venerdì 28 febbraio 2020


CECITÀ
José Saramago
Parte 1
Cap. 1-6

Nota editoriale

In una città qualunque, di un paese qualunque, un guidatore sta fermo al semaforo in attesa del verde quando si accorge di perdere la vista. All’inizio pensa si tratti di un disturbo pas seggero, ma non è così. Gli viene diagnosticata una cecità dovuta a una malattia sconosciuta: un “mal bianco” che avvolge la sua vittima in un candore luminoso, simile a un mare di latte. Non si tratta di un caso isolato: è l’inizio di un’epidemia che colpisce progressivamente tutta la città, e l’intero paese. I ciechi vengono rinchiusi in un ex manicomio e costretti a vivere nel più totale abbrutimento da chi non è stato ancora contagiato. Scoppia la violenza tra i disperati, violenza per sopraffare o soltanto per sopravvivere, in un’oscurità che sembra coprire ogni regola morale e ogni progetto di vita. Ma una donna che è miracolosamente rimasta immune dalla malattia si finge cieca per farsi internare e poter stare vicina al marito. Un gesto d’amore individuale diventa la possibilità di restituire agli uomini una speranza collettiva. Toccherà a lei inventare un itinerario di salvazione, recuperare le ragioni di una solidale pietà. Saramago ha scelto la via dell’affresco apocalittico per denunciare con intensità di immagini e durezza di accenti la notte dell’etica in cui siamo sprofondati. Paradossalmente, è proprio il mondo delle ombre a rivelare molte cose sul mondo di chi credeva di vedere. E quell’esperienza estrema è anche l’ultima occasione per confrontarsi con le domande ultime sul destino dell’uomo, malato di egoismo e di violenza, e sulle vie di un possibile riscatto.

José Saramago

 Nato nel 1922, narratore, poeta e drammaturgo, vive oggi a Lanzarote, nelle isole Canarie, ed è lo scrittore portoghese più letto e tradotto nel mondo. I suoi libri più noti sono Memoriale del convento (1984), L’anno della morte di Ricardo Reis (1985, ora nei Tascabili Einaudi), Storia dell’assedio di Lisbona (1990), Il vangelo secondo Gesù (1993).

Cecità

A Pilar
A mia figlia Violante

Se puoi vedere, guarda.
Se puoi guardare, osserva.
Libro dei Consigli

1.

Il disco giallo si illuminò. Due delle automobili in testa accelerarono prima che apparisse il rosso. Nel segnale pedonale comparve la sagoma dell’omino verde. La gente in attesa cominciò ad attraversare la strada camminando sulle strisce bianche dipinte sul nero dell’asfalto, non c’è niente che assomigli meno a una zebra, eppure le chiamano così. Gli automobilisti, impazienti, con il piede sul pedale della frizione, tenevano le macchine in tensione, avanzando, indietreggiando, come cavalli nervosi che sentissero arrivare nell’aria la frustata. Ormai i pedoni sono passati, ma il segnale di via libera per le macchine tarderà ancora alcuni secondi, c’è chi dice che questo indugio, in apparenza tanto insignificante, se moltiplicato per le migliaia di semafori esistenti nella città e per i successivi cambiamenti dei tre colori di ciascuno, è una delle più significative cause degli ingorghi, o imbottigliamenti, se vogliamo usare il termine corrente, della circolazione automobilistica.
Finalmente si accese il verde, le macchine partirono bruscamente, ma si notò subito che non erano partite tutte quante. La prima della fila di mezzo è ferma, dev’esserci un problema meccanico, l’acceleratore rotto, la leva del cambio che si è bloccata, o un’avaria nell’impianto idraulico, blocco dei freni, interruzione del circuito elettrico, a meno che non le sia semplicemente finita la benzina, non sarebbe la prima volta. Il nuovo raggruppamento di pedoni che si sta formando sui marciapiedi vede il conducente dell’automobile immobilizzata sbracciarsi dietro il parabrezza, mentre le macchine appresso a lui suonano il clacson freneticamente. Alcuni con ducenti sono già balzati fuori, disposti a spingere l’automobile in panne fin là dove non blocchi il traffico, picchiano furiosamente sui finestrini chiusi, l’uomo che sta dentro volta la testa verso di loro, da un lato, dall’altro, si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così, come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire uno sportello, Sono cieco. Non lo si direbbe.
Considerati com’è possibile in questo momento, appena di sfuggita, gli occhi dell’uomo sembrano sani, l’iride si presenta nitida, luminosa, la sclera bianca, compatta come porcellana. Ma le palpebre spalancate, la pelle raggrinzita del viso, le sopracciglia improvvisamente ribelli, il tutto, chiunque può verificarlo, è sconvolto dall’angoscia. Da un momento all’altro, quel che era visibile è scomparso dietro i suoi pugni chiusi, come se l’uomo volesse trattenere all’interno del cervello l’ultima immagine colta, una luce rossa, rotonda, a un semaforo. Sono cieco, sono cieco, ripeteva disperato mentre lo aiutavano a uscire dalla macchina, e le lacrime, sgorgando, resero più brillanti quegli occhi che lui diceva morti. Passerà, vedrà che passerà, a volte sono i nervi, disse una donna. Il semaforo aveva già cambiato colore, alcuni passanti curiosi si avvicinavano al gruppo, e i conducenti che, dietro, non sapevano cosa stesse succedendo, protestavano contro quello che ritenevano un normale incidente di traffico, un faro rotto, un parafango ammaccato, niente che giustificasse quella confusione, Chiamate la polizia, gridavano, togliete da lì quel bidone. Il cieco implorava, Per favore, qualcuno mi porti a casa. La donna che aveva parlato di nervi fu dell’opinione che si dovesse chiamare un’ambulanza, trasportare quel poveretto all’ospedale, ma il cieco disse che no, non così tanto, chiedeva solo di essere accompagnato a piedi fino alla porta del palazzo dove abitava, è qui vicino, mi fareste un grande favore. E la macchina, domandò una voce. Un’altra voce rispose, La chiave è inserita, mettiamola sul marciapiede. Non c’è bisogno, intervenne una terza voce, mi occupo io della macchina e accompagno questo signore a casa. Si udirono mormorii di approvazione. Il cieco si sentì prendere per il braccio, Venga, venga con me, gli diceva la stessa voce. Lo aiutarono a sedersi sul sedile accanto al conducente, gli misero la cintura di sicurezza, Non vedo, non vedo, mormorava fra il pianto, Mi dica dove abita, chiese l’altro. Dai finestrini della macchina spiavano facce voraci, avide di novità. Il cieco si portò le mani agli occhi, le agitò, Niente, è come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte, Ma la cecità non è così, disse l’altro, la cecità dicono sia nera, Invece io vedo tutto bianco, Magari aveva ragione quella donna, potrebbero essere i nervi, i nervi sono diabolici, Lo so io che cos’è, è una disgrazia, sì, una disgrazia, Mi dica dove abita, per favore, in quell’istante si sentì l’avviamento del motore. Balbettando, come se la mancanza della vista gli avesse indebolito la memoria, il cieco diede un indirizzo, poi disse, Non so come ringraziarla, e l’altro rispose, Via, non ha importanza, oggi a lei, domani a me, chissà cosa ci aspetta, Ha ragione, chi me l’avrebbe detto, quando sono uscito da casa stamattina, che stava per capitarmi una iattura del genere. Si stupì che fossero ancora fermi, Perché non ci muoviamo, domandò, è rosso, rispose l’altro, Ah, fece il cieco, e ricominciò a piangere. Da quel momento in poi non avrebbe potuto più sapere quando il semaforo era rosso.
Proprio come aveva detto il cieco, la casa era lì vicino. Ma i marciapiedi erano tutti occupati da automobili, non trovarono dove mettere la macchina, perciò furono costretti ad andare a cercar posto in una delle traverse. Lì, per via del marciapiede troppo stretto lo sportello del sedile accanto al conducente sarebbe stato a poco più di un palmo dal muro, e quindi il cieco, per non dover sottostare all’angoscia di trascinarsi da un sedile all’altro, con la leva del cambio e il volante a ostacolarlo, dovette uscire prima. Abbandonato lì in mezzo alla strada, sentendo il terreno sfuggirgli sotto i piedi, tentò di contenere il dolore che gli saliva in gola. Agitava le mani davanti alla faccia, nervosamente, come se nuotasse in quel che aveva definito un mare di latte, e la bocca gli si stava già aprendo per lanciare un grido di aiuto quando, all’ultimo momento, la mano dell’altro gli sfiorò leggermente il braccio, Si calmi, la conduco io. Cominciarono a camminare molto lentamente, per paura di cadere il cieco trascinava i piedi, ma così inciampava sulle irregolarità del marciapiede, Abbia pazienza, stiamo quasi per arrivare, mormorava l’altro, e un po’ più avanti domandò, C’è qualcuno a casa che possa prender si cura di lei, e il cieco rispose, Non so, mia moglie non sarà ancora tornata dal lavoro, oggi mi è capitato di uscire prima, e guarda cosa mi succede, Vedrà, non sarà niente, non ho mai sentito di qualcuno che si sia ritrovato cieco così all’improvviso, E io che mi vantavo addirittura di non usare gli occhiali, non ne ho mai avuto bisogno, E allora, lo vede. Erano arrivati davanti alla porta del palazzo, due donne del vicinato guardarono curiose la scena, quel vicino condotto per il braccio, ma nessuna delle due ebbe idea di domandare, Le è entrato qualcosa negli occhi, non gli venne in mente, e tantomeno lui avrebbe potuto rispondere, Sì, mi è entrato un mare di latte. Una volta dentro il palazzo, il cieco disse, Grazie mille, scu si per il disturbo che le ho causato, adesso me la cavo da solo. Per carità, salgo con lei, non starei tranquil lo se la lasciassi qui. Entrarono con difficoltà nell’ascensore stretto, A che piano abita, Al terzo, non immagina quanto le sia grato. Non mi ringrazi, oggi a lei, Sì, ha ragione, domani a lei. L’ascensore si fermò, uscirono sul pianerottolo, Vuole che l’aiuti ad aprire la porta, Grazie, questo credo di poterlo fare. Tirò fuori dalla tasca un piccolo mazzo di chiavi, le tastò, una per una, lungo il dentellato, disse, Dev’essere questa, e, toccando la serratura con la punta delle dita, tentò di aprire la porta, Non è questa, Mi faccia vedere, l’aiuto io. La porta si aprì al terzo tentativo. Allora il cieco domandò, rivolto verso l’interno, Ci sei. Non rispose nessuno, e lui, Lo dicevo io, non è ancora arrivata. Con le mani alzate davanti a sé, brancolando, percorse il corridoio, poi si vol tò con cautela, orientando la faccia nella direzione in cui calcolava si trovasse l’altro, Come potrò mai ringraziarla, disse, Non ho fatto altro che il mio dovere, si giustificò il buon samaritano, non mi ringrazi, e aggiunse, Vuole che l’aiuti a sistemarsi, che le faccia compagnia finché non arriva sua moglie. All’improvviso tutto quello zelo insospettì il cieco, ovviamente non avrebbe fatto entrare in casa uno sconosciuto che, in fin dei conti, poteva star benissimo escogitando, in quel preciso momento, come sottomettere, legare e tramortire lo sventurato cieco indifeso, per poi impossessarsi di quanto avesse trovato di valore. Non è necessario, non si disturbi, disse, sono a posto, e mentre chiudeva la porta lentamente ripeté, Non è necessario, non è necessario.
Tirò un sospiro di sollievo sentendo il rumore dell’ascensore che scendeva. Con un gesto meccanico, senza ricordarsi dello stato in cui si trovava, scostò il coperchietto dello spioncino e sbirciò fuori. Era come se ci fosse un muro bianco dall’altro lato. Sentiva il contatto della ghiera metallica sull’arcata sopracciliare, sfiorava con le ciglia la minuscola lente, ma non riusciva a vederle, l’in sondabile biancore copriva tutto. Sapeva di essere a casa sua, la riconosceva dall’odore, dall’atmosfera, dal silenzio, distingueva i mobili e gli oggetti al solo toccarli, passandovi sopra le dita, leggermente, ma era già come se tutto si stesse stemperando in una specie di strana dimensione, senza direzioni né riferimenti, senza nord né sud, senza basso né alto. Come probabilmente hanno fatto tutti, a volte aveva giocato con se stesso, nell’adolescenza, al gioco del E se fossi cieco, ed era arrivato alla conclusione, dopo cinque minuti a occhi chiusi, che la cecità, senza alcun dubbio una terribile disgrazia, avrebbe comunque potuto essere relativamente sopportabile se la vittima di una simile sventura avesse mantenuto un ricordo sufficiente, non solo dei colori, ma anche delle forme e dei piani, delle superfici e dei contorni, supponendo, è chiaro, che la suddetta cecità non fosse di nascita. Era arrivato persino al punto di pensare che il buio in cui i ciechi vivevano fosse in definitiva soltanto la semplice assenza di luce, che ciò che chiamiamo cecità fosse qualcosa che si limitava a coprire l’apparenza degli esseri e delle cose, lasciandoli intatti al di là di quel velo nero. Adesso, però, si ritrovava immerso in un biancore talmente luminoso, talmente totale da divorare, più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili.
Nel muoversi in direzione del soggiorno, e malgrado la prudente lentezza con cui avanzava, facendo scivolare la mano esitante lungo la parete, fece cadere per terra un vaso di fiori che non si aspettava. Se n’era dimenticato, o forse lo aveva lasciato lì sua moglie uscendo, con l’intenzione di trovargli poi un posto adatto. Si chi nò per valutare la gravità del disastro. L’acqua si era sparsa sul pavimento incerato. Fece per raccogliere i fiori, ma non pensò ai pezzi di vetro, una scheggia lunga, sottilissima, gli s’infilò in un dito, e lui riprese a lacrimare di dolore, di abbandono, come un bambino, accecato dal biancore in una casa che, nel tardo pomeriggio, cominciava già a scurirsi. Senza mollare i fiori, sentendo il sangue scorrere, si contorse per tirar fuori di tasca il fazzoletto e, alla meglio si avvolse il dito. Poi, brancolando, in ciampando, aggirando i mobili, camminando con cautela per non infilare i piedi sotto i tappeti, raggiunse il divano dove lui e la moglie guardavano la televisione. Si sedette, si mise i fiori sulle ginocchia e, con molta cura, srotolò il fazzoletto. Il sangue, appiccicoso al tatto, lo turbò, forse perché non lo poteva vedere, pensò, il suo sangue si era trasformato in una viscosità incolore, in qualcosa in un certo qual modo estraneo che tuttavia gli apparteneva, ma come una minaccia di sé contro se stesso. Piano piano, palpeggiando lievemente con la mano sana, cercò la sottile scheggia di vetro, aguzza come una minuscola spada, e con le unghie del pollice e dell’indice a mo’ di pinza riuscì a estrarla intera. Riavvolse nel fazzoletto il dito ferito, ben stretto per bloccare il sangue, e vinto, esausto, si abbandonò sul divano. Un minuto dopo, per uno di quei non rari cedimenti del corpo che, per rinunciare, sceglie certi momenti di angoscia o di disperazione, mentre, se si basasse esclusivamente sulla logica, tutti i suoi nervi dovrebbero esser desti e tesi, avvertì una sorta di spossatezza, una sonnolenza più che un vero e proprio sonno, ma altrettanto pesante. Immediatamente sognò di giocare al gioco del E se fossi cieco, sognava di chiudere e aprire gli occhi diverse volte, e ogni volta, come di ritorno da un viaggio, di ritrovare ad attenderlo, salde e inalterate, tutte le forme e i colori, il mondo a lui noto. Al di sotto di questa certezza tranquillizzante avvertiva, tuttavia, il rodere sordo di un dubbio, forse si trattava di un sogno ingannevole, un sogno da cui prima o poi si sarebbe dovuto svegliare, ma senza poi sapere quale realtà ci sarebbe stata ad attenderlo. In seguito, ammesso che l’espressione abbia un significato applicata a quel senso di spossamento che non durò più di alcuni istanti, e già in quello stato di semiveglia che prelude al risveglio, considerò seriamente che non era bene mantenersi in una tale indecisione, mi sveglio, non mi sveglio, mi sveglio, non mi sveglio, arriva sempre un momento in cui non c’è altro da fare che rischiare, Cosa ci faccio qui, con questi fiori sulle ginocchia e gli occhi chiusi, quasi avessi paura di aprirli, Cosa ci fai lì a dormire, con quei fiori sulle ginocchia, gli stava domandando la moglie.
Non aveva atteso la risposta. Ostentatamente si era messa a raccogliere i cocci del vaso e ad asciugare il pavimento, mentre brontolava, con una irritazione che non cercava di dissimulare, Avresti potuto farlo tu, invece di sdraiarti lì a dormire, come se non c’entrassi per niente. Lui non parlò, si proteggeva gli occhi stringendo le palpebre, improvvisamente agitato da un pensiero, E se aprissi gli occhi e la vedessi, si domandava, in preda a un’ansiosa speranza. La moglie si avvicinò, notò il fazzoletto macchiato di sangue, la sua irritazione si spense in un istante, Poverino, com’è che ti è successo, domandava compassionevole, mentre svolgeva l’improvvisata fasciatura. Allora lui, con tutte le sue forze, desiderò di vedere la moglie inginocchiata ai suoi piedi, lì, dove sapeva che era, e poi, con la certezza di non vederla, aprì gli occhi, Finalmente ti sei svegliato, dormiglione, disse lei sorridendo. Si fece silenzio, e lui disse, Sono cieco, non ti vedo. La moglie lo rimproverò, Piantala con gli scherzi stupidi, su certe cose non ci si scherza, Magari fosse uno scherzo, la verità è che sono cieco sul serio, non vedo niente, Per favore, non mi spaventare, guardami, qui, sono qui, la luce è accesa, Lo so che ci sei, ti sento, ti tocco, immagino che tu abbia acceso la luce, ma io sono cieco. Lei cominciò a piangere, gli si aggrappò, Non è vero, dimmi che non è vero. I fiori erano scivolati per terra, sul fazzoletto macchiato, il sangue aveva ripreso a gocciolare dal dito ferito, e lui, come se in altre parole volesse dire Tra due mali il minore, mormorò, Vedo tutto bianco, e si lasciò andare a un triste sorriso. La moglie gli si sedette accanto, lo abbracciò forte, lo baciò sulla fronte, sulle guance, dolcemente sugli occhi, Vedrai che passerà, non eri mica malato, nessuno si ritrova cieco così, da un momento all’altro, Forse, Raccontami com’è andata, cosa hai sentito, quando, dove, no, non ancora, aspetta, la prima cosa da fare è parlare con uno specialista, ne conosci qualcuno, No, né tu né io usiamo gli occhiali, E se ti portassi all’ospedale, Per occhi che non vedono non devono esserci servizi di pronto soccorso, Hai ragione, la cosa migliore è andare direttamente da un medico, vado a cercare sull’elenco telefonico, uno che abbia uno studio qui vicino. Si alzò, domandò ancora, Noti qualche differenza, Nessuna, disse lui, Attenzione, adesso spengo la luce, dimmi, adesso, Niente, Nien te cosa, Niente, vedo sempre lo stesso bianco, per me è come se la notte non ci fosse.
Sentiva la moglie sfogliare rapidamente l’elenco telefonico, tirare su col naso per trattenere le lacrime, sospirando, dicendo infine, Questo qui, speriamo ci possa ricevere. Fece un numero, domandò se era quello dello studio, se il dottore c’era, se poteva parlargli, no, no, il dottore non mi conosce, è per un caso molto urgente, sì, per favore, capisco, allora lo dico a lei, ma la prego di trasmetterlo al dottore, il fatto è che mio marito è diventato cieco all’improvviso, sì, sì, come le dico, all’improvviso, no, non è un paziente del dottore, mio ma rito non usa gli occhiali, non li ha mai usati, sì, aveva un’ottima vista, come me, anch’io vedo bene, ah, grazie mille, aspetto, aspetto, sì, dottore, sì, all’improvviso, dice di vedere tutto bianco, non so come sia successo, non ho avuto neanche il tempo di domandarglielo, sono arrivata poco fa e l’ho trovato in questo stato, vuole che glielo domandi, ah, la ringrazio moltissimo, dottore, veniamo immediatamente, immediatamente. Il cieco si alzò, Aspetta, disse la moglie, fammi medicare prima questo dito, scomparve per alcuni momenti, ritornò con una boccetta di acqua ossigenata, un’altra di mercurocromo, cotone, una scatoletta di cerotti. Mentre lo medicava gli domandò, Dove hai lasciato la macchina, e d’un tratto, Ma tu, così come stai, non potevi guidare, o eri già a casa quando, No, è stato per strada, mentre ero fermo a un semaforo, una persona mi ha fatto il favore di accompagnarmi, la macchina è lì, nella strada accanto, Bene, allora scendiamo, aspettami davanti alla porta che vado a prenderla io, dove hai messo le chiavi, Non lo so, lui non me le ha restituite, Lui, chi, L’uomo che mi ha portato a casa, era un uomo, Te le avrà lasciate lì, vado a vedere, Non vale la pena che le cerchi, non è entrato, Ma le chiavi devono pur essere da qualche parte, Sicuramente se n’è dimenticato, se l’è portate via senza rendersene conto, Ci mancava anche questo, Usa le tue, poi vedremo, Bene, andiamo, dammi la mano. Il cieco disse, Se mi tocca restare così, la faccio finita, Per favore, non dire fesserie, ci basta già quanto ci è successo, A essere cieco sono io, non tu, tu non puoi sapere che cosa mi è successo, Il medico ti rimetterà a posto, vedrai.
Uscirono. Giù da basso, nell’atrio del portone, la moglie accese la luce e gli sussurrò all’orecchio, Aspettami qui, se spunta qualche vicino parlagli con naturalezza, di’ che mi stai aspettando, guardandoti nessuno penserà che non vedi, evitiamo di star lì a parlare dei fatti nostri, Sì, ma non tardare. La moglie uscì di corsa. Non entrò né uscì nessun vicino. Per esperienza, il cieco sapeva che le sca le erano illuminate solo finché si sentiva il meccanismo del contatore automatico, perciò continuava a premere il pulsante ogni qualvolta si faceva silenzio. La luce, questa luce, per lui si era trasformata in rumore. Non capiva perché la moglie tardasse tanto, la strada era lì accanto, ottanta, cento metri, Se ritardiamo il medico se ne va via, pensò. Non poté evitare un gesto meccanico, alzare il polso sinistro e abbassare gli occhi per vedere l’ora. Strinse le labbra come se fosse stato colpito da un improvviso dolore, e ringraziò la sorte che in quel momento non fosse spuntato un vicino, perché all’istante, alla prima parola che gli avessero rivolto, sarebbe scoppiato in lacrime. Una macchina si fermò in strada, Finalmente, pensò, ma subito dopo fu colpito dal rumore del motore, Questo è un diesel, è un tassì, disse, e spinse di nuovo l’interruttore della luce. Stava entrando la moglie, nervosa, frastornata, Il tuo santo protettore, l’anima buona, ci ha portato via la macchina, Non può essere, non avrai visto bene, Chiaro che ho visto bene, io ci vedo bene, le ultime parole le uscirono involontariamente, Mi avevi detto che la macchina era nella strada accanto, si corresse, e non c’è, oppure l’hanno lasciata in un’altra, No, no, era quella, ne sono certo, E allora è sparita, In tal caso, le chiavi, Ha approfittato del tuo disorientamento, del frangente in cui ti trovavi, e ci ha derubati, E io che, per paura, non l’ho neanche fatto entrare in casa, se fosse rimasto a farmi compagnia fino al tuo arrivo non avrebbe potuto rubarci la macchina, Andiamo, c’è il tassì che aspetta, ti giuro che darei persino un anno di vita perché quel furfante diventasse cieco pure lui, Non parlare così forte, E gli rubassero tutto quanto possiede, Può darsi che si faccia vedere, Eccome, domani ci bussa alla porta dicendo che è stata una distrazione, chiedendo scusa, e informandosi se stai un po’ meglio.
Rimasero in silenzio fino all’ambulatorio del medico. Lei cercava di scacciare dal pensiero il furto della macchina, stringeva affettuosamente le mani del marito, mentre lui, a capo chino perché l’autista non potesse vedergli gli occhi dal retrovisore, non cessava di domandarsi com’era possibile che una disgrazia così grande gli stesse capitando, proprio a lui, A me, perché. Gli giungevano alle orecchie i rumori del traffico, qualche voce più alta quando il tassì si fermava, a volte succede, stiamo ancora dormendo e i suoni esterni attraversano già il velo dell’incoscienza in cui siamo ancora avvolti, come in un lenzuolo bianco. Come in un lenzuolo bianco. Scosse il capo sospirando, la moglie gli sfiorò lievemente il viso, come a dire Tranquillo, sono qui, e lui abbandonò il capo sulla spalla di lei, senza badare a cosa avrebbe pensato l’autista, Se fossi tu nelle mie condizioni, non potresti star lì a guidare, pensò puerilmente, e, senza notare l’assurdità dell’enunciato, si congratulò per essere stato ancora capace, nella disperazione, di formulare un ragionamento logico. Scendendo dal tassì, aiutato discretamente dalla moglie, sembrava calmo, ma, davanti alla porta dell’ambulatorio dove avrebbe conosciuto la propria sorte, le domandò con un mormorio tremante, Come starò quando ne uscirò, e scosse il capo come chi non ha più speranza. La moglie informò la segretaria di essere quella persona che aveva telefonato mezz’ora prima per il marito, e lei li fece passare in una saletta dove aspettavano altri malati. C’era un vecchio con una benda nera su un occhio, un ragazzino che sembrava strabico accompagnato da una donna che doveva essere sua madre, una giovane dagli occhiali scuri, altre due persone senza alcun segno visibile, ma nessun cieco, i ciechi non vanno dall’oculista. La moglie guidò il marito verso una sedia libera e, visto che non ce n’erano altre, rimase in piedi accanto a lui, Dovremo aspettare, gli mormorò all’orecchio. Lui capì il perché, aveva sentito le voci dei presenti, adesso era afflitto da una diversa preoccupazione, pensava che quanto più tardi il medico lo avesse esaminato, tanto più profonda la cecità sarebbe diventata, e quindi incurabile, senza rimedio. Si agitò sulla sedia, inquieto, stava per comunicare quelle sue apprensioni alla moglie, ma in quel momento la porta si aprì e la segretaria disse loro, Signori, prego, accomodatevi, e rivolgendosi agli altri malati, L’ha ordinato il dottore, il caso di questo signore è urgente. La madre del ragazzo strabico protestò che il diritto è il diritto, e che c’era prima lei, e aspettava da più di un’ora. Gli altri malati la sostennero a voce bassa, ma nessuno, e neanche lei, ritenne prudente insistere nel reclamo, non sia mai che il medico se ne risentisse e si vendicasse dell’impertinenza facendoli aspettare ancora di più, non si sa mai. Il vecchio dall’occhio bendato fu magnanimo, Lasciatelo stare, poveraccio, quello lì sta peggio di noi. Il cieco non lo udì, stavano già entrando nello studio del medico, e la moglie diceva, Mille grazie per la sua bontà, dottore, il fatto è che mio marito, e poi si interruppe, in realtà lei non sapeva cosa realmente fosse successo, sapeva solo che il marito era cieco e gli avevano rubato la macchina. Il medico disse, Sedetevi, prego, andò personalmente ad aiutare il paziente ad accomodarsi e poi, sfiorandogli la mano, gli si rivolse direttamente, Allora, mi racconti cosa le è successo. Il cieco spiegò che, mentre era in macchina, in attesa che il rosso cambiasse, improvvisamente si era ritrovato incapace di vedere, che erano accorse delle persone ad aiutarlo, che una signora anziana, dalla voce doveva esserlo, aveva detto che magari erano i nervi, e che poi un uomo lo aveva accompagnato a casa perché lui, da solo, non poteva farcela, Vedo tutto bianco, dottore. Non parlò del furto dell’automobile.
Il medico gli domandò, Non le era mai accaduto prima, voglio dire, la stessa cosa di adesso, o qualcosa di simile, Mai, dottore, io non porto neanche gli occhiali, E mi dice che è avvenuto all’improvviso, Sì, dottore, Come una luce che si spegne, Più come una luce che si accende, In questi ultimi giorni ha sentito qualche differenza nella vista, No, dottore, C’è, o c’è stato, qualche caso di cecità nella sua famiglia, Fra i parenti che ho conosciuto o di cui ho sentito parlare, nessuno, è malato di diabete, No, dottore, Di sifilide, No, dottore, Di ipertensione arteriosa o intracranica, Di quella intracranica non lo so, del resto sono sicuro di no, in ditta ci fanno gli esami, Ha preso qualche colpo violento in testa, oggi o ieri, No, dottore, Quanti anni ha, Trentotto, Bene, al lora andiamo a esaminare questi occhi. Il cieco li spalancò, come per facilitare l’esame, ma il medico lo prese per un braccio e lo fece sedere dietro un apparecchio che con un po’ di immaginazione si sarebbe potuto vedere come un nuovo modello di confessionale, dove gli occhi avessero preso il posto delle parole, con il confessore che scruta discretamente nell’anima del peccatore, Appoggi il mento qui, raccomandò, tenga gli occhi aperti, non si muova. La moglie si avvicinò al marito, gli posò la mano sulla spalla, disse, Vedrai, tutto si risolverà. Il medico alzò e abbassò il si stema binoculare dal suo lato, fece girare delle viti sottilissime, e cominciò l’esame. Non trovò niente nella cornea, niente nella sclera, niente nell’iride, niente nella retina, niente nel cristallino, niente nella macula lutea, niente nel nervo ottico, niente da nessuna parte. Si scostò dall’apparecchio, si strofinò gli occhi, poi ricominciò l’esame da capo, senza parlare, e quando di nuovo lo terminò aveva sul viso un’espressione perplessa, Non le riscontro alcuna le sione, i suoi occhi sono perfetti. La moglie congiunse le mani in un gesto di gioia ed esclamò, Te l’avevo detto io, te l’avevo detto io, tutto si risolverà. Senza prestarle attenzione, il cieco domandò, Ora posso tirar fuori il mento, dottore, Sì, sì, scusi, Se i miei occhi sono perfetti, come dice, allora perché sono cieco, Per il momento non glielo so dire, dovremo fare degli esami più approfonditi, analisi del sangue, ecografia, encefalogramma, Pensa ci sia qualcosa a che vedere con il cervello, è una possibilità, ma non credo, Eppure, dottore, dice di non riscontrare niente nei miei occhi, Infatti, Non capisco, Quello che voglio dire è che se lei è di fatto cieco, la sua cecità, in questo momento, è inspiegabile, Dubita che io sia cieco, Che idea, il problema sta nella rarità del caso, personalmente, in tutta la mia vita professionale, non mi si è mai presentato niente di simile, e oserei dire in tutta la storia dell’oculistica, Pensa che potrei guarire, Teoricamente, giacché non le riscontro lesioni di alcun tipo né malformazioni congenite, la mia risposta dovrebbe essere affermativa, Ma a quanto pare non lo è, Solo per prudenza, solo perché non voglio darle speranze che potrebbero dimostrarsi prive di fondamento, Capisco, Infatti, E dovrò seguire qualche terapia, prendere qualche medicina, Per il momento non le prescriverò niente, sarebbe come prescrivere alla cieca, Ecco un’espressione appropriata, osservò il cieco. Il medico fece finta di non aver sentito, si alzò dal lo sgabello girevole su cui si era seduto per l’osservazione e lì stesso, in piedi, scrisse su un foglio del ricettario gli esami e le analisi che considerava necessari. Consegnò il foglio alla moglie, Ecco, signora, torni con suo marito quando avrà i risultati, se nel frattempo ci sarà qualche cambiamento nello stato di suo marito, mi telefoni, Per la visita, dottore, Paghi alla segretaria. Li accompagnò alla porta, farfugliò una fra se di incoraggiamento, sul tipo Vedremo, vedremo, non bisogna disperare, e quando si ritrovò di nuovo da solo entrò nel piccolo bagnetto annesso e rimase lì a guardarsi allo specchio per un lungo minuto, Che cosa sarà, mormorò. Poi rientrò nello studio, chiamò la segretaria, Faccia entrare il prossimo.
Quella notte il cieco sognò di essere cieco.

2.

Nell’offrirsi di aiutare il cieco, l’uomo che avrebbe poi rubato la macchina non aveva, in quel momento preciso, alcuna intenzione malevola, anzi, al contrario, non fece altro che obbedire a quei sentimenti di generosità e altruismo che, come tutti sanno, sono due delle migliori caratteristiche del genere umano e che si possono riscontrare persino in criminali ben più incalliti di questo, un semplice ladruncolo di automobili senza speranza di carriera, sfruttato dai veri e propri padroni dell’affare, i quali invece si approfittano dei bisogni della povera gente. In fin dei conti, questi o gli altri, non è poi così grande la differenza tra l’aiutare un cieco per poi derubarlo e preoccuparsi per una vecchiaia caduca e balbettante pensando solo all’eredità. Fu soltanto quando era ormai vicino alla casa del cieco che l’idea gli si presentò con la massima naturalezza, proprio come, si può dire, se avesse deciso di comprare un biglietto della lotteria solo per aver visto il venditore, senza provare alcuna emozione, comprandolo per vedere cosa ne venisse fuori, rassegnato in anticipo a quanto la volubile fortuna gli avrebbe portato, qualcosa o niente, c’è chi direbbe che agì secondo un riflesso condizionato della propria personalità. Gli scettici sulla natura umana, che sono molti e ostinati, sostengono che se è vero che l’occasione non sempre fa l’uomo ladro, è anche vero che lo aiuta molto. Quanto a noi, ci permetteremo di pensare che se il cieco avesse accettato la seconda offerta del buon samaritano, in definitiva falso, in quell’istante estremo in cui la bontà avrebbe potuto ancora prevalere, e cioè l’offerta di restare a fargli compagnia fino all’arrivo del la moglie, chissà se l’effetto della responsabilità morale derivante dalla fiducia così accordata non avrebbe inibito la tentazione criminale e fatto venire a galla quanto di luminoso e no bile sarà sempre possibile ritrovare persino nelle anime più perdute. Per concludere banalmente, come non si stanca di insegnarci l’antico proverbio, il cieco, credendo di farsi il segno della croce, si ruppe il naso. La coscienza morale, che tanti dissennati hanno offeso e molti di più rinnegato, esiste ed è esistita sempre, non è una invenzione dei filosofi del Quaternario, quando l’anima non era ancora che un progetto confuso. Con l’andar del tempo, più le attività di convivenza e gli scambi genetici, abbiamo finito col ficcare la coscienza nel colore del sangue e nel sale delle lacrime, e, come se non bastasse, degli occhi abbiamo fatto una sorta di specchi rivolti all’interno, con il risultato che, spesso, ci mostrano senza riserva ciò che stavamo cercando di negare con la bocca. A questo, in generale, si aggiunga la circostanza particolare che, negli ani mi semplici, il rimorso provocato da una cattiva azione si confondefrequen temente con paure ancestrali di ogni tipo, dal che risulta come il castigo del prevaricatore finisca per essere, né più né meno, due volte meritato. Non sarà quindi possibile, in questo caso, svelare quale parte di paure e quale parte di coscienza tormentata cominciarono ad affliggere il ladro appena questi mise in moto la macchina. Indubbiamente non poteva certo essere tranquillizzante il fatto di star lì seduto nel posto di qualcuno che teneva le mani proprio su quel volante nel momento in cui era diventato cieco, qualcuno che aveva guardato attraverso questo parabrezza e all’improvviso si era ritrovato incapace di vedere, non è necessario esser dotati di molta immaginazione perché simili pensieri facciano risvegliare l’immonda e strisciante bestia del terrore, eccola lì, sta già alzando la testa. Ma era anche il rimorso, espressione esasperata di una coscienza, come si è detto prima, o, se vogliamo descriverlo in termini suggestivi, una coscienza con denti per mordere, che gli stava prospettando l’immagine derelitta del cieco mentre chiudeva la porta, Non è necessario, non è necessario, aveva detto il pover’uomo, e da quel momento in poi non sarebbe stato capace di fare un passo senza un aiuto. Il ladro si concentrò sul traffico per impedire che pensieri tanto spaventosi s’impossessassero totalmente del suo animo, sapeva bene di non potersi permettere il minimo errore, la minima distrazione. C’era in giro la polizia, bastava che uno di loro lo fermasse, Prego, patente e libretto, di nuovo la galera, la vita dura. Ce la metteva tutta per rispettare i semafori, in nessun caso passare con il rosso, rispettare il giallo, attendere pazientemente il verde. A un certo punto si accorse di aver cominciato a guardare le luci in un modo che stava diventando ossessivo. Regolò allora la velocità della macchina in maniera da aver sempre davanti un semaforo verde, anche se per riuscirci dovette aumentare la velocità o, al contrario, ridurla al punto di irritare i conducenti che procedevano dietro. Infine, disorientato, teso che più non poteva, finì per infilare la macchina in una traversa secondaria dove sapeva che semafori non ce n’erano, e la posteggiò quasi senza guardare, in questo ci sapeva proprio fare. Si sentiva sull’orlo di una crisi di nervi, lo aveva pensato con queste precise parole, Mi sa che mi sta venendo una crisi di nervi. Dentro l’automobile gli mancava il respiro. Abbassò i vetri dai due lati, ma l’aria esterna, se si muoveva, non rinfrescò l’atmosfera interna. Cosa faccio, domandò. Il capannone dove avrebbe dovuto portare la macchina era lontano, in una località fuori città, nello stato d’animo in cui si ritrovava non sarebbe mai riuscito ad arrivarci, Mi becca un poliziotto, o mi procuro un incidente, ed è ancora peggio, mormorò. Pensò allora che sarebbe stato meglio uscire per un po’ dall’automobile, rinfrescarsi le idee, Forse mi toglierò le ragnatele dalla testa, via, se quel tizio è diventato cieco non vuol dire che a me succeda lo stesso, non è mica un’influenza che si attacca, ora faccio un giro del palazzo e mi passa. Uscì, non valeva neanche la pena di chiudere la macchina, in un attimo sarebbe stato di ritorno, e si allontanò. Ancora non aveva fatto trenta passi che si ritrovò cieco.
Nell’ambulatorio, l’ultimo paziente a essere ricevuto fu il vecchio dal buon carattere, quello che aveva pronunciato parole tanto gentili su quel povero diavolo che era diventato cieco all’improvviso. Era lì solo per concordare la data dell’operazione a una cataratta che gli era scesa nell’unico occhio rimastogli, la benda nera tappava un’assenza, non aveva niente a che vedere con il caso attuale, Sono magagne che vengono con l’età, gli aveva detto il medico tempo addietro, quando sarà matura la togliamo, e dopo non riconoscerà neanche il mondo in cui viveva. Quando il vecchio dalla benda nera se ne andò e l’infermiera disse che non c’erano altri pazienti in sala d’attesa, il medico prese la scheda dell’uomo che si era ritrovato cieco, la lesse una volta, due volte, rifletté per alcuni minuti e infine chiamò al telefono un collega con il quale ebbe la seguente conversazione, Vuoi saperne una, oggi mi è capitato un caso stranissimo, un uomo che ha perso completamente la vista da un istante all’altro, l’esame non ha mostrato alcuna lesione apprezzabile né indizi di malformazioni congenite, dice di vedere tutto bianco, una specie di biancore latteo, spesso, che gli si attacca agli occhi, sto tentando di esprimere nel miglior modo possibile la descrizione che ha fatto, sì, chiaro, è soggettivo, no, è giovane, trentotto anni, hai notizia di qualche caso simile, hai letto qualcosa, ne hai sentito parlare, me l’immaginavo, per adesso non vedo soluzione, per prendere tempo gli ho fatto fare alcune analisi, sì, potremmo visitarlo insieme uno di questi giorni, dopo cena darò uno sguardo ai libri, rivedrò la letteratura in merito, chi sa che non trovi una pista, sì, lo so, l’agnosia, la cecità psichica, potrebbe essere, ma allora si tratterebbe del primo caso con queste caratteristiche, perché non c’è dubbio che l’uomo è cieco, l’agnosia, lo sappiamo, è l’incapacità di riconoscere quel che si vede, infatti, ho pensato anche a questo, alla possibilità che si tratti di un caso di amaurosi, ma ricordati cosa ti ho detto all’inizio, questa cecità è bianca, esattamente al contrario dell’amaurosi, che è tenebra totale, a meno che non esista un’amaurosi bianca, una tenebra bianca per così dire, sì, lo so, non s’è mai vista, d’accordo, domani gli telefono, gli dico che vogliamo vederlo tutti e due. Terminata la conversazione, si riappoggiò sulla sedia, se ne rimase lì alcuni minuti, poi si alzò, si tol se il camice con movimenti stanchi, lenti. Andò nella stanza da bagno a lavarsi le mani, ma questa volta non domandò allo specchio, metafisicamente, Che cosa sarà, aveva recuperato lo spirito scientifico, il fatto che l’agnosia e l’amaurosi si riscontrassero identificate e definite con precisione nei libri e nella pratica non si gnificava che non potessero sorgere delle varianti, delle mutazioni, ammesso che il termine sia adeguato, e quel giorno sembrava arrivato. Ci sono mille ragioni perché il cervello si chiuda, solo questo, nient’altro, come una visita ritardataria che trovasse sprangata la sua stessa porta. L’oculista aveva gusti letterari e sapeva citare a proposito.
La sera, dopo cena, disse alla moglie, Mi si è presentato in ambulatorio uno strano caso, potrebbe trattarsi di una variante della cecità psichica o dell’amaurosi, ma non risulta si sia mai verificata una cosa del genere, Che malattie sono, l’amaurosi, e l’altra, domandò la moglie. Il medico fornì una spiegazione accessibile a un intendimento normale, che appagò la curiosità di lei, poi andò a prendere dalla scaffalatura i libri specialistici, alcuni vecchi, dei tempi dell’università, altri recenti, qualcuno di recentissima pubblicazione, che non aveva ancora avuto il tempo di studiare. Cercò negli indici, uno dopo l’altro, metodicamente, si mise a leggere tutto quello che trovava sull’agnosia e l’amaurosi, con la scomoda impressione di sapersi un intruso in un campo che non era il suo, il misterioso territorio della neurochirurgia, sul quale non possedeva più che alcuni scarsi lumi. Nel cuore della notte, allontanò i libri che stava consultando, si stropicciò gli occhi stanchi e si abbandonò sulla sedia. In quel momento l’alternativa gli si presentava con la massima chiarezza. Se fosse un caso di agnosia, adesso il paziente vedrebbe quello che aveva sempre visto, cioè non gli si sarebbe verificata alcuna diminuzione dell’acutezza visiva, è che il cervello, semplicemente, sarebbe diventato incapace di riconoscere una sedia là dove ci fosse una sedia, in altre parole avrebbe continuato a reagire correttamente agli stimoli luminosi trasmessi dal nervo ottico, ma, per usare termini comuni, alla portata di gente poco informata, avrebbe perso la capacità di sapere che sapeva, e, tanto più, di esprimerlo. Quanto all’amaurosi, nessun dubbio. Perché effettivamente si trattasse di amaurosi, il paziente avrebbe dovuto vedere tutto nero, fatto salvo, è chiaro, l’uso del verbo, vedere, trattandosi di tenebre assolute. Il cieco aveva affermato categoricamente di vedere, sempre facendo salvo il verbo, un colore bianco uniforme, denso, come se si trovasse immerso a occhi aperti in un mare di latte. Un’amaurosi bianca, oltre a essere etimologicamente una contraddizione, sarebbe anche una condizione impossibile dal punto di vista neurologico, dato che il cervello non solo non avrebbe potuto percepire le immagini, le forme e i colori della realtà, ma non avrebbe neanche potuto, per dir la così, coprire di bianco, di un bianco continuo, come una pittura bianca senza tonalità, i colori, le forme e le immagini che quella stessa realtà avrebbe presentato a una visione normale, per quanto sia sempre problematico parlare, con effettiva proprietà, di una visione normale. Con la chiarissima consapevolezza di ritrovarsi in un vicolo apparentemente privo di uscita, il medico scosse il capo avvilito e si guardò intorno. La moglie si era già coricata, lui ricordava vagamente che gli si era avvicinata un momento e gli aveva dato un bacio sui capelli, Me ne vado a dormire, doveva aver detto, adesso la casa era silenziosa, sul tavolo i libri sparpagliati, Che cosa sarà, pensò, e all’improvviso ebbe paura, come se anche lui fosse sul punto di diventare cieco un attimo dopo e già lo sapesse. Trattenne il respiro e aspettò. Non successe niente. Successe un minuto dopo, mentre radunava i libri per riporli nella scaffalatura. Prima capì di non vedere più le mani, poi seppe di essere cieco.
Il disturbo della ragazza dagli occhiali scuri non era grave, aveva appena una congiuntivite tra le più semplici, che il topico prescritto tanto per prescrivere dal medico avrebbe risolto in pochi giorni, Mi raccomando, durante questo periodo si tolga gli occhiali solo per dormire, le aveva detto. La battuta era in uso da molti anni, c’è addirittura da supporre che venisse tramandata di generazione in generazione di oculisti, ma l’effetto si ripeteva puntualmente, il medico sorrideva nel dirla, sorrideva il pazien te nell’udirla, e in questo caso ne valeva la pena, perché la ragazza aveva una bella dentatura e sapeva come mostrarla. Per naturale misantropia o troppe delusioni nella vita, uno scettico, al corrente dei particolari della vita di questa donna, insinuerebbe che il sorriso aggraziato non era altro che un trucco del mestiere, affermazione malevola e gratuita perché quello, il sorriso, era già così ai tempi non molto lontani in cui la donna era una giovincella, parola in disuso, quando il futuro era una carta coperta e la curiosità di scoprirla doveva ancora nascere. Insomma, per semplificare si potrebbe includere questa donna nella categoria delle cosiddette prostitute, ma la complessità della trama dei rapporti sociali, sia diurni che notturni, sia verticali che orizzontali, del periodo qui descritto, consiglia di moderare qualsiasi tendenza a giudizi perentori, definitivi, pecca da cui, per eccessiva sufficienza nostra, forse non riusciamo mai a liberarci. Ancorché sia evidente la grande quantità di nuvole che c’è in Giunone, non è assolutamente lecito ostinarsi a confondere con una dea greca ciò che non è altro se non una normale massa di gocce d’acqua sospese nell’atmosfera. Indubbiamente questa donna va a letto per denaro, il che consentirebbe probabilmente, senza ulteriori considerazioni, di classificarla come prostituta di fatto, ma, siccome ci va solo quando vuole e con chi vuole, non è da disdegnare la probabilità che proprio questa differenza di diritto debba determinarne cautelativamente l’esclusione dalla cerchia, intesa come un tutto. Lei, come la gente normale, ha un mestiere, e, sempre come la gente normale, approfitta delle ore che le restano per concedere qualche gioia al corpo e sufficienti soddisfazioni alle necessità, quelle specifiche e quelle generali. Senza pretendere di ridurla a una definizione basilare, ciò che infine si dovrà dire di lei, in senso lato, è che vive come meglio le aggrada e che, per giunta, ne trae tutto il piacere che può.
Era ormai buio quando uscì dall’ambulatorio. Non si tolse gli occhiali, l’illuminazione stradale le dava fastidio, specialmente quella delle pubblicità. Entrò in una farmacia per comprare il medicinale prescritto dal medico, decise di fare la finta tonta quando il commesso che la serviva parlò dell’ingiustizia che certi occhi girassero coperti da vetri scuri, osservazione che, oltre a essere impertinente in se stessa, un commesso di farmacia, pensa un po’, contrastava con la sua personale convinzione che gli occhiali scuri le conferissero un’aria di inebriante mistero, capace di suscitare l’interesse degli uomini che passano, ed eventualmente ricambiarlo, senonché, proprio oggi, c’è qualcuno ad attenderla, un incontro dal quale aveva motivo di aspettarsi qualcosa di buono, sia per quanto riguardava la soddisfazione materiale sia le altre soddisfazioni. L’uomo con cui si sarebbe trovata era già suo conoscente, non gliene era importato granché quando lei lo aveva avvisato che non avrebbe potuto togliersi gli occhiali, un ordine che il medico peraltro non aveva ancora dato, anzi, lo aveva trovato divertente, era una novità. All’uscita dalla farmacia, la ragazza chiamò un tassì, diede il nome di un albergo. Appoggiata allo schienale, già assaporava, se il termine è adatto, le distinte e molteplici sensazioni del piacere sensuale, dal primo e sapiente sfiorare delle labbra, dalla prima carezza intima, fino alle successive esplosioni di un orgasmo che l’avrebbe lasciata esausta e felice, come se fos se lì crocifissa, non sia mai, in una girandola offuscante e vertiginosa. Motivi quindi ne abbiamo per concludere che la ragazza dagli occhiali scuri, se il partner ha saputo compiere esaurientemente, in tempo e tecnica, il proprio dovere, paga sempre in anticipo e raddoppiato ciò che incassa dopo. Immersa in questi pensieri, indubbiamente perché aveva appena pagato una visita, si domandò se non fosse giunto il momento di alzare, fin da oggi, quello che, con spiritoso eufemismo, soleva designare come suo giusto livello di compenso.
Fece fermare il tassì un isolato prima, si confuse tra le persone che procedevano nella stessa direzione, come lasciandosene trasportare, anonima e senza alcuna colpa notoria. Entrò nell’albergo con naturalezza, attraversò l’atrio dirigendosi al bar. Era arrivata con alcuni minuti di anticipo, quindi doveva aspettare, l’ora del l’appuntamento era stata combinata con precisione. Chiese una bibita, che sorbì tranquillamente, senza adocchiare nessuno, non voleva esser confusa con una banale cacciatrice di uomini. Poco più tardi, come una turista che sale in camera a riposare dopo aver trascorso il pomeriggio nei musei, si diresse all’ascensore. La virtù, possibile che ancora lo si ignori, trova sempre degli scogli nel durissimo cammino della perfezione, ma il peccato e il vizio sono talmente favoriti della fortuna che appena arrivò lei si aprirono le porte dell’ascensore. Ne uscirono due ospiti, un’anziana coppia, lei entrò, premette il pulsante del terzo piano, trecentododici era il numero che l’aspettava, è qui, bussò discretamente alla porta, dieci minuti dopo era nuda, al quindicesimo gemeva, al diciottesimo sussurrava parole d’amore che non aveva più necessità di fingere, al ventesimo cominciava a per dere la testa, al ventunesimo sentì il corpo dilaniato dal piacere, a ventiduesimo gridò, Ora, ora, e quando ritornò in se disse, esausta e felice, Vedo ancora tutto bianco.

3.

Il ladro dell’automobile fu portato a casa da un poliziotto. Non poteva il circospetto e compassionevole agente di sicurezza immaginare di star lì a condurre per il braccio un incallito delinquente, non per impedirgli di scappare, come in altra occasione sarebbe avvenuto, ma semplicemente per ché il pover’uomo non inciampasse e cadesse. In compenso, ormai ci è alquanto facile immaginare lo spavento che si prese la moglie del ladro quando, aprendo la porta, si ritrovò davan ti un poliziotto in uniforme che le portava acciuffato, così le parve, un misero prigioniero a cui, a giudicare dall’espressione triste, doveva esser capitato qualcosa di peggio dell’essere arrestato. Per un istante, la prima cosa che pensò la donna fu che il suo uomo fosse stato colto in flagrante delitto e che il poliziotto fosse lì per perquisire la casa, un’idea, per altro verso, e per quanto paradossale possa sembrare, alquanto tranquillizzante, considerando che il marito rubava solo automobili, oggetti che, per dimensione, non si possono nascondere sotto il letto. Non durò molto il dubbio, il poliziotto disse, Questo signore è cieco, se ne occupi lei, e la moglie, che avrebbe dovuto sentir si sollevata perché l’agente in definitiva era lì solo come accompagnatore, capì la dimensione della iattura che le entrava in casa quando un marito in lacrime le cadde fra le braccia dicendo quel che già sappiamo.
Anche la ragazza dagli occhiali scuri fu portata a casa dei genitori da un poliziotto, ma il piccante delle circostanze in cui la cecità, nel suo caso, si era manifestata, una donna nu da e urlante in un albergo, che allarmava gli ospiti, mentre l’uomo che stava con lei tentava di svignarsela infilandosi maldestramente i pantaloni, moderava, in un certo senso, l’ovvia drammaticità della situazione. La cieca, prostrata dalla vergogna, un sentimento del tutto compatibile, per quanto brontolino i finti accorti e i falsi virtuosi, con i mercenari esercizi amatori cui si dedicava, dopo le urla lancinanti che aveva cominciato a lanciare nel rendersi conto che la perdita della visione non era una nuova e imprevista conseguenza del piacere, a stento osava piangere e lamentarsi quando, con modi bruschi, vestita alla bell’e meglio, quasi a spintoni, la portarono fuori dall’albergo. Il poliziotto, con tono che sarebbe stato sarcastico se non fosse stato semplicemente villano, volle sapere, dopo averle domandato dove abitava, se avesse soldi per il tassì, In questi casi lo Stato non paga, l’avvertì, procedimento a cui, si noti a margine, non si potrà negare una certa logica, in quanto queste persone appartengono al numero di coloro che non pagano tasse sui propri immorali redditi. Lei fece un cenno affermativo, ma, essendo cieca, s’immagini, pensò che il poliziotto potesse non aver visto il gesto e mormorò, Sì, ne ho, e aggiunse fra sé e sé, Magari non ne avessi, parole che ci dovranno sembrare fuori luogo, ma che, se consideriamo le circonvoluzioni dello spirito umano, dove non esistono cammini brevi e i retti finiscono, queste parole, per essere assolutamente limpide, in sostanza lei voleva dire che era stata castigata per la sua cattiva condotta, per la sua immoralità, ecco tutto. Aveva detto alla madre che non avrebbe cenato a casa, e invece sarebbe rientrata molto per tempo, anche prima del padre.
Diversamente andò per l’oculista, non solo perché si trovava in casa quando lo colpì la cecità, ma perché, essendo medico, alla disperazione non si sarebbe certo consegnato con le mani legate, come fanno quelli che del corpo si accorgono solo quando gli duole. Pure in una situazione come questa, angosciato, con una notte d’ansia davanti, fu ancora capace di rammentare ciò che scrisse Omero nell’Iliade, poema della morte e della sofferenza, più di qualunque altro, Un medico, da solo, vale più di un uomo, parole che non dovremo intendere come espressione direttamente quantitativa, bensì principalmente qualitativa, come non si tarderà ad appurare. Ebbe il coraggio di coricarsi senza svegliare la moglie, neanche quando lei, mormorando mezza addormentata, si mosse nel letto per sentirlo più vicino. Ore e ore sveglio, quel poco che riuscì a dormire fu per esaurimento. Desiderava che la notte non finisse per non dover annunciare, proprio lui, il cui mestiere era curare le ferite degli oc chi altrui, Sono cieco, ma contemporaneamente voleva che giungesse rapidamente la luce del giorno, lo pensò con queste precise parole, La luce del giorno, sapendo che non l’avrebbe vista. In verità, un oculista cieco non poteva servire a molto, ma spettava a lui informare le autorità sanitarie, avvisarle di quello che si sarebbe potuto trasformare in una catastrofe nazionale, né più né meno che un tipo di cecità finora sconosciuto, con tutta l’apparenza di essere altamente contagioso e che, a quanto pare, si ma nifestava senza la previa esistenza di attività patologiche precedenti di carattere infiammatorio, infettivo o degenerativo, come aveva potuto verificare nel cieco che era andato da lui in ambulatorio, o come nel suo stesso caso si sarebbe confermato, una miopia lieve, un lieve astigmatismo, tutto talmente leggero che aveva deciso, per il momento, di non usare lenti correttive. Occhi che avevano cessato di ve dere, occhi che erano totalmente ciechi, eppure erano in perfetto stato, senza alcuna lesione, recente o antica, acquisita o primitiva. Rammentò l’esame minuzioso che aveva fatto al cieco, come le diverse parti dell’occhio accessibili all’oftalmoscopio si presentassero sane, senza alcun segnale di alterazioni morbose, una situazione molto rara all’età di trentotto anni che l’uomo aveva dichiarato di avere, e anche in età più giovane. Quell’uomo non dovrebbe essere cieco, pensò, dimentico per alcuni momenti di esserlo anche lui, a tal punto può giungere l’abnegazione, e non è cosa di adesso, ricordiamoci di quel che disse Omero, ancorché con parole apparentemente diverse.
Finse di dormire ancora quando la moglie si alzò. Sentì il bacio che lei gli diede sulla fronte, molto dolce, come se non volesse svegliarlo da quello che credeva un sonno profondo, forse aveva pensato, Poverino, si è coricato tardi, studiando lo straordinario caso di quel povero cieco. Rima sto solo, come se lentamente venisse garrotato da una densa nuvola che gli premeva sul petto e gli entrava nelle narici rendendolo cieco dall’interno, il medico emise un breve gemito, lasciò che due lacrime, Saranno bianche, pensò, gli inondassero gli occhi e gli scivolassero sulle tempie, da un lato e dall’altro della faccia, adesso comprendeva la paura dei suoi pazienti quando gli dicevano, Dottore, mi pare che sto perdendo la vista. In camera giungevano i piccoli rumori domestici, la moglie sarebbe tornata presto per vedere se stesse ancora dormendo, si avvicinava l’ora di andare in ospedale. Si alzò con prudenza, a tentoni cercò e si infilò la vestaglia, entrò nella stanza da bagno, urinò. Poi si voltò verso dove sapeva che c’era lo specchio, stavolta non domandò, Che cosa sarà, non disse, Ci sono mille ragioni per cui il cervello umano si chiuda, si limitò ad allungare le mani fino a toccare il vetro, sapeva che la sua immagine era lì a guardarlo, l’immagine vedeva lui, lui non vedeva l’im magine. Udì la moglie entrare in camera, Ah, sei già alzato, disse lei, e lui rispose, Sì. Subito dopo la sentì accanto a sé, Buongiorno, amore mio, si rivolgevano ancora parole affettuose dopo tanti anni di matrimonio, e allora lui disse, come se stessero rappresentando un’opera e questa fosse la sua battuta, Non credo sarà molto buono, ho qualcosa alla vista. Lei prestò attenzione solo all’ultima parte della frase, Lasciami vedere, chiese, gli esaminò gli occhi con attenzione, Non vedo niente, la frase era evidentemente scambiata, non faceva parte del ruolo di lei, avrebbe dovuto pronunciarla lui, che però la pronunciò più semplicemente, così, Non vedo, e aggiunse, Credo di essere stato contagiato dal malato di ieri. Con il tempo e l’intimità, le mogli dei medici finiscono anch’esse per capirne qualcosa di medicina, e questa, così vicina al marito in tutto, aveva imparato abbastanza per sapere che la cecità non si diffonde per contagio, come una epidemia, la cecità non si prende solo perché qualcuno che non lo è guarda un cieco, la cecità è una questione privata fra un individuo e gli occhi con cui è nato. In tutti i casi, un medico ha l’obbligo di sapere ciò che dice, l’università è lì per quello, e se, oltre all’essersi dichiarato cieco, ammette apertamente di essere stato contagiato, chi è la moglie, sia pure la moglie di un medico, per dubitarne. è comprensibile, quindi, come la povera signora, davanti al l’irrefutabile evidenza, finisse per reagire come una qualsiasi moglie normale, ne conosciamo già due, abbracciando il marito, offrendo le naturali dimostrazioni di dolore, E adesso, cosa facciamo, domandava fra le lacrime, Avvisare le autorità sanitarie, il ministero, è la cosa più urgente, se si tratta realmente di una epidemia è necessario prendere provvedimenti, Ma una epidemia di cecità non si è mai vista, dichiarò la moglie, nel desiderio di aggrapparsi a quest’ultima speranza, Neanche si è mai visto un cieco senza motivi apparenti per esserlo, e in questo momento ce ne sono già almeno due. Aveva appena pronunciato l’ultima parola che il viso gli si trasformò. Spinse via la moglie quasi con violenza, lui stesso indietreggiò, Allontanati, non ti avvicinare, potrei contagiarti, e subito dopo, picchiandosi il capo con i pugni chiusi, Stupido, stupido, medico idiota, com’è che non ci ho pensato, un’intera notte insieme, dovevo rimanere nello studio, con la porta chiusa, e anche così, Per favore, non parlare in questo modo, ciò che dovrà essere sarà, avanti, vieni, ti preparo la colazione, Lasciami, lasciami, No, urlò la moglie, cosa vuoi fare, andare a ruzzoloni, urtando contro i mobili, in cerca del telefono, senza occhi per trovare nell’elenco i numeri di cui hai bisogno, mentre io assisto tranquillamente allo spettacolo, sotto una campana di cristallo a prova di contaminazione. Lo afferrò per il braccio con fermezza e disse, Andiamo, amore.
Era ancora presto quando il medico finì di prendere, immaginiamo con che gusto, la tazza di tè e la fetta di pa ne tostato che la moglie si era ostinata a preparargli, troppo presto per trovare nei rispettivi posti di lavoro le persone che avrebbe dovuto informare. La logica e l’efficacia dettavano che la comunicazione di quanto stava accadendo fosse fatta direttamente e il più presto possibile a un alto funzionario responsabile del Ministero della Sanità, ma non tardò a cambiare idea quando si rese conto che il presentarsi come semplice medico con un’informazione importante e urgente da comunicare non era sufficiente a convincere l’impiegato di medio livello con cui alla fine, dopo molte suppliche, la centralinista aveva acconsentito a metterlo in contatto. L’uomo volle sapere di cosa si trattasse prima di passargli il diretto superiore, ed era chiaro che qualunque medico con senso di responsabilità non si sarebbe messo ad annunciare il sorgere di una epidemia di cecità al primo subalterno che gli fosse comparso davanti, il panico sarebbe stato immediato. Gli rispondeva l’impiegato, Lei afferma di essere un medico, se vuole che le dica che ci credo, ebbene sì, ci credo, ma ho degli ordini, o mi dice di cosa si tratta, o non procedo, è una questione confidenziale, Le questioni confidenziali non si trattano per telefono, sarà meglio che venga personalmente, Non posso uscire da casa, Vuole dire che è malato, Sì, sono malato, disse il cieco dopo un attimo di esitazione, In questo caso dovrà chiamare un medico, un medico vero, ribatté l’impiegato e, affascinato dal proprio spirito, riagganciò il telefono.
L’insolenza lo colpì come uno schiaffo. Solo dopo alcuni minuti riacquistò la serenità sufficiente per raccontare alla moglie la villania con cui era stato trattato. Dopo, come se avesse appena scoperto qualcosa che fosse obbligato a sapere da lungo tempo, mormorò, triste, è di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria. Stava per domandare, dubbioso, E adesso, quando capì di aver perso tempo, l’unico modo di far arrivare l’informazione dov’era opportuno, per via sicura, sarebbe stato parlare con il direttore sanitario del proprio ente ospedaliero, da medico a medico, senza burocrati in mezzo, poi questi si sarebbe incaricato di mettere in funzione il maledetto ingranaggio ufficiale. La moglie fece la chiamata, sapeva a memoria il numero di telefono dell’ospedale. Quando risposero, il medico si identificò e poi disse frettolosamente, Bene, grazie mille, senza dubbio la centralinista aveva domandato, Come sta, dottore, è ciò che diciamo quando non vogliamo fare la parte del debole, abbiamo detto, Bene, e stavamo morendo, ciò che normalmente si suole definire come prendere il coraggio a quattro mani, un fenomeno che solo nella specie umana è stato osservato. Quando il direttore rispose, Allora, cosa c’è, il medico gli domandò se era solo, se non ci fosse intorno qualcuno che poteva sentire, della centralinista non c’era da temere, aveva altro da fare che ascoltare conversazioni di oculistica, a lei soltanto la ginecologia le interessava. Il resoconto del medico fu breve ma completo, senza perifrasi, senza parole in più, senza ridondanze, e fatto con una secchezza clinica che, tenendo conto della situazione, finì per sorprendere anche il direttore, Ma lei è davvero cieco, domandò, Totalmente, In tutti i casi, potrebbe trattarsi di una coincidenza, potrebbe non esserci stato realmente, in senso stretto, un contagio, D’accordo, il contagio non è dimostrato, ma qui non è che è diventato cieco lui e sono diventato cieco io, ciascuno a casa propria, senza esserci visti, l’uomo mi si è presentato cieco per una visita e io sono diventato cieco poche ore dopo, Come faremo a ritrovarlo, Ho il nome e l’indirizzo all’ambulatorio, Manderò qualcuno immediatamente, Un medico, Sì, un collega, chiaro, Non le sembra che dovremmo comunicare al ministero cosa sta capitando, Per il momento lo trovo prematuro, pensi all’allarme che causerebbe una notizia del genere, per Dio, la cecità mica si attacca, Neanche la morte si attacca, e ciò nonostante moriamo tutti, Beh, se ne stia a casa mentre mi occupo della faccenda, poi la manderò a prendere, voglio vederla, Si ricordi che se sono cieco è per avere visitato un cieco, La certezza non c’è, Ma c’è, quanto meno, una buona supposizione di causa ed effetto, Senza dubbio, tuttavia è ancora troppo presto per trarre conclusioni, due casi isolati non hanno alcun significato statistico, A meno che a questo punto non siamo già più di due, Capisco il suo stato d’animo, ma dobbiamo pur difenderci da pessimismi che possono rivelarsi infondati, Grazie, Ci risentiamo, A presto.
Mezz’ora dopo il medico, malamente, con l’aiuto della moglie, aveva finito di farsi la barba, squillò il telefono. Era di nuovo il direttore sanitario, ma la sua voce, adesso, era diversa, Abbiamo qui un ragazzo che è diventato cieco anche lui all’improvviso, vede tutto bianco, la madre dice di essere stata ieri con il figlio nel suo ambulatorio, Suppongo che il piccolo abbia uno strabismo divergente al l’occhio sinistro, Sì, Non c’è dubbio, è lui, Comincio a esser preoccupato, la situazione è davvero seria, Il ministero, Sì, chiaro, vado immediatamente a parlare con la direzione dell’ospedale. Dopo circa tre ore, mentre il medico e la moglie pranzavano in silenzio, lui cercando con la forchetta i pezzettini di carne che lei gli aveva tagliato, il telefono squillò di nuovo. La moglie andò a rispondere, tornando indietro immediatamente, Devi venire tu, è dal ministero. Lo aiutò ad alzarsi, lo guidò fino allo studio e gli porse il telefono. Fu una conversazione rapida. Il ministero voleva sapere l’identità dei pazienti che erano stati il giorno precedente nell’ambulatorio, il medico rispose che le relative cartelle cliniche contenevano tutti gli elementi di identificazione, il nome, l’età, lo stato civile, la professione, l’indirizzo, e concluse dichiarandosi a disposizione per accompagnare colui o coloro che sarebbero andati a ritirarle. All’altro capo il tono fu tagliente, Non ne abbiamo bisogno. Il telefono passò di mano e si sentì una voce diversa, Buonasera, sono il ministro, a nome del Governo la ringrazio per il suo zelo, sono certo che data la prontezza con cui ha agito potremo circoscrivere e controllare la situazione, intanto la preghiamo di rimanere in casa. Le parole conclusive furono pronunciate con tono formalmente cortese, però non lasciavano alcun dubbio sul fatto che fossero un ordine. Il medico rispose, Sì signor ministro, ma la telefonata era già stata interrotta.
Pochi minuti dopo, di nuovo il telefono. Era il direttore sanitario, nervoso, incespicando nelle parole, Ho saputo or ora che la polizia ha notizia di due casi di cecità improvvisa, Poliziotti, No, un uomo e una donna, lui lo hanno trovato per la strada che gridava di essere cieco, e lei si trovava in un albergo quando lo è diventata, una storia di letto, pare, è necessario appurare se anche in questo caso si tratti di miei pazienti, sa come si chiamano, Non me lo hanno detto, Dal ministero mi hanno già parlato, andranno a ritirare le cartelle in ambulatorio, Che situazione complicata, Non lo dica a me. Il medico posò il telefono, si portò le mani agli occhi, tenendole così, quasi volesse difenderli da mali peggiori, infine esclamò sordamente, Sono tanto stanco, Dormi un po’, ti accompagno a letto, disse la moglie, Non vale la pena, non sarei capace di dormire, inoltre la giornata non è finita, dovrà succedere qualcos’altro.
Erano quasi le sei quando il telefono squillò per l’ultima volta. Il medico era seduto lì accanto, alzò il ricevitore, Sì, sono io, disse, ascoltò con attenzione quanto gli veniva comunicato e solo prima di riagganciare fece un piccolo cenno con il capo. Chi era, domandò la moglie, Il ministero, viene un’ambulanza a prendermi fra mezz’ora, Era questo che ti aspettavi succedesse, Sì, più o meno, Dove ti portano, Non lo so, in un ospedale, suppongo, Vado a prepararti la valigia, a scegliere la biancheria, al solito, Non è un viaggio, Non lo sappiamo che cos’è. Lo condusse con attenzione in camera, lo fece sedere sul letto, Stai lì tranquillo, faccio tutto io. La udì muoversi da un lato al l’altro, aprire e chiudere cassetti e armadi, prendere vestiti e sistemarli poi nella valigia messa lì per terra, ma quel che non poteva vedere fu che, oltre ai propri vestiti, erano state messe nella valigia un po’ di gonne e camicette, un paio di pantaloni, un ve stito, delle scarpe che potevano essere solo da donna. Pensò vagamente che non avrebbe avuto bisogno di tanta roba, ma tacque perché non era il momento di discutere di cose insignificanti. Udì il rumore delle chiusure, poi la moglie disse, Fatto, l’ambulanza può anche arrivare. Portò la valigia vicino alla porta d’ingresso, rifiutando l’aiuto del marito che diceva, Lascia che ti aiuti, ce la faccio, non sono poi così invalido. Si tenevano per mano, e lui disse, Non so quanto tempo staremo separati, e lei rispose, Non ti preoccupare.
Aspettarono quasi un’ora. Quando il campanello della porta suonò, lei si alzò e andò ad aprire, ma sul pianerottolo non c’era nessuno. Rispose al citofono, Bene, scende subito, rispose. Tornò dal marito e gli disse, Ti aspettano giù, hanno ordine di non salire, A quanto pare il ministero è davvero spaventato, Andiamo. Scesero in ascensore, lei aiutò il marito a su perare gli ultimi gradini, poi a entrare nell’ambulanza, tornò indietro per prendere la valigia, la issò da sola e la spinse dentro. Infine salì e si sedette accanto al marito. Il conducente dell’ambulanza protestò dal sedile anteriore, Posso portare solo lui, sono gli ordini che ho, lei, signora, scenda. La donna, tranquillamente, rispose, Deve portar via anche me, sono diventata cieca in questo momento.

4.

L’idea era uscita dalla testa del ministro in persona. Era, da qualsiasi lato la si esaminasse, un’idea felice, se non perfetta, sia per quanto riguardava gli aspetti meramente sanitari del caso sia per le implicazioni sociali e le conseguenze politiche. Finché non si fossero appurate le cause o, per usare un linguaggio adeguato, l’eziologia del mal bianco, come, grazie all’ispirazione di un assessore fantasioso, l’indecorosa cecità aveva cominciato a essere designata, finché non si fossero trovate la terapia e la cura e, chissà, magari un vaccino per prevenire l’insorgenza di casi futuri, tutte le persone che erano diventate cieche, nonché quelle che vi fossero state in contatto fisico o in vicinanza diretta, sarebbero state radunate e isolate, in modo da evitare ulteriori contagi, i quali, nel verificarsi, si sarebbero moltiplicati più o meno secondo ciò che matematicamente si suole denominare come progressione geometrica. Quod erat demonstrandum, concluse il ministro. In parole alla portata di tutti, si trattava in sostanza di mettere in quarantena tutta quella gente, secondo l’antica prassi ereditata dai tempi del colera e della febbre gialla, quando le imbarcazioni contaminate o solo sospette di infezione dovevano rimanere al largo per quaranta giorni, vediamo come va. Queste medesime parole, Vediamo come va, intenzionali dal tono, ma sibilline in mancanza di altre, furono pronunciate dal ministro, che in seguito precisò il proprio pensiero, Volevo dire che potrebbero essere quaranta giorni, ma an che quaranta settimane, o quaranta mesi, o quarant’anni, bisogna però che non escano. Adesso rimane da decidere dove li metteremo, signor ministro, disse il presidente della commissione logistica di sicurezza, rapidamente nominata all’uopo, che avrebbe dovuto incaricarsi del trasporto, isolamento e rifornimento dei pazienti, Di che possibilità immediate disponiamo, volle sapere il ministro, Abbiamo un manicomio vuoto, sfitto, in attesa di destinazione, alcune installazioni militari non più utilizzate a seguito del la recente ristrutturazione dell’esercito, una fiera industriale in avanzata fase di completamento, e c’è inoltre, non sono riusciti a spiegarmene il perché, un ipermercato in fallimento, Secondo lei, quale andrebbe meglio ai nostri fini, La caserma è quella che offre migliori condizioni di sicurezza, Naturalmente, Ha però un inconveniente, è troppo grande, il che renderebbe difficile e dispendiosa la sorveglianza degli internati, Me ne rendo conto, Quanto all’ipermercato, ci sarebbero da calcolare, probabilmente, impedimenti giuridici vari, questioni legali da tenere in conto, E la fiera, La fiera, signor ministro, credo sia preferibile non pensarci, Perché, All’industria non piacerebbe di certo, lì ci sono investiti miliardi, In questo caso, resta il manicomio, Sì, signor ministro, il manicomio, E allora vada per il manicomio, Del resto, sotto tutti i punti di vista, è quello che presenta migliori condizioni, perché non solo è circondato da un muro per tutto il suo perimetro, ma ha anche il vantaggio di essere costituito da due ali, una da destinare ai ciechi propriamente detti, e un’altra ai sospetti, oltre a un corpo centrale che fungerà, per così dire, da terra-di-nessuno, attraverso cui coloro che siano diventati ciechi passeranno per andare a raggiungere coloro che lo erano già, C’è un problema, Quale, signor ministro, Saremo obbligati a mettere del personale per dirigere i trasferimenti, e mi sa che non potremo contare sui volontari, Non credo sia necessario, signor ministro, Si spieghi meglio, Qualora uno dei sospetti di infezione diventi cieco, com’è naturale che succeda pri ma o poi, stia certo, signor ministro, che gli altri, coloro i quali hanno ancora la vista, lo metteranno fuori al l’istante, Ha ragione, Proprio come non permetterebbero l’ingresso di un cieco cui fosse venuto in mente di cambiar posto, Buona idea, Grazie, signor ministro, allora possiamo ordinare di procedere, Sì, ha carta bianca.
La commissione agì con rapidità ed efficacia. Prima di sera erano già stati radunati tutti i ciechi di cui si aveva notizia, e anche un certo numero di presunti contagiati, quanto meno quelli che era stato possibile identificare e localizzare con una rapida operazione di rastrellamento effettuata soprattutto negli ambienti familiari e professionali dei colpiti dal la perdita della vista. I primi a essere trasportati nel manicomio sgombrato furono il medico e sua moglie. C’erano soldati di guardia. Il portone fu aperto giusto per farli passare, e subito richiuso. A mo’ di corrimano, una grossa corda andava dal portone alla porta principale dell’edificio, Un po’ più avanti, sulla sinistra, c’è una corda, afferratela e proseguite, sempre diritto, fino ai gradini, i gradini sono sei, li avvisò un sergente. All’interno la corda si divideva in due, una diramazione a sinistra, l’altra a destra, il sergente gli aveva urlato, Attenzione, il vostro lato è il destro. Mentre trascinava la valigia, la moglie guidava il marito verso la camerata che si trovava più vicina all’ingresso. Era lunga come un’antica infermeria, con due file di letti che erano stati dipinti di grigio, ma la cui vernice aveva cominciato a scrostarsi da un pezzo. I copriletti, le lenzuola e le coperte erano dello stesso colore. La moglie condusse il marito in fondo alla camerata, lo fece sedere su uno dei letti, e gli disse, Non muoverti, vado a vedere com’è. C’erano altre camerate, corridoi lunghi e stretti, stanze che un tempo dovevano essere gabinetti medici, latrine sudicie, una cucina che ancora non aveva perduto l’odore del cibo cattivo, un grande refettorio con tavoli dai ripiani rivestiti di zinco, tre celle imbottite fino all’altezza di due metri e rivestite di sughero da lì in su. Nel retro dell’edificio c’era un recinto in abbandono, con alberi malandati, i tronchi sembrava che fossero stati scorticati. Dappertutto si vedeva spazzatura. La moglie del medico rientrò. In un armadio aperto a metà trovò alcune camicie di forza. Quando raggiunse di nuovo il marito, gli domandò, Riesci a immaginare dove ci hanno portato, No, e stava per aggiungere In un manicomio, ma lui la prevenne, Tu non sei cieca, non posso consentirti di restare qui, Sì, hai ragione, non sono cieca, Gli chiederò di portarti a casa, dirò che li hai in gannati per restare con me, Non vale la pena, da fuori non ti sentono, e an che se ti sentissero non ti darebbero retta, Ma tu vedi, Per il momento, la cosa più sicura è che diventerò cieca anch’io uno di questi giorni, o fra un minuto, Vattene via, per favore, Non insistere, del resto scommetto che i soldati non mi farebbero nean che metter piede sui gradini, Non ti posso obbligare, Infatti no, amore mio, non puoi, resto per aiutare te, e gli altri che verranno, ma non dir loro che ci vedo, Quali altri, Non crederai che saremo gli unici, è una follia, Per forza, siamo in un manicomio.
Gli altri ciechi arrivarono insieme. Li avevano presi nelle rispettive case, uno dopo l’altro, quello dell’automobile prima di tutti, il ladro che l’aveva rubata, la ragazza dagli occhiali scuri, il ragazzino strabico, no, lui no, lui andarono a prenderlo all’ospedale dove la madre lo aveva portato. La madre non era con lui, non aveva avuto l’astuzia della moglie del medico, dichiarare di essere cieca senza esserlo, è una creatura semplice, incapace di mentire, anche a fin di bene. Entrarono nella camerata inciampando, brancolando nel vuoto, qui non c’erano corde a guidarli, avrebbero dovuto apprendere a spese dei propri dolori, il ragazzino piangeva, voleva la mamma, e la ragazza dagli occhiali scuri cercava di calmarlo, Ora viene, ora viene, gli diceva, e siccome portava gli occhiali poteva essere cieca, ma poteva anche non esserlo, gli altri muovevano gli occhi da un lato e dall’altro, e non vedevano niente, mentre lei, con quegli occhiali, solo perché diceva Ora viene, ora viene, sembrava quasi che stesse vedendo entrare dalla porta la madre disperata. La moglie del medico avvicinò le labbra all’orecchio del marito e sussurrò, Ne sono entrati quattro, una donna, due uomini e un ragazzo, Gli uomini, che aspetto hanno, domandò il medico a voce bassa. Lei li descrisse, e lui, Quello lì non lo conosco, l’altro, da come l’hai descritto, ha tutta l’aria di essere il cieco venuto in ambulatorio, Il piccolo ha uno strabismo, e la donna porta occhiali scuri, sembra carina, Ci son venuti tutti e due. Per via dei rumori che facevano mentre cercavano un posto dove sentirsi sicuri, i ciechi non udirono questo scambio di parole, probabilmente pensavano non ci fosse nessun altro nelle stesse condizioni, e non avevano perduto la vista da sufficiente tempo perché il senso dell’udito gli si fosse avvivato al di sopra della norma. Infine, quasi fossero giunti alla conclusione che non valeva la pena lasciare il certo per l’incerto, ciascuno si sedette sul letto contro cui aveva per così dire inciampato, vi cinissimi i due uomini, ma senza saperlo. A voce bassa, la ragazza continuava a consolare il ragazzino, Non piangere, vedrai che tua mamma non tarderà. Poi si fece silenzio, e allora la moglie del medico disse, in modo da essere udita in fondo alla camerata, dov’era la porta, Qui siamo in due, quanti siete voi. La voce inattesa fe ce sobbalzare i neoarrivati, ma i due uomini rimasero zitti, rispose la ragazza, Siamo quattro, credo, qui ci siamo questo bambino e io, Chi altri, perché gli altri non parlano, domandò la moglie del medico, Ci sono io, mormorò, come se gli costasse pronunciare le parole, una voce di uomo, E io, borbottò a sua volta, contrariata, un’altra voce maschile. La moglie del medico si disse fra sé e sé, Si comportano come se temessero di farsi riconoscere. Li vedeva contratti, tesi, il collo allungato come se fiutassero qualcosa, ma, curiosamente, le espressioni erano simili, un misto di minaccia e di paura, eppure la paura dell’uno non era come quella dell’altro, e non lo erano neppure le minacce. Che ci sarà fra loro, pensò.
In quel momento si udì una voce for te e secca, voce di qualcuno che, dal tono, sembrava abituato a dare ordini. Veniva da un altoparlante fissato sopra la porta da cui erano entrati. Fu pronunciata tre volte la parola Attenzione, poi la voce attaccò, Al Governo rincresce di essere stato costretto a esercitare energicamente quello che considera suo diritto e suo dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che stiamo attraversando, quando sembra si verifichi qualcosa di simile a una violenta epidemia di cecità, provvisoriamente designata come mal bianco, e desidererebbe poter contare sul senso civico e la collaborazione di tutti i cittadini per bloccare il propagarsi del contagio, nell’ipotesi che di contagio si tratti, nell’ipotesi che non ci si tro vi unicamente davanti a una serie di coincidenze per ora inspiegabili. La decisione di riunire in uno stesso luogo tutte le persone colpite e, in un luogo prossimo, ma separato, quelle che con esse abbiano avuto qualche tipo di contatto, non è stata presa senza seria ponderazione. Il Governo è perfettamente consapevole delle proprie responsabilità e si aspetta da coloro ai quali questo messaggio è rivolto che assumano anch’essi, da cittadini rispettosi quali devono essere, le loro responsabilità, pensando anche che l’isolamento in cui ora si trovano rappresenterà, al di là di qualsiasi altra considerazione personale, un atto di solidarietà verso il resto della comunità nazionale. Detto ciò, richiamiamo l’attenzione di tutti alle istruzioni che seguono, primo, le luci si manterranno sempre accese, sarà inutile qualsiasi tentativo di manovrare gli interruttori, non funzionano, secondo, chi abbandonerà l’edificio senza autorizzazione verrà immediatamente passato per le armi, ripeto, immediatamente passato per le armi, terzo, in ogni camerata esiste un telefono che potrà essere usato solo per richiedere all’esterno prodotti per l’igiene e la pulizia, quarto, gli internati laveranno manualmente i propri indumenti, quinto, si raccomanda l’elezione di responsabili di camerata, si tratta di una raccomandazione, non di un ordine, gli internati si organizzeranno come meglio credono, purché rispettino le suddette regole e quelle che verranno enunciate qui di seguito, sesto, tre volte al giorno saranno depositate razioni di cibo alla porta d’ingresso, a destra e a sinistra, destinate rispettivamente ai pazienti e ai sospetti di contagio, settimo, tutti gli avanzi dovranno essere bruciati, considerandosi avanzi, all’uopo, non solo ogni tipo di cibo avanzato, ma anche le casse, i piatti e le posate, che sono di materiale combustibile, ottavo, l’operazione dovrà essere effettuata nei cortili interni dell’edificio o nel recinto, nono, gli internati sono responsabili di tutte le eventuali conseguenze di tali operazioni di incenerimento, decimo, in caso di incendio, sia esso fortuito o intenzionale, i pompieri non interverranno, undicesimo, gli internati non dovranno contare su alcun tipo di intervento dall’esterno nell’ipotesi che fra di essi si verifichino malattie, nonché l’insorgere di disordini o aggressioni, dodicesimo, in caso di morte, qualunque ne sia la causa, gli internati sotterreranno senza formalità il cadavere nel recinto, tredicesimo, la comunicazione fra l’ala dei pazienti e l’ala dei sospetti di contagio avverrà tramite il corpo centrale dell’edificio, lo stesso da cui siete entrati, quattordicesimo, i sospetti di contagio che dovessero diventare ciechi passeranno immediatamente nell’ala destinata a coloro che già lo sono, quindicesimo, questa comunicazione sarà ripetuta tutti i giorni, a questa stessa ora, per conoscenza dei nuovi ammessi. Il Governo e la Nazione si aspettano che ciascuno compia il proprio dovere. Buonanotte.
Nel silenzio che seguì si udì chiaramente la voce del ragazzino, Voglio la mamma, ma le parole furono articolate senza alcuna espressione, come un ripetitore automatico che prima avesse lasciato in sospeso una frase e adesso, fuori tempo, la trasmettesse. Il medico disse, Gli ordini che abbiamo sentito non lasciano dubbi, siamo isolati, più isolati di quanto probabilmente lo sia mai stato nessuno, e senza speranza di potere uscire da qui prima che si scopra il rimedio per la malattia, La sua voce mi è nota, disse la ragazza dagli occhiali scuri, Sono medico, sono un oculista, è il medico che ho consultato ieri, è la sua voce, Sì, e lei chi è, Avevo una congiuntivite, suppongo di averla ancora, ma adesso, cieca per cieca, ormai non avrà più importanza, E quel piccino che sta con lei, Non è mio, io non ho figli, Ieri ho visitato un ragazzino strabico, sei tu, domandò il medico, Sì, signore, la risposta del ragazzo ebbe un tono di dispetto, di chi non ha gradito sentir menzionato il proprio difetto fisico, e aveva ragione, che simili difetti, questi e altri, solo per il fatto di parlarne, dall’essere a stento percepibili diventano più che evidenti. C’è qualcun altro che conosco, domandò ancora il medico, non c’è per caso quel signore che ieri è venuto nel mio ambulatorio accompagnato dalla moglie, quello che è diventato cieco all’improvviso mentre era in automobile, Sono io, rispose il primo cieco, C’è ancora un’altra persona, si presenti per favore, ci hanno costretto a vivere insieme, non sappiamo per quanto tempo, quindi è indispensabile conoscerci. Il ladro della macchina bofonchiò a denti stretti, Sì, sì, ritenendo che ciò bastasse a confermare la sua presenza, ma il medico insistette, La voce è di una persona relativamente giovane, lei non dev’essere il malato anziano, quello della cataratta, No, dottore, non lo sono, Com’è che è diventato cieco, Ero per la strada, E poi, Poi niente, ero per la strada e sono diventato cieco. Il medico stava aprendo bocca per domandare se anche la cecità dell’ultimo intervenuto fosse bianca, ma tacque, a che scopo, a che serviva, qualunque fosse stata la risposta, e bianca o nera la cecità, da lì non sarebbero usciti. Tese la mano incerta verso la moglie e la incontrò a metà strada. Lei andò a baciargli il viso, nessuno avrebbe potuto più vedere questa faccia avvizzita, la bocca spenta, gli occhi morti, vitrei, spaventosi perché sembrava che vedessero e non vedevano, Arriverà anche il mio turno, pensò, quando, forse in questo istante, senza darmi il tempo di concludere ciò che mi sto dicendo, in qualsiasi momento, come loro, o forse mi sveglierò cieca, o lo diventerò chiudendo gli occhi per dormire, credendo di essermi solo addormentata.
Guardò i quattro ciechi, erano seduti sui letti, con ai piedi quel poco bagaglio che avevano potuto portare, il ragazzino con il suo zainetto, gli altri con le valigie, piccole, come per un fine settimana. La ragazza dagli occhiali scuri chiacchierava a voce bassa con il ragazzo, nella fila opposta, vicini, con un solo letto in mezzo, il primo cieco e il ladro della macchina erano l’uno davanti all’altro senza saperlo. Il medico disse, Tutti abbiamo sentito gli ordini, accada quel che accada una cosa è certa, nessuno verrà ad aiutarvi, perciò sarebbe preferibile che cominciassimo a organizzarci subito, perché non ci vorrà molto prima che questa camerata si riempia di gente, questa e le altre, Come sa che ci sono altre camerate, domandò la ragazza, Abbiamo fatto un giro prima di approdare qui, questa era più vicina alla porta d’ingresso, spiegò la moglie del medico, mentre stringeva il braccio del marito per raccomandargli di stare attento. Disse la ragazza, Sarebbe meglio che lei, dottore, fosse il responsabile, è pur sempre un medico, A cosa serve un medico senza occhi né medicine, Ma è per l’autorità. La moglie del medico sorrise, Penso che dovresti accettare, se gli altri sono d’accordo, è chiaro, Non credo sia una buona idea, Perché, Per il momento siamo solo in sei, ma domani saremo certamente di più, verrà gente tutti i giorni, sarebbe come scommettere sull’impossibile contare che fossero tutti disposti ad accettare un’autorità che non hanno scelto e che, per giunta, non avrebbe niente da dare in cambio della loro deferenza, il che sarebbe come supporre che riconoscerebbero un’autorità e una regola, Allora sarà difficile vivere qui, Saremo molto fortunati se sarà solo difficile. La ragazza dagli occhiali scuri disse, La mia intenzione era buona, ma veramente, dottore, ha ragione lei, ciascuno tirerà l’acqua al proprio mulino.
Spinto forse da queste parole, o non potendo più reggere alla rabbia, uno degli uomini si alzò bruscamente in piedi, Questo signore qui è il col pevole della nostra infelicità, se avessi gli occhi lo farei fuori, sbraitò, mentre indicava nella direzione in cui credeva stesse l’altro. Non si era sbagliato di molto, ma il drammatico gesto risultò comico perché il dito puntato, accusatore, indicava un innocente comodino. Stia calmo, disse il medico, in un’epidemia non ci sono colpevoli, ci sono soltanto vittime, Se io non fossi stato quella brava persona che ho dimostrato di essere, se non lo avessi aiutato ad arrivare a casa, avrei ancora i miei occhi, Chi è lei, domandò il medico, ma l’accusatore non rispose, sembrava già contrariato di aver parlato. Allora si udì la voce dell’altro uomo, Mi ha condotto a casa, è vero, ma poi si è approfittato del mio stato per rubarmi la macchina, è falso, non ho rubato niente, Invece sì, me l’ha rubata, Se qualcuno le ha fregato la macchina non sono stato io, ed ecco la ricompensa per la mia buona azione, sono cieco, e poi dove sono i testimoni, vorrei vederli, La discussione non risolve niente, disse la moglie del medico, la macchina è là fuori, voi siete qua dentro, è meglio facciate la pace, ricordatevi che vivremo insieme, Chi non vivrà con lui lo so io, disse il primo cieco, voi fate come volete, io me ne vado in un’altra camerata, non resto accanto a un mascalzone come questo che è stato capace di derubare un cieco, lui si lamenta di essere cieco per causa mia, e allora, che si cecasse, almeno c’è ancora un po’ di giustizia a questo mondo. Afferrò la valigia e, strascicando i piedi per non inciampare, brancolando con la mano libera, attraversò la corsia che separava le due file di brande, Dove sono le camerate, domandò, ma non arrivò a udire la risposta, se pure qualcuno gliela diede, perché all’improvviso si ritrovò in un parapiglia di braccia e gambe, il ladro della macchina metteva in atto alla meglio la minaccia di vendicarsi del responsabile dei propri mali. Chi sotto, chi sopra, rotolarono nel poco spazio, sbattendo qua e là contro i piedi dei letti, mentre, di nuovo spaventato, il ragazzino strabico ricominciava a piangere e a chiamare la mamma. La moglie del medico afferrò il marito per un braccio, sapeva che da sola non ce l’avrebbe fatta a metter fine alla zuffa, e lo condusse lungo la corsia fin dove si dibattevano, ansimando, gli infuriati lottatori. Guidò le mani del marito, lei stessa si occupò del cieco che trovò più a portata di mano, e a gran fatica riuscirono a separarli. Vi state comportando in maniera stupida, rimproverò il medico, se avete in mente di far diventare questo posto un inferno, continuate pure, siete sulla buona strada, ma ricordatevi che siamo in mano a noi stessi, aiuti da fuori, nessuno, avete sentito cosa ho detto, Lui mi ha rubato la macchina, piagnucolò il primo cieco, più ammaccato dell’altro, Lasci perdere, adesso non fa differenza, disse la moglie del medico, ormai non poteva più servirsene quando gliel’hanno rubata, Infatti, ma era mia, e questo ladro me l’ha portata via, non so dove, è molto probabile, disse il medico, che la sua macchina sia nel posto dove quest’uomo è diventato cieco, Lei, dottore, è un tipo sveglio, sì, non c’è dubbio, disse il ladro. Il primo cieco fece un movimento come per liberarsi dalle mani che lo tenevano, ma senza forzare, quasi avesse capito che né l’indignazione, ancorché giustificata, gli avrebbe restituito la macchina, né la macchina gli avrebbe restituito gli occhi. Ma il ladro minacciò, Se credi che non ti succederà niente ti sbagli di grosso, ti ho rubato la macchina, sì, sono stato io a rubartela, ma tu a me hai rubato la vista, chi è più ladro fra noi due, Finitela, protestò il medico, qui siamo tutti ciechi e non ci lamentiamo né accusiamo nessuno, Con il male altrui, ci credo, rispose il ladro, sdegnoso, Se vuole andare nell’altra camerata, disse il medico al primo cieco, mia moglie potrà guidarla, si orienta meglio di me, Ho cambiato idea, preferisco restare in questa. Il ladro lo canzonò, Il piccino ha paura di star da solo, non sia mai che compaia il babau, Basta, urlò il medico spazientito, Oh dottorino, bofonchiò il ladro, guardi che qui siamo tutti uguali, a me non dà mica ordini, Non le sto dando ordini, le dico solo di lasciare in pace quest’uomo, Va bene, va bene, ma attenzione, perché quando mi salta la mosca al naso, amico come tutti, ma nemico come pochi. Con gesti e movimenti aggressivi, il ladro cercò il letto su cui era seduto prima, vi spinse la valigia sotto, poi annunciò, Io mi corico, dal tono fu co me se avesse voluto avvisare, Voltatevi di là perché mi devo spogliare. La ragazza dagli occhiali scuri disse al ragazzino strabico, Vai a letto an che tu, rimani qui da questo lato, se hai bisogno di qualcosa durante la notte chiamami, Voglio fare pipì, chiese il ragazzo. Udendolo, tutti sentirono una repentina e urgente voglia di urinare, pensarono, con queste o con altre parole, E adesso come la risolviamo, il primo cieco tastò sotto il letto per vedere se c’era una bacinella, ma allo stesso tempo desiderando che non ci fosse perché si sarebbe vergognato di farla lì davanti agli altri, non potevano vederlo, certo, ma il rumore è indiscreto, impossibile da mascherare, gli uomini almeno possono usare un trucco che per le donne non è possibile, in questo sono più fortunati. Il ladro si era seduto sul letto, stava dicendo, Merda, dov’è che si piscia in questo posto, Ma come parla, c’è un bambino, protestò la ragazza da gli occhiali scuri, Sì, sì, bella mia, ma, o trovi un posto o la tua creaturina se la farà nei pantaloni. Disse la moglie del medico, Forse posso trovare io i gabinetti, mi ricordo di avere sentito un certo odore, Vengo con lei, disse la ragazza dagli occhiali scuri, tenendo per mano il ragazzino, Penso sia meglio andare tutti, osservò il medico, così impareremo la strada per quando ne avremo bisogno, Ti ho capito, pensò il ladro della macchina, ma non si azzardò a dirlo a voce alta, tu non vuoi che la tua mogliettina debba accompagnarmi a pisciare ogni volta che ne ho voglia. Il pensiero, per quell’implicito secondo senso, gli provocò una piccola erezione che lo sorprese, come se il fatto di essere cieco dovesse aver avuto come conseguenza la perdita o la diminuzione del desiderio sessuale, Bene, pensò, in definitiva non tutto è perduto, tra morti e feriti qualcuno scamperà, e poi, estraniandosi dalla conversazione, cominciò a fantasticare. Non gliene diedero il tempo, il medico stava dicendo, Facciamo una fila, mia moglie andrà in testa, ciascuno metta la mano sulla spalla di chi gli sta davanti, così non ci sarà pericolo di perderci. Disse il primo cieco, Io con questo non ci vado, si riferiva ovviamente a chi lo aveva derubato.
O perché si cercavano, o perché si evitavano, ma a stento riuscivano a muoversi nella stretta corsia, tanto più che anche la moglie del medico doveva procedere come se fosse cieca. Finalmente la fila risultò ordinata, dietro la moglie del medico c’era la ragazza dagli occhiali scuri con il ragazzino strabico per mano, poi il ladro, in mutande e canottiera, subito dopo il medico, e alla fine, per il momento in salvo da eventuali aggressioni, il primo cieco. Avanzavano molto lentamente, come se non si fidassero di chi li guidava, con la mano libera tastavano continuamente l’aria, cercando al passaggio l’appoggio di qualcosa di solido, una parete, lo stipite di una porta. In fila dietro alla ragazza dagli occhiali scuri, il ladro, stimolato dal profumo che emanava da lei e dal ricordo della recente erezione, decise di usare le mani con maggior profitto, con una accarezzandole la nuca sotto i capelli, e con l’altra, direttamente e senza cerimonie, palpandole il seno. Lei si agitò per sottrarsi a quel gesto sfrontato, ma lui la teneva ben stretta. Allora la ragazza scagliò con forza una gamba al l’indietro, come per dare un calcio. Il tacco della scarpa, sottile come uno stiletto, andò a infilzarsi nella coscia nuda del ladro, che cacciò un urlo di sorpresa e di dolore. Cosa c’è, domandò la moglie del medico guardando indietro, Sono io che ho inciampato, rispose la ragazza dagli occhiali scuri, devo aver pestato qualcuno. C’era già un po’ di sangue fra le dita del ladro che, gemendo e imprecando, tentava di rimediare agli effetti dell’aggressione, Sono ferito, questa qui non vede dove mette i piedi, E lei non vede dove mette le mani, rispose seccamente la ragazza. La moglie del medico capì cos’era successo, prima sorrise, ma subito si rese conto che la ferita aveva un brutto aspetto, il sangue scorreva sulla gamba del povero diavolo, e non c’erano né acqua ossigenata, né mercurocromo, né cerotti, né bende, nessun disinfettante, niente. La fila si era sciolta, il medico domandava, Dov’è che è ferito, Qui, Qui dove, Alla gamba, non lo vede, quella lì mi ha infilzato con un tacco della scarpa, Ho inciampato, non è colpa mia, ripeté la ragazza, ma subito dopo esplose, esasperata, Questo mascalzone mi stava toccando, chi credeva che fossi. La moglie del medico intervenne, Adesso però è necessario lavare questa ferita e fasciarla, E l’acqua dov’è, domandò il ladro, In cucina, in cucina c’è acqua, ma non c’è bisogno che andiamo tutti, mio marito e io accompagniamo questo signore, voialtri aspettate qui, non tarderemo, Voglio fare pipì, disse il ragazzino, Resisti un pochettino, torniamo subito. La moglie del medico sapeva che avrebbe dovuto girare una volta a destra e una volta a sinistra, poi proseguire per un lungo corridoio che faceva angolo retto, la cucina era in fondo. Trascorsi pochi minuti, fece finta di essersi sbagliata, si fermò, tornò indietro, poi esclamò, Ah, ora mi ricordo, e quindi andarono direttamente in cucina, non c’era altro tempo da perdere, la ferita sanguinava abbondantemente. All’inizio l’acqua uscì sporca, fu necessario aspettare che si schiarisse. Era tiepida, stagnante, come se fosse rimasta lì a imputridire all’interno dei tubi, ma il ladro l’accolse con un sospiro di sollievo. La ferita aveva un brutto aspetto. E adesso, come gliela fasciamo la gamba, domandò la moglie del medico. Sotto un tavolo c’erano alcune pezze sporche che dovevano essere degli strofinacci, ma sarebbe stata una grave imprudenza utilizzarle come bende, Mi pare che qui non c’è niente, disse fingendo di andare in cerca, Ma io non posso rimanere in questo stato, dottore, il sangue non si ferma, per favore mi aiuti, e scusi se poco fa sono stato maleducato con lei, si lamentava il ladro, La stiamo aiutando, è ciò che stiamo facendo, disse il medico, e poi, Si tolga la canottiera, non c’è altro da fare. Il ferito bofonchiò che gli serviva, ma se la tolse. Rapidamente, la moglie del medico l’arrotolò, l’avvolse intorno alla coscia, strinse con forza e riuscì, con le punte costituite dalle bretelle e dall’orlo, a fare un nodo grossolano. Non erano movimenti che un cieco potesse eseguire facilmente, ma lei non volle perder tempo con ulteriori simulazioni, bastava già l’aver finto di essersi perduta. Al ladro gli parve di vederci qualcosa di anormale, era il medico, secondo la logica, pur non essendo altro che un oculista, che avrebbe dovuto fargli la fasciatura, ma la consolazione di sapersi curato si sovrappose ai dubbi, in tutti i casi vaghi, che per un momento gli avevano sfiorato la coscienza. Con l’uomo zoppicante, raggiunsero di nuovo gli altri, e la moglie del medico vide immediatamente che il ragazzino strabico non ce l’aveva fatta più e aveva urinato nei pantaloni. Né il primo cieco né la ragazza dagli occhiali scuri si erano accorti di quanto era successo. Ai piedi del ragazzo si allargava una pozza di urina, l’orlo dei pantaloni gocciolava ancora. Ma, come se niente fosse, la moglie del medico disse, Andiamo un po’ in cerca di questi gabinetti. I ciechi mossero le braccia da vanti alla faccia, cercandosi l’un l’altro, non la ragazza dagli occhiali scuri, che dichiarò subito di non voler più stare davanti a quello sfacciato che l’aveva toccata, infine si ricostituì la fila scambiandosi di posto il ladro e il primo cieco, col medico in mezzo. Il ladro zoppicava un po’ di più, trascinava la gamba. Quella sorta di laccio emostatico lo infastidiva e la ferita gli pulsava talmente forte che era come se il cuore avesse cambiato posto e adesso si trovasse in fondo a quel foro. La ragazza dagli occhiali scuri teneva di nuovo il ragazzino per mano, ma questi stava il più discosto possibile, per paura che qualcuno notasse la sua negligenza, come il medico, che fiutò, Qui c’è puzza di urina, e la moglie ritenne di dover confermare l’impressione, Sì, veramente c’è puzza, non poteva dire che veniva dai gabinetti perché ne erano ancora lontani, e, dovendo comportarsi come se fosse cieca, tantomeno avrebbe potuto dire che l’odore veniva dai calzoni bagnati del ragazzo.
Erano già d’accordo, tanto le donne quanto gli uomini, che, una volta arrivati ai gabinetti, sarebbe stato il ragazzo a scaricarsi per primo, ma alla fine gli uomini entrarono insieme, senza badare a urgenze o età, l’orinatoio era collettivo, per forza in un posto del genere, e le latrine pure. Le donne rimasero davanti alla porta, si dice che resistano meglio, ma tutto ha i suoi limiti, di lì a momenti la moglie del medico suggerì, Forse c’è qualche altro gabinetto, ma la ragazza dagli occhiali scuri disse, Per me, posso aspettare, E anch’io, disse l’altra, e, dopo un silenzio, cominciarono a parlare, Com’è che è diventata cieca, Come tutti, all’improvviso ho cessato di vedere, Era in casa, No, Allora è stato quando è uscita dall’ambulatorio di mio marito, Più o meno, Cosa vuol dire più o meno, Che non è stato subito dopo, Ha provato dolore, Per la verità no, quando ho aperto gli occhi ero cieca, Io no, No cosa, Non avevo gli occhi chiusi, sono diventata cieca nel momento in cui mio marito è salito sull’ambulanza, Ha avuto fortuna, Chi, Suo marito, così potrete stare insieme, In tal caso ho avuto fortuna anch’io, In fatti, E lei, signora, è sposata, No, non lo sono, e d’ora in poi penso che non si sposerà mai più nessuno, Ma questa cecità è talmente anomala, talmente al di fuori di quanto la scienza conosce, che non potrà durare sempre, E se dovessimo rimanere così per il resto della vita, Noi, Tutti quanti, Sarebbe terribile, un mondo di ciechi, Non voglio neanche immaginarlo.
Il ragazzino strabico fu il primo a uscire dal gabinetto, non c’era neanche bisogno che vi entrasse. Aveva i calzoni arrotolati fino a metà gamba e si era tolto le calze. Disse, Sono qui, la mano della ragazza dagli occhiali scuri si mosse subito in direzione della voce, non ci azzeccò alla prima né alla seconda, alla terza incontrò la mano incerta del ragazzo. Di lì a poco comparve il medico, subito dopo il primo cieco, uno dei due domandò, Dove siete, la moglie del medico teneva già il marito per un braccio, l’altro fu sfiorato e poi afferrato dalla ragazza dagli occhiali scuri. Il primo cieco, per alcuni secondi, non ebbe nessuno a sostenerlo, poi qualcuno gli mise la mano su una spalla. Ci siamo tutti, domandò la moglie del medico, Quello della gamba si è fermato per un altro bisogno, rispose il marito. Allora la ragazza dagli occhiali scuri disse, Forse c’è qualche altro gabinetto, comincio ad avere qualche problema, scusate, Andiamo a cercare, disse la moglie del medico, e si allontanarono tenendosi per mano. Passati una decina di minuti, avevano trovato un ambulatorio di visita dove c’era un servizio igienico. Il ladro era uscito dal gabinetto, si lamentava per il freddo e i dolori alla gamba. Rifecero la fila nello stesso ordine con cui erano venuti e, con meno lavoro di prima e nessun incidente, tornarono nella camerata. Con destrezza, senza darlo a vedere, la moglie del medico li aiutò a raggiungere ciascuno il proprio letto. Ancora fuori della camerata, come se si trattasse di un qualcosa ormai ovvio per tutti, ricordò che il modo più facile per ritrovare il proprio posto era di contare i letti partendo dall’entrata, I nostri, disse, sono gli ultimi del lato destro, il diciannove e il venti. Il primo a procedere nella corsia fu il ladro. Era quasi nudo, tremava, desiderava alleggerire la gamba dolente, motivi sufficienti perché gli dessero la precedenza. Cominciò ad avanzare di letto in letto, tastando il pavimento in cerca della valigia, e quando la riconobbe disse ad alta voce, Eccola, e aggiunse Quattordici, Da che lato, domandò la moglie del medico, Sinistro, rispose, di nuovo vagamente sorpreso, come se lei avesse dovuto saperlo senza necessità di domandarlo. Il primo cieco fu il successivo. Sapeva che il suo letto era il secondo partendo da quello del ladro, stesso lato. Non aveva più paura di dormirgli accanto, con la gamba in quello stato, a giudicare dai gemiti e dai sospiri, al diavolo l’altro guaio. Dis se quando arrivò, Sedici, sinistro, e si coricò vestito. Allora la ragazza dagli occhiali scuri chiese a voce bassa, Aiutateci a stare vicino a voi, di fronte, dall’altro lato, lì staremmo bene. Avanzarono tutti e quattro insieme e rapidamente si sistemarono. Trascorsi alcuni minuti il ragazzino strabico disse, Ho fame, e la ragazza dagli occhiali scuri mormorò, Domani, domani mangeremo, adesso dormi. Poi aprì la valigetta, cercò la boccetta che aveva comprato in farmacia. Si tolse gli occhiali, reclinò il capo all’indietro e, con gli occhi bene aperti, guidando una mano con l’altra, fece gocciolare il collirio. Non tutte le gocce finirono negli occhi, ma la congiuntivite, così curata, sarebbe guarita ben presto.

5.

Devo aprire gli occhi, pensò la moglie del medico. Attraverso le palpebre chiuse, quando più volte si era svegliata durante la notte, aveva percepito lo smorto chiarore delle lampadine che a stento illuminavano la camerata ma adesso le sembrava di notare una differenza, un’altra presenza luminosa, era forse l’effetto delle prime luci dell’alba, ma forse era già il mare di latte che le stava invadendo gli occhi. Si disse fra sé e sé che avrebbe contato fino a dieci e poi, al la fine, disserrato le palpebre, due volte se lo ripeté, due volte contò, due volte non le aprì. Udiva il respiro profondo del marito nel letto accanto, e ancora il russare di qualcuno, Come andrà la gamba di quel tipo, si domandò, ma sapeva che in quel momento non si trattava di compassione autentica, voleva piuttosto fingere un’altra preoccupazione, voleva non essere costretta ad aprire gli occhi. Che si aprirono l’attimo dopo, semplicemente, non perché lei lo avesse deciso. Dalle finestre, che partivano a metà della parete e arrivavano a un palmo dal soffitto, entrava la luce opaca e azzurrata del primo mattino. Non sono cieca, mormorò, e subito allarmata si sollevò sul letto, la ragazza dagli occhiali scuri che occupava la branda di fronte poteva aver sentito. Dormiva. Nel letto accanto, appoggiato alla parete, anche il ragazzino dormiva, Ha fatto come me, pensò la moglie del medico, gli ha dato il posto più riparato, ben fragili mura gli saremmo, un semplice sasso in mezzo alla strada, con la sola speranza che il nemico inciampi, quale nemico, qui non verrà nessuno ad attaccarci, potremmo aver rubato e assassinato, ma non verrebbero certo ad arrestarci, quel tipo che ha rubato la macchina non dev’essere mai stato tanto sicuro della propria libertà, siamo talmente lontani dal mondo che fra poco cominceremo a non saper più chi siamo, neanche abbiamo pensato a dirci come ci chiamiamo, e a che scopo, a cosa ci sarebbero serviti i nomi, nessun cane ne riconosce un altro, o si fa riconoscere, dal nome che gli hanno imposto, è dall’odore che identifica o si fa identificare, noi, qui, siamo come un’altra razza di cani, ci conosciamo dal modo di abbaiare, di parlare, il resto, lineamenti, colore degli occhi, della pelle, dei capelli, non conta, è come se non esistesse, io vedo ancora, ma fino a quando. La luce si alterò leggermente, non poteva essere di nuovo la notte che tornava, forse era il cielo che si annuvolava, ritardando il mattino. Dal letto del ladro venne un gemito, Se la ferita si è infettata, pensò la moglie del medico, non abbiamo niente per medicarlo, nessun rimedio, il minimo incidente, in queste condizioni, può trasformarsi in tragedia, probabilmente è proprio quanto si aspettano, che finiamo tutti uno dopo l’altro, morta la bestia addio veleno. La moglie del medico si alzò dal letto, si chinò sul marito, stava per sve gliarlo, ma non ebbe il coraggio di strapparlo al sonno e restituirlo alla coscienza di essere ancora cieco. Scalza, un passo dopo l’altro, andò fino al letto del ladro. Costui aveva gli occhi aperti, fissi. Come si sente, sussurrò la moglie del medico. Il ladro mosse il capo in direzione della voce e disse, Male, la gamba mi fa molto male, lei stava per dirgli, Mi lasci vedere, ma tacque in tempo, che imprudenza, fu lui, invece, a comportarsi come se non si fosse ricordato che lì c’erano soltanto ciechi, agì senza pensare, come avrebbe fatto ancora qualche ora prima se un medico, là fuori, gli avesse detto, Me la faccia vedere, e sollevò la coperta. Anche in quella penombra, chi avesse potuto utilizzare un minimo gli occhi avrebbe potuto vedere il materasso inzuppato di sangue, il foro nero della ferita dai bordi rigonfi. La fasciatura si era slegata. La moglie del medico abbassò con cura la coperta, poi, con un gesto lieve e rapido, gli sfiorò con la mano la fronte. La pelle, secca, scottava. La luce si alterò di nuovo, le nuvole si erano allontanate. La moglie del medico tornò alla propria branda, ma non si coricò. Guardava il marito che mormorava sognando, le altre sagome sotto i copriletti grigi, le pareti sporche, i letti vuoti in attesa, e serenamente desiderò di essere cieca anche lei, di attraversare la pellicola invisibile delle cose e passare al loro interno, verso la propria folgorante e irrimediabile cecità.
All’improvviso, proveniente dall’esterno della camerata, probabilmente dall’atrio che separava le due ali anteriori dell’edificio, si udì un rumore di voci violente, Fuori, fuori, Andate via, Sparite, Qui non potete restare, Dovete rispettare gli ordini. Il tumulto crebbe, diminuì, una porta si chiuse fragorosamente, adesso si udiva solo qualche singhiozzo addolorato, il rumore inconfondibile di qualcuno che inciampa. Nella camerata erano tutti svegli. Tenevano il capo rivolto verso l’entrata, non avevano bisogno di vedere per sapere che stavano entrando dei ciechi. La moglie del medico si alzò, istintivamente sarebbe andata ad aiutare i nuovi arrivati, a rivolger loro una parola gentile, a guidarli fino alle brande, a informarli, Ne prenda nota, questo è il sette lato sinistro, questo è il quattro lato destro, non si sbagli, sì, qui siamo in sei, siamo venuti ieri, sì, siamo stati i primi, i nomi, cosa importano i nomi, uno, penso abbia rubato, un altro è stato derubato, c’è una ragazza misteriosa dagli occhiali scuri che si mette il collirio negli occhi per curare una congiuntivite, co me faccio, se sono cieca, a sapere che gli occhiali sono scuri, beh, mio marito è oculista ed è stata al suo ambulatorio, sì, anche lui è qui, è toccato a tutti, ah, è vero, c’è anche quel ragazzino strabico. Non si mosse, ma disse al marito, Stanno arrivando. Il medico si alzò dal letto, la moglie lo aiutò a indossare i pantaloni, non aveva importanza, nessuno poteva vedere, in quel momento cominciarono a entrare i ciechi, erano cinque, tre uomini e due donne. Il medico disse, alzando la voce, State calmi, non vi precipitate, qui siamo in sei, voi quanti siete, c’è posto per tutti. Loro non sapevano quanti erano, certo, si erano toccati a vicenda, a volte scontrandosi, mentre li spingevano dall’ala sinistra verso questa, ma non sapevano quanti erano. E non portavano bagaglio. Quando, nella camerata, si erano svegliati ciechi e avevano cominciato perciò a lamentarsi, gli altri li avevano messi fuori senza pensarci due volte, senza neanche dar loro il tempo di congedarsi da un parente o da un amico che fosse lì con loro. Disse la moglie del medico, S rà meglio che cominciate a contarvi, e che ciascuno dica chi è. Immobili, i ciechi esitarono, ma qualcuno doveva pur iniziare, due uomini parlarono contemporaneamente, capita sempre, tacquero tutti e due, e fu il terzo a cominciare, Uno fece una pausa, sembrava stesse per dire il proprio nome, ma invece disse, Sono un poliziotto, e la moglie del medico pensò, Non ha detto come si chiama, saprà anche lui che qui non ha importanza. Si stava già presentando un altro, Due, e seguì l’esempio del primo, Sono un autista di tassì. Il terzo disse, Tre, sono commesso di farmacia. Poi una donna, Quattro, sono una cameriera d’albergo, e l’ultima, Cinque, sono un’impiegata. è mia moglie, mia moglie, gridò il primo cieco, dove sei, dimmi dove sei, Qui, sono qui, diceva lei piangendo e camminando vacillante per la corsia, con gli occhi spalancati, le mani in lotta contro il mare di latte in cui entravano. Più sicuro, lui avanzò verso di lei, Dove sei, dove sei, adesso mormorava come se pregasse. Una mano incontrò l’altra, un istante dopo erano abbracciati, un corpo solo, i baci cercavano i baci, a volte si perdevano nel vuoto perché non sapevano dov’erano i visi, gli occhi, la bocca. La moglie del medico si aggrappò al marito, singhiozzando come se lo avesse ritrovato anche lei, ma diceva, Che disgrazia, la nostra, che iattura. Allora si udì la voce del ragazzino strabico domandare, C’è anche mia madre. Seduta sul letto, la ragazza dagli occhiali scuri mormorò, Verrà, non ti preoccupare, che verrà.
Qui, la vera casa di ognuno è il posto dove dorme, perciò niente di strano che la prima preoccupazione dei nuovi arrivati sia stata quella di scegliere il letto, proprio come avevano fatto nell’altra camerata, quando ancora avevano occhi per vedere. Nel caso della moglie del primo cieco non potevano esserci dubbi, per lei il luogo giusto e naturale era accanto al ma rito, letto diciassette, con il diciotto vuoto in mezzo, come uno spazio di separazione dalla ragazza dagli occhiali scuri. Come del resto non c’è da sorprendersi che cerchino tutti di stare il più possibile uniti, ci sono molte affinità fra loro, alcune già note, altre che si riveleranno adesso, il commesso di farmacia, per esempio, è colui che ha venduto il collirio alla ragazza dagli occhiali scuri, nel tassì di questo autista il primo cieco è andato dal medico, quest’uomo che ha dichiarato di essere un poliziotto ha trovato il ladro cieco che piangeva come un bambino smarrito, e quanto alla cameriera d’albergo, è stata la prima persona a entrare in camera quando la ragazza dagli occhiali scuri è scoppiata a gridare. Certamente, non tutte queste affinità saranno esplicitate e rese note, sia per mancanza di occasione, sia perché non s’immaginava neanche che potessero esistere, e sia per una semplice questione di sensibilità e tatto. La cameriera d’albergo non se lo sognerà neppure che possa esser qui la donna che ha visto nuda, del commesso si sa che ha servito altri clienti che portavano un paio di occhiali scuri e hanno comprato un collirio, al poliziotto nessuno sarà così imprudente da denunciare la presenza di uno che ha rubato un’automobile, l’autista giurerebbe di non aver trasportato, in questi ultimi giorni, nessun cieco nel suo tassì. Naturalmente, il primo cieco ha già detto alla moglie, con voce sussurrata, che uno dei ricoverati è quel furfante che gli ha portato via la macchina, Pensa un po’ che coincidenza, ma, siccome intanto ha saputo che il povero diavolo sta male per quella ferita alla gamba, ha avuto la generosità di aggiungere, Come castigo, basta. E lei, per la gran tristezza di essere cieca e la gran gioia di aver recuperato il marito, la gioia e la tristezza possono fondersi, non sono come l’acqua e l’olio, non si è neanche ricordata di quanto aveva detto due giorni prima, che avrebbe dato un anno di vita perché il mascalzone, parole sue, diventasse cieco. E se un’ultima ombra di rancore le ottenebrava ancora lo spirito, questa si dissipò di certo quando il ferito gemette miserevolmente, Dottore, per favore, mi aiuti. Facendosi guidare dalla moglie, il medico gli toccava delicatamente i bordi della ferita, non poteva far altro, e neanche valeva la pena di lavarla, l’infezione poteva essere dovuta alla profonda stoccata con un tacco di scarpa che era stato a contatto con il suolo sia per la strada che qui dentro, ma anche ad agenti patogeni molto probabilmente presenti nell’acqua stagnante, proveniente da tubature vecchie e in pessimo stato. La ragazza dagli occhiali scuri, che si era alzata nell’udire il gemito, si avvicinò pian piano, contando i letti. Si chinò in avanti, tese la mano, sfiorò il viso della moglie del medico, e poi, raggiunta senza sapere come la mano del ferito, che scottava, disse contrita, Le chiedo perdono, è stata tutta colpa mia, non c’era bisogno di fare quel che ho fatto, Lasci perdere, rispose l’uomo, sono cose che accadono nella vita, anch’io ho fatto quel che non si doveva fare.
Quasi sovrapponendosi alle ultime parole, si udì la voce aspra dell’altoparlante, Attenzione, attenzione, si avvisa che il cibo è stato depositato all’ingresso, unitamente ai prodotti per l’igiene e la pulizia, per primi escano i ciechi a ritirarlo, l’ala dei contaminati sarà informata quando sarà il momento, attenzione, attenzione, il cibo è stato depositato all’ingresso, per primi escano i ciechi, i ciechi per primi. Confuso per la febbre, il ferito non colse tutte le parole, credette che li facessero uscire, che la reclusione fosse terminata, e fece un movimento per alzarsi, ma la moglie del medico lo trattenne, Dove va, Non ha sentito, domandò lui, hanno detto ai ciechi di uscire, Sì, ma per andare a ritirare il cibo. Il ferito fece, Ah, demoralizzato, e di nuovo sentì il dolore rimescolargli le carni. Disse il medico, Restate qui, andrò io, Vengo con te, disse la moglie. Mentre stavano per uscire dalla camerata, uno del gruppo proveniente dall’altra ala domandò, Chi è costui, la risposta venne dal primo cieco, è medico, un medico degli occhi, Questa è la più bella che ho sentito in vita mia, disse l’autista, guarda un po’ se ci doveva toccare l’unico medico che non ci servirà a niente, Ci è toccato anche un autista che non ci porterà da nessuna parte, ribatté con sarcasmo la ragazza dagli occhiali scuri.
La cassa con il cibo era nell’atrio. Il medico chiese alla moglie, Guidami fino alla porta d’ingresso, A che scopo, Vado a dirgli che abbiamo una persona con una grave infezione e non ci sono medicine, Ricordati dell’avviso, Sì, ma forse davanti a un caso concreto, Ne dubito, Anch’io, ma è nostro dovere tentare. Sul pianerottolo la luce del giorno stordì la donna, e non perché fosse troppo intensa, nel cielo si muovevano nuvole scure, forse stava per piovere, In pochissimo tempo ho perduto l’abitudine al chiarore, pensò. Nello stesso istante un soldato gridò loro dal portone, Alt, tornate indietro, ho ordine di sparare, e subito dopo, con lo stesso tono, puntando l’arma, Sergente, qui ce ne sono alcuni che vogliono uscire, Non vogliamo uscire, negò il medico. Ve lo consiglio caldamente, disse il sergente mentre si avvicinava, e, spuntando dietro le grate del portone, domandò, Cosa c’è, Uno si è ferito a una gamba e presenta un’infezione conclamata, ci servono immediatamente antibiotici e altri medicinali, Gli ordini che ho sono molto chiari, uscire, non esce nessuno, entrare, solo cibo, Se l’infezione si aggrava, il che avverrà di certo, il caso può divenire rapidamente fatale, Non mi riguarda, Allora lo comunichi ai suoi superiori, Senta un po’, signor cieco, adesso gliela comunico io una cosa a lei, o ve ne tornate immediatamente là da dove siete venuti, o vi beccate una pallottola, Andiamo, disse la moglie, non c’è niente da fare, non è colpa loro, hanno una gran paura e obbediscono agli ordini, Non voglio credere che stia accadendo per davvero, è contrario a ogni principio umanitario, Farai meglio a crederci, perché non ti sei mai trovato davanti a una verità tanto evidente, Siete ancora lì, urlò il sergente, conterò fino a tre, se al tre non sarete scomparsi dalla mia vista state pur certi che non rientrerete più, uuuno, duuue, treee, ecco fatto, parole benedette, e rivolto ai soldati, Neanche se fosse mio fratello, senza spiegare a chi si riferiva, all’uomo che era andato a chiedere i medicinali o all’altro, dal la gamba infettata. Dentro il ferito domandò se avrebbero mandato le medicine, Come sa che sono andato a chiederle, domandò il medico, L’ho immaginato, lei è medico, Mi dispiace molto, Il che vuol dire che le medicine non arrivano, Infatti, Ah, bene.
Il cibo era stato calcolato giusto giusto per cinque persone. C’erano bottiglie di latte e biscotti, ma chi aveva calcolato le razioni si era dimenticato dei bicchieri, e non c’erano neanche piatti, né posate, probabilmente sarebbero arrivati con il pranzo. La moglie del medico andò a dare qual cosa da bere al ferito, ma questi vomitò. L’autista protestò che il latte non gli piaceva, chiedendo se non ci fosse un po’ di caffè. Alcuni, dopo aver mangiato, si coricarono di nuovo, il primo cieco portò la moglie a conoscere i posti, furono gli unici a uscire dalla camerata. Il commesso chiese di parlare col dottore, voleva sapere se questi, sulla malattia, si era già fatto un’opinione, Non credo la si possa definire in senso stretto una malattia, cominciò col precisare il medico, e poi, semplificando molto, riassunse quanto aveva scoperto sui libri prima di diventare cieco. Alcuni letti più avanti, l’autista ascoltava con attenzione, e quando il medico terminò il suo resoconto, disse, Si saranno ostruiti i canali che vanno dagli occhi al midollo spinale, ci scommetto che è così, Che animale, borbottò indignato il commesso, Chissà, sorrise il medico involontariamente, in realtà gli occhi non sono che lenti, obiettivi, è il cervello che vede realmente, proprio come l’immagine compare sulla pellicola, e se i canali si sono ostruiti, come ha detto quel signore, è lo stesso che un carburatore, se la benzina non ce la fa ad arrivarci il motore non funziona e la macchina non va, Niente di più semplice come vede, disse il medico al commesso di farmacia. E quanto tempo pensa, dottore, che dovremo rimanere qui, domandò la cameriera d’albergo, Per lo meno finché saremo incapaci di vedere, E per quanto tempo, Francamente penso che non lo sappia nessuno, è una cosa passeggera, o durerà per sempre, Magari lo sapessi. La cameriera sospirò e, dopo alcuni istanti, disse, Anch’io vorrei sapere che cosa è successo a quella ragazza, Quale ragazza, domandò il commesso, Quella dell’albergo, che impressione mi ha fatto, lì in mezzo alla stanza, nuda com’è venuta al mondo, portava solo un paio di occhiali scuri, e gridava che era cieca, sarà stata sicuramente lei ad attaccarmi la cecità. La moglie del medico guardò, vide la ragazza togliersi gli occhiali lentamente, celando il movimento, poi li infilò sotto il cuscino mentre domandava al ragazzino strabico, Vuoi un altro biscotto. Per la prima volta da quando era entrata qui dentro, la moglie del medico si sentì come se, a un microscopio, stesse osservando il comportamento di certi esseri che non potevano neanche sospettare la sua presenza, e questo le parve improvvisamente indegno, osceno, Non ho il diritto di guardare se gli altri non possono guardare me, pensò. Con mano tremante, la ragazza si mise alcune gocce di collirio. Avrebbe pur sempre potuto dire che non erano lacrime quello che le stava colando giù dagli occhi.
Quando, alcune ore dopo, l’altoparlante annunciò che si poteva andare a ritirare il pranzo, il primo cieco e l’autista si offrirono volontari per una missione in cui di fatto gli occhi non erano indispensabili, bastava il tatto. Le casse erano lontane dalla porta che collegava l’atrio al corridoio, per trovarle dovettero camminare a quattro zampe, spazzando il pavimento davanti a loro con un braccio teso, mentre l’altro fungeva da terza zampa, e non ebbero difficoltà a rientrare nella camerata solo perché la moglie del medico aveva avuto l’idea, prudentemente giustificata adducendo la propria esperienza, di strappare a strisce un copriletto e farne una specie di corda, un capo fissato alla maniglia esterna della porta della camerata mentre l’altro veniva legato di volta in volta alla caviglia di chi dovesse uscire per andare a ritirare da mangiare. Andarono i due uomini, arrivarono i piatti e le posate, ma il vitto continuava a essere per cinque, molto probabilmente il sergente al comando del picchetto di guardia non sapeva che c’erano altri sei ciechi, dal momento che dall’esterno del portone, pure stando attenti a ciò che stava accadendo all’interno della porta principale, solo casualmente, nell’ombra dell’atrio, si sarebbero viste passare le persone da un’ala all’altra. L’autista si offrì di andare a reclamare il cibo mancante, e si avviò da solo, non volle compagnia, Mica siamo cinque, siamo undici, urlò ai soldati, e lo stesso sergente rispose, State tranquilli, sarete molti di più, e lo disse con un tono che all’autista dovette sembrare di scherno, considerando le parole che pronunciò tornando in camerata, Era come se mi stesse prendendo in giro. Spartirono il cibo, cinque razioni divise per dieci, giacché il ferito continuava a non voler mangiare, chiedeva solo un po’ d’acqua, se per favore gli bagnavano le labbra. La sua pelle scottava. Siccome non riusciva a sopportare a lungo il contatto e il peso della coperta sulla ferita, di tanto in tanto scopriva la gamba, ma l’aria fredda della camerata lo obbligava, dopo un attimo, a coprirsi di nuovo, e così per ore. Gemeva a intervalli regolari, con una sorta di rantolo soffocato, come se il dolore, costante, continuo, fosse improvvisamente aumentato prima che lui riuscisse ad afferrarlo e a trattener lo al limite del sopportabile.
A metà pomeriggio entrarono altri tre ciechi, cacciati dall’altra ala. Una era l’impiegata dell’ambulatorio, che la moglie del medico riconobbe immediatamente, e gli altri, così aveva stabilito il destino, erano l’uomo con cui la ragazza dagli occhiali scuri si era incontrata nell’albergo e quel volgare poliziotto che l’aveva condotta a casa. Ebbero solo il tempo di raggiungere i letti e di sedervisi, a casaccio, l’impiegata dell’ambulatorio piangeva disperatamente, i due uomini tacevano, come se ancora non riuscissero a rendersi conto di cosa gli era capitato. Improvvisamente si udirono, provenienti dalla strada, grida confuse, ordini impartiti fra gli urli, un furioso schiamazzo. I ciechi della camerata voltarono tutti la faccia verso la porta, in attesa. Non potevano vedere, ma sapevano cosa sarebbe accaduto nei minuti seguenti. La moglie del medico, seduta sul letto accanto al marito, disse a bassa voce, Era inevitabile, l’inferno preannunciato sta iniziando. Lui le strinse la mano e mormorò, Non ti allontanare, da ora in poi non potrai fare niente. Le grida erano scemate, adesso si udivano rumori confusi nell’atrio, erano i ciechi, condotti in gregge, che si scontravano gli uni contro gli altri, si pigiavano nel vano delle porte, alcuni avevano perso l’orientamento e andarono a finire in altre camerate, ma per la maggior parte, inciampando, a grappoli o sparsi, agitando penosamente le mani come chi sta affogando, entrarono nella camerata come un turbine, quasi fossero sospinti da una rotatrice. Qualcuno cadde, fu calpestato. Imprigionati nella corsia stretta, i ciechi, a poco a poco, cominciarono a debordare negli spazi fra le brande, e lì, come un’imbarcazione che in mezzo a un temporale è riuscita finalmente a entrare in porto, prendevano possesso del loro personale ormeggio, che era il letto, e protestavano che non c’entrava più nessuno, che i ritardatari andassero a cercare altrove. Laggiù dal fondo, il medico urlò che c’erano altre camerate, ma quei pochi rimasti senza letto avevano paura di perdersi nel labirinto che s’immaginavano, sale, corridoi, porte chiuse, scale che si sarebbero rivelate solo all’ultimo momento. Alla fine capirono che lì non potevano restare, e, riguadagnando penosamente la porta da cui erano entrati, si avventurarono nell’ignoto. Come alla ricerca di un ultimo e ancora sicuro rifugio, i ciechi del secondo gruppo, quello di cinque, erano riusciti a occupare le brande che, fra loro e quelli del primo gruppo, erano rimaste vuote. Solo il ferito restò isolato, senza protezione, nel letto quattordici, lato sinistro.
Un quarto d’ora dopo, a parte un po’ di pianti, un po’ di lamentele, un po’ di rumori discreti di riordino, la calma, non la tranquillità, tornò nella camerata. Tutte le brande adesso erano occupate. Il pomeriggio stava per concludersi, le lampadine smorte parvero acquistare forza. Allora si udì la voce secca dell’altoparlante. Come era stato annunciato il primo giorno, stava ripetendo le istruzioni sul funzionamento delle camerate e le norme cui gli internati avrebbero dovuto obbedire, Al Governo rincresce di essere stato costretto a esercitare energicamente quello che considera suo diritto e dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che stiamo attraversando, eccetera, eccetera. Quando la voce tacque, si levò un coro indignato di proteste, Siamo rinchiusi, Moriremo tutti qui, Il diritto non esiste, Dove sono i medici che ci avevano promesso, ecco una novità, le autorità avevano promesso medici, assistenza, fors’anche una cura completa. Il medico non disse che, se avessero avuto bisogno di un medico, c’era lui. Non lo avrebbe detto mai più. A un medico non bastano le mani, un medico cura con farmaci, droghe, composti chimici, combinazioni di questo e di quello, e qui non ce n’è traccia, né c’è la speranza di ottenerne. Non aveva neanche gli occhi per notare un pallore, per osservare un rossore della circolazione periferica, tante volte, senza necessità di ulteriori e minuziosi esami, quei segnali esteriori equivalevano a una storia clinica completa, o la colorazione delle mucose e dei pigmenti, con altissima probabilità di far centro, Stavolta non la scampi. Siccome le brande vicine erano tutte occupate, la moglie non poteva più continuare a raccontargli ciò che succedeva, ma lui avvertiva l’ambiente pesante, teso, ormai ai limiti di un conflitto, che si era creato dopo l’arrivo degli ultimi ciechi. Perfino l’atmosfera della camerata sembrava ispessita, percorsa da odori pesanti, lenti, con improvvise correnti nauseabonde, Come sarà fra una settimana, si domandò, ed ebbe paura di immaginare che di lì a una settimana potessero essere ancora rinchiusi in quel posto, Ammettendo che non ci siano difficoltà nel rifornimento di cibo, e non è sicuro che non ve ne siano, dubito, per esempio, che là fuori sappiano in ogni momento quanti siamo qui dentro, qui si tratta di come si risolveranno i problemi igienici, e non parlo di come ci laveremo, ciechi da pochi giorni e senza l’aiuto di nessuno, o se le docce funzioneranno e per quanto tempo, ma parlo del resto, dei resti, basta una latrina intasata, una soltanto, e questo posto si trasforma in una cloaca. Si strofinò il viso con le mani, sentì l’asperità della barba di tre giorni, Meglio così, spero non abbiano la cattiva idea di mandarci lamette o forbici. Aveva in valigia tutto quanto gli poteva servire per farsi la barba, ma era consapevole che farsela sarebbe stato un errore, E dove, dove, non qui nella camerata, in mezzo a tutta questa gente, certo, potrebbe rasarmi lei, ma gli altri non tarderebbero ad accorgersene e troverebbero strano che ci sia qualcuno capace di prestare queste cure, e là dentro, nelle docce, con quella confusione, mio Dio, quanto ci mancano gli occhi, vedere, vedere, sia pur appena delle vaghe ombre, stare davanti a uno specchio, guardare una macchia scura diffusa e poter dire, Quella è la mia faccia, ciò che ha luce non mi appartiene.
Le proteste cessarono a poco a poco, comparve qualcuno proveniente dall’altra camerata a domandare se fosse avanzato un po’ di cibo, chi gli rispose fu l’autista di tassì, Neanche una briciola, mentre il commesso, per dimostrare un po’ di buona volontà, attenuò la perentoria negazione, Può darsi ne venga dell’altro. Non sarebbe venuto. Si fece buio. Dall’esterno, né cibo né parole. Si udirono degli urli nella camerata accanto, poi il silenzio, se qualcuno piangeva lo faceva sommessamente, il pianto non attraversava le pareti. La moglie del medico andò a vedere come stava il malato, Sono io, gli disse, e sollevò con cautela la coperta. La gamba aveva un aspetto spaventoso, tutta gonfia fino alla coscia, e la ferita, un cerchio nero dai margini violacei, sanguinolenti, si era molto allargata, come se la carne fosse stata respinta all’interno. Emanava un odore fetido e, al tempo stesso, dolciastro. Come si sente, domandò la moglie del medico, Grazie per essere venuta, Mi dica co me si sente, Male, Ha dolori, Sì, e no, Si spieghi meglio, Mi duole, ma è come se la gamba non fosse mia, sembra separata dal corpo, non so spiegarle, è un’impressione strana, come se me ne stessi qui sdraiato e vedessi la gamba dolermi, è a causa della febbre, Sarà, Adesso cerchi di dormire. La moglie del medico gli mise la mano sulla fronte, poi fece per ritirarsi, ma non ebbe neppure il tempo di dargli la buonanotte, il malato l’afferrò per un braccio e l’attirò verso di sé, costringendola ad avvicinare il viso, Io lo so che lei ci vede, disse a voce bassissima. La moglie del medico rabbrividì per la sorpresa e mormorò, Si sbaglia, dove è andata a pescarla questa idea, ci vedo come tutti quelli che si trovano qui dentro, Non cerchi di ingannarmi, so benissimo che lei ci vede, ma stia tranquilla, non lo dirò a nessuno, Dorma, dorma, Non ha fiducia in me, Certo che sì, Non si fida della parola di un ladro, Le ho detto di sì, Allora perché non mi dice la verità, Ne parliamo domani, adesso dorma, Sì, sì, domani, se ci arriverò, Non dobbiamo pensare al peggio, Io ci penso, o forse è la febbre che sta pensando per me. La moglie del medico tornò dal marito e gli sussurrò all’orecchio, La ferita ha un aspetto orribile, sarà cancrena, In così poco tempo, non mi sembra probabile, Comunque sia, sta molto male, E noi qui, disse il medico con un tono di voce volutamente udibile, non ci basta essere ciechi, è come se ci avessero legato mani e piedi. Dal letto quattordici, lato sinistro, il malato rispose, A me non mi lega nessuno, dottore.
Passarono le ore, uno dopo l’altro i ciechi si addormentarono. Alcuni si erano coperti anche la testa, come se desiderassero che l’oscurità, un’oscurità autentica, una nera oscurità potesse spegnere definitivamente quei soli offuscati in cui si erano trasformati i loro occhi. Le tre lampadine appese all’alto soffitto, fuori dalla loro portata, diffondevano sopra le brande una luce sporca, giallastra, che non riusciva neanche a creare delle ombre. Quaranta persone dormivano o tentavano disperatamente di addormentarsi, alcune sospiravano e mormoravano sognando, forse vedevano in sogno ciò che sognavano, forse dicevano, Se questo è un sogno, non voglio svegliarmi. I loro orologi erano tutti fermi, si erano dimenticati di caricarli o avevano pensato che non ne valesse la pena, solo quello della moglie del medico continuava a funzionare. Erano le tre del mattino passate. Più in là, molto lentamente, appoggiandosi sui gomiti, il ladro della macchina sollevò il busto. Non sentiva la gamba, c’era solo il dolore, il resto non gli apparteneva più. L’articolazione del ginocchio si era irrigidita. Rotolò con il corpo dalla parte della gam ba sana, che lasciò pendere fuori dal letto, poi, tenendosi la coscia con le mani, tentò di spostare la gamba ferita nello stesso senso. Come un branco di lupi improvvisamente risvegliati, i dolori accorsero da tutte le direzioni per rientrare subito dopo nel lugubre cratere cui si alimentavano. Appoggiandosi sulle mani, trascinò a poco a poco il corpo lungo il materasso, verso la corsia. Quando raggiunse l’alzata ai piedi del letto, dovette riposa re. Respirava con difficoltà, come se soffrisse di asma, il capo gli oscillava sulle spalle, a stento riusciva a reggerlo. Nel giro di qualche minuto il respiro si fece più regolare, e lui cominciò ad alzarsi lentamente, appoggiandosi sulla gamba sana. Sapeva che l’altra non gli sarebbe servita a niente, avrebbe dovuto trascinarsela dietro. Ebbe un capogiro, un tremore irreprimibile gli squassò il corpo, il freddo e la febbre gli fecero serrare i denti. Reggendosi alle sbarre dei letti, passando dall’uno all’altro come attraverso una rete, pian piano avanzò fra i ciechi addormentati. Si tirava appresso la gamba ferita come un sacco. Nessuno gli badò, nessuno gli domandò, Dove va a quest’ora, se lo avessero fatto avrebbe saputo cosa rispondere, Vado a pisciare, avrebbe detto, ma non voleva che fosse la moglie del medico a interpellarlo, lei non avrebbe potuto ingannarla, non avrebbe potuto mentirle, avrebbe dovuto dirle che cosa aveva in mente, Non posso continuare a marcire qui, riconosco che suo marito ha fatto il possibile, ma quando dovevo rubare una macchina io, mica lo andavo a chiedere a un altro di rubarla per me, ora la situazione è la stessa, sono io che devo andare, quando mi vedranno in questo stato si renderanno conto immediatamente che sto male, così mi mettono su un’ambulanza e via all’ospedale, ci sarà pure qualche ospedale riservato ai ciechi, uno in più non gli fa differenza, poi mi medicano la gamba, mi curano, ho sentito dire che si fa anche con i condannati a morte, se hanno un’appendicite li operano, e poi li ammazzano, perché muoiano in salute, quanto a me, se vogliono, possono pure riportarmi qui, non me ne importa. Continuò ad avanzare, serrando i denti per non gemere, ma non riuscì a reprimere un singulto straziante quando, arrivato all’estremità della fila, perse l’equilibrio. Aveva sbagliato il conteggio dei letti, se ne aspettava un altro, e invece c’era il vuoto. Caduto per terra, non si mosse finché non ebbe la certezza che nessuno si era svegliato al rumore della caduta. Poi pensò che quella posizione fosse decisamente adatta a un cieco, avanzando a quattro zampe avrebbe potuto trovare più facilmente la strada. Si trascinò così fino a raggiungere l’atrio, lì si fermò per pensare al procedimento da seguire, se magari era meglio chiamare dalla porta, o accostarsi al cancello approfittando della corda che era servita da corrimano e che certamente doveva esserci ancora. Sapeva benissimo che, se avesse chiamato da lì chiedendo aiuto, gli avrebbero ordinato immediatamente di tornare indietro, ma l’alternativa di avere come unico sostegno, dopo quello che, malgrado l’appoggio solido dei letti, aveva passato, una corda molle, oscillante, lo fece esitare. Dopo alcuni minuti ritenne di aver trovato la soluzione, Procedo gattoni, pensò, mi metto sotto la corda, ogni tanto alzo la mano per vedere se sono sulla strada giusta, è lo stesso che rubare una macchina, si trova sempre la maniera. All’improvviso, senza che lo avesse calcolato, la coscienza si svegliò e lo rimproverò aspramente di essere stato capace di rubare l’automobile a un povero cieco, Se adesso mi trovo in questa situazione, ribatté lui, non è perché gli ho rubato la macchina, ma perché l’ho accompagnato fino a casa, è stato questo il mio grande errore. La coscienza non era disposta a dibattiti casuistici, le sue ragioni erano semplici e chiare, Un cieco è sacro, un cieco non lo si deruba, Tecnicamen te parlando, non l’ho derubato, non aveva mica la macchina in tasca, né gli ho puntato una pistola in faccia, si difese l’accusato, Piantala con i sofismi, borbottò la coscienza, e vai dove devi andare.
L’aria fredda del primo mattino gli rinfrescò il viso. Come si respira bene qua fuori, pensò. Gli parve di notare che la gamba gli dolesse molto meno, ma non ne fu sorpreso, già prima, più di una volta, era accaduta la stessa cosa. Era sul pianerottolo e sterno, ben presto avrebbe raggiunto i gradini, Sarà più complicato, pensò, scendere con la testa in avanti. Alzò un braccio per accertarsi che la corda ci fosse ancora, e andò avanti. Proprio come aveva previsto, non era facile passare da un gradino all’altro, soprattutto per via della gamba, che non lo aiutava, e la dimostrazione la ebbe subito, quando, a metà scala, siccome una mano era scivolata su un gradino, il corpo crollò di lato e fu trascinato giù dal peso morto di quella maledetta gamba. I dolori tornarono istantaneamente, con le seghe, i trapani, i martelli, neanche lui sapeva come riuscì a non urlare. Per lunghi minuti rimase lì disteso bocconi, con la faccia per terra. Una raffica di vento, strisciante, gli fece battere i denti. Indosso non aveva altro che la maglietta e le mutande. La ferita era completamente a contatto col terreno, e lui pensò, Può infettarsi, era un pensiero stupido, non gli venne in mente che se la stava trascinando così dalla camerata, Beh, non ha importanza, mi medicheranno prima che s’infetti, pensò poi per tranquillizzarsi, e si mise di lato per raggiungere meglio la corda. Non la trovò subito. Si era dimenticato che si trovava in posizione perpendicolare alla corda quando era rotolato giù per la scala, ma l’istinto lo fece rimanere dov’era. Poi fu il ragionamento che lo guidò a sedersi e a muoversi lentamente fino a toccare con le reni il primo gradino, e finalmente, provando un sentimento esultante di vittoria, sentì la rugosità della corda sulla mano alzata. Probabilmente fu questo stesso sentimento che, subito dopo gli fece scoprire la maniera di spostarsi senza che la ferita sfiorasse il suolo, mettersi di spalle rispetto al portone e, usando le braccia a mo’ di stampelle, come un tempo facevano gli storpi, spostare, con piccoli movimenti, il corpo seduto. All’indietro, sì, perché in questo come in altri ca si tirare era ben più facile che spingere. La gamba, così, non soffriva tanto, e inoltre il dolce pendio del terreno, declinante verso l’uscita, aiutava. Quanto alla corda, non c’era pericolo di perderla, quasi la toccava con il capo. Si domandava se gli mancasse ancora molto per arrivare al portone, non era la stessa cosa muoversi all’impiedi, meglio ancora se con tutti e due i piedi, e avanzare a ritroso, con spostamenti di mezzo palmo o meno. Dimenticando per un istante di essere cieco, girò la testa come per accertarsi di quanto gli mancava ancora e si ritrovò davanti lo stesso biancore senza fondo. Sarà notte, sarà giorno, si domandò, beh, se fosse giorno mi avrebbero già visto, inoltre c’è stata solo una colazione, e molte ore fa. Lo sgomentavano lo spirito logico che stava scoprendo in se stesso, la rapidità e la giustezza dei ragionamenti, si vedeva diverso, un altro uomo, e se non fosse stato per questa scalogna della gamba sarebbe stato pronto a giurare di non essersi mai sentito tanto bene in vita sua. La schiena sbatté contro la parte inferiore, laminata, del portone. Era arrivato. Lì nella garitta per proteggersi dal freddo, al soldato di sentinella gli era parso di udire dei lievi rumori che non era riuscito a identificare, in tutti i modi non pensò che potessero provenire dall’interno, doveva essere stato il rapido fruscio degli alberi, un ramo che il vento faceva sfiorare leggermente sul cancello. Un altro rumore gli giunse d’improvviso alle orecchie, ma diverso, una botta, un colpo più precisamente, non poteva essere dovuto al vento. Nervoso, il soldato uscì dalla garitta col dito sul grilletto del fucile automatico e guardò in direzione del portone. Non vide nulla. Il rumore, però, si era ripetuto, più forte, adesso era simile a quello di unghie che raschiavano su una superficie rugosa. La lastra del portone, pensò. Fece un passo verso la tenda dove il sergente dormiva, ma lo trattenne il pensiero che se avesse dato un falso allarme ne avrebbe sentite delle belle, ai sergenti non piace essere svegliati, anche quando ce ne sia motivo. Guardò di nuovo verso il portone e aspettò, teso. Molto lentamente, nello spazio fra due sbarre verticali, come un fantasma, cominciò ad apparire una faccia bianca. La faccia di un cieco. La paura fece ghiacciare il sangue del soldato, e fu la paura a fargli puntare l’arma e sparare una raffica a bruciapelo.
Il fragore delle detonazioni fece spuntare quasi immediatamente dall’interno delle tende, mezzi vestiti, i soldati che componevano il picchetto a guardia del manicomio. Il sergente aveva già preso il comando, Cosa diavolo è stato, Un cieco, un cieco, balbettò il soldato, Dove, Lì, e con la canna del fucile indicò il portone, Non vedo niente, Era lì, l’ho visto io. I soldati avevano finito di equipaggiarsi e aspettavano in riga, con i fucili in mano. Accendete il faro, ordinò il sergente. Uno dei soldati salì sulla piattaforma del mezzo. Qualche secondo dopo la luce abbagliante illuminò il portone e la facciata dell’edificio. Non c’è nessuno, animale, disse il sergente, e si accingeva a proferire un altro bel po’ di amenità militari sullo stesso stile quando vide che sotto il portone si stava spandendo, nella luce violenta, una pozza nera. L’hai fatto fuori, disse. Poi, ricordandosi degli ordini rigorosi che gli erano stati dati, urlò, Fatevi indietro, questa roba è contagiosa. I soldati indietreggiarono, timorosi, ma continuarono a guardare la pozza di sangue che lentamente si spargeva negli interstizi fra i sassolini del marciapiede. Credi sia morto, domandò il sergente, Per forza, la raffica se l’è beccata in piena faccia, rispose il soldato, ora contento per l’ovvia dimostrazione della sua buona mira. In quel momento un altro soldato urlò nervosamente, Sergente, sergente, guardi lì. Nel pianerottolo della scala, in piedi, illuminati dalla luce bianca del proiettore, si vedevano dei ciechi, più di una decina, Fermi lì, strillò il sergente, un solo passo e faccio fuoco su tutti. Alle finestre dei palazzi di fronte alcune persone, risvegliate dagli spari, guardavano spaventate da dietro i vetri. Allora il sergente urlò, Quattro di voi, venite a prendere il corpo. Non potendo si vedere né contare, furono sei i ciechi che si mossero, Ho detto quattro, strillò il sergente istericamente. I ciechi si toccarono, si ritoccarono, due rimasero lì. Gli altri cominciarono a camminare lungo la corda.

6.

Dobbiamo vedere se c’è una pala o una zappa, qualsiasi cosa possa servire per scavare, disse il medico. Era mattina, a gran fatica avevano portato il cadavere nel recinto interno, lo avevano messo per terra, fra l’immondizia e le foglie morte degli alberi. Adesso bisognava sotterrarlo. Solo la moglie del medico sapeva in che stato si trovasse il morto, la faccia e il cranio devastati dalla scarica, tre fori di pallottola nel collo e nella regione esterna. Sapeva anche che in tutto l’edificio non c’era niente con cui poter scavare una fossa. Aveva percorso tutta l’area a loro destinata e non aveva trovato altro che una sbarra di ferro. Avrebbe agevolato un po’, ma non era sufficiente. E aveva visto, dietro le finestre chiuse del corridoio che proseguiva nell’ala riservata ai sospetti di contagio, più basse in quella parte dell’edificio, volti allarmati, di persone in attesa della propria ora, di quel momento inevitabile in cui avrebbero dovuto dire alle altre Sono diventato cieco, o di quando, se avessero tentato di nascondere l’accaduto, le avrebbe denunciate un gesto sbagliato, un movimento del capo alla ricerca di un’ombra, un inciampo ingiustificato in chi gli occhi ce li ha. Tutto ciò lo sapeva anche il medico, la frase che aveva pronunciato faceva parte della simulazione combinata fra loro due, da questo momento la moglie avrebbe quindi potuto dire, E se chiedessimo ai soldati di lanciarci una pala, L’idea è buona, proviamo, e tutti furono d’accordo, sì, era una buona idea, solo la ragazza dagli occhiali scuri non disse una parola su questa storia della zappa o pala, le sue parole, per il momento, si riassumevano a lacrime e lamenti, La colpa è mia, piangeva, ed era vero, non si poteva negare, ma è pur certo, se può servirle da consolazione, che se prima di ogni nostro atto ci mettessimo a prevederne tutte le conseguenze, a considerarle seriamente, anzitutto quelle immediate, poi le probabili, poi le possibili, poi le immaginabili, non arriveremmo neanche a muoverci dal punto in cui ci avrebbe fatto fermare il primo pensiero. I buoni e i cattivi risultati delle nostre parole e delle nostre azioni si vanno distribuendo, presumibilmente in modo alquanto uniforme ed equilibrato, in tutti i giorni del futuro, compresi quelli, infiniti, in cui non saremo più qui per poterlo confermare, per congratularci o chiedere perdono. D’altro canto c’è chi dice sia questa l’immortalità di cui tanto si parla, Sarà, ma quest’uomo è morto e bisogna sotterrarlo. Andarono dunque il medico e la moglie a parlamentare, la ragazza dagli occhiali scuri, sconsolata, li volle accompagnare. Perché la coscienza le doleva. Non appena comparvero sulla soglia della porta, un soldato urlò, Alt, e come se temesse che l’intimazione verbale, ancorché energica, non fosse recepita, sparò un colpo in aria. Spaventati, indietreggiarono nell’ombra protettiva dell’atrio, dietro i grossi battenti della porta aperta. Poi la moglie del medico avanzò da sola, dal punto in cui si trovava poteva vedere i movimenti del soldato, e ripararsi in tempo se fosse stato necessario, Non abbiamo niente con cui sotterrare il morto, disse, ci serve una pala. Al portone, ma al di là del punto in cui era caduto il cieco, comparve un altro militare. Era un sergente, ma non quello di prima, Cosa volete, urlò, Ci serve una pala, o una zappa, Non ce n’è, filate via, Dobbiamo sotterrare il corpo, Non sotterratelo, lasciatelo lì a marcire, Se lo lasciamo lì contaminerà l’atmosfera, Che la contamini pure e buon pro’ vi faccia, L’atmosfera non è immobile, tanto sta qui quanto arriva fin lì. La pertinenza dell’argomentazione costrinse il militare a riflettere. Era venuto a sostituire l’altro sergente, che era diventato cieco e immediatamente era stato portato dove venivano concentrati gli infermi appartenenti alle forze armate di terra. Inutile dire che anche l’aviazione e la marina disponevano, ciascuna, di proprie installazioni, ma di minor dimensione e importanza, essendo gli effettivi in forza a queste armi più ridotti. Quella donna ha ragione, riconsiderò il sergente, in un caso del genere non c’è dubbio che le precauzioni sono sempre poche. Come misura preventiva, due soldati, muniti di maschere antigas, avevano già versato sul sangue due interi bottiglioni di ammoniaca, i cui vapori facevano ancora lacrimare il personale e irritavano le mucose della gola e del naso. Infine il sergente dichiarò, Vedrò cosa si può rimediare, E il cibo, gli ricordò la moglie del medico approfittando dell’occasione, Il cibo non è ancora arrivato, Solo dalla nostra parte ci sono già più di cinquanta persone, abbiamo fame, quello che mandate non basta, Con questa faccenda del cibo l’esercito non c’entra, Qualcuno deve pur risolvere la situazione, e il governo si è impegnato a nutrirci, Tornate dentro, non voglio vedere nessuno a quella porta, La zappa, ripeté urlando la moglie del medico, ma il sergente se n’era andato. Era mattina inoltrata quando si udì la voce dell’altoparlante nella camerata, Attenzione, attenzione, gli internati si rianimarono, pensarono fosse l’annuncio del cibo, invece no, si trattava della zappa, Qualcuno la venga a prendere, ma niente gruppi, esce soltanto uno, Vado io, che ho già parlato con loro prima, disse la moglie del medico. Appena uscita sul pianerottolo esterno, vide la zappa. Dalla posizione e dalla distanza a cui si trovava, più vicino al portone che alla scala, dovevano averla lanciata, Non mi posso dimenticare di essere cieca, pensò la moglie del medico, Dov’è, domandò, Scendi la scala, ti guido io, rispose il sergente, molto bene, adesso cammina in questa direzione, così, così, alt, voltati un po’ a destra, no, a si nistra, meno, un po’ meno, adesso avanti, se non devii ci sbatterai il naso contro, fuoco, fuocherello, merda, ti ho detto di non deviare, acqua, acqua, fuocherello di nuovo, fuoco, fuocone, ecco, adesso fai mezzo giro e ti guido di nuovo io, non restartene lì come un’asina alla noria, girati, se no vieni a sbattere contro il portone, Non ti preoccupare, pensò lei, arriverò fino alla porta in linea retta, in fin dei conti non fa differenza, quand’anche dovessi sospettare che non sono cieca, non me ne importa niente, mica verrai dentro a prendermi. Si mise la zappa in spalla, come uno zappatore diretto al lavoro, e camminò in direzione della porta senza deviare di un passo, Sergente, ha visto, esclamò uno dei soldati, sembra addirittura che gli occhi ce li abbia, I ciechi apprendono in fretta a orientarsi, spiegò, convinto, il sergente.
Fu laborioso scavare la fossa. La terra era dura, compatta, c’erano radici a un palmo dal suolo. Scavarono a turno l’autista, i due poliziotti e il primo cieco. Davanti alla morte, quel che ci si aspetta dalla natura è che i rancori perdano forza e veleno, certo, è vero, si dice anche che odio vecchio non si consuma, e prove non ne mancano nella letteratura e nella vita, ma in fondo questo, a ben dire, non era odio, e neanche vecchio, infatti cosa conta il furto di un’automobile davanti al morto che l’ha rubata, e tanto meno nel misero stato in cui si trova, mica c’è bisogno degli occhi per sapere che questa faccia non ha più naso né bocca. Non riuscirono a scavare più di tre palmi. Se il morto fosse stato grasso, gli sarebbe rimasta fuori la pancia, ma il ladro era magro, un autentico baccalà, peggio ancora dopo il digiuno di questi giorni, nella fossa ce ne sarebbero stati dentro due come lui. Non ci furono preghiere. Gli si potrebbe mettere una croce, disse la ragazza dagli occhiali scuri, fu il rimorso a farla parlare, ma nessuno dei presenti aveva notizia di cosa il defunto pensasse in vita di queste storie di Dio e della religione, meglio tacere, ammesso che un diverso comportamento sia mai giustificato dinanzi alla morte, inoltre c’è da considerare che fare una croce è molto meno facile di quanto sembri, per non dire di quanto avrebbe resistito, con tutti questi ciechi che non vedono dove mettono i piedi. Tornarono nella camerata. Nei posti più frequentati, purché non sia all’aperto, come nel recinto, ormai non ci si perde più, con un braccio teso in avanti e le dita che si muovono come antenne di insetti si arriva dappertutto, è addirittura probabile che nei ciechi più dotati non tardi a svilupparsi quella che definiamo come visione frontale. La moglie del medico, per esempio, è straordinario come riesca a muoversi e orientarsi in questo vero e proprio rompicapo di sale, vani e corridoi, come sappia svoltare un angolo al punto giusto, come si fermi davanti a una porta e la apra senza esitazione, come non abbia bisogno di contare i letti per arrivare al suo. Adesso è seduta su quello del marito, con cui parla, sottovoce come al solito, si vede che sono persone educate, e hanno sempre qualche cosa da dirsi, non sono mica come l’altra coppia, il primo cieco e sua moglie, che dopo quelle commoventi effusioni quando si sono ritrovati quasi non hanno più parlato, ma in loro, probabilmente, l’attuale tristezza ha prevalso sul precedente amore, con il tempo si abitueranno. Chi non si stanca di ripetere che ha fame è il ragazzino strabico, malgrado la ragazza da gli occhiali scuri si sia praticamente tolta il pane di bocca per darlo a lui. Da molte ore il fanciullo non chiede della mamma, ma certo tornerà a sentirne la mancanza dopo aver mangiato, quando il corpo si sarà liberato dalle brutture egoistiche che derivano dalla semplice ma imperiosa necessità di nutrirsi. O per via di quanto era accaduto all’alba, o per motivi estranei alla nostra volontà, la verità è che le casse con la colazione del mattino non erano arrivate. Adesso si sta avvicinando l’ora di pranzo, è qua si l’una all’orologio che la moglie del medico ha appena consultato celatamente, non c’è niente di strano, quindi, se l’impazienza dei succhi gastri ci ha indotto un po’ di ciechi, sia di quest’ala che dell’altra, ad andare ad aspettare nell’atrio l’arrivo del cibo, e questo per due buonissime ragioni, quella pubblica, di alcuni, perché in questo modo si guadagnerebbe tempo, quella riservata, di altri, per ché si sa che chi prima arriva meglio si serve. In tutto, non saranno meno di una decina i ciechi attenti al rumore che farà il portone esterno quando lo apriranno, ai passi dei soldati che devono portare quelle benedette casse. A loro volta, temendo una subitanea cecità che potesse derivare dall’imme diata prossimità con i ciechi in attesa nell’atrio, i contagiati dell’ala sinistra non si sono azzardati a uscire, ma alcuni stanno spiando dallo spiraglio della porta, ansiosi che arrivi il loro turno. Il tempo passava. Stanchi di aspettare, alcuni ciechi si erano seduti per terra, poi due o tre rientrarono nelle camerate. Fu poco dopo che si udì il cigolio inconfondibile del portone. Eccitati, i ciechi, pigiandosi gli uni addosso agli altri, cominciarono a muoversi nel la direzione in cui, dai suoni esterni, calcolavano che stesse la porta, ma, all’improvviso, colti da una vaga inquietudine che non avrebbero avuto il tempo di definire e spiegare, si fermarono e poi confusamente retrocessero, mentre già cominciavano ad avvertirsi distintamente i passi dei soldati che portavano il cibo e della scorta armata che li accompagnava.
Ancora sotto l’impressione prodotta dal tragico avvenimento della notte, i soldati che trasportavano le vettova glie avevano stabilito di non lasciarle in prossimità delle porte che davano accesso alle ali, come più o meno avevano fatto prima, le avrebbero invece mollate nell’atrio, e addio, buon appetito, Che se la sbrighino loro, avevano detto. L’offuscamento prodotto dall’intensa luce esterna e la brusca transizione nella penombra dell’atrio impedirono loro, sul primo momento, di vedere il gruppo di ciechi. Li videro subito dopo. Strillando per la paura, abbandonarono le casse per terra e uscirono come pazzi dalla porta. I due soldati della scorta, che aspettavano sul pianerottolo, reagirono in maniera esemplare davanti al pericolo. Dominando, Dio solo sa come e perché, una legittima paura, avanzarono fino alla soglia della porta e vuotarono i caricatori. I ciechi cominciarono a cadere uno sull’altro, mentre crollavano al suolo venivano colpiti da altre pallottole che ormai erano un puro spreco di munizioni, fu tutto in credibilmente lento, un corpo, un altro corpo, sembrava non finissero più di cadere, come a volte si vede nei film e alla televisione. Se mai ancora un soldato dovesse dar conto delle pallottole che spara, questi potrebbero giurare sulla bandiera di aver agito per legittima difesa, e per giunta anche per difesa dei loro compagni disarmati che erano in missione umanitaria e all’improvviso si erano visti mi nacciati da un gruppo di ciechi numericamente superiore. Indietreggiarono correndo all’impazzata verso il portone, coperti dai fucili che gli altri soldati del picchetto puntavano tremanti fra le sbarre di ferro, come se i ciechi rimasti vivi fossero stati in procinto di compiere una sortita di vendetta. Illividito dallo spavento, uno di quelli che avevano sparato diceva, Là dentro non ci torno neanche se mi ammazzano, e infatti non ci tornò. Di punto in bianco, quello stesso giorno, verso la fine del pomeriggio, all’ora della consegna andò ad aumentare di uno il numero dei ciechi, fortuna sua che era dell’esercito perché, altrimenti, sarebbe rimasto lì a far compagnia ai ciechi borghesi, colleghi di quelli che aveva ammazzato a fucilate, e Dio sa cosa gli avrebbero fatto. Il sergente aggiunse poi, La cosa migliore sarebbe lasciarli morire di fame, morta la bestia addio veleno. Come sappiamo, non manca chi lo abbia detto e pensato più volte, per fortuna un prezioso residuo di senso umanitario a questo gli fece dire, D’ora in poi lasceremo il cibo a metà strada, che se lo vengano a prendere loro, noi li teniamo d’occhio e al minimo movimento sospetto, fuoco. Si diresse al comando, collegò il microfono e, riunendo le parole come meglio poté, ricorrendo al ricordo di altre parole analoghe ascoltate in occasioni più o meno simili, disse, All’esercito rincresce di essere stato costretto a reprimere con le armi un moto sedizioso responsabile della creazione di una si tuazione di rischio imminente, della quale non ha avuto alcuna colpa direttamente o indirettamente, e avvisa che da oggi in poi gli internati andranno a ritirare il cibo fuori dall’edificio, essendo avvertiti fin d’ora che subiranno le conseguenze qualora si ma nifesti un tentativo di alterare l’ordine, com’è accaduto adesso e com’era accaduto la notte scorsa. Fece una pausa, non sapendo molto bene come fos se conveniente concludere, si era dimenticato le parole appropriate, che sicuramente c’erano, seppe solo ripetere, Non è stata colpa nostra, non è stata colpa nostra.
Dentro l’edificio il fragore degli spari, rumorosamente ripercossi nello spazio circoscritto dell’atrio, aveva provocato sgomento. In un primo momento si pensò che i soldati avrebbero fatto irruzione nelle camerate sparando a raffica su qualsiasi cosa avessero trovato, il governo aveva cambiato idea, aveva optato per la liquidazione fisica in massa, ci fu chi s’infilò sotto i letti, alcuni, per la paura, non si mossero, certuni forse avevano pensato che era meglio così, se la salute è poca tanto vale non averne, e se c’è da morire, meglio farlo alla svelta. I primi a reagire furono i contagiati. Avevano cominciato col fuggire quando era iniziato il fuoco, ma poi il silenzio li incoraggiò a tornare indietro, e si avvicinarono di nuovo alla porta che dava accesso all’atrio. Videro i corpi ammucchiati, il sangue sinuoso dilagare lentamente sul pavimento, come se fosse vivo, e le casse con il cibo. La fame li spin se fuori, l’agognato nutrimento era lì, è vero che era destinato ai ciechi, secondo il regolamento il loro lo avrebbero portato dopo, ma ora chi se ne fregava del regolamento, nessuno ci vede, e il lume che precede illumina due volte, lo hanno già detto gli antichi di ogni tempo e luogo, e gli anti chi non erano mica degli idioti in queste faccende. La fame, però, ebbe la forza di farli avanzare solo di tre passi, poi si intromise la ragione e li avvertì che il pericolo era lì in attesa degli imprudenti, in quei corpi senza vita, soprattutto in quel sangue, chi poteva sapere che vapori, che emanazioni, che velenosi miasmi magari non stessero già liberandosi dalla car ne sfracellata dei ciechi. Sono morti, non possono far niente, disse qualcuno, l’intenzione era di tranquillizzare se stesso e gli altri, ma fu peggio l’averlo detto, è vero, i ciechi erano lì morti, non potevano muoversi, notate, non si muovono e non respirano, ma chi ci dice che questa cecità bianca non sia proprio un male dello spirito, e se, mettiamo per ipotesi, lo è, gli spiriti di quei ciechi non saranno mai stati tanto liberi come adesso, fuori dai corpi, e quindi più liberi di fare ciò che vogliono, soprattutto il male, che, come tutti sanno, è sempre stato il più facile da compiere. Ma le casse del cibo, lì in mostra, attraevano irresistibilmente gli occhi, hanno un peso simile le ragioni dello stomaco, non badano a niente, anche quando è per il suo bene. Da una delle casse si spandeva un liquido bianco che lentamente si andava avvicinando al lago di sangue, aveva tutta l’apparenza di essere latte, è un colore che non inganna. Più coraggiosi, o più fatalisti, non sempre la distinzione è facile, due contagiati avanzarono, e stavano già per toccare con le mani avide la prima cassa quando sulla soglia della porta che dava nell’altra ala comparvero alcuni ciechi. Può tanto l’immaginazione, e in circostanze morbose come questa pare possa tutto, che per i due incursori fu come se i morti, all’improvviso, si fossero rialzati da terra, ciechi come lo erano prima, senza dubbio, ma molto più pericolosi, perché senza dubbio in citati dallo spirito di vendetta. In dietreggiarono prudentemente e in silenzio verso l’ingresso della loro ala, poteva darsi che i ciechi cominciassero con l’occuparsi dei morti, come del resto dettavano la carità e il rispetto, o se no, che lasciassero lì, non avendola vista, qualcuna delle casse, per quanto piccola, in verità i contagiati non erano poi molti, forse la soluzione migliore era proprio quella, di chiedere loro Per favore, abbiate compassione, lasciateci almeno una cassettina, magari va a finire che oggi non ci portano altro cibo, dopo quello che è successo. I ciechi si muovevano da ciechi quali erano, a tentoni, inciampando, trascinando i piedi, eppure, come se si fossero organizzati, seppero ripartire i compiti efficacemente, alcuni, guazzando nel sangue appiccicoso e nel latte, cominciarono immediatamente a recuperare e trasportare i cadaveri nel recinto, altri si occuparono delle casse, una dopo l’altra, le otto che erano state abbandonate dai soldati. Fra i ciechi c’era una donna che dava l’impressione di trovarsi contemporaneamente dappertutto, aiutando a caricare, comportandosi come se guidasse gli uomini, cosa evidentemente impossibile per una cieca, e più di una volta, o per caso o di proposito, si girò verso l’ala dei contagiati, come se li potesse vedere o ne avvertisse la presenza. In poco tempo l’atrio rimase vuoto, nessun altro segno se non la grande macchia del sangue, e quell’altra piccola che la sfiorava, bianca, del latte che si era versato, e in più solo le tracce dei piedi, orme rosse o semplicemente umide. I contagiati chiusero la porta rassegnati e andarono in cerca di qual che briciola, tale era l’avvilimento che uno di essi arrivò al punto di dire, e ciò dimostra quanto fossero disperati, Se proprio dobbiamo diventare ciechi, se è questo il nostro destino, tanto varrebbe trasferirci subito, almeno avremmo di che mangiare, Forse i soldati ci porteranno la nostra parte, disse qualcuno, Ha fatto il militare, domandò un altro, No, Infatti, me lo immaginavo.
Tenendo conto che i morti appartenevano all’una e all’altra, si riunirono gli occupanti della prima e della seconda camerata, con l’obiettivo di decidere se mangiare prima e sotterrare dopo i cadaveri, o viceversa. Nessuno sembrava interessato a sapere chi era morto. Cinque di essi si erano si stemati nella seconda camerata, si ignora se si conoscessero da prima o, in caso negativo, se avessero avuto tempo e voglia per scambiarsi presentazioni e sfoghi. La moglie del medico non ricordava di averli visti quando erano arrivati. I rimanenti quattro, sì, quelli li conosceva avevano dormito insieme a lei, per modo di dire, sotto lo stesso tetto, benché di uno non sapesse altro, e come avrebbe potuto saperlo, un uomo che si rispetti non si mette lì a parlare di faccende intime con la prima persona che gli capiti, come del fatto di essere stato in una camera d’albergo a far l’amore con una ragazza dagli occhiali scuri, alla quale, a sua volta, ammesso che si tratti di questa qui, non passa neanche per la testa di essere stata e di essere ancora tanto vicina a chi le ha fatto vedere tutto bianco. L’autista del tassì e i due poliziotti erano gli altri morti, tre uomini robusti, capaci di badare a se stessi, le cui professioni consistevano, ancorché in modo distinto, nel badare agli altri, e in definitiva eccoli lì, falciati crudelmente nel fiore della vita, in attesa di destinazione. Dovranno attendere che questi che sono rimasti finiscano di mangiare, non per via del solito egoismo dei vivi, ma perché a qualcuno è venuto in mente che sotterrare nove corpi in quel terreno duro e con un’unica zappa era un lavoro che sarebbe durato per lo meno fino all’ora di cena. E siccome non sarebbe stato ammissibile che i volontari animati da buoni sentimenti stessero lì a lavorare mentre gli altri si riempivano la pancia, fu deciso di rinviare a dopo i morti. Il cibo era già suddiviso in porzioni singole, quindi facile da distribuire, a te, a te, finché finiva. Ma l’ansia di un certo numero di ciechi meno illuminati venne a complicare ciò che in normali circostanze sarebbe stato comodo, benché un giudizio sereno e libero ci consigli di ammettere che gli eccessi che si verificarono erano in parte motivati, basterà rammentare, per esempio, che non si poteva sapere in partenza se il cibo sarebbe bastato per tutti. In verità, chiunque comprenderà come non sia facile contare ciechi né ripartire razioni senza occhi che li possano vedere, le razioni e i ciechi. Si aggiunga che alcuni occupanti della seconda camerata, con più che censurabile disonestà, vollero far credere di essere in maggior numero di quanti fossero di fatto. Servì, come sempre, e infatti ci sta apposta, la moglie del medico. Poche parole pronunciate a tempo sono sempre state in grado di risolvere difficoltà che un discorso profuso non farebbe altro che aggravare. Malintenzionati e cattivi d’animo furono anche quelli che non solo tentarono, ma riuscirono a ricevere il cibo due volte. La moglie del medico si accorse dell’azione riprovevole, ma ritenne prudente non denunciare l’abuso. Non voleva neanche pensare alle conseguenze che sarebbero derivate dalla rivelazione che lei non era cieca, il minimo che le sarebbe potuto accadere sarebbe stato di vedersi trasformata in serva di tutti, il massimo che forse l’avrebbero tramutata in schiava di al cuni. L’idea, di cui si era parlato all’inizio, di designare un responsabile per ogni camerata, avrebbe potuto, chissà, contribuire a risolvere questi frangenti e altri disgraziatamente anche peggiori, a condizione, però, che l’autorità di quel responsabile, certamente fragile, certamente precaria, certamente messa di continuo in causa, fosse chiaramente esercitata a favore di tutti e come tale riconosciuta dalla maggioranza. Se non ci riusciremo, pensò, finiremo per ammazzarci a vicenda. Si ripromise di parlare di questi delicati argomenti al marito e con tinuò a distribuire le razioni.
Chi per indolenza, chi perché di stomaco delicato, nessuno ebbe voglia, dopo mangiato, di andare a esercitare l’ufficio di becchino. Quando il medico, considerandosi più obbligato degli altri per la professione, disse di malavoglia, Allora, andiamo a sotterrarli, non si presentò un solo volontario. Distesi sui letti, i ciechi volevano piuttosto esser lasciati lì a condurre a buon fine la breve digestione, alcuni si addormentarono immediatamente, e non c’era da stupirsene, dopo gli spaventi e gli scossoni per cui erano passati, il corpo, benché tanto parcamente alimentato, si abbandonava alla mollezza della chimica digestiva. Più tardi, ormai verso il crepuscolo, quando le lampadine smorte, per la graduale diminuzione della luce naturale, parvero acquistare un po’ di forza, mostrando contemporaneamente, pur essendo tanto deboli, quel poco a cui potevano servire, il medico, accompagnato dalla moglie, convinse due uomini della sua camerata ad andare con lui nel recinto, se non altro, disse, per fare il bilancio del lavoro che avrebbe dovuto esser fatto e separare i corpi ormai rigidi, dal momento che si era deciso che ciascuna camerata avrebbe sotterrato i propri. Il vantaggio di cui godevano questi ciechi era quello che si potrebbe definire l’illusione della luce. In verità, per loro non faceva differenza che fosse giorno o notte, crepuscolo del mattino o dell’imbrunire, silente alba o rumoroso mezzodì, i ciechi erano sempre circondati da uno splendente biancore, come il sole nella nebbia. Per costoro la cecità non significava vivere banalmen te circondati da tenebre, ma all’interno di uno splendore luminoso. Quando il medico prese la cantonata di dire che avrebbero separato i corpi, il primo cieco, che era uno fra quelli che avevano consentito ad aiutarlo, volle che gli spiegassero come avrebbero potuto riconoscerli, domanda logica da cieco che mise in imbarazzo il medico. Questa volta la moglie ritenne di non dover accorrere in suo aiuto, se lo avesse fatto si sarebbe denunciata. Il medico se la cavò elegantemente col radicale metodo del passo avanti, cioè riconoscendo l’errore. Col tono di chi sorride di se stesso, disse, Ci si abitua talmente ad avere gli occhi che ancora si crede di poterli usare anche quando non servono più a niente, effettivamente sappiamo solo che ce ne sono quattro dei nostri, l’autista di tassì, i due poliziotti e un altro che stava anche lui con noi, la soluzione è quindi di pescare a caso quattro corpi, sotterrarli come si deve, e così adempiamo al nostro obbligo. Il primo cieco fu d’accordo, il compagno pure, e ripresero, alternandosi, a scavare le fosse. Non avrebbero mai saputo questi assistenti, essendo ciechi, che i cadaveri sotterrati, senza eccezione, furono proprio quelli di cui, dubitanti, avevano parlato, e non sarebbe neanche necessario dire co me agì quello che parve il caso, la mano del medico, guidata dalla mano della moglie, afferrava una gamba o un braccio, e lui doveva solo dire, Questo. Avevano già sotterrato due corpi quando comparvero infine, provenienti dalla camerata, tre uomini intenzionati ad aiutare, è molto probabile che non lo avrebbero fatto se qualcuno avesse detto loro che ormai era notte fonda. Psicologicamente, anche se uno è cieco, dobbiamo riconoscere che c’è una gran bella differenza tra lo scavare sepolture alla luce del giorno e dopo che il sole è tramontato. Nel momento in cui entravano nella camerata, sudati, sporchi di terra, ancora appiccicato alle narici il primo odore dolciastro della decomposizione, la voce dell’altoparlante stava ripetendo le già note istruzioni. Non ci fu alcun riferimento a quanto era avvenuto, non si parlò di spari né di ammazzati a bruciapelo. Avvisi come Chi abbandonerà l’edificio senza autorizzazione verrà immediatamente passato per le armi, oppure Gli internati sotterreranno senza formalità il cadavere nel recinto, acquistavano adesso, grazie al la dura esperienza della vita, maestra suprema di tutte le discipline, pieno significato, mentre quello che prometteva cibo tre volte al giorno di veniva un grottesco sarcasmo o un’ironia ancor più difficile da sopportare. Quando la voce tacque, il medico, da solo perché cominciava a conoscere tutti gli angoli dell’edificio, andò fino alla porta dell’altra camerata per informare, I nostri sono sotterrati, Se ne avete sotterrato alcuni, potevate anche sotterrare gli altri, rispose dall’interno una voce di uomo, L’accordo era che ogni camerata avrebbe sotterrato i propri morti, ne abbiamo contati quattro e li abbiamo sotterrati, Va bene, domani ci occuperemo dei nostri, disse un’altra voce maschile, e poi, cambiando tono, Non è mica arrivato dell’altro cibo, domandò, No, rispose il medico, Ma l’altoparlante dice tre volte al giorno, Dubito che rispettino sempre la promessa, Allora sarà necessario razionare i generi alimentari a mano a mano che arrivano, disse una voce di donna, Mi sembra una buona idea, se volete domani ne parliamo, D’accordo, disse la donna. Il medico si stava ritirando quando udì la voce dell’uomo che aveva parlato per primo, Lo vedremo chi comanda. Si fermò in attesa che qualcuno rispondesse, lo fece la stessa voce femminile, Se non ci organizziamo sul serio, comanderanno la fame e la paura, è già una vergogna che non siamo andati insieme a loro a sotterrare i morti, Perché non vai a sotterrarli tu, visto che sei tanto furba e saputella, Da sola non posso, ma sono pronta ad aiutare, Non vale la pena di discutere, intervenne la seconda vo ce di uomo, domattina ce ne occuperemo. Il medico sospirò. La convivenza sarebbe stata difficile. Si stava incamminando verso la camerata quando sentì una pressante necessità di evacuare. Nel punto in cui si trovava, non era sicuro di essere capace di arrivare alle latrine, ma decise di avventurarsi. Sperava che qualcuno avesse avuto almeno il pensiero di portar vi la carta igienica che era arrivata insieme al cibo. Sbagliò strada due volte, angosciato perché la necessità era sempre più pressante, ed era ormai arrivato agli sgoccioli quando poté finalmente tirarsi giù i pantaloni e accovacciarsi nel gabinetto alla turca. Il fetore lo asfissiava. Aveva l’impressione di aver calpestato qualcosa di molle, gli escrementi di qualcuno che non aveva azzeccato il buco del gabinetto o che aveva deciso di liberarsi senza badare ad alcun tipo di rispetto. Tentò di immaginare come potesse essere il posto in cui si trovava, per lui era tutto bianco, luminoso, splendente, che le pareti e il pavimento lo erano non poteva vederlo, e assurdamente si ritrovò a concludere che la luce e il biancore, lì, puzzavano. Impazziremo per l’orrore, pensò. Poi volle pulirsi, ma carta non ce n’era. Tastò la parete dietro di sé, dove avrebbero dovuto esserci i suppor ti dei rotoli o qualche chiodo su cui, in mancanza di meglio, erano stati magari infilati dei pezzi di carta qualunque. Niente. Si sentì misero, sventurato che più non si poteva, lì, con le gambe arcuate, a tenersi i pantaloni che sfioravano il pavimento schifoso, cieco, cieco, cieco, e senza riuscire a dominarsi cominciò a piangere silenziosamente. Sondando il terreno, fece alcuni passi e andò a sbattere contro la parete di fronte. Tese un braccio, tese l’altro, finalmente trovò una porta. Udì i passi strascicati di qualcuno che pure doveva andare in cerca dei cessi, inciampando, Dove sarà questa merda, mormorava con voce neutra, come se, in fondo, gli fosse indifferente il saperlo. Passò a due palmi senza accorgersi dell’altra presenza, ma non aveva alcuna importanza, la situazione non arrivò a farsi indecente, per la verità lo sarebbe stata, un uomo in quella posizione, scomposto, ma all’ultimo istante, mosso da uno sconcertante senso del pudore, il medico si era tirato su i pantaloni. Poi li tirò giù di nuovo, quando ritenne di essere solo, ma non aveva fatto in tempo, sapeva di essere sporco, sporco come non ricordava di esser mai stato in vita sua. Ci sono molti modi di diventare un animale, pensò, questo è solo il primo. Però non poteva lamentarsi molto, almeno lui aveva ancora qualcuno che lo avrebbe pulito di buon grado.
Sdraiati sulle brande, i ciechi aspettavano che il sonno avesse compassione della loro tristezza. Discretamente, come se ci fosse pericolo che gli altri potessero assistere al misero spettacolo, la moglie del medico aveva aiutato il marito a risistemarsi meglio che poteva. Adesso regnava un dolente silenzio, da ospedale, quando i malati dormono, e soffrono dormendo. Seduta, lucida, la moglie del medico guardava i letti, le sagome tetre, il pallore di un volto, un braccio che si era mosso nel sogno. Si domandava se sarebbe mai arrivata a diventare cieca come loro, quali ragioni inesplicabili l’avevano preservata fino ad allora. Con un gesto stanco, portò le mani al viso per scostare i capelli e pensò, Finiremo per puzzare tutti. In quel momento iniziarono a udirsi dei sospiri, dei gemiti, dei gridolini prima soffocati, suoni che sembravano parole, che avrebbero dovuto esserlo, ma il cui significato si perdeva nel crescendo che le andava trasformando in grido, in ansito, infine in rantolo. Qualcuno protestò dal fondo, Porci, siete dei porci. Non lo erano, erano solo un uomo cieco e una donna cieca che probabilmente non avrebbero mai saputo l’uno dell’altro niente di più.