sabato 1 gennaio 2022

LA STRADA DI CASA Kent Haruf

LA STRADA DI CASA
Kent Haruf

NOTA DEL TRADUTTORE
Fabio Cremonesi
Uno dei temi centrali di questo romanzo, il secondo di Haruf, uscito negli Stati Uniti nel 1990, sei anni dopo Vincoli e ben nove anni prima di Canto della pianura, è la giustizia. Quella dei tribunali, che nel romanzo risulta del tutto inadeguata; quella sommaria degli abitanti di Holt, che aspettano Burdette fuori dal carcere, pronti a vendicarsi da soli, e quella di individui come Jessie, che si condanna a una vita durissima pur di risarcire – restitution è una delle parole chiave del libro – come può i suoi concittadini (concittadini, sì, perché pur essendo originaria dell’Oklahoma, Jessie, schiva, retta e dotata di grande senso pratico, è decisamente il personaggio più “holtiano” del romanzo). E questo risarcimento giunge ad assumere la forma del sacrificio di sé e della figlia ancora non nata, in una scena di grande potenza, che si può comprendere a pieno solo pensando al fondamentale ruolo del protestantesimo metodista nella vita di Haruf.L’elemento che fa emergere (e porta a confliggere) modi di intendere la giustizia così diversi è, non a caso, un villain, un personaggio brillante, seducente, dotato di indiscutibili talenti sistematicamente messi al servizio di cause sbagliate. In effetti lo stesso autore ne sembra affascinato, e il fatto di introdurlo nel primo capitolo come un essere disgustoso e trasandato appare funzionale al lungo flashback che segue, una sorta di “storia di un disinganno”, dai promettenti inizi fino alla fuga ingloriosa. Simmetricamente, più la figura di Jack Burdette si fa opaca, più acquisisce forza e dignità quella di Jessie, anche se (e questo è forse l’unico caso in tutta la produzione letteraria di Haruf) neppure con una donna come lei al proprio fianco, Burdette riuscirà a salvarsi da se stesso.Un’altra peculiarità di questo romanzo è il finale: se nel resto della sua opera Haruf sembra deliberatamente evitare i colpi di scena, come se li considerasse alla stregua di espedienti che distolgono dalla ricerca della verità delle sue storie e dei suoi personaggi, qui l’ultimo capitolo ha un’accelerazione davvero inattesa, che culmina in un finale totalmente aperto. Qualche “harufiano” di lungo corso potrebbe sentirsi disorientato, ma Haruf non è mai un autore consolatorio, e un finale aperto è un modo come un altro per lasciare spazio al lettore e al suo senso morale.Un’ultima osservazione: come lettore di Benedizione, un romanzo che si svolge quasi tutto in penombra, mi porto dentro il sole abbagliante della scena del bagno delle quattro donne. Ecco, se quello è il mezzogiorno di Haruf, in La strada di casa c’è la sua mezzanotte, una manciata di parole che, con la massima sobrietà, scolpiscono la disperazione come esperienza individuale e sociale:“La gente di Holt pensava che a quel punto avrebbe pianto. Pensavano che sarebbe crollata. Immagino fosse quello che volevano. Ma lei non lo fece. Forse aveva oltrepassato il punto in cui le lacrime di un essere umano hanno un senso, difatti girò la testa, chiuse gli occhi e dopo un po’ si addormentò”. E ora concedetemi un attimo di sentimentalismo nell’augurarvi per l’ultima volta: bentornati a Holt!

LA STRADA DI CASA
 1 
Alla fine Jack Burdette tornò a Holt. Nessuno di noi se l’aspettava più. Erano otto anni che se n’era andato e per tutto quel tempo nessuno aveva saputo niente di lui. Persino la polizia aveva smesso di cercarlo. Avevano ricostruito i suoi movimenti fino in California, ma dopo il suo arrivo a Los Angeles se l’erano perso e a un certo punto avevano rinunciato. Quindi nell’autunno del 1985, per quanto se ne sapeva, Burdette era ancora là. Era ancora in California, e noi ci eravamo quasi dimenticati di lui. Poi un sabato di inizio novembre, nel pomeriggio, ricomparve a Holt. Era al volante di una Cadillac rossa. Non era nuova; l’aveva comprata poco dopo essersene andato, quando ancora aveva soldi da spendere. Rimaneva sempre un’automobile pacchiana, di quelle su cui ci si aspetterebbe di vedere un pappone di Denver o un nuovo ricco di Casper, Wyoming, che ha fatto i soldi con il petrolio. Tutta quella vernice rossa – dello stesso colore di una ferita aperta, per dire, o del rossetto sulle labbra di una donna il sabato sera – splendeva, scintillava sotto il sole, come se avesse trascorso tutto il giorno a lucidarla prima di mostrarcela. Guidò quella macchina, un affronto, un oltraggio per tutta la città se avessimo saputo fin da subito chi c’era al volante, attraversò Holt lungo la Highway 34, poi fece inversione e tornò indietro, si diresse a nord su Main Street, passando accanto al serbatoio dell’acqua e alla banca e all’ufficio postale e al cinema Holt, e alla fine parcheggiò in pieno centro, e non scese. Per il resto del pomeriggio e buona parte della serata rimase lì come se stesse aspettando qualcosa: aspettava fumando e sputando per terra attraverso il finestrino abbassato, e solo di tanto di tanto si spostava da una parte all’altra del sedile anteriore per alleviare il fastidio del volante contro la pancia. Immagino pensasse che qualcuno gli avrebbe rivolto la parola. Ma nessuno lo fece. Non subito. Sembrava che nessuno lo riconoscesse. Per almeno un’ora i suoi ex concittadini si limitarono a passargli davanti mentre andavano a fare acquisti, fuori e dentro i negozi come ogni sabato pomeriggio, senza fermarsi a parlare, senza neanche rallentare abbastanza da vedere di chi fosse quella Cadillac. Però alla fine a qualcuno venne in mente di chiamare lo sceriffo. Quel qualcuno era Ralph Bird, il proprietario del Men’s Store, un negozio di vestiti da uomo. Verso le quattro e mezzo di quel pomeriggio, Ralph Bird guardò fuori dalla vetrina del Men’s Store e si accorse della Cadillac rossa dall’altro lato della strada, di fronte alla taverna. All’inizio non ci fece troppo caso. La stagione della caccia al fagiano era cominciata e comunque in città c’erano sempre automobili bizzarre. Mezz’ora dopo, però, guardando di nuovo dall’altra parte della strada, si accorse che la macchina era ancora lì, con lo stesso uomo che aveva già notato prima seduto al volante, e questo lo turbò. Si mise a osservare l’automobile. Mai vista prima. Eppure dopo un minuto o due, ebbe la sensazione che in quell’uomo ci fosse qualcosa di familiare. Si voltò per chiamare sua moglie dal retro del negozio. Ehi, disse. Vieni qui un attimo. Cosa c’è? Vieni qui. Hannah Bird, che stava lavorando tra file di scaffali in legno, uscì dal magazzino. Era alta e magra, con i capelli tinti di rosso scuro. Si fermò sulla soglia, scostandoseli dagli occhi. Cosa c’è? chiese. Sto cercando di mettere via quelle scatole di scarpe. Guarda là, disse Bird. Là dove? Quella macchina. Lo vedi il tizio che c’è dentro? Hannah si avvicinò alla vetrina. Lo vedo. Che ne pensi? Non ne penso niente. Guarda meglio. La donna guardò di nuovo. Proprio in quel momento, l’uomo nella macchina scintillante voltò la testa per sputare, e Hannah Bird lo vide di profilo. Lo riconobbe subito. Non fare niente, Ralph, disse. Lascialo in pace. Certo, osservò Bird. Mi pareva che fosse lui. Però non lo devi scocciare. Non hai idea di quello che potrebbe fare quell’uomo. Mi deve ancora dei soldi. Non mi interessa. Lascia che se ne occupi la polizia. Ralph Bird non le diede retta. Hannah gli posò una mano sul braccio come se volesse tenerlo sotto controllo, trattenerlo a forza, ma lui gliela spazzò via come fosse un pelucco. Aprì la porta e uscì. Ralph, gridò lei. Torna qui, Ralph. Fuori aveva iniziato a fare un freddo pungente. Agli angoli delle strade si erano accese le lampade al mercurio e sull’asfalto si stava alzando una lieve brezza. Bird osservò Main Street a destra e sinistra, era quasi deserta; poi scese dal marciapiede e attraversò la strada dirigendosi verso la Cadillac rossa di Burdette. Quando la raggiunse, si fermò per un momento a studiare la targa. L’auto era immatricolata in California. Poi costeggiò la fiancata fino alla portiera del guidatore. Guardò dentro. Burdette lo stava a sua volta fissando dal finestrino aperto. Burdette aveva un brutto aspetto. Negli otto anni in cui né Bird né nessun altro di noi l’aveva visto, era cambiato in peggio. Era diventato grasso, obeso, ormai sformato, eccessivo; era calvo e la carne pendeva dal suo corpo come sugna. Sembrava che si fosse nutrito solo di torte alla crema e bistecche di maiale e poi avesse smesso del tutto di mangiare, avrebbe osservato Bird tempo dopo. Ma era pur sempre Jack Burdette. Figlio di puttana, attaccò Bird. Perché sei tornato qui? Sei proprio tu, Bird? Sì. Sono io. Ti ho visto nello specchietto. Ma ero abbastanza sicuro che non mi avresti rivolto la parola. Pensavo volessi solo ammirare la macchina. E invece ti parlo, rispose Bird. E parlerò anche con Bud Sealy. Burdette fissò Bird, poi fece una risata aspra, sonora. Il suo modo di ridere non era cambiato; era la stessa esplosione improvvisa che tutti ricordavamo. D’accordo, replicò Bird. Prego. Divertiti. Ti resta ancora qualche minuto. Perché? Hai già detto a Bud Sealy che sono qui? No. Ma sto per farlo. Fai pure. Io non vado da nessuna parte. E puoi dire a Bud... Burdette parve riflettere. Sputò di nuovo fuori dal finestrino, stavolta ai piedi di Bird. Puoi dirgli che non vedo l’ora di incontrarlo. Figlio di puttana, esclamò Bird. Maledetto... Poi Ralph Bird si interruppe di colpo. Si allontanò dalla macchina e si incamminò verso l’incrocio. Si voltò indietro, poi proseguì di buon passo. Quando raggiunse l’incrocio stava correndo. Svoltò in Second Street dirigendosi a est, verso il tribunale, un isolato più in là. Continuò a correre con le braccia che andavano avanti e indietro, un elegante ometto di mezz’età in giacca e cravatta che correva sul marciapiede buio, superando vetrine e facciate di mattoni, poi attraversò Albany Street e salì i gradini del tribunale. In cima alla scalinata la luce dell’ingresso principale illuminava il pavimento attraverso le porte a vetri, che però erano chiuse, e in un attimo di panico Bird prese a bussare rumorosamente. Si rese conto che era sabato pomeriggio tardi. Quindi si voltò, si precipitò giù dalle scale e riprese a correre lungo l’alto muro di mattoni del tribunale; girò l’angolo e seguendo il marciapiede raggiunse un’altra porta sormontata da una luce rossa. Questa non era chiusa a chiave. Bird la spalancò e corse giù per una rampa di scale, nel seminterrato. Nel primo ufficio dopo l’atrio trovò Dale Willard, il vicesceriffo della contea di Holt, seduto con i piedi sulla scrivania. Si stava tagliando le unghie. Dov’è Bud? gridò Bird. Si fermò ansimando al bancone. Willard alzò lo sguardo verso di lui. Dov’è Bud Sealy? Non c’è. Questo lo vedo anch’io. Dov’è? A quest’ora? A casa a cenare. E allora chiamalo, cristo santo. Digli di venire qui. Willard fece scivolare i piedi dalla scrivania e lentamente si raddrizzò sulla sedia. Si chinò in avanti e spazzò via dalla camicia i frammenti di unghie, gettandoli sul tavolo. Li sistemò in un mucchietto ordinato. C’è qualcosa che non va, Ralph? disse. Mi sembri su di giri. Cosa? rispose Bird. Era ancora in piedi dietro il bancone, sudato e ansimante, con la faccia rossa come una rapa e occhi da barboncino spaventato. Su di giri? Stammi a sentire, perdio. Se non vuoi chiamarlo tu, perlomeno passami il telefono, così ci penso io. Dammi il suo numero. No. Direi che posso farlo io, replicò Willard. Appena so se c’è un motivo per chiamarlo. Appena riesco a capire di che cavolo stai parlando. Di cosa sto parlando? disse Bird. Ormai stava gridando. Te lo dico io... Poi parve controllarsi; sembrava che si stesse sforzando di mantenere la calma. Ma non ci riuscì, quindi tornò a rivolgersi a Willard come se fosse un idiota. Sto parlando di quel figlio di puttana, che è tornato, disse troppo lentamente. Ecco di cosa sto parlando. E adesso chiamalo. Certo. Ma chi è questo figlio di puttana, Ralph? Cosa? Vuoi dire che... Voglio dire che ancora non so a chi ti riferisci. Be’, a Jack Burdette. Cristo, l’avrai almeno sentito nominare, no? Sai chi è, no? Sì. So chi è Jack Burdette. E sai anche cos’ha fatto, giusto? So cos’ha fatto. Chiunque nella contea di Holt sa cos’ha fatto. E allora chiama Bud Sealy. Perdio. C’è qui... Ralph Bird stava di nuovo gridando. Il controllo che per un attimo aveva mantenuto era svanito e lui aveva ripreso a urlare con la faccia sdegnata e paonazza sulla cravatta allentata. C’è qui quel figlio di puttana, è tornato su una Cadillac rossa targata California. L’ha parcheggiata di fronte alla Holt Tavern e se non la pianti di farmi domande idiote e non muovi il culo... Basta così, rispose Willard. Chiudi quella cazzo di bocca. Lui potrebbe... cosa? si interruppe Bird. Cos’è che hai appena detto? Ho detto di chiudere quella cazzo di bocca. E adesso vai lì e mettiti a sedere. Se ho bisogno di altro, te lo faccio sapere. Ma per il momento stai zitto. Ralph Bird era talmente esterrefatto che ammutolì. Non era abituato a essere trattato così, e questo lo rese docile. Sedette in un angolo con le mani in mano, come un bambino. Ma lo sguardo era ancora furioso. Willard rimase a guardarlo. Infine avvicinò a sé il telefono all’altro capo del tavolo. Compose il numero. Mentre il telefono squillava, con il piede spinse il cestino della spazzatura sotto il bordo della scrivania; poi con la mano libera buttò nel cestino l’ordinato mucchietto di unghie tagliate. Quando Sealy rispose, Willard disse: Bud? Sì. Stammi a sentire, Bud. C’è qui Ralph Bird che... Willard riferì ciò che gli aveva detto Bird. Sealy, da casa, lo ascoltò. Quando Willard finì di raccontare ciò che sapeva, Sealy gli domandò quanto tempo fosse passato; Willard glielo disse e Sealy gli chiese se fosse andato a controllare; Willard rispose che no, non era andato a controllare, prima voleva parlarne con Sealy, il quale gli rispose che dubitava di trovarlo ancora lì, ma dopo cena sarebbe comunque andato a dare un’occhiata. Nel frattempo cosa devo fare con Bird? domandò Willard. Perché, c’è qualcosa che non va? È un po’ su di giri. Perdio, rispose Sealy. Vedi un po’ tu. Se non riesci a tenerlo sotto controllo, portalo da sua moglie. Perlomeno lei gli darà da mangiare. Credo di riuscire a tenerlo sotto controllo, concluse Willard. * Ormai era buio. I lampioni brillavano vivaci agli angoli delle strade, gettando pallidi circoli di luce sull’asfalto sotto gli alberi. Era quel breve momento sospeso tra le sei e le sette di una sera di novembre, quando i negozi sono già chiusi per il fine settimana, quando lungo Main Street non sono ancora cominciate le scorribande in auto dei ragazzi delle superiori, quando persino la Holt Tavern è tranquilla prima della folla del sabato sera, e fuori città, accanto alla Highway 34, ci sono solo tre o quattro uomini che bevono una birra in silenzio seduti al Legion, il bar dell’Associazione dei veterani. Dopo aver parlato con il vicesceriffo Willard, Bud Sealy finì di cenare. Poi si alzò e uscì di casa nell’oscurità. Erano comparse le stelle e, guardandole, lo sceriffo fece un rutto e si sentì meglio. Si accese una sigaretta, salì sull’auto di servizio parcheggiata lì davanti e si diresse verso nord, per due isolati fino alla Highway 34 e poi ancora a nord verso Main Street. Passò accanto al serbatoio dell’acqua, alla banca e all’ufficio postale e al cinema, proprio come aveva fatto Burdette due o tre ore prima, e poco dopo, a un isolato di distanza, Bud scorse la Cadillac rossa parcheggiata di fronte alla Holt Tavern. Rallentò e si fermò subito dietro, in modo da non farsi sfuggire chiunque fosse al volante. Slacciò il cinturino della fondina e scese dall’auto. Burdette però non sembrava meditare la fuga o altro. Era ancora lì, sul sedile anteriore. Si era abbandonato all’indietro, contro il poggiatesta. La luce di un lampione gli brillava pallida sul grosso viso e sulla mascella. Sealy lo osservò per un momento. Poi tamburellò con le dita sul tetto dell’automobile. Burdette aprì gli occhi e si girò per guardare Sealy da sotto in su, come se la presenza dello sceriffo non lo riguardasse. Be’, attaccò Sealy. Sei tornato, a quanto pare. Proprio così, rispose Burdette. Sono tornato. Bella cazzata. Lo penso anch’io. Me ne sono stato qui cercando di ricordarmi cosa sono tornato a fare. Davvero? esclamò Sealy. Ti credevo più furbo. Pensavo che avessi calcolato tutto. Un tempo lo facevo. Ma devo aver dimenticato quanto è sfigato questo posto. Non riesco proprio a ricordare perché sono qui. Ah, no? Be’, immagino che noi non siamo cambiati granché. Niente di cui tu ti possa accorgere. Abbiamo ancora la tendenza ad agitarci quando qualcuno ci fa un torto. E poi decide di sparire. È passato un sacco di tempo da allora, disse Burdette. Certo. Ma non abbastanza, non lo capisci? Strano. Non so proprio che cazzo avessi in mente. Però una cosa la so: hai sbagliato a tornare qui. Non avresti dovuto. E adesso scendi da quella macchina. Burdette non si mosse. Non puoi farmi niente, disse. Sono passati otto anni. Ormai è finito tutto in prescrizione. Ne hai parlato con un avvocato? Con più di uno. Tempo sprecato. Non conta niente. Non conta proprio un cazzo di niente. Certo che sì. Funziona così dappertutto. No, ribatté Sealy. Non conta niente. Aprì la portiera dell’automobile. Stammi a sentire. Ho parlato abbastanza. Sono stato fin troppo gentile. Burdette si rifiutò di muoversi. Teneva stretto il volante della Cadillac, la testa rovesciata all’indietro contro il poggiatesta. D’accordo, riprese Sealy. Ci ho provato con le buone. Sul serio. Tolse la pistola dalla fondina che aveva in vita e all’improvviso gli infilò nell’orecchio la canna. Burdette si raddrizzò. Tentò di spostare la testa, ma Sealy la seguì con la pistola. Cristo, esclamò. Ma cosa credi di fare? Scendi, rispose Sealy. Burdette a quel punto si mosse. Scese dalla Cadillac e si raddrizzò, alto, pesante, massiccio, a incombere sullo sceriffo. Indossava una camicia di flanella a scacchi e pantaloni scuri; aveva le scarpe ma non i calzini. Sembrava che avesse dormito con quei vestiti addosso. Girati, disse Sealy. Andiamo, cazzo, Bud. Ma cosa ti salta in testa? Sealy gli diede un colpetto con la pistola. Girati. Burdette grugnì, ma lentamente voltò le spalle allo sceriffo. Sealy tolse le manette dalla custodia appesa alla cintura e le strinse intorno ai polsi spessi di Burdette. Fece un po’ fatica a chiuderle. Oh, gesù, esclamò Burdette. Cioè, mi stai dicendo che non mi leggerai nemmeno i miei diritti? Di che diritti parli? Tu non hai diritti. Non ne hai più. E adesso stai zitto mentre ti perquisisco. Figlio di puttana. Forza, lo incitò Sealy. Continua così. Fece scorrere le mani su Burdette, tastandolo su e giù lungo le gambe dei pantaloni e sul grasso che gli ricopriva le costole. Gli rovesciò le tasche. Quando si fu assicurato che non avesse con sé nulla di più pericoloso del portafoglio e di qualche spicciolo, rimase per un momento alle sue spalle, fissando l’enorme camicia stazzonata. E in Main Street era ancora l’ora tranquilla, il breve, sfuggente momento di pace e immobilità; per strada non c’era nessun altro. Quindi senza pensarci, suppongo senza neppure sapere cosa stava per fare, accanto alla scintillante Cadillac rossa, nella fugace quiete di una sera di novembre, lo sceriffo colpì Jack Burdette alla nuca con il calcio della pistola. Burdette urlò prima di crollare sul cofano della macchina. Si mise a imprecare. Ti credevo più furbo, esclamò Bud Sealy, abbassando lo sguardo sul sangue che gocciolava dalla nuca di Burdette. Pensavo che avresti evitato di tornare da queste parti. Che cazzo avevi in mente? 2 Frequentavo Jack Burdette da quando era nato. O per meglio dire, da quando era nato eccetto i quattro anni in cui lui era nell’esercito e a Holt e io all’università, all’inizio degli anni Sessanta, ed eccetto gli otto anni dopo la sua scomparsa, quando a Holt non si sapeva niente di lui: il periodo in cui stava in California e viveva del proprio fascino e di quei soldi che probabilmente pensava gli sarebbero durati per tutta la vita, finché un giorno non erano finiti e lui aveva scoperto che gli era rimasta un’unica attrattiva, e poco anche di quella. Fatto sta che sì, lo conoscevo. Eravamo cresciuti insieme. Per molto tempo mi era addirittura piaciuto. Suo padre, che la gente di qui ancora chiama John Senior, era molto noto in città. Lavorava alla ditta di legnami Nexey in Main Street, accanto ai binari del treno, ed era grande e grosso anche lui – come Jack, o almeno come sarebbe diventato Jack –, con una pancia notevole e una voce forte, identica al muggito di un toro e più o meno altrettanto elegante. Eppure credo fosse un uomo attraente. La gente di Holt lo vedeva così. Per lavorare alla ditta di legnami si metteva una salopette stirata e la sera, prima di rientrare a casa, si fermava sempre un’ora o due a bere nei bar lungo la Highway 34, quello dell’Associazione dei veterani oppure il Wagon Wheel Café. La madre di Jack invece era una donna molto bassa, molto magra e dall’aria emaciata. Portava sempre degli occhiali con la montatura rotonda di metallo scrupolosamente puliti e aveva un taglio di capelli che andava di moda quando era giovane, negli anni Venti, una specie di immutabile caschetto cortissimo. Era una persona molto seria. Non beveva, la sua voce non era più forte di un sospiro, e a Holt ritenevamo che la sua tolleranza nei confronti degli eccessi del marito fosse dovuta solo al fatto che era una brava cattolica. Suonava l’organo alla chiesa di St. John e si confessava con devozione a padre O’Brien, che portava l’apparecchio acustico. Non aveva molto altro nella vita, quindi è probabile che a sostenerla fossero padre O’Brien e la Chiesa cattolica. Negli anni a cui mi riferisco vivevano in Birch Street, a nord dei binari. Stavano in una vecchia casa con le pareti in stucco giallo e sul retro c’era un terreno edificabile coperto di erbacce e arbusti di lillà della California, che si estendeva per una cinquantina di metri verso lo spiazzo dove si tiene la fiera. A quei tempi, prima della costruzione delle nuove villette a schiera negli anni Settanta, quella era la zona più povera della città, eppure la gente di Holt considerava i Burdette una famiglia di classe media, con un reddito e una situazione dignitosi. Se non altro, erano interessanti. Valeva la pena osservare quella famiglia, con tutte le sue tensioni. Jack era nato nel 1941. I suoi genitori avevano già passato da un pezzo i quarant’anni. Erano sposati da più di venti. Credo avessero smesso di aspettarsi dei figli e tra loro vigeva ormai quel tipo di tregua armata che spesso le coppie senza figli accettano al posto di una vera vita coniugale. Poi era nato Jack. Inatteso, ovviamente. Di conseguenza i suoi genitori tentarono di rimettersi in sesto. Si dice che per un anno intero il padre smise di girare da un bar all’altro e che la madre per un po’ sembrò quasi carina, come se avesse una specie di aura. Ma non durò. Non ci furono altre gravidanze. E a un certo punto il vecchio riprese a uscire regolarmente a bere, mentre la madre si rimise a suonare l’organo in chiesa la domenica mattina, e in quell’ora settimanale di pace temporanea poteva guardare padre O’Brien da dietro i suoi piccoli, lindi occhiali con la montatura di metallo. Sembrava che nulla fosse cambiato, a parte il fatto che c’era una nuova fonte di tensioni, e quindi erano aumentati i litigi. Be’, il ragazzo era un tipo tosto. Aveva una massa di capelli neri e pareva sempre più grande della sua età. Quando compì sei anni, lo mandarono a scuola. Con i capelli lisciati, la camicia e i pantaloni nuovi, entrò per la prima volta nel vecchio edificio di mattoni a tre piani al margine occidentale della città, con gli ampi scalini consumati al centro, le finestre alte e il familiare odore di polvere spazzata, e non gli piacque. A scuola pretendevano che se ne stesse seduto in silenzio, alzasse la mano e rimanesse tranquillo. Allora durante la ricreazione lui si allontanava dall’area giochi e tornava a casa. Lo faceva più o meno una volta alla settimana. E quando arrivava, la signora Burdette, quella donnina pia e seria, lo afferrava per i capelli neri, lo faceva sdraiare sul tavolo della cucina e gliele dava con la spatola. Poi lo rispediva a scuola. Lui però non sempre ci tornava; spesso vagava per la città, passando per i vicoli sul retro dei negozi di Main Street, e per la campagna, seguendo i binari della ferrovia. Fu così che in aprile decisero che un altro anno in prima elementare e un altro trimestre con la signora Peach gli avrebbero fatto bene. Probabilmente pensavano che Jack non si fosse ancora del tutto adattato alle norme della società. Eppure non credo che la signora Peach abbia avuto un ruolo in questa decisione o che ne fosse entusiasta. In ogni caso, per il suo costante marinare la scuola, l’anno successivo Jack si trovò a ripetere la prima proprio quando la iniziai io, nel 1948. E dato che sul registro il suo nome veniva subito dopo il mio, gli fu assegnato il banco dietro di me. Quel primo giorno lo trovai già là. Era arrivato presto; i capelli pettinati con l’acqua rigidi sulla testa, era seduto al suo posto con le mani in mano, come se ne avesse già piene le scatole di tutto e stesse solo aspettando l’occasione giusta per scappare. Non gli interessavamo affatto. In quella classe era un veterano, per noi era impossibile capirlo. Per giunta, pesava almeno una decina di chili più di noi e ci superava di tutta la testa. Per lui non esistevamo neppure. Poi però, il secondo o il terzo giorno di scuola – nel bel mezzo di un pomeriggio caldo e silenzioso, con le alte finestre dell’aula spalancate per fare entrare una brezza che non c’era, mentre noi sudavamo copiando le lettere dell’alfabeto su fogli a righe – Jack mi diede una botta in testa. Mi girai. Non sapevo cosa aspettarmi. Sul suo banco c’era uno scoiattolo morto. L’aveva posato sulle sue goffe A e B. Aveva spremuto una goccia di sangue dello scoiattolo sul foglio, sotto il suo nome. Lo vuoi? mi chiese. No, risposi. Non lo voglio. Be’, io non me ne faccio più niente. Non lo voglio. A quel punto la signora Peach incombeva su di noi. Si ritrasse leggermente. Ordinò a Jack di buttare via immediatamente lo scoiattolo morto. Jack si alzò e avanzò verso la cattedra. Quando arrivò nell’angolo più lontano dell’aula, accanto al temperamatite e al cestino dei rifiuti, si girò a guardarci. Lo stavamo osservando tutti. Sollevò lo scoiattolo per una zampa posteriore e lo tenne per un attimo all’altezza degli occhi, sospeso, come per fare una piccola magia o come se lo scoiattolo stesso conoscesse qualche trucco. Poi lo lasciò andare. Parve tuffarsi nel cestino. Quando colpì il fondo, fece un rumore gratificante. Jack, esclamò la signora Peach. Siediti. Jack tornò lentamente al suo banco. Una volta lì, puntò gli occhi dritto davanti a sé sogghignando. Ormai non lo guardavamo più. Lo stavamo osservando stupiti e in soggezione, sconvolti e ammirati. Nel frattempo la signora Peach ci sgridava: Bambini. Bambini. Rimettetevi a lavorare. Batteva le mani. Ma per il resto del pomeriggio, almeno due volte all’ora, uno di noi rompeva la punta della matita per alzarsi, andare verso la cattedra, sbirciare nel cestino e vedere lo scoiattolo. Era riverso sulla schiena, con le zampe ferocemente incurvate contro il ventre marrone chiaro. Alla fine, dopo che la scena si era ripetuta parecchie volte, la signora Peach annunciò che se a un altro bambino si fosse spezzata la punta della matita saremmo dovuti rimanere a scuola oltre l’orario. Non stavamo affatto partendo con il piede giusto con l’alfabeto, commentò. E così, per otto anni, Jack fu promosso da una classe all’altra, da una vecchia zitella all’altra, da un maestro con la calvizie incipiente al successivo, non tanto per i suoi sforzi con i libri e le carte geografiche e le matite, ma perché gli insegnanti si rifiutavano seccamente di avere ancora a che fare con lui. (L’esperimento con la signora Peach era fallito, va da sé. Fargli ripetere la prima non aveva migliorato la sua condotta. E nessun insegnante aveva preso in considerazione di tenerselo per un altro anno). No, li esasperava. L’insegnante a cui toccava averlo in classe per quell’anno, già a metà settembre contava i giorni che mancavano alla fine di maggio: aveva un grosso calendario appeso alla parete, su cui ogni giorno trascorso veniva cancellato con uno, a volte due pesanti tratti di penna; una maestra, la signorina Ermalline Johnson, arrivò al punto di dare le dimissioni durante le vacanze di Natale pur di non dover tornare per altri sei mesi. Non lo farò, aveva detto al comitato scolastico locale. Sarei un’irresponsabile se lo facessi. Poi iniziammo le superiori, alla Holt County Union High School: era una costruzione di mattoni a tre piani, come l’edificio di elementari e medie, ma sorgeva all’estremità sud di Main Street e da un punto di vista architettonico era più ambiziosa; le torrette quadrate a destra e sinistra e il tetto in tegole rosse la facevano sembrare un incrocio tra una prigione e uno strano palazzo mediterraneo. Si vedeva da lontano, alta sugli olmi stentati, sorgeva isolata alla fine di Main Street quasi a impedire di uscire dalla città, incarnazione concreta e simbolica di ciò che la contea di Holt pensava dell’istruzione superiore. Era rimasta là per più di mezzo secolo, fino alla metà degli anni Sessanta, quando era stata demolita e i mattoni rossi erano stati venduti per pavimentare i cortili delle case e per delimitare le aiuole di zinnie; al suo posto avevano costruito una cosa banale, a un solo piano, con poche finestre. Fu là, alla Holt County Union High School, che Jack Burdette divenne una presenza sempre più ingombrante. E non mi riferisco solo alle nostre esistenze, ma alla vita di tutta la città. Perché ormai era cresciuto. Era più alto e più forte: più alto e più forte di chiunque altro a scuola. Quando ci diplomammo, nella primavera del 1960, era un metro e novantacinque e pesava centodieci chili. Ma non era grasso. Era ancora molto muscoloso, con le spalle ampie e l’ossatura robusta. Dunque da un punto di vista fisico non aveva soltanto un anno più di noi. Era come un adulto in mezzo ai bambini, un colosso tra i pigmei. In terza media – quando il resto di noi non aveva ancora nemmeno un accenno di peluria – lui aveva già iniziato a radersi la barba sul mento, e già alle superiori aveva un fitto intrico di peli neri sul petto. Gli spuntavano dalla maglietta bianca come piccoli spilli neri. Per i ragazzi delle superiori era una specie di leggenda: il sommo esempio di ciò che era possibile in assoluto. In ogni caso la dimostrazione più evidente di questo era – per noi e per tutta la contea di Holt – il fatto che Jack fosse un atleta eccellente. Fu lui a dare il calcio d’inizio a ogni singola partita di football del campionato scolastico per quattro anni. Giocava in attacco e in difesa, e gli bastava una sola mano per annullarci. Il resto di noi, me compreso, non valeva granché. (Io stavo in attacco. Ero pelle e ossa, lento, miope, non avevo tecnica ed ero riluttante a superare la linea di centrocampo; se nessuno mi metteva pressione potevo anche riuscire a prendere una palla, ma solo se la palla mi colpiva in pieno sul mio petto glabro). Jack invece aveva talento. Jack era davvero notevole. Era un atleta superbo. Era l’elemento chiave, quello che faceva funzionare le cose. Al terzo anno, ci fece vincere il campionato tra le scuole superiori del nordest degli Stati Uniti. E al quarto anno ci portò al campionato del Colorado, passando per la vittoria nella nostra Lega e per i play-off; arrivammo in finale, che peraltro riuscimmo a perdere. Gli avversari venivano dalla zona del Western Slope e avevano un vantaggio su di noi: erano in grado di schierare più di un giocatore vero. Almeno, alle superiori gli insegnanti potevano fare leva su quello. Come tutti noi, anche Jack per poter giocare era costretto dalle leggi dello stato ad avere la sufficienza in tre quarti delle materie. E Jack ce la faceva a modo suo. Si fingeva attento durante le lezioni di matematica, storia e inglese – vale a dire che non si metteva a dormire – e quando lo interrogavano si alzava e cominciava a scherzare. A quel punto partivano scrosci di risa dai ragazzi delle ultime file e risolini dalle ragazze dei primi banchi. In poco tempo i nostri professori impararono a non interrogarlo affatto. Eppure doveva fare i compiti in classe e consegnare le sue tesine come tutti. Ed è lì che entrava in gioco Wanda Jo Evans. Wanda Jo Evans lo amava. Credo che lo amasse persino più di quanto lui non amasse se stesso, se una cosa del genere è possibile. Lo adorava, lo venerava, lo idolatrava, dipendeva da lui. È tutto vero, non sto esagerando. Non era neppure l’unica; solo che nel suo caso era ovvio e lampante. Be’, era una bella ragazza, davvero graziosa e morbida, era un po’ rotondetta ma in un modo da ragazza delle superiori, in parte ancora legato al grasso infantile; aveva i capelli biondi con riflessi ramati e dolci occhi grigi del colore delle nuvole. Aveva anche i seni grandi e le braccia candide e paffute. Insomma, se lei era innamorata di Jack – e lo era senz’altro – tutti noi eravamo decisamente innamorati di lei e saremmo stati ben lieti di sacrificare il braccio sinistro pur di essere al posto di Jack. Wanda Jo però neppure ci notava. Non ci vedeva proprio. Eravamo un semplice sfondo, delle comparse. O forse nient’altro che fumo. Perché lei amava solo Jack. Quindi era ovvio che lo aiutasse. Gli preparava bigliettini ordinati e precisi da cui copiare durante i compiti in classe e imparò a scrivere le tesine trimestrali con la sua stessa grafia disordinata e infantile, e in cambio di questa costante adorazione e dell’impegno quotidiano a scuola, otteneva il diritto esclusivo di sedergli accanto in automobile, di stare a braccetto con lui al centro del sedile del suo vecchio furgoncino Ford, con la leva del cambio che le spuntava tra le morbide, bianche ginocchia, mentre Jack correva e faceva il diavolo a quattro su e giù per Main Street nei fine settimana. Eravamo invidiosissimi. Quelle cose contano, alle superiori. Sembrano fondamentali, essenziali. Almeno lo sembravano a quanti di noi erano in classe con Jack. Ma era sul campo da football che lasciava davvero il segno. In pubblico, intendo. Perché, come ho già detto, era un grande giocatore: impareggiabile, incredibile, brutale. Tutta la città lo pensava. In effetti, ancora oggi a Holt ci sono uomini che, pur sapendo ciò che Jack Burdette ha combinato in seguito, lo definiscono il miglior fullback e linebacker che la contea di Holt abbia mai avuto. E hanno senz’altro ragione. Lo pensavano anche gli allenatori di tutte le università della zona; avevano cominciato a tenerlo d’occhio quando era ancora al secondo anno. Di conseguenza, fu più o meno in quel periodo che pure suo padre, John Senior, cominciò a tenerlo d’occhio. Il vecchio andava a tutte le partite e quando sul campo capitava qualcosa, lo si sentiva urlare oscenità dalle tribune. Poi entrava nello spogliatoio e si aggirava tra le panche, puzzolente di birra e di whiskey, dandoci pacche sulle spalle mentre ci toglievamo le protezioni. Ci faceva dei discorsetti da ubriaco. Perdio, diceva. Cazzo, ragazzi, di sicuro... e così via. Il suo volto era acceso per la tensione del gioco, l’entusiasmo e il misto di liquori che aveva trangugiato prima della partita, e sputacchiava ovunque. Noi intanto aspettavamo che finisse o perlomeno che si spostasse per consentirci di raggiungere le docce. Ma lui era fiero di tutti noi, anche se era soprattutto fiero di Jack, naturalmente. E aveva ottime ragioni per esserlo. In autunno, il vecchio faceva soldi scommettendo con quelli che venivano da fuori città su tutte le partite della nostra squadra. Poi, nell’inverno del 1959, circa un mese dopo la nostra ultima partita, il vecchio morì. O meglio, venne ucciso. Da un treno merci nel centro della città. In seguito la compagnia ferroviaria avrebbe messo le sbarre e le luci lampeggianti ai passaggi a livello, ma a quell’epoca non c’era niente del genere. Era un sabato sera di inizio dicembre. Come al solito, il vecchio era stato al Legion a bere. Aveva raccontato delle storie con la sua voce forte, e da bravo ubriaco si era appoggiato alle cameriere ogni volta che si fermavano accanto a lui per passare le ordinazioni al barista. Le attirava a sé con le sue braccia robuste, le baciava sulle guance e a tutte faceva la stessa battuta a doppio senso: Non ti va di venire in macchina con me per provare il mio riscaldamento? Quando le ragazze rispondevano di no, lui gettava la testa all’indietro e scoppiava a ridere. Insomma, se l’era spassata come al solito, diceva la gente. Poi il Legion aveva chiuso. Una volta usciti dal bar, avevano scoperto che stava nevicando; alla luce dei lampioni videro la neve che cadeva, iniziava ad accumularsi ai bordi delle strade. Così il vecchio si diresse a casa sotto la tormenta, proprio come chiunque altro quella sera. Lungo Main Street costeggiò i tre isolati di negozi, bui e silenziosi in quel momento, con le vetrine adorne di ovatta e fili d’argento per le feste e le luminarie natalizie sui lampioni agli angoli delle strade. Quindi, contento per quello che vedeva, forse addirittura soddisfatto per il suo posto nel grande disegno del mondo, probabilmente si mise a cantare. Cantava davvero bene quando era ubriaco. Fu così che, quando arrivò alla ferrovia nel centro della cittadina, non sentì il treno e neppure lo vide arrivare. Attraversò i binari e venne investito in pieno. Il giorno dopo, una domenica mattina, la maggior parte degli uomini della città, e anche parecchie donne e bambini, uscirono di casa per andare a vedere la macchina. Nella notte aveva smesso di nevicare e la giornata era fredda e luminosa. C’ero anch’io, insieme a mio padre. All’epoca mi stava ancora insegnando a fare foto per il giornale locale, l’Holt Mercury, di cui era proprietario e direttore. Quella mattina, svegliandomi, mi aveva detto di portare la macchina fotografica. Parcheggiò in Main Street, scendemmo e seguimmo a piedi i binari. Sulle traversine c’erano i profondi solchi causati dai cerchioni d’acciaio della Buick del vecchio, ormai privi di pneumatici. Quei solchi sembravano fatti da un pazzo con un aratro monovomere. Una delle gomme squarciate era finita in mezzo alle erbacce, mentre l’altra era davanti a noi, vedevamo il segno che aveva lasciato nella neve prima di ribaltarsi. La fotografai. Poi avanzammo seguendo le impronte accanto al treno. Più avanti vedemmo la gente radunata intorno ai rottami della Buick. Non era più incastrata nel treno ed era finita nel canale di scolo che correva lungo la ferrovia, all’altezza del locomotore. Uomini e donne sbirciavano nell’abitacolo e parlavano fra loro. Cerca di fare delle foto, disse mio padre. Però scattale da qui, così si vede anche la fiancata del treno. Mi infilai nella calca accanto ai carri merci e fotografai quello che vedevo attraverso l’obiettivo. Anche mio padre scattò diverse foto, per essere certo di averne una che andasse bene per la prima pagina. Poi mi restituì la macchina fotografica e proseguimmo. Raggiungemmo l’auto, che era infilata in verticale in mezzo alle erbacce del canale di scolo, in equilibrio sui cerchioni piegati. La portiera del guidatore era sfondata verso l’interno. L’impatto con il locomotore aveva lasciato un segno profondo, come in uno stampo da argilla oppure in un pezzo di latta. Tutti i finestrini erano in frantumi, c’erano schegge ovunque. Poco più in là George Foley, un barbiere di Holt che viveva vicino alla ferrovia, stava spiegando l’accaduto a due o tre uomini. Mio padre e io ci fermammo ad ascoltare il suo racconto. Stava dicendo di aver sentito all’improvviso uno schianto nella notte e subito dopo uno stridore prolungato; si era alzato per vedere cosa stesse succedendo. A quel punto il treno era quasi fermo, disse, ma di fronte c’era agganciata un’automobile, il treno la stava ancora spingendo sui binari, nell’aria volavano scintille. Allora Foley si era vestito ed era corso fuori, lungo i binari, fino alla testa del treno. Ormai era completamente fermo. Ma non faceva più nessuna differenza, commentò. Ormai era tardi. Lui era già morto. E tu come lo sai? domandò mio padre. Cosa? Come fai a sapere che era già morto? Come poteva non esserlo? Non lo so. Spero proprio che lo fosse. Appunto. Se un cazzo di treno merci colpisce qualcuno nel cuore della notte, a cento all’ora, e non lo ammazza sul colpo, be’, non so proprio cos’altro potrebbe riuscirci. In effetti, ammise mio padre. E cos’altro hai visto? Fin troppo, disse George Foley. Ho visto abbastanza. Ci disse che, quando era arrivato alla macchina, dal treno erano già scesi degli uomini. Si stavano dando da fare per cercare di staccare a mani nude l’automobile dalla parte anteriore della motrice, ma era bloccata, incastrata, e nel frattempo il grande fanale continuava ad andare avanti e indietro sopra le loro teste, scintillando sui binari e sulla neve. Poi Foley aveva guardato dentro la macchina.
Dio mio, era un pezzo di carne. Ecco cos’era. Non era altro che un hamburger con i vestiti addosso. E i vestiti, be’, erano solo stracci insanguinati.Poi ci riferì che era arrivata la polizia. Comunque c’era ancora un po’ di confusione sul da farsi. Ci avrebbero messo meno se avessero usato la fiamma ossidrica, ma la benzina stava gocciolando dalla macchina e avevano paura che scoppiasse un incendio. Alla fine, a qualcuno vennero in mente i martinetti idraulici. Poco prima dell’alba, lavorando a turni, riuscirono ad aprire la macchina e a rimuovere il corpo. Lo estrassero a pezzi. La polizia portò quel che poteva a John Baker, all’obitorio di Holt, perché lo preparasse per il funerale.E ho visto tutto, ci disse Foley. Proprio tutto.Non aveva altro da aggiungere. Lungo i binari stavano arrivando altre due persone per guardare l’automobile: erano Ed Taylor e la moglie, venuti in città per la messa; avevano il vestito della domenica. Foley andò loro incontro e cominciò a raccontare di nuovo tutta la faccenda.Mio padre lo fissò per un istante.Questo è il problema con i testimoni oculari, osservò. Pensano di avere visto tutto. E ogni volta che lo raccontano, pensano di dover aggiungere qualcosa a quello che hanno già raccontato a qualcun altro.Non credi a quello che ha detto? gli chiesi.Forse sì. Però a George Foley piace starsi a sentire. È così che si guadagna da vivere.Pensavo fosse un barbiere.Lo è.Ah, esclamai.Insomma, adesso vado alla stazione, proseguì mio padre, per vedere se riesco a trovare gli ingegneri. Voglio sentire se hanno qualcosa da dire. Poi passerò alla polizia. Nel frattempo tu puoi fare altre foto.Non so cos’altro si aspettava che fotografassi. Girai intorno all’automobile e scattai parecchie foto da quell’angolazione, con la macchina in primo piano, sormontata dal treno nero e massiccio. A terra c’era ancora neve, con le impronte di quelli che ci avevano camminato sopra, e il contrasto tra la neve e il treno sarebbe venuto molto bene, ma mi ero dimenticato di essere controluce, dunque quando le feci sviluppare, quelle immagini erano tutte sbiadite. Avevo ancora un sacco di cose da imparare.Una volta finito, decisi che volevo dare un’occhiata nell’abitacolo. Non l’avevo ancora fatto e mi pareva una buona idea. Poi me ne pentii. C’era sangue sul cruscotto sfondato e c’erano brandelli del cappotto del vecchio attaccati alla portiera. E da uno di quei pezzi di tessuto pendeva un lembo di pelle con un ciuffo di peli. Mi venne la nausea. Mi allontanai dall’auto e ripercorsi i binari alla volta di Main Street.Avevo intenzione di aspettare mio padre in macchina, l’avevamo parcheggiata sul ciglio della strada di fronte a Kinsey, il ferramenta. Ma prima di arrivarci incontrai Jack Burdette.Era solo. Veniva verso di me lungo la ferrovia, con addosso il giaccone invernale; il suo viso era terreo e non si era ancora fatto la barba. Quando fummo vicini, mi fermai.L’hai visto? mi chiese.Sì. Mi dispiace per tuo padre.Dispiace a tutti, replicò.Non sapevo che altro dire. Pensai di dirgli di non andare a vedere. Però non lo feci.Proseguì e mi voltai a guardarlo camminare lungo i binari. Aveva un’aria fredda, cupa, solitaria accanto al treno. Poi raggiunse l’automobile e mi accorsi che George Foley l’aveva visto. Foley aveva già cominciato a parlare. Mise un braccio sulle spalle di Jack, mentre gli altri facevano un passo indietro, io però non volevo assistere a quella scena. Sapevo cosa voleva dirgli Foley. Andai avanti e salii in macchina, accesi il riscaldamento e aspettai che mio padre tornasse dalla stazione.

3

Il funerale del padre di Jack si svolse il martedì successivo nel cimitero della contea di Holt, a nordest della cittadina. Le sere precedenti si era tenuta la veglia, poi, quella mattina, ci fu la messa alla chiesa di St. John. Dopo, al cimitero, faceva molto freddo. L’anziano padre O’Brien disse in fretta ciò che doveva dire sull’urna chiusa e pronunciò qualche frase in latino mentre spargeva le ceneri. Alla fine, sfilammo tutti davanti a Jack e a sua madre, togliendoci i guanti per stringere le loro mani. Poi tornammo a casa o a scuola o al lavoro e loro rimasero soli.

Erano tempi duri. Don Nexey, il proprietario della ditta di legnami, diede alla signora Burdette un assegno per l’ammontare di due mesi del salario del marito – alla gente parve un gesto generoso; non era obbligato a compierlo – ma quei soldi imprevisti non sarebbero serviti a molto, probabilmente sarebbero bastati a pagare il funerale, l’urna del vecchio e poco più. Fatto sta che a metà gennaio la signora Burdette, che non aveva mai lavorato in vita sua, si trovò un impiego da Duckwall, un negozio in Main Street. Era stata assunta come commessa. E guardando dalle ampie vetrine la si vedeva ogni giorno nel negozio, con un sottile grembiule verde sui suoi semplici vestiti, alla cassa oppure a spolverare e mettere in ordine gli scaffali di cornici e giocattoli a buon mercato. In quel modo Jack e sua madre continuarono ad avere ogni mese un piccolo stipendio regolare con cui immagino che, a patto di essere molto frugali, riuscissero a sbarcare il lunario. Eppure non penso che i soldi fossero l’unica preoccupazione. A scuola iniziammo a notare che Jack era cambiato. Era diventato cupo e scontroso. Le cose si erano fatte difficili per lui.

Il problema era la madre. Penso che la signora Burdette credesse di aver avuto dalla vita una seconda occasione, come se la morte del vecchio costituisse una nuova possibilità. Per salvare Jack, intendo; per impedirgli di diventare ciò che lei riusciva solo a tollerare in suo padre: tollerare perché a quei tempi, e date le sue convinzioni, il pensiero del divorzio era assolutamente intollerabile. Quindi tentò di farsi valere. Secondo me in cuor suo si illudeva persino che Jack potesse ancora rivelarsi un figlio di Dio e che il suo fosse un tormento che lo avrebbe condotto a Gesù. Non lo so. Non so proprio cosa le passasse per la testa o che tipo di pensieri avesse. Però so che Jack per un certo periodo fu piuttosto infelice. E non credo c’entrasse il dolore per la perdita del padre.

Andò avanti così per un paio di mesi, più o meno fino alla fine di febbraio. Poi troncò i rapporti con la madre. Fece una cosa che li allontanò per sempre e che almeno per un po’ ci lasciò tutti attoniti. E pensandoci adesso, a posteriori, fu forse l’inizio di quello che sarebbe diventato il suo schema di comportamento – o perlomeno credo ne abbia costituito la conferma –, uno schema che prevedeva una mossa repentina e allo stesso tempo un atto avventato. Abbandonò sua madre e si trasferì al Letitia Hotel.

Era un vecchio, sgangherato edificio a due piani con l’intelaiatura di legno e un’ampia, lunga veranda sul lato nord. Era stato costruito nel 1914 da uno dei primi abitanti di Holt, un irlandese arrivato da bambino insieme ai genitori. Poi la madre era morta di influenza sotto gli occhi di quel ragazzino immigrato, che anni dopo aveva aperto l’albergo e l’aveva chiamato con il suo nome, per il dolore profondo e l’affetto che ancora provava per lei. Sorgeva (e sorge tuttora, anche se oggi è diventato una residenza per anziani, contadini immigrati e alcolizzati) all’angolo tra la Second e Ash Street, un isolato più a ovest della Main. Dall’altra parte della strada c’è un vecchio olmo che non se la passa troppo bene. L’Associazione per la storia locale sostiene che si tratti di uno dei primi alberi piantati nella contea di Holt e ha fatto costruire un cordolo di cemento per proteggerlo.

La stanza di Jack era al primo piano. Era mezza vuota: un vecchio letto di ferro, un cassettone di legno e una finestra dalle tendine sottili su Second Street. Non c’era lavandino né bagno; l’unico bagno del primo piano era in fondo al corridoio. Ma alloggiare in quell’hotel non costava molto e, quando non mangiava a casa di Wanda Jo Evans o da uno di noi, Jack si portava il cibo nella piccola sala da pranzo al pianterreno.

Per pagarsi la stanza e i pasti occasionali, lavorava ai silos della cooperativa degli agricoltori, accanto alla ferrovia. Aveva iniziato a lavorare lì già da prima, nell’estate dei suoi sedici anni. Lo avevano messo a spalare il grano, scaricare i camion e manovrare i grandi nastri trasportatori per cereali. Quel febbraio prese ad andarci tutti i pomeriggi dopo la scuola e anche nei fine settimana. Il lavoro era perfetto per lui. Gli forniva un’altra occasione per sudare, per mostrare la sua notevole forza, per farsi sempre più grosso tra i gas di scarico dei camion e le nuvole di polvere di grano. E gli davano anche qualche soldo. E poi c’erano le rudi pacche sulle spalle tra gli uomini che lavoravano lì, i loro discorsi beffardi, i loro scherzi. Perché lui piaceva a quegli uomini, è ovvio: Jack era il fenomeno della città. Parlavano di football con lui. Ricordavano meglio di lui ogni singola partita che aveva giocato, e non solo il risultato, ma anche le sue prestazioni individuali e i record che aveva stabilito. Le prese in giro, le manate sulle spalle erano una lusinga da adulti, un’approvazione che gli piaceva e di cui aveva bisogno.

Ora che se n’era andato dalla casa della madre, se le godeva ogni giorno. E poi, per la prima volta, aveva una stanza tutta sua e la libertà di andare e venire a suo piacimento, e gli rimaneva in tasca qualche soldo per la birra, il poker e i sigari dozzinali, e qualcosa per fare benzina al suo furgoncino e di tanto in tanto anche per Wanda Jo Evans. Perché non era tirchio: se Jack aveva dei soldi, li spendeva sempre. Così capitava che la portasse al cinema, per esempio, o che le offrisse un hamburger all’Holt Café con una porzione di patate fritte in mezzo al tavolo da condividere. E noi li vedevamo insieme: Wanda Jo protesa verso di lui, con l’hamburger stretto in mano, fermo davanti alla faccia, mentre lui parlava e mangiava e masticava e lei continuava a fissarlo con i suoi occhi grigi e ammirati.

Però la cosa che ricordo meglio di quei tempi erano le sere nella camera d’albergo. Giocavamo a poker con Jack. Su una cassa di legno rovesciata al centro della stanza, scommettevamo le nostre monete da cinque e dieci centesimi sotto il soffitto alto e vecchio, con l’unica, fioca lampadina che pendeva dal filo, mentre in un angolo, seduta sul letto, Wanda Jo Evans era china sui libri e i quaderni a buon mercato che teneva sulle ginocchia. Tentava di fare per sé e per Jack i compiti di inglese e matematica che avrebbero dovuto consegnare il mattino seguente, e solo di tanto in tanto si fermava abbastanza a lungo da alzare lo sguardo sotto i capelli biondo rame per dare una rapida occhiata a Jack quando lui scoppiava a ridere o gli veniva in mente di dire qualcosa che riguardava anche lei.

Quelle partite di poker si svolgevano perlopiù la domenica sera. E non mancava la birra. Jack aveva diciannove anni e il resto di noi diciotto. Alla nostra età potevamo essere arruolati per combattere le guerre di questo paese, ma potevamo anche legalmente comprare la birra: se ne bevevamo abbastanza, e dio sa che ce la mettevamo tutta, ci dava la necessaria avventatezza e lo stimolo a gridare ciò che ritenevamo essenziale a qualsiasi partita di poker fra ragazzi delle superiori.

Ci divertimmo molto quell’inverno e quella primavera. A scuola divenne un punto d’onore e un grande privilegio poter dire che eri stato ammesso a giocare, che eri entrato nella stanza d’albergo di Jack e che la domenica sera avevi perso un dollaro o due e bevuto una confezione da sei. Ti dava il diritto di vantarti e di lamentarti del mal di testa il mattino dopo a scuola, mentre la vecchia signora Lindquist cercava per l’ennesima volta di spiegare L’importanza di chiamarsi Ernesto.

In quelle serate domenicali c’era però un inconveniente: la birra era calda. Bisognava comprarla il sabato sera perché la domenica a Holt tutti i bar e i negozi che vendevano alcolici erano chiusi. E dato che nella stanza di Jack non c’era una ghiacciaia o un frigorifero (e dato che nessuno di noi era così scemo da mettere le birre nel frigo di casa propria, perché le nostre madri le avrebbero trovate di sicuro e si sarebbero messe a fare domande), quando arrivava la domenica sera, la birra aveva pressappoco la stessa temperatura del sangue.

Tentammo diverse soluzioni per quel problema. Per esempio impilando le casse di birra sul cornicione fuori dalla finestra della stanza di Jack. Questo la manteneva fredda fino al giorno successivo, a volte anche troppo: la congelava. A quel punto, giocando a carte, succhiavamo dei ghiaccioli. Il che per un po’ fu anche divertente. Ma la birra non sapeva più di nulla. Era come baciarsi la sorella, diceva Bobby Williams.

Peggio ancora, ribatteva Jack. È come baciare mia madre. Non ne vale proprio la pena.

Quindi una sera a metà della settimana seguente, dopo mezzanotte, Jack Burdette, Tom Crossland, Bobby Williams e io ci stipammo nel vecchio furgoncino di Jack. C’era anche Wanda Jo Evans. Jack guidava e Wanda Jo era seduta sulle mie ginocchia: per un ragazzo come me era praticamente il paradiso. Attraversammo in quel modo tutta la città. Poi Jack si infilò nel vicolo sul retro della vecchia casa di Burcham Scott, spense le luci e procedette a motore spento e in folle finché non ci fermammo. Poi scendemmo e, bisbigliando tra noi, ci allontanammo dal furgoncino strisciando nel buio ed entrammo nel cortile del vecchio, superammo i blocchi di cemento dell’inceneritore dei rifiuti domestici e l’orto incolto e finalmente raggiungemmo la veranda posteriore: in un angolo c’era un decrepito frigorifero Majestic che nella contea di Holt conoscevamo tutti. Faceva parte della leggenda con cui eravamo cresciuti. Sapevamo che Burcham Scott era un pescatore, un vecchio pieno di lentiggini che da un pezzo aveva smesso di fingere interesse per qualsiasi cosa che non fosse la pesca, e sapevamo che il frigorifero era un elemento della sua attrezzatura. Ci teneva i lombrichi e i vermi rossi perché si conservassero vivi e intatti per quando ne aveva bisogno.

Ma era ancora metà marzo, troppo presto perché Burcham riprendesse a pescare, quindi il frigorifero era vuoto e staccato. Lo scostammo dal muro. Poi tentammo di sollevarlo. Ma andavamo a tentoni nell’oscurità, la veranda era stretta e continuavamo a urtarci. Alla fine Jack sibilò: Scansatevi, brutti imbranati. Ci penso io.

E lo fece. Ecco quant’era grande, quant’era forte. Si chinò di fronte al Majestic e lo abbracciò come se non fosse altro che una grassa, arrendevole ragazza di campagna arrivata in città per ballare e farsi dare una strizzatina, poi lo sollevò. Quindi si girò su se stesso, danzò fuori dalla veranda con il frigorifero stretto tra le braccia e lo portò nel vicolo, mentre alle sue spalle Bobby Williams, Tom Crossland e io lo seguivamo ridacchiando come bambini e prendendoci scherzosamente a pugni.

Arrivati al furgoncino, Jack domandò: Che ne dite, mezze calzette, uno di voi ce la può fare almeno ad aprire la maledetta sponda?

E così quella notte riattraversammo la città con il vecchio frigorifero che svettava bianco e squadrato sul pianale del furgoncino, con noi quattro seduti intorno e Wanda Jo Evans che guidava, e appena arrivati non tentammo neppure di aiutare Jack. Ci limitammo a tenergli aperta la porta dell’hotel mentre tirava giù il Majestic dal furgoncino e lo trasportava su per le scale tenendoselo contro il petto, di nuovo come se fosse una ragazza di campagna o, per dire, una cassa di pesche. Gli aprimmo anche la porta della sua stanza e lo guardammo mentre lo posava a terra.

Ansimava leggermente. Aveva la pelle del viso un po’ lucida di sudore. Mentre riprendeva fiato, Wanda Jo attaccò il frigorifero alla presa di corrente. Jack tirò fuori da chissà dove una confezione da sei birre. La collocò con fare solenne al centro di un ripiano, chiuse lo sportello, si guardò intorno e lo riaprì.

Ecco, disse. Be’, non vi fanno sbavare, ragazzi? Nessuno ha voglia di una birra fredda?

Cristo, esclamai. Tutti i comfort, come a casa, Jack.

Hai proprio ragione, cazzo.

Casa dolce casa, lo sanno tutti, commentò Bobby.

Davvero, aggiunse Tom Crossland. Oh, Dorothy, vieni a farti scopare.

Che cazzo stai dicendo?

Casa dolce casa, rispose. È la frase finale del Mago di Oz.

Parla come si deve, idiota, disse Jack. C’è una signora.

Tutti guardammo Wanda Jo. Era una bellezza. Stava sorridendo come se lui avesse detto una cosa molto intelligente, oltre che cavalleresca.

A quel punto ci scatenammo. Iniziammo a ridere, a sbuffare, a dare pacche sulla schiena a Jack e ognuno si prese una birra. Sebbene non fosse ancora fredda, non importava. In teoria era fredda. Ci ripetemmo daccapo tutta la storia, aggiungendo dettagli inventati e cercando di immaginare che faccia avrebbe fatto il vecchio Burcham Scott il mattino dopo uscendo in veranda. Si gratterà la testa con aria sbalordita, ci dicemmo.

Chissà dove metterà i vermi, aggiunse Bobby Williams.

Verso le due la birra finì. Lasciammo Jack in hotel con Wanda Jo e ce ne tornammo a casa. Gli altri ragazzi abitavano in campagna, io invece vivevo in città, in Cedar Street.

Quella sera, quando arrivai a casa e salii le scale, trovai mio padre sveglio ad aspettarmi. Era a letto, ma non dormiva.

Pat, disse.

Sì, papà.

Vieni qui.

Mi fermai sulla soglia. Era sdraiato accanto a mia madre. Lei dormiva, ma lui stava leggendo. Aveva gli occhiali appoggiati sulla fronte e l’abat-jour gli illuminava la faccia. Era molto pallido.

Pat, disse. Mi stavo chiedendo una cosa.

Cosa?

Pensi mai a cosa vuoi fare della tua vita?

Spero di combinare qualcosa.

Davvero? rispose il padre. Che sollievo. Ma toglimi una curiosità: quando pensi di cominciare?

Jack Burdette invece non aveva più nessuno che lo aspettasse, che gli domandasse del suo futuro – del resto John Senior non si sarebbe dato molto da fare, anche se fosse stato ancora vivo e, come ho detto, Jack aveva rotto i rapporti con la madre. Quindi per lui la faccenda del frigorifero Majestic di Burcham Scott fu solo uno dei tanti episodi della sua leggenda. Divenne un pezzo di quell’aura che a livello locale aveva già iniziato a crearsi intorno a lui, a scuola e in tutta la città. Infatti tutti avevamo cominciato ad aspettarci cose insolite da lui, mentre, per quanto lo riguardava, lui aveva già imparato – ammesso che l’agire in base a puri e semplici capricci si possa considerare una forma di apprendimento – a non deludere le aspettative di nessuno. In particolare le proprie.

Quindi concluse in grande stile il suo ultimo anno alla Holt County Union High School. Viveva al primo piano del Letitia Hotel. Lavorava ogni giorno ai silos della cooperativa, in mezzo a uomini che lo ammiravano. Giocava a poker con gli amici in una stanza che si pagava con i suoi soldi. E la domenica sera beveva birra messa a raffreddare in un frigorifero non suo. Era il massimo che un ragazzo delle superiori potesse sognare.

Però poi risultò essere anche un grosso casino: mentre la maggior parte degli adulti in città e persino il preside della scuola guardavano con occhio tollerante alle attività di Jack, Arnold Beckham no. Arnold Beckham era lo sceriffo. Era uno dei tanti eletti a quella carica prima di Bud Sealy, e non era uno sciocco. Capiva che i casini combinati ogni settimana da quegli adolescenti potevano non solo mettere in pericolo la sua rielezione, ma addirittura costargli una parte della pensione che si era guadagnato con anni di duro lavoro. Era un pensiero intollerabile. Allora prese le sue contromisure.

Una sera di fine aprile, verso mezzanotte, lo sceriffo Beckham salì la stretta scala dell’albergo e bussò alla porta della camera di Jack. Era domenica e come al solito eravamo lì in quattro o cinque a giocare a carte. Quando sentimmo bussare, di colpo scese il silenzio. Jack fece un cenno con la testa a Wanda Jo Evans, che obbediente si alzò dal letto nell’angolo. Stava facendo i compiti di Jack. Tenendo sottobraccio un libro di testo e uno dei quaderni da pochi soldi, andò alla porta e la aprì leggermente.

Wanda Jo, disse Arnold. Di’ al tuo ragazzo di venire fuori.

Wanda Jo chiuse la porta.

E adesso? sussurrò uno di noi. Gesù, andrà a dirlo ai miei genitori.

Smettetela di piagnucolare, disse Jack. Ci penso io.

Si alzò dalla cassa di legno al centro della stanza e uscì in corridoio. Dalla porta aperta vedevamo Arnold.

Sceriffo, disse Jack. Cosa posso fare per lei?

Arnold Beckham era basso e aveva una striscia di ispidi capelli neri sopra le orecchie. Squadrò Jack dalla testa ai piedi. Poi iniziò a parlare. Era come se strada facendo si fosse preparato un discorso.

Stammi a sentire, disse. So cosa succede qui dentro e chi c’è lì con te. E me ne frego di quello che fai e con chi lo fai. Ma perdio, Jack, la prima volta che qualcuno mi chiama nel cuore della notte perché suo figlio non è ancora tornato a casa, o che qualcun altro si lamenta delle bottiglie di birra vuote sparse sulla sua aiuola di petunie... insomma, Jack, ti sbatto dentro così in fretta che non avrai nemmeno il tempo di dire addio o di nascondere le birre. Chiaro?

Con quale accusa?

Non mi sei stato a sentire, rispose Arnold Beckham. Poi fece una cosa che nessuno di noi si sarebbe aspettato. Allungò le braccia, afferrò la camicia di Jack all’altezza della gola e gli trascinò la faccia a pochi centimetri dalla sua. Non ho bisogno di capi d’accusa, rispose. Basta il primo che mi salta in testa.

Lasci perdere. Ce ne staremo tranquilli. Non si preoccupi.

Non ci siamo, disse Arnold. Con i pugni torse ancora di più la camicia. Continui a non ascoltare. Perché non sono io quello che si deve preoccupare. Chiaro? Non sono io quello che si deve preoccupare.

D’accordo. Faremo piano. E adesso mi lasci. Mi sta rovinando la camicia.

Ah, sì? Be’, me ne fotto.

Poi lo sceriffo Beckham guardò Jack negli occhi. Le loro facce erano vicinissime. Ma alla fine lo lasciò andare.

Ha finito o vuole ancora qualcosa?

Certo che voglio ancora qualcosa, rispose Arnold Beckham. Vorrei un capanno da pesca in montagna e una ragazza a disposizione. E in questo momento vorrei essere nel mio letto. Ma per ora basta così. E pensa bene a quello che ti ho detto.

Si girò e lo sentimmo allontanarsi lungo lo stretto corridoio. Ma prima di raggiungere le scale si fermò.

E di’ alla tua ragazzina di tornare a casa subito. Ho visto sua madre che usciva dall’ospedale.

E se ne andò.

Jack rientrò nella stanza e chiuse la porta. Si risedette vicino alla cassa rovesciata. Lo stavamo guardando tutti, per vedere se avesse capito l’antifona. Ma non l’aveva capita. Tutto quello che disse fu: Wanda Jo. Hai sentito cos’ha detto Arnold. La vecchia è uscita dal suo turno all’ospedale. Quindi farai meglio a finirli domani i compiti. Poi si lisciò la camicia sul petto. E riprendendo la partita, chiese: Chi ha dato questo schifo di carte?

Con Jack, insomma, era fatica sprecata. Aveva avuto il suo primo, rapido assaggio della legge e dell’autorità. Aveva ricevuto un avvertimento ufficiale. Ma l’avvertimento non gli era servito a molto. Gli era servito solo a capire che doveva stare più attento, essere un po’ più circospetto. Non gli venne mai in mente che forse gli sarebbe toccato fare qualcosa di sostanzialmente diverso da ciò che gli andava. Immagino che per lui fosse come un’azione complicata nel football, un double reverse, per esempio, una doppia finta con un tuffo al centro grazie a cui si potrebbe ancora segnare, ma per farcela ci vorrebbero più esperienza e acume. Si trattò solo di una lezione di astuzia, un conciso insegnamento sulla necessità della segretezza.

Poi, alla fine di maggio, prese il diploma di scuola superiore. Lo prendemmo tutti: Wanda Jo Evans, Bobby Williams, Tom Crossland e gli altri.

Jack era quasi comico in toga e tocco. Aveva il copricapo rosso aggrappato alla nuca, come una girandola, e indossava una toga cremisi di almeno tre taglie troppo piccola; gli andava stretta di spalle e l’orlo gli arrivava alle ginocchia. Sembrava un pagliaccio, una parodia, una specie di boscaiolo gigante ingaggiato per una festa dell’asilo o per un ballo di pigmei. Ma quando venne chiamato il suo nome, si alzò coscienziosamente, persino con orgoglio, dalla platea. Poi attraversò il palco con i suoi stivali da cowboy e ritirò dalle mani del presidente del comitato scolastico locale il diploma come se fosse qualcosa a cui davvero attribuiva un valore.

Quella sera ci ubriacammo tutti insieme per l’ultima volta. Poi le nostre strade si separarono. Bobby Williams e Tom Crossland andarono a lavorare nelle fattorie delle loro famiglie. Wanda Jo Evans rimase a Holt, dove fu assunta come segretaria per la compagnia telefonica. Jack e io andammo all’università di Boulder. Avevo intenzione di studiare giornalismo per tentare di combinare qualcosa nella vita, come mi aveva consigliato mio padre. E ciò che Jack aveva in mente era giocare a football. Aveva una borsa di studio per meriti sportivi, copriva l’intera retta. Gli allenatori dell’università erano disposti a ignorare le sue insufficienze, se lui fosse stato disposto a sporcarsi le mani. E ovviamente lo era.

Quindi, l’estate dopo il diploma, avevamo qualcosa in comune: entrambi saremmo andati all’università di Boulder. Fu un altro vincolo tra noi. Quell’estate, ogni volta che ci trovavamo, finivamo per parlare dell’università e spiegarci i rispettivi piani per scatenare una tempesta. Arrivati lì, però, le cose non andarono proprio come avremmo voluto: uno di noi calò a picco e l’altro riuscì a malapena a fare un’increspatura sulla superficie dell’acqua. Boulder era uno stagno ben più profondo di quanto non si aspettassero quei due ragazzi della contea di Holt.

4

Comunque all’inizio andava tutto bene. Era un ragazzone e a metà agosto, quando si presentò agli allenamenti di football, era abbastanza violento da piacere agli allenatori. Eppure come running back non era adeguato al campionato universitario. Era grosso, ma troppo lento. Quindi alla seconda o terza settimana di allenamenti venne spostato in difesa. In quel modo poteva sfruttare la sua forza senza dover pensare troppo. Però a mancargli era la gloria. Alle superiori era lui a portare la palla verso la meta e sulla stampa locale il suo era il nome che aveva maggior risalto. Ormai era un defensive tackle ed era ancora piuttosto bravo, però all’università erano bravi tutti, quindi non gli venivano dedicate particolari attenzioni.

Poi cominciarono le lezioni. A quel punto ero arrivato là anch’io. Alloggiavo nella residenza universitaria insieme a un’altra matricola, Stewart Fliegelman, un ragazzo di Chicago scheletrico e rosso di capelli. Non avevo mai conosciuto una persona come Fliegelman. Non appena ebbi finito di disfare i bagagli, mi annunciò di essere venuto nell’Ovest come missionario, per diffondere il vangelo secondo Marx. Traboccava di quel tipo di entusiasmo giovanile. Eppure mi piaceva da matti, e in verità sento ancora la sua mancanza. Oggi fa l’avvocato a Oak Park, è alle prese con il suo secondo matrimonio e con due serie di figli da mantenere, ma un paio di volte l’anno lo chiamo e ci facciamo una chiacchierata al telefono.

Fliegelman era un compagno di stanza vivace, polemico, loquace, colto, studioso, disorganizzato, generoso e politicamente radicale. Continuava a ripetere che le mie convinzioni erano antiquate, che il mio fascino, qualunque fosse, era il diretto risultato della mia abissale ignoranza. Ogni volta che diceva cose del genere, lo mandavo al diavolo. Gli facevo notare che, venendo da Chicago, non sarebbe stato in grado di distinguere una merda di mucca da una torta al cioccolato nemmeno se ci avesse messo un piede dentro. Allora lui mi saltava addosso e ci mettevamo a fare la lotta lì nella stanza. Già alla fine del primo semestre eravamo diventati molto amici e per i quattro anni in cui lo frequentai a Boulder imparai più cose da lui che da chiunque altro al mondo. Peraltro non glielo dissi mai. Mi avrebbe risposto che stavo ridiventando sentimentale: Arbuckle, per una volta nella tua vita cerca di non confondere le opinioni con i fatti. Dovresti essere un giornalista, perdio.

Ed è quello che sono. O perlomeno che cerco di essere. Del resto la pensano così anche all’Agenzia federale delle entrate: continuano a prendere per buone le mie dichiarazioni dei redditi come cronista senza mai chiedermi di vedere quello che effettivamente produco. Inoltre, a corroborare tali dichiarazioni, sul muro alle spalle della mia scrivania c’è un diploma incorniciato. Sta lì da più di vent’anni. È ormai coperto di polvere e ragnatele, e la parete dietro è diventata più scura. Perché alla fine dei quattro anni di università, tornai a casa. Fu un’idea di mio padre; voleva che lo aiutassi a gestire il giornale pensando che gli sarei subentrato. A quei tempi sembrava la cosa giusta da fare. E così sono qui da allora, più di vent’anni, cercando di far uscire ogni settimana il giornale della cittadina – l’Holt Mercury – per il bene e lo svago della popolazione locale, se non per il profitto e la remunerazione del direttore nonché editore.

Ma questo successe più tardi. Nell’autunno del 1960 ero all’università. Proprio come Jack Burdette. Almeno per un po’.

Dopo il mio arrivo nella residenza universitaria a Boulder, di tanto in tanto lo vedevo ancora. Girava per il campus con gli altri, quei ragazzi grossi e muscolosi in magliette da allenamento che occupavano tutto il marciapiede quando li incrociavi, oppure se ne stavano a ridere e scherzare a un tavolo dello University Memorial Center insieme a belle studentesse dalle gambe lunghe. Ma non succedeva spesso, non avevamo molto a che fare in quel periodo.

Viveva alla Baker, una residenza simile a tutti gli altri edifici dell’università, costruita in pietra, mattoni e tegole rosse. In effetti era un campus gradevole, uno dei più belli di tutta la regione delle Montagne Rocciose, con le pendici scoscese dei monti Flatiron che sorgevano proprio sopra la città, e nel campus stesso c’erano grandi alberi e vecchi sempreverdi e tutti quegli edifici con le tegole rosse, abbastanza distanti da non sentirsi soffocati o accerchiati dalle masse di pietra o dalla stretta degli alberi. Per uno come me, era un ottimo posto. Boulder – e la vita con Fliegelman – mi aprirono gli occhi.

Per Jack invece non fu così. Non ci rimase abbastanza a lungo. Ma anche se ci fosse rimasto di più, non avrebbe accolto cambiamenti rilevanti nel suo modo di vedere le cose. In ogni caso non ne ebbe neppure l’occasione. Nel giro di un mese dall’inizio della scuola si era già messo nei guai. Il problema riguardava una radio.

La prima volta che ne sentii parlare – o ne lessi, per essere precisi – fu sul Colorado Daily, il giornale universitario. Era un piccolo riquadro in seconda pagina. Secondo l’articolo, una matricola di nome Curtis Harris aveva denunciato Jack al tribunale studentesco dell’università, che si sarebbe riunito il venerdì successivo per discutere il caso. Il pezzo era apparso il martedì mattina. Dopo averlo letto, andai alla Baker a cercare Jack nella sua camera. Il suo compagno di stanza, un altro giocatore di football, mi disse di non sapere dove fosse; era probabile che stesse guardando la televisione.

Ma non è a lezione? gli chiesi. È metà mattina.

Che lezione? rispose. Jack non va a lezione.

Intendi dire oggi?

Intendo dire sempre. Sono tre settimane che non va a lezione. Si sta mettendo nei casini.

È già nei casini, commentai.

Il ragazzo mi fissò per un istante. A te cosa importa? Lo conosci, sei un suo amico?

Lo conosco, confermai. Avrebbero dovuto dare una borsa di studio anche a Wanda Jo Evans, se pensavano che Jack sarebbe andato a lezione.

Chi?

Non la conosci.

Qualche ragazza la conosco.

Non lei. In ogni caso, dov’è la televisione che forse Jack sta guardando?

Al piano terra. Ma non so se lui è lì. Mica sono il suo guardiano.

Vedo se riesco a trovarlo, conclusi.

Tornai giù.

Dopo essermi guardato intorno per qualche minuto, trovai Jack in una delle stanze vicino alla sala comune della residenza. La porta era chiusa. C’era solo lui, sdraiato sul divano in jeans e maglietta grigia. Stava guardando un gioco a premi, con i piedi che spuntavano dal divano; il televisore era in bianco e nero. Mi sedetti accanto a lui, che mi fissò e poi si voltò di nuovo verso la televisione.

Come va, Jack? esordii.

Non mi posso lamentare.

Ottimo, commentai. Ma cosa pensi che succederà?

Di che parli?

Della radio che ti sei preso.

E tu cosa ne sai? Te l’ha detto qualcuno?

C’era stamattina sul Colorado Daily. Sono qui per capire cosa pensi di fare.

Che cavolo vuoi che faccia?

Be’. Il giornale dice che un certo Curtis Harris ti sta accusando. Dice che gli hai rubato la radio.

Balle. Perdio, lui non la usava, quindi l’ho presa in prestito per un po’. E non gliel’ho ancora restituita.

Hai intenzione di farlo?

Ormai non posso più.

Come mai?

Perché no. Non ce l’ho più. Ce l’ha la polizia. Come prova.

Ho capito. Ma adesso cosa pensi che succederà?

Te l’ho appena detto: non lo so. E comunque cosa cambia?

Potrebbero buttarti fuori dall’università. Tanto per dirne una.

Sono stufo dell’università.

Come fai a saperlo? Voglio dire, dio santo, ancora non sei stato a lezione.

Ci sono andato quanto basta. Tutte chiacchiere.

Continuavo a osservarlo. A causa del football aveva lividi scuri sulle braccia e una crosta sul naso, all’altezza degli occhi. A guardarlo bene, sembrava un bambino appena caduto dalla bicicletta, un bambinone grande e grosso che per consolarsi guardava la televisione sul divano del salotto.

Stammi a sentire, ripresi. Pensaci un minuto. Non c’è niente che possiamo fare?

Per un attimo smise di guardare la tv. Mi fissò.

Be’, sì, rispose. C’è una cosa che puoi fare, se ti va. Non ho fatto colazione. Potresti prestarmi dei soldi.

Gli diedi qualche dollaro. Ne fui contento, ed ero pronto a fare anche di più per lui, però in quel momento non avrei saputo dire cosa. Piegò le banconote che gli avevo dato e se le infilò nella tasca dei jeans. Lo fissai ancora per qualche istante. Ma dato che non apriva bocca, me ne andai. Era ancora sdraiato sul divano a guardare qualcuno che vinceva soldi in uno studio californiano. Sembrava che gli piacesse.

Il venerdì, giorno dell’udienza sul suo caso, il tribunale studentesco lo condannò. La cosa durò pochissimo, ascoltarono la deposizione e raccomandarono la sua espulsione dall’università. C’erano stati diversi furti nel campus quell’autunno. Di conseguenza, l’amministrazione accolse la richiesta degli studenti e decise che il suo dovesse essere un caso esemplare. Ma Jack se ne fregava di quello che avevano deciso; non contestò le accuse e neppure si difese. In effetti non si era nemmeno presentato all’udienza. Quel mattino era andato all’ufficio reclutamento dell’esercito nel campus e si era arruolato; a quel punto era obbligato a due anni di servizio militare e l’esercito era ben contento di avere un soldato in più.

Prima di tornare a Holt passò a trovarmi. Disse che entro la fine di ottobre non si sarebbe dovuto presentare al centro di addestramento reclute, nel frattempo pensava di andare a casa per lavorare ai silos e stare con Wanda Jo Evans. Non era affatto scontento di come si erano messe le cose.

Be’, commentai. Forse è meglio così.

Perché no? rispose lui. Magari nell’esercito imparo anche qualcosa.

Stammi bene, allora.

Aspetta un secondo. Hai dei soldi?

Penso di sì.

Perché non posso mica tornare a casa a piedi.

Così Jack Burdette tornò a Holt, dove era ancora considerato un eroe e dove nessuno sapeva della radio di Curtis Harris, e se anche qualcuno l’avesse saputo, non gliene sarebbe importato granché; poi, alla fine di ottobre, partì per il centro addestramento reclute di Fort Bliss, in Texas. Dubito che avesse fatto caso all’ironia di quel nome, Fort “Beatitudine”, non era tipo da accorgersi di queste cose e immagino neanche l’esercito. In ogni caso ci rimase per quasi due mesi. Poi lo rividi subito dopo la conclusione dell’addestramento. Prima di venire riassegnato, era tornato a casa in licenza mentre ero là anch’io per le vacanze di fine semestre. Era Natale. Jack era dimagrito e indurito, ma magari era solo perché aveva i capelli a zero; la testa rasata faceva sembrare il suo collo più lungo e metteva in risalto le orecchie a sventola. Ad ogni modo, per tutto il tempo che rimase a Holt andò in giro con l’uniforme e il berretto dell’esercito. Alloggiava al Letitia Hotel, di giorno perlopiù dormiva e passava le serate alla taverna con Wanda Jo Evans, bevevano fino a tardi e Jack le raccontava ciò che aveva visto e fatto durante l’addestramento in Texas. Non so come facesse lei a restare sveglia fino a quell’ora, visto che ogni mattina doveva alzarsi presto per andare al lavoro alla compagnia telefonica. Eppure ce la faceva, ed era ovvio che, se possibile, era ancora più innamorata di prima. Poi Jack partì per Fort Ord, California, dove fece altri due mesi di addestramento, stavolta come assistente mitragliere, infine fu spedito oltreoceano, in Germania. Nessuno di noi lo vide più fino alla fine del 1962, quando venne congedato. Aveva un sacco di storie da raccontare. Gli era piaciuto stare nell’esercito.

Nel frattempo io ero ancora all’università. Alla fine del secondo anno ero riuscito a passare la maggior parte dei corsi obbligatori e mi stavo concentrando sul giornalismo. Buona parte delle attività in aula erano spocchia e teoria, che mi sarebbero servite a poco di lì a due anni, una volta tornato a Holt per lavorare al Mercury, ai cui lettori importava di più sapere chi fosse andato a trovare chi durante il fine settimana, piuttosto che i paradossi etici contenuti nel Primo Emendamento. Io però ancora non lo sapevo. Quindi frequentavo con assiduità le lezioni, prendevo appunti e il terzo anno iniziai a coprire diversi eventi del campus per il Colorado Daily. Per un po’ fu entusiasmante. Al campus in quel periodo si respirava un’aria di consapevolezza e determinazione, e al giornale ci illudevamo di farne parte e di parlare con la voce del popolo, anche se il popolo ancora non lo sapeva o non ci aveva chiesto di farlo. Per esempio ricordo che una volta il senatore Barry Goldwater venne a parlare al campus e sul giornale scrivemmo che era un fascista, praticamente un assassino. Quella dichiarazione creò un notevole scalpore in tutto lo stato e alla fine il rettore fu costretto a rimuovere il direttore responsabile del Colorado Daily, che era uno studente. Al campus ci furono manifestazioni di protesta. Non erano state rispettate le procedure legali e l’atmosfera si era surriscaldata. Il direttore però non venne mai reintegrato e la vicenda si rivelò una causa persa.

In compenso, in quello stesso periodo c’era un’altra questione per cui stavo iniziando a scaldarmi. Avevo appena conosciuto Nora Kramer e per un anno o forse più anche quella parve proprio una causa persa.

In effetti non ho molta voglia di parlare di Nora Kramer. E di sicuro lei non ha nessuna voglia che io parli di lei. Perché Nora era – ed è – una persona molto riservata e si risentirà senz’altro per la violazione della sua privacy. Però non posso farne a meno: che le piaccia o no, è parte di questa storia. Dopotutto siamo stati insieme per diciotto anni e abbiamo anche avuto una figlia. Ed è stato solo parecchio tempo dopo, quando ormai Nora aveva lasciato Holt e si era trasferita a Denver, che la solitudine, l’ammirazione e persino l’amore fecero sì che io rivolgessi le mie attenzioni a Jessie Burdette, che rispetto a Nora Kramer era come il giorno e la notte.

Però, dio santo, la prima volta che vidi Nora a Boulder era una donna giovane e bella. Aveva i capelli di un nero stupefacente. Erano scuri e lucidi come il carbone, folti, meravigliosi, ordinati. E la sua pelle era così bianca da assomigliare alla porcellana o all’avorio e quasi trasparente, pareva che guardandola abbastanza a lungo si sarebbe potuto scorgere il lieve movimento del sangue nelle tempie e nei polsi. Era molto piccola, molto sveglia e intelligente, una persona graziosa, linda, ordinata, sembrava indipendente come un uccello.

A quei tempi viveva con il padre. Il professor Kramer era molto noto al campus. Faceva lezione ogni giorno in giacca scura e cravattino, insegnava ai corsi di laurea magistrale del dipartimento di Anglistica. Era specializzato nel puritanesimo. Aveva una passione per John Bunyan e considerava letteratura Il pellegrinaggio del cristiano. Si era laureato a Yale e credo che si sentisse troppo qualificato per gli studenti della University of Colorado. Tuttavia era riuscito a mettersi il cuore in pace e ci insegnava da più di trent’anni. Quando avevo appuntamento con Nora e andavo a prenderla, incontrarlo in salotto non era uno spasso.

Non ho mai conosciuto sua madre. La signora Kramer era morta parecchi anni prima. Però l’avevo vista in foto. In quelle immagini compare una donnina con i capelli scuri come quelli della figlia e un’austera scriminatura da una parte, la bocca piccola e le labbra sottili, che teneva serrate, almeno nel momento in cui la stavano fotografando. Ma di lei so ben poco; Nora non parlava volentieri della madre, perché la signora Kramer era morta in modo orribile quando Nora aveva undici anni. E Nora aveva assistito.

Me ne parlò una volta, solo una volta, in tono monocorde, come se stesse raccontando un episodio capitato non a lei, ma a qualcun altro, come se ciò che le era successo quando aveva undici anni non la riguardasse più in alcun modo.

Un sabato mattina lei e la madre erano andate a Denver per fare acquisti in centro, ai grandi magazzini May-D & F; dato che mancava poco a Natale ed era una giornata serena e luminosa, i marciapiedi erano pieni di gente carica di pacchetti che si rivolgeva la parola in tono gentile e lasciava cadere monete nei secchielli rossi dell’Esercito della salvezza. Poi, mentre lei e la madre erano a un incrocio in attesa del verde, la signora Kramer era stata spinta o urtata dalla folla ed era finita giù dal marciapiede, giusto sulla traiettoria di un grande autobus cittadino. La signora Kramer riuscì a evitare di farsi travolgere, ma il suo cappotto rimase impigliato e di colpo fu portata via; la donna perse l’equilibrio, cadde di schiena e si ritrovò sotto l’autobus, intrappolata nel cappotto che la trascinava. Nora iniziò a rincorrerla. L’autista però non vide la ragazzina e, a quanto pare, non vide neppure sua madre. In fondo all’isolato Nora si accorse che il cappotto non era più incastrato, non stava più trascinando la madre. La donna si era fermata, l’autobus invece no. A quel punto Nora vide le ruote nere del veicolo passare sopra il petto e la testa di sua madre. La ragazzina smise di correre. Iniziò a gridare. Urlò e urlò, mi disse, finché non arrivò qualcuno a coprire con un cappotto la cosa in mezzo alla strada che era stata sua madre, e continuò a urlare finché non giunse l’ambulanza e uno dei soccorritori le fece un’iniezione. Più tardi, all’ospedale, le venne chiesto di fornire i suoi dati. Ci riuscì. Però quando le venne chiesto chi avrebbero dovuto avvisare, non fu in grado di ricordare il numero telefonico del padre e riprese a urlare.

Mi raccontò questa vicenda quando eravamo sposati da poco, una sera in camera nostra. Poi mi girai nel letto, l’abbracciai e le passai una mano sul viso, aspettandomi di trovarlo bagnato di lacrime. Invece era asciutto. Poco dopo Nora si addormentò, e il mattino seguente si rifiutò di aggiungere altro.

Quindi, per quanto ne so io, quel sabato mattina di tanto tempo fa a Denver fu l’ultima volta che Nora Kramer urlò per qualcosa. Non si sarebbe mai più concessa di lasciar trasparire un’emozione intensa. Neppure quando nostra figlia Toni aveva sedici anni e avremmo avuto ottimi motivi per mostrare le nostre emozioni.

Basta così: non vorrei farle altro male. Ha già sofferto abbastanza. Non ho nessuna voglia di riaprire vecchie ferite. Sono davvero contento che lei, a quanto pare, sia di nuovo felice. Eppure mi sento costretto a fare un resoconto il più accurato possibile. Ho i miei buoni motivi.

Forse basta dire che dopo essere stato per due anni con Nora Kramer a Boulder, due anni in cui per lei ero cambiato da cima a fondo e quasi non mi riconoscevo più, due anni di incontri con suo padre, che sedeva in salotto accanto a una lampada, leggendo Bunyan e magari, tanto per cambiare, anche un po’ di Milton, un po’ di Paradiso perduto giusto per rifarsi la bocca – sere in cui provavo ad avviare una conversazione con lui che leggeva mentre io aspettavo che sua figlia scendesse dal piano di sopra, così saremmo potuti uscire da quella casa e io pensavo che forse mi sarei ricordato come si faceva a respirare – dopo tutto questo, Nora e io nell’estate del 1964 ci sposammo e andammo a vivere a Holt, dove iniziai a lavorare per mio padre al giornale locale. A Nora però Holt non piacque molto fin dal principio. Era un’altra cosa rispetto a Boulder o Denver. Ora ripenso a ciò che Stewart Fliegelman mi aveva detto riguardo alle nostre prospettive.

Ma perché non capisci? mi aveva chiesto. Pensi davvero che lei sia una specie di violino che non hai ancora imparato a suonare?

Cosa stai dicendo?

Ho detto: non è un violino, cristo santo. Mi stai a sentire?

Ci provo, risposi. Ma qui dentro c’è un tale casino che non sento niente. In ogni caso tu dici sempre cose senza senso.

A quel punto Fliegelman si era allungato sul tavolo da picnic e si era messo a gridarmi in faccia.

Eravamo seduti al Sink, un bar sulla collina vicino al campus frequentato dagli studenti. Ci si sedeva su panche di legno ai tavoli da picnic pieni di graffi e incisioni, e le pareti e il basso soffitto erano dipinti di nero. Sui muri c’erano massime e slogan beat scritti con lo spray, con gocce di colore colate sotto ogni lettera, e sul retro c’era una stanza con il pavimento in terra battuta. Il Sink era sempre affollato, ma lo era specialmente il venerdì sera, quando tutti cercavano di trovare compagnia per il fine settimana: a quei tempi era un posto animato, gremito, fumoso e rumoroso, davvero maleodorante eppure magnifico, pieno di studenti che si ubriacavano di birra a settantacinque centesimi a caraffa e gridavano a gente che stava a meno di un metro da loro per farsi sentire al di sopra dell’urlo del jukebox. Era il posto giusto dove passare il venerdì sera. Quello e il Tulagi. Il Tulagi aveva una grande pista da ballo e la musica dal vivo, mentre al Sink c’era atmosfera, e c’erano i Sink burger, con quella salsa speciale che ti colava lungo il mento.

Quella sera, dopo l’appuntamento con Nora Kramer, ero appena entrato e mi ero seduto su una panca da picnic, con la tipica aria turbata e il muso lungo, e senza dubbio avevo bisogno di solidarietà e di comprensione o perlomeno di un Sink burger, e ora invece Fliegelman mi gridava in faccia chissà cosa sui violini.

Perché di musica non ce n’è, urlò. Mi senti?

Ti sento. Ma che cazzo stai dicendo?

È una metafora estesa, cristo. Lo sai cos’è?

Cosa?

È ciò che tu e Nora Kramer non siete. Ecco cos’è.

Gesù, gli risposi urlando. Sei ubriaco, Fliegelman. Vieni da Chicago, sei ubriaco e dici un sacco di stronzate.

Sono fradicio, rispose. Si raddrizzò sulla panca come se avessi detto qualcosa di offensivo. È birra. Ho fatto tutto quello che potevo per te, Arbuckle. Adesso vado a svuotare la vescica. È un mio diritto civile. Poi si alzò dal tavolo e barcollando sul pavimento in terra battuta si diresse in bagno, attraverso il muro compatto di corpi di studenti come se fosse uno gnomo dai capelli rossi a un baccanale.

Insomma, la nostra generazione a quei tempi parlava molto di diritti e di liberazione e anche di musica (più di chitarre elettriche che di violini, in realtà); più avanti si sarebbe visto che Stewart Fliegelman, a cui all’epoca non avevo prestato attenzione, aveva ragione a proposito di Nora Kramer e me. Di musica lì non ce n’era. E neppure qualcosa di simile alla liberazione. Per quanto riguarda Fliegelman, nemmeno il suo primo matrimonio fu esattamente l’Inno alla gioia di Beethoven.

5

Jack era in congedo dall’esercito da quasi due anni quando Nora e io ci trasferimmo a Holt. In giugno, dopo la laurea, ci eravamo sposati nella chiesa episcopale di Boulder. Stewart Fliegelman era al mio fianco e con Nora c’era un’amica. Poi, quando per il professor Kramer arrivò il momento di accompagnare la figlia lungo la navata fino all’altare, lo fece senza guardarla nemmeno una volta – era come se stesse attraversando la chiesa per caso andando al lavoro o fosse ancora immerso nei suoi pensieri su Milton e Bunyan – mentre Nora era incantevole nel suo velo e abito bianchi, con i capelli neri raccolti come quelli di una ragazzina. Poi però, forse per tentare di consolarla (dato che il vecchio riteneva senz’altro che, avendomi sposato, la figlia avesse bisogno di conforto), insistette perché accettassimo una settimana di luna di miele a New York a spese sue.

Quindi prendemmo un volo per New York, andammo a teatro a Broadway, vedemmo quello che c’era da vedere, mangiammo in ristoranti in cui i camerieri in giacca bianca stavano fermi in piedi alle nostre spalle mentre ci tenevamo per mano sotto il tavolo – tutto ciò che ci si aspetta in una luna di miele – e a New York iniziarono quei glaciali adempimenti coniugali che avrebbero caratterizzato non solo la prima settimana di matrimonio ma anche i diciotto anni successivi. Poi, a metà della vacanza, Nora si ammalò, un raffreddore estivo o l’influenza, così anticipammo il volo di rientro da New York e tornammo a casa. Lo sbalzo di pressione sull’aeroplano le provocò un forte mal d’orecchi, ricordo il suo viso bianco come uno straccio mentre scendevamo la scaletta. Passammo una notte a Boulder con suo padre e il giorno dopo, quando Nora iniziò a sentirsi meglio, partimmo per Holt, che era tre ore di macchina più a est. Il giorno seguente andai a lavorare al giornale e Nora si mise a piantare cespugli di rose dietro casa, nella terra lungo il muro esterno del garage. Non fu un inizio piacevole per nessuno dei due.

A Jack Burdette invece le cose sembravano andare molto bene. Aveva lasciato l’esercito ed era evidente che continuava a pensare di essersela spassata durante i due anni trascorsi in servizio. Ciò significa che da soldato aveva fatto progressi come bevitore di birra e come giocatore di poker e aveva visto un po’ di vita notturna nelle cittadine accanto alle basi in cui era stato spedito. Aveva anche scoperto che i soldi, ad averne abbastanza, potevano comprare molte cose che non sapeva si potessero comprare, inclusi i servizi temporanei di altri esseri umani. Ci disse di aver maturato un profondo rispetto per le virtù terapeutiche della penicillina. Tutte queste cose ce le riferì dopo essere tornato a casa. C’era in particolare una storia che amava raccontare. Riguardava tre ragazze tedesche, due bottiglie di champagne e un letto d’hotel, l’unico tipo di aritmetica che Jack sosteneva di comprendere. Quelle fräulein tedesche non dicono di no a niente, spiegò. Dovreste provarne una anche voi.

Insomma, l’esercito era stato una specie di scuola di perfezionamento per Jack, una forma di tirocinio post-laurea nelle competenze essenziali della vita. Gli avevano persino dato un diploma sotto forma di congedo con onore per attestare che era stato promosso, per dimostrare che aveva imparato le loro fondamentali lezioni.

Verso la fine del 1962, dopo aver speso l’ultimo stipendio in una prolungata baldoria finale, era tornato a Holt. Si era fatto più grosso, più forte, stava iniziando ad allargarsi, a diventare massiccio, a mettere su pancia – il che probabilmente aveva a che fare con le sue birre quotidiane – e di sicuro aveva più esperienza di quando se n’era andato, anche se è probabile che non fosse affatto più saggio. Questo però non aveva importanza; Wanda Jo Evans era sempre lì, e così pure il suo lavoro ai silos della cooperativa. Nel giro di poco tempo si riprese entrambi.

Intanto anche Wanda Jo Evans era cambiata. Ormai era nel pieno del suo splendore. Era al culmine della sua grazia per nulla esotica. Non intendo dire che fosse diventata sofisticata, non lo era affatto; eppure era più bella che mai e continuava a essere affettuosa e completamente presa da Jack. A ventun anni, aveva raggiunto il breve momento della perfezione fisica. Il grasso infantile non c’era più, i capelli biondo rame le scendevano lunghi e folti fino alle spalle e ormai ogni mattina andando al lavoro alla compagnia telefonica indossava calze di nylon, scarpe con il tacco, una bella gonna e una camicetta. Di conseguenza fu più o meno in quel periodo che alcuni clienti dell’Holt Café iniziarono a impuntarsi per avere sempre un tavolo accanto alla vetrina da cui guardarla passare per Main Street mentre bevevano il caffè. Speravano in una folata di vento che le sollevasse la gonna scoprendole le gambe o in una brezza improvvisa che gliela facesse aderire alle cosce. Erano lì ogni mattina, anche nei giorni senza vento, e la osservavano mentre raggiungeva il marciapiede dall’altro lato della strada. In effetti era uno spettacolo. Eppure era rimasta una ragazza gentile, ancora semplice e ingenua, l’unica cosa che le importava era vedersi con Jack Burdette.

Quando aveva iniziato a lavorare come segretaria, dopo il diploma di scuola superiore, aveva lasciato la casa della madre e aveva affittato un minuscolo bilocale per conto suo. Si trovava in Chicago Street, a est del centro, dove c’erano perlopiù casette in legno a un solo piano, dipinte in bianco e giallo, qualche volta anche in rosa, con piccoli capanni per gli attrezzi grigi sul retro, lungo i vicoli, terreni edificabili tra le case, e qui e là una vecchia carriola oppure una vecchia automobile senza ruote, che so, una DeSoto o una Nash Rambler, che si arrugginiva tra le erbacce sotto qualche olmo striminzito. Sul lavoro Wanda Jo era meticolosa ed efficiente e teneva pulita la sua casetta, le sere d’estate tagliava il prato e d’inverno spalava la neve e, nei due anni in cui Jack rimase lontano, gli scrisse delle lettere, lo seguì da El Paso a San Francisco, poi in Germania, sempre per corrispondenza; Jack le scriveva di rado e, immagino, solo per confermare di essere arrivato, o forse (cosa più probabile, conoscendo Jack) semplicemente per lamentarsi di essere costretto in caserma durante tutto il fine settimana per aver commesso qualche piccola violazione del regolamento militare, e di non avere quindi niente di meglio da fare che scarabocchiarle un breve messaggio su carta intestata dell’esercito, in attesa del rientro dei commilitoni per riprendere a giocare a carte.

Finalmente, alla fine del 1962, Jack era tornato a Holt e tutto era come prima. O forse per Wanda Jo era ancora meglio di prima, visto che negli anni successivi aveva continuato a stare con lui, sempre convinta che si sarebbero sposati.

Insomma, era un amore degradante. E assumeva diverse forme. Una delle quali erano senz’altro i calzini puliti.

Penso che per Wanda Jo fosse un baratto, una sorta di transazione romantica. Era come se per lei lavargli i calzini e stirargli le camicie fosse l’ovvia, logica evoluzione del passargli i compiti in classe, ma non solo; fargli il bucato tutte le settimane era un equo compenso per il privilegio di uscire con lui il sabato sera. In effetti, per otto anni, Jack ogni sabato sera parcheggiava di fronte alla casa in Chicago Street, scendeva dalla macchina, si avvicinava alla casa con un sacchetto di carta marrone sottobraccio, un sacchetto che non conteneva mai rose o garofani o anche solo un mazzo di margherite, ma era pieno fino all’orlo dei vestiti sporchi accumulati in una settimana, calzini usati, camicie sudicie. Wanda Jo gli apriva la porta e gli prendeva il sacchetto dalle mani. Sembrava che per lei fosse un regalo, un dono, un pensierino romantico, come se le avesse riservato una cosa di valore, un gesto di riguardo. E naturalmente, aveva qualcosa da dargli in cambio; gli porgeva un altro sacchetto di carta con i vestiti puliti: i calzini maleodoranti, le camicie da lavoro usate, i jeans macchiati, tutto trasformato, fragrante, lavato, asciugato e ancora profumato di sapone, come se nella settimana appena trascorsa fosse riuscita a fare una magia o un miracolo. E in effetti era proprio così: aveva realizzato una specie di alchimia domestica e amorevole.

A quel punto Jack diceva: Grazie, Wanda Jo. A volte esagerava: Grazie mille, ragazza.

Poi uscivano dalla casetta in Chicago Street. Jack avvolgeva con il suo grosso braccio le spalle lisce e delicate di Wanda Jo, con i suoi capelli biondo rame, e una volta arrivati all’automobile buttava il sacchetto con i vestiti puliti sul sedile posteriore. Andavano a bere alla taverna in Main Street oppure a bere e ballare al Legion, sulla Highway 34. Era il loro rito settimanale; si ripeteva ogni sabato sera. Dopo la chiusura dei bar e dopo che Jack aveva raccontato l’ultima barzelletta all’ultimo uomo ancora abbastanza sobrio da ridere al momento giusto, di solito tornavano a casa di Wanda Jo. Quindi, per un’ora o due, nella camera da letto sul retro si svolgeva un altro genere di rito: Jack a quanto pare le insegnava i trucchi che aveva pagato per imparare quando era nell’esercito. E nessuno di noi metteva in dubbio che lei facesse anche questo per accontentarlo. Perché lo amava. Perché continuava a pensare a lui come a un grande uomo con i capelli neri e molto senso dell’umorismo. Era disposta ad aspettare anni prima che lui si decidesse a sposarla, perché credeva ancora che presto o tardi l’avrebbe fatto. Non aveva altre aspettative. Jack Burdette era la somma di tutto ciò che lei si augurava nella vita. Una volta me lo confidò.

Successe durante uno di quei sabati sera. L’inverno stava finendo, era marzo o aprile, e Jack era tornato a Holt da sei o sette anni.

Avevo preferito lavorare fino a tardi al Mercury, anziché tornare da Nora, in quella casa silenziosa. Come al solito Nora stava leggendo in salotto, avvolta in una coperta, e Toni, la nostra bambina, che all’epoca aveva due o tre anni, era già a dormire sotto una trapunta bianca nella sua cameretta al piano di sopra. Così, dopo cena, ero tornato in ufficio per scrivere un editoriale per il numero della settimana successiva, poi avevo camminato fino alla Holt Tavern, che era un isolato più in là, all’angolo tra Main e Second Street. Avevo voglia di rumore e di risate; di bere una birra tra amici prima di tornare a casa. Rimasi al bancone per un po’ a chiacchierare con Bob Sullivan.

Bob Sullivan era un agricoltore, stava andando in pensione, si era trasferito a Holt da poco e in quel periodo era molto deluso da sua nipote Amy, che sei mesi prima aveva sposato un ragazzo del posto di nome Jerry Weaver.

Quel tizio non va bene per lei, mi raccontò Sullivan. L’ho detto a Amy. È uscita dalle superiori da nemmeno un anno, salta fuori questo Weaver e la convince ad andare in chiesa prima ancora che lei abbia avuto il tempo di guardarsi intorno per vedere cos’altro la aspetta nel mondo.

Quanti anni ha tua nipote?

Diciannove.

È piuttosto giovane per essere sposata.

Appunto, confermò Sullivan. Ma secondo te è possibile dire qualcosa a questi ragazzi?

Non penso.

No, infatti.

Sullivan ordinò un altro Jack Daniel’s con ghiaccio. Quando se lo ritrovò davanti sul bancone, ne buttò giù metà in un sorso.

Quando ho capito che l’avrebbe fatto comunque, proseguì, mi sono deciso: al diavolo, vorrà dire che cercherò di semplificarle la vita. Come regalo di nozze le prenderò una roulotte bella grande in cui andare ad abitare. E così ho fatto. Era nuova di zecca quando gliel’ho comprata.

Hai fatto una bella cosa.

Perché non penserai mica che quel ragazzo abbia dei soldi, vero?

La sua famiglia ha sei o settecento ettari di terreno coltivato a grano. Qualche soldo devono pur averlo.

E secondo te lo spendono?

Non saprei.

La risposta è no. Ma adesso vorrei non averlo fatto neanch’io. E ti spiego perché.

Dimmi.

Perché l’ultima volta che sono andato da Amy è stata una domenica pomeriggio di un mese fa, si mise a raccontare Bob Sullivan. Mi siedo al tavolo della cucina come faccio sempre e Amy mi porta il caffè. Allora mi accendo una sigaretta da fumare con il caffè e lei mi guarda dall’altro capo del tavolo e mi fa: Nonno, mi fa, vorrei che tu la piantassi di fumare in casa mia. Cosa? le rispondo io. Nonno, dice, sarei contenta se tu non fumassi più in casa mia, tutto qui. Cosa? Che diavolo stai dicendo? È una regola della casa, mi fa lei. Davvero? dico io. Sì, davvero. L’abbiamo deciso io e Jerry la settimana scorsa, dopo che sei stato qui l’ultima volta. Mi spiace, nonno. Anche a me, e tra poco mi dispiacerà ancora di più, le ho risposto. E sai cos’ho fatto?

No. Ma me lo posso immaginare.

Mi sono alzato e me ne sono andato. Ecco cos’ho fatto. Sono tornato a casa incazzato nero. E da allora non sono più andato a trovarla. Che ne pensi?

Non me lo sarei proprio aspettato da lei.

Neanch’io. Perché avevo già tirato fuori l’accendino e acceso la sigaretta. Non mi avrebbe dato così fastidio se solo mi avesse avvisato prima di accenderla. Ma non mi ha detto niente.

Le passerà, commentai.

Non so. Ormai è passato più di un mese.

Dalle ancora un po’ di tempo.

Certo. Però sai una cosa, Pat?

No.

Lo sai qual è il casino?

Non saprei.

Mi manca. Ecco qual è il casino. Mi manca Amy. Ho voglia di andare a trovarla, di chiacchierare con lei, di bere il caffè insieme a lei. E domani sarà di nuovo domenica pomeriggio.

Poi mi guardò e io scossi la testa. Lui finì il suo Jack Daniel’s e restò seduto al bancone, mescolando il ghiaccio nel bicchiere con il dito. Alla fine si alzò molto lentamente e andò in bagno.

Io rimasi al bancone ma mi spostai un po’ più in là. Ordinai un’altra birra. In fondo al locale, seduta da sola a un tavolo, vidi Wanda Jo Evans. Mi salutò con un cenno e io mi avvicinai al suo tavolo e mi sedetti accanto a lei. Jack Burdette era al biliardo, stava parlando con un gruppo di uomini, era pesante, solido, massiccio, una figura imponente, se ne stava lì a chiacchierare gesticolando, con un bicchiere colmo di liquore in una mano e una sigaretta nell’altra, il suo volto sovrastava quello degli altri, era rubizzo e animato, aveva gli occhi un po’ lucidi. Lo stavano tutti a guardare mentre parlava.

Stasera sei molto carina, Wanda Jo, osservai. È nuovo il vestito?

Ti piace?

Sì. Sei fantastica. Era la verità. Indossava un vestito verde pallido che le metteva in risalto i capelli, era di un tessuto morbido, che dalle spalle le ricadeva senza una grinza sui seni e sui fianchi. Aveva dei bottoncini sul davanti.

Sorrise. Anche tu non sei affatto male.

Sto perdendo i capelli, risposi. Guarda qui. Mi diedi un colpetto sulla fronte, dove un tempo crescevano i capelli. Se non la smettono di cadere, mi ritroverò pelato come una palla da biliardo ambulante.

Anche Jack sta perdendo i capelli.

Ma lui se lo può permettere. Mal che vada può farsi trapiantare dei peli dal petto e nessuno se ne accorgerà.

Io sì che me ne accorgerei, disse lei. Poi scoppiò a ridere. Aveva bevuto abbastanza da trovare buffa quell’idea. È davvero peloso, eh?

È l’anello mancante, risposi io.

Guardammo verso il biliardo, dov’era Jack. Stava raccontando un’altra barzelletta o raccontando per l’ennesima volta una delle sue storie, e gli uomini intorno a lui aspettavano la battuta. Pendevano dalle sue labbra. Un bar e un pubblico maschile: Jack era nel suo elemento.

Wanda Jo tornò a guardare dalla mia parte e prese ad avvolgersi una cannuccia tra le dita.

Ieri ho visto tua moglie e la tua bambina in Main Street, disse.

Ah, sì?

Sì. Ridimmi come si chiama tua figlia.

Toni.

Toni. Quanto è carina. E aveva un vestitino graziosissimo. Avrei voluto abbracciarla.

Perlomeno ha preso un po’ della bellezza di sua madre. Ma è testarda come un mulo. Magari potresti passare a darci una mano all’ora del sonnellino.

Mi farebbe piacere. Basta che me lo diciate. Era seria. Comunque secondo me siete fortunati.

Dici? Non so, risposi. Perché non mi pareva di essere fortunato. Non per il matrimonio, in ogni caso. Ma di sicuro Wanda Jo voleva dire che ero fortunato a essere padre. Su questo ero d’accordo con lei. Perlomeno a quei tempi lo ero. Toni era ciò che teneva insieme me e Nora.

Spero di avere anch’io dei bambini, osservò Wanda Jo.

Davvero? le chiesi.

Non pensi che sarei una buona madre?

Ma certo.

Io penso di sì. Solo che si sta facendo tardi. A volte vorrei solo che Jack si sbrigasse a decidersi. Dice che lo farà, ma poi continua a rimandare.

Mi pare tipico suo.

Sai che l’estate scorsa stavamo per sposarci?

No.

Eh, sì. Avevo già comprato l’abito e fatto stampare gli inviti. Poi però Jack ha deciso che non era ancora pronto.

Immagino che non lo fosse.

Wanda Jo smise di arrotolare la cannuccia e mi guardò. Prima o poi si deciderà di sicuro. È questo che devo pensare. Altrimenti che senso ha?

Si arrenderà. Vuole solo divertirsi ancora un po’, risposi. Poi le presi una mano; gliela strinsi e lei sorrise. Ma il sorriso non durò a lungo; il suo sguardo non cambiò. Subito dopo tornò ad avere la stessa aria infelice.

Beviamo ancora qualcosa, proposi.

Quindi parlammo d’altro per un po’ e bevemmo ancora un giro o due. Alla fine Wanda Jo Evans era ubriaca, mentre Jack Burdette continuava a chiacchierare con il suo gruppo di amici.

Decisi di tornare a casa. Era passata mezzanotte e il bar stava chiudendo. Quando le luci si accesero, Jack si avvicinò, prese Wanda Jo sottobraccio e si avviarono verso il suo furgoncino. Lui disse qualcosa che la fece ridere, ma era una risata troppo rumorosa, riecheggiò sulle facciate dei negozi e rimase sospesa nell’aria come nebbia. Mi fermai sul marciapiede e li guardai salire a bordo. Poi partirono per Chicago Street.

Insomma, le cose sarebbero potute andare avanti così per un tempo indefinito. Erano già andate così per quasi un decennio. Poi nel 1970 Doyle Francis compì sessantacinque anni e decise di andare in pensione. E il pensionamento di Doyle risultò essere il primo di una serie di eventi che avrebbero messo fine a quella situazione per Wanda Jo Evans, benché in quel momento non lo sapesse lei né nessun altro.

Doyle Francis era il direttore dei silos della cooperativa degli agricoltori a Holt. Li dirigeva da quarant’anni – ossia a memoria d’uomo – e aveva sempre dato il massimo, il suo lavoro era stato davvero prezioso. Ma ormai era stanco. Non ne poteva più. Voleva giocare a golf e provare a coltivare asparagi nell’orto dietro casa. Di conseguenza, all’inizio di quell’estate aveva comunicato ad Arch Withers e agli altri membri del consiglio di amministrazione della cooperativa che in autunno, dopo la raccolta del granturco, sarebbe andato in pensione.

Quindi in novembre, un paio di settimane prima del giorno del Ringraziamento, il consiglio invitò tutti gli agricoltori del posto che erano soci della cooperativa, nonché il sindaco e i consiglieri comunali con le mogli, a un banchetto che si sarebbe tenuto in onore di Doyle al circolo del golf a est della cittadina. Anche io andai con Nora, e ne scrissi in un articolo per il Mercury. Non credo che un evento del genere avrebbe ricevuto molta attenzione sul Denver Post o sul Rocky Mountain News o, se è per questo, su nessun altro giornale in tutta la regione, ma a Holt, nella zona delle High Plains, era una notizia da prima pagina. A livello locale la gente voleva sapere come sarebbero andate le cose ai silos dopo il pensionamento di Doyle.

Al banchetto c’era la consueta lunga fila di tavoli con le sedie sui due lati preceduta da un tavolo d’onore. Come sempre la cena consistette in roast beef con il purè di patate e i piselli, caffè e torta di frutta. Poi ascoltammo brevi discorsi e tributi di stima. Quindi alcuni degli agricoltori presenti si alzarono spontaneamente – ma anche con un certo imbarazzo, le fronti bianche che per l’occasione brillavano pulite sotto le luci della sala, le grandi mani callose che spuntavano rosse dai polsini delle giacche – e una volta in piedi iniziarono a raccontare storie e a fare battute su Doyle, storie che tutti i presenti avevano già sentito tre o quattro volte in versioni più disinibite e irriverenti. Comunque fu un successo. E ovviamente Doyle ascoltò divertito quei racconti. A quel punto Arch Withers, il presidente del consiglio di amministrazione della cooperativa, chiamò sul palco Doyle per offrirgli un dono. Era una scatola piuttosto voluminosa avvolta in carta argentata con un fiocco rosso. Tutti lo osservarono mentre la apriva, ma Withers e gli altri membri del consiglio seduti con le mogli al tavolo d’onore non si limitarono a fissarlo: sembravano fuori di sé. Non riuscivano a stare seri. Finalmente Doyle tolse la carta argentata e aprì la scatola. Mentre sbirciava dentro, all’inizio apparve sconcertato, sbalordito; poi sorrise, infilò le mani nella scatola e sollevò il contenuto perché tutti potessero vederlo. Ciò che ci mostrò non era il solito orologio da taschino o un set penna e matita in ottone destinato a riempirsi di polvere su una scrivania. No, si scoprì che il consiglio di amministrazione gli aveva regalato una bella, robusta amaca su cui sdraiarsi in giardino e... un abbonamento quinquennale alla rivista Playboy, da leggere piazzato sull’amaca. Doyle fece un gran sorriso. Poi disse: Ragazzi, ho paura che mi stiate sopravvalutando. La triste realtà è che sono troppo grasso per una cosa e troppo vecchio per l’altra.

Tutti scoppiarono a ridere. Uno dei membri del consiglio rispose a voce alta: Certo, Doyle. Ma noi vogliamo sapere per quale delle due sei troppo grasso.

A quel punto sì che la gente rise sul serio. Si voltarono per guardare la moglie di Doyle, seduta al tavolo d’onore accanto alla sedia vuota del marito. Era una piccola donna paffuta e gentile con i capelli bianchi, di colpo era arrossita e per l’imbarazzo si era messa a giocherellare con un tovagliolo. Doyle riprese a parlare: Certo, immagino che potrei sempre perdere un po’ di chili. Voglio dire, potrei persino riuscire a tornare pelle e ossa. Non vi pare?

Gli ospiti risero di nuovo, poi Doyle portò la scatola alla sua sedia, la posò e si chinò a dare un rumoroso bacio su una guancia rossa della moglie, con evidente buonumore e affetto sincero nonostante gli oltre quarant’anni di matrimonio, e tutti applaudirono.

Insomma, quella parte del banchetto di pensionamento di Doyle Francis fu un successo. La gente di Holt lo apprezzò. E credo che fu apprezzato anche il resto della serata.

Perché subito dopo venne annunciato che Jack Burdette era stato scelto per succedere a Doyle Francis come direttore dei silos della cooperativa. Fu Arch Withers ad annunciarlo. Si appoggiò con tutto il suo peso al podio e, parlando al pubblico in tono solenne, disse che lui e il consiglio di amministrazione erano consapevoli che sarebbe stato difficile indossare i panni di Doyle, tuttavia avevano deciso che non c’era bisogno di cercare qualcuno di esterno. Dopo averci pensato a fondo, erano giunti a una decisione unanime; tutti erano d’accordo sulla promozione di Jack a direttore.

Il pubblico applaudì ancora una volta. Tutti approvavano. E mentre Jack si avvicinava al podio per stringere la mano ad Arch Withers, uno degli agricoltori disse: Be’, Burdette è grande e grosso. Dovrebbe essere in grado di indossare i panni di Doyle.

Seduta al centro della sala, a uno dei lunghi tavoli, anche Wanda Jo Evans avrebbe potuto dire la sua sui panni di Jack. Però non lo fece, benché avesse le lacrime agli occhi quando la guardai, lacrime d’amore e di approvazione, immagino, ma anche di aspettative per sé. Secondo me infatti Wanda Jo Evans aveva pensato che a quel punto, con quella promozione, Jack volesse mettere la testa a posto, fosse pronto a fare della loro relazione – di quei loro incontri del sabato sera, che andavano avanti ormai da quasi otto anni – non solo un rito settimanale, ma una condizione quotidiana e permanente.

Poi arrivò il 1971. Era primavera. Jack era il direttore dei silos della cooperativa da circa sei mesi. All’inizio di aprile il consiglio di amministrazione decise di mandarlo un fine settimana a Tulsa, Oklahoma, per farlo partecipare a un convegno di direttori di silos di grano. Il consiglio era dell’idea che prendere parte a quel convegno sarebbe stato utile per lui e anche per i silos: avrebbe potuto seguire seminari e corsi e sarebbe tornato con le ultime previsioni sul mercato dei future e con qualsiasi informazione disponibile sulla prevenzione delle esplosioni delle polveri di cereali. I seminari e i corsi sarebbero stati tenuti da un sottosegretario all’Agricoltura e da parecchi economisti e ricercatori universitari.

Fu così che Jack andò fino a Tulsa. Era solo, guidava uno dei furgoncini della cooperativa e aveva in tasca due o tre carte di credito aziendali. Partì un giovedì. Il convegno sarebbe iniziato il venerdì a mezzogiorno all’Holiday Inn ed era previsto che lui si fermasse per tutto il fine settimana e rientrasse il lunedì nel tardo pomeriggio o in prima serata; il martedì avrebbe fornito un resoconto in una riunione del consiglio di amministrazione convocata appositamente. A quanto pare Jack arrivò a Tulsa il giovedì sera come da programma. Trovò l’Holiday Inn, si fece dare una stanza, localizzò la sala da pranzo e il bar, si mise a chiacchierare con qualche altro direttore di silos, stette a sentire le loro storie e ne raccontò qualcuna anche lui, andò a dormire a un orario ragionevole e poi ci sono buoni motivi per ritenere che abbia persino partecipato a qualcuna delle riunioni del venerdì pomeriggio e del sabato. Il sabato sera, però, sembra proprio che ne avesse abbastanza.

Non so, forse era semplicemente annoiato. Magari era già stanco di tutta quella faccenda. Partecipare ai seminari e ai gruppi di studio del convegno di sicuro gli dovette sembrare troppo simile alle lezioni delle scuole superiori e dell’università. Tutte quelle chiacchiere in aule soffocanti e senza finestre, con le caraffe di acqua ghiacciata e i thermos di caffè sistemati su un tavolo in fondo alla sala, ma niente di forte, niente di adatto a un uomo: quegli esperti in cattedra che non smettevano mai di parlare, i discorsi specialistici, privi di spirito, professionali a proposito di future sul granturco ed esplosioni delle polveri di cereali, accompagnati da griglie di dati e grafici e mucchi di ricerche scientifiche. Tutta roba che Jack doveva non solo credere e capire, ma di cui doveva anche prendere accurati appunti con la penna a sfera e il blocco che gli erano stati forniti, costretto a stare seduto con le braccia muscolose posate sul tavolo come gigantesche braciole di maiale, calcolando a mente il tempo che mancava alla cena e al primo bicchiere della serata, e non necessariamente in questo ordine. Nel frattempo gli esperti continuavano a parlare e lui continuava a sforzarsi di rimanere sveglio. Di conseguenza, penso che il sabato sera fosse ormai decisamente stanco e annoiato. Ma so anche che a quel punto aveva già conosciuto Jessie Miller. E Jessie Miller, come si faceva chiamare all’epoca, gli avrebbe fatto venire voglia di svignarsela anche se non fosse stato annoiato.

Jessie era stata assunta da uno degli sponsor del convegno per starsene dietro un tavolo sistemato all’ingresso. Le era stato detto di indossare una camicia bianca e una minigonna nera, fare grandi sorrisi, porgere opuscoli variopinti e patinati e mostrare di continuo un filmato che decantava le virtù di una varietà particolare di semi di granturco ibrido. Per tutto il venerdì pomeriggio e il sabato, Jessie aveva rispettato alla lettera queste istruzioni. Quindi è probabile che Jack avesse già avuto modo di conoscerla, o almeno di rivolgerle diverse volte la parola.

Il sabato sera, dopo la fine dell’ultimo gruppo di lavoro del tardo pomeriggio, si era messo a corteggiarla sul serio. Va detto che era un tipo affascinante. Magari non sono stato chiaro su questo punto, ma Jack Burdette poteva piacere molto alle donne, era in grado di esercitare un fascino e una capacità di persuasione notevoli, quando c’era in ballo una donna. È proprio così: nelle occasioni in cui gli interessava ciò che una donna pensava di lui e ogni volta in cui le reazioni di una donna alle sue parole facevano la differenza – vale a dire: ogni volta che voleva qualcosa da lei – Jack riusciva a essere molto convincente. E lo stesso succedeva con gli uomini. Si imponeva in ogni stanza in cui entrava. Eppure la cosa non era del tutto consapevole e deliberata da parte sua. Perlopiù si trattava di impeto e istinto, il risultato di una vitalità e un’energia innate. Era pieno di sé. La sua era una natura dominante. Peraltro era grande e grosso e all’epoca non aveva un aspetto sgradevole. Non era ancora diventato sciatto.

Insomma, si era messo a corteggiarla. Nel 1971 lei aveva appena vent’anni e lui già trenta. Le offrì del vino e la invitò a cena, le ordinò una bistecca nella sala da pranzo e ballò con lei fino a tardi, facendola volteggiare sulla pista del salone, dove un gruppo country ingaggiato dagli sponsor del convegno suonava dal vivo, e innaffiò il tutto con una serie di vini costosi che pagò con le carte di credito della cooperativa degli agricoltori di Holt. Poi sparì insieme a lei. Salirono nella stanza di Jack, da cui non uscirono fino al lunedì mattina, quando tutti gli altri partecipanti al convegno erano ripartiti; lasciarono la camera solo per fare gli esami del sangue* e localizzare il più vicino giudice di pace prima di tornare nell’intimità della stanza all’Holiday Inn.

Jack non tornò a Holt fino alla tarda serata di mercoledì. E a quel punto era già sposato. Portò Jessie nella sua vecchia stanza al Letitia Hotel, ad appena un isolato da Main Street.

A Holt tutti rimasero sorpresi, sbalorditi. Ma per Wanda Jo Evans fu ben più di questo. Fu uno shock quasi letale. E non fu neppure Burdette a informarla di essersi sposato. Al contrario, lei lo venne a sapere come chiunque altro a Holt: attraverso il passaparola, il giovedì mattina, quando Jack, tornato dall’Oklahoma, aveva già trascorso la prima notte con Jessie al Letitia Hotel.

Eppure Wanda Jo sapeva che lui era andato a Tulsa. Sapeva che il consiglio di amministrazione l’aveva mandato al convegno. Ma non credo che se ne fosse data tanto pensiero. Come tutti, del resto. Faceva semplicemente parte delle sue nuove responsabilità. Quindi, dal punto di vista di Wanda Jo, lui semplicemente sarebbe stato via per il fine settimana, il sabato sera non sarebbero andati a bere e a ballare e più tardi non avrebbero fatto l’amore nella camera da letto di Chicago Street e lei ne avrebbe sentito la mancanza. Quindi è probabile che lei avesse deciso di fare buon uso del tempo in cui lui sarebbe stato via. Magari aveva pulito casa a fondo; magari si era fatta la permanente e aveva controllato il suo conto corrente e cucito i bottoni su una camicia di Jack. Poi era arrivato il lunedì, il giorno in cui lui sarebbe dovuto rientrare.

Però non era rientrato. Il lunedì era ancora a Tulsa. Era occupato. Era impegnato. Stava facendo gli esami del sangue. Stava trascinando in aula degli sconosciuti trovati all’ingresso dell’ufficio del giudice di pace perché facessero da testimoni, era in piedi di fronte a un giudice sconosciuto, stava promettendo alla ragazza ventenne che aveva accanto e conosceva da quarantotto ore che l’avrebbe amata e si sarebbe preso cura di lei nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia finché la morte non li avesse separati. Ed era tornato a Holt solo nella tarda serata del mercoledì. Mezzanotte era passata da un pezzo, di conseguenza Wanda Jo Evans probabilmente aveva rinunciato anche per quella sera a ricevere una telefonata che non stava arrivando e doveva essersi decisa ad andare a dormire; era confusa, stupita, stava iniziando a preoccuparsi. Ma alla fine era andata a letto. E il giorno dopo aveva scoperto che Jack si era sposato.

Era stata Joyce Penner, una delle colleghe di Wanda Jo, a riferirglielo. Joyce l’aveva sentito dire in panetteria. Più o meno alle nove e mezzo di quel mattino, Joyce aveva svoltato l’angolo di Main Street ed era entrata nella panetteria Bradbury per comprare dei panini dolci per le colleghe, e a quell’ora tutta la città ne stava già parlando. Così, come venimmo a sapere in seguito, Joyce era tornata di corsa in ufficio senza neppure comprare i panini. Rientrando si era chinata sulla scrivania di Wanda Jo e le aveva detto: Tesoro, vieni un attimo ai servizi con me.

Che succede? aveva chiesto Wanda Jo. Non stai bene?

Vieni con me ai servizi e basta.

Insomma. Ci dev’essere qualcosa che non va, aveva commentato Wanda Jo.

Joyce però si era già avviata, passando accanto alle scrivanie delle colleghe. Wanda Jo si era alzata e l’aveva seguita in bagno, e quest’ultima aveva chiuso a chiave la porta alle loro spalle e invitato Wanda Jo a sedersi.

Perché? era stata la risposta di Wanda Jo.

Fallo e basta. E poi le aveva detto tutto.

Immagino che per certe persone una cattiva notizia possa risultare letale. Specie se è improvvisa e inaspettata. O meglio se non ci sei abituata, se finora hai tirato avanti in modo passivo, sperando che tutto sarebbe andato bene malgrado fosse evidente il contrario, se hai ventinove anni e credi ancora che un uomo ti sposerà solo perché gli hai lavato i calzini sporchi per otto anni e sei andata a letto con lui ogni sabato sera per tutto quel tempo, allora credo che una cattiva notizia possa ucciderti. In ogni caso per Wanda Jo fu più o meno così. Perché in un certo senso Wanda Jo Evans morì quel giovedì mattina di aprile. Non sto dicendo che si tagliò le vene con un rasoio che casualmente aveva con sé in borsetta, e neppure che tentò di suicidarsi pugnalandosi con una limetta per le unghie. Dico solo che da quel momento smise di curarsi di ciò che le capitava.

La cosa fu immediata. Per il resto della mattinata rimase seduta nel bagno dell’ufficio a fissare le piastrelle del pavimento, pulendosi il naso con della semplice carta igienica e piangendo sommessamente, con i ricci biondo rame che le ricadevano sul viso turbato e affranto e sul sottile collo bianco, chino e nudo, come in attesa del colpo d’ascia di un inquisitore della contea di Holt. Tutto questo – il terribile pentimento, la disperazione, la sottomissione – mentre la ventola sopra di lei continuava a girare con un rumorino esasperante e le colleghe parlavano di lei e più o meno ogni quarto d’ora andavano a turno a controllarla. Rimase in bagno per tutta la mattina. Poi a mezzogiorno una di loro la accompagnò a casa.

Passò il resto della primavera a bere. Di sera dopo il lavoro tornava a casa, si sedeva davanti al televisore e beveva vino a buon mercato oppure vodka finché non si addormentava. E nei fine settimana girava per i bar della città, andava da sola negli stessi posti che un tempo aveva frequentato insieme a Jack. Immancabilmente, beveva fino alla chiusura dei bar. Con il tempo cominciò a portarsi a casa qualcuno. Li faceva entrare nella piccola camera sul retro della casa di Chicago Street, non rifaceva più il letto, le lenzuola odoravano di sudore e fumo di sigaretta stantio. Ma a lei non importava niente. L’unica cosa che le interessava era che lui – chiunque fosse, e ce ne furono molti in quei mesi di fine primavera, certe volte persino più di uno alla volta – si facesse il bucato da sé. Wanda Jo insisteva su questo punto.

A giugno era ormai completamente sottosopra. Era smarrita, faceva pietà. E la gente di Holt aveva pietà di lei – le donne soprattutto, ma anche qualche uomo, quando ci pensava. A tutti dispiaceva per lei. Ma nessuno sapeva cosa fare. In ogni caso, alla fine, un aiuto inatteso giunse dall’esterno. Si presentò sotto forma di un timido ometto di mezz’età che indossava occhiali con la montatura in corno, camicia bianca e cravatta: un certo signor T. Bleven McGill. Era un dirigente della compagnia telefonica e si scoprì che aveva un cuore. T. Bleven McGill la convinse a chiedere di essere spostata in un altro ufficio. Quindi, alla fine di giugno, Wanda Jo si trasferì a Pueblo. E, a quanto ne so, è ancora là.

Prima di andarsene, però, Wanda Jo fece una cosa, una cosa che a Holt è ormai entrata nella leggenda: consegnò a Jack l’ultimo sacchetto marrone di vestiti puliti. Avevano ancora persino un vago profumo di sapone. Li aveva lavati la settimana prima che Jack partisse per Tulsa; naturalmente quando era tornato non aveva pensato di andare a riprenderseli. Wanda Jo glieli portò un pomeriggio, mentre lui era nel suo ufficio ai silos. C’erano anche Bob Thomas e diversi altri uomini. Lei non disse niente a Jack, né a nessun altro. Si limitò a posare il sacchetto sul tavolo, poi guardò Jack, lo fissò, incrociò il suo sguardo, quindi osservò gli altri uomini. Alla fine si girò e andò via.

Quando ebbe lasciato l’ufficio, Burdette guardò nel sacchetto di carta. Riconobbe il contenuto; erano proprio i suoi vestiti, ma erano stati modificati. Con un rasoio o un paio di forbici erano stati tagliati in maniera metodica e astiosa, ridotti in pezzi minuscoli, il più grande dei quali era come la casella di una scacchiera o il nastro per capelli di una bambina: tutti i suoi calzini, i pantaloni, la biancheria. Burdette rovesciò il contenuto del sacchetto sul tavolo.

Uhm, disse agli altri uomini nell’ufficio. Secondo voi questo significa che è finita? Dite che non mi farà mai più il bucato?

Bob Thomas e qualcun altro scoppiarono a ridere.

Al diavolo, esclamò Jack. Era una brava ragazza. Però ha sempre avuto poco senso dell’umorismo.

* A quei tempi negli Stati Uniti molti stati richiedevano una serie di esami del sangue per rilasciare il nulla osta al matrimonio. [N.d.T.]

6

Lei era l’esatto contrario di ciò che la gente di Holt pensava che fosse. In altre parole era l’esatto contrario di ciò che la gente di Holt pensava che avrebbedovuto essere. Se Burdette l’aveva sposata, lasciando una bella donna generosa e paziente come Wanda Jo Evans per sposare un’altra, quest’altra doveva essere notevole. O quantomeno doveva essere una Jayne Mansfield o una Marilyn Monroe in versione Oklahoma e con la voce roca.

Invece non lo era. Non lo era affatto.

Fin dall’inizio lo stesso Burdette aveva detto cose fuorvianti sul suo conto. Era rientrato da Tulsa il mercoledì sera e la mattina dopo, tornato al lavoro ai silos, aveva parlato di lei ad Arch Withers. E ciò che aveva detto a Withers come minimo implicava che lei fosse il tipo di donna che la gente si aspettava. Inoltre, dato che tutti ne avevano sentito parlare per la prima volta da lui, Arch Withers, e dato che nessuno l’aveva ancora conosciuta o vista in Main Street e non l’avrebbe vista né conosciuta ancora per tre o quattro ore – soltanto a mezzogiorno sarebbe uscita dal Letitia Hotel per pranzare insieme a Burdette all’Holt Café – quel mattino (lo stesso mattino che Wanda Jo Evans aveva trascorso a piangere sola e infelice nel bagno dell’ufficio) tutti a Holt diedero per scontato che fosse almeno bionda, anche se magari non impudente, vacua e chiassosa: insomma, una sorta di attricetta dell’Oklahoma con la testa vuota e il rossetto sgargiante.

Quel giovedì d’aprile, Arch Withers aveva atteso Burdette accanto agli scalini di legno grezzo che conducevano all’ufficio dei silos. Era in piedi sulla ghiaia al sole del mattino, appoggiato al paraurti del suo vecchio furgoncino nero, masticava uno stuzzicadenti piatto e si stava pulendo le unghie. Alle otto, quando Burdette si presentò, Withers lo stava aspettando da quasi un’ora. Burdette era al volante del furgoncino aziendale con cui era andato a Tulsa. Scese e raggiunse Withers.

Insomma, lo accolse Withers. Che è successo? Ti sei stufato del cibo dell’hotel e hai deciso che era ora di tornare a casa?

No. Il loro cibo mi piaceva un sacco, rispose Burdette. E anche il letto non era niente male.

Allora non è stato quello. Be’, è già qualcosa. Mi dispiacerebbe sapere che hai saltato una cena o perso ore di sonno a causa nostra, solo perché sei tornato due giorni dopo il previsto, senza avvisare nessuno e senza nemmeno rispondere al telefono a chi cercava di chiamarti.

Mi sembri un po’ agitato, Arch, commentò Burdette.

Ah, sì?

Già, proprio così. E non è da te.

E allora mi perdonerai, rispose Withers. Magari sarò io a dovermi scusare. Perché non sono agitato, porca puttana. Sono furioso. Dove cazzo sei stato per tutto questo tempo?

A quel punto Burdette gli parlò di Jessie Miller, del loro incontro nell’atrio dell’Holiday Inn, dove lei mostrava a ciclo continuo il monotono filmato sui semi di granturco ibrido. Gli raccontò di aver ballato con lei. Era anche piuttosto carina, precisò.

Ah, davvero? commentò Withers. Quindi suppongo di dover essere contento per te. Ma che diavolo c’entra?

C’entra un sacco, rispose Burdette.

Cosa vuoi dire?

Be’. L’ho sposata.

Cosa?

L’ho sposata.

Che cazzo dici?

Sul serio. Ormai sono un uomo sposato. Come tutti.

Oh, porca puttana, esclamò Withers. Ti credevo più furbo.

Poi Arch Withers, come raccontò in seguito, riprese per un po’ a masticare lo stuzzicadenti osservando Burdette, lo guardò dalla testa ai piedi come se fosse uno scherzo inaspettato nell’evoluzione dell’umanità, e non necessariamente uno scherzo divertente, piuttosto un manichino parlante, per esempio, oppure un’enorme, potenzialmente pericolosa aberrazione.

In ogni caso Withers finì per farsene una ragione e proseguì. Disse: Va bene, quindi ti sei sposato. In Oklahoma hai sposato una bella ragazza. Ma cristo, Jack, ti abbiamo mandato laggiù e tu non sei andato nemmeno a una riunione?

Certo, rispose Burdette. A qualcuna sì. Un buon numero. Lei l’ho conosciuta solo sabato.

E allora come mai non sei tornato fino a mercoledì? Eravamo d’accordo che ce ne avresti parlato martedì.

Mi ricordo, replicò Burdette. Ma non penserai che quelli aprano l’ufficio nei fine settimana, no?

Che ufficio?

Quello dove vai a fare l’esame del sangue.

Mi stai dicendo che vi siete sposati lunedì?

Esatto.

E allora c’era ancora martedì.

No, invece.

Withers lo fissò.

Martedì era la nostra luna di miele, spiegò Burdette. Eravamo ancora a letto, martedì.

Withers si tolse lo stuzzicadenti di bocca e lo buttò via. Disse che ormai non gli serviva più. Gli pareva avesse un cattivo sapore.

Poi riprese a parlare.

Va bene, disse, suppongo di doverti fare le mie congratulazioni. Mi congratulo, vi auguro ogni bene. E c’è una cosa che spero.

Cosa?

Spero solo che tu non perda il senno.

In passato non l’ho mai perso.

Porca puttana... in passato non ti sei mai sposato.

Questo è vero, ammise Burdette. Non ero nemmeno mai stato a Tulsa. Speriamo non diventi un’abitudine.

A quel punto Burdette diede una pacca sulla spalla a Withers. Ad Arch Withers però non era ancora tornato il buonumore. Salì sul suo furgoncino e lo mise in moto. Attraverso il finestrino aperto disse: A proposito, il tuo sangue com’era? Gli esami. Per il consiglio di amministrazione potrebbe essere un dato interessante.

Era bollente, Arch, rispose Burdette. Non puoi neanche immaginare quanto era bollente. Scoppiò a ridere. E anche il suo, concluse.

Withers se ne andò, percorse il vialetto fino alla strada e proseguì lungo Main Street fino alla panetteria Bradbury. Prima di tornare a casa, prima di tornare al trattore che lo stava aspettando nel campo arato a metà, un campo che lui stesso riconosceva di aver trascurato per troppo tempo a causa del lavoro alla cooperativa, si sedette a bere caffè nero e a mangiare ciambelle fritte ripiene di panna mentre raccontava a qualcuno di noi ciò che era appena venuto a sapere. Secondo Withers, Burdette aveva smesso di sghignazzare quando lui se n’era andato, eppure era abbastanza sicuro che stesse ancora sorridendo.

Ecco, commentò uno di noi. Adesso è sposato, giusto? Che bravo.

Non stai dicendo sul serio, vero? disse uno degli altri.

Certo che no. Voglio dire, quello è un figlio di puttana. Mi chiedo lei com’è.

Di conseguenza, quel giovedì a mezzogiorno all’Holt Café in Main Street c’era una notevole folla. A Holt tutti sapevano che Burdette andava a pranzare là e speravano che la sua nuova moglie l’avrebbe raggiunto. Volevano vedere con i loro occhi quella nuova donna. Volevano esaminarla per avere conferma delle loro aspettative. Alle dodici tutti i tavoli del locale erano occupati e c’era sempre più gente in piedi vicino all’entrata che sperava si liberasse un posto. Nel frattempo il menu del giorno – svizzera con patate e fagiolini e torta di mele calda – era già terminato.

Poco dopo mezzogiorno entrò Burdette. Si fermò un attimo sulla soglia per osservare i tavoli in cerca di un posto per sedersi nel locale soffocante e strapieno. Un paio di uomini lo salutarono con la mano e gli fecero cenno di sedersi con loro a un tavolo al centro della sala di fronte al buffet delle insalate. Lui li ringraziò, ma poi li superò e si diresse verso un altro tavolo in un angolo. Seduta lì, c’era una ragazza da sola.

Era arrivata prima di lui. Credo fosse lì da mezz’ora, forse anche di più. Quando era entrata nel locale in tarda mattinata, tutti l’avevano notata – chiunque fosse nuovo in città veniva notato – ma non penso se ne fossero molto preoccupati. Immagino che l’avessero – l’avessimo – presa per una donna sola in viaggio sulla Highway 34, che si era semplicemente fermata a Holt per mangiare e magari per riposarsi un’ora al caffè. C’era persino qualcuno infastidito dalla sua presenza; gli uomini e le donne in piedi vicino all’ingresso continuavano a lanciarle occhiate rapide e pungenti con cui la invitavano a essere così gentile da togliersi dai piedi. Stava occupando da sola un intero tavolo, un tavolo di cui loro avevano un bisogno immediato e urgente.

Poi Burdette fece una cosa che stupì tutti i presenti. Andò a sedersi con lei – non di fronte a lei, ma al suo fianco – e le cinse le spalle con un braccio. Attirò a sé quella giovane sconosciuta e la baciò.

Di colpo parve di sentire gli uomini e le donne seduti nel locale deglutire per lo stupore rendendosi conto di chi fosse quella donna, capendo che non poteva che essere lei. Era come quell’attimo di un film in cui tutto – la musica, i movimenti e le sensazioni – si blocca per qualche secondo e le figure sullo schermo sono temporaneamente immobili, silenziosamente sospese. La gente di Holt rimase scioccata. Non era affatto come se l’aspettavano. Qualcuno nel caffè si domandò persino se non fosse in parte indiana.

In effetti risultò che Jessie Burdette era una donna molto tranquilla e solitaria. Aveva gli occhi bruni, i capelli castani e una magnifica pelle chiara, era di statura inferiore alla media e piuttosto magra, eppure non era minuta. Non dava l’idea di una ragazzina al debutto in società o di una creaturina schiva. Non era nemmeno realmente graziosa. Cioè, era affascinante, molto affascinante; più avanti, tredici anni dopo, quando la conobbi bene, pensai che fosse la donna più affascinante che avessi mai incontrato e la migliore persona in assoluto. E mi scoprii pronto a qualsiasi cosa per lei. Eppure non era affatto graziosa in senso convenzionale. Non era certo la ragazza della porta accanto, ottimista e carina, solare e con l’aria impertinente; non aveva niente dell’idea vistosa, californiana di avvenenza femminile. Era invece piuttosto piccola, scura, tranquilla e decisamente risoluta. Sembrava capace di grandi cose. Sembrava indipendente. Persino quel giorno, quando la vidi per la prima volta all’Holt Café, aveva un’aria distaccata, come se davvero preferisse essere lasciata in pace o come se sapesse molto bene quello che voleva, e qualora ciò le avesse impedito di stare vicino agli altri – costringendola ad apparire sempre un po’ fuori dalle righe e isolata rispetto al resto della gente di Holt, o, se è per questo, rispetto alla gente di qualsiasi posto al mondo – lo avrebbe accettato senza obiezioni.

Insomma, non capisco come mai avesse sposato Jack Burdette. Non del tutto, perlomeno. D’altra parte, come accennavo prima, penso di sapere perché Burdette avesse sposato lei: per noia. Aveva deciso che l’incantevole Jessie se non altro era preferibile ai corsi di quel convegno. Per giunta aveva in tasca le carte di credito aziendali. Non avrebbe certo sprecato l’occasione di spendere soldi che non gli appartenevano, specie se l’unica cosa che doveva fare era scribacchiare il suo nome su un pezzo di carta. Però non so proprio perché Jessie l’avesse sposato.

Suppongo che in parte c’entrasse con il fatto che nel 1971 aveva solo vent’anni. Era ancora molto giovane, benché non fosse del tutto ignara delle cose del mondo e degli uomini. Aveva avuto qualche esperienza dell’uno e degli altri, qualche limitata esperienza. Comunque sia, era molto giovane. Era poco più che una ragazzina. Inoltre aveva sempre vissuto a Tulsa. E non credo che a vent’anni Jessie Burdette pensasse che Tulsa era tutto ciò che meritava di essere visto al mondo.

Jack Burdette era un uomo grande e gioviale, aveva dieci anni più di lei e veniva dal Colorado. Così l’aveva sedotta. E poi, anziché tornare ai corsi, le aveva chiesto di sposarlo. E lei, per ragioni sue, aveva accettato. Ma c’era stato anche un altro pezzetto di commedia in quel fine settimana d’amore: in quei giorni e quelle notti nella stanza all’hotel, Burdette era riuscito a trasmetterle l’impressione che Holt fosse meglio di com’era in realtà. Le aveva detto, per esempio, che da Holt si vedevano le montagne.

Non è vero, ovviamente. Per vedere le montagne è necessario uscire dalla città di almeno una sessantina di chilometri. E comunque dev’essere una giornata molto serena, dopo che la pioggia oppure cinque o sei ore di vento forte hanno spazzato via la nube scura che sovrasta Denver, e a quel punto ciò che si vede delle montagne è solo una tenue linea frastagliata all’orizzonte, a qualche centinaio di chilometri in direzione ovest. Ma a Jessie Burdette, che anni dopo avrebbe raccontato il modo in cui Jack gliel’aveva descritta, la contea di Holt era quantomeno sembrata diversa da Tulsa, Oklahoma. Ed era convinta di avere ottimi motivi per volersene andare da Tulsa, Oklahoma.

Era la maggiore di tre figli. Gli altri due avevano cinque e sei anni meno di lei. Sua madre era disabile, viveva su una sedia a rotelle, suo padre era un venditore di utensili e passava la maggior parte del tempo lontano da casa. Da adolescente, dopo che sua madre era rimasta invalida, aveva trascorso parecchie ore ogni giorno a prendersi cura di lei e dei suoi due fratelli. Se la cavava molto bene in cucina, con le pulizie e il bucato, ed era capace di svuotare una sacca per le urine e cambiare pannoloni, aveva lavorato di sera nei fast-food ed era persino riuscita a mettere da parte qualche soldo per comprarsi del tessuto e cucirsi dei vestiti. Quello di cui non sapeva granché era il divertimento. La sua vita era una sorta di grigia successione di cose sempre uguali, un’infinita, infelice routine. A un certo punto aveva finito le scuole superiori. Poi aveva lavorato come segretaria temporanea in diverse occasioni. Nulla che l’avesse condotta da qualche parte. Più o meno in quel periodo, suo padre aveva sentito da un suo contatto professionale del fine settimana di lavoro al convegno dei direttori di silos all’Holiday Inn. Jessie aveva fatto domanda ed era stata scelta per proiettare il film sui semi di granturco ibrido nell’atrio dell’hotel. Si era messa la minigonna che le avevano richiesto di indossare e una camicetta bianca scollata a maniche corte e per tutto il tempo aveva sorriso cortesemente agli uomini che partecipavano al convegno. Poi era comparso Jack Burdette che si era messo a parlarle. Nel giro di poco non era più stata una semplice conversazione e il lunedì si erano sposati.

Quindi per i cinque anni successivi, dopo averla vista per la prima volta all’Holt Café quel giovedì a mezzogiorno, la vidi molto di rado, come chiunque altro in città. Capitava per caso, da lontano, come da una distanza sicura e necessaria. Le rare volte in cui andava a fare acquisti in Main Street, nei pochi fine settimana in cui acconsentiva a fare un giro per i bar con Burdette, io la osservavo con attenzione.

A quei tempi faceva ancora cose di quel genere, tipo girare per i bar, voglio dire. Durante i primi sette o otto mesi – Wanda Jo Evans se n’era andata da Holt e Jessie per noi era ancora una novità – la trovavamo di tanto in tanto il sabato sera al Legion o all’Holt Tavern. E la guardavamo tutti. Di solito se ne stava seduta per conto suo a un tavolo in un angolo della sala, sorseggiava lentamente un drink molto dolce e nel frattempo il ghiaccio si scioglieva diluendo il liquore rosa fino a renderlo semplice acqua colorata, mentre Burdette (dato che il matrimonio non l’aveva cambiato; dato che il matrimonio era stato un semplice cambiamento della persona con cui trascorrere i fine settimana, non un vero cambiamento nelle sue abitudini del sabato sera, nei suoi usi e costumi di maschio) se ne stava dalla parte opposta del bar a bere whiskey oppure scotch, al centro del solito gruppo di ammiratori, quegli uomini che gli davano pacche sulle spalle mentre lui raccontava barzellette e storielle e tutti ridevano.

In ogni caso non succedeva di frequente; non ci capitava spesso di assistere a quelle situazioni. Jessie Burdette non girava molto per i bar. E quando lo faceva, era sempre piacevole e parlava con chi la interpellava, anche se non era mai lei a prendere l’iniziativa. Preferiva stare in silenzio a sorseggiare il suo drink annacquato, osservando gli altri intenti a quello che forse, all’epoca, lei neppure considerava un gran divertimento.

Nel frattempo però le donne di Holt avevano cominciato a lavorarsela, a dedicarle un’attenzione particolare. Immagino che volessero essere gentili con lei. Cominciarono a chiederle di unirsi ai loro circoli e alle loro organizzazioni parrocchiali. Non le andava di bere un tè, di iscriversi al club delle donne luterane o alla sezione femminile dell’Associazione dei veterani, di giocare a bridge oppure a golf il sabato mattina, o magari preferiva partecipare a un gruppo di studio della Bibbia?

Però a lei non andava, e lo disse. Lo disse chiaro e tondo, sebbene quando la invitavano fosse molto affabile. Ma anche irremovibile.

Alle donne dispiacque un po’, si sentirono rifiutate e respinte. E infastidite. Ma dopo un mese o due decisero di riprovarci. Aveva solo bisogno di tempo, si dissero; stava solo facendo i complimenti. Era probabile che volesse soltanto ambientarsi meglio e guardarsi intorno, come avrebbe fatto chiunque traslocando in un’altra città. Con il passare del tempo si sarebbe sentita più a suo agio, si dissero. A metà dell’autunno di quel primo anno, ripresero a invitarla.

Lei però rifiutò di nuovo le loro proposte, per la seconda volta respinse quei tentativi di coinvolgerla nei rapporti di buon vicinato e nella vita sociale della cittadina. Era chiaro che non aveva affatto cambiato idea. Pur notando che Jessie continuava a essere cordiale, in quel suo tipico modo tranquillo e gradevole, ci rendemmo conto che era molto determinata e per niente interessata.

Questa volta le donne si sentirono ben più che infastidite. Si offesero. Il suo rifiuto le ferì. Di conseguenza, smisero di proporre qualsiasi cosa a Jessie Burdette.

Nel marzo del 1973, quasi due anni dopo il suo arrivo in città, ebbe un figlio. Partorì un bambino che chiamò Thomas John. Più tardi, quando si trasformò in una specie di scioglilingua, lo abbreviò in TJ. Era un bel bambino. Aveva i capelli scuri della madre e i suoi stessi occhi bruni tranquilli e attenti. E vedendoli in Main Street, lo stato d’animo di Jessie nei suoi confronti appariva evidente. Era felicissima. Li guardavamo insieme: la ragazza, piccola, silenziosa, tornata in forma dopo la gravidanza, spingeva lungo il marciapiede la carrozzina del grazioso bambino, entravano e uscivano dai negozi con aria compiaciuta, come se nient’altro importasse. Lei gli sorrideva, gli parlava a bassa voce quasi che il bambino potesse già capire ciò che gli veniva detto. Quando poi fu un po’ più grande, d’estate cominciammo a vederli di fronte alla casa in Gum Street (già allora Burdette aveva dato un piccolo acconto per quella casa con due camere da letto), la madre e il suo bambino giocavano insieme su una coperta stesa sul prato, all’ombra degli olmi. TJ aveva poco più di un anno quando Jessie partorì un secondo figlio.

Era un maschio anche lui, lo chiamarono Robert, detto Bobby, ed era praticamente identico al fratello maggiore: un bel bambino con gli stessi capelli castani e gli stessi occhi bruni e attenti. Jessie era felice anche di lui. Era felice di entrambi i suoi figli.

Di conseguenza, ormai in città ne avevamo tre da osservare. Tre da notare in Main Street o da guardare nel cortile davanti a casa, mentre giocavano sul prato o costruivano una piccola fattoria per terra, con mucche e cavalli in miniatura e pezzetti di legno – quella ragazza che ancora nessuno conosceva e che all’inizio avevamo pensato fosse una seduttrice, una Monroe o una Mansfield dell’Oklahoma, con i seni prorompenti e la vita stretta sopra i fianchi ampi e le gambe lunghe, anche se in realtà non era affatto così.

Quindi a Holt si era creata una specie di mistero intorno a Jessie Burdette. Nessuno di noi sapeva cosa pensare di lei. Chi era davvero? Non lo sapevamo. Era come se un elegante uccello esotico fosse volato fin qui una primavera e avesse deciso di restare, senza peraltro aspettarsi alcun tipo di sostentamento o addirittura di rapporto con chi o cosa la circondasse.

Per cinque anni rimase praticamente isolata. Si limitò a stare qui, in questa cittadina di tremila persone in cui tutti si conoscevano tra loro. Però nessuno conosceva lei.

Poi cambiò tutto, per lei e per quelli di noi che ancora la osservavano. C’entrava suo marito. A metà pomeriggio dell’ultimo giorno di dicembre del 1976, Jack Burdette scomparve. E non tornò a Holt per molto tempo, quando ormai il danno era fatto, e si trattava di un danno molto grave.

7

All’inizio gli abitanti di Holt non si allarmarono per la sua scomparsa. Al contrario, ne furono piuttosto divertiti. La presero come una specie di scherzo, come un altro dei suoi gesti repentini e bizzarri, che nel tempo sarebbe stato giustificato, o quantomeno compreso, come l’ennesima puntata della leggenda da cui era costantemente accompagnato in città.

Ormai era passata una settimana da quando se n’era andato. E in panetteria, nelle sale da biliardo e nella taverna, ovunque ci fosse gente che chiacchierava, cominciò a diffondersi la voce che, prima di andarsene, Burdette avesse preso un po’ di cose a credito in Main Street.

Scoprimmo che quel venerdì pomeriggio, l’ultimo giorno di dicembre, era entrato nella gioielleria Foster e, dopo aver esaminato diversi anelli e antiquati orologi da taschino, aveva scelto il più costoso Bulova da polso in oro a 14 carati tra quelli disponibili nel negozio. E non l’aveva pagato, si era limitato a mettere una firma su un pagherò. Poi era uscito con il suo nuovo orologio al polso ed era entrato nel negozio successivo per fare la stessa cosa con Ralph Bird.

Al Men’s Store aveva preso una giacca sportiva rosso scuro e un paio di pantaloni in una bella lana grigia, una cintura di pelle e tre camicie a maniche lunghe in tessuto Oxford, e Ralph Bird era così soddisfatto (dato che non si aspettava di incassare un soldo in quelle giornate morte dopo la corsa agli acquisiti natalizi) che decise di regalargli, cosa insolita per lui, una bella cravatta a righe.

Burdette lo ringraziò. Gli diede una pacca su una spalla e firmò un altro pagherò. Poi uscì dal Men’s Store con indosso la giacca, i pantaloni, la cintura e una delle camicie, mentre il resto (le altre due camicie, la cravatta omaggio e i suoi vecchi vestiti) era in un sacchetto di plastica del negozio. Arrivò fino all’angolo dove si trovavano i grandi magazzini Schulte.

Scoprimmo che là non gli era andata così bene. In quel momento l’unica commessa disponibile era la vecchia signora Thompson e fu lei a servirlo. La signora Thompson disse esplicitamente a Burdette che il negozio aveva dei limiti ben precisi su quanto era possibile acquistare a credito. Burdette si offese. Mi guardi, disse. Sa chi sono. Mi conosce.

Ma certo, gli rispose la signora Thompson. Sul tuo conto so più cose di quanto vorrei, sin da quando eri un ragazzino scontroso. Sono un’amica di tua madre.

Di conseguenza, da Schulte, Burdette fu in qualche modo ostacolato nel suo pomeriggio di acquisti, ossia venne autorizzato a prendere a credito solo un paio di calzini scuri e un completo di biancheria blu. E forse prima di uscire dal negozio doveva aver pensato che fosse meglio evitare di indossare i calzini e la biancheria e andare in strada così. La signora Thompson lo stava ancora osservando.

Malgrado questi nuovi racconti su Burdette, che in città tutti vennero a sapere e a loro volta riferirono, gli abitanti di Holt non avevano ancora iniziato a preoccuparsi. Continuavano a trovare divertente la sua scomparsa e i suoi frenetici acquisti post-natalizi. Se non altro, si sarebbero fatti ancora un bel po’ di risate alle spalle di Lloyd Foster e Ralph Bird. La gente diceva che avrebbero fatto bene ad assumere la signora Thompson come commessa nei loro negozi. Se non altro avrebbero ridotto le perdite.

Poi però le settimane trascorse dalla sua sparizione divennero due. E un po’ per volta le battute in panetteria, nelle sale da biliardo e nella taverna divennero stantie e a Holt sempre più gente, oltre a Lloyd Foster e Ralph Bird, dubitava che Burdette sarebbe mai tornato. Nessuno in tutta la contea aveva idea di dove fosse e del perché non tornasse.

Era ormai metà gennaio. Un venerdì nel tardo pomeriggio Jessie Burdette si presentò alla redazione dell’Holt Mercury. Aveva nevicato per tutto il pomeriggio e fuori faceva molto freddo. C’era poco traffico su Main Street e il vento spingeva dei mucchietti di neve asciutta lungo il marciapiede. Il cielo stava diventando buio sulle facciate dei negozi.

Jessie Burdette entrò al Mercury insieme ai suoi due bambini. TJ aveva quasi quattro anni e Bobby quasi tre. Erano infagottati nei loro vestiti invernali, i ragazzini in tute da neve uguali e Jessie in un cappotto di lana blu scuro ancora abbastanza ampio da abbottonarlo sulla pancia; infatti, anche se non lo sapevamo, era di nuovo incinta; era già al quarto mese. Una volta dentro, sistemò TJ e Bobby insieme su una sedia di legno addossata alla parete. I bambini, belli come al solito, avevano le guance rosse. Jessie abbassò la cerniera delle tute e scostò loro i capelli dalla fronte. Adesso state seduti tranquilli, per favore, disse. Poi si diresse verso il bancone e attese la signora Walsh.

La signora Walsh era la receptionist dell’ufficio. Mio padre l’aveva assunta vent’anni prima come redattrice ed era rimasta per tutto quel tempo, sebbene mio padre nel 1970 fosse andato in pensione lasciando a me la direzione del giornale. Si alzò dalla sua scrivania e si avvicinò al bancone. Dall’altra parte della stanza la vedevo parlare con Jessie Burdette.

Sì? disse. Posso aiutarla?

Voglio pubblicare una cosa sul giornale.

Una pubblicità?

No. Non è una pubblicità.

Le pubblicità vengono cinquanta centesimi a riga.

Non è una pubblicità, gliel’ho detto.

E allora cos’è? Ce l’ha con sé?

Osservai Jessie frugarsi nella tasca del cappotto ed estrarne un foglio di bloc-notes giallo. Si mise a spiegarlo sul bancone. Una volta aperto, lo spinse dall’altra parte, verso la signora Walsh.

La signora Walsh lo prese e se lo avvicinò alla faccia sotto la luce. Immediatamente lo rimise giù. Si raddrizzò.

Che diamine, esclamò, non possiamo pubblicarlo. È... non possiamo pubblicarlo.

Sono disposta a pagare, rispose Jessie, se il problema è questo.

No, non è questo.

E allora che problema c’è? Perché non potete pubblicarlo?

È impubblicabile, tutto qui.

Jessie lanciò un’occhiata dall’altra parte della stanza, alle spalle della signora Walsh, prima verso Betty Lucas, che stava battendo a macchina alla sua scrivania, poi verso di me.

C’è qualcun altro con cui posso parlare? chiese.

Come?

Vorrei parlare con qualcun altro, per favore.

Le diranno la stessa cosa che le ho appena detto io.

Anche il signor Arbuckle? È il direttore, no?

Il signor Arbuckle è impegnato.

Vorrei parlare con lui.

Gliel’ho appena detto. È impegnato.

Sì, ma non potrebbe chiedergli di venire qui un attimo?

Mi alzai dalla scrivania e raggiunsi il bancone, dall’altra parte della stanza. La signora Walsh si era messa a tremare. Le vene scure sulle tempie le pulsavano sotto i capelli bianchi.

C’è qualcosa che non va, signora Walsh?

Questa ragazza pensa che lo pubblicheremo sul giornale.

Che cos’è?

Ecco, rispose. Legga. Mi rifiuto. Mi porse il foglio.

Grazie, signora Walsh, dissi. Se vuole può andare a casa, adesso.

Si voltò e si rimise seduta alla scrivania. La sentivo alle mie spalle. Era agitata. Stava sussurrando qualcosa a Betty Lucas.

Lessi quello che c’era scritto sul foglio. Era una breve dichiarazione. Era scritta a matita e la carta era stata piegata parecchie volte fino a diventare un quadratino consumato e irregolare lungo i bordi, come se Jessie l’avesse tenuto in tasca per una settimana in attesa del momento giusto per portarlo qui. Allora la fissai. Aveva gli occhi molto scuri e le guance ancora arrossate per il freddo di fuori. Mi parve molto bella. Sulle spalle del suo cappotto blu c’erano dei fiocchi di neve asciutta.

Sì, dissi. Ho saputo che suo marito è scomparso. Immagino che lo sappiamo tutti. Ma a quanto pare nemmeno lei ha sue notizie. È questo che vuol dire?

No. Non ho sue notizie.

Dove pensa che sia?

Non lo so. Non ho idea di dove si trovi Jack Burdette.

In ogni caso, ha informato la polizia?

Sì. Ma ieri è arrivata una fattura per posta.

Una fattura?

Per dei vestiti che ha preso a credito, specificò Jessie. Quindi li ho richiamati e ho detto che possono anche smettere di cercarlo. Non si è perso.

Capisco, commentai. O almeno credo.

Perché ormai, visto che avevo letto ciò che Jessie aveva scritto sul foglio di bloc-notes, mi pareva ovvio che avesse pienamente compreso il senso degli acquisti fatti da Burdette in Main Street e ciò che rivelavano sulla sua scomparsa. Non aveva avuto bisogno di sentire le battute e i discorsi in panetteria o, più tardi, l’allarme crescente degli abitanti di Holt. Sembrava capire fin troppo bene ciò che tutto questo comportava per lei in quanto sua moglie.

Guardai fuori per un istante. In Main Street ormai il buio era fitto. I lampioni si erano accesi e aveva ripreso a nevicare. Alle mie spalle la signora Walsh e Betty Lucas, in procinto di tornare a casa per la serata, si stavano infilando il cappotto. Attesi che fossero uscite sul vicolo passando dalla stanza sul retro, poi tornai a rivolgermi a Jessie.

Mi stavo domandando, signora Burdette, dissi, mi stavo domandando se non le pare un po’ drastico. Dopotutto potrebbe ancora tornare. Non le sembra? Magari si sta solo prendendo una vacanza.

No, rispose lei. Non penso. Ho smesso di crederlo. Ormai sono due settimane.

Sì, ma due settimane non sono una vita.

Però sono abbastanza lunghe.

Quindi vuole ancora che io pubblichi quello che c’è sul foglio? Lo vuole sul serio?

Jessie fece per aprire la borsetta. Quanto viene?

Aspetti un attimo, esclamai. Non ho ancora detto che sono d’accordo.

Mi guardò, con i suoi occhi grandi e scuri. Ripresi in mano la dichiarazione scritta a matita e la rilessi mentre lei si girava per controllare che i due bambini fossero ancora seduti tranquilli sulla sedia alle sue spalle. La stavano guardando come fossero dei passerotti.

Alla fine io dissi: Va bene, allora. Sono d’accordo a pubblicarla. Anche se non penso che le gioverà in alcun modo. In realtà ho paura che le creerà un bel po’ di problemi in città.

Lo voleva comunque stampare. Quindi presi un modulo da uno scaffale sotto il bancone. Copiai fedelmente la dichiarazione sul modulo e lei pagò.

Iniziò a preparare TJ e Bobby per uscire al freddo. I ragazzini rimasero seduti con fare serio mentre lei si inginocchiava per riallacciare la cerniera delle loro tute da neve; li aiutò anche a rimettersi le muffole.

La osservai da dietro il bancone. Il suo cappotto blu aveva un aspetto liscio e ordinato sui fianchi e i capelli erano scuri e graziosi.

Senta, domandai, vuole che vi accompagni a casa in macchina? Stavo comunque uscendo.

Guardò fuori dalla finestra. Era sempre peggio: la neve era aumentata e il vento soffiava i fiocchi in orizzontale lungo la strada.

Se non è un disturbo, rispose, preferirei che i bambini non prendessero altro freddo.

Prendo il cappotto.

Fu così che mi permise per la prima volta di accompagnarli dall’altra parte della cittadina, in Gum Street, dato che nevicava e faceva freddo. Non ricordo discorsi particolarmente significativi. TJ era seduto davanti, tra noi, Bobby ce l’aveva lei in grembo, e non credo che in quei sei o sette isolati siamo riusciti a dire una parola tranne qualche banalità sulla neve che si stava accumulando. Fu un tragitto silenzioso e imbarazzato. Ma quando accostai per farli scendere ricordo di averla osservata percorrere sotto la neve il tratto di marciapiede fino alla loro piccola casa e ricordo com’era nel suo cappotto blu mentre apriva la porta e l’aspetto della casa dopo che lei aveva acceso le luci. Poi tornai da Nora e Toni, che mi stavano aspettando per cenare insieme. In quel momento non ero granché interessato alla cena, né al rientro a casa e neppure a mia moglie e mia figlia. Forse mi ero già un po’ innamorato di Jessie Burdette.

Quindi la settimana successiva pubblicai la sua dichiarazione come fosse una sorta di inserzione pubblicitaria sull’ultima pagina dell’Holt Mercury, proprio come mi aveva chiesto lei. La piazzai insieme agli annunci delle cerimonie religiose della domenica e ai necrologi di due persone che avevano abitato per molti anni a Holt. La dichiarazione diceva: Non sono responsabile per niente di ciò che Jack Burdette ha fatto o farà. È un buono a nulla. Non importa quello che dice la gente. È un figlio di puttana e a me non interessa più.

Avevo i miei buoni motivi per pubblicarla.

Quelle parole crearono scompiglio, quando la gente le lesse. Mio padre, tanto per citarne uno, mi telefonò per dirmi che ero pazzo ad aver pubblicato una cosa del genere. Cosa credevo di fare? Non è professionale, commentò; commercialmente è uno sbaglio. Siamo a Holt, Colorado, non a San Francisco, California. Credevo forse che mi avesse lasciato il giornale perché lo mandassi in malora?

Naturalmente erano in tanti in città a pensarla come lui, sapevo che sarebbe successo, anche se il loro fastidio aveva a che fare con considerazioni morali più che con preoccupazioni di ordine pratico. Alcune anziane erano particolarmente furiose: scrissero lettere al direttore lamentando la comparsa di espressioni irrispettose sull’Holt Mercury. Non apprezzavano né le espressioni irrispettose né l’esibizione in pubblico di emozioni forti, il risultato fu che un certo numero di donne disdisse l’abbonamento.

Eppure l’agitazione provocata quella settimana nella contea di Holt dalla dichiarazione venne presto dimenticata. Si trattò di un episodio di poco conto rispetto a ciò che sarebbe accaduto nelle settimane e nei mesi successivi. E anche quello sarebbe finito sul giornale.

Nello stesso periodo, infatti, ci fu un altro evento secondario eppure significativo a proposito di ciò che era stato pubblicato sul Mercury. Non ebbe una vasta eco. Coinvolse la madre di Jack Burdette.

Ormai era molto anziana, aveva i capelli bianchi, era magrissima e persino più dura che in passato, ma viveva ancora da sola nella casa in North Birch Street e la domenica mattina andava ancora in chiesa, quando ce la faceva. Dopo che suo figlio era sparito ormai da un mese, in una specie di disperata irrazionalità maschile – in effetti una donna non avrebbe neanche preso in considerazione una cosa del genere – un gruppo di uomini decise di andare dalla signora Burdette a farle qualche domanda. Pensavano che valesse la pena chiederle se sapesse qualcosa di suo figlio. Se non altro, speravano che potesse fornire qualche indicazione per scoprire dov’era andato.

Un pomeriggio si presentarono sulla sua veranda e suonarono il campanello. La signora Burdette però, dopo aver aperto la porta, non li invitò a entrare. Si limitò a starsene lì, nel buio ingresso di casa, ad ascoltare le loro domande e i loro discorsi assurdi da dietro la porta socchiusa. Quelli continuarono a spiegarle perché erano venuti. Poi smisero di parlare; lei non aveva ancora aperto bocca. Si era limitata a fissarli attraverso i suoi piccoli, lindi occhiali con la montatura di metallo, studiando i loro volti, l’uno dopo l’altro. Non sembrava che capisse né che le interessasse quello che stavano dicendo. Esasperato, uno degli uomini le disse: Insomma, signora Burdette, lo sa che Jack se n’è andato, vero? Lo legge il giornale? Che diamine, è uscito sul Mercury. Non l’ha visto?

Quando finalmente la signora Burdette si decise a parlare, la sua voce risuonò aspra e arrugginita, come se non la usasse da giorni: Non so niente dei vostri giornali, esclamò. E non voglio saperne niente. Io leggo la Bibbia.

Poi sbatté loro la porta in faccia. La sentirono chiudere a chiave. Poi sentirono il debole rumore dei suoi passi che si allontanavano nella casa silenziosa. E rimasero lì, sulla veranda, con l’impressione di essere stati ridicoli. Si guardarono e se ne andarono in fretta, come bambini che hanno fatto una stupidaggine.

In ogni caso, alla fine di gennaio, la preoccupazione a Holt si era ormai trasformata in shock e paura. Tutti avevano iniziato a temere che a Jack Burdette fosse successo qualcosa di serio e quel pensiero li turbava. Avevano ancora simpatia per lui e l’idea che gli fosse capitata una disgrazia li faceva sentire meno sicuri nel loro angolo di Colorado. La polizia aveva diramato avvisi in tutto lo stato, sperando di trovarlo. Ma fu inutile. Burdette era scomparso senza lasciare traccia.

Nel frattempo ai silos della cooperativa c’era un gran casino. Senza Burdette a dirigerli ogni giorno, niente veniva fatto come si deve e Arch Withers e gli altri membri del consiglio di amministrazione non sapevano che fare. Alla fine decisero di chiedere a Doyle Francis di tornare. Volevano che Doyle riprendesse a gestire le cose almeno per un po’, in modo che le spedizioni di grano e granturco potessero continuare finché non fosse ricomparso Burdette o finché... be’, finché non fossero stati costretti ad assumere un sostituto. Ancora si rifiutavano di pensare che avrebbero dovuto farlo.

Poi, verso la metà di febbraio, il sentimento privato di shock e paura di colpo si trasformò in pubblica ostilità e indignazione. Perché a quel punto Doyle Francis aveva avuto il tempo di studiare i libri contabili dei silos. E aveva scoperto che qualcosa non andava. Convocò una seduta straordinaria del consiglio di amministrazione per comunicarlo. Era un martedì pomeriggio.

Gesù cristo, disse agli uomini riuniti nel suo ufficio. E voi dove cazzo avevate la testa nel frattempo?

Cosa vuoi dire? chiese Arch Withers.

Non avete controllato quello che faceva? Non vi è venuto in mente di dare un’occhiata ai libri contabili?

Ma certo. Li abbiamo guardati. Charlie Soames li ha controllati ogni anno insieme a noi. E anche Jack Burdette. Cosa c’è che non va?

Tutto, rispose Doyle.

Cosa, per esempio?

Questo, per esempio, porca puttana. Doyle indicò i libri aperti sulla sua scrivania. Anche se non è un dato preciso, vi mancano circa centocinquantamila dollari. Ecco cosa non va.

Cosa? Aspetta un secondo. Vuoi dire che...

Voglio dire che è solo una stima fatta da un vecchio. Sono tre o quattro anni che va avanti.

Che cosa va avanti? Di cosa stai parlando?

Doyle glielo spiegò. Fornendo dettagli accurati e razionali, mostrò agli uomini seduti dall’altra parte della scrivania quel che era successo, come erano stati manipolati i libri, come erano stati falsificati da qualcuno che sapeva il fatto suo. All’inizio molto poco, puntualizzò Doyle indicando pagine di numeri ordinati, poi sempre di più a mano a mano che passavano i mesi. Il tutto in modo molto intelligente, una sorta di gioco di prestigio, come un commercialista che avesse in mente di fare un lavoro criminale, sì, ma pulito. Doyle aggiunse di averci messo giorni e giorni per capire come fosse accaduto. Alla fine però ci era riuscito. Oh, sono stati cauti, commentò. Questo glielo concedo.

Gli uomini rimasero in silenzio, guardando i libri aperti sulla scrivania. Si torcevano le mani ed evitavano di guardarsi in faccia. Da parte sua, Doyle Francis si appoggiò allo schienale della sedia e li fissò.

Alla fine Arch Withers disse: Va bene. Se ciò che dici è vero, chi è stato? Chi sono “loro”?

Cosa?

Hai detto: Sono stati cauti. A chi ti riferisci?

Secondo te a chi mi riferisco?

Che diavolo ne so? Parli di Charlie Soames?

Perché no? È Charlie che tiene la contabilità, no? Teneva la contabilità quando c’ero io e immagino che abbia continuato anche dopo di me.

Che figlio di puttana, esclamò Bob Wilcox, il membro più giovane del consiglio di amministrazione. Dannato vecchio...

E Burdette? chiese Withers, interrompendolo. Cosa ci dici di lui? C’entra?

Certo che c’entra. Per forza, non credi? Altrimenti perché sarebbe andato in Main Street a prendere quei vestiti nuovi a credito, per poi scomparire e non tornare più?

Dio santo, sbottò Wilcox. Un altro figlio di puttana. Dovremmo...

Stai zitto, disse Withers. È tardi per le scene isteriche.

Giusto, commentò Doyle. È troppo tardi per un sacco di cose. Però Charlie è ancora qui, no?

È ancora qui.

E allora andrò a prenderlo, se non volete farlo voi. Porterò quel... disse Wilcox.

Maledizione, esclamò Withers. Ti ho già detto di stare zitto. Piantala. Il giovane Bob Wilcox fece per aggiungere qualcosa, ma Withers si voltò a fissarlo. A quel punto Wilcox chiuse il becco e Withers tornò a rivolgersi a Doyle Francis. Quindi secondo te cosa dovremmo fare? A quanto pare ci hai già pensato.

Sì, certo. Ci ho pensato, rispose Doyle. Praticamente sono due settimane che non penso ad altro.

E quindi? Vuoi dircelo oppure no?

C’è una sola cosa da fare. Lasciamo che se ne occupi lo sceriffo. Chiamiamo Bud Sealy e gli diciamo di andare a casa di Charlie Soames ad arrestarlo e una volta che è dentro aspettiamo il processo. Che altro possiamo fare?

Ma rimane la questione dei soldi, no? Come facciamo con i soldi?

In che senso?

Be’, porca puttana. Erano soldi nostri. Erano i soldi di noi azionisti.

Certo, rispose Doyle. Potrete dirlo al giudice quando sarà il momento. Ma non penso che li riavrete. Jack Burdette se n’è andato un mese e mezzo fa e dio solo sa che fine ha fatto. Ma dovunque sia, avrà già iniziato a spenderli. Potete scommetterci.

Non appena questo nuovo pensiero si fece strada, tornò il silenzio. Gli uomini guardarono con odio i libri contabili sulla scrivania di Doyle. Dopo un po’ Arch Withers si riscosse.

Forza, disse. Cosa stai aspettando? Fai quella maledetta telefonata. Chiama Bud Sealy.

No, ribatté Doyle Francis. Non credo, ragazzi. Penso che tocchi a uno di voi. Sono affari vostri. Mi sono già occupato fin troppo di questo casino.

Quindi quel martedì pomeriggio fu Arch Withers, presidente del consiglio di amministrazione della cooperativa degli agricoltori, a chiamare Bud Sealy dall’ufficio del direttore, con i libri contabili ancora aperti sulla scrivania, mentre Doyle Francis e gli altri uomini lo guardavano.

Quello stesso pomeriggio Bud Sealy arrestò Charlie Soames al numero 600 e rotti di Cedar Street, dove aveva una casa con un piccolo ufficio sul retro. Sealy parcheggiò e bussò alla porta. La signora Soames lo fece entrare. Era un’anziana impressionabile con i seni grandi e le braccia paffute. Condusse lo sceriffo nell’ufficio di Charlie e si fermò sulla soglia.

Quando Sealy entrò nella stanza – era tutto pulito e in ordine come sempre – parve che Charlie Soames lo stesse aspettando. Sedeva alla scrivania con le mani in grembo e sembrava che avesse sistemato tutto. Come se si fosse preparato per l’arrivo di Sealy, contento che fosse finalmente finita. Sai già tutto, disse Soames.

Sì. Mi ha appena chiamato Arch Withers.

Ci hanno messo un bel po’. Ti aspettavo un mese fa.

Adesso sono qui. Sei pronto?

Sì.

Pronto? chiese la signora Soames. Pronto per cosa? Era ancora sulla soglia, si stava facendo aria. I capelli ritti sulla testa rosa. Dove lo sta portando?

Suo marito si è messo nei guai.

Mio marito? Cosa sta dicendo? Cosa vuole che abbia fatto?

Quanto basta, rispose lo sceriffo. E adesso forse è meglio se va per un po’ in un’altra stanza.

Non vado da nessuna parte. Quindi ha combinato qualcosa. Vecchio scemo! Lui ha combinato qualcosa, e io cosa dovrei fare?

Prima di tutto, rispose Sealy, deve stare zitta.

Io non ho fatto niente. Non può venire in casa mia a dirmi di...

Sì, adesso deve stare zitta. Altrimenti le metto il bavaglio.

La signora Soames fissò lo sceriffo. Lei non mi toccherà. Non oserà toccare una signora.

Vuole mettermi alla prova? rispose lui. Fece un passo verso la donna, che indietreggiò.

Oh!

Poi si mise a strillare. Sealy le chiuse la porta in faccia. La sentirono fare dei versi convulsi. Ma dopo un momento si interruppero.

Meglio così, disse lo sceriffo. Poi riprese a occuparsi del marito.

Charlie Soames era ancora seduto in silenzio alla sua linda scrivania. Era come se si fosse aspettato anche questo. Si alzò e Sealy gli disse che aveva diritto di restare in silenzio. Poi mise le manette intorno ai suoi polsi sottili, quindi uscirono dal piccolo ufficio ordinato e attraversarono la casa. La signora Soames li stava aspettando in sala da pranzo; seguì i due uomini fino all’ingresso. Quando si fermarono perché lo sceriffo potesse aprire la porta, la signora Soames riprese a strillare. Saltò addosso al marito e prese a schiaffeggiarlo in faccia e sul collo. Soames stramazzò sotto quei colpi. Lei lo colpì alla testa. Alla fine Bud Sealy si intromise e spinse via la signora Soames.

La pianti, le disse. Cosa pensa di fare? La smetta, cazzo.

Prese per un braccio il vecchio e lo rimise in piedi, poi uscirono. La signora Soames li seguì in veranda. Furiosa, rimase a guardare l’automobile che si allontanava.

Quando arrivarono al tribunale, Sealy condusse Charlie Soames nell’ufficio dello sceriffo, nel seminterrato, e lo arrestò per presunta appropriazione indebita dei fondi della cooperativa. Poi gli prese le impronte digitali e lo condusse in cella. Mentre il vecchio si sedeva sulla branda, rimase in piedi accanto a lui. Sembrava molto piccolo e stanco. Ma non era ancora completamente demoralizzato.

Bene, disse lo sceriffo. Hai intenzione di raccontarmi qualcosa?

Cosa c’è da raccontare?

Oh, qualcosa dovrebbe esserci.

Mi stai dicendo che vuoi una confessione formale?

Qualcosa del genere.

Cosa vuoi sapere?

Allora. Tanto per cominciare – è una semplice curiosità – perché diavolo non hai tagliato la corda anche tu? Avresti potuto farlo, no?

Intendi perché non me ne sono andato?

Certo. Come Jack Burdette. Tu e Burdette eravate soci, no? Perché quando se n’è andato lui non l’hai fatto anche tu? Avresti potuto svignartela con lui.

Lui, ripeté Charlie Soames. Il nome di Burdette parve risvegliare qualcosa in lui. Si raddrizzò agitato. Perché quell’uomo... quel...

Sentiamo.

Non mi aveva nemmeno detto che se ne sarebbe andato. Eravamo d’accordo. Me l’aveva promesso. Non era ancora il momento di andarsene. Ma poi lui...

Proprio così, lo interruppe Sealy. Ma poi lui.

Tu non capisci.

Ah, no?

No. Perché stavamo aspettando di arrivare a duecentomila. Ecco perché. E io continuavo a dirgli che era ora di andarcene. Gliel’avevo detto che dovevamo prendere i soldi e andarcene. Prima che i revisori se ne accorgessero. Stavano cominciando a sospettare qualcosa. Ne ero sicuro. Lo sapevo. Ho provato a spiegarglielo. Ma per la miseria, quell’uomo continuava a ripetere: Ancora cinquanta, solo altri cinquanta. Come fossero soldi finti o qualcosa del genere. Oh, non si rendeva conto del pericolo. Non si rendeva conto di niente. L’idea è stata sua, sin dall’inizio. Io mi sono lasciato convincere. Però chi doveva occuparsi dei libri contabili ero io, capisci? Non lui. E lui continuava a promettermi: Aspetta che arriviamo a duecento, poi ce ne andiamo insieme. Ecco cosa mi diceva. Eravamo d’accordo. Me l’aveva promesso. Ma poi lui...

Già, esclamò Sealy. Be’. Sei proprio un vecchio scemo. Quindi lui non ti ha neanche detto che se ne stava andando.

Pensavo di potermi fidare.

Certo. Peraltro non eri l’unico in città a pensarlo, vero?

Fatto sta che mi fidavo. E a quel punto cosa potevo fare? Dove potevo andare? I soldi ce li ha lui. Si è preso tutto. Ha ritirato tutto dal conto che avevamo a Sterling. E...

Sterling? Mi stai dicendo che tenevate i soldi a Sterling?

È lì che avevamo aperto il conto. Mi pareva più sicuro. Pensavo ancora di potermi fidare di lui. Pensavo ancora che se lo meritasse.

Capisco, osservò Sealy. Te l’aveva promesso. Eravate d’accordo.

Soames tacque per un attimo. Guardò lo sceriffo.

A te non sembrava un tipo affidabile? Jack Burdette non ti pareva una persona di cui ci si potesse fidare?

Non so, rispose Sealy. Probabilmente sì. Ma avrei potuto dire la stessa cosa anche di te, Charlie. E invece guardati. Cristo, guarda cos’hai combinato.

Entro sera, tutta la contea di Holt sapeva dell’arresto di Charlie Soames. Sapevano dell’appropriazione indebita dei fondi della cooperativa e del suo coinvolgimento durato tre anni. Quindi il panico e l’indignazione erano già iniziati. Metà della popolazione locale possedeva azioni della cooperativa ed erano tutti assetati di sangue.

Avrebbero preferito il sangue di Jack Burdette e di Charlie Soames, entrambi, ma Burdette era scomparso. Burdette era già in California, vagava chissà dove per le strade di Los Angeles. La polizia era finalmente riuscita a seguire le sue tracce fin laggiù, ma poi le avevano perse. Di conseguenza, la gente di Holt iniziò a capire che avrebbe dovuto accontentarsi dell’arresto del suo complice, dell’incriminazione e condanna del vecchio Charlie Soames, e poi del suo legittimo arresto. Si aspettavano che almeno da lui avrebbero ricavato un po’ di soddisfazione.

E fu una cosa orribile, sul serio. All’epoca Charlie Soames aveva già settant’anni. Era cresciuto lì, come Jack Burdette. E tutti lo conoscevano, proprio come conoscevano Jack Burdette, solo che Soames non aveva assolutamente la predisposizione di Burdette per i gesti improvvisi e bizzarri. Era soltanto un vecchio che era sempre vissuto lì. Per tutta la vita era stato serio e normale, un uomo qualunque. Per quasi mezzo secolo aveva fatto il contabile e il ragioniere per diversi uomini d’affari della città e a quarant’anni aveva sposato una donna di appena uno o due più grande, una donna che lo dominava completamente, e non erano riusciti ad avere figli. O forse non ci avevano nemmeno provato. Nessuno lo sapeva. A sua moglie piaceva chiacchierare, ma a quanto pare non di quell’argomento. No, di fatto la vita di Charlie Soames non avrebbe potuto essere più grigia. Poi all’improvviso aveva fatto questo.

Così lo arrestarono. E in pochissimo tempo lo incriminarono. A quel punto pagò la cauzione e fu rilasciato in attesa del processo. Per pagare la cauzione usò i miseri risparmi di una vita, i soldi che aveva accumulato in anni e anni di parsimonia; non avevano niente a che fare con l’appropriazione indebita, li aveva guadagnati tenendo la contabilità per altri, la polizia aveva verificato. Quindi venne liberato e tornò a casa dalla moglie. Però doveva essere peggio che stare in una cella nel seminterrato del tribunale della contea di Holt, in Albany Street. Era stato solo poche ore in carcere, nel silenzio. Invece, appena tornato a casa, la signora Soames doveva avergli reso la vita difficile. Ne era capace. Doveva averlo macinato come un hamburger.

Forse è per questo che, circa una settimana dopo essere stato rilasciato, era tornato a farsi vedere in Main Street. A metà mattina di un giorno feriale. Era entrato nella panetteria Bradbury per bere un caffè. Non so, magari aveva pensato di sondare il terreno, di provare a vedere come la pensavano i suoi concittadini di quella vicenda. La panetteria era affollata come sempre a quell’ora. Uomini d’affari e casalinghe, commessi dei negozi e uno o due agricoltori bevevano il caffè e mangiavano frittelle, seduti ai tavoli sparsi per il locale. Chiacchieravano.

Poi Soames entrò e calò il silenzio. Tutti osservarono quel vecchietto a modo, che conoscevano così bene, mentre si versava il caffè e poi si girava in cerca di un posto. Dall’altra parte della sala c’era una sedia libera a un tavolo vicino al muro. A quel tavolo erano seduti Ralph Bird e un paio di altri uomini. Soames si avvicinò.

Aspetta un momento, cazzo, disse Ralph Bird. Dove pensi di andare con quel caffè?

Soames rimase in piedi accanto al tavolo, fissandolo.

Togliti di torno. Non ti vogliamo qui con noi.

Soames guardò gli altri uomini. Aveva tenuto la contabilità per ognuno di loro. Quelli ricambiarono il suo sguardo.

Ormai era solo un vecchio sconfitto e conosceva tutti in quella sala. Cominciarono a tremargli le mani. Il caffè gli si rovesciò sul polsino della camicia e finì per terra. Stava combinando un casino. Continuava a stare lì fermo, con le mani che tremavano, il caffè bollente che scottava e la vista che si offuscava. Non sembrava più in grado di mettere a fuoco.

Alla fine una delle ragazze uscì da dietro il bancone e gli tolse di mano la tazza. Forza, disse, dammi qua. Lo trattò come un bambino. Gli asciugò la mano con uno strofinaccio e si inginocchiò per pulire il pavimento.

A quel punto Soames diede un’ultima occhiata ai presenti. Lo stavano ancora osservando. Si voltò e uscì dal negozio. Da dentro potevano vederlo attraverso la vetrina. Rimase lì un attimo a guardare a destra e sinistra. Finalmente tornò a casa.

Una volta arrivato in Cedar Street, entrò dalla porta principale e salì le scale fino in soffitta. Sua moglie era sul retro, stava sbucciando delle carote in cucina. In seguito avrebbe detto che non si era neppure accorta che fosse rientrato. Era sempre così silenzioso.

L’esplosione in soffitta la sentì, però. E come lei, parecchia altra gente. I vicini la sentirono.

Perché dopo aver salito le scale, Charlie era entrato nella stanza piena di scatole e di polvere e si era seduto su un vecchio baule vicino alla canna fumaria, alla fioca luce dell’unica lampadina che pendeva da una delle travi del soffitto. Seduto sul baule, aveva infilato un proiettile in un vecchio fucile a colpo singolo .22. Poi aveva appoggiato il calcio del fucile sul pavimento, tra i piedi, e aveva chiuso la sua piccola bocca stanca intorno alla canna. Nessuno seppe mai se si fosse fermato un istante per guardarsi in giro, come succede nei film, per dare un’ultima occhiata fuori dalla finestra della soffitta verso le cime degli alberi del cortile. Sappiamo solo che si sparò una singola sfera di piombo attraverso il palato, fin nel cervello, e che quella sferetta di piombo lo distrusse.

Lo distrusse ma non lo uccise. Il proiettile gli si era conficcato nel cervello, ma lui era ancora vivo.

Quando sua moglie salì di corsa per vedere cosa avesse provocato quel rumore, lo trovò accasciato contro la canna fumaria. Aveva ancora il fucile tra le ginocchia. C’era una notevole quantità di sangue che gli colava sulla camicia e la testa era piegata all’indietro in modo orribile. Eppure respirava ancora. Dalla bocca gli uscivano delle bolle rosse. Vedendolo, la signora Soames ebbe una crisi isterica. Si mise a urlare. Poi arrivarono i vicini, fu uno di loro a chiamare la polizia.

Venne immediatamente trasportato in un ospedale di Denver in elicottero. Là i chirurghi fecero quello che poterono; chiusero il buco che aveva nel palato e rattopparono il resto. Alla fine però decisero di lasciare la pallottola dov’era. Dissero che tentare di rimuoverla avrebbe potuto ucciderlo. Una volta che si fu ripreso abbastanza da poter essere dimesso, venne riportato a Holt.

Quando lo rivedemmo, aveva un aspetto normale, più o meno. Sembrava ancora lui; era ancora un vecchietto lindo e ordinato. Solo gli occhi erano diversi. Lo sguardo era assente, inespressivo, come se dietro non ci fosse nulla. Era in grado di mangiare e di bere liquidi. Funzionava ancora. Riusciva persino a dire qualche parola in un tono ruvido, bleso, monotono. Che riuscisse a parlare, però, era irrilevante. Quello che aveva da dire non aveva senso, erano soltanto parole incomprensibili, un costante sbavare sul nulla.

L’anziana signora Soames non sapeva proprio che fare con lui. Lo vestiva e gli dava da mangiare ogni giorno e lo metteva a sedere sul dondolo in veranda. Di tanto in tanto lo metteva in piedi davanti a casa con un tubo per innaffiare il giardino fra le mani. Se lo lasciava fare, Charlie restava lì tutto il pomeriggio a spargere acqua sul prato. Sembrava che giocare con l’acqua gli piacesse. In quelle occasioni le persone si avvicinavano alla casa per guardarlo. E certe volte gli dicevano qualcosa, cose crudeli e sgradevoli, cose che servivano a vendicarsi come: Vecchio figlio di puttana. Perché non ci riprovi? Magari stavolta usa un fucile per la caccia al cervo. Provaci, dai. E comunque vaffanculo, va. Charlie si limitava a bagnare l’erba, con un filo d’acqua che gli scorreva sul gomito e gli finiva sulle scarpe; annuiva e continuava a dire cose senza senso ai passanti e sembrava ascoltare quello che gli dicevano, drizzando la testa come un vecchio uccellino confuso. E addirittura, quando si allontanavano lungo la strada, li seguiva con i suoi occhi spenti. Ma nulla aveva un significato per lui. Era un semplice spettacolo, un’esibizione di ombre che per puro caso si muovevano e parlavano. Niente aveva un senso.

Se solo ne fosse stato consapevole, credo che sarebbe addirittura stato felice. Non era in grado di capire niente di quello che sua moglie o chiunque altro a Holt gli dicevano e non ricordava nulla di debiti e crediti e della contabilità a partita doppia. Di conseguenza, non sapeva proprio niente, assolutamente niente, del suo coinvolgimento nell’appropriazione indebita dei fondi della cooperativa.

Insomma, ormai era in una situazione perfetta: era pazzo. Non era più possibile importunarlo, nemmeno la legge poteva più fargli niente. Non c’era modo di punirlo. Si era lasciato tutto alle spalle. La sola idea di processarlo era fuori discussione.

8

Gli abitanti di Holt ormai pensavano di doversi rivolgere altrove per ottenere un risarcimento di qualunque tipo. Si sentivano doppiamente traditi. Burdette era scomparso alla fine di dicembre e ogni giorno che passava diventava sempre più evidente che la polizia non l’avrebbe mai rintracciato e riportato indietro. E il suo complice non sarebbe neppure stato processato.

Con il passare del tempo quindi la gente iniziò a prendersela con Jessie, sua moglie. Volevano qualcuno che desse loro soddisfazione e lei era ancora lì, ancora a Holt, e il fatto di considerarla un’estranea rendeva tutto più semplice. Stava a Holt da quasi sei anni, ma tutti – per il suo stesso bene – dicevano che era sempre stata troppo riservata. Sin dal giorno del suo arrivo, aveva tenuto le distanze. Era come se si sentisse superiore a loro: ecco cosa pensavano di lei. Naturalmente erano un po’ in soggezione, nonché un po’ ostili. Non la capivano; pensavano a lei come alla donna scovata da Burdette in un Holiday Inn in Oklahoma, la piccola donna silenziosa e troppo indipendente che Jack aveva incontrato e sposato a Tulsa, quando in realtà avrebbe dovuto sposare Wanda Jo Evans, una ragazza di Holt apprezzata e ammirata da tutti. No, Jessie non era cresciuta qui e in città nessuno sapeva granché sul suo conto.

Forse, dato il livello di emotività e per come è fatta la natura umana, fu inevitabile che attaccassero Jessie Burdette, non essendoci nessun altro con cui prendersela a Holt. Erano sdegnati per ciò che era successo e quasi tutti erano stati danneggiati in un modo o nell’altro. Iniziarono ad associare i problemi ai silos con l’arrivo di Jessie. La dichiarazione che aveva fatto pubblicare sul Mercury alla fine risultò irrilevante per chiunque. Erano successe troppe cose da quel momento e ormai nessuno le credeva più.

Quindi quella primavera, per tre o quattro mesi, fu come se Jessie Burdette fosse una sorta di bene pubblico. A Holt si instaurò un clima di follia generalizzata, la sensazione che quasi tutto fosse possibile. Sembrava che nei suoi confronti fosse stata aperta la stagione della caccia e che tutti la considerassero una questione d’onore della comunità.

All’inizio non pareva niente di concreto. Sembrava solo che, in presenza di Jessie, la gente fosse più circospetta, che ogni volta che si faceva vedere in Main Street ci fosse una maggiore formalità, una generale freddezza nei suoi confronti. Ormai le rivolgevano la parola solo quando erano costretti a farlo, alla cassa del supermercato o del distributore di benzina. Nessuno la salutava per primo.

Poi, una sera, qualcuno davanti a casa investì il gatto rosso di TJ e Bobby. I ragazzini lo trovarono il mattino dopo sui gradini dell’ingresso. Poteva anche essersi trattato di un incidente, ma chiunque fosse stato aveva portato la bestiola sulla porta di casa senza fermarsi a chiedere scusa o a dare una spiegazione. Il gatto era maciullato, dalla pelliccia lacerata si vedevano le viscere, ed era stato lasciato in un posto in cui Jessie e i bambini l’avrebbero sicuramente visto. I ragazzini rimasero sconvolti. Jessie li aiutò a seppellirlo accanto alla recinzione, nel cortile sul retro.

Eppure, malgrado la crescente ostilità, Jessie rimase a Holt. Ancora oggi non so bene perché. Penso che la maggior parte di noi non sarebbe rimasta nemmeno una settimana, se avesse ritenuto di avere un’alternativa qualsiasi. Ma forse era proprio quello il punto: lei era convinta di non avere un altro posto dove andare. In Oklahoma non aveva più niente; i suoi genitori avevano divorziato, sua madre stava in una residenza per invalidi e da anni non aveva notizie di suo padre. Non sapeva neppure bene dove fosse. Per quanto riguardava i suoi fratelli, appena finite le superiori si erano arruolati entrambi, quindi non avrebbe potuto raggiungerli nemmeno volendo. E comunque non voleva. Sembrava che volesse rimanere a Holt, che avesse i suoi buoni motivi per tener duro. Pareva determinata a reagire a quello che le stava capitando nel suo modo tranquillo e silenzioso, come se l’opinione che aveva di sé dipendesse solo da questo. Come se stesse tentando di dimostrare qualcosa.

E la conclusione fu tragica. Finì per essere ben più di una semplice questione di soldi. Le cose andarono in maniera così dolorosa che a Holt c’è ben poca gente disposta a ricordarsene.

Successe in aprile. All’inizio di aprile di quello stesso anno, un pomeriggio Jessie si presentò ai silos accanto alla ferrovia. Salì i gradini di legno che portavano all’ingresso degli uffici e alla sala con le bilance e disse a Bob Thomas che voleva vedere Doyle Francis. Bob Thomas ne fu sorpreso. Era appena rientrato dal pranzo e come al solito aveva mangiato troppo ed era mezzo addormentato. Era stravaccato alla sua scrivania, dietro il bancone, stava scorrendo svogliatamente delle bolle di accompagnamento. Alzò lo sguardo e la vide.

Cosa? domandò. Che ha detto?

Vorrei vedere Doyle Francis, per favore. Credo che lavori ancora qui.

Vado a chiamarlo. Anzi, vado a dirglielo. Perdio. Lei aspetti qui.

Le sue informazioni erano corrette; in effetti Doyle Francis lavorava ancora ai silos. Nei tre mesi da quando suo marito se n’era andato, il consiglio di amministrazione aveva iniziato a cercare un nuovo direttore, ma non era stato ancora assunto nessuno perché nel frattempo erano diventati diffidenti nei confronti di chiunque. Una diffidenza profonda, eccessiva. Insistevano a scavare nel passato di ogni candidato, non solo nelle sue esperienze professionali, come si fa d’abitudine quando si deve assumere qualcuno, ma anche nella sua storia etica, morale e religiosa. Era come se si fossero messi a sospettare di chiunque, a credere che chiunque al mondo si candidasse come direttore dei silos fosse solo interessato a portare via i loro soldi e scappare dalla città. In fin dei conti, l’unica cosa che avrebbero voluto chiedere a quelle persone era: Maledizione, se ti assumiamo, per quanto tempo lavorerai qui prima di decidere di aumentarti da solo lo stipendio, prima di rivelarti un figlio di puttana come Jack Burdette? Almeno questo dovresti proprio riuscire a dircelo.

Nessuno li biasimava per il loro atteggiamento, per la loro nuova, profonda sfiducia nel prossimo; la maggior parte degli abitanti di Holt si sentiva così. Fatto sta che in aprile Doyle Francis era sempre là, sempre in attesa che il consiglio assumesse qualcun altro per poter riprendere a godersi la pensione. Quel pomeriggio, quando Bob Thomas si precipitò da lui, era ancora nel suo vecchio ufficio.

È qui, esclamò Bob. Vuole vederti.

Chi?

Lei. La moglie di quel figlio di puttana. È qui, nella stanza delle bilance.

Che vuole?

Cosa cazzo vuoi che ne sappia? Ha solo detto che vuole vederti. Non ha detto altro.

Bene, disse Doyle. Falla entrare, Bob. O hai paura che, se ci avviciniamo troppo, ci rubi il portafoglio o chissà cosa?

Dio santo, rispose Bob. Non mi fido più di nessuno. Hai proprio ragione.

Pazienza, commentò Doyle. Falla venire qui. Forza, cerca di comportarti da gentiluomo una volta nella vita.

Non ho bisogno di comportarmi da gentiluomo. Non con lei, proprio no.

Si voltò e tornò da Jessie. Era ancora in piedi al bancone.

Ha detto che va bene. Venga, le faccio vedere dov’è.

Grazie, rispose Jessie, ma so bene dov’è l’ufficio del direttore.

Non gli faccia perdere troppo tempo. C’è gente a cui tocca lavorare per vivere.

Jessie girò intorno al bancone e imboccò lo stretto corridoio, passando accanto al bagno e al magazzino. Indossava pantaloni sportivi e un’ampia camicetta verde. Quando entrò, Doyle Francis si alzò in piedi. Era ormai uno dei pochi uomini in città, almeno tra quelli che avevano a che fare con i silos, che ancora la trattava con rispetto e un minimo di cortesia. La fece accomodare su una poltroncina di legno.

Jessie si lasciò andare con cautela sulla poltroncina: in quel momento era ancora incinta, aveva ancora dentro di sé la bambina che le aveva lasciato Burdette; era al settimo mese. Si posò la borsa in grembo, nel poco spazio disponibile.

Allora, esordì Doyle. Cosa posso fare per lei, Jessie?

Non voglio niente, se è questo che sta pensando.

No, rispose lui. Non lo stavo pensando. Non mi pagano abbastanza per preoccuparmi di quello che pensano gli altri.

Be’, insomma, è così, proseguì Jessie. Non sono qui per chiederle niente. Sono qui per consegnare una cosa.

Ah, esclamò lui. E cosa vuole darmi?

Non a lei. Al consiglio di amministrazione. Ai silos. A tutta quella gente là.

Di cosa si tratta?

Ecco. Aprì la borsa e tirò fuori un documento legale. Lo spinse sulla scrivania verso di lui. Doyle lo prese, lo guardò.

Aspetti un momento, disse. Un secondo. È un atto o qualcosa del genere, vero?

Hanno detto che è legale.

Chi ha detto che è legale? Di cosa sta parlando?

Quelli della banca. Hanno detto che posso cederla a chiunque. Dovrebbe firmare anche Jack, ma date le circostanze va bene anche così.

Hanno firmato anche loro? chiese Doyle. Scommetto di sì.

Riguardò il documento, stavolta lo lesse. Era un atto di rinuncia alla proprietà di una casa e relativo terreno a favore del consiglio di amministrazione della cooperativa degli agricoltori della contea di Holt. In calce c’era la firma di Jessie in inchiostro fresco.

Va bene, allora, disse Doyle, immagino sia legale. Non saprei; non sono un avvocato. Del resto non penso che da queste parti a qualcuno possa venire in mente di impugnarlo, no? Anche se non dovesse essere legale.

No. Nessuno lo impugnerà.

Doyle mise l’atto sulla scrivania. Poi ci posò sopra le mani. Chiese: Quanti anni ha, Jessie?

Ventisette.

E ha due bambini?

Sì.

Loro quanti anni hanno?

Ne hanno appena compiuti quattro e tre. Ma perché me lo chiede?

E tra poco ne nascerà un altro, vero?

In giugno, rispose lei. Ma...

Lei crede nell’inferno? chiese lui. È per questo?

Jessie ricambiò il suo sguardo.

È per questo che lo fa? Se è così, mi lasci dire, secondo me l’inferno non esiste. Non credo proprio. E non penso che ci sia nemmeno il paradiso. Moriamo, ecco tutto. A un certo punto smettiamo di respirare e tutti iniziano a dimenticarsi di noi e presto arriva un momento in cui nemmeno ricordano più quello che pensiamo di aver combinato.

Non so a cosa credo, rispose Jessie.

E allora perché lo sta facendo? Vuole dirmelo?

Perché sì, rispose lei.

Perché sì? Tutto qui. Perché sì.

Lei continuava a guardarlo fisso con i suoi profondi occhi bruni.

Alla fine Doyle disse: D’accordo, non le va di dirmelo. Non è obbligata a farlo; del resto penso di saperlo lo stesso. Però mi stia a sentire, mi permetta di farle una domanda. Non pensa che avrà ancora bisogno di questa casa? Voglio dire, se la cede come ha in mente di fare, poi lei e i bambini dove diavolo andrete ad abitare?

Fatti miei, rispose Jessie. No?

Sì, certo, ma...

E anche secondo lei è legale, vero?

Sì. Per quanto ne so.

E allora per favore dia quel pezzo di carta al consiglio di amministrazione. Può dire che lasceremo la casa per il primo maggio.

Mi stia a sentire, insistette Doyle. Per la miseria, aspetti un momento...

In effetti si era già alzata. Se ne stava andando. E Doyle Francis era ancora chino sulla poltroncina su cui era stata seduta. Le sue buone intenzioni ancora gli galleggiavano inutilmente in testa, le braccia erano ancora posate sull’atto di rinuncia che aveva sulla scrivania. La ragazza percorse il corridoio e se ne andò.

Nella sala delle bilance, Bob Thomas la guardò uscire. Quando l’auto si fu allontanata, Bob entrò nell’ufficio di Doyle.

Be’, disse, è rimasta un bel po’. Cosa voleva?

Cosa?

Ti ho chiesto cosa voleva la moglie di Burdette.

Niente. Non voleva niente.

Non ci credo.

Me ne frego di quello che credi. Quella donna non vuole proprio un cazzo da nessuno di noi.

Cosa significa “non vuole niente”? È pur sempre una Burdette.

Significa, rispose Doyle Francis, che devi toglierti dai coglioni e lasciarmi in pace. Porca puttana, Bob, trovati qualcosa da fare per conto tuo.

Per certe persone di Holt questo fu sufficiente. Suppongo che, più o meno come Doyle Francis, pensassero che Jessie meritasse la magnanimità delle loro buone intenzioni. In privato, capivano che era innocente, o perlomeno sapevano che era stata tenuta all’oscuro di tutto. Non era colpa sua, si dicevano; non era coinvolta. Riuscivano a essere gentili con lei. O comunque riuscivano a evitare di augurarle qualcosa di male.

Per altri però, quelli più accesi e più attivi, non era sufficiente. Secondo loro la casa non valeva abbastanza. Non importava che fosse tutto ciò che Jessie possedeva, che, per quanto ipotecata, fosse l’unica sua proprietà. Era solo una vecchia casa con due stanze da letto nel centro della cittadina. Il tetto e le pareti esterne erano malmessi; andava riverniciata. Per giunta, quando Jessie aveva firmato la cessione, c’erano ancora quindici anni di mutuo da pagare, quindi nel momento in cui il consiglio di amministrazione ne aveva assunto la proprietà e poi l’aveva venduta all’asta, i centocinquantamila dollari con cui suo marito si era dileguato restavano praticamente tutti da risarcire. No, quella gente non era soddisfatta. Una casa non era viva e non poteva sanguinare come un essere umano. Non era incinta, come lo era Jessie.

In ogni caso, il primo maggio lei e i due bambini se ne andarono, come Jessie aveva promesso – avevano preso in affitto un appartamento al piano terra della casa del vecchio Fenner, in Hawthorne Street, alla periferia ovest di Holt – e Doyle Francis diede loro una mano a traslocare. Usarono il suo furgone. Jessie accettò almeno quell’aiuto, anche se poi, per sdebitarsi, per mantenere in attivo il suo bilancio personale, gli fece avere su un vassoio una torta al cioccolato appena sfornata.

Be’, non era male quell’appartamento, erano cinque stanze: cucina, salotto, due piccole camere da letto e un bagno con la doccia accanto alla cucina. Avevano anche l’uso della veranda, un’ampia veranda vecchio stile con la ringhiera di legno e un dondolo appeso alle travi. Da lì, guardando oltre la strada verso occidente, si vedeva l’aperta campagna, perché a quei tempi Holt finiva in Hawthorne Street: più a ovest di quella casa c’era solo il pascolo di Harry Smith, un centinaio di ettari di prateria in cui Harry teneva qualche cavallo. Quindi era un bel posto in cui far crescere i bambini; attraversando la strada, avrebbero avuto un sacco di spazio tutto per loro.

Una volta che si furono sistemati e alle finestre ci furono delle nuove tende – più spesse, per impedire che dalla strada si vedesse qualcosa – Jessie si preoccupò della questione economica. Iniziò a guadagnarsi da vivere. Si trovò un lavoro all’Holt Café in Main Street. Faceva la cameriera sei giorni alla settimana, si alzava ogni mattina per preparare la colazione a TJ e Bobby e giocava con loro fin quasi a mezzogiorno, quando arrivava la baby-sitter, un’anziana vicina – la signora Nyla Waters, una donna gentile, vedova – che si occupava dei bambini mentre Jessie si occupava dei clienti della caffetteria durante la ressa del pranzo, poi per tutto il pomeriggio e l’ora di cena, quindi tornava a casa ogni sera verso le sette per fare il bagno ai figli e metterli a letto e per leggere loro una favola. Spesso, prima che si addormentassero, cantava loro qualcosa.

Lavorare a quel modo, essendo incinta e dovendo trascorrere tutte quelle ore lontana dai suoi bambini, non era certo la soluzione ottimale ai suoi problemi, ma non aveva grosse alternative. Non voleva nemmeno prendere in considerazione i sussidi statali. Accettare gli aiuti per i figli a carico o addirittura i buoni-spesa del governo non era nel suo scadenzario dei pagamenti – mi riferisco al suo bilancio personale – visto che qualsiasi tipo di assistenza sociale proveniva dalle tasse. E una parte di quelle tasse almeno in teoria proveniva dalla contea di Holt. Jessie lo sapeva. E non voleva niente dalla gente di Holt. Non voleva niente che non si fosse pagata da sé. Su questo Doyle Francis aveva ragione.

A quel punto però, verso la fine della primavera di quell’anno, trovò il modo per estinguere il suo debito. Cominciò ad andare a ballare il sabato sera al Legion.

All’inizio nessuno voleva ballare con lei. Il primo sabato sera di maggio scese le scale e si avvicinò al bancone, si mise su uno sgabello, ordinò un vodka Collins e rimase in attesa. Non successe nulla. Forse per un po’ la sala si fece più tranquilla, ma non tanto, Jessie non era nemmeno sicura che si fossero accorti di lei. Era anche molto graziosa: si era truccata e aveva indossato un abito blu scuro abbastanza ampio da nascondere almeno un po’ la pancia, sembrava solo ai primi mesi di gravidanza; aveva le calze di nylon e i tacchi alti; i capelli castani erano raccolti in modo da non ricaderle sul viso, facendo apparire i suoi occhi ancora più grandi e scuri del solito. Seduta al bancone, continuava ad aspettare: nessuno le rivolse la parola, non successe nulla; Jessie finì per ordinare un altro drink. Sugli sgabelli a destra e a sinistra del suo c’erano uomini che chiacchieravano, Jessie si voltò a guardare le coppie sedute ai tavoli alle sue spalle. Ridevano forte e di tanto in tanto si alzavano per andare a ballare. Forse la guardavano, forse no; non sapeva. Insomma, quella prima sera rimase seduta al bancone ad aspettare per quasi due ore. Poi tornò a casa.

La seconda volta, il sabato successivo – ormai era più o meno la metà di maggio – Jessie bevve un bicchierino di vodka pura a casa, prima di uscire. Quella sera era vestita in un altro modo. C’era più ombretto blu sui suoi occhi e indossava un abito rosso cupo molto scollato, che lasciava scoperta buona parte dei suoi grandi seni, un abito che non tentava neppure di nascondere la gravidanza; era aderente sui fianchi e sulla pancia. Preparandosi per uscire, si pettinò in modo che i capelli le ricadessero sul viso, in parte nascondendolo, poi arrivò al Legion, scese le scale e per la seconda volta si immerse nel rumore e nella baldoria del sabato sera. Come il sabato precedente, si piazzò su uno sgabello, ordinò da bere e si guardò intorno con le gambe accavallate, il corto abito rosso sollevato di qualche centimetro sulle ginocchia, e un’espressione di attesa, quasi di invito, stampata sul suo bel volto.

Be’, era una scena penosa nella sua mancanza di finezza. Del resto la finezza e il pathos non sono qualità particolarmente apprezzate nei sabati sera al Legion, quindi quella seconda volta dovette aspettare solo un’ora prima che Vince Higgims Junior la invitasse a ballare. Vince era uno degli scapoli impenitenti di Holt, un uomo allampanato, con i capelli bianchi, considerato da molti di noi un vero esperto di grosse bevute e donne in abiti succinti.

Forza, ragazza, disse Vince. Stanno suonando la mia canzone.

La canzone era I love you in a thousand ways di Lefty Frizzell, con la sua promessa di cambiamento, di fine dei giorni tristi, una canzone con un ritmo abbastanza lento da consentire a Vince Junior di eseguire i suoi soliti trucchetti. Condusse Jessie sulla pista affollata e se la strinse contro la fibbia della cintura; poi iniziò a muoverle le braccia, a guidarla avanti e indietro in un oscillante passo a due; sul viso di lei c’era sempre la stessa espressione docile, lui continuava a sorriderle con evidente soddisfazione. Ballarono in quel modo diversi brani, ce ne furono anche un paio veloci, che consentirono a Vince di dimostrare la sua abilità nel jitterbug – la fece volteggiare, eseguendo complessi movimenti con le mani – poi si calmarono con un lento.

Tutto iniziò così, in modo piuttosto innocente, credo, perché a differenza di certi suoi concittadini, perlomeno Vince Higgims non voleva fare del male a Jessie Burdette. Non sono nemmeno sicuro che sperasse di poter approfittare di lei, una volta terminate le danze. Era soltanto ubriaco e gli piaceva ballare. Non si può dire lo stesso degli altri, però. Gli altri uomini stavano ancora pensando ai silos dei cereali.

Si misero tutti a ballare con lei. Era come se Vince avesse infranto un tabù, una barriera che delimitava i comportamenti accettabili, quindi ormai non solo era accettabile ballare con la moglie incinta di Jack Burdette, era addirittura obbligatorio; era una questione di onore della comunità e di risarcimento. E quindi quella sera a turno ballarono con lei dieci o quindici uomini. La fecero ballare con forza, girare in modo violento; se la tenevano stretta, spingendo il loro ventre flaccido contro la sua pancia gonfia e solida. Da quel momento in poi, le fecero ballare ogni brano. E ogni volta Jessie sembrava gradire, sorrideva e parlava in tono piacevole con tutti gli uomini che la stringevano. Alla fine, però, quando il gruppo smise di suonare e le luci si riaccesero, era molto pallida; stava sudando e il suo vestito aveva un aspetto grinzoso, logoro, macchiato, come se fosse diventato più dozzinale. Jessie tornò a casa esausta.

Ma ormai era già diventata una routine: quel metodo di pagamento destinato a durare tre settimane e valido solo nella contea di Holt era ormai in vigore e accettato. Quindi la terza volta, il terzo sabato sera di maggio, si svolse allo stesso modo, però andò peggio. Questa volta non solo gli uomini ballarono con lei nella stessa maniera feroce e vendicativa, ma insistettero anche per offrirle da bere. Jessie indossava lo stesso vestito rosso, lavato e stirato, che evidenziava la settimana di gravidanza in più. Era ancora più aderente, più pieno, le cuciture sembravano sul punto di saltare; più su, nella profonda scollatura, le vene azzurre spiccavano sui suoi grandi seni. Eppure ballò con ogni uomo che la invitava. Danzarono e danzarono – valzer, jitterbug, passo a due country, una specie di foxtrot locale molto sincopato – qualsiasi cosa quegli uomini si sentissero capaci di danzare, a prescindere dalla violenza e dall’energia richieste. E quei balli, se così si possono chiamare, quell’intensa frenesia collettiva si interrompeva solo quando il gruppo smetteva di suonare. Nella pausa tra una serie di brani e l’altra, appena dieci minuti, bevevano. La facevano sedere su uno sgabello al bancone e la circondavano in tre o quattro, raccontandole barzellette e offrendole da bere; anche in questo facevano a turno, le ordinavano un bicchierino doppio di scotch o di whiskey o di vodka – senza curarsi che mischiasse alcolici in combinazioni insensate – le ordinavano da bere e insistevano perché bevesse. E lei accettava. Accettava tutto, sembrava gradire tutto, come se fosse obbligata a soddisfare ogni richiesta.

Va da sé che al termine della serata era ancora più sfinita del sabato precedente. Per giunta era a un passo dall’ubriachezza. Quando le luci finalmente si accesero, quando l’ultimo uomo smise di ballare con lei, Jessie riuscì a stento ad allontanarsi dalla pista. Faceva fatica a stare in piedi, barcollava a ogni passo. Eppure non disse niente. Niente che potesse suonare come un lamento, voglio dire. E quando l’ultimo uomo pensò di chiederle se sarebbe tornata la settimana dopo, lei rispose: Tu vuoi che venga, no?

Ma sì, certo. Sai bene che ci sarò. Ci saremo tutti.

Allora verrò anch’io.

E ci andò. Solo che a quel punto molte donne e alcuni uomini della città iniziavano a sentirsi un po’ inquieti, un po’ a disagio con quella peculiare forma di gioco e divertimento settimanale. Quindi la settimana seguente, l’ultimo sabato di maggio, non tutti si presentarono. Jessie però c’era. Poi per parecchio tempo non si sarebbe più vista al Legion.

Le cose andarono come al solito. Indossava lo stesso vestito rosso, ormai una specie di uniforme, un elemento essenziale della routine, come anche il viso eccessivamente truccato. E così pure il bere, era ovvio che aveva già bevuto parecchio prima ancora di arrivare al Legion. Entrò nella sala da ballo verso le nove e questa volta non si prese nemmeno il disturbo di mettersi su uno sgabello. Si fermò in attesa sulla porta, con la musica, il fumo e le risate già molto forti intorno a lei. Non rimase ad aspettare a lungo: due o tre uomini si accorsero di lei nello stesso momento e la fecero entrare.

Cosa bevi? le chiese uno.

Non vuoi prima ballare?

No, prima beviamo qualcosa. Offro io.

Va bene, rispose lei. Un whiskey sour, grazie.

Faglielo doppio, ordinò lui.

Lei lo buttò giù in fretta, come se fosse soltanto acqua oppure gassosa, come fosse inconsapevole di ciò che stava bevendo e dell’atmosfera che la circondava. Quando ebbe finito, posò il bicchiere ed esclamò: E adesso chi mi invita a ballare? Pensavo che sapeste ballare, ragazzi.

Ti faccio vedere io come si balla, rispose uno di loro. Forza.

Era Alden Haines, un uomo di quarantatré anni che aveva divorziato da poco e coltivava granturco a est della città. Non era cattivo, ma era ancora arrabbiato per il divorzio: era stata sua moglie ad avviare le pratiche. Ma, cosa ancora più rilevante, era un socio della cooperativa degli agricoltori. Vediamo se riesci a starmi dietro, le disse.

La condusse in pista. Facendosi largo senza troppe cerimonie tra le altre coppie, iniziò subito a farla girare e volteggiare bruscamente. Jessie gli stava dietro, muovendolo avanti e indietro o lanciandosi in giravolte senza lasciare le sue braccia tese. Osservandola, pareva in preda a una concentrazione febbrile, come se fosse decisa a sondare i suoi limiti personali. Alla fine della canzone lei e Haines erano sudati. Il gruppo suonò un brano più tranquillo e lui la strinse a sé, tenendole le mani salde sulla schiena, mentre lei lo stringeva alla nuca. Haines la condusse all’indietro attraverso la pista al ritmo lento della musica. Nessuno dei due parlava. Quando anche quella canzone terminò, si inserì qualcun altro e ricominciò tutto daccapo, con la stessa intensità, con la stessa febbrile determinazione. Andò avanti così finché non ci fu una pausa.

Il gruppo smise di suonare per dieci minuti e gli uomini le offrirono da bere al bancone. Le stavano intorno, e non parlavano davvero con lei, più che altro chiacchieravano e scherzavano tra loro, senza perdere d’occhio il livello del liquore nel suo bicchiere; anche il resto dei clienti del Legion quella sera stava bevendo parecchio. Le due o tre cameriere non facevano che portare vassoi carichi di bicchieri e bottiglie ai tavoli. Qualcuno dall’altra parte della sala si mise a lanciare cubetti di ghiaccio a una delle cameriere per chiamarla. Falla finita, urlò lei. Ti ho visto, arrivo tra un minuto.

I dieci minuti di pausa terminarono. Il gruppo prese di nuovo posto in fondo al locale e riattaccò a suonare. Alden Haines riportò in pista Jessie. Era un pezzo veloce, un’interpretazione di That’ll be the day. Lui tese un braccio e con violenza le fece fare una piroetta, e fu la fine. Praticamente non avevano ancora cominciato, ed era già tutto finito. Credo fosse stata colpa dei cubetti di ghiaccio sul pavimento. O magari durante la pausa qualcuno aveva rovesciato della birra o del liquore in pista. Nessuno sapeva bene cosa fosse successo. Fatto sta che un piede le scivolò su qualcosa di bagnato e lei finì a terra. Mentre cadeva, tentò di non perdere l’equilibrio, ma non ci riuscì; cadde in avanti, con forza, e non si rialzò subito. Rimase là nel suo vestito rosso mentre tutti intorno a lei smettevano di ballare. Si girò su un fianco e si rannicchiò. Haines si chinò su di lei.

Stai bene? chiese. Riesci ad alzarti?

La prese sottobraccio per aiutarla a rimettersi in piedi. Era molto pallida. Era di nuovo sudata, aveva il viso lucido come un cencio bagnato in quella luce fioca. Rimase malferma sulle gambe in mezzo alla pista, mentre Alden Haines la reggeva per un braccio e tutti gli altri la guardavano.

Credo di aver bisogno del bagno, disse.

Vuoi che ti accompagni di sopra?

No, voglio stare sola.

Più tardi fu chiaro che le doglie erano già iniziate quando era ancora ferma sulla pista – i presenti ricordano di averle visto una concentrazione particolare negli occhi, una sorta di sguardo rapido e intermittente – ma Jessie rifiutò qualsiasi aiuto. Si allontanò dalla pista da sola, superò il bancone, salì le scale e si diresse verso i bagni, accanto all’ingresso del locale. Entrò, si infilò in uno dei gabinetti e si sedette. Gli altri la aspettarono fuori. Dopo dieci minuti, visto che non usciva, alcune donne entrarono a vedere come stava. Era ancora seduta sul water, non era svenuta ma era immobile e pallidissima. Era abbandonata in avanti. Nella tazza c’erano grumi di sangue. Una delle donne uscì e disse di chiamare un’ambulanza.

I soccorritori arrivarono nel giro di cinque o sei minuti. Entrarono e la portarono fuori su una sedia a rotelle, reclinandola prima all’indietro per scendere i gradini esterni del locale, poi spingendola su per uno scivolo per caricarla sull’ambulanza, quindi partirono. Successe tutto piuttosto in fretta – l’ospedale si trova a soli tre o quattro isolati a est del Legion – ma se anche ci avessero messo un’ora non sarebbe cambiato niente.

Arrivati in ospedale, la portarono in pronto soccorso e il dottor Martin la fece sdraiare su un lettino e la visitò. Le sollevò il vestito e notò il sangue. Poi si mise ad auscultare il battito cardiaco del feto. Ma non sentì nulla: la bambina dentro di lei era già morta. In seguito avrebbe dichiarato che c’era stato un distacco della placenta. Quando Jessie era caduta, era subito iniziato il travaglio e la bambina era morta in pochi minuti per mancanza di ossigeno, probabilmente nel tempo che Jessie era stata in bagno. In ogni caso non glielo disse. Non voleva sconvolgerla: doveva ancora partorire.

Le fecero un’iniezione di ossitocina per stimolare le contrazioni. Ma il travaglio durò quasi dieci ore e Jessie perdette altro sangue, rischiando di morire. Alla fine però partorì la bambina domenica in tarda serata.

La sollevarono per fargliela vedere un istante. La bambina era livida, ma per il resto l’aspetto era quasi normale. Jessie allungò la mano per toccarle un piede. Poi la portarono via e una delle infermiere disse: Mi spiace molto, signora Burdette.

La gente di Holt pensava che a quel punto avrebbe pianto. Pensavano che sarebbe crollata. Immagino fosse quello che volevano. Ma lei non lo fece. Forse aveva oltrepassato il punto in cui le lacrime di un essere umano hanno un senso, difatti girò la testa, chiuse gli occhi e dopo un po’ si addormentò.

Rimase in ospedale per quasi tutta la settimana. In quei giorni fu la signora Waters, la vicina, a occuparsi di TJ e Bobby. Non appena la loro madre fu in grado di ricevere visite, l’anziana li portò da lei; Jessie parlava con loro ogni giorno, li teneva per mano, spazzolava via i capelli dalla fronte. Si rifiutò di parlare della bambina che aveva partorito con il personale dell’ospedale e si rifiutò seccamente di parlare con il pastore della cittadina quando questi andò a trovarla nella sua stanza. Preferì starsene sdraiata in silenzio a guardare fuori dalla finestra. Alla fine della settimana, la dimisero e lei tornò nella casa del vecchio Fenner, in Hawthorne Street. Dopo un’altra settimana riprese a lavorare all’Holt Café. Nei mesi seguenti continuò a riempire tazze di caffè e a portare fuori dalla cucina bistecche con patate.

Io non so che valore monetario attribuiscano alle bambine dalle altre parti, ma nel maggio di quell’anno scoprimmo che qui centocinquantamila dollari – meno il valore della casa con due camere da letto in centro città – sembravano un importo appropriato.

9

Tutto questo succedeva nella primavera del 1977. Dopo, le cose a Holt tornarono a una tranquilla normalità. Jessie continuò a vivere nella periferia ovest di Holt con i suoi figli. I ragazzini crescevano, lei andava ogni giorno a lavorare all’Holt Café e un po’ alla volta la gente del posto smise di parlare di suo marito. Ovviamente Charlie Soames era ancora là. Continuava ad annuire e biascicare cose senza senso mentre innaffiava il prato o se ne stava seduto sul dondolo in veranda. Con il tempo però tutti si abituarono alla sua presenza, quindi vederlo non li faceva più infuriare. Iniziarono a dimenticare qual era stato il suo ruolo negli eventi di quella primavera. Ormai, ammesso che pensassero a lui, lo consideravano semplicemente un vecchio scemo che viveva in città, in Cedar Street. La situazione a Holt tornò a essere tranquilla e ripetitiva.

Ma nell’estate del 1982 accadde un’altra serie di fatti che ebbe un’importanza fondamentale in questa storia. Questi fatti iniziarono a Holt con la morte di un’altra figlia.

Era una splendida ragazza. Assomigliava a sua madre. Aveva i folti capelli neri e la pelle candida di Nora, le ossa sottili e un’aria sveglia e graziosa; anche gli occhi erano azzurri come quelli della madre. Ma in un certo senso era simile anche a me. Non le piaceva stare in casa. Voleva uscire, andare dove succedevano le cose; era ansiosa di imparare.

Gli amici la apprezzavano molto e da ragazza era quasi sempre fuori casa, in giro, magari anche solo su e giù per Main Street sulla macchina di qualcuno. In ogni caso, lei e sua madre erano molto unite. E credo che Nora in segreto si compiacesse del fatto che, almeno da questo punto di vista, Toni fosse diversa da lei, era vivace e socievole e piena di amici, perché Nora di amici ne aveva davvero pochi e spesso si sentiva molto sola a Holt. Non le era mai piaciuto viverci; era un posto troppo rozzo per lei; non c’era la benché minima traccia di una cultura in cui si potesse riconoscere. Di conseguenza, trascorreva molto tempo da sola, a occuparsi del giardino: coltivava rose, ne aveva tante. Spesso nei fine settimana andava a Boulder a trovare suo padre, il professor Kramer, che stava invecchiando. Quando tornava a Holt rimaneva allegra per un giorno o due. Ma durava poco. Dopo diciotto anni di matrimonio, avevamo raggiunto un tacito, infelice compromesso: restavamo insieme per il bene di Toni. Non parlavamo del futuro e anche se di fronte a nostra figlia di solito eravamo gentili e fingevamo di essere contenti, eravamo essenzialmente indifferenti l’uno all’altra. Eppure, nell’estate del 1982, parve impossibile continuare a simulare persino quello.

Nella contea di Holt, la sera in cui finivano le scuole superiori, i ragazzi avevano l’abitudine di fare una festa in aperta campagna portando dei fusti di birra. Di solito la finanziavano alcuni genitori: la presenza di qualche adulto sembrava una buona cosa per evitare che i ragazzi esagerassero e per controllare che, quando tornavano a casa alle prime ore del mattino, ci fosse qualcuno abbastanza sobrio da riuscire a guidare. Oltre alla birra, i genitori provvedevano allo spuntino di mezzanotte e in quel modo la festa aveva sempre funzionato a dovere. Per i ragazzi era una serata memorabile, che segnava il passaggio all’età adulta, e nessuno aveva mai avuto problemi.

Quell’estate Toni, la nostra figlia sedicenne, era andata alla festa. Non aveva ancora finito le superiori – aveva fatto la seconda alla Holt County Union High School – ma stava con uno dell’ultimo anno, quindi era andata con lui. Era un bravo ragazzo. A Nora e a me piaceva. In generale era una persona responsabile e con Toni era affettuoso e gentile. Stavano insieme da quasi un anno. Si chiamava Danny Pohlmeier.

La sera della festa Nora e io eravamo andati a dormire come al solito, dopo aver guardato il telegiornale delle dieci. Poi, verso le quattro, ci aveva svegliati la polizia. Dale Willard, il vicesceriffo, era venuto a bussare alla nostra porta. Mi infilai i pantaloni per scendere ad aprirgli. Willard era sulla veranda buia. Accesi la luce. Vidi che aveva una faccia stanca e terrea.

C’è stato un incidente, disse. È meglio se vieni in ospedale.

Cos’è successo? È Toni?

La faccenda è seria.

Cioè, si è fatta molto male?

Willard rimase in silenzio.

Dimmelo. Si è fatta molto male? ripetei.

È meglio se vieni all’ospedale. Non so come dirtelo.

Vuoi dire che è peggio di così?

Willard mi diede una rapida occhiata. Mi dispiace, disse. Non c’era altro da aggiungere. Fece per andarsene dalla veranda. Poi si fermò e si voltò verso di me. Ti aspetto in macchina. Se vuoi.

Rimasi a fissarlo per un momento. Riprese a camminare verso l’auto blu della polizia della contea parcheggiata lungo il marciapiede, ci entrò, chiuse la portiera senza rumore e rimase seduto ad aspettare con le mani sul volante, guardando dritto davanti a sé attraverso il parabrezza. Io non riuscivo a muovermi. In veranda faceva fresco. Soffiava una brezza leggera. Le stelle erano altissime e luminose sopra di me. Oddio. Mi decisi ad andare di sopra per dirlo a Nora.

Era sveglia, si era seduta sul letto. I suoi capelli spiccavano neri sulla camicia da notte e sulle spalle candide. Chi era? chiese.

Dale Willard.

Cosa voleva? Non è un poliziotto o qualcosa del genere?

È il vicesceriffo.

Cosa voleva?

È per Toni, risposi. Dice che è all’ospedale. Si è fatta male.

No, esclamò Nora. Oh no. No.

Poi tacque. Spalancò gli occhi, li socchiuse, mosse le labbra, senza che ne uscisse alcun suono. Era come se si stesse impedendo di mostrare qualunque emozione. Si vestì e scese le scale.

Dale Willard era ancora di fronte a casa nostra, nell’auto della polizia della contea.

Vuoi andare con lui? chiesi. Ci sta aspettando.

Nora scosse il capo.

Dissi al vicesceriffo che preferivamo andare con la nostra macchina. Poi partimmo per l’ospedale. Le strade erano deserte e silenziose, le case ancora buie, ma Dale Willard ci seguì lo stesso. Credo si sentisse responsabile, voleva essere sicuro che riuscissimo ad arrivare tutti interi.

In ospedale, una delle infermiere ci venne incontro all’entrata posteriore e ci indicò una sala d’aspetto. Poi se ne andò. Dopo un attimo arrivò il dottor Martin e noi ci alzammo per ascoltare ciò che aveva da dirci. Li aveva trovati un ragazzo che stava tornando a casa mezz’ora dopo di loro. Toni e Danny Pohlmeier se n’erano andati dalla festa insieme, verso le due e mezzo, a quanto pare lui guidava troppo veloce ed era finito sulla sabbia che c’era sul ciglio della strada di campagna. Doveva aver cercato di rimettersi in carreggiata troppo in fretta e la macchina si era cappottata quattro o cinque volte. Non sapevano con certezza quante, e quando si era fermata, si era ribaltata nel fossato lungo la strada. C’erano vetri dappertutto e il tetto era schiacciato allo stesso livello del cofano e del bagagliaio.

Toni dov’è adesso? chiesi.

Il dottor Martin ignorò la mia domanda. Proseguì. Pensava che Danny Pohlmeier ce l’avrebbe fatta. C’erano buone speranze. Era giovane e sano. In ogni caso era troppo presto per saperlo con certezza. Stavano organizzando il trasporto in elicottero a Denver.

Toni dov’è? chiesi.

Il dottor Martin guardò Nora. L’abbiamo messa in una stanza qui in fondo al corridoio. Non credo abbia sofferto. È successo troppo in fretta. Sono quasi certo che non abbia sofferto.

Dov’è? Vogliamo vederla.

Non so se è il caso.

Sì, esclamai. Vogliamo vederla.

Guardò di nuovo Nora. Lo stava fissando, rigida.

D’accordo, disse il dottore.

Presi Nora sottobraccio e lo seguimmo lungo il corridoio fino a una stanza del pronto soccorso. Dentro, su un lettino, c’era una piccola figura coperta da un lenzuolo bianco.

Vogliamo stare soli, dissi.

Il dottor Martin mi prese una mano e la strinse e mise un braccio sulle spalle di Nora. Stava per aggiungere qualcosa, ma evidentemente ci ripensò. Uscì e chiuse la porta.

Quando se ne fu andato, Nora sollevò il lenzuolo. A quel punto vedemmo quel che restava del volto di Toni. I capelli neri erano ingarbugliati su un lato della testa e la faccia era gonfia e incolore. Aveva gli occhi socchiusi. Il viso era pieno di brutti tagli, aveva perso sangue dal naso e dalla bocca. C’era sangue nelle narici e ancora di più agli angoli della bocca.

Oddio, esclamai. Basta così, Nora. Ricoprila. Dio santo.

Ma Nora sollevò il lenzuolo per vedere tutto il corpo di Toni. Le avevano tagliato i vestiti. Nostra figlia sembrava piccolissima e distrutta. Nora le passò delicatamente le dita sulle braccia ferite, poi andò a prendere un Kleenex da una scatola sul bancone e lo inumidì con la lingua per pulirle il sangue secco dalla bocca. Si chinò, le diede un bacio sulla fronte e la ricoprì.

Poi tornammo a casa. Ormai era l’alba. Qualche ora dopo arrivò John Baker, l’impresario delle pompe funebri, e organizzammo il funerale. Un paio di giorni dopo, Toni venne sepolta nel cimitero della contea di Holt, a nordest della città.

Il volto di Toni era irriconoscibile, anche se John Baker aveva fatto del suo meglio. Non era altro che la maschera incipriata di una qualsiasi ragazza morta, sembrava di cera. Quindi non avevamo acconsentito a lasciare aperta la bara, nessuno aveva potuto vederla nella camera ardente le sere prima del funerale. Il funerale fu imponente; c’erano tutti i suoi amici della scuola, molti dei loro genitori e parecchia altra gente. L’altare della chiesa era coperto di fiori. Il pastore parlò e ricordo che ci fu della musica, poi, al cimitero, dopo le brevi preghiere e il rito, i partecipanti sfilarono davanti a noi, che eravamo in piedi sotto un tendone verde montato accanto alla tomba, per stringerci la mano. Quando fu tutto finito e non era rimasto più nessuno, Nora e io rientrammo in una casa che sembrava totalmente silenziosa. Le cerimonie pubbliche non erano servite a nulla.

Venimmo a sapere che Danny Pohlmeier era sopravvissuto, come aveva detto il dottor Martin. Rimase in ospedale a Denver per due o tre mesi e poi ingessato più o meno per altri sei. Tornato a casa, una sera venne a parlare con noi. Si mise sul divano e pianse coprendosi il volto con le mani mentre ci raccontava com’era successo. Quando smise di parlare, non rimase molto altro da dire. Lo accompagnammo alla porta e se ne andò. Nora e io non lo incolpavamo per l’accaduto. Non eravamo in quello stato d’animo. Era un bravo ragazzo ed era ovvio che stava molto male. Eppure non lo nominammo mai più.

In realtà avevamo praticamente smesso di parlarci. Fu un’estate orribile. Nora era più taciturna e persino più introversa che mai. Di notte non riusciva a dormire e cominciò a prendere delle pillole. Al mattino si alzava tardi, con il mal di testa, e si aggirava in silenzio per casa. Di sera si dedicava ancora un po’ al giardino, in mezzo alle sue rose, strappava le erbacce e spruzzava insetticida sui fiori, che però non le interessavano più e, quando se ne occupava, aveva cominciato a indossare dei guanti bianchi. Erano gli stessi guanti che in precedenza usava per andare in chiesa e agli incontri dell’associazione femminile; ormai le servivano a proteggersi le mani dalla terra in cortile. Era come se avesse paura che quell’angolo di contea di Holt potesse contaminarla. Alla fine dell’estate convenimmo che sarebbe stato meglio se avesse lasciato la città per un po’.

Con il vicinato giustificammo la sua partenza in un altro modo. Quella primavera suo padre aveva dovuto smettere di insegnare all’università e aveva deciso di trasferirsi a Denver perché voleva stare in una grande città. Gli serviva una mano per traslocare. Quindi all’inizio di settembre Nora era andata a Boulder per aiutarlo nei preparativi. Il fatto che sarebbe stata via per un po’ fu un sollievo sia per lei sia per me.

Poi si rifiutò di tornare. Fu allora che affittò per suo padre il grande appartamento in Bannock Street, al piano terra di una vecchia casa vittoriana. Era un posto spazioso. Aveva le finestre con i vetri a piombo e all’esterno, sui muri di mattoni, cresceva l’edera; una cancellata in ferro battuto separava la casa dal marciapiede e dalla strada. Evidentemente al vecchio quella casa piaceva molto ed era proprio soddisfatto di sua figlia, arrivò persino a dirglielo. Quindi Nora rimase ancora qualche tempo per aiutarlo a sistemare la scrivania e i libri. Poi decise di restare definitivamente con lui. Si trovò un lavoro alla biblioteca comunale, in centro città, e ogni sera tornava a casa e gli preparava la cena. Entrambi sembravano apprezzare quella soluzione. Nora me lo comunicò per lettera. È così che venni a sapere che non sarebbe tornata.

Non sapevo bene cosa pensare. In verità non sentivo granché la sua mancanza. Era più facile stare in casa senza di lei, senza doverla vedere ogni giorno. Eppure dopo una settimana o due, una domenica, andai a trovarli a Denver. Invitai al ristorante Nora e il padre. Il posto l’avevano scelto loro. La tovaglia era di lino bianco e i tovaglioli di lino erano piegati a cono sul tavolo; accanto ai piatti bianchi c’erano le posate in argento massiccio. C’erano anche diversi bicchieri. Il professor Kramer ordinò il vino e quando il cameriere portò la bottiglia, il vecchio, compassato, fece la sua piccola cerimonia annusando il tappo e tastandolo con le sue dita incartapecorite. Decise che era sufficientemente umido, il che, ci spiegò, dimostrava che la bottiglia era stata conservata sdraiata, impedendo al tappo di seccarsi. Il cameriere gli versò un po’ di vino, lui lo assaggiò e a quanto pare andava bene. Ne bevemmo un bicchiere.

Fu un pranzo lungo e complicato, di quattro o cinque portate. Ma Nora e il vecchio parvero apprezzarlo. Devo ammettere che il viso di Nora era tornato grazioso; il rigido autocontrollo che aveva mantenuto per tutta l’estate sembrava essersi allentato e lei aveva riacquistato la sua aria da ragazzina. Sedeva accanto al padre ed era molto premurosa con lui. Discutevano di ogni portata non appena il cameriere la serviva, assaggiavano i piatti ordinati dall’altro e li confrontavano. Alla fine del pranzo facemmo un giro in macchina per il centro, attraversammo la città e il parco, con lo zoo e il museo; al ritorno passammo dalla zona commerciale di Cherry Creek e poi dalla Broadway e da Bannock Street. Rientrati a casa, il professor Kramer decise di fare un pisolino.

Ma certo, commentò Nora. Riposati un po’, caro.

Però non farmi dormire troppo. Lo sai che non devo dormire troppo.

No. Solo un’ora.

Non di più.

Ti sveglio tra un’ora. Poi beviamo il tè.

Lo seguì in camera da letto. Attraverso la porta aperta, la vidi chinarsi su di lui, togliergli le scarpe e sistemargli la coperta. Erano molto affettuosi; si chiamavano “caro” e “cara”.

Quando Nora tornò in salotto, le dissi: Perché non andiamo a fare due passi? Ho bisogno di prendere aria per digerire il pranzo. Magari potremmo anche parlare un po’.

Stava scendendo la sera. Era autunno e gli alberi di fronte alle vecchie case del quartiere stavano iniziando a cambiare colore. L’appartamento che avevano affittato era in un vecchio quartiere benestante di Denver. Un tempo doveva essere stata una zona molto gradevole; c’erano grandi case di mattoni costruite prima della fine dell’Ottocento, ma erano state quasi tutte divise in appartamenti e le strade erano piene di macchine parcheggiate. Camminammo verso sud lungo Bannock Street per cinque o sei isolati, poi svoltammo a destra e vedemmo le montagne alte e bluastre in lontananza, poi girammo a destra altre due volte e ci ritrovammo al punto di partenza. Era bello camminare. C’era un fresco piacevole e vedemmo parecchie famiglie d’origine ispanica sedute nelle grandi verande delle case del quartiere, ascoltavano musica, bevevano birra e chiacchieravano, mentre i loro bei ragazzini con i capelli neri giocavano nei cortili o giravano in bicicletta sui marciapiedi, e io pensai che in quel quartiere ci fosse un senso di vita reale, di cose che succedevano e che sarebbe stato interessante conoscere. Ma Nora volle presto tornare a casa da suo padre. Dovrei svegliarlo, mi spiegò. Se dorme troppo, poi stanotte non si addormenta più.

Allora rientriamo, se vuoi.

Sì, è meglio.

Camminammo ancora un po’.

È questo che vuoi, vero? Vuoi restare qui a vivere con tuo padre? E a lavorare in biblioteca?

Sì. A te non piacerebbe. So che non ti piacerebbe, ma a me sì. È la vita che fa per me.

Be’. Ti auguro di essere felice.

Oh, per favore. Non metterla in questo modo.

Non la sto mettendo in nessun modo. Ti auguro di essere felice. Dico sul serio.

Ci ho provato, disse. Ci ho provato, non ci credi?

Sì. Ci credo. Credo che ci abbiamo provato tutti e due.

Grazie per quello che hai detto. Mi toccò un braccio e poi ritrasse la mano.

Sì. Insomma. Mi manca Toni. Non posso farci niente.

Lo so, disse Nora. Manca anche a me.

Poi arrivammo all’appartamento. Ci fermammo sul marciapiede di fronte alla cancellata.

Vuoi entrare? mi chiese.

No. Penso di no. Vai pure.

Grazie per il pranzo.

Ciao, le dissi.

Salì in casa. Rimasi ancora un momento a guardare le luci dell’appartamento che si accendevano. Poi Nora tirò le tende, allora salii in macchina e uscii da Denver, attraversai le High Plains e tornai a casa, a Holt.

Rimasi solo per un bel po’. Non era Nora a mancarmi, il difficile era vivere in una casa in cui non c’era più nessuno. Immagino che dopo diciotto anni di matrimonio, per quanto infelici, sia normale sentire la mancanza del suono e della presenza di qualcuno quando rientri in casa. Toni mi mancava in modo terribile.

Col tempo presi l’abitudine di cenare al ristorante per rimandare l’ora del rientro e spesso andavo all’Holt Café. Jessie Burdette lavorava ancora là. Era molto attraente in camicetta gialla e pantaloni neri, con dei pettinini che le tenevano lontani dal viso i capelli castani. Aveva trentun anni ormai. Era una cameriera molto esperta ed era piacevole vederla e scambiare due parole con lei in quelle serate.

Lavoravo stabilmente all’Holt Mercury, pubblicavo qualsiasi cosa fosse utile e interessante per i miei concittadini, senza tentare nulla che richiedesse troppo sforzo, soltanto le tipiche notizie da settimanale di una cittadina di provincia. Poi una sera all’Holt Café, quando Jessie mi portò il conto, le chiesi se volesse un passaggio a casa dopo il lavoro. Quella sera faceva freddo e sapevo che di solito tornava a casa a piedi.

Mi spiace, rispose. Stasera sono in macchina. Sono uscita tardi, a piedi non sarei arrivata in tempo.

Ah, be’, magari un’altra volta.

Ma certo. Facciamo un’altra volta, disse. Ti va ancora qualcosa? Un dolce?

A posto così.

Posò il conto sul tavolo e portò i piatti sporchi in cucina. Io finii il caffè. Che sciocchezza, pensai. Le mancava solo che mi mettessi a romperle le scatole. Mi alzai e andai alla cassa. Jessie stava sparecchiando un altro tavolo. La attesi finché non arrivò, pagai e lei mi diede il resto; feci per andarmene.

Senti, Pat, disse. Aspetta. Ti va di venire a casa mia? Ti faccio il caffè.

Con piacere, se non è un problema.

Qui ne ho ancora più o meno per un’ora.

Va bene.

Facciamo verso le sette e mezzo?

Va bene.

Si mise a ridere. Davvero ti va bene?

Ricambiai il sorriso. Sono proprio tonto. Mi sa che sono fuori allenamento.

Lo so, rispose.

Uscii. Pensai di portarle qualcosa, un paio di fette di torta o dei dolci da mangiare con il caffè, ma a quell’ora la panetteria era chiusa, erano aperti solo i bar, i negozi di alcolici e il minimarket. Quindi tornai in ufficio, lavorai per un’ora e aspettai un’altra mezz’ora; poi chiusi la porta e andai da lei in Hawthorne Street.

Quando entrai sulla veranda, TJ e Bobby stavano guardando la televisione in salotto. Li vidi dalla finestra. Suonai il campanello e Jessie venne ad aprirmi. Lui è il signor Arbuckle, disse, è il proprietario del giornale. I suoi figli mi guardarono. Magari potreste dirgli buonasera.

Buonasera, dissero. Poi ripresero a guardare la televisione.

Jessie mi condusse in cucina. Era pulita e allegra, c’era spazio per un grande tavolo e quattro sedie. Vuoi sederti? chiese. Metto su il caffè.

Carina la casa, dissi.

Non è male. E comunque non è troppo cara.

La guardai mentre preparava il caffè. Appena tornata dal lavoro si era cambiata; adesso indossava una maglia blu a maniche lunghe e dei Levi’s stinti e sembrava si fosse appena pettinata. Quando il caffè fu pronto, si sedette di fronte a me al tavolo della cucina.

Non so di cosa parlammo quella prima sera... be’, sì, certo che lo so. Parlammo di noi, della sua infanzia a Tulsa, della madre disabile, del padre, dei fratelli e io le raccontai qualcosa su com’era crescere a Holt. All’inizio fu imbarazzante. Bevemmo diverse tazze di caffè e alle nove e mezzo Jessie disse: Scusami un minuto, e andò in salotto. Avvertì i bambini che era ora di dormire. Loro spensero il televisore e attraversarono la cucina per andare in bagno. Io ero ancora seduto al tavolo e quando i ragazzini attraversarono la stanza mi lanciarono un’occhiata diffidente. La porta del bagno si chiuse e io li sentii lavarsi i denti e parlare sottovoce tra loro. Poi uscirono e si fermarono al tavolo per farsi dare un bacio da Jessie.

Adesso andate a letto. E non fate scherzi. D’accordo?

Mi guardarono di nuovo.

Buonanotte, dissi.

Buonanotte, rispose TJ. Poi diede una leggera gomitata a Bobby.

Cosa c’è?

Devi dargli la buonanotte.

Non so nemmeno chi è.

Devi dargli la buonanotte lo stesso.

Buonanotte, disse Bobby. Quindi uscì dalla cucina, seguito da TJ.

Dio santo, esclamò Jessie. Rise e fece una smorfia. Che modi.

Non c’è problema. Li hai tirati su proprio bene. Sono bravi bambini.

Lo pensi davvero?

Sì. Hai tutto il diritto di essere fiera di loro.

Si allungò verso di me e mi sfiorò una mano. Grazie. Sei una persona gentile, sai?

Non sono poi così gentile.

Lo sembri.

Dopo un po’ mi alzai e Jessie mi accompagnò alla porta e fuori in veranda. Ci fermammo a guardare il pascolo dei cavalli di Harry Smith dall’altro lato di Hawthorne Street. Alla luce della mezza luna si scorgevano appena le sagome delle artemisie e della yucca contro le erbacce scure.

Grazie del caffè, dissi. E iniziai a scendere le scale.

Pat.

Sì?

Pensi di venire a mangiare all’Holt Café domani?

Non so. Probabilmente sì.

Allora probabilmente non andrò al lavoro in macchina.

Allora probabilmente verrò con la mia, risposi.

Ecco, vedi? aggiunse lei. Non sei poi così fuori allenamento come pensavi.

Risi. Era la prima volta che ridevo da mesi. Magari mi torna in mente come ci si comporta.

Penso di sì.

Furono un autunno e un inverno meravigliosi. Non ero più solo e secondo me fu un bel periodo anche per Jessie. Dopo quella prima serata iniziammo a vederci quasi ogni giorno. Quando finiva di lavorare all’Holt Café, la accompagnavo al suo appartamento e poi, mentre i bambini guardavano la televisione o facevano i compiti, noi stavamo in cucina a chiacchierare. Parlavamo per ore. Non avevo mai parlato con nessuno quanto con lei, le raccontai cose che non avevo mai detto a nessuno, cose che non sapevo neppure di pensare, prima di sentire la mia voce che gliele diceva. Quella di abbassare la guardia con qualcuno fu un’esperienza inedita per entrambi, e a mano a mano che passavano i mesi, iniziai a restare nel suo appartamento fino a molto tardi, chiacchierando e bevendo caffè, poi, quando i bambini erano a letto e dormivano, spesso ci spostavamo in camera sua. Jessie era bellissima e molto affettuosa e generosa a letto, ogni giorno non vedevo l’ora di andare a prenderla, di parlare con lei, di stare con lei. Pensavo a lei di continuo.

La domenica non lavorava e durante la settimana organizzavamo cose da fare insieme ai bambini. Andavamo in campagna oppure in altre città o al cinema e, se aveva piovuto o c’era stato molto vento, andavamo in cerca di punte di frecce nei campi spogli di qualche agricoltore che conoscevo. In primavera TJ e Bobby trovarono un certo numero di frammenti di selce e qualche punta completa. Ordinammo dei libri sugli indiani delle pianure e sulle punte di freccia e li leggemmo insieme, poi una domenica passammo il pomeriggio a costruire una vetrinetta in cui sistemare le punte. I bambini la foderarono di velluto scuro. Erano soddisfatti di quello che avevano fatto e secondo me a un certo punto cominciarono a trovarmi simpatico. A me di sicuro piacevano. Erano dei bambini fantastici e io ero pazzo della loro madre.

Un giorno d’estate andammo a Denver. Era una domenica d’agosto. Partimmo da Holt verso mezzogiorno e ci dirigemmo a ovest attraverso le High Plains, costeggiammo campi di stoppie e di granturco verde e pascoli aridi; dopo un po’ cominciammo a vedere le montagne che si avvicinavano e in un paio d’ore raggiungemmo Denver. Volevamo passare lì il pomeriggio, portare i bambini al Wet World, un parco dei divertimenti dove c’era uno scivolo acquatico, e poi avevamo intenzione di mangiare al Casa Quintana.

Erano circa le due e mezzo quando arrivammo al Wet World, in South Colorado Boulevard. Prendemmo i costumi da bagno ed entrammo. Feci i biglietti e portai i bambini nello spogliatoio degli uomini, mentre Jessie andava a cambiarsi in quello delle donne. TJ e Bobby si vergognavano a spogliarsi di fronte a me; mi diedero la schiena, si tirarono su il costume e si misero gli asciugamani sulle spalle. Appena pronti, andammo ad aspettare la loro madre. Poco dopo, Jessie uscì e, dio santo, quant’era carina. Ogni volta che la vedevo mi faceva sempre lo stesso effetto. Indossava un due pezzi e aveva un asciugamano avvolto in vita. Aveva la carnagione scura e in quel momento, in estate inoltrata, la sua pelle era di un magnifico tono bruno.

Accidenti, dissi.

C’è qualcosa che non va?

Assolutamente no.

E allora che c’è?

Sei tu. Sei bellissima.

Ci dirigemmo verso lo scivolo e salimmo varie rampe di scale per arrivare in cima. Una lunga fila di gente aspettava il suo turno per lanciarsi. Si scendeva velocissimi dentro un tubo pieno di curve, seduti su un tappetino di plastica e spinti da un getto d’acqua fredda, e si finiva sparati fuori in piscina. Le persone scomparivano nel tubo e le si sentivano ridere e gridare. La coda continuava ad avanzare e finalmente toccò a noi.

Chi scende per primo? domandai.

TJ e Bobby avevano gli occhi sbarrati. Fermi sulla piattaforma, fissavano la prima curva dello scivolo.

È divertente, dissi. Vedrete.

Fa male?

Ma va’. Non fa niente. È uno spasso.

Va bene, disse TJ. Magari provo io.

Diedi i biglietti all’addetto e lui mi porse i tappetini su cui dovevamo metterci. TJ si sedette sul suo e si avvicinò lentamente al bordo della piattaforma; quando lo raggiunse, il getto d’acqua lo trascinò via e sfrecciò gridando.

Avanti il prossimo, disse l’addetto. Chi è il prossimo? C’è gente che aspetta.

Cosa vuoi fare, Bobby? gli chiesi.

Posso provare insieme a te?

Certo. La prima volta scendi con me, poi potrai fare da solo.

Mi sedetti sul tappetino di plastica e mi misi in grembo Bobby. Feci l’occhiolino a Jessie.

Ci vediamo di sotto, ragazzi, ci disse.

Scivolammo giù dalla piattaforma: io andai all’indietro con la schiena, con una mano tenevo Bobby e con l’altra mi spingevo; poi la corrente ci trascinò via e partimmo a rotta di collo in mezzo all’acqua, passammo la prima curva, ci inclinammo su un lato e proseguimmo sparati, ci furono altri giri, all’improvviso sprofondammo, poi venne un lungo rettilineo e di colpo una salita inclinata da una parte, l’acqua ci trasportava, Bobby e io gridavamo, quindi un’altra discesa, un altro breve rettilineo e finalmente ci ritrovammo all’aperto, volavamo, eravamo ancora seduti sul nostro tappetino di plastica, ma stavolta eravamo in aria, prima di ritrovarci in piscina. Andammo sotto, mi strinsi Bobby al torace e nuotai fino in superficie. Quando riemergemmo, lo sguardo di Bobby era luminoso.

Ti è piaciuto?

La prossima volta ci vado da solo.

Ci voltammo per guardare Jessie, ma uno dei bagnini in piedi sul bordo della piscina ci fece spostare per evitare che qualcuno ci piombasse addosso. Raggiungemmo TJ a bordo vasca. Uscimmo dall’acqua e aspettammo. Lei però non arrivava.

Dov’è la mamma? chiese TJ.

Non so. Era subito dietro di noi.

Come mai ci sta mettendo così tanto?

Non so. Stiamo a vedere.

Apparve all’improvviso, volò fuori dal tubo con alle spalle un uomo grande e grosso dal costume giallo, i due rimasero un attimo per aria, le gambe del ciccione avvolte intorno a Jessie, poi piombarono in acqua con un tonfo pauroso. Ricomparvero in superficie e Jessie nuotò verso di noi.

Mi scusi, disse l’uomo. Le ho fatto male? Mi dispiace.

Jessie scosse la testa e gli fece un cenno con la mano. Stava ridendo.

Cos’è successo? domandai.

Oh, rispose lei. Osservò l’uomo dal costume giallo; era sulla scaletta, stava uscendo dalla piscina e si tirò su il costume che gli era scivolato sul sedere grasso. Mi sono bloccata a metà della discesa e non riuscivo più a muovermi.

Non c’era acqua?

Sì, ma ho perso il mio coso di plastica. Poi è arrivato quell’uomo e mi è venuto addosso, mi sono ritrovata tra le sue gambe e abbiamo fatto il resto dello scivolo così.

Ti ha fatto male?

No, è stato divertente. Continuava a urlare: Mi scusi, signora. Mi dispiace. Ma non è stata colpa sua. Però era veramente grosso.

Be’, osservai. Non sarà troppo ortodosso, ma avete fatto un bel botto.

Mi sa proprio di sì, rispose Jessie.

Però non farlo più, mamma, commentò TJ. È imbarazzante.

Non l’ho fatto apposta.

Lo so. Ma è imbarazzante lo stesso.

D’accordo. La prossima volta mi farò seguire da Pat. Così va bene?

Per me sì, certo, dissi io.

Avresti dovuto sentirlo, aggiunse Jessie. Mi scusi, signora. Mi dispiace, signora. Oddio, che buffo.

Jessie ricominciò a ridere. I suoi figli, in piedi accanto a lei, la guardavano in faccia. Non penso avessero mai visto la loro madre così allegra e vivace. Si stava divertendo. Ci stavamo divertendo tutti.

Restammo quasi l’intero pomeriggio al Wet World. Jessie e io scendemmo diverse altre volte dallo scivolo insieme ai bambini, poi uscimmo, ci asciugammo e ci sedemmo a un tavolo a guardarli. Nuotavano e giocavano nell’acqua, si tuffarono per recuperare un pezzo di mattonella e poi scesero qualche altra volta dallo scivolo. Poi ci rivestimmo e tornammo alla macchina. Eravamo affamati.

Erano ormai le cinque e mezzo. Attraversammo la città per andare a West Colfax, al centro commerciale dove si trovava il Casa Quintana. Era un grande ristorante messicano in cui si mangiava piuttosto bene, ma l’attrazione principale – per i bambini – erano l’arredamento e lo spettacolino. L’intonaco delle sale era fatto apposta per sembrare adobe, fango secco, come in un villaggio messicano; l’idea era che una volta seduti a tavola ci si sentisse come in una casa di contadini. Le sale affacciavano perlopiù su una piazza centrale con una piscina a livello del pavimento sormontata da una piattaforma che imitava una scogliera. Da un’altra parte c’era una caverna che i bambini potevano esplorare. Entrammo nell’atrio e ci volle mezz’ora per avere un tavolo. Avevo dato il nostro nome specificando che volevamo un tavolo vicino alla piscina, quindi ci volle un po’ prima che se ne liberasse uno. Quando si liberò, seguimmo la responsabile. La cameriera sarà da voi in un attimo, disse. Da dove eravamo seduti, vedevamo bene la piscina e la scogliera di adobe.

La cameriera venne a prendere le nostre ordinazioni, poi arrivarono dei mariachi, che passavano da una sala all’altra cantando tristi canzoni in spagnolo. Indossavano abiti tradizionali messicani, con la giacca ricamata con fili d’argento e un grande sombrero decorato. Si fermarono al nostro tavolo e si misero a cantare ad alta voce per Jessie.

Chiedigli di cantare qualcosa di più allegro, disse.

Non conosco canzoni in spagnolo. Giusto La cucaracha.

Chiedigli quella, rispose. Sorrise ai cantanti. Dopo l’esibizione, applaudimmo e loro passarono alla sala successiva.

Poco dopo la cameriera ci portò la cena. Sul tavolo c’era una bandierina messicana, se avessimo voluto altro bastava che la sventolassimo e la cameriera sarebbe arrivata. Finito di cenare, proposi: Ragazzi, vi andrebbero delle sopapillas?

Cosa sono?

Sono delle specie di ravioli di pasta fritta. Si possono anche avere ripieni di miele.

Va bene.

Allora sventolate la bandiera.

I bambini lo fecero e la cameriera si avvicinò al nostro tavolo.

I ragazzi vorrebbero una sopapilla, dissi. E anch’io.

Tre?

Tu ne vuoi una, Jessie?

Certo.

Quattro. Con il miele.

La cameriera portò via i piatti vuoti e tornò in cucina con la nostra ordinazione. Si era appena allontanata, quando di colpo sulla scogliera sopra la piscina scoppiò un gran baccano. Due uomini stavano litigando, gridavano sciocchezze e fingevano di picchiarsi; poi entrambi estrassero una rivoltella e spararono all’impazzata e quando rimasero senza proiettili si sbarazzarono delle pistole e fecero a pugni. Ripresero a lottare sul ciglio della scogliera, finché uno dei due, il cattivo, non prese un colpo così forte che cadde in modo spettacolare nella piscina. Saltò fuori dall’acqua, grondante, e insieme all’altro, che era ancora sulla scogliera, riprese a urlare, mentre la gente applaudiva e fischiava. Guardai TJ e Bobby. Erano sbalorditi.

Non stavano facendo sul serio, vero? chiese Bobby.

Non lo so, risposi. Secondo te?

Non c’era sangue.

Non ce n’era?

Io non ne ho visto, disse Bobby.

Be’. A me pareva abbastanza reale.

Non stavano facendo sul serio, commentò TJ. Si capisce da come si è tuffato.

Mi guardarono con aria severa, studiando la mia espressione. Alla fine feci l’occhiolino. E loro mi fecero un gran sorriso.

Poi mangiammo le sopapillas, chini sul tavolo, con il miele che colava sui piatti. Jessie e io ordinammo il caffè mentre i bambini esploravano la caverna, che aveva un nascondiglio per il tesoro e l’intonaco del soffitto tempestato di pietre preziose. Quando tornarono, ne parlarono in tono entusiasta; pagai il conto e ce ne andammo. Fuori stava facendo buio e l’aria si era rinfrescata, come succede sempre in Colorado, persino d’estate.

Una volta in macchina, TJ si fece avanti dal sedile posteriore e spontaneamente disse: Grazie per averci portato qui oggi.

Oh. Prego. È stata anche un’idea di vostra madre.

Grazie, mamma, disse Bobby.

Ci siamo divertiti, ragazzi, vero?

Tornammo a casa. Quando arrivammo a Holt erano quasi le undici e mezzo. Lungo la strada TJ e Bobby si erano addormentati e Jessie e io chiacchierammo sottovoce, guardando l’aperta campagna buia e piatta, e tenendoci per mano. Dormì un po’ anche lei, appoggiata alla mia spalla. Entrando in città, rallentai e lei si svegliò. Mi fermai al loro appartamento in Hawthorne Street e mettemmo i bambini a letto. Dormivano in piedi e secondo me nemmeno si svegliarono. Jessie aprì la finestra e lasciò la porta aperta perché circolasse l’aria.

Tornammo in salotto e osservai: Adesso sarà meglio che vada a casa. È tardi.

Sei molto stanco?

Sono stanco ma è stata una giornata magnifica. Penso che i bambini si siano divertiti.

Certo, rispose lei. Ma perché non ti fermi a dormire? Non l’hai mai fatto.

Non volevo crearti problemi.

Mica è un problema. Ma magari ti riferisci alla gente di Holt.

Non voglio che mi vedano uscire di qui al mattino. Mi pare un’altra cosa se me ne vado di notte.

Tanto parlano lo stesso di noi, non pensi?

È probabile.

E allora che differenza vuoi che faccia?

Non so. Forse mi sto comportando da scemo.

Figurati, stai solo cercando di essere gentile. Ma adesso ti decidi a portarmi a letto, o no?

Be’, cavolo, risposi. Se proprio insisti.

Insisto, concluse. Andiamo a letto, per favore.

Ci spostammo nella sua camera. A letto ci fu una grande sintonia tra noi e poi, prima di addormentarci, guardammo fuori dalla finestra aperta, verso il lampione, la luce le guizzava sul viso, sulle spalle, sui seni; parlammo ancora un po’ e alla fine ci addormentammo, lei mi aveva posato la testa sul braccio e i suoi capelli castano scuro erano lisci come la seta contro il mio viso.

Questo accadeva d’estate, una domenica di metà agosto. Poi in autunno, un sabato pomeriggio di novembre, Jack Burdette riapparve all’improvviso a Holt.

10

All’inizio non ci credeva nessuno. Ma all’improvviso le cose stavano proprio così: era tornato in città dopo otto anni. Era arrivato a bordo di una Cadillac rossa ed era rimasto in macchina per un’ora in Main Street, con la gente che gli passava accanto mentre faceva compere e non prestava sufficiente attenzione per riconoscerlo, finché Ralph Bird non aveva capito chi era. E verso sera Bud Sealy l’aveva arrestato e l’aveva colpito alla nuca con il calcio della pistola, poi l’aveva spinto sul sedile posteriore dell’automobile della polizia, aveva svoltato l’angolo, percorso l’isolato che li separava dal tribunale in Albany Street e l’aveva messo in prigione.

Insomma, il fenomeno locale era di nuovo in città. Il figlio di Holt era tornato. Solo che adesso era dietro le sbarre, chiuso in una cella da cui non sarebbe uscito, cosa di cui i suoi concittadini erano ben contenti. Iniziarono subito a parlare di lui. Si dicevano l’un l’altro che finalmente avrebbero avuto soddisfazione da Jack Burdette.

Per quanto riguarda Jessie e me, lo venimmo a sapere quella stessa sera, il sabato in cui era tornato. Eravamo nel suo appartamento, stavamo guardando un film in televisione con TJ e Bobby. Erano le otto. Jessie era tornata a casa stanca dal lavoro, quindi avevamo deciso di non uscire. Poi era suonato il telefono.

Jessie era andata in cucina a rispondere. Tornò e disse che era per me.

Chi è?

Penso sia Bud Sealy.

Cosa vuole? Proprio adesso che stava iniziando la parte migliore del film.

Gli devo dire di richiamarti?

No. Vado.

Andai in cucina e presi la cornetta. Bud, sei tu?

Bud Sealy aveva un tono severo e formale. Ascolta, Arbuckle, io lo dico a te. Poi vedi tu se riferirlo anche a Jessie.

Che cosa?

Una cosa che non ti farà piacere. Non fa molto piacere nemmeno a me.

Di cosa si tratta?

Suo marito è di nuovo qui.

Cosa? Mi stai dicendo che Burdette è a Holt?

Esatto. Quel figlio di puttana è tornato. Dovresti vederlo. L’ho sbattuto in galera.

Cristo santo. Cos’è tornato a fare?

Che cazzo ne so. Non vuole dirlo. Ci fu un istante di silenzio. Ci sei? chiese Bud.

Sono qui.

Va bene. Insomma, pensavo fosse giusto fartelo sapere. Ci sarà parecchio casino.

Riagganciammo. Mi fermai a guardare il cortile dalla finestra della cucina. Fuori era buio e gli alberi erano neri e immobili. Mentre me ne stavo lì, la mia mente cominciò a correre velocissima. Da quel momento in poi sarebbe cambiato tutto.

Ero ancora alla finestra della cucina quando Jessie venne a vedere come mai non stavo tornando. Mi mise un braccio intorno alla vita.

C’è qualcosa che non va? chiese.

Sì. Ho paura di sì.

Che succede?

Oh, cristo, Jessie, esclamai.

Cos’è che non va?

Ti spiace sederti, per favore?

Le presi una sedia dal tavolo e sedetti accanto a lei. Jessie mi guardava intensamente mentre parlavo. Non sembrava troppo sconvolta e neppure perplessa per ciò che le riferii. E nei mesi successivi a quella sera, ho avuto tempo per ripensarci: non credo che si aspettasse il suo ritorno più di quanto ce lo aspettassimo noi. Più che altro, secondo me era riuscita a prendere una certa distanza, a trovare un suo equilibrio, una prospettiva da cui deliberatamente evitava di preoccuparsi delle cose che non dipendevano da lei. Aveva sofferto moltissimo dopo che lui se n’era andato, con tutto quello che aveva dovuto subire, però era sopravvissuta, e ormai era più forte di prima e vedeva le cose in un altro modo rispetto a tutti noi. Non era più disposta a preoccuparsi per uno che poteva essere a millecinquecento chilometri da lì, nemmeno se tutto a un tratto fosse ricomparso a Holt, ad appena cinque minuti di distanza da lei.

Eppure, quando le ebbi raccontato tutto, disse che non voleva più vederlo. Non voleva più avere niente a che fare con lui.

No. Non sarai costretta a vederlo, affermai.

E non voglio neppure che lo vedano TJ e Bobby.

No. Ma io dovrò farlo. Dovrò scrivere qualcosa per il giornale.

Lo processeranno?

Non so. Di sicuro è quello che vogliono, dipende dalle prove che ci sono ancora contro di lui.

Fissò lo smalto bianco del tavolo della cucina. Dopo un po’ disse: Bisogna che lo dica a TJ e Bobby.

Sì.

Sarà meglio se glielo dico subito.

Tornò in salotto. Spense il televisore e la sentii parlare; sentii le loro domande e la sua voce tranquilla che rispondeva, rassicurante. Rimasi seduto al tavolo a pensare.

Questo accadde il sabato sera. Il lunedì andai a trovare Jack Burdette in carcere. Jessie non era andata a lavorare e aveva tenuto i bambini a casa da scuola. Pensammo che fosse meglio lasciar passare un po’ di tempo. Erano impauriti e agitati. Eppure il giorno dopo tornarono a scuola e Jessie riprese a lavorare. Non avevano intenzione di sottrarsi alla realtà.

Il lunedì pomeriggio, quando arrivai in tribunale, nel parcheggio sul retro c’era un gruppo di uomini, seccatori e pensionati in berretto da baseball e camicia con le maniche lunghe, che osservavano l’automobile di Burdette. La polizia l’aveva spostata da Main Street la domenica mattina e adesso si trovava lì, lunga, rossa e scintillante. Di fianco alle macchine della gente del posto, sembrava un affronto. Gli uomini parlavano e gesticolavano.

Dovremmo venire qui con la fiamma ossidrica e fare a pezzi questa macchina del cazzo, disse uno di loro.

E spartircela, aggiunse un altro. Che figlio di puttana. Erano i nostri soldi.

Entrai e scesi nell’ufficio dello sceriffo. Bud Sealy era stravaccato alla scrivania, stava leggendo una rivista. Aveva l’aria stanca. Gli dissi che volevo parlare con Burdette.

Vai pure, rispose Sealy. Provaci.

Non parla?

Non molto. Ci siamo detti qualcosa l’altra sera quando l’ho messo dentro. Poi non ha più aperto bocca.

Non ti ha detto niente?

Sì, sì. Ma niente di interessante.

Voglio provarci lo stesso.

Certo. Un tempo voi due eravate amici, no? Magari con te parla.

Raggiunsi la zona delle celle. Come giornalista, c’ero stato un certo numero di volte in passato, e come al solito c’era un odore sgradevole, rancido e opprimente. Tre celle erano vuote, la quarta era occupata da Burdette. Lo vidi attraverso le sbarre.

Era sdraiato su una scomoda branda troppo corta per lui, con i piedi fuori dal materasso. Erano nudi e callosi; lui indossava ancora la stessa camicia a scacchi sgualcita e gli stessi pantaloni scuri che aveva il sabato quando era arrivato. In un angolo della cella c’era un piccolo lavandino accanto a un water senza coperchio. Aveva un pessimo aspetto, insomma, e se non avessi saputo chi era non so se l’avrei riconosciuto. Era sciupato, esageratamente grasso, sembrava malato. In effetti pensai che lo fosse; aveva le occhiaie e la pelle di quel colore giallastro che di solito si associa a una malattia grave. Nel corso degli anni aveva perso quasi tutti i capelli, quindi la cima della testa brillava sotto le luci, e sulla faccia aveva una smorfia di disgusto, una specie di insolito cinismo, come se niente al mondo potesse più interessargli. Poi parlò. E mi resi conto che la voce l’avrei riconosciuta.

Sei tu, Arbuckle? disse. Ero sdraiato qui a chiedermi se saresti venuto a trovarmi.

Sì. Sono venuto a trovarti. Fai notizia, Jack.

Mi fece un gran sorriso. Mi stai dicendo che non è una visita di cortesia?

Ho bisogno di qualcosa per il giornale.

Bene, rispose. Sei sempre uguale. La vita deve averti trattato bene, Arbuckle.

Infatti, confermai. Tu invece non hai un bellissimo aspetto. Cosa c’è che non va? Stai male?

No. Cazzo. Sto bene. Ma starò ancora meglio una volta che sarò fuori da questo posto di merda.

Sempre che tu esca.

Ma certo, esco di sicuro. Non possono tenermi dentro.

Loro pensano di sì.

Però non possono. È un dato di fatto.

Forse, commentai. Vedremo.

Fece per accendersi una sigaretta. I suoi movimenti erano faticosi e impacciati. Dopo averla accesa buttò il fiammifero sul pavimento, in un angolo dove c’era già un mucchietto di mozziconi e fiammiferi. Comunque, già che sei qui, cosa vorresti sapere?

Non ha importanza. Qualunque cosa tu voglia dirmi. Quello che proprio non capisco è cosa ti ha fatto tornare indietro. Non ti piaceva la California?

Finalmente si mise seduto. Forse il ricordo degli anni passati sulla West Coast lo appassionava ancora. Era difficile da dire: era talmente gonfio e malridotto.

Ci sei mai stato in California, Arbuckle? chiese.

No.

Prima o poi dovresti. Porca puttana, che posto.

Così dicono.

Davvero, che posto, cazzo. Solo che è costoso. Puoi spendere un sacco di soldi. In California ci sono cose di cui non hai neanche idea.

Probabile.

Un mucchio di cose.

Be’, tu avevi un mucchio di soldi, osservai. Che fine ha fatto? Hai speso tutto?

Più o meno, rispose. Poi, inaspettatamente, scoppiò a ridere. Secondo te non me ne lascerebbero prendere ancora un po’?

A quanto pare quell’idea lo faceva ridere. Socchiuse gli occhi, gli tremava la pancia; la branda si muoveva sotto il suo peso. Perché no? proseguì. Questa è la mia città, no? Non pensi che me ne lascerebbero prendere ancora un po’?

No, risposi. Penso di no. Naturalmente sapevo che stava scherzando, che non era stupido, ma non m’importava. Avevo altro per la testa. Gli chiarii che a Holt c’era gente che lo odiava. Non hanno dimenticato niente, dissi. Dubito che ti darebbero cinque centesimi anche solo per mandarti via. Ammesso che tu venga rilasciato.

No? Pensavo che ormai avessero dimenticato. Ma chi cazzo se ne frega. Dimmi di te, piuttosto.

Non capisco cosa vuoi dire.

Immagino che anche tu mi odi a morte.

Può darsi.

Mi odi?

Senti, risposi. Te ne sei sempre fregato di quello che gli altri pensavano di te. Che differenza vuoi che faccia per te adesso?

Hai ragione. Non fa nessuna differenza. A quel punto cambiò ancora espressione. C’era un’aria di sforzo nel suo sguardo, come se si stesse concentrando. È solo che mi hanno detto che ti vedi con mia moglie.

Cosa?

Già. Me l’hanno detto. Mi hanno detto che ti stai vedendo con mia moglie. Che ti stai vedendo con Jessie.

Non è tua moglie. Non più.

Oh, sì. Jessie e io siamo ancora sposati.

Hai rovinato tutto un sacco di tempo fa. Lei non vuole più vederti.

Certo. Siamo ancora sposati.

Ascolta. Stammi a sentire, porca puttana. Lasciala in pace.

E poi qui ci sono ancora i miei figli.

Qui non c’è più niente di tuo. Non hai proprio un cazzo a Holt.

Sì, disse. C’è ancora la mia famiglia qui. Almeno quella c’è. E questa è ancora la mia città.

Ascolta. Devi essere pazzo. Ascoltami, disgraziato.

Ma lui non mi diede retta e scoppiò di nuovo a ridere. Era sdraiato sulla branda con i piedi che ciondolavano. Era compiaciuto. La sua faccia pesante e malaticcia si aprì in un sorriso che mi rivolse da dietro le sbarre.

Vuoi sapere altro, Arbuckle? Hai avuto quel che ti serve per il tuo giornale?

Vai all’inferno, risposi.

Trovò divertente anche quello. Era tutto divertente. Continuare a parlare con lui mi parve inutile. Mi decisi ad andarmene.

Il martedì andò a trovarlo Arch Withers. Con il passare degli anni, l’amarezza si era impadronita di lui.

Dopo la scomparsa di Burdette, alla fine di dicembre del 1976, Withers aveva continuato a presiedere il consiglio di amministrazione della cooperativa degli agricoltori di Holt fino al termine del mandato, ma quando si era ricandidato due anni dopo, gli azionisti non l’avevano rieletto. Aveva perso malamente e la sconfitta lo aveva colpito nel profondo. Continuava a coltivare i suoi campi a nord di Holt, ma non veniva spesso in città; quando aveva bisogno di qualcosa, preferiva mandare la moglie, e non si fermava mai a bere il caffè alla panetteria Bradbury. Era triste e solo, pur vivendo in un posto in cui si era sempre sentito accettato e stimato.

Quel pomeriggio, quando arrivò in tribunale, c’erano ancora alcuni vecchi che erano stati lì anche il giorno prima, se ne stavano all’ombra a guardare la Cadillac rossa di Burdette e continuavano a parlare e gesticolare. Withers parcheggiò il suo furgoncino nero, poi passò accanto al gruppo che lo osservava, senza dire una parola a nessuno. Quando entrò nell’ufficio dello sceriffo, chiese un colloquio con Jack Burdette.

Fammi parlare con lui, disse.

Senti, Arch, rispose Sealy. Non gli è rimasto un centesimo. Lo sai. Perdio, pensi che sarebbe tornato se ne avesse ancora?

Fammi andare da lui.

Però non puoi entrare nella sua cella.

Non ho intenzione di entrare nella sua cella.

Va bene, ma se te lo faccio vedere, non provare a fare niente. Hai capito? Ti tengo d’occhio.

D’accordo. Dimmi dov’è.

Fu così che Sealy consentì a Withers di vedere Jack Burdette. Lo condusse alla cella e rimase di guardia sulla soglia mentre Withers iniziava a parlare. Al principio fu un discorso pacato e semi-razionale, una sorta di resoconto di ciò che era successo. Probabilmente ciò che Withers aveva da dirgli interessava a Burdette ancora meno di quello che gli avevo detto io il giorno prima, ed era evidente che si stava divertendo molto meno. Era sempre sdraiato sulla branda sfondata e troppo piccola, grasso e abulico, giallo in volto, fumava e a malapena stava a sentire Withers, che continuava a parlargli. A quel punto doveva essere davvero stufo di tutta quella faccenda. Era come se stesse solo aspettando che succedesse qualcosa. Forse gli era parso che il discorso di Withers riguardasse un malinteso di poco conto tra loro, una vecchia controversia priva di rilievo. Ma era ovvio che per Withers la questione era ben più importante. Continuava a parlare, cercando di spingere Burdette a reagire in qualche modo. Però la reazione non ci fu. Burdette si limitò a starsene sdraiato in attesa che Withers si decidesse a tacere.

A mano a mano che passavano i minuti, Withers si infuriava sempre più. Iniziò a gridare, a inveire: Vaffanculo, Burdette. Vaffanculo.

Jack Burdette rimaneva indifferente, come se in tutta quella storia non ci fosse nulla che potesse sfiorarlo. Eppure alla fine parve riscuotersi almeno un po’. Alzò la testa.

Withers, disse. Vorrei che tu chiudessi quella dannata bocca.

Perdio, esclamò Withers.

Non sono certo tornato qui per sentirti parlare di quei silos del cazzo. Lasciami in pace. Stai cominciando a innervosirmi.

A quel punto Arch Withers perse la testa. Cominciò a scuotere le sbarre, gridando a Sealy di aprire la cella per farlo entrare. Lo ammazzo, quel figlio di puttana, strillava. Lo ammazzo.

Sealy, urlò Burdette. Portalo via di qui. Ne ho abbastanza.

Lo ammazzo.

Non puoi obbligarmi ad ascoltarlo, Sealy.

Apri questa porta.

Sealy, mi stai a sentire?

Quel violento ritornello andò avanti così finché Bud Sealy si decise a imboccare il corridoio per portare via Withers. Forza, Arch, disse. Andiamo.

Lo ammazzo.

No. Quello che avevi da dire, gliel’hai detto.

Perdio...

Andiamo. Forza.

All’improvviso Withers lo aggredì. Attaccò Bud Sealy nel corridoio del carcere, senza smettere di urlare, mulinando le braccia. Sealy lo scagliò contro le sbarre della cella, lo bloccò piantandogli uno dei suoi massicci avambracci sotto il mento, poi lo spinse fuori dal corridoio e lo riportò in ufficio. Withers, fermo di fronte a lui, ansimava.

Porca puttana, Arch. Che cazzo pensi di fare? Vuoi che arresti anche te? Ne ho abbastanza di questa storia.

Non è nemmeno pentito, commentò Withers.

Cosa ti aspettavi? Pensavi di sì?

Non gliene frega niente di nessuno di noi.

Stammi a sentire, Arch, vai a casa. Qui non hai più niente da fare. Capito? Vai a casa.

Withers però sembrava troppo esausto per muoversi. Sembrava stremato, sconfitto. Era come se per anni non avesse aspettato altro che quel momento, e non era servito a nulla: Burdette non era neppure pentito. Alla fine a Sealy toccò afferrarlo per una manica e condurlo fuori dall’ufficio e su per le scale, fino all’uscita.

Il gruppo di uomini era ancora là, vicino al tribunale, all’ombra in quel pomeriggio di novembre. Quando Withers comparve sulla soglia, gli chiesero cosa fosse successo. Lui però non voleva parlare con loro. Li superò a passo lento lungo il marciapiede. Quelli si girarono per guardarlo attraversare il parcheggio, passando accanto alla Cadillac di Burdette, fino al suo furgoncino nero. Lo osservarono salire e chiudere la portiera.

Quando se ne fu andato, uno di loro chiese: Cos’è successo là sotto, Bud?

Non è successo niente.

Withers non ha parlato con lui?

Forse. Ma Burdette non lo è stato a sentire.

Cosa gli ha detto?

Secondo te cosa gli ha detto?

Ovvio. Be’, ha avuto parecchio tempo per pensarci. Scommetto che gli ha fatto un discorsetto, vero?

Sealy lo squadrò per un istante, li squadrò tutti. Sentite, disse. È meglio se ve ne andate a casa anche voi. Qui non sta per succedere niente. Andate a casa a vedere se vostra moglie ha preparato la cena. Per oggi vi ho visti abbastanza.

Per un po’ non avvenne altro. Burdette rimase in galera il resto della settimana, sdraiato sulla branda della cella, in attesa, perlopiù dormiva, con la camicia a scacchi e i pantaloni scuri che si facevano ogni giorno più maleodoranti e sgualciti, mentre in città, su Main Street, la gente non smetteva mai di parlare di lui, ai tavoli della panetteria e alla taverna sull’altro lato della strada, e tutti sembravano saperne qualcosa.

Alla fine della settimana fu chiaro che altrove era successo qualcosa di significativo. A Sterling, nell’ufficio del procuratore distrettuale, gli ingranaggi della giustizia del Colorado si erano messi in moto ed era saltato fuori che Burdette aveva ragione. Non poteva essere tenuto in carcere; erano trascorsi i termini della prescrizione. Essendo rimasto fuori dai confini dello stato per cinque anni ed essendo trascorsi ulteriori tre anni, non era più perseguibile. Poteva uscire.

Il venerdì pomeriggio Bob Witkowski, il procuratore distrettuale, chiamò Bud Sealy per comunicarglielo.

Che cosa? esclamò Sealy. Cos’è questa storia? Questo figlio di puttana ha rubato centocinquantamila dollari alla gente di qui e tu mi vieni a dire che non posso tenerlo dentro?

Esatto. Le cose stanno così.

Non ci credo.

Farai meglio a crederci. È la legge. E se lo tieni in galera, la stai violando. Hai già agito contro le regole tenendolo dentro per una settimana.

Quindi secondo te dovrei scarcerarlo? È questo che dice la legge?

Proprio così. Rilascialo, Bud.

Be’, gesù cristo onnipotente. Quel figlio di puttana. L’ha sempre saputo.

Sealy sbatté giù il telefono e rimase a fissare la parete.

Al crepuscolo Bud Sealy era tornato in sé e aveva deciso di agire con astuzia. Per evitare ogni possibile interferenza da parte dei suoi concittadini – a Holt c’era un mucchio di teste calde capaci di bere così tanto da pensare di dover fare qualcosa ed era l’inizio della stagione della caccia al fagiano, quindi le rastrelliere dietro i furgoni erano piene di fucili – lui e Dale Willard fecero uscire in segreto Jack Burdette dalla sua cella e lo portarono ai confini della contea. Ormai era buio da un pezzo. Sealy aveva ammanettato Burdette e l’aveva spinto sul sedile posteriore dell’auto della polizia, dietro la griglia protettiva. Burdette si era opposto, aveva gridato e imprecato perché pensava che Sealy l’avrebbe portato sulle alture sabbiose fuori città per ucciderlo. Sealy gli aveva detto di tacere e lui alla fine aveva obbedito. Dale Willard seguiva l’auto della polizia al volante della Cadillac rossa di Burdette.

Giunti al confine della contea, svoltarono in una strada sterrata. Sealy scese e aprì la portiera posteriore. Esci, disse.

Bud. Stammi a sentire.

Scendi, figlio di puttana.

Bud. Ascoltami. Farai meglio ad ascoltarmi.

Vaffanculo. Sealy tolse la pistola dalla fondina e la piantò sotto il mento di Burdette. Muoviti.

Lentamente, Burdette uscì dalla macchina e fu in strada. Cominciò a ruggire: Willard. Willard, sei qui. Lo sai benissimo. Ci andrai di mezzo anche tu se glielo lasci fare. Lo sai, Willard.

Stai zitto, ordinò Sealy. Siamo tutti coinvolti. E adesso girati.

Willard. Devi impedirglielo, Willard.

Levagli le manette, disse Sealy.

Willard obbedì. Le porse allo sceriffo.

E adesso togliti dai piedi, figlio di puttana. E non farti più vedere.

Cosa?

Ti sto rilasciando. Non sai quanto ti è andata bene.

Cosa? Finalmente l’hai capito che non potevi tenermi dentro.

Diciamo così.

Lo sapevo che non potevi. Te l’avevo detto...

Stai zitto.

Burdette lo fissò.

E non farti più vedere da queste parti, disse Sealy. Hai capito? Ti avverto. Non farti mai più vedere. Perdio, la prossima volta non ti andrà così bene.

Jack Burdette guardò di nuovo lo sceriffo, poi di nuovo Willard. Si diresse verso la sua macchina. Il motore era rimasto acceso. Salì e tornò sulla Highway in retromarcia. Poi diede un colpo di clacson, una specie di addio o di ultimo affronto, e partì rombando. Non era ancora mezzanotte.

Il mattino dopo, un nuovo, ancora più intenso sentimento di indignazione pubblica si impadronì di Holt quando la gente scoprì che la Cadillac rossa non c’era più e Burdette era stato scarcerato. Gruppi di uomini e di ragazzi si radunarono nel parcheggio del tribunale dove la scintillante macchina rossa era rimasta per tutta la settimana. Giuravano che avrebbero fatto qualcosa; era ora di agire. Però nessuno riusciva a immaginare come.

Nel frattempo Bud Sealy, che era nel suo ufficio nel seminterrato, li guardava dalla finestra con le sbarre. Andarono avanti a parlare, disgustati e impotenti, per diverse ore; alla fine, verso mezzogiorno, i capannelli cominciarono a sciogliersi, la gente tornò a casa per pranzo. Quando non ci fu più nessuno, Sealy chiamò sua moglie per dirle di portargli il caffè e un panino. Preferiva restare lì, le disse; si aspettava che tornassero. E in effetti dopo pranzo molti di loro lo fecero. Ripresero a parlare, gesticolare e giurare. Comunque alla fine non accadde niente. Era troppo tardi perché gli uomini potessero farci qualcosa.

Eppure per tutta la mattinata si era temuto che potesse succedere qualcosa, che qualcuno fosse così pazzo da tentare un’azione violenta. Dunque a metà mattina avevo proposto a Jessie di andare fuori città per qualche giorno. Ero stato nel suo appartamento per tutta la settimana per istinto di protezione e quel giorno decidemmo di andare a Denver insieme ai bambini, dormire in un motel e fare un giro da qualche parte sulle montagne. Le betulle avevano già cambiato colore, ma saremmo stati bene, tranquilli, in montagna, le dissi. A lei parve una buona idea. Chiamò l’Holt Café e disse che non sarebbe andata a lavorare. Preparammo i bagagli e ci mettemmo in viaggio.

A Denver prendemmo due stanze in un motel sull’Interstate 70 accanto all’aeroporto di Stapleton. Nel motel c’era una piscina coperta e i ragazzini andarono a fare il bagno, sguazzarono per un po’ mentre Jessie e io bevevamo qualcosa tenendoli d’occhio. C’era anche una coppia del Texas in piscina, erano di Nacogdoches e ci raccontarono di essere in luna di miele. Sembravano molto giovani e felici. La ragazza era paffuta, con un grazioso viso rotondo, e suo marito continuava a trascinarla in acqua, stringerla e bisbigliarle all’orecchio; poi lei lo schizzava, scoppiava a ridere e si allontanava a nuoto. A un certo punto uscirono dall’acqua e tornarono nella loro stanza – lui le aveva cinto la vita con un braccio – e non li vedemmo più.

Quando TJ e Bobby finirono di nuotare, fecero la doccia e cenammo presto al ristorante del motel. Poi andammo a vedere un film. Attraversammo la città per raggiungere il cinema di un centro commerciale, prendemmo popcorn e Coca-Cola e ci sedemmo nella sala buia. Io però non riuscivo a concentrarmi sulla trama. Avevano fatto del loro meglio per rendere plausibile la storia di una ragazza amish che si innamora di un investigatore di città, e c’erano parecchie scene drammatiche e una fotografia meravigliosa, con una sensazione sempre più netta che stesse per succedere qualcosa di brutto, anche se quando la violenza arrivò sul serio, a me parve troppo astratta per crederci. Sedevo accanto a Jessie con un braccio posato sulle sue spalle sottili e la guardavo in faccia. All’uscita, lei e i bambini dissero che l’avevano trovato un bel film. È probabile che lo fosse. Ma in quel momento io non ero in grado di interessarmi all’infelicità altrui.

Più tardi, a letto nel motel, con Bobby e TJ che dormivano nella stanza a fianco, raccontai a Jessie una parte dei motivi per cui mi ero preoccupato.

Lo so, commentò lei. Ma non capisci che adesso andrà tutto bene? Non è quello che dicevi tu? Che la miglior cosa era proprio che lui se ne andasse?

L’ho detto stamattina. Non appena l’ho saputo. In quel momento ne ero convinto.

Però non è successo niente che ti abbia fatto cambiare idea, o sbaglio?

Che io sappia, no.

E anche se ci fosse qualcosa che non va, noi non potremmo farci niente.

No.

E allora abbracciami, per favore, stringimi. Preoccuparsi è inutile.

Lo so.

E sai che ti amo.

È solo che non voglio che le cose cambino.

Sposta il braccio, così posso starti ancora più vicina. Ecco, disse Jessie, così non va meglio?

Sì. Molto meglio.

Sapevo che alla fine ti avrei convinto.

Eravamo sdraiati vicinissimi. Lei era calda e morbida al mio fianco, ci mettemmo a fare l’amore in quella buia stanza di motel, con una fioca luce che entrava dalle tende e i rumori del traffico fuori sull’Interstate. Eppure tutto sembrava diverso, incerto. Dopo tornò la calma, restammo l’uno vicino all’altra e Jessie si addormentò subito.

Il mattino dopo ci alzammo tardi e facemmo colazione. Poi lasciammo il motel. Avevamo deciso di passare la giornata a Estes Park, sulle montagne oltre Boulder. La stagione turistica era finita e quella sciistica non era ancora iniziata, quindi ci aspettavamo di trovare pace e silenzio.

Nel pomeriggio, quando arrivammo a Estes Park, girammo per le strade della cittadina, godendoci la vista del Big Thompson, il fiume che attraversa il centro, e guardando le vetrine dei negozi di ceramiche, di oggetti in peltro e di costosi vestiti di marca. Comprammo cioccolata di produzione locale e anche formaggio, frutta, prosciutto a fette e pane nero con cui fare un picnic serale; poi tornammo alla macchina e uscimmo dalla città diretti a nord, lungo la strada secondaria che, serpeggiando per Glen Haven e Drake, portava a Loveland; prima di arrivarci, ci fermammo in una piazzola accanto alla Highway, con i tavoli da picnic vicino a un torrente. Era tardo pomeriggio; il canyon era in ombra. Ci mettemmo i giubbotti e TJ e Bobby si arrampicarono sulle rocce accanto al torrente, lanciando sassi nelle polle d’acqua e facendo galleggiare le pigne tra le strette rapide, correndo per seguirle mentre mulinavano e sobbalzavano sulla superficie. Preparammo la cena e la sistemammo su uno dei tavoli da picnic. Hai voglia di andare a cercarli? chiese Jessie.

Li chiamai ma, a causa del rumore del torrente, non mi sentivano, così li raggiunsi. Una pigna si era bloccata tra le radici di un albero e loro tentavano di colpirla con un bastone, che però non era abbastanza lungo e quasi non riuscivano a raggiungerla.

Provaci tu, disse Bobby.

Presi il bastone, mi allungai con un gesto ampio ma, non riuscendo a raggiungerla, mi chinai in avanti e all’improvviso persi l’equilibrio e finii con i piedi in acqua; le scarpe si infradiciarono.

Cristo santo, esclamai. Quanto è fredda.

I ragazzini indicarono i miei piedi ridendo. Io rimasi lì, con le scarpe buone nell’acqua.

Lazzaroni, dissi. Brutti lazzaroni.

Diedi un altro colpo con il bastone e riuscii a liberare la pigna, che si allontanò galleggiando. Poi risalii sulla riva del torrente e di colpo allungai le mani, afferrai per la testa i due ragazzini e tenendomeli stretti al petto mi misi a fare la lotta con loro.

Insomma. Vi pare divertente, vero? Fare in modo che uno si bagni i piedi. Vi pare divertente?

Sì. Decisamente. Stavano ancora ridendo.

Li strinsi un po’ più forte. Sicuri?

Sì.

Anche adesso?

Sì.

D’accordo, dissi. Li strinsi di nuovo. E adesso come vi pare?

Ci sembra ancora divertente.

Va bene, conclusi, si vede che lo è. Li abbracciai. Poi tornammo al tavolo da picnic. Per gioco camminavo a passi lunghissimi e grondanti.

Mamma, gridò TJ mentre ci avvicinavamo alla tavola. È caduto nel torrente.

Chi?

Pat.

Oddio.

E si è bagnato le scarpe.

Ha anche detto le parolacce, spifferò Bobby.

Davvero? chiese Jessie.

No, figurati.

Certo che sì, mamma.

Forse, replicai. Ma è stata colpa loro.

Che casino, osservò Jessie. Guardati.

Lo so, risposi.

Avresti dovuto vederlo, mamma, disse TJ. Scoppiarono di nuovo a ridere e a turno le raccontarono tutto mentre mangiavamo.

Quando finimmo di cenare era freddo e quasi buio. Eppure era piacevole stare lì, noi quattro seduti allo stesso tavolo, con il suono del torrente e il profumo degli abeti intorno a noi. A un certo punto ce ne andammo. Il giorno dopo i bambini avevano la scuola e Jessie e io dovevamo riprendere a lavorare.

Dalle montagne ci dirigemmo verso casa nell’oscurità lungo la Highway 34, passando per Loveland e Greeley e ancora per Fort Morgan e Brush fino a raggiungere le High Plains, Akron, la contea di Holt e finalmente Holt, con i lampioni blu in lontananza, poi sempre più vicini, e le strade deserte e silenziose una volta entrati in città. Salimmo i gradini, mettemmo a dormire i ragazzini e andammo a letto anche noi. Eravamo stanchi morti. Jessie e io scambiammo poche parole prima di addormentarci.

Dopo mezzanotte mi svegliai, pensando di aver sentito un rumore. Rimasi ad ascoltare per un minuto al buio. Poi sentii un altro rumore in salotto. Mi misi seduto. Lentamente una figura riempì il vano della porta: era Jack Burdette. Nella debole luce che entrava dal lampione all’angolo, lo vidi in piedi sulla soglia, enorme e cupo; puzzava di alcol e aveva qualcosa su un braccio. Feci per alzarmi. Burdette trovò sulla parete l’interruttore della camera da letto e accese la luce. Jessie si svegliò di colpo. Si mise a sedere.

Cazzo, disse lui. Ma voi due non li avete dei vestiti? Gesù cristo, guardatevi.

Jessie si coprì con il lenzuolo. Io feci per lanciarmi fuori dal letto.

Aspetta, mi intimò Burdette. Per ora non voglio che tu ti muova. Resta un attimo seduto.

Cosa vuoi? chiesi.

Cosa pensi che voglia?

Qui per te non c’è niente. Lo sai anche tu.

Sì, invece, rispose. Qualcosa c’è.

Era appoggiato alla parete e ci guardava. Da venerdì sera, quando era stato scarcerato, si era rimesso in ordine. Aveva gli occhi iniettati di sangue, però si era sbarbato e indossava una camicia rosso cupo e un paio di pantaloni marrone chiaro che sembravano nuovi. La camicia gli tirava sulla pancia e quello che aveva sul braccio era un fucile. Si mosse e lo puntò contro di me.

Te l’avevo detto: qui ho la mia famiglia. Ma tu non mi hai creduto, vero?

Quella è una storia finita, dissi.

No, non lo è, porca puttana. Era furibondo. Non è finita per niente. È finita, Jessie?

Sì, è finita, rispose lei. Per me lo è, Jack. Lasciami in pace. Per favore. Voglio che mi lasci in pace.

Forse ti sembra che sia finita, ribatté lui.

No, per me è proprio finita.

Per me no, invece. Sei tutto quello che mi resta. Per me non è finita.

Ma io voglio che tu mi lasci in pace. Non puoi andartene e basta? È una cosa che ti riesce così bene.

Stavolta ti porto con me. Vi porto tutti e tre.

No, disse Jessie. Proprio no! Scoppiò a piangere, guardandolo furiosa. Si strinse addosso il lenzuolo.

Io scattai in piedi. Vaffanculo. Togliti dai piedi.

Zitto, rispose. Chiudi il becco.

Si staccò dalla parete e si mosse verso di me, puntandomi il fucile in faccia.

E tu alzati, disse a Jessie. Vestiti subito. Si piegò e le strappò il lenzuolo; lei si mise in ginocchio sul letto, coprendosi i seni con le braccia. Burdette continuava a tenermi sotto tiro. Fai come ti dico. Vestiti e non dire una parola.

Jessie.

Ti ho avvertito, disse Jack.

Jessie, proseguii, non farlo.

Piangeva ancora. Mi guardò, lentamente si alzò dal letto e si avvicinò all’armadio. Iniziò a vestirsi. Burdette la guardava. Lo odiavo in quel momento; lo odiavo. Mentre lui la guardava, io scattai per impadronirmi del fucile, ma lui lo spostò e me lo picchiò in testa. Mi ritrovai per terra accanto al letto, nudo, disgustato. Perdevo sangue da un orecchio. Mi rimisi in piedi barcollando, reggendomi alla testiera del letto.

Non provarci più, disse Burdette.

Figlio di puttana. Lasciala in pace.

La prossima volta ti ammazzo.

Jessie aveva finito di vestirsi. Si era messa dei jeans, una camicetta e un maglione pesante. Burdette le disse di preparare qualcosa da portare con sé.

Dov’è la tua valigia?

Sotto il letto.

Prendila.

Jack. Non farlo. Non farlo, per favore. Aveva gli occhi arrossati e i capelli in disordine. Per favore.

Prendi la valigia.

Jessie era ancora in piedi di fronte all’armadio. Non si mosse. Allora lui mi piazzò la canna del fucile sul petto e mi spinse contro la parete.

Mi hai sentito? le disse. Fai la valigia.

Lei si inginocchiò accanto al letto e la tirò fuori, poi si alzò per raggiungere il cassettone, da cui prese qualche vestito, che infilò nella valigia prima di chiuderla.

E adesso dammi dei collant, disse Burdette.

Cosa?

Collant. Calze di nylon.

Perché?

Dammeli e basta.

Jessie prese dal cassetto diverse paia di calze e gliele lanciò. Un paio cadde sul pavimento e lui le ordinò di raccattarlo e porgerglielo. Girati adesso, disse. Mettiti con la faccia contro il muro.

Cosa pensi di fare?

Tra un minuto lo saprai.

Jack. Non farlo. Per favore.

Stai zitta. Fa’ come ti dico.

Jessie mi guardò di nuovo, poi si voltò e si mise contro la carta da parati dalla parte opposta della stanza.

Bene, rubacuori, disse Burdette. Adesso tocca a te. Fai un nodo scorsoio con questi. Mi porse un paio di collant.

Vai all’inferno.

Sollevò il fucile all’altezza del mio collo. Pensi che non ti ucciderei?

Sì. Penso che potresti.

E allora fai questo nodo.

Feci uno scorsoio con la gamba delle calze di Jessie, poi gliele restituii.

Lo provò, stringendolo. Adesso girati.

Figlio di puttana.

Così, bravo. Dille addio.

Avevo ancora il fucile puntato al collo e mi girai. Lui mi mise le braccia dietro la schiena e mi strinse il cappio ai polsi fino a farmeli bruciare, poi posò il fucile sul letto e mi buttò a terra, mi fece inginocchiare, legò le caviglie e annodò le due estremità spingendomi all’indietro sulle ginocchia. Mi imbavagliò con un altro paio di collant che poi annodò alla gamba del letto. Quindi mi gettò a terra. Sdraiato sul pavimento, lo guardavo da sotto in su, i suoi pantaloni marroni, la camicia rosso cupo che gli tirava sullo stomaco. Dall’altra parte della stanza, Jessie si voltò verso di me. Stava ancora piangendo.

Bene, esclamò Burdette. Abbiamo finito.

Prese dal letto il fucile e la valigia; poi afferrò Jessie per un braccio e la condusse fuori dalla camera. Fu l’ultima volta che la vidi. Indossava un maglione pesante, piangeva e aveva i capelli castani arruffati.

Di tutto quello che successe dopo non vidi nulla. Sentii solo le voci spaventate provenienti dalla stanza dei bambini in fondo al corridoio. TJ e Bobby vennero svegliati e costretti a vestirsi, mentre le parole smorzate di Jessie tentavano di rassicurarli; i ragazzini però piangevano, poi ci fu il suono aspro e sgradevole della voce di Burdette. Quando ebbero finito in camera da letto, uscirono sul retro della casa passando dalla cucina. La porta sbatté e un attimo dopo sentii il rumore di una macchina che veniva messa in moto in Hawthorne Street e si allontanava. Dopo, scese il silenzio.

Per il resto di quella domenica notte e la maggior parte del lunedì, rimasi sdraiato sul pavimento della camera da letto nella casa del vecchio Fenner. Burdette non si era preso il disturbo di spegnere la luce e io restai a terra per tutta la notte sotto il lampadario acceso. Chissà perché il fatto che nessuno a Holt se ne accorgesse mi dava particolarmente fastidio. Comunque nessuno se ne accorse. Quindi rimasi per tutto quel tempo a pensarci e a pensare ad altre cose, poi piano piano iniziò a fare giorno e a quel punto che ci fosse la luce accesa nella stanza da letto di un appartamento di periferia era del tutto indifferente. Il tempo passava molto lentamente. Di tanto in tanto riuscivo a dormire per un po’. Poi mi risvegliavo. L’orecchio non sanguinava più, ma i piedi e le mani erano intorpiditi e per la pressione mi facevano male gli angoli della bocca.

Nel frattempo mi arrivavano i rumori delle automobili che passavano e le voci dei ragazzi che andavano a scuola e l’abbaiare del cane di chissà chi. Nel corso della giornata il telefono appeso al muro della cucina suonò quattro o cinque volte. Io me ne stavo là e lo sentivo suonare. Più tardi seppi che una delle chiamate era della signora Walsh dall’Holt Mercury, e un’altra veniva dall’Holt Café, era il capo di Jessie che voleva sapere perché non si fosse ripresentata al lavoro. Non seppi mai chi altro avesse telefonato.

Finalmente, nel tardo pomeriggio di lunedì, vennero a liberarmi. La signora Nyla Waters, la vicina di Jessie, si era preoccupata vedendo per tutto il giorno la mia macchina parcheggiata davanti alla casa, quindi aveva avvertito Bud Sealy. Così verso le cinque del pomeriggio Bud Sealy venne a dare un’occhiata. Entrò e mi trovò legato in camera da letto. Che cazzo è successo? esclamò. Gesù cristo.

Dovette aiutarmi a rimettermi in piedi. Mentre mi vestivo, gli raccontai l’accaduto.

Questo è stato quasi tre mesi fa. Da allora il tempo è passato come al solito. Ora siamo a metà gennaio, l’inizio di un nuovo anno, e la gente di Holt sta ancora discutendo degli eventi dell’autunno scorso. In città, Joe Don Williams è ancora particolarmente agitato, dato che era suo il fucile che Burdette aveva con sé quella notte. Burdette l’aveva rubato dalla rastrelliera del furgoncino di Williams, che era aperto e parcheggiato nel vicolo sul retro della casa di Jenny Newcomb. Così adesso la gente parla anche di questo.

Nei mesi seguenti la polizia ha diramato avvisi in tutto lo stato, come aveva già fatto quando Burdette era scomparso la prima volta. A questo giro è accusato anche di sequestro di persona, oltre che di furto. Eppure non sono riusciti a rintracciarlo. Jessie aveva fatto una giusta osservazione quella notte in camera da letto: è una cosa che gli riesce bene. Se non altro, Jack Burdette sa come si fa a scomparire.

E così io sono sempre nella contea di Holt. Continuo a pubblicare il settimanale che mio padre mi ha ceduto anni fa. Wanda Jo Evans vive ancora a Pueblo, nel Front Range, e lavora per la compagnia telefonica. E Nora Kramer, la fragile ragazza con i capelli neri che avevo sposato appena finita l’università, sta sempre con suo padre a Denver e tutti e due sembrano piuttosto felici.

Ma Jessie? Che fine ha fatto?

Voglio credere che stia bene anche lei, da qualche parte nel vasto mondo. Voglio credere che lei, TJ e Bobby siano ancora vivi, persino se stanno in California con Jack Burdette. Anche se da quella notte nessuno ne ha più saputo niente, voglio credere almeno questo, e sperare anche qualcosa di più.