martedì 3 agosto 2021

FELICI I FELICI Yasmina Reza


Copertina Felici i felici

FELICI I FELICI

Yasmina Reza
"Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell'amore. Felici i felici»: le due ultime «beatitudini» di Borges, che
Yasmina Reza inscrive sulla soglia di questo romanzo, ci indicano la via per penetrare nel fitto intreccio delle vite che lo popolano. Perché la felicità – nell'a­more o nell'assenza di a­more, all'inter­no di una coppia o al di fuori di ogni legame – è un talento: e di tutti i personaggi che a turno consegnano al lettore confessioni a volte patetiche, a volte grottesche, a volte atrocemente comiche, si direbbe che quasi nessuno lo possegga. In un sottile gioco di echi, di risonanze, di contrappunti – tra amori inaciditi e rancori mai sopiti, illusioni spezzate e fughe nel delirio –, le voci che si avvicendano, quasi incalzandosi, tessono un ordito i cui fili (tenui in alcuni casi,
in altri pesanti come catene) collegano molteplici destini, tutti segnati dall'impervia difficol­tà del­l'incontro con l'altro. Con una scrittura di chirurgica precisione, capace di muoversi tra i registri più vari, in un susseguirsi di scene in cui sempre lampeggia il genio della donna di teatro, Yasmina Reza è abilissima nel far affiorare, appena sotto la superficie smaltata delle apparenze, solitudine e violenza, disperazione e risentimento; e riesce a condurre la ronde dei suoi personaggi – mogli inquiete e mariti perplessi, amanti
insoddisfatte e libertini mediocri, giovani in fuga dalla vita e vecchi abitati dalla morte – senza mai allontanarsi dalla lucidità intransigente di chi cerca di dire senza orpelli qualcosa che è.

FELICI I FELICI

Robert Toscano

  Stavamo facendo la spesa per il weekend al supermercato. A un certo punto lei ha detto, vai a metterti in fila ai formaggi che io intanto penso al resto. Quando sono tornato il carrello era mezzo pieno di cereali, biscotti, buste di liofilizzati e creme da dessert, ho detto, che ce ne facciamo di tutta questa roba? – Come che ce ne facciamo? Ho detto, che senso ha tutta questa roba? Hai dei figli, Robert, e a loro piacciono i Cruesli, le merendine, adorano i Kinder Bueno, e mi indicava le confezioni a una a una, ho detto, è assurdo ingozzarli di zucchero e grassi, è assurdo questo carrello, lei ha detto, che formaggi hai comprato? – Un caprino di Chavignol e un morbier. Ha gridato, e il gruyère? – Me lo sono scordato e di sicuro non ci torno, c’è troppa gente. – Se compri un formaggio solo sai benissimo che devi comprare il gruyère, chi mangia il morbier a casa nostra? Chi? Io, ho detto. – E da quando in qua mangi il morbier? Chi è che lo vuole il morbier? Ho detto, smettila, Odile. – A chi piace quella schifezza di morbier?! Sottinteso «a parte tua madre», ultimamente nel morbier mia madre ci aveva trovato un bullone, ho detto, Odile, stai urlando. Ha strattonato il carrello e ci ha buttato una confezione da tre di tavolette Milka al latte. Ho preso le tavolette e le ho rimesse sullo scaffale. Lei le ha rimesse nel carrello ancor più rapidamente. Ho detto, io me ne vado. Ha risposto, ma vai, vai, non sai dire altro, è l’unica risposta che trovi, appena sei a corto di argomenti dici me ne vado, tiri subito fuori questa minaccia grottesca. È vero che dico spesso me ne vado, riconosco che è vero, ma non vedo come potrei non dirlo, dato che è l’unica cosa che ho voglia di fare, dato che non vedo altra via di uscita se non la diserzione immediata, ma riconosco anche che lo comunico sotto forma, sì, sotto forma di ultimatum. Allora, hai preso tutto, dico a Odile spingendo bruscamente il carrello, o dobbiamo ancora comprare altre stronzate? – Ma come mi parli! Ti rendi conto di come mi parli? Dico, va’ avanti. Vai! Niente mi irrita più dei suoi risentimenti improvvisi, quando tutto si ferma, tutto si pietrifica. Naturalmente potrei dire, scusami. Ma non una: dovrei dirlo due volte, e con il tono giusto. Se dicessi, scusami, due volte e con il tono giusto, la giornata potrebbe riprendere il suo corso più o meno normale, salvo che non ho nessuna voglia, nessuna possibilità fisiologica di pronunciare queste parole quando lei si ferma tra due scaffali di condimenti con l’aria attonita per l’offesa e il dolore. Va’ avanti Odile, per favore, dico con voce pacata, ho caldo e ho un articolo da finire. Chiedi scusa, dice lei. Se dicesse chiedi scusa con un timbro normale potrei anche andarle incontro, ma lei lo dice in un sussurro, con una voce bianca, atonale, che trovo inaccettabile. Dico per favore, resto calmo, per favore, in modo pacato, mi vedo già correre a rotta di collo sulla tangenziale, ascoltando a tutto volume Sodade, una canzone che ho scoperto di recente, di cui non capisco nulla, se non la solitudine della voce, e la parola solitudine ripetuta all’infinito, anche se mi hanno detto che non significa solitudine bensì nostalgia, mancanza, rimpianto, spleen, tutte quelle cose intime e non condivisibili che si chiamano solitudine, come si chiamano solitudine il carrello della spesa, il reparto olio e aceto, e l’uomo che implora sua moglie sotto i neon. Dico, scusami. Scusami, Odile. «Odile» nella frase non è necessario. Certo. «Odile» non è gentile, aggiungo «Odile» per sottolineare la mia insofferenza, ma quello che non mi aspetto è che faccia dietrofront e si avvii con le braccia penzoloni verso i surgelati, ossia verso il fondo del negozio, senza dire una parola e mollando la borsa nel carrello. Che cosa fai, Odile? grido, mi restano due ore per scrivere un pezzo importantissimo sulla nuova corsa all’oro! grido. Una frase assolutamente ridicola. Lei è uscita dal mio campo visivo. La gente mi guarda. Afferro il carrello e mi precipito verso il fondo del negozio, non la vedo (ha sempre avuto il dono di sparire, anche in circostanze piacevoli), grido, Odile! Vado verso le bibite, nessuno: Odile! Odile! Mi rendo conto che sto dando fastidio alla gente tutt’intorno, ma non me ne importa niente, percorro i corridoi con il carrello, detesto questi supermercati, e a un tratto la vedo, nella fila dei formaggi, una fila ancora più lunga di prima, si è rimessa in fila ai formaggi! Odile, dico, pesando le parole, quando le sono accanto, Odile, qui passano venti minuti prima che ti servano, andiamo via, il gruyère lo compriamo da un’altra parte. Nessuna risposta. Che cosa fa? Rovista nel carrello e recupera il morbier. Non vorrai restituire il morbier? dico. – Certo! Lo regaleremo a mamma, dico io per sdrammatizzare. Mia madre di recente ha trovato un bullone nel morbier. Odile non sorride. Se ne sta dritta e oltraggiata nella fila dei penitenti. Mia madre ha detto al formaggiaio, io non sono una che fa storie ma visto che ci tiene alla sua reputazione di formaggiaio devo segnalarle che ho trovato un bullone nel morbier che mi ha venduto, quello se n’è fregato altamente, non le ha neanche regalato i tre rocamadour che ha comprato quel giorno. Mia madre si vanta di aver pagato senza batter ciglio e di essere stata più elegante di lui. Mi avvicino a Odile e dico, a bassa voce, conto fino a tre Odile. Conto fino a tre. Hai capito? E chissà perché, mentre dico questo penso agli Hutner, una coppia di nostri amici, che si sono ripiegati in un desiderio di benessere coniugale, da un po’ hanno cominciato a chiamarsi «tesoro» e dicono frasi del tipo «stasera tesoro facciamoci una buona cenetta». Non so perché mi vengono in mente gli Hutner mentre sono preda di una follia opposta, ma forse non c’è tutta questa differenza tra stasera tesoro facciamoci una buona cenetta e conto fino a tre Odile, in entrambi i casi è una specie di costrizione dell’individuo per riuscire a essere in due, voglio dire non c’è mica più armonia e spontaneità nel tesoro facciamoci una buona cenetta, no, no, né minore è il baratro, se non che conto fino a tre detto in faccia a Odile ha provocato un fremito, un’increspatura della bocca, un impercettibile preludio al riso, cui a mia volta non devo assolutamente cedere, è ovvio, non prima di avere un esplicito segnale di via libera, anche se la voglia è forte, ma devo fare come se non avessi visto niente, decido di contare, dico uno, lo sussurro distintamente, la donna in coda dietro Odile si gode lo spettacolo, Odile respinge con la punta della scarpa un resto d’imballaggio, la fila si allunga e non avanza per niente, devo dire due, dico due, un due bendisposto, magnanimo, la donna di dietro ci sta addosso, porta un cappello, una specie di secchio rovesciato di pannolenci floscio, non mi piacciono neanche un po’ le donne che portano cappelli del genere, è un pessimo segno questo cappello, affilo lo sguardo in modo da farla indietreggiare di un metro ma non succede niente, mi osserva con curiosità, mi squadra, non è lei che puzza in questo modo? Le donne che si vestono a strati spesso esalano un odore sgradevole, a meno che non sia la vicinanza dei formaggi fermentati. All’interno della giacca mi vibra il cellulare. La faccia mi si deforma nello sforzo di leggere il nome sul display perché non ho il tempo di cercare gli occhiali. È un collaboratore del giornale che può darmi una dritta sulle riserve d’oro della Bundesbank. Gli chiedo di mandarmi una mail perché sono in riunione, è quello che dico per tagliar corto. Una fortuna, forse, questa breve chiamata: mi chino e bisbiglio all’orecchio di Odile, con una ritrovata responsabilità nella voce, il caporedattore vuole un box sul segreto di Stato riguardo allo stoccaggio tedesco, e ora come ora non ne so assolutamente niente. Lei dice, interessa a qualcuno? E si stringe nel soprabito incurvando gli angoli della bocca per darmi la misura della futilità dell’argomento, ma in modo ancora più netto della futilità del mio lavoro, dei miei sforzi in generale, come se da me non ci si potesse aspettare più niente, nemmeno la consapevolezza delle mie stesse rinunce. Le donne approfittano di qualsiasi cosa per avvilirti, adorano ricordarti quanto sei deludente. Odile è appena avanzata di un posto nella fila dei formaggi. Ha ripreso in mano la borsa e tiene sempre stretto il morbier. Io ho caldo. Soffoco. Vorrei essere lontano, non so più cosa ci facciamo qui né quale sia il problema. Vorrei scivolare sulle racchette nell’Ovest canadese, come Graham Boer, il cercatore d’oro, il personaggio centrale del mio articolo, piantare paletti e segnare gli alberi con la scure nelle valli gelate. Chissà se lui ha moglie e figli... Uno che affronta il grizzly e temperature di meno trenta non va certo a rompersi le palle in un supermercato all’ora in cui tutti fanno la spesa. È forse un posto adatto a un uomo? Chi può circolare in questi corridoi di neon, tra imballaggi sconfinati, senza soccombere allo sconforto? E sapere che ci tornerai, in ogni stagione, volente o nolente, trascinando lo stesso carrello agli ordini di una donna sempre più rigida. Non molto tempo fa mio suocero, Ernest Blot, ha detto a nostro figlio di nove anni, ti compro una stilografica nuova, con questa ti macchi le dita. Antoine ha risposto, non ti scomodare, non ho più bisogno di una penna che mi faccia felice. Ecco il segreto, ha detto Ernest, questo bambino l’ha capito, ridurre al minimo le pretese di felicità. Mio suocero è il campione di questi adagi chimerici, agli antipodi del suo temperamento. Ernest non ha mai accettato la minima riduzione delle sue potenzialità vitali (non parliamo di felicità). Costretto ai ritmi del convalescente dopo i bypass coronarici, sottoposto all’umiliazione di dover imparare di nuovo a vivere e alle schiavitù domestiche che aveva sempre evitato, si era sentito preso di mira e abbattuto da Dio in persona. Odile, se dico tre, se pronuncio il numero tre, tu non mi vedi più, prendo la macchina e ti pianto in asso col carrello. Lei dice, non ne sarei tanto sicuro. – Ne sono più che sicuro, invece, dato che tra due secondi lo farò. – Non puoi prendere la macchina Robert, ho io le chiavi in borsa. Mi frugo nelle tasche, inutilmente, tanto più che mi ricordo benissimo di essere stato io ad affidarle a lei. Ridammele, per favore. Odile sorride. Schiaccia la borsa a tracolla fra sé e la vetrina dei formaggi. Faccio un passo avanti per tirare la borsa. Tiro. Odile resiste. Tiro la cinghia. Lei ci si abbranca in senso contrario. E si diverte pure! Afferro il fondo della borsa, non avrei nessun problema a strappargliela se il contesto fosse diverso. Lei ride. Si aggrappa. Dice, non dici tre? Perché non dici tre? Mi dà sui nervi. E le chiavi nella borsa, mi danno sui nervi anche quelle. Però Odile mi piace quando fa così. E mi piace vederla ridere. Sono lì lì per rilassarmi e scivolare in una specie di scherzoso tira e molla quando accanto a noi sento un mugolio, mi giro e vedo la donna col cappello di pannolenci che si scompiscia dalle risate, ebbra di complicità femminile e senza un’ombra di imbarazzo. A questo punto non ho scelta. Divento brutale. Blocco Odile contro il plexiglas e cerco di raggiungere l’apertura della borsa, lei si dibatte, si lamenta che le faccio male, dico, dammi quelle chiavi cazzo, lei dice, tu sei fuori, le strappo il morbier dalle mani, lo scaravento in mezzo al corridoio, alla fine sento le chiavi nel caos della borsa, le tiro fuori, gliele agito davanti agli occhi continuando a tenerla bloccata, dico, togliamoci immediatamente di qui. Adesso la donna col cappello ha l’aria spaventata, le dico, com’è, non ridi più? Tiro Odile e il carrello, li piloto lungo gli scaffali, verso le casse all’uscita, le stringo forte il polso benché lei non opponga resistenza, una sottomissione che non ha nulla di innocente, preferirei doverla trascinare, quando si cala nella parte della martire finisce sempre che la pago cara. Alle casse naturalmente c’è la fila. Ci accodiamo, preparandoci a quell’attesa mortale, senza scambiarci nemmeno una parola. Le ho mollato il braccio e Odile finge di essere una cliente normale, la vedo addirittura smistare le cose nel carrello e metterle un po’ in ordine per facilitare l’imbustamento. Nel parcheggio non apriamo bocca. In macchina nemmeno. È buio. Le luci della strada ci danno sonnolenza e io metto il CD della canzone portoghese con la voce della donna che ripete la stessa parola, all’infinito.

Marguerite Blot

  Ai tempi remoti del mio matrimonio, nell’albergo dove andavamo in villeggiatura d’estate, c’era una donna che vedevamo ogni anno. Gioviale, elegante, con i capelli grigi dal taglio sportivo. Onnipresente, passava da un gruppo all’altro e ogni sera cenava a un tavolo diverso. A fine giornata capitava spesso di vederla seduta con un libro. Si metteva in un angolo del salone per poter tenere d’occhio chi entrava e chi usciva. Al minimo volto familiare, si illuminava e agitava il libro come un fazzoletto. Un giorno è arrivata con una donna alta e bruna che indossava una vaporosa gonna a pieghe. Stavano sempre insieme. Pranzavano davanti al lago, giocavano a tennis, a carte. Ho chiesto chi fosse quella donna e mi hanno risposto una dama di compagnia. Ho registrato l’espressione come si registra un’espressione qualunque, priva di significato particolare. Ogni anno, nello stesso periodo, le due donne comparivano e io mi dicevo, ecco la signora Compain e la sua dama di compagnia. Poi è arrivato un cane, che tenevano al guinzaglio a turno, anche se era chiaro che apparteneva alla signora Compain. Il mattino li vedevamo uscire tutti e tre, il cane che tirava, loro che cercavano di trattenerlo modulandone il nome in tutti i toni possibili, senza alcun successo. A febbraio, quest’inverno, dunque a distanza di anni, sono tornata in montagna con mio figlio, ormai grande. Lui naturalmente va a sciare con gli amici, e io cammino. Mi piace camminare, mi piacciono il bosco e il silenzio. In albergo mi suggerivano delle passeggiate ma io non osavo farle perché erano troppo fuori mano. Non ci si può allontanare troppo da sole, in montagna e nella neve. Ho pensato, e l’idea mi ha divertita, che avrei dovuto mettere un annuncio alla reception, donna sola cerca persona simpatica con cui camminare. E subito mi sono ricordata della signora Compain e della sua dama di compagnia, e ho capito che cosa significa dama di compagnia. Questa rivelazione mi ha spaventata, perché la signora Compain mi aveva sempre dato la sensazione di essere un po’ sperduta. Anche quando rideva in mezzo alla gente. E forse, a ben pensarci, soprattutto quando rideva e si cambiava d’abito per la cena. Mi sono rivolta a mio padre, cioè ho alzato gli occhi al cielo e mormorato, papà, non posso diventare una signora Compain! Era un pezzo che non mi rivolgevo a mio padre. Da quando mio padre è morto, gli chiedo di intervenire nella mia vita. Guardo il cielo e gli parlo con voce confidenziale e veemente. È l’unico essere a cui possa rivolgermi quando mi sento impotente. All’infuori di lui non conosco nessuno che potrebbe preoccuparsi di me nell’aldilà. Non mi viene mai in mente di parlare con Dio. Ho sempre ritenuto che non si possa disturbare Dio. Non si può parlare con lui direttamente. Dio non ha tempo di interessarsi ai singoli casi. A meno che non si tratti di casi eccezionalmente gravi. Nella scala delle suppliche, le mie sono diciamo così ridicole. Io la penso come la mia amica Pauline, quando ha ritrovato una collana che aveva ereditato dalla madre e perso nell’erba alta. Passando da un paese, suo marito ha fermato la macchina per precipitarsi in chiesa. Il portone era chiuso, e lui si è messo a scuotere freneticamente il catenaccio. Ma cosa fai? Voglio ringraziare Dio, ha risposto. – Dio se ne frega! – Voglio ringraziare la Madonna. – Ascolta Hervé, se mai c’è un Dio, se mai c’è una Madonna, credi che con tutto quello che succede nell’universo, con tutti i mali del mondo, gliene importi qualcosa della mia collana?!... Per cui io invoco mio padre, che mi sembra più accessibile. Gli chiedo dei favori ben determinati. Forse perché le circostanze mi portano a desiderare cose precise, ma anche, sotto sotto, per testare le sue capacità. È sempre la stessa richiesta d’aiuto. Una preghiera affinché succeda qualcosa. Ma mio padre è un disastro. Non mi sente, oppure non possiede alcun potere. È deprecabile che i morti non abbiano alcun potere. Disapprovo questa divisione radicale dei mondi. Ogni tanto gli attribuisco un sapere profetico. Penso: non soddisfa le tue richieste perché sa che non sarebbe un bene per te. Questo mi dà sui nervi, ho voglia di dire, non sono affari tuoi, ma almeno posso considerare il suo non intervento come un gesto deliberato. È quel che ha fatto con Jean-Gabriel Vigarello, l’ultimo uomo di cui mi sono invaghita. Jean-Gabriel Vigarello è un mio collega, professore di matematica al liceo Camille-Saint-Saëns, dove io insegno spagnolo. Con il senno di poi, mi dico che mio padre aveva ragione. Ma che cos’è, il senno di poi? È la vecchiaia. I valori ultraterreni di mio padre mi esasperano, sono molto borghesi, a ben guardare. Quand’era vivo credeva agli astri, alle case abitate dai fantasmi e a ogni genere di sciocchezza esoterica. Mio fratello Ernest, che pure dalla propria incredulità trae motivo di vanto, gli somiglia ogni giorno di più. Recentemente l’ho sentito far sua la frase «gli astri predispongono e non predestinano». Una formula per cui mio padre andava pazzo, l’avevo dimenticato, la attribuiva in modo quasi minaccioso a Tolomeo. Ho pensato, se gli astri non predestinano, tu papà cosa potevi saperne dell’avvenire? Mi sono interessata a Jean-Gabriel Vigarello il giorno in cui ho notato i suoi occhi. Non era facile notarli data la sua pettinatura, capelli lunghi a coprire la fronte, una pettinatura insieme brutta e improbabile per uno della sua età. Ho subito pensato, quest’uomo ha una donna che non si occupa di lui (ovviamente è sposato). Una non dovrebbe lasciar andare in giro un uomo di quasi sessant’anni con una pettinatura del genere. E soprattutto dovrebbe dirgli, non nascondere gli occhi. Degli occhi grigioblu cangianti, scintillanti come i laghi d’alta quota. Una sera mi sono ritrovata sola con lui in un bar di Madrid (avevamo organizzato un soggiorno a Madrid con tre classi), ho preso il coraggio a due mani e ho detto, lei ha degli occhi dolcissimi Jean-Gabriel, è veramente una follia non farli vedere. Dopo questa frase e una bottiglia di Carta de Oro, una cosa tira l’altra, ci siamo ritrovati nella mia stanza, che dava su un cortile interno da cui saliva il miagolio dei gatti. Appena tornato a Rouen, lui si è immerso di nuovo nella vita di tutti i giorni. Ci incrociavamo nei corridoi dell’istituto come se niente fosse successo, lui sembrava avere sempre fretta, con la cartella nella mano sinistra e il corpo pendente dallo stesso lato, la frangia brizzolata più coprente che mai. Trovo abbastanza ignobile questo modo silenzioso che hanno gli uomini di restituirti al corso del tempo. Come se bisognasse ricordarci, a ogni buon conto, che l’esistenza è discontinua. Ho pensato, gli lascio un messaggio nell’armadietto. Un messaggio innocuo, spiritoso, che accenni a un aneddoto madrileno. Gliel’ho lasciato una mattina in cui sapevo che c’era. Nessuna risposta. Né quel giorno, né i giorni seguenti. Ci salutavamo come se niente fosse. Mi ha assalito una specie di pena, non posso dire una pena d’amore, no, piuttosto una pena d’abbandono. C’è una poesia di Borges che comincia così: «Ya no es mágico el mundo. Te han dejado». «Non ha più incanto il mondo. Ti han lasciato». Dice lasciato, una parola di tutti i giorni, che non fa alcun rumore. Tutti possono lasciarvi, anche Jean-Gabriel Vigarello con la sua pettinatura da Beatles cinquant’anni dopo. Ho chiesto a mio padre di intervenire. Nel frattempo avevo scritto un altro messaggio, una frase: «Non dimenticarmi del tutto. Marguerite». Trovavo che quel del tutto fosse ideale per dissipare i suoi timori, se ne aveva. Un piccolo richiamo in tono scherzoso. Ho detto a mio padre, faccio un figurone ma tieni presente che nella mia vita non succede nulla e che presto sarò vecchia. Ho detto a mio padre, lascio il liceo alle cinque del pomeriggio, sono le nove, hai otto ore per ispirare a Jean-Gabriel Vigarello una risposta galante che troverò nel mio armadietto o sul cellulare. Mio padre non ha mosso un dito. Con il senno di poi gli do ragione. Non ha mai approvato le mie infatuazioni assurde. Ha ragione. Scegliamo dei volti fra gli altri, ci inventiamo delle boe per segnare il corso del tempo. Tutti vogliono avere qualcosa da raccontare. Una volta mi buttavo nel futuro senza pensarci. La signora Compain era sicuramente tipo da infatuazioni assurde. Quando veniva in albergo da sola, portava con sé diverse valigie. Ogni sera si presentava con un vestito diverso, una collana diversa. Si metteva il rossetto fin sui denti, faceva parte del suo look. Andava da un tavolo all’altro, beveva dei drink con un gruppo e poi un altro, chiacchierando briosamente, soprattutto con gli uomini. A quel tempo io ero con mio marito e i bambini. Una confortevole nicchia, al calduccio, da cui guardare il mondo. La signora Compain volteggiava come una farfalla notturna. Negli angoli da cui filtrava un po’ di luce, seppur debole, la signora Compain arrivava con le sue ali di pizzo. Fin dall’infanzia mi costruisco delle rappresentazioni mentali del tempo. Vedo l’anno come un trapezio isoscele. L’inverno è in alto, una linea dritta e decisa. L’autunno e la primavera disegnano una specie di gonna. E l’estate è sempre stata un lungo terreno piano. Oggi ho l’impressione che gli angoli si siano spuntati, che la figura non sia più stabile. È indice di cosa? Non posso diventare una signora Compain. Parlerò seriamente con mio padre. Gli dirò che ha un’occasione imperdibile di manifestarsi per il mio bene. Gli chiederò di ristabilire la geometria della mia vita. È una cosa semplicissima e facile da organizzare. Potresti, mi appresto a dirgli, mettere sulla mia strada qualcuno di allegro, con cui possa ridere e a cui piaccia camminare? Tu conosci sicuramente qualcuno che si sistemi i lembi della sciarpa ben aperti e incrociati sotto un cappotto vecchio stile, che possa porgermi un braccio saldo e condurmi nel bosco e tra la neve senza che ci perdiamo.

Odile Toscano

Tutto lo irrita. Le opinioni, le cose, le persone. Tutto. Non possiamo più uscire senza che finisca male. Ogni volta lo convinco a uscire ma, a conti fatti, quasi sempre me ne pento. Ci congediamo dagli altri con battute idiote, sul pianerottolo ridiamo ma appena entrati in ascensore cala il gelo. Un giorno bisognerebbe studiarlo, questo particolare silenzio dei viaggi in macchina, della notte, quando si torna a casa dopo aver sfoggiato una serenità a uso e consumo degli altri, un misto di conformismo e autoinganno. Un silenzio che non può essere rotto neanche dalla radio, perché chi, in questa muta guerra di resistenza, avrebbe il coraggio di accenderla? Stasera, mentre io mi svesto, Robert, come al solito, sparisce per un pezzo nella stanza dei bambini. Lo so che cosa fa. Controlla il loro respiro. Si china e con calma si assicura che non siano morti. Dopodiché eccoci in bagno, insieme. Nessuna comunicazione. Lui si lava i denti, io mi strucco. Poi lui esce e va in gabinetto. Lo ritrovo in camera seduto sul letto: controlla le mail sul Blackberry, mette la sveglia. Poi si infila tra le lenzuola e spegne subito la luce dal suo lato. Io vado a sedermi dall’altro lato del letto, metto la sveglia, mi spalmo la crema sulle mani, prendo uno Stilnox, preparo i tappi per le orecchie sul comodino, il bicchiere d’acqua. Sistemo i cuscini, inforco gli occhiali e mi metto comoda per leggere. Ho appena iniziato che Robert, in un tono che vorrebbe suonare neutro, dice, spegni per favore. È la prima parola che pronuncia dal pianerottolo di Rémi Grobe. Non rispondo. Dopo qualche secondo si tira su e quasi si stende su di me per spegnere il mio abat-jour. Riesce a spegnerlo. Nel buio lo colpisco sul braccio, sulla schiena, insomma lo colpisco più volte e riaccendo. Robert dice, sono tre notti che non dormo, vuoi che crepi? Io tengo gli occhi inchiodati sul libro e dico, prendi uno Stilnox. – Io non prendo quelle schifezze. – Allora non lamentarti. – Sono stanco, Odile... Spegni. Spegni, cazzo. Si rannicchia sotto le lenzuola. Io cerco di leggere. Mi domando se la parola stanco, in bocca a Robert, non abbia contribuito più di qualunque altra cosa al nostro reciproco allontanamento. Mi rifiuto di attribuirle un significato esistenziale. Un ritiro nel mondo delle ombre si può accettare da un eroe letterario, non da un marito con cui si condivide la vita domestica. Con uno scatto violento Robert riaccende la sua lampada, si libera delle lenzuola e si siede sul bordo del letto. Senza voltarsi dice, vado in albergo. Io non apro bocca. Lui non si muove. Leggo per la settima volta: «Nella luce che ancora filtrava dalle persiane malandate, Gaylor vide il cane accucciato sotto la sedia bucata, il lavandino di ceramica scrostato. Dalla parete di fronte, un uomo lo guardava tristemente. Gaylor si avvicinò allo specchio...». E mo’ chi è questo Gaylor? Robert è chino in avanti, mi dà le spalle. E in questa posizione attacca, che cos’ho fatto, ho parlato troppo? Sono stato aggressivo? Devo bere di meno? Ho il doppio mento? Forza, vai col predicozzo. Qual è il problema, stasera? Parli troppo, questo è sicuro, dico. – Era una tale palla. E poi faceva schifo. – Già, non era granché. – Era uno schifo. Si può sapere cosa fa nella vita ’sto Rémi Grobe? – Fa il consulente. – Il consulente! Chi è quel genio che ha inventato questa parola? Non so proprio perché ci infliggiamo queste cene assurde. – Nessuno ti costringe a venirci. – Come no. – Ti dico di no. – Figuriamoci. E quella stronza col vestito rosso, che non sa nemmeno che i giapponesi non hanno la bomba! – E a te che te ne frega? C’è bisogno di saperlo? – Se non conosci l’arsenale bellico giapponese, e del resto chi lo conosce?, eviti di mettere bocca in una conversazione sulle rivendicazioni territoriali nel Mar della Cina. Io ho freddo. Cerco di tirare il piumino. Sedendosi sul bordo del letto, Robert l’ha involontariamente bloccato. Io tiro, e lui mi lascia tirare senza sollevarsi di un centimetro. Tiro emettendo un piccolo gemito. È una lotta muta e completamente idiota. Alla fine lui si alza ed esce dalla stanza. Io torno alla pagina precedente per capire chi è Gaylor. Robert riappare quasi subito, si è rimesso i pantaloni. Cerca i calzini, li trova, se li infila. Lo sento trafficare in corridoio e aprire un armadio. Poi mi sembra che ritorni in bagno. Alla pagina precedente, Gaylor discute in fondo a un garage con un uomo di nome Pal. Chi è questo Pal? Mi alzo dal letto. Mi infilo un paio di pantofole e raggiungo Robert in bagno. Si è messo una camicia, senza abbottonarla, sta seduto sul bordo della vasca. Domando, dove vai? Fa il gesto del disperato che dice, non so, da qualche parte. Dico, vuoi che ti prepari un letto in soggiorno? – Non preoccuparti per me Odile, vai a letto. – Robert, ho quattro udienze questa settimana. – Lasciami stare, per favore. Dico, torna di là, spengo. Mi vedo nello specchio, Robert ha acceso la luce sbagliata. Io non accendo mai la plafoniera in bagno, se non insieme ai faretti del lavandino. Dico, sono brutta. Mi ha tagliato i capelli troppo corti. Robert dice, decisamente. È l’umorismo di Robert. Tra il faceto e l’angoscioso. Vorrebbe farmi ridere, anche nei momenti peggiori. E al tempo stesso angosciarmi. Dico, sul serio? Robert dice, è consulente di cosa quello stronzo? – Di chi stai parlando? – Di Rémi Grobe. – Consulente artistico, immobiliare, non so di preciso. – Uno che ha le mani in pasta un po’ ovunque. Un bandito, insomma. Non è sposato? – Divorziato. – Lo trovi bello? Dal corridoio si sente uno stropiccio di piedi e una vocina: mamma? Che cos’ha? domanda Robert, come se io lo sapessi, e con quell’inflessione improvvisamente ansiosa che mi dà sui nervi. Siamo qui, Antoine, dico, con papà in bagno. Antoine compare, in pigiama, quasi in lacrime. – Ho perso Doudine. Un’altra volta! dico, hai intenzione di perderla ogni notte adesso? Alle due del mattino non si pensa a Doudine, Antoine, si fa la nanna! La faccia di Antoine si increspa quasi al rallentatore. Quando la sua faccia si increspa così, impossibile arginare il pianto. Robert dice, ma perché lo sgridi, poverino? Non lo sgrido, dico, e dopo questa frase invoco tutta la mia capacità di autocontrollo, però non capisco perché non la leghiamo, questa Doudine. Basta che di notte la leghiamo! Non ti sgrido tesoro, ma non è l’ora di pensare a Doudine. Forza, torna a letto. Ci avviamo verso la camera dei bambini. Antoine che piagnucola Doudiiine, io e Robert in fila indiana nel corridoio. Entriamo nella stanza. Simon dorme. Io chiedo ad Antoine di calmarsi per non svegliare il fratello. Robert bisbiglia, vedrai che la ritroviamo, topolino. E poi la leghi? frigna Antoine senza fare il minimo sforzo per abbassare la voce. No che non la lego, topolino. Io accendo l’abat-jour e dico, ma perché no? La sera potremmo legarla in un modo che non le dia nessun fastidio. Lei non sentirà niente e tu avrai una cordicella che potrai tirare... Antoine caccia un gemito che pare una sirena. Pochi bambini sono capaci di emettere un lamento su una tonalità così molesta. Shhhhh! dico. Che c’è? dice Simon. – Ecco! Adesso hai svegliato tuo fratello, bravo! – Cosa state facendo? Abbiamo perso Doudine, dice Robert. Simon ci guarda con gli occhi semichiusi, come fossimo deficienti. Ha ragione. Mi metto a quattro zampe per cercare sotto il letto. Passo la mano a casaccio perché non si vede granché. Robert fruga sotto il piumino. Con la testa sotto il letto borbotto, non capisco perché in piena notte tu non dormi! Non è normale. A nove anni si dorme. E a un tratto la sento, incastrata tra le doghe e il materasso. Ce l’ho, ce l’ho. È qui! Che rompiscatole questa Doudine!... Antoine incolla la bocca all’animale di pezza. – Forza, a letto! Antoine si sdraia. Lo bacio. Simon si avvolge nelle lenzuola e si gira dall’altra parte come chi abbia appena assistito a una scena pietosa. Spengo la luce. Cerco di spingere Robert fuori dalla stanza. Ma Robert rimane. Vuole controbilanciare la durezza materna. Ristabilire l’armonia nella camera incantata dell’infanzia. Lo vedo chinarsi su Simon e baciarlo sulla nuca. Dopodiché, in una penombra che infittisco al massimo chiudendo la porta, si siede sul letto di Antoine, gli rimbocca le coperte, lo infagotta nel piumino, sistema Doudine in modo che non scappi. Lo sento mormorare frasi tenere, mi chiedo se non abbia iniziato una delle storielle della foresta di Maître Janvier. Un tempo, gli uomini andavano a cacciare il leone o a conquistare nuove terre. Aspetto sulla porta, che a tratti apro appena un po’ per segnalare la mia esasperazione, benché la mia postura marmorea sia già abbastanza eloquente. Alla fine Robert si alza. Ripercorriamo il corridoio, in silenzio. Robert entra in bagno, io in camera. Mi rimetto a letto. Inforco gli occhiali. «Pal era seduto dietro la scrivania. Le mani grassocce appoggiate sul sottomano sudicio. Quella mattina, informò Gaylor, Raoul Toni era entrato in garage...». Chi è Raoul Toni? Mi si chiudono gli occhi. Mi chiedo che cosa faccia Robert in bagno. Sento un rumore di passi. Compare. Si è tolto i pantaloni. Quante volte in una vita questo vestirsi e svestirsi frenetico e minaccioso? Dico, trovi normale che a nove anni abbia ancora un animale di pezza? – Ma certo. Io ce l’avevo ancora a diciotto. A me viene da ridere ma non lo do a vedere. Robert si toglie i calzini e la camicia. Spegne l’abat-jour e si infila sotto le lenzuola. Credo di sapere chi è Gaylor. È il tizio ingaggiato per ritrovare la figlia di Joss Kroll, e mi chiedo se Raoul Toni non era quello della tombola, all’inizio... Mi si chiudono gli occhi. Questo giallo è una cagata. Mi tolgo gli occhiali, spengo la lampada. Mi giro verso il comodino. Mi accorgo che non ho tirato abbastanza la tenda e la luce del giorno filtrerà troppo presto. Pazienza. Dico, perché Antoine si sveglia in piena notte? Robert risponde, perché non trova Doudine. Per un attimo restiamo ciascuno dalla sua parte del letto, a contemplare pareti opposte. Poi, per l’ennesima volta, mi giro e mi incollo a lui. Robert mi mette una mano sulle reni e dice, dovrei legare anche te.

Vincent Zawada

Aspettando la seduta di radioterapia alla clinica Tollere Leman, mia madre passa in rassegna i pazienti della sala d’attesa e dice, abbassando appena la voce, parrucca, parrucca, forse no, no parrucca, no parrucca... Mamma, mamma, parla più piano, dico, ti sentono tutti. Che cosa dici? Alza la voce, non capisco niente, dice mia madre. – Ti sei messa le orecchie? – Cosa? – Ti sei messa l’apparecchio acustico? Perché non te lo metti? – Perché poi durante i raggi me lo devo togliere. – Intanto mettitelo, mamma. Non serve a niente, dice mia madre. Seduto accanto a lei, un uomo mi sorride con simpatia. Ha tra le mani un berretto principe di Galles, e il suo colorito pallido s’intona con un antiquato abito inglese. In ogni caso, dice mia madre rovistando nella borsetta, non l’ho neanche portato. Tornata alla sua osservazione, abbassa appena la voce per dire, quella non supera il mese, tutto sommato non sono la più vecchia, meno male. Mamma, per favore, dico, to’, guarda, c’è un quiz divertente sul «Figaro». – Vabbè, se ti fa piacere. – Quale verdura, fino ad allora sconosciuta in Francia, venne introdotta a corte dalla regina Caterina de’ Medici? Carciofo, broccolo, pomodoro? Carciofo, dice mia madre. – Carciofo, brava. Quale fu il primo lavoro di Greta Garbo all’età di quattordici anni? Apprendista presso un barbiere, controfigura di Shirley Temple in Little Miss Marker, squamatrice di aringhe al mercato del pesce di Stoccolma, la sua città natale? Squamatrice di aringhe a Stoccolma, dice mia madre. – Apprendista presso un barbiere. Ah sì?, ma pensa, dice mia madre, certo anch’io, che stupida, da quando in qua le aringhe hanno le squame? Da un sacco di tempo signora, se mi consente, interviene l’uomo seduto accanto a lei di cui ora noto la cravatta grigia a pois rosa, l’aringa le squame le ha sempre avute. Ah sì? dice mia madre, no, no, le aringhe non hanno squame, sono come le sardine. Anche le sardine hanno sempre avuto le squame, dice l’uomo. Le sardine hanno le squame, questa mi è nuova, dice mia madre, lo sapevi, Vincent? Esattamente come le acciughe, e gli spratti, aggiunge l’uomo, a ogni modo deduco che lei non mangia kasher! Ride e mi coinvolge in quel tentativo di familiarizzare. Nonostante i denti ingialliti, i capelli radi e brizzolati, ha una certa classe. Io scuoto amabilmente la testa. Per fortuna, risponde mia madre, per fortuna non mangio kasher, che già non ho più nessun appetito. Chi è il suo medico? domanda l’uomo, allentandosi leggermente la cravatta a pois e assumendo una postura da conversazione. Il dottor Chemla, dice mia madre. Philip Chemla, il migliore, nessuno è meglio di lui, è tutto merito suo se vado avanti da sei anni, dice l’uomo. Io da otto, dice mia madre, fiera di andare avanti da più tempo. Anche lei polmoni? domanda l’uomo. Fegato, risponde mia madre, prima seno poi fegato. L’uomo scuote la testa come chi quelle cose le abbia sentite già infinite volte. Ma sa, io sono atipica, prosegue mia madre, non faccio niente come gli altri, Chemla mi dice sempre Paulette (mi chiama Paulette, sono la sua cocca), lei è assolutamente atipica, in altre parole, sarebbe dovuta crepare da un pezzo. Mia madre ride di gusto, l’uomo pure. Io mi chiedo se non sia il caso di tornare al nostro quiz. Proprio così, è straordinario, prosegue mia madre ormai fuori controllo, e personalmente lo trovo molto affascinante. La prima volta che l’ho visto ho detto, è sposato dottore? Ha figli? Niente figli. Ho detto, vuole che le faccia vedere come si fa? Le premo la mano, la cui pelle è secca e alterata dai farmaci, e dico, mamma, senti. Cosa, dice mia madre, è la verità, era deliziato, ha riso come un matto, raramente ho visto un oncologo ridere così. L’uomo annuisce. Dice, è un grand’uomo, Chemla, un Mensch. Un giorno, non lo dimenticherò mai, ha pronunciato questa frase: «Ogni volta che qualcuno entra nel mio studio, mi onora». Lo sa che non ha neanche quarant’anni? Mia madre se ne infischia beatamente. Prosegue sull’onda del suo entusiasmo come se non avesse sentito. Venerdì, parla sempre più forte, gli ho detto, il dottor Ayoun (il mio cardiologo) è un medico molto più bravo di lei, oh non ne sarei così sicuro, e invece sì, appena mi ha visto mi ha fatto i complimenti per il mio cappello nuovo, mentre lei, dottore, non l’ha neanche notato. Io ho bisogno di muovermi. Mi alzo e dico, mamma, vado a chiedere alla segretaria tra quanto tocca a te. Mia madre si volta verso il suo nuovo amico: va a fumare, mio figlio esce a fumare una sigaretta, è questo che vuol dire, gli dica che si sta uccidendo a fuoco lento a quarantatré anni. Così moriremo insieme mamma, dico, prendila dal lato positivo. Molto divertente, dice mia madre. L’uomo con la cravatta a pois si pizzica il naso e inspira come uno che stia per fare una comunicazione decisiva. Io taglio corto precisando che non esco a fumare, anche se una boccata di nicotina mi farebbe un gran bene, e che vado solo dalla segretaria. Quando torno informo mia madre che farà i raggi tra dieci minuti e che il dottor Chemla non è ancora arrivato. Ah, è tipico di Chemla, non ha la percezione del tempo, non gli passa nemmeno per la testa che possiamo avere una vita nostra, dice l’uomo, felice di essere riuscito a far sentire di nuovo la propria voce e sperando di essersi ripreso il banco. Ma mia madre ha già riattaccato: io con la segretaria sono in ottimi rapporti, mi mette sempre all’inizio dell’orario di consultazione, la chiamo Virginie, mi adora, aggiunge mia madre a bassa voce, le dico, sia gentile, mi dia il primo appuntamento, mia cara Virginie, a lei fa piacere, la fa sentire speciale. Vincent, tesoro, non pensi che dovremmo portarle dei cioccolatini, la prossima volta? Perché no, dico. – Cosa? Alza la voce. Dico, è una buona idea. Avremmo già potuto sbarazzarci dei Vanille Kipferl di Roseline, dice mia madre, non ho neanche aperto la scatola. Proprio non li sa fare, sembra di mangiare sabbia. Povera Roseline, ormai ha tutta l’aria di un mazzo di chiavi tremolante. Lo sai che non è più la stessa da quando la figlia è scomparsa nello tsunami, è uno dei venticinque corpi che non sono mai stati ritrovati, Roseline crede che sia ancora viva, ogni tanto mi dà sui nervi, mi viene la tentazione di dirle, sì, come no, allevata dagli scimpanzé che le hanno tolto la memoria. Dico, non essere cattiva, mamma. – Non sono cattiva, però a un certo punto bisogna anche essere fatalisti, si sa che il mondo è una valle di lacrime. Valle di lacrime, un’espressione di tuo padre, ti ricordi? Rispondo che sì, me lo ricordo. L’uomo con la cravatta a pois sembra essere tornato a pensieri piuttosto cupi. Si è chinato in avanti, e noto una stampella posata accanto alla sedia. Mi viene in mente che potrebbe avere male da qualche parte e mi dico che in questa sala d’attesa seminterrata della clinica Tollere Leman ci saranno sicuramente altre persone che soffrono in silenzio. Sa, dice a un tratto mia madre sporgendosi verso l’uomo con un’espressione straordinariamente seria, mio marito era ossessionato da Israele. L’uomo si raddrizza e si sistema le falde della giacca a righe. Gli ebrei sono ossessionati da Israele, io no, io non sono affatto ossessionata da Israele, ma mio marito lo era. Fatico a seguire mia madre in questa virata. A meno che non voglia recuperare l’errore commesso a proposito dei pesci senza squame. Sì, forse ci tiene a precisare che tutta la sua famiglia è ebrea, lei compresa, nonostante la sua ignoranza delle norme alimentari. Anche lei è ossessionato da Israele? domanda mia madre. Naturalmente, risponde l’uomo. Approvo questa laconicità. Se dipendesse solo da me, potrei dissertare sul baratro aperto da questa risposta. Mia madre la vede diversamente. Quando ho conosciuto mio marito non aveva un soldo, dice, la sua famiglia gestiva una merceria in rue Réaumur, minuscola, una topaia. Alla fine della sua vita faceva il grossista, aveva tre negozi e un palazzo di appartamenti. Voleva lasciare tutto a Israele. – Mamma cosa ti prende? Cosa vai dicendo? È la verità, dice mia madre, senza neanche darsi la pena di voltarsi, eravamo una famiglia molto unita, molto felice, l’unico neo era Israele. Un giorno gli ho detto che gli ebrei non avevano bisogno di un Paese e ho rischiato di prenderle. Un’altra volta Vincent voleva discendere il Nilo e lui l’ha buttato fuori di casa. L’uomo sta per fare un’osservazione ma non è abbastanza veloce, il tempo di dischiudere le labbra smunte e già mia madre è ripartita. Chemla vuole darmi una nuova cura. Non tollero più lo Xynophren. Ho le mani che si screpolano, vede. Vuole che riprenda una chemioterapia per endovena che mi farà perdere i capelli. Mamma, non è sicuro, intervengo. Chemla ha detto che c’è una probabilità su due. Una probabilità su due vuol dire due su due, dice mia madre spazzando via la mia affermazione con un gesto, ma io non voglio morire come ad Auschwitz, non voglio finire con la testa rapata a zero. Se faccio questa cura, posso dire addio ai miei capelli. Alla mia età non avrò più il tempo di vederli ricrescere. E addio cappelli, anche. Mia madre scuote la testa con una smorfia di disappunto. Se ne sta dritta come un fuso e parla senza sosta, il collo teso alla maniera di una fanciulla devota. Io non mi faccio illusioni sa, dice. Se sono qui a chiacchierare con lei in questa sala orribile è per compiacere i miei figli e il dottor Philip Chemla. Sono la sua cocca, continuare a curarmi gli fa piacere. Detto tra noi, quei raggi non servono proprio a niente. Dovrebbero restituirmi la vista di un tempo e io ogni giorno ci vedo peggio. Non dire così mamma, dico, ti hanno spiegato che l’esito non è istantaneo. Che cos’hai detto, dice mia madre, alza la voce. L’esito non è immediato, ripeto. Non immediato vuol dire non garantito, dice mia madre. La verità è che Chemla non è sicuro di niente. Va per tentativi. Io gli servo da cavia, e va bene, ce n’è bisogno. Sono fatalista. Sul suo letto di morte mio marito mi ha chiesto se ero ancora una nemica di Israele, la patria del popolo ebraico. Ho risposto, ma no, certo che no. Cosa vuole dire a un uomo che sta per andarsene? Uno gli dice quello che lui ha voglia di sentirsi dire. È strano come la gente si aggrappi a dei valori insulsi. Nell’ora estrema, quando tutto sta per finire. La patria: e chi ha bisogno di una patria? Perfino la vita, a lungo andare, è un valore insulso. Perfino la vita, non crede? dice mia madre sospirando. L’uomo riflette. Potrebbe rispondere, perché mia madre sembra aver sospeso il suo chiacchiericcio su una nota curiosamente meditativa. Proprio in quel momento un’infermiera chiama il signor Ehrenfried. L’uomo afferra la stampella, il berretto principe di Galles e il loden posato sulla sedia accanto alla sua. Ancora seduto, si china verso mia madre e mormora: la vita forse, ma non Israele. Poi assicura il braccio sulla stampella e si alza a fatica. Il dovere mi chiama, dice inchinandosi, Jean Ehrenfried, è stato un piacere. Si intuisce che ogni minimo movimento gli costa uno sforzo ma la faccia resta sorridente. Il cappello che porta oggi, aggiunge, è quello che le è valso i complimenti del cardiologo? Mia madre si tocca il cappello per controllare. No, no, questo è di lince. Quello del dottor Ayoun era genere Borsalino con una rosa di velluto nera. I miei complimenti per quello di oggi allora, ha nobilitato questa sala d’attesa, dice l’uomo. È solo una toque di lince, precisa mia madre scodinzolando, ce l’ho da quarant’anni, mi sta ancora bene? Le sta a pennello, dice Jean Ehrenfried facendo roteare il berretto a mo’ di saluto. Lo guardiamo allontanarsi e scomparire dietro la porta della radioterapia. Mia madre affonda le mani sciupate nella borsetta. Ne estrae un portacipria e un rossetto e dice, zoppica poverino, mi chiedo se quell’uomo non si sia innamorato di me.

Pascaline Hutner

Non l’avevamo previsto. Non abbiamo capito che la situazione poteva precipitare. No. Né Lionel, né io. Siamo soli e disorientati. Con chi parlarne? Dovremmo riuscire a parlarne, ma a chi confidare un segreto simile? Bisognerebbe poterlo raccontare a persone fidate, molto comprensive, che sull’argomento non facciano battute di spirito. Noi sull’argomento non sopportiamo la benché minima battuta, pur essendo consapevoli, Lionel e io, che se non si trattasse di nostro figlio potremmo riderne. E perfino, a onor del vero, riderne in società alla prima occasione. Non l’abbiamo detto neanche a Odile e Robert. I Toscano sono nostri amici da sempre, benché non sia così facile mantenere un’amicizia tra coppie. Voglio dire un’amicizia profonda. In definitiva le uniche relazioni davvero intime tra esseri umani si giocano a due. Avremmo dovuto poterci vedere separatamente, tra donne o tra uomini, o forse anche in modo incrociato (sempre ammesso che io e Robert trovassimo qualcosa da dirci in privato). I Toscano ci prendono in giro perché viviamo in simbiosi. Nei nostri confronti hanno sviluppato una forma di costante ironia che alla lunga esaspera. Non possiamo più aprire bocca senza che ci restituiscano l’immagine di una coppia ingessata in una serenità asfissiante. L’altro giorno ho avuto la malaugurata idea di dire che avevo cucinato un rombo in crosta (seguo un corso di cucina, mi diverte). Un rombo in crosta? ha detto Odile come se mi fossi espressa in una lingua straniera. – Sì, un rombo con una crosta a forma di pesce. – Ma quanti eravate? Ho detto, noi due, Lionel e io, era per noi due. Per voi due soli, ma è terribile! ha detto Odile. Mia cugina Josiane che era con noi ha detto, perché, io potrei anche cucinarmi un rombo in crosta solo per me. Be’, solo per te, la faccenda assume tutt’altro aspetto, ha rincarato Robert, un rombo in crosta con la crosta a forma di pesce esclusivamente per sé, in questo caso si sfiora la tragedia. In genere faccio finta di non capire per evitare discussioni sgradevoli. Lionel se ne frega. Quando gliene parlo, mi dice che sono invidiosi e che spesso la felicità degli altri risulta aggressiva. Se raccontassimo quello che stiamo passando non vedo come potrebbero invidiarci. Ma proprio perché incarniamo un’immagine di armonia la confessione della disgrazia è tanto difficile. Immagino le risate che gente come i Toscano si farebbero alle nostre spalle. Per comprendere la situazione bisogna fare un passo indietro. Nostro figlio Jacob, che ha appena compiuto diciannove anni, è sempre stato un fan della cantante Céline Dion. Dico sempre perché quest’infatuazione risale alla sua più tenera età. Un giorno in macchina il bambino sente la voce di Céline Dion. Colpo di fulmine. Gli compriamo l’album, poi quello successivo, la sua stanza si riempie di poster e noi cominciamo a vivere con un piccolo fan come, suppongo, migliaia di genitori al mondo. Ben presto veniamo invitati a dei concerti in camera sua. Jacob si agghinda da Céline con una delle mie sottovesti e canta in play-back sulla voce di lei. Ricordo che si fabbricava una capigliatura svolgendo i nastri magnetici delle cassette che c’erano all’epoca. Non sono sicura che Lionel apprezzasse fino in fondo lo spettacolo, ma era molto divertente. Già all’epoca dovevamo incassare le battute di Robert che si complimentava con noi per la tolleranza e l’apertura mentale. Ma era molto divertente. Poi Jacob cresce. Poco per volta, non si limita più a cantare come lei, ma parla come lei e rilascia interviste nel vuoto con accento canadese. Fa la parte di Céline, e anche quella di suo marito René. Era buffo. Ridevamo. La imitava alla perfezione. Gli facevi delle domande, voglio dire parlavi a Jacob e ti rispondeva Céline. Era molto divertente. Molto divertente. Non so che cosa si sia inceppato. Come si sia passati da una passione puerile a questo... non so come chiamarlo... disturbo mentale? Della personalità?... Una sera, a tavola, tutti e tre riuniti in cucina, Lionel ha detto a Jacob che era stufo di sentirlo fare il pagliaccio in quebecchese. Avevo cucinato un petit salé aux lentilles. Di solito i due uomini ne vanno matti, ma nell’aria c’era qualcosa di triste. Una sensazione paragonabile a quello che capita di provare nell’intimità quando l’altro si chiude in se stesso e tu ci leggi un presagio di abbandono. Jacob ha fatto finta di non capire la parola pagliaccio. Con il suo accento del Québec ha risposto al padre che nonostante vivesse in Francia da parecchio tempo lei era canadese e non aveva nessuna intenzione di rinnegare le proprie origini. Lionel ha alzato la voce dicendo che quella storia cominciava a non essere più divertente e Jacob ha ribattuto che non poteva «bisticciare» perché doveva preservare le corde vocali. Da quella sera terribile, abbiamo cominciato a vivere con Céline Dion nel corpo di Jacob Hutner. Non siamo più stati chiamati papà e mamma, bensì Lionel e Pascaline. E non abbiamo più avuto alcun rapporto con il nostro figlio reale. All’inizio pensavamo che si trattasse di una crisi passeggera, gli adolescenti vanno soggetti a questi momenti di follia. Ma quando Bogdana, la donna di servizio, è venuta a dirci che Jacob aveva reclamato, con molto garbo, un umidificatore per la sua voce (la donna sembrava quasi trovarla una richiesta molto umile per una star del suo calibro), ho capito che le cose stavano prendendo una brutta piega. Senza dirlo a Lionel, gli uomini a volte sono troppo terra terra, ho consultato un pranoterapeuta. Avevo già sentito parlare di persone possedute da entità estranee. Il pranoterapeuta mi ha spiegato che Céline Dion non è un’entità. E che di conseguenza non era in grado di separarla da Jacob. L’entità è un’anima errante che si aggrappa a un vivente. Non poteva liberare un uomo abitato da una che canta tutte le sere a Las Vegas. Il pranoterapeuta mi ha consigliato di sentire uno psichiatra. La parola psichiatra mi si è conficcata in gola come un tappo d’ovatta. Ci ho messo un bel po’ prima di riuscire a pronunciarla a casa. Lionel si è dimostrato più lucido. Non avrei mai potuto attraversare questa prova senza la solidità di Lionel. Mio marito. Il mio tesoro. Un uomo fedele a se stesso, che è sempre stato al suo posto e che non è minimamente attratto dalle complicazioni. Un giorno Robert aveva detto di lui, è un uomo che cerca la gioia, che ambisce alla felicità, ma a una felicità che definirei «cubica». Noi avevamo riso della cattiveria del termine, io avevo perfino dato uno scappellotto a Robert. Ma tutto sommato sì, cubica. Solida. Senza incrinature. Siamo riusciti a portare Jacob da uno psichiatra facendogli credere che fosse un otorino. Lo psichiatra ha consigliato un ricovero in clinica. Mi ha sconvolto vedere con che facilità si poteva manipolare nostro figlio. Jacob ha varcato allegramente la soglia della casa di cura, convinto di entrare in uno studio di registrazione. Una sorta di studio-residenza riservato alle star del suo calibro perché non debbano spostarsi ogni mattina. Il primo giorno, entrando nella camera vuota e bianca, sono stata sul punto di buttarmi ai suoi piedi e implorare perdono per quel tradimento. Abbiamo detto a tutti che Jacob è andato a fare uno stage all’estero. A tutti, compresi i Toscano. L’unica persona che condivide il nostro segreto è Bogdana. Insiste a preparargli torte serbe alle noci e al papavero che lui non tocca nemmeno, perché a Jacob non piace più quello che gli piaceva prima. Fisicamente è rimasto normale, non assume atteggiamenti da donna. È una cosa molto più profonda di un atteggiamento. Ormai Lionel e io lo chiamiamo Céline. Tra di noi, ci capita di dire lei. Il dottor Igor Lorrain, lo psichiatra che si occupa di lui, sostiene che non è infelice salvo quando guarda il telegiornale. È ossessionato dall’ingiustizia della fortuna che gli è toccata e del privilegio di cui gode. Le infermiere si chiedono se non sia il caso di togliergli la televisione perché piange davanti a tutti i TG della sera, perfino davanti a un raccolto rovinato dalla grandine. Lo psichiatra è preoccupato anche da un altro aspetto del suo comportamento. Jacob scende nella hall per firmare autografi. Si avvolge varie sciarpe intorno al collo per non raffreddarsi, deve stare attento, lo aspetta una tournée mondiale, scherza il medico (non mi piace granché quel medico), e si apposta davanti alla porta girevole, convinto che le persone che entrano in clinica abbiano fatto chilometri per vederlo. Era lì quando siamo arrivati ieri pomeriggio. L’ho visto dalla macchina, prima di arrivare nel parcheggio. Proteso verso un bambino, oltre i vetri della porta girevole, incongruamente affabile, che scribacchiava qualcosa su un quadernetto. Lionel conosce i miei silenzi. Dopo aver parcheggiato la macchina, ha guardato i platani e ha detto, era di nuovo all’ingresso? Ho annuito e ci siamo abbracciati senza riuscire a parlare. Il dottor Lorrain ci dice che Jacob lo chiama Humberto. Gli abbiamo spiegato che probabilmente lo scambia per Humberto Gatica, il suo ingegnere del suono, cioè voglio dire l’ingegnere del suono di Céline. Volendo è abbastanza logico, perché entrambi assomigliano al regista Steven Spielberg. Allo stesso modo, abbiamo sentito Jacob chiamare Oprah (come Oprah Winfrey) l’infermiera della Martinica che si dimena come se questo la lusingasse. Oggi è stata una giornata estremamente difficile. Ha esordito dicendo, con quella sua pronuncia che sono incapace di imitare, non avete l’aria granché felice ultimamente, Lionel e Pascaline. Io per gli altri ho molta empatia, e mi fa male vedervi così. Volete che vi canti qualcosa per tirarvi un po’ su? Abbiamo detto no, che doveva riposare la voce, che aveva già abbastanza da fare con le registrazioni, ma lui ha insistito. Ci ha disposti fianco a fianco, come faceva da piccolo, Lionel su uno sgabello, io sulla poltrona in similpelle. E si è messo a cantare, in piedi davanti a noi e perfettamente a tempo, una canzone dal titolo Love Can Move Mountains. Alla fine abbiamo fatto quello che facevamo quando era piccolo, abbiamo applaudito fortissimo. Lionel mi ha messo un braccio intorno alle spalle per impedirmi di crollare. Andandocene, la sera, abbiamo sentito delle persone in corridoio che parlavano fra loro con l’accento canadese. Ehi David Foster, vieni un attimo! Humberto è sceso? Chiedi a Barbra!... Quella pure dovrebbe farsi il suo two years break!... Abbiamo sentito ridacchiare e capito che i paramedici si divertivano a scimmiottare Céline e il suo entourage. Lionel non ha retto. È entrato nella sala da dove provenivano le risa e ha detto con una voce solenne, che sul momento è sembrata ridicola anche a me, sono il padre di Jacob Hutner. C’è stato un attimo di silenzio. E nessuno sapeva cosa dire. E io ho detto, vieni Lionel, non importa. E gli infermieri hanno cominciato a balbettare delle scuse. E io tiravo mio marito per la manica. Non sapevamo neanche più dov’era l’ascensore, smarriti abbiamo imboccato delle scale che rimbombavano sotto i nostri passi. Fuori era quasi buio, pioveva un po’. Mi sono infilata i guanti e Lionel si è avviato verso il parcheggio senza neanche aspettarmi. Ho detto, aspettami tesoro. Si è voltato, strizzando gli occhi per via della pioggia, e alla luce del lampione a me è sembrato che avesse una gran brutta cera e anche meno capelli. Ho pensato, dobbiamo riprendere la nostra vita normale, Lionel deve tornare in ufficio, dobbiamo ritrovare l’allegria. In macchina ho detto che avevo voglia di andare alla Cantine russe, a bere vodka e mangiare pirojki. E poi ho chiesto, secondo te chi è Barbra? Barbra Streisand, ha detto Lionel. – Sì, ma in clinica? Credi che sia la caporeparto, quella col nasone?

Paola Suares

Sono molto sensibile alle luci. Psichicamente, voglio dire. Non so se siamo tutti sensibili alla luce allo stesso modo o se la mia è una vulnerabilità particolare. Alla luce esterna mi ci adatto. Al tempo grigio mi ci adatto. Il cielo è sopra la testa di tutti. Gli uomini attraversano tutti la stessa nebbia. Gli interni ci rimandano a noi stessi. La luce dei luoghi chiusi mi aggredisce nell’intimo. Colpisce gli oggetti e mi colpisce l’anima. Certe luci sopprimono in me ogni senso di futuro. Quando ero bambina mangiavo in una cucina che dava su un cortile cieco. L’illuminazione centrale rendeva tutto squallido e ti faceva sentire dimenticato dal mondo. Quando siamo arrivati, verso le otto di sera, davanti al centro ospedaliero del X arrondissement dove Caroline aveva appena partorito, ho proposto a Luc di salire con me, ma lui ha risposto che preferiva aspettare in macchina. Mi ha chiesto se ne avrei avuto per molto e ho detto no, no, anche se la domanda mi è parsa un po’ fuori luogo, per non dire volgare. Pioveva. La strada era deserta. La hall del reparto maternità pure. Ho bussato alla porta della stanza. Mi ha aperto Joël. Seduta sul letto, in vestaglia, pallida, felice, Caroline aveva tra le braccia una bambina piccolissima. Mi sono chinata a guardarla. Era bella. Molto delicata, davvero molto bella. Non ho dovuto fare nessuno sforzo per dirlo e per congratularmi con loro. Nella stanza c’era un caldo tremendo. Ho chiesto un vaso per il mazzetto di anemoni. Joël mi ha detto che nelle camere i fiori sono vietati e che dovevo portarmeli a casa. Mi sono tolta il cappotto. Caroline ha dato la piccola al marito e si è infilata nel letto. Joël ha preso il piccolo fardello tra le braccia e si è seduto sulla poltrona in similpelle dondolandosi avanti e indietro, tronfio di orgoglio paterno. Caroline ha tirato fuori un catalogo Jacadi e mi ha mostrato il lettino da viaggio. Mi sono segnata il codice di riferimento. Su una mensola in formica c’erano dei pacchetti ancora mezzo incartati e diversi flaconi di gel idroalcolico. Ho chiesto se l’ospedale aveva un reparto di rianimazione perché ero sull’orlo del collasso. Caroline ha detto che non si poteva aprire la finestra per via della piccola e mi ha offerto delle gelatine alla frutta scolorite. Nella culla trasparente c’erano un biberon monouso e un pannolino stropicciato. Sotto la luce anomala della plafoniera tutte le stoffe, le lenzuola, gli asciugamani, i bavaglini apparivano gialli. In quel mondo confinato, indescrivibilmente scialbo, stava cominciando una nuova vita. Ho accarezzato la fronte della piccola addormentata, ho baciato Joël e Caroline. Prima di uscire ho posato gli anemoni afflosciati dal caldo su un banco della hall. In macchina, ho detto a Luc che la figlia della mia amica era davvero bella. Lui ha domandato, cosa facciamo? Andiamo da te? E io ho detto, no. Luc è sembrato sorpreso. Ho detto, ho voglia di cambiare. Ha messo in moto e si è avviato a casaccio. Ho intuito che la cosa lo contrariava. – Non sopporto più che si vada da me ogni volta, troppo comodo. Luc non ha risposto. Non avrei dovuto dirlo in quel modo. Mi sono pentita dell’espressione troppo comodo, ma non ci si può sempre controllare. Continuava a piovere. Non abbiamo più scambiato una parola. Lui ha lasciato la macchina poco prima della Bastille. Siamo andati a piedi fino a un ristorante che conosceva e che era pieno. Luc ha insistito ma non c’è stato niente da fare. Eravamo già lontani dalla macchina e avevamo girato parecchio prima di trovare parcheggio. A un certo punto, per strada, ho detto che avevo freddo e Luc, in un tono che mi è parso irritato, ha detto, andiamo lì. – No, perché lì? – Hai freddo. Siamo entrati in un locale che non mi piaceva per niente e Luc ha subito accettato il tavolo che ci veniva proposto. Mi ha chiesto se andava bene mentre già ci stavamo sedendo. La serata era partita male, non ho osato dire di no. Mi si è seduto di fronte, con i gomiti sul tavolo, le mani incrociate, e ha cominciato a scrocchiarsi le dita. Io continuavo ad avere freddo e non riuscivo a togliermi né il cappotto né la sciarpa. Il cameriere ha portato il menu. Luc ha fatto finta di studiarlo. Sotto la luce smorta del neon aveva i tratti tirati. Ha ricevuto sul cellulare un messaggio della figlia minore che mi ha mostrato. «Raklet à gogo!». Sua moglie e le bambine erano in vacanza in montagna. Quella mancanza di tatto mi ha ferita, tra parentesi trovo patetico il suo rimbambimento paterno. Ma ho sorriso affabilmente. Ho detto, è fortunata. Luc ha detto, sì. Un sì insistito. Senza leggerezza. Non ce l’ho fatta a proteggermi da quell’intonazione. Ho detto, non le raggiungi? – Sì certo, venerdì. Ho pensato, che vada al diavolo. Non c’era assolutamente niente che potessi mangiare, su quella carta. E su nessun’altra carta al mondo, credo, per cui ho detto, non ho fame, vorrei solo un cognac. Luc ha detto, io prenderei volentieri una scaloppina impanata con le patatine fritte. In quello squallido séparé, cosiddetto intimo, mi ha assalito la malinconia. Il cameriere ha dato una passata al tavolo di legno laccato che anche dopo il suo intervento non era affatto pulito. Chissà se gli uomini, pur senza volerlo ammettere, hanno crisi di questo genere. Ho pensato alla bambina che viveva le sue prime ore, avvolta in quella stanza color cera. Mi è tornata in mente una storia che ho subito raccontato a Luc tanto per non stare in silenzio. Una sera, a una cena, uno psichiatra, che era anche psicoanalista, ha riferito le parole di un suo paziente che soffriva di solitudine. Questo paziente gli aveva detto, quando sono a casa, ho paura che qualcuno arrivi e veda fino a che punto sono solo. Lo psicoanalista aveva aggiunto, ridacchiando, quel tizio è completamente in loop. Anche questo l’ho detto a Luc. E Luc, ordinando un bicchiere di vino bianco, ha ridacchiato allo stesso modo di Igor Lorrain, lo psicoanalista, un modo stupido, e volgare, e odioso. Avrei dovuto andarmene, piantarlo lì in quel ridicolo séparé, invece ho detto, vorrei vedere dove vivi. Luc ha fatto quello stupito, quello che non è sicuro di aver capito bene. Ho ripetuto, vorrei andare a casa tua, vedere come vivi. Luc mi ha guardata come se cominciassi a riacquistare un qualche interesse e ha canticchiato, a-hà a casa mia birichina?... Ho annuito in modo vagamente malizioso, e ce l’avevo con me stessa per quel mio bamboleggiare, quella mia incapacità di essere me stessa davanti a Luc. Però ho detto, tornando alla storia del paziente (mi avevano appena portato il cognac), non ti è piaciuta? Non ci hai visto una perfetta allegoria dell’assenza? Assenza di cosa? ha detto Luc. – Dell’altro. – Sì, sì, certo, ha detto Luc schiacciando il contenitore della senape. Sicura che non vuoi mangiare niente? Almeno prendi qualche patatina. Ho preso una patatina. Non sono abituata al cognac, né ai superalcolici in genere. Al primo sorso mi gira la testa. A Luc non era neanche venuto in mente di portarmi in albergo. Si è talmente abituato a venire da me che non è stato capace di trovare la benché minima alternativa. Gli uomini sono di un immobilismo assoluto. Siamo noi a creare il movimento. Ci danniamo ad animare l’amore. Da quando conosco Luc Condamine, mi faccio continuamente in quattro. Nel séparé dietro di noi sono arrivati dei giovani rumorosi, pieni di energia. Luc mi ha chiesto se vedo i Toscano qualche volta. Noi ci siamo conosciuti dai Toscano. Luc è il migliore amico di Robert. Lavorano per lo stesso giornale ma Luc è inviato speciale. Ho detto che in questo periodo torno a casa tardi e vedo poca gente. Luc mi ha detto che Robert gli sembra depresso e che lui gli ha presentato una ragazza. La cosa mi ha sorpreso perché ho sempre pensato che Robert fosse un uomo diverso da Luc. Ho detto, non sapevo che Robert avesse delle avventure. – Non ne ha, è appunto per questo che gliel’ho presentata. Gli ho ricordato che essendo amica di Odile non posso condividere confidenze di questo genere. Luc ha riso pulendosi la bocca. Mi ha pizzicato la guancia con aria di finta compassione. Aveva già divorato la sua ciotola di patatine e stava attaccando il resto della scaloppina. Ho detto, chi è? – Ah no Paola! Tu sei amica di Odile, non vorrai mica saperlo! – Chi è? La conosco? – No, hai ragione tu, non sta bene che tu lo sappia. – Già, non sta affatto bene. Dài, spara. – Virginie. Segretaria in uno studio medico. – Dove l’hai conosciuta?... Luc ha accennato con un gesto al vasto mondo delle sue relazioni. Tutt’a un tratto ero allegra. Avevo bevuto il mio cognac a una velocità inaudita. Ma ero allegra perché anche Luc era tornato di buon umore. Ha ordinato una crostata di albicocche con due cucchiaini. Era acida e troppo cremosa ma ci siamo contesi l’ultimo spicchio di frutta. Alle nostre spalle i giovani ridevano e io mi sono sentita giovane come loro. Ho detto, mi porti a casa tua Luc? Ha detto, andiamo. Non sapevo più se fosse una buona idea. Non avevo le idee molto chiare. A quel punto le cose erano ancora leggere. Correndo sotto la pioggia. In macchina, all’inizio, l’umore è rimasto leggero. Poi ho fatto cadere uno dei CD che erano nel vano del cruscotto. Il disco è uscito dalla custodia ed è rotolato sotto il mio sedile. Quando l’ho recuperato, Luc aveva già raccolto la custodia. Guidando, mi ha preso il CD dalle mani e l’ha rimesso nell’astuccio. Poi l’ha infilato tra gli altri picchiettando col dito per rimetterli tutti ben allineati. Né lui né io abbiamo detto una sola parola. Mi sono sentita goffa e forse perfino indiscreta. Da una simile precipitazione avrei potuto limitarmi a dedurre che Luc Condamine è un maniaco dell’ordine, e invece mi è venuto stupidamente da piangere come a una bambina sorpresa con le mani nella marmellata. Adesso non pensavo più che fosse una buona idea andare a casa sua. Nella hall del palazzo, Luc ha aperto con la chiave una porta a vetri. Dietro, legati alla ringhiera, c’erano una carrozzina e un passeggino piegato. Luc mi ha fatta passare davanti e siamo saliti a piedi al terzo piano, in una tromba di scale parzialmente occupata da un ascensore quasi invisibile. Luc ha acceso la luce nell’ingresso. Ho intravisto una libreria e un attaccapanni a cui erano appesi giacche a vento e cappotti. Mi sono sfilata il cappotto, i guanti, la sciarpa. Luc mi ha fatto accomodare in soggiorno. Ha regolato una lampada alogena e mi ha lasciato sola per un attimo. C’erano un divano, un tavolino basso, sedie spaiate, come in ogni soggiorno. Una poltrona di pelle piuttosto logora. Un’altra libreria, dei libri, delle foto incorniciate tra cui una di Luc, nello studio ovale, ipnotizzato da Bill Clinton. Un insieme di oggetti casuali. Mi sono seduta sul bordo della poltrona di pelle. Avevo già visto il motivo delle tende da qualche parte. Luc è tornato, si era tolto la giacca. Mi ha detto, vuoi bere qualcosa? Ho detto, un cognac, come se nell’arco di una serata fossi diventata una donna che beve un cognac dietro l’altro. Luc è andato a prendere una bottiglia e due bicchieri. Si è seduto sul divano e ha servito entrambi. Ha abbassato l’alogena, ha acceso una lampada di stoffa plissettata e si è abbandonato all’indietro sui cuscini contemplandomi. Io ero seduta su pochi centimetri di poltrona, dritta, con le gambe accavallate, e con il mio bicchiere in mano cercavo di darmi un tono alla Lauren Bacall. Luc era sprofondato nel divano, a gambe divaricate. Tra me e lui, su una specie di tavolinetto, c’era una foto incorniciata di sua moglie che rideva, verosimilmente in un minigolf, insieme alle due figlie. Luc ha detto, Andernos-les-Bains. Hanno una casa di famiglia ad Andernos-les-Bains. Sua moglie è di Bordeaux. Cominciava a girarmi un po’ la testa. Con una lentezza che ho trovato quasi melodrammatica, Luc ha iniziato a sbottonarsi la camicia con una mano. Poi ne ha scostato i lembi. Ho capito che l’idea era che io facessi lo stesso, che mi spogliassi allo stesso ritmo a pochi metri da lui. Luc Condamine ha un grande ascendente su di me da questo punto di vista. Indossavo un vestito con sopra un cardigan. Ho scoperto una spalla. Poi ho sfilato una manica del cardigan per batterlo sul tempo. Luc ha sfilato una manica della camicia. Mi sono tolta il cardigan e l’ho gettato a terra. Lui ha fatto lo stesso con la camicia. Era a torso nudo. Mi sorrideva. Ho tirato su la gonna e arrotolato una calza. Luc si è levato le scarpe. Mi sono sfilata l’altra calza, l’ho appallottolata e gliel’ho lanciata. Luc ha aperto la lampo dei pantaloni. Ho aspettato un secondo. Ha tirato fuori il sesso e a un tratto mi sono accorta che il divano era turchese. Un turchese cangiante sotto la finta luce da alcova, e ho pensato che in mezzo a tutto il resto la scelta di quel colore per il divano era abbastanza strana. Mi sono chiesta chi dei due, se lei o lui, si occupasse dell’arredamento. Luc si è sdraiato in una posizione lasciva che ho trovato attraente e imbarazzante al tempo stesso. Ho guardato la stanza, i quadri nella falsa penombra, le foto, le lanterne marocchine. Mi sono chiesta di chi fossero i libri, la chitarra, l’orrida zampa di elefante. Ho detto, non lascerai mai tutto questo. Luc Condamine ha sollevato la testa e mi ha guardata come se avessi detto una frase del tutto incongrua.

Ernest Blot

Le mie ceneri. Non so cosa sia meglio farne. Rinchiuderle da qualche parte o disperderle. Me lo chiedo, seduto in cucina, in vestaglia davanti al portatile. Jeannette va e viene, come una donna felice di dedicarsi alle sue mansioni in un giorno festivo. Apre armadietti, accende elettrodomestici, fa tintinnare posate. Cerco di leggere il giornale sul computer. Dico, Jeannette!... Per favore. Mia moglie risponde, nessuno ti obbliga a stare in cucina mentre preparo la colazione. Dalla finestra ci arriva un brontolio di temporale. Mi sento logoro, ingobbito, aggrondato nonostante gli occhiali. Osservo la mia mano che vaga sul tavolo, che stringe questo strumento che chiamano mouse; un corpo in lotta con un mondo al quale non appartiene più. I vecchi, persone di un altro tempo messe nel futuro, ha detto l’altro giorno mio nipote Simon. Un genio quel bambino. La pioggia inizia a battere contro il vetro e mi suscita immagini di mare, di fiume, di ceneri. Mio padre è stato cremato. Ce l’hanno restituito in una scatola di metallo quadrata, brutta, dipinta di marrone come le pareti delle aule alla scuola media Henri-Avril a Lamballe. Ho disperso le sue ceneri con mia sorella Marguerite e due cugini su un ponte a Guernonzé. Lui voleva essere disperso nella Braive. A cento metri dalla casa in cui era nato. Alle sei di sera. In pieno centro. Avevo sessantaquattro anni. Qualche mese dopo il mio quintuplo bypass. Non c’è un posto che rechi il suo nome. Marguerite non riesce ad abituarsi all’idea che non sia da qualche parte. Quando ci vado – una volta all’anno, è lontano –, a volte rubo un fiore, ai bordi della strada, altre volte ne compro uno, che getto furtivamente nell’acqua. Se ne va con la corrente. E io trascorro dieci minuti di beatitudine. Mio padre aveva paura di venire rinchiuso come suo fratello. Un fratello che era tutto l’opposto. Un giocatore d’azzardo. Una specie di grande Gatsby. Quando entrava in un ristorante, il personale si prostrava. Lui pure è stato cremato. L’ultima moglie ha voluto metterlo con la sua famiglia, nella loro tomba faraonica. L’addetto delle pompe funebri ha aperto appena uno spiraglio nella porta in bronzo cesellato, ha deposto l’urna sul primo dei dodici ripiani di marmo e ha subito richiuso. In macchina, tornando dal cimitero, mio padre ha detto, passi la vita a vantarti di entrare dalla porta principale e alla fine ti infilano attraverso uno spiraglio e ti piazzano dove capita. Anche a me piacerebbe dissolvermi nella corrente. Ma da quando ho venduto la casa di Plou-Gouzan L’Ic di fiumi non ne ho. E il fiume della mia infanzia è diventato brutto. Era selvaggio, con l’erba che cresceva tra le pietre, fiancheggiato da un muro di caprifoglio. Oggi hanno cementato le sponde, accanto ci hanno costruito un parcheggio. Oppure nel mare. Ma è troppo grande (e ho paura degli squali). Dico a Jeannette, vorrei che gettassi le mie ceneri in un corso d’acqua ma non ho ancora deciso quale. Jeannette blocca il tostapane. Si pulisce le mani con uno strofinaccio e si siede davanti a me. – Le tue ceneri? Vuoi essere cremato, Ernest? Troppo sgomento sulla sua faccia. Troppo pathos. Rido scoprendo tutti i denti guasti, sì. – E lo dici così, come se parlassi del temporale? – Non è granché come argomento di conversazione. Lei tace. Liscia la tovaglia sul tavolo, lo sai che sono contraria. – Lo so, ma non voglio essere impilato in una tomba, Jeannette. – Nessuno ti obbliga a fare tutto come tuo padre. A settantatré anni. – È l’età giusta per fare come il proprio padre. Mi risistemo gli occhiali. Dico, mi faresti la cortesia di lasciarmi leggere? Prima mi pugnali e poi torni al tuo giornale, risponde lei. Vorrei tanto che sullo schermo apparisse un giornale. Che cosa mi manca? La password, il nome utente? Nostra figlia Odile si è messa in testa di mettermi al passo coi tempi. Ha paura che mi arrugginisca e che mi isoli. Quando mi occupavo di politica e di finanza, nessuno pretendeva che fossi al passo coi tempi. Corpi sinuosi volteggiano sullo schermo. Mi ricordano le mosche che mi fluttuavano davanti agli occhi quando ero bambino. Ne avevo parlato con un’amichetta. Le avevo chiesto, ma sono angeli? Mi aveva detto di sì. La cosa mi aveva procurato un certo orgoglio. Io non credo a niente. Di sicuro non a tutte quelle idiozie religiose. Forse un po’ agli angeli. Alle costellazioni. Al mio ruolo, seppur infinitesimale, nel libro delle cause e degli effetti. Non è proibito immaginarsi parte di un tutto. Non so che combina Jeannette con quello strofinaccio invece di continuare a tostare il pane. Ne arrotola gli angoli e se li attorciglia intorno all’indice. Mi fa perdere la concentrazione. Non posso affrontare una discussione seria con mia moglie. Farsi capire è una cosa impossibile. Non esiste. Soprattutto fra marito e moglie, basta una frase per essere messi sotto accusa. Jeannette srotola di scatto lo strofinaccio e dice con voce lugubre, tu non vuoi stare con me. Con te dove? dico io. – Con me, in generale. – Ma come no, Jeannette, certo che voglio stare con te. – No. – Nella morte siamo tutti soli. Smettila con quello strofinaccio, che cosa traffichi? – Mi ha sempre fatto tristezza che i tuoi genitori non siano sepolti insieme. Tua sorella la pensa come me. Papà nella Braive è più che felice, dico io. E tua madre è triste, dice Jeannette. – Mia madre triste! Di nuovo il mio sorriso cattivo, bastava che lo seguisse anziché far esumare i genitori per assicurarsi un posto nella tomba di famiglia. Chi la costringeva? – Sei un mostro, Ernest. – Non è una novità, dico. A Jeannette piacerebbe seppellirmi con lei perché i passanti vedano i nostri due nomi, Jeannette Blot e il suo devoto marito, solidamente fissati nella pietra. Vorrebbe cancellare per sempre le umiliazioni della nostra vita coniugale. In passato, quando la notte non rincasavo, sgualciva il mio pigiama prima che arrivasse la cameriera. Mia moglie conta sulla tomba per mettere a tacere le malelingue, intende restare una piccola borghese perfino nella morte. La pioggia mitraglia i vetri. Quando tornavo da Bréhau-Monge a Lamballe dove si trovava il mio convitto, il vento della sera soffiava. Incollavo il naso ai rivoli d’acqua. C’era questa frase di Renan: «Quando la campana suona le cinque...». In che libro? Vorrei rileggerlo. Jeannette ha smesso di tormentare lo strofinaccio. Guarda lontano nel vuoto verso la luce grigiastra che entra dalla finestra. Da giovane aveva un’aria sfrontata. Somigliava all’attrice Suzy Delair. Il tempo modifica perfino l’anima dei volti. Dico, non posso neanche bermi un caffè? Lei alza le spalle. Mi chiedo che tipo di giornata si prospetta. Un tempo non prestavo la minima attenzione a questo incessante succedersi del giorno e della notte, non sapevo neanche se era mattina, pomeriggio o che cosa. Andavo al ministero, andavo in banca, andavo a donne, senza mai preoccuparmi delle possibili conseguenze. Mi capita ancora di essere sufficientemente su di giri per andare un po’ a donne, ma da una certa età in poi i preliminari sono stancanti. Jeannette dice, si può anche scegliere di farsi cremare senza per forza far disperdere le proprie ceneri. Non raccolgo nemmeno. Torno alla mia finta attività virtuale. Io non sono contrario a imparare cose nuove, ma a che scopo? Per stimolare le cellule cerebrali, dice mia figlia. E questo cambierà la mia visione del mondo? Ci sono già abbastanza pollini e schifezze nell’aria senza che uno ci metta anche della polvere di morto, non mi sembra il caso, dice Jeannette. Chiederò a qualcun altro, dico io. A Odile, o a Robert. O a Jean, ma temo che quell’idiota se ne andrà prima di me. Non l’ho trovato granché in forma martedì scorso. Gettatemi nella Braive. Andrò a raggiungere mio padre. Tu assicurati solo che non mi infliggano nessuna cerimonia, niente servizio funebre o altre manfrine, parole benedette e pacificanti. Magari poi muoio anch’io prima di te, dice Jeannette. – No, no, tu sei tosta. – Ernest, se muoio prima di te voglio che ci sia una benedizione e che tu racconti come mi hai chiesto di sposarti a Roquebrune. Povera Jeannette. In un tempo ormai ridotto a materia indistinta, le avevo chiesto la mano attraverso lo spioncino di una segreta medioevale in cui l’avevo rinchiusa. Se sapesse a che punto Roquebrune abbia perso ogni significato per me. A che punto quel passato si sia dissolto e volatilizzato. Due persone vivono fianco a fianco e ogni giorno la loro immaginazione li allontana in modo sempre più definitivo. Le donne, nel loro intimo, si costruiscono palazzi incantati. Tu sei lì dentro da qualche parte mummificato ma non lo sai. Nessuna sregolatezza, nessuna mancanza di scrupoli, nessuna crudeltà sono considerate reali. Sulla soglia dell’eternità, ci toccherà raccontare una storia di giovincelli. Tutto è fraintendimento, e torpore. – Non contarci Jeannette. Per fortuna me ne andrò prima di te. E tu assisterai alla mia cremazione. Non puzza più di maiale ai ferri come una volta, stai tranquilla. Jeannette spinge indietro la sedia e si alza. Getta sul tavolo lo strofinaccio. Spegne il fornello su cui evapora l’acqua delle mie uova e stacca il tostapane. Uscendo dalla stanza mi butta lì, per fortuna tuo padre non ha scelto di farsi tagliare a pezzi, se no vorresti farti tagliare a pezzi pure tu. Credo che spenga anche la plafoniera. Il giorno non dispensa alcuna luce e io mi ritrovo in un cupo sollievo. Tiro fuori di tasca il pacchetto di Gauloises. Ho promesso al dottor Ayoun che non avrei più fumato. Così come gli ho promesso di mangiare insalata e bistecche ai ferri. È gentile quell’Ayoun. Una sola, non mi ammazzerà mica. L’occhio mi cade sul setaccio di legno per la pesca ai gamberetti, appeso al muro da anni. Cinquant’anni fa lo immergevano sotto le alghe e nelle faglie. Un tempo, Jeannette ci infilava dentro mazzetti di timo, di alloro, erbette di ogni tipo. Gli oggetti si accumulano e diventano inutili. E noi uguale. Ascolto la pioggia che è un po’ meno forte. Anche il vento. Inclino lo schermo del portatile. Tutto ciò che abbiamo sotto gli occhi è già passato. Non sono triste. Le cose sono fatte per svanire. Me ne andrò senza storia. Non troveranno né bara né ossa. Tutto continuerà come sempre. Tutto se ne andrà allegramente nella corrente.