la nonna occupava il piano di sotto). Giù, nella sala, cominciavano a spegnere i lumi, ma Saša continuava a sedere a tavola e a bere tè. Aveva l'abitudine di bere a lungo, all'uso moscovita, circa sette bicchieri uno dopo l'altro. Quando si fu spogliata e coricata, Nadja ancora per molto tempo udì da basso il rumore che faceva la servitù sparecchiando, e il brontolio della nonnetta. Alla fine tutto si fece silenzio e solo di quando in quando si udirono ancora i colpi di tosse cavernosi di Saša, dalla sua camera al piano inferiore.


II.

Quando Nadja si svegliò, dovevano essere press'a poco le due di notte, spuntava l'alba. Chissà dove, lontano, il guardiano batteva le ore. Nadja non aveva più voglia di dormire, e neppure di rimanere coricata, perché si sentiva a disagio nel letto troppo soffice.Come nelle altre notti di quel maggio, si raddrizzò a sedere nel letto e si mise a pensare. Erano sempre le stesse riflessioni, monotone, inutili, insistenti; ripensava come Andrèj Andreič aveva cominciato a farle la corte e poi le aveva proposto il matrimonio, come essa aveva accettato e poi a poco a poco aveva sentito crescere la stima per quell'uomo buono, intelligente. Ma ora, che alle nozze mancava appena un mese, essa cominciava chissà perché, a provare paura, inquietudine, come se l'attendesse qualcosa di indeterminato e grave. «Tic-toc, tic-toc...- risuonavano i colpi del guardiano notturno. - Tic-toc».
Attraverso la grande vecchia finestra si vede il giardino, e più in là i folti arbusti, fiorenti di lillà assonnati e fiacchi per il freddo; e la nebbia, bianca, densa, striscia lentamente verso gli arbusti e pare voglia avvolgerli. Sugli alberi lontani gracchiano sonnolente delle cornacchie.
«Dio mio, perché mi sento così oppressa?».
Forse ogni fidanzata prova gli stessi sentimenti prima del matrimonio. Chi losa? O forse è l'influsso di Saša? Ma Saša già da diversi anni di seguito ripete le medesime cose, come leggesse un libro stampato, e quando parla, appare ingenuo e strano. ma perché ciò nonostante il pensiero di Saša le rimane fitto come un chiodo nella mente? Perché?
Già da un pezzo il guardiano aveva cessato di battere i suoi colpi. Sotto le finestre e nel giardino gli uccelli hanno cominciato a far chiasso, la nebbia si è dileguata, e tutto intorno si è illuminato di una luce primaverile, come di un sorriso. E poco dopo tutto il giardino, intiepidito, accarezzato dal sole, si è avviato, e stille di rugiada, come diamanti, scintillano sulle foglie; il vecchio giardino, da tempo inselvatichito, in quella mattina appare tanto giovane e adorno. La babulja si è già svegliata. E Saša ha tossito con la sua intonazione roca di basso. Si ode come da basso  hanno servito il samovàr, come si smuovono le sedie. Le ore passano lente. Già da un pezzo Nadja si è alzata, da un pezzo ha fatto una passeggiata nel giardino, e la mattina si trascina ancora. Ecco arrivare Nina Ivànovna, con gli occhi arrossati dal pianto, con il bicchiere d'acqua minerale in mano. Si occupava di spiritismo, di omeopatia, leggeva molto, amava parlare dei dubbi che la invadevano, e tutto questo sembrava a Nadja che racchiudesse un significato profondo e misterioso. Ora Nadja andò a baciare sua madre e si accompagnò a lei.
- Di che hai pianto, mamma? - domandò.
- Ieri notte mi son messa a leggere una novella in cui si descrive un vecchio che vive con sua figlia. Il vecchio è impiegato in qualche posto, ed ecco, il suo superiore s'innamora della figlia. Non ho letto la novella fino in fondo, ma c'è lì un punto, dove non son riuscita a trattenere le lacrime - disse Nina Ivànovna, e bevve un sorso d'acqua. - Stamani me ne sono ricordata e di nuovo m'è venuto da piangere.  - E io in tutti questi giorni mi sento così poco allegra - disse Nadja dopo qualche istante di silenzio. - Perché non riesco a dormire la notte? - Non so, mia cara. Io, quando non dormo di notte, serro le palpebre, forte forte, ecco così, e mi immagino Anna Karènina, come cammina e come parla, o mi immagino qualcosa di storico, del mondo antico...Nadja sentì che sua madre non la capiva e non poteva capirla. Lo avvertì per la prima volta in vita sua, ed ebbe paura perfino, e le venne voglia di nascondersi, e si rifugiò nella sua camera. Alle due ci si mise a tavola per la colazione. Era un mercoledì, giorno di magro, e perciò alla nonna fu servito un boršč senza carne e un muggine con della kaša. Per burlarsi della nonna Saša mangiò tanto la sua minestra di brodo di carne quanto il boršč di magro. Scherzava durante tutta la colazione, ma le sue celie riuscivano pesanti, immancabilmente tese verso un fine morale, e quando egli, prima di lanciare una spiritosaggine, levava in alto le sue dita lunghe, scarne, come morte, passava ogni voglia di ridere; veniva in mente che era molto malato, che gli rimaneva forse non molto tempo da vivere in questo mondo, e allora si provava compassione di lui fino alle lacrime. Dopo la colazione la nonna si ritirò nella sua camera per riposare, Nina Ivànovna rimase un poco a suonare il pianoforte, ma poi se ne andò pure lei. - Ah, cara Nadja - cominciò Saša la sua solita conversazione del dopo pranzo - se voleste darmi retta! Se!
Ella sedeva sprofondata nella vecchia poltrona, con gli occhi chiusi, mentre egli camminava per la stanza, da un angolo all'altro. - Se andaste a fare degli studi! - continuava. - Solo le persone istruite e sante sono interessanti, solo queste sono necessarie. Quanto più saranno numerose simili persone, tanto più presto verrà il regno di Dio in terra. della vostra città a poco a poco non rimarrà più una pietra sull'altra, tutto andrà sottosopra, tutto si trasformerà, come per incanto. E ci saranno allora qui degli edifici immensi, magnifici, dei giardini meravigliosi, fontane straordinarie, e una quantità di uomini di gran valore...Ma non è questa la cosa più importante. L'essenziale è che non esisterà più "la folla" nel senso nostro, così come esiste ora, questo gran male in terra, perché ogni essere umano avrà una fede e ciascuno saprà per quale scopo vive, e nessuno cercherà più un sostegno nella massa. Cara, golubka, partite! Mostrate a tutti che questa vita immobile, grigia, peccaminosa, vi è venuta a noia. Mostratelo se non altro a voi stessa! 
- Non è possibile, Saša. Sto per maritarmi.
- Via basta! A chi serve questo?
Uscirono nel giardino e camminarono un poco.
- Comunque sia mia cara bisogna riflettere, bisogna capire quanto sia impura, immorale questa vostra esistenza oziosa - continuò Saša. - Capite dunque, che se per esempio voi e vostra madre e la vostra babulja non fate nulla tutto il giorno, questo significa che per voi lavora qualcun altro, che voi tre divorate la vita altrui, e forse che questo è onesto, o non è invece una cosa sporca?
Nadja avrebbe voluto dire: "sì, questo è vero"; avrebbe voluto dire che capiva; ma le lacrime le salirono agli occhi, ella d'un tratto si fece silenziosa, si strinse tutta in sé, e tornò nella sua camera.
Prima di sera venne Andrèj Andreič e, secondo il suo solito, suonò a lungo il violino. In genere era taciturno e amava il violino, forse perché suonando poteva tacere. Verso le undici, accomiatandosi, già col pastrano indosso, abbracciò Nadja e si mise a coprirle di baci avidamente il viso, le spalle, le mani. 
- Cara, amor mio, bella! - mormorava - Oh, come sono felice! Sono pazzo dalla gioia!
E a lei sembrava di aver udito queste parole già da molto tempo, in epoca lontana, lontana, oppure di averle lette da qualche parte...in un romanzo, in un vecchio romanzo squinternato, già da tempo buttato via. Nella sala da pranzo Saša sedeva a tavola e beveva il tè reggendo il piattino sulle lunghe cinque dita; la nonnetta disponeva le carte per il solitario, mentre Nina Ivànovna stava leggendo. La fiammella della lampada crepitava e tutto pareva spirare pace e contentezza. Nadja diede la buonanotte e si recò sopra, e subito dopo essersi coricata si addormentò. Ma come nella notte precedente si svegliò non appena fu spuntato il primo chiarore. Non aveva più voglia di dormire e si sentiva l'animo inquieto, oppresso. Stava seduta, col capo poggiato sulle ginocchia, e pensava la fidanzato, alle nozze...Si ricordò, chissà perché, che sua madre non aveva voluto bene al defunto marito e ora non possedeva nulla e viveva in completa dipendenza dalla suocera, la nonnetta. E per quanto si sforzasse, non riusciva  a comprendere perché mai fino ad allora avesse veduto in sua madre un essere singolare, fuori dell'ordinario, perché non avesse invece notato ch'era una donna semplice, mediocre, infelice. 
Anche Saša, al piano di sotto, non dormiva, e si poteva udirlo ogni tanto tossire. È un uomo strano, ingenuo, pensava Nadja, e nelle sue fantasticherie, in tutti quei giardini meravigliosi, in quelle fontane straordinarie si avverte qualcosa di assurdo; eppure, chissà perché nella sua ingenuità e in quelle sue assurdità c'è tanto di affascinante, che non appena, ecco, ella comincia a riflettere se non le convenga partire per dedicarsi a degli studi, tutto il suo cuore, tutto il petto sono inondati da un senso di brivido, da un sentimento di gioia, di entusiasmo?
- Ma è meglio non pensarci, meglio non pensarci - ella bisbigliava. - Non bisogna pensare a queste cose. «Tic-toc...- batteva le ore in lontananza il guardiano notturno. - Tic-toc, tic-toc». 

III

Saša d'un tratto, a metà giugno, cominciò ad annoiarsi e si accinse a ripartire per Mosca.
- Non posso vivere in questa città - diceva tetro. - Non ci sono né acquedotti né fognature! Mi sento disgustato quando mangio: in cucina c'è una sporcizia indescrivibile...
- Ma aspetta ancora, figliuol prodigo! - cercava di persuaderlo la nonna, parlando, chissà perché, a voce bassa. - Il sette si farà il matrimonio!
- Non ne ho voglia.
- Ma non avevi intenzione di star da noi fino a settembre?
- Già, però non ho più voglia. Ho bisogno di lavorare.
L'estate si fece umida e fredda, gli alberi erano bagnati, e tutto il giardino aveva un aspetto poco accogliente, melanconico, e veniva davvero voglia di lavorare. Nelle stanze, in basso e in alto risuonavano voci femminili sconosciute, in quella della nonna strepitava la macchina da cucire: si lavorava in fretta per allestire il corredo. Di sole pellicce ne davano in dote sei, e la meno costosa, a quel che diceva la nonna, veniva già a costare trecento rubli! Tutto quel tramestio in casa irritava Saša; se ne stava seduto nella sua camera, di cattivo umore; tuttavia era stato persuaso a rimanere e aveva dato la parola che sarebbe partito il primo luglio, non prima.
Il tempo passava rapidamente. Il giorno di San Pietro e Paolo, dopo colazione, Andrèj Andreič si recò con Nadja nella Moskòvskaja, per dare ancora una volta un'occhiata alla casa che era stata presa in affitto e da lungo tempo preparata ad accogliere i giovani sposi. Era una casa a due piani, ma per il momento solo il piano superiore era stato messo a posto. Nella sala l'impiantito era lucido, a parquet, e c'erano sedie viennesi, il pianoforte, un leggio per il violino. C'era ancora odore di vernice. Sulla parete, in cornice dorata, pendeva un grande quadro a olio raffigurante una donna nuda accanto a un vaso color viola dall'ansa rotta. 
- Un quadro stupendo - esclamò Andrèj Andreič e sospirò in segno di stima. - È del pittore Šišmačevskij. Seguiva il salotto con una tavola rotonda, un divano e alcune poltrone ricoperte di una sgargiante stoffa azzurra. Sopra il divano era appeso un grande ritratto fotografico di padre Andrèj con la calotta e le decorazioni. Entrarono poi nella sala da pranzo, fornita di una dispensa, e poi nella camera da letto; qui nella penombra stavano uno accanto all'altro due letti, e si aveva l'impressione che arredando questa camera ci si era lasciati guidare dall'idea che in essa avrebbe sempre regnato la felicità e che non poteva mai essere diversamente. Andrèj Andreič guidava Nadja per l'appartamento cingendole sempre la vita col braccio; ed ella si sentiva debole, colpevole, detestava tutte quelle stanze , i letti, le poltrone, e alla vista della dama nuda quasi si sentiva male. Ormai per lei era chiaro che non aveva cessato di amare Andrèj Andreič o, forse, non lo aveva mai amato; ma come dirlo, a chi dirlo e a che scopo, questo non le riusciva comprensibile, sebbene ci avesse pensato in tutti quei giorni, tutte quelle notti...Egli le cingeva la vita, parlava con tanta dolcezza e modestia, era così felice aggirandosi per quell'appartamento; mentre ella scorgeva in tutto unicamente la banalità, il lato volgare, sciocco, ingenuo, insopportabile, e il braccio che la teneva per la vita le sembrava ruvido e freddo come un cerchio di ferro. Ad ogni istante sentiva in sé l'impulso a fuggire, a scoppiare in singhiozzi, a gettarsi dalla finestra. Andrèj Andreič la condusse nella stanza da bagno, toccò il rubinetto infisso nella parete, e d'un tratto l'acqua sgorgò. - Che ne dici?- domandò ridendo. - Ho ordinato che in soffitta fosse sistemato un serbatoio per cento secchi, e così noi due avremo sempre dell'acqua. Fecero qualche passo nel cortile, poi uscirono sulla strada e presero una vettura. La polvere si levava in nubi e pareva che da un momento all'altro dovesse piovere. - Non senti freddo? - domandò Andrèj Andreič strizzando le palpebre per la polvere. Ella non rispose. - Ieri Saša, ti ricordi, mi ha rimproverato perché non faccio nulla - riprese Andrèj Andreič dopo un po' di silenzio. - Che devo dire? Ha ragione! Ha pienamente ragione! Non faccio nulla e non so fare nulla. Mia cara, perché è così? Perché mi è odioso perfino il pensiero ch'io possa un bel giorno attaccarmi una coccarda al berretto e andar ad assumere un impiego? Perché mi sento tanto a disagio quando vedo un avvocato o un professore di latino o un membro dell'amministrazione dello zemstvo? Oh, matuška Russia! Oh, matuška Russia, quanti uomini oziosi e inutili gravano su di te! Quanti ce ne sono come me, o grande sofferente! 
Egli in tal modo generalizzava la sua esistenza inattiva e vedeva in ciò un segno dei tempi.
- Quando ci saremo sposati - continuò - andremo insieme in campagna, mia cara, e ci metteremo a lavorare! Compreremo un piccolo lembo di terra con un giardino, un fiumicello, faticheremo, osserveremo la vita...Oh, come sarà bello! Si era tolto il cappello, sì che il vento scompigliava la sua chioma, e Nadja stava ad ascoltare e pensava: «Dio mio, tornare a casa, Dio mio!». A pochi passi da casa si imbatterono in padre Andrèj. - Ecco il papà che arriva! - esclamò lieto Andrèj Andreič e agitò il cappello. - Gli voglio bene al mio babbino, davvero - disse, mentre pagava il vetturino. - Un bravo vecchio. Un vecchio di buon cuore. Nadja entrò in casa irritata, malata, pensando che per tutta la serata ci sarebbero stati ospiti, che avrebbe dovuto intrattenerli, sorridere, ascoltare i suoni del violino, prestare orecchio a ogni genere di insulsaggini, e parlare unicamente delle nozze. La nonna, dignitosa tronfia nel suo abito di seta, con quell'aria di altezzosità che assumeva in presenza di ospiti, era seduta presso il samovàr. Entrò padre Andrèj col suo sorriso furbo.
- Ho il piacere e la benefica consolazione di vedervi in ottima salute - disse alla nonna, ed era difficile capire se egli volesse scherzare o parlasse sul serio.


IV

Il vento picchiava alle finestre, sul tetto; lo si udiva fischiare e nei caminetti lo spirito della casa cantava triste e lamentoso la sua canzoncian. Era l'una di notte. Tutti già erano coricati, ma nessuno dormiva, e a Nadja pareva continuamente che in basso qualcuno ancora suonasse il violino. si udì un colpo secco: certamente si era staccata un'imposta. Pochi istanti dopo comparve Nina Ivànovna, in camicia, con una candela in mano. 
- Cos'è stato quel colpo, Nadja? - domandò. La madre, coi capelli annodati in una treccia, con il suo sorriso timido, sembrava in quella notte di burrasca più vecchia, più brutta e più piccola. Nadja si rammentò che ancora poco tempo prima considerava sua madre una persona fuor dell'ordinario e soleva ascoltare con orgoglio le parole che proferiva; ma ora di quelle parole non riusciva neppure a ricordarsi e tutto quel che le veniva in mente era tanto insignificante, superfluo. Nella gola del camino si udì il canto di alcune voci di basso e sembrò perfino di udire: "A-ah, D-io mio!". Nadja si rialzò a sedere nel letto e d'un tratto si afferrò per i capelli e proruppe in singhiozzi. 
- Mamma, mamma -esclamò - mia cara, se tu sapessi che cosa succede in me! Ti prego, ti supplico, permettimi di partire! Ti supplico! - Per dove? - domandò Nina Ivànovna, che non capiva, e si sedette sul letto. - Partire per dove? Nadja continuò a lungo a singhiozzare senza poter dire una parola.
- Permettimi di andar via di qui! - proferì finalmente. - Il matrimonio non si deve fare, e non si farà, capisci! Non voglio bene a quell'uomo...Non posso neanche parlare di lui.
- No, cara mia, no - esclamò rapidamente Nina Ivànovna, tutta sgomenta . - Calmati, è una indisposizione dell'animo che ti è venuta. Vedrai, passerà. Son cose che capitano. Probabilmente ti sei bisticciata con Andrèj, per gli innamorati litigare è un passatempo.
- Ti prego, vattene, mamma, vattene! - singhiozzò Nadja. 
- Eh, sì - disse dopo un momento di silenzio Nina Ivànovna. - Sembra ieri che tu eri ancora una bimbetta, una ragazzina, e ora sei già fidanzata. Nella natura è un continuo mutamento delle cose. E non ti accorgerai come tu stessa diventerai madre e vecchia e avrai anche tu una figlia testarda, come è capitata a me.
- Mia cara, mia buona mammina, eppure sei intelligente, sei infelice - disse Nadja - sei molto infelice, ma perché dire delle banalità? Per amor di Dio, perché? Nina Ivànovna voleva replicare qualcosa, ma non riuscì a pronunciare una parola, singhiozzò e tornò nella sua camera. Di nuovo le voci di basso rombarono nella gola del camino e Nadja d'un tratto ebbe paura. Saltò dal letto e a rapidi passi andò dalla madre. Nina Ivànovna, con gli occhi gonfi di pianto, giaceva in letto, sotto una coperta azzurra e teneva in mano un libro.
- Mamma, dammi retta! - esclamò Nadja. - Ti supplico, rifletti un poco, cerca di capire! Cerca di capire fino a che punto è meschina e umiliante la nostra vita. Ho aperto gli occhi e ora vedo tutto. Che cos'è quel tuo Andrèj Andreič? Ma non è punto intelligente mamma! Signore, Dio mio! Capisci, mamma, è uno sciocco! Nina Ivànovna bruscamente balzò a sedere sul letto.
- Tu e la tua babulja mi torturate! - disse, singhiozzando. - Voglio vivere anch'io! Vivere! - ripeté percotendosi più volte il petto col suo piccolo pugno. - Datemi alla fine un po' di libertà! Sono ancora giovane, voglio vivere, e voi invece avete fatto di me una vecchia! Si mise a pingere amaramente, si sdraiò di nuovo e si raggomitolò tutta sotto la coperta. Apparve allora tanto piccola, misera, sciocchina! Nadja tornò nella sua camera, si vestì e, sedutasi presso la finestra attese il mattino. Tutta la notte rimase così seduta in meditazione, mentre dal cortile qualcuno continuava a picchiare alle imposte e fischiare. Al mattino la nonna si lamentò che nel giardino il vento durante la notte aveva buttato giù le mele e schiantato un vecchio susino. Il tempo era grigio, scialbo, desolante, sì che veniva voglia di accendere i lumi; tutti si lagnavano del freddo, e la pioggia picchiava ai vetri.
Dopo il tè Nadja entrò nella camera di Saša e, senza dire una parola, s'inginocchiò in un angolo presso la poltrona coprendosi il viso con le mani.
- Che c'è? - domandò Saša.
- Non posso...-ella disse. - Come ho potuto vivere qui finora non lo capisco, non arrivo a capire! Il fidanzamento lo disprezzo, disprezzo me stessa, disprezzo tutta questa esistenza oziosa, senza scopo...
- Be', be'...- proferì Saša non comprendendo ancora di che si trattasse. - Non è nulla...è un buon segno.
- Questa esistenza mi è diventata odiosa - continuò Nadja - Non ci resisto più neanche un giorno. Domani stesso voglio partire di qui. Prendetemi con voi, per amor di Dio! Saša per un po' stette a guardarla stupito e si rallegrò come un bambino. Agitò le braccia e si mise a battere in terra i piedi infilati nelle pantofole, come ballando dalla gioia.
- Magnifico! - diceva, stropicciandosi le mani. - dio mio, che bella cosa! Ella intanto lo osservava senza batter ciglio, con grandi occhi innamorati, come incantata, aspettando che da un momento all'altro le dicesse qualcosa di decisivo, di immensamente importante; egli non aveva ancora detto nulla, ma le pareva già che davanti a lei si spalancasse un mondo nuovo e vasto, che finora le era rimasto ignoto, e già lo contemplava piena di attesa, pronta a tutto, anche alla morte.
- Domani io parto - egli disse, dopo aver riflettuto - e voi verrete ad accompagnarmi alla stazione...La vostra roba la riporrò nel mio baule e prenderò per voi il biglietto; e quando il treno starà per partire salirete nella vettura, e ci metteremo in viaggio insieme. Accompagnatemi fino a Mosca e poi proseguite per Pietroburgo sola. Avete il passaporto?
-Sì, ce l'ho.
- Vi giuro, non rimpiangerete nulla, non vi pentirete - esclamò Saša con entusiasmo. - Partirete, vi metterete a studiare, e poi lasciate che il destino vi porti. L'essenziale è dare una nuova svolta alla vita, e tutto il resto non conta. Dunque, domani partiamo, va bene?
- Oh sì! Per amor di Dio!
A Nadja pareva di essere molto agitata, di avere un gran peso nel cuore, come non mai, che ora, fino alla partenza, avrebbe dovuto soffrire e meditare tormentosamente; e invece, non appena fu salita nella sua camera, e si fu coricata sul letto, ella si assopì subito e dormì profondamente, col viso ancora in lacrime e con un sorriso, fino alla sera.


V

Mandarono a prendere una carrozza. Nadja, già col cappello in testa e col mantello, salì al piano di sopra per dare ancora uno sgurado a sua madre e a tutto ciò che finora era stato suo; si fermò nella sua camera accanto al letto ancora tiepido, volse gli occhi intorno, poi si recò dalla madre. Nina Ivànovna dormiva, la stanza era silenziosa. Nadja baciò sua madre, le ravviò i capelli, stette immobile un paio di minuti...Poi, senza fretta, tornò in basso. Nel cortile la pioggia scrosciava. La vettura col mantice rialzato, tutta bagnata, era ferma presso il portone.
- Non ci sarà posto per te, Nadja - disse la nonna quando la domestica cominciò a sistemare il bagaglio. - Che voglia t'è venuta d'accompagnarlo con questo tempaccio! Faresti meglio a star a casa. Non vedi come piove? Nadja voleva replicare qualcosa, ma non poté. Ecco che Saša ha aiutato Nadja a salire in carrozza, le ha disteso una coperta sulle gambe. Ecco che Saša si è seduto accanto a lei.
- Che l'ora ti sia propizia! Che Dio ti benedica! - gridava dalla scalinata la nonna - E tu Saša, scrivici da Mosca!
- Sta bene. Addio, babulja!
- Che la Regina dei cieli ti protegga!
- Ma guarda che tempaccio! -esclamò Saša.
Solo ora Nadja si mise a piangere. Ormai per lei fu chiaro che sarebbe partita immancabilmente, cosa alla quale non aveva ancora voluto creder, mentre si accomiatava dalla nonna, mentre guardava sua madre. Addio, città! E tutto ora le tornò in mente: Andrèj e il padre di lui, e il nuovo appartamento e la dama nuda con il vaso; ma tutto questo, ormai non spaventava, non opprimeva, ma appariva ingenuo, meschino e si allontanava da lei, restava sempre più indietro. Quando poi presero posto nello scompartimento e il treno si mise in moto, tutto quel passato, così grande e grave, si restrinse come in un mucchietto e si aprì largo, immenso il futuro, che finora era stato appena percettibile. La pioggia picchiava ai finestrini, si vedevano solo campi verdi, apparivano e dileguavano i pali del telegrafo e degli uccelli sui fili, e d'un tratto la gioia le mozzò il respiro: ricordò che viaggiava verso la libertà, andava a compiere degli studi, ed era la stessa cosa che in tempi lontani andar verso le regioni dei cosacchi. E le veniva da ridere e da piangere, e ogni tanto essa pregava.
- Non è nu-ulla! - ripeteva Saša, con una largo sorriso. - Non è nu-ulla!


VI

Passò l'autunno, e poi passò l'inverno. Già Nadja provava una forte nostalgia e ogni giorno pensava alla madre e alla nonna, pensava a Saša. Le lettere da casa arrivavano pacate, affettuose e pareva che tutto ormai fosse stato perdonato e dimenticato. In maggio, dopo gli esami, Nadja, sana e allegra, si mise in viaggio per visitare i suoi e di pasaggio si fermò a Mosca per incontrarsi con Saša. Era sempre lo stesso, come nell'estate precedente: barbuto, con la testa arruffata, e sempre con la medesima giubba e i medesimi pantaloni di tela, sempre con quegli occhi grandi, bellissimi; ma aveva un aspetto malato, esausto, ed era anche invecchiato e dimagrito e tossiva continuamente. Chissà perché, a Nadja fece l'impressione d'un essere scialbo, provinciale.
- Dio mio, è arrivata Nadja! - esclamò ridendo allegro. - Mia cara, golubka! Stettero un po' a sedere nella litografia, dove l'aria era tutta impregnata di odore di tabacco, d'inchiostro e di colori, da soffocare; poi si recarono nella camera di Saša. Anche qui odore di tabacco e sputi; sulla tavola un samovàr spento e accanto un piatto rotto, con una carta di colore scuro, e sulla tavola e in terra si vedeva una quantità di mosche morte. Tutto qui indicava che la sua vita privata Saša l'aveva sistemata negligentemente, a casaccio, che viveva con un totale disprezzo per le comodità, e se qualcuno gli avesse parlato della sua felicità personale, della sua vita privata, del proprio amore verso di lui, non avrebbe capito nulla e si sarebbe messo a ridere.
- Non c'è male. Tutto si è accomodato - raccontava Nadja in fretta. - La mamma è venuta a trovarmi a Pietroburgo in autunno, e mi diceva che la nonna non era arrabbiata e soltanto andava continuamente nella mia camera a benedire con segni di croce le pareti. Saša aveva un'aria allegra, ma tossiva e parlava con voce fessa, e Nadja lo scrutava continuamente non riuscendo a capire se egli fosse davvero gravemente malato o se così paresse solo a lei.
- Saša, caro - ella diceva - ma voi siete certo malato!
- No, non è nulla. Sono malato, sì, ma non seriamente.
- Ah, Dio mio - si agitò Nadja - perché non vi curate, perché non avete riguardo per la vostra salute? Caro, mio caro Saša - esclamò, e le lacrime sgorgarono improvvisamente, e, chissà perché, si affacciarono alla sua fantasia Andrèj Andreič e la dama nuda col vaso, e tutto il suo passato, che le pareva ora così remoto come la sua infanzia; e le venne da piangere per il fatto che Saša ormai non le sembrava più così nuovo, intelligente, interessante, come aveva creduto un anno prima. - Caro Saša, ma voi siete molto, molto malato. Non so cosa farei, per non vedervi così pallido e magro. Vi devo tanto! Non potete neanche immaginanarvi quanto avete fatto per me, mio buon Saša! In fondo, voi siete la persona a me più vicina, quella a cui mi sento più legata.
Rimasero così, seduti, a discorrere: e ora, dopo che Nadja aveva trascorso l'inverno a Pietroburgo, le pareva che da Saša, dalle sue parole, dal suo sorriso e da tutta la sua figura emanasse qualcosa di antiquato, di stantìo; qualcosa di logorato da molto tempo ormai e, fors'anche, già morto e sepolto.
- Dopodomani me ne vado sul Volga - raccontava Saša - e poi me ne andrò a fare una cura di kumyš. Viene con me un amico con la moglie. È una donna ammirevole; io cerco continuamente di metterla sulla buona strada, di convincerla, perché compia degli studi. Voglio che dia una svolta alla sua vita.
Dopo aver ragionato a lungo, si recarono alla stazione. Saša le offrì del tè e delle mele, e quando il treno si mosse ed egli, sorridendo, agitò il fazzoletto, già solo dalle sue gambe si poteva vedere che era molto malato e che difficilmente avrebbe avuto vita lunga. Nadja arrivò nella sua città a mezzogiorno. Mentre dalla stazione la vettura la portava a casa, le strade le parvero molto larghe, e le case piccole, appiattite; non c'era gente per le vie; e incontrò solo un tedesco accordatore nel suo pastrano rossiccio. Tutte le case sembravano coperte di polvere. La nonna, ormai diventata proprio una vecchia, ma come sempre grassa e brutta, cinse Nadja fra le braccia e pianse a lungo, premendo il viso contro una spalla di lei e non riusciva a staccarsi. Anche Nina Ivànovna era assai invecchiata e imbruttita, sembrava rinsecchiata tutta, ma come al solito era stretta nel busto e sulle sue dita luccicavano i brillanti. - Mia cara! - diceva, tremando in tutto il corpo - mia cara! Poi rimasero a lungo sedute, piangendo. Era evidente che tutte e due, la nonna e la madre, sentivano che il passato era perduto per sempre, irreparabilmente: non c'era più la posizione d'una volta nella società, né l'onoratezza di prima, né il diritto di invitare ospiti in casa; così accade, quando in mezzo ad una vita facile, spensierata, d'un tratto irrompe la polizia, opera una perquisizione, e risulta che il padrone di casa ha dilapidato, falsificato, e addio allora per sempre vita facile e spensierata! Nadja salì al piano di sopra e vide lo stesso letto, le stesse finestre con le tende bianche, ingenue, e dalle finestre lo stesso giardino, inondato di sole, gaio, rumoroso. Toccò il suo tavolino, si mise a sedere, rimase così meditabonda. E pranzò bene, e bevve il tè con la panna densa, saporita, ma pure qualcosa ormai mancava, si avvertiva il vuoto nelle stanze e i soffitti sembravano più bassi. Alla sera si coricò, si rannicchiò sotto la coperta, e , chissà perché, le parve buffo giacere in quel letto tiepido, così soffice.
Entrò per un momento Nina Ivànovna, si sedette come si seggono dei colpevoli, timidamente e sbirciando dai lati-
- Ebbene, come va, Nadja? - domandò dopo qualche attimo di silenzio. - Sei contenta? Molto contenta?
- Sono contenta, mamma. Nina Ivànovna si levò e fece dei segni di croce in direzione di Nadja e delle finestre.
- E io, come vedi, sono diventata religiosa - disse. - Sai, mi occupo ora di filosofia e penso, penso continuamente...E molte cose mi son diventate chiare come la luce del sole. Prima di tutto occorre, mi pare, che tutta la vita passi come attraverso un prisma.
- Dimmi, mamma, come va la salute della nonna?
- Pare che non abbia nulla. Allora, quando partisti con Saša e venne il tuo telegramma, la nonna, appena lo lesse, cadde di schianto; tre giorni rimase senza muoversi. Poi non faceva che pregare Dio e piangere. Ma ora non c'è male. Si alzò e camminò per la camera.
«Tic-toc...-batteva il guardiano notturno - tic-toc, tic-toc...».
- Prima di tutto occorre che tutta la vita passi come attraverso un prisma - ella ripetè - cioè, in altre parole, bisogna che la vita nella coscienza si divida nei suoi elementi più semplici, come nei sei colori fondamentali, e ogni elemento va studiato separatamente.
Che altro ancora dicesse Nina Ivànovna e quando uscisse, Nadja non udì, perché presto si addormentò. Trascorse il maggio, venne il giugno. Nadja già si era abituata alla casa. La nonna si affaccendanva intorno al samovàr, sospirava profondamente; Nina Ivànovna la sera esponeva la sua filosofia; come prima, la sua posizione in casa era simile a quella di una povera accolta per misericordia, e per ogni venti copechi doveva rivolgersi alla nonna. C'erano molte mosche in casa e i soffitti nelle stanze pareva che diventassero sempre più bassi. La nonnetta e la madre non uscivano in strada per paura d'imbattersi in padre Andrèj o in Andrèj Andreič. Nadja passeggiava per il giardino, per le vie, osservava le case, gli steccati grigi, e le sembrava che in città tutto fosse invecchiato, decrepito, e aspettasse non si sapeva se la fine o il principio di qualcosa di giovane e fresco. Oh, giungesse al più presto questa vita nuova, luminosa; una vita in cui sia dato guardare diritto, arditamento negli occhi la propria sorte, aver la coscienza di trovarsi dalla parte della ragione, essere lieti, liberi! E una tale vita presto o tardi dovrà sorgere! Perché dovrà pure venire un tempo, in cui di questa casa della nonna, nella quale tutto è sistemato in modo che quattro domestiche devono per forza dormire in una sola camera del sottosuolo, nella sporcizia, dovrà pure venire un tempo, in cui di questa casa non rimarrà più traccia, e nessuno se ne ricorderà più. Distraevano Nadja solo i monelli del cortile vicino: quando passeggiava nel giardino, picchiavano allo steccato e ridevano sbeffeggiandola: - Fidanzata! Fidanzata!
Arrivò da Saratov una lettera di Saša. Con la sua scrittura tutta slancio allegro, come danzante, raccontava che il viaggio sul Volga era pienamente riuscito, ma che a Saratov si era sentito non troppo bene, che aveva perduto la voce e che ormai da due settimane era ricoverato all'ospedale. Ella capì che cosa significava tutto ciò, e un presentimento simile alla certezza si impossessò di lei. E le rincresceva che un tale presentimento e il pensiero di Saša non l'agitassero come sarebbe accaduto prima. Sentiva un desiderio appassionato di vivere, di tronare a Pietroburgo e la sua amicizia con Saša le si presentava ormai come un passato caro, ma lontano, lontano! Non dormì tutta la notte e al mattino si sedette alla finestra con l'orecchio teso. E infatti, a un certo punto, si udirono in basso due voci; la nonna allarmata domandava qualcosa precipitosamente. Poi qualcuno si mise a piangere...Quando Nadja scese, la nonna stava in un angolo pregando e il suo viso era bagnato di lacrime. Sulla tavola era spiegato un telegramma. Nadja a lungo camminò su e giù per la stanza, ascoltando il pianto della nonna, poi prese il telegramma e lesse. Vi si comunicava che la mattina prima a Saratov era morto di tubercolosi Aleksàndr Timofeič o, più semplicemente, Saša. La nonna e Nina Ivànovna si recarono in chiesa per ordianre una messa di requiem, e Nadja intanto continuò ancora a lungo a camminare per le stanze, immersa nelle sue riflessioni. Sentiva lucidamente che la sua esitenza aveva preso quella svolta che Saša aveva desiderato, che essa era qui sola, estranea, inutile, e che tutto qui era inutile per lei, tutto ciò che era stato una volta era strappato dalla sua vita, era scomparso, come bruciato, e le ceneri ne erano sparse al vento. Entrò nella camera di Saša e si fermò lì, in piedi. « Addio, caro Saša» pensava, e davanti a lei si disegnava una vita nuova, ampia, sconfinata, e questa vita, ancora vaga, piena di mistero, la attraeva, la chiamava a sé. Salì nella sua camera a preparare il bagaglio, e il giorno dopo, al mattino, si accomiatò dai suoi e, vivace, gaia, abbandonò la città, come ella prevedeva, per sempre.