domenica 12 gennaio 2025

SULLE CAUSE DELLA GUERRA IN UCRAINA. Di Joze Jechich JJ

 


SULLE CAUSE DELLA GUERRA IN UCRAINA. 

Di Joze Jechich JJ

Ci avviciniamo rapidamente alla conclusione del terzo anno di guerra in Ucraina: iniziata, secondo le aspettative di Mosca, come operazione militare speciale da concludersi vittoriosamente in pochi giorni e rivelatasi, secondo la dura realtà dei fatti, una guerra d’usura la cui conclusione appare molto lontana e tutt’altro che scontata.

Le conseguenze rimangono quindi imprevedibili e ad ampio raggio, anche se molte si sono già palesate. In compenso piuttosto definite appaiono le cause e di queste parleremo nelle prossime righe, con l’obiettivo di sfatare alcuni falsi miti propalati dalla propaganda putinista.

1. L’imperialismo di Mosca

Sebbene gli autocrati del Cremlino non abbiano mai gradito questa definizione, la Russia è un impero coloniale; anzi è l’ultimo degli imperi coloniali, del tutto paragonabile a quelli europei tranne che per le modalità di espansione: oltremare per i primi, continentale per la Russia, geograficamente lontana dai mari caldi e quindi costretta a seguire linee di espansione terrestri verso l’est (la Siberia), il sud-est (le steppe centroasiatiche) ed il sud (Caucaso): il tutto attraverso un processo di colonizzazione interna violenta, non dissimile dalla molto più vituperata “conquista del West” americana. 

Tutto questo movimento ad oriente non valse però a cancellare le ambizioni del Cremlino verso i mari caldi, che in più occasioni cercò di raggiungere durante i secoli XIX° e XX°, avvicinandosi al Mediterraneo ed all’Oceano Indiano solo in epoca tardo-sovietica attraverso una cintura di stati-vassalli (Patto di Varsavia e Afghanistan).

L’espansionismo è quindi intrinseco alla natura imperialista dello stato russo (che Massimo Cacciari definisce “imperialista nel DNA”), indipendentemente dalla colorazione politica del regime che lo domina, tanto che fu lo stesso Lenin ad un certo punto, a definire la Russia una “prigione dei popoli” senza però riuscire a correggerne la rotta ma trasformandola in quella prigione delle idee portata poi da Stalin al suo apogeo.

Da tutto questo ne deriva che la rinuncia definitiva all’Ucraina, ovvero al più importante tra i territori soggiogati – che per tutta l’epoca zarista era stata chiamata Piccola Russia (Malorossiya) a ribadirne la subordinazione alla Grande Russia moscoviana (Velikorossiya) – avrebbe significato per il Cremlino la presa d’atto del fine-impero: evento inaccettabile e millenaristico,  paventato dal dopo 1991 e che la Russia ha cercato di scongiurare sia attraverso raffazzonate e rissose architetture geopolitiche come la CSI ed i suoi derivati (UEE e CSTO), sia con avventure militari volte a recuperare territori perduti, di cui l’invasione dell’Ucraina è solo l’ultimo esempio.

Col senno di poi sono significative le parole pronunciate il 24 dicembre 2021 da Putin, che riassunse i fatti del 1991 come una “disintegrazione della russia storica sotto il nome di Unione Sovietica”, vale a dire non già la fine di un sistema al cui interno vi era anche la Russia, bensì il crollo della Russia storica nella sua declinazione di URSS. Parole che riecheggiavano quelle scritte poche settimane prima, in luglio, in cui sostanzialmente sosteneva, tra speciosità, omissioni e forzature, che tutto ciò che era stato dell’Impero russo avrebbe dovuto essere restituito alla Russia. Quindi anche Ucraina, Finlandia, Polonia per non parlare degli stati baltici.

Stendardo imperiale zarista, attualmente tra gli emblemi dell’estrema destra russa

2. Missione sacra

Mentre l’imperialismo rientra nella storia geopolitica dell’impero russo, la “missione sacra” è invece qualcosa di attinente alla sfera metafisica del medesimo: si tratta in pratica dell’autoproclamato ruolo di Terza Roma assunto nel 1453, dopo la caduta di Bisanzio, da Ivan III zar di Mosca; in altre parole la rivendicazione escatologica del ruolo della Russia di “ultimo baluardo” della Cristianità ed in particolare dell’Ortodossia contro gli infedeli e per estensione l’Anticristo.

Nel concetto di Terza Roma si sublima quindi la millenaristica lotta tra Bene e Male, inizialmente interpretata in senso religioso con la Russia nelle vesti di Katechon ovvero di entità destinata a salvare il mondo dal Maligno, ma con il progredire dei secoli rielaborata in termini geopolitici da letterati e scuole di pensiero per giustificare l’espansionismo zarista sugli infedeli.

Uno dei teorici di questa politicizzazione nella seconda metà dell’800 è stato il filosofo Konstantin Leontjev non a caso considerato uno dei riferimenti ideologici di Putin assieme ad Ivan Iljn, Lev Gumilev e Nikolaj Berdjaev.

Per Leontjev una delle eredità trasmesse da Bisanzio a Mosca risiedeva nel principio di autocrazia, ovvero di sacralità dello zar e si univa all’Ortodossia nella cosiddetta symphonia bizantina dei poteri, vale a dire l’armonia tra Stato e Chiesa che con la Nazionalità formavano la Triade di Uvarov ovvero il modello ultraconservatore posto a difesa della stabilità politica, dell’ordine sociale e religioso e dell’identità ancestrale: il tutto a comporre una Trinità terrena formata dall’imperatore rappresentante di Dio sulla terra, dal Patriarcato che ne è lo strumento e dalla nazione russa incaricata della sacra missione. 

Tradire l’eredità di Bisanzio avrebbe significato, per Leontjev aprire la strada alla caduta della Russia.

Da questi presupposti deriva la scelta di Putin (per convenienza o per fede, non è dato sapere) di stipulare un’alleanza tra regime e Patriarcato con la relativa sovrastruttura ideologica di una Santa Russia Katechon in lotta esistenziale contro l’Anticristo ed i suoi strumenti terreni (liberalismo, democrazia, modernismo ecc.) incarnati dall’Occidente corrotto e 

3. Il “contagio democratico”

L’insinuarsi dall’esterno di principi democratici che possano mettere a rischio la monoliticità del proprio regime è il timore principale di ogni autocrate, Putin incluso, il quale più volte ha dimostrato la propria intolleranza verso le liberaldemocrazie occidentali, preferendo relazionarsi con altri sistemi autoritari piuttosto che aprirsi con fiducia all’Occidente accettando le regole del confronto democratico. 

Per tale motivo la sola ipotesi che l’Ucraina post-Maidan, svincolatasi dalla tutela di Mosca potesse diventare un paese pienamente democratico col rischio che il “contagio della Democrazia” si espandesse anche alla Russia, deve essergli apparso intollerabile: non perché avrebbe significato la fine della Russia in quanto tale, bensì perché avrebbe mandato in crisi il suo regime, costringendolo a farsi da parte.

Ricordiamo come nel 2020 Putin, al potere già da 20 anni, avesse imposto e vinto un referendum costituzionale che gli consentirà di rimanere sul trono fino al 2036.

In questo scenario una Ucraina libera e democratica e magari di successo per la sua vicinanza all’Occidente avrebbe potuto essere un “pessimo” esempio per le plebi russe asservite al regime.

Di questa ossessione abbiamo testimonianze relativamente alla fortissima impressione che Putin avrebbe subito assistendo al video del linciaggio di Gheddafi da parte della folla inferocita. Da qui la sua ostilità verso le cosiddette “primavere” nazionali ed il terrore che queste potessero estendersi anche alla Russia, con relativo incubo di fare la fine del raìs libico. 

Piazza Maidan sarebbe stata quindi percepita da Putin, in una spettacolare inversione del nesso di causalità, come la prova generale di una primavera moscovita, da stroncarsi preventivamente non già migliorando le condizioni del popolo russo (e quindi facendo venire meno le ragioni di una possibile protesta) bensì cauterizzando la ferita ucraina per prevenire il contagio democratico.

Euromaidan 2014. Secondo la narrativa putinista si sarebbe trattato di un golpe, ma nessuna prova ha mai confermato questa tesi

4. Sindrome d’accerchiamento

Oltre alla paranoia verso i nemici interni, da ex-KGB Putin ha probabilmente introiettato un’altra caratteristica tipica del regime sovietico, vale a dire la percezione di accerchiamento verso quelli esterni.

Storicamente risalente agli anni della guerra civile ed a quei tempi per certi versi giustificata, la sindrome di accerchiamento ha preso a pretesto in Putin la scelta dei paesi est-europei, nella loro libertà di stati sovrani, di aderire progressivamente alla NATO. 

Ribadita per l’ennesima volta l’inesistenza di un trattato di non-allargamento della NATO ad est come meglio spiegato in questo pezzo e quindi la speciosità della propaganda putinista, rimane la fallacia argomentativa di un “accerchiamento” asseritamente subìto da uno stato-continente come la Russia, esteso su 9 fusi orari e con 58.000 km di confini terrestri e marittimi, di cui solo 2.600 effettivamente fronteggiati dalla NATO.

In tal senso parlare di accerchiamento appare un assurdo geografico e geopolitico: è semmai la Russia infatti, con la sua stessa mole a confliggere con tutti i suoi vicini come un elefante in una cristalleria.

Del tutto fallace è poi il paragone con la Crisi di Cuba: l’URSS a Cuba i missili nucleari li aveva piazzati sul serio, mentre le armi atomiche in dotazione alla NATO non si sono spostate di un passo rispetto al 1989, né vi sono tutt’ora missili occidentali nei paesi dell’est in grado di colpire la Russia. Al contrario è Mosca ad aver reso operativi a Kaliningrad missili capaci di nuclearizzare diverse capitali europee.

Si aggiunga poi che 8.700 km di confine russo sono fronteggiati da paesi non ostili come Cina, Mongolia e Corea del Nord e che alltri 6.900 km sono in comune con il Kazakistan che fa parte del trattato CSTO di mutua sicurezza con Mosca 

Sotto ogni punto di vista quindi, l’accerchiamento della Russia risiede unicamente nel pensiero paranoide di Putin.

Per debunkare la narrativa putinista basta una cartina. Ecco come la NATO “accerchia” la Russia: in arancione il confine in comune con i due blocchi.

5.Revanscismo

“La caduta dell’Unione Sovietica è stata la più grave catastrofe geopolitica del XX secolo”. Parole e musica di Vladimir Putin (2005), quelle cioè di un piccolo funzionario nostalgico, ma di una nostalgia condivisa (2), per un regime che gli aveva consentito di passare da adolescente inquieto di borgata ad ufficiale paranoico del KGB di stanza in Germania Orientale, ovvero la destinazione più ambita tra gli apparatchiki di belle speranze.

Stando a quanto da lui stesso raccontato, fu a Dresda, nel dicembre 1989, che il giovane tenente colonnello Putin avrebbe maturato la repulsione per il caos ed i disordini di piazza, assistendo da una finestra del proprio ufficio, dopo aver richiesto inutilmente l’intervento armato della vicina guarnigione sovietica di Potsdam, al tumulto di una folla di tedeschi che nei giorni del crollo della DDR minacciava di prendere d’assalto il detestato palazzo del KGB.

Questo trauma, poi rivissuto con la fine di Gheddafi, lo avrebbe segnato per sempre.

“Se non fosse successo così in fretta…” disse una volta riferendosi alla ritirata delle truppe sovietiche dall’Europa Orientale, che lo vide rientrare malinconicamente a San Pietroburgo riducendosi a fare il tassista per integrare il suo magro stipendio da ufficiale. 

Ecco dunque la frustrazione personale saldarsi alla rabbia impotente per il destino del paese: un cupo miscuglio che fece nascere in lui un profondo senso di rivalsa e revanscismo verso quelle forze liberaldemocratiche che avevano contribuito a provocare la fine dell’URSS ed il crollo del suo piccolo e grigio mondo da burocrate delle Vite degli altri. (3)

Le radici della feroce acrimonia di Putin verso l’Occidente sono dunque interrate all’interno della stessa storia personale di Putin; tutto il resto (avanzata della NATO ad est, rivoluzioni colorate, Euromaidan, neonazismo in Ucraina, indipendentismo nel Donbas, russofobia…) sono semplici additivi, fertilizzanti, bias confermativi di una rabbia preesistente ma molto ben dissimulata secondo la più 

Un giovane Putin in divisa da capitano del KGB. Il suo servizio a Dresda fu alla base di alcune delle sue attuali ossessioni

6. Russkiy Mir

L’ennesimo rammarico di Putin: la caduta dell’URSS “fece dei russi il più grande gruppo etnico del mondo ad essere diviso da confini di Stato”. 

In questa frase è condensato il senso del Russkiy Mir: ovvero la Weltanschauung ideologica di un suprematista ruscista ossessionato dall’idea di riunificare tutti i russi sotto un’unica bandiera, come già un certo Hitler prima di lui con la definizione  di Volksdeutschen e l’idea del Lebensraum. 

E non a caso tra Russkiy Mir e Lebensraum le affinità sono evidenti, come meglio specificato in un mio pezzo precedente.

Ovviamente il progetto di riunificazione delle genti cosiddette russe sotto la bandiera di Mosca non tiene in alcun conto né della volontà delle medesime né della effettiva russicità delle stesse, considerandovi compresi arbitrariamente in esse anche gli ucraini, cui Putin non riconosce dignità di etnia né diritto di nazione: in altre parole la negazione di una identità ucraina separata da quella russa, come proclamato ripetutamente nel suo scritto breve del 12/721 “On the Historical Unity of Russians and Ukrainians”, poi in parte ripreso il 21/2/22 durante il video discorso alla nazione con cui annunciava l’inizio dell’invasione, definita operazione militare speciale. (3)

Dunque il Russkiy Mir come prodotto finale dell’ideologia ruscista adottata da Putin e sintetizzabile nel sopra riportato enunciato ideologico: “tutto ciò che era Russia [storica] deve tornare alla Russia”.

La città ucraina distrutta di Mariupol: uno dei più riusciti esempi di applicazione del Russkiy Mir

Queste dunque le principali cause ideologiche dell’invasione russa dell’Ucraina: non le fragili sovrastrutture di un regime estemporaneo emanazione di sé stesso, come è stato in parte per la Germania hitleriana, creatrice di una propria stessa mitopoiesi ed alla ricerca affannosa di una sua legittimazione storica attraverso le rabberciate scenografie ideologiche himmleriane, bensì i complessi e molto radicati paradigmi di una Russia eterna, sfortunatamente sempre uguale a sé stessa. 

Hitler non è stato la Germania ma una grottesca degenerazione della Germania ed il Reich millenario non equivaleva a ciò che la Germania era stata nei secoli passati ma ciò che avrebbe dovuto essere nei secoli futuri.

Putin rappresenta invece profondamente la Russia per ciò che è stata da Ivan IV a Stalin ed il suo regime non nasce da una combinazione estemporanea di fattori storici, bensì ne è la moderna evoluzione. Moderna solo in quanto riferita all’oggi, ma con lo sguardo perennemente rivolto ad un truce passato che non passa.



(1) Secondo un sondaggio Levada del 2021, ben il 76% degli intervistati ha attribuito all’URSS caratteristiche positive, il 67% ne ha deprecato il crollo ed il 66% ne rimpiange il socialismo 

(2) A Dresda Putin aveva il compito di spiare i dissidenti e monitorare i suoi stessi colleghi. Lui stesso si defini “specialista in relazioni umane”. In pratica una specie di Gerd Wiesler, ma decisamente più anafettivo del protagonista del film.

(3) Vladimir Putin: “On the Historical Unity of Russians and Ukrainians”. President of Russia en.kremlin.ru/events/president/news/66181, 12 luglio 2021.