venerdì 28 febbraio 2020


CECITÀ
José Saramago
Parte 2
Cap. 7-11

7.

Uno stomaco che gira a vuoto si sve glia presto. Alcuni ciechi aprirono gli occhi quando il mattino era ancora lontano, e nel loro caso non fu tanto per colpa della fame, ma perché il loro orologio biologico, o comunque si sia soliti chiamarlo, ormai si stava sfasando, avevano supposto fosse giorno fatto, quindi pensarono, Ho dormito fin troppo, e immediatamente capirono che no, c’era quel russare dei compagni che non dava luogo a equivoci. Orbene, dicono i libri, ma molto di più lo dice l’esperienza vissuta, che chi si alza presto per piacere o chi ha dovuto alzarsi presto per necessità, mal tollera che altri, in sua presenza, continuino a dormire della grossa, e a maggior ragione nel caso di cui si sta parlando, perché c’è una bella differenza fra un cieco che sta dormendo e un cieco cui non è servito a niente avere aperto gli occhi. Queste osservazioni di tipo psicologico, per la loro sottigliezza apparentemente nient’affatto pertinente di fronte alla straordinaria dimensione del cataclisma che il resoconto sta tentando di descrivere, servono unicamente a spiegare il motivo per cui erano svegli così presto tutti i ciechi, alcuni, come si è detto all’inizio, riscossi dallo stomaco esigente, ma altri strappati al sonno dalla nervosa impazienza dei mattinieri che non si peritarono di fare più rumore di quello inevitabile e tollerabile in assembramenti da caserma e camerata. Qui non c’è solo gente discreta e beneducata, alcuni sono degli screanzati che si liberano di buon mattino con scaracchi e flatulenze senza badare a chi c’è, e per la verità nel resto del giorno agiscono in base allo stesso criterio, perciò l’atmosfera sta diventando sempre più pesante, e non c’è niente da fare, l’unica apertura è la porta, alle finestre non si può arrivare, sono troppo alte.
Sdraiata accanto al marito, il più vicini possibile, per la strettezza del letto, ma anche per piacere, ah quanto le era costato, nel cuore della notte, mantenere il decoro, non fare come quei due che qualcuno aveva chiamato porci, la moglie del medico guardò l’orologio. Segnava le due e ventitré. Fissò meglio lo sguardo, vide che la lancetta dei secondi non si muoveva. Si era dimenticata di caricare quel maledetto orologio, o maledetta lei, maledetta io, che neppure quel semplicissimo dovere avevo saputo compiere, dopo appena tre giorni di isolamento. Non riuscendo a dominarsi, scoppiò in un pianto dirotto, come se le fosse appena successa la peggiore delle disgrazie. Il medico pensò che la moglie fosse diventata cieca, che fosse accaduto ciò che tanto temeva, e sragionando stava quasi per domandarle Sei diventata cieca, ma all’ultimo istante udì il suo mormorio, Non è questo, non è questo, e poi, in un lento sussurro, quasi inudibile, con le teste nascoste sotto la coperta, Sono una stupida, non ho caricato l’orologio, e continuò a piangere, inconsolabile. Dal suo letto al di là della corsia la ragazza dagli occhiali scuri si alzò e, guidata dai singhiozzi, si avvicinò con le braccia tese, Sta male, ha bisogno di qualche cosa, domandava mentre avanzava, e con tutte e due le mani toccò i corpi sdraiati. La discrezione dettava che le ritraesse immediatamente, e l’ordine sicuramente il cervello glielo diede, ma le mani non obbedirono, resero appena più impercettibile il contatto, non più che un lieve sfioramento dell’epidermide sulla coperta grezza e tiepida. Ha bisogno di qualche cosa, di nuovo domandò la ragazza, e adesso sì, le mani si erano ormai ritratte, si erano alzate, si persero nel biancore sterile, nello scoramento. Ancora singhiozzante, la moglie del medico si alzò dal letto, abbracciò la ragazza, Non è niente, un po’ di tristezza che mi ha assalito all’improvviso, disse, Se lei, signora, che è tanto forte, comincia a scoraggiarsi, allora significa che per noi non c’è davvero salvezza, si lamentò la ragazza. Più calma, guardandola in faccia, la moglie del medico pensava, Quasi non le si nota più traccia della congiuntivite, peccato non poterglielo dire, ne sarebbe contenta. Sì, probabilmente lo sarebbe, anche se una tale contentezza sarebbe stata assurda, non tanto perché la ragazza era cieca, ma perché lo erano anche tutti gli altri, a cosa serve avere gli occhi limpidi, e belli co me lo sono questi, se non c’è nessuno a vederli. La moglie del medico disse, Abbiamo tutti i nostri momenti di debolezza, per fortuna siamo ancora capaci di piangere, il pianto spesse volte è una salvezza, ci sono circostanze in cui moriremmo se non piangessimo, Per noi non c’è salvezza, ripeté la ragazza dagli occhiali scuri, Chissà, questa cecità non è come le altre, com’è venuta, così potrebbe scomparire, Ormai tardi per chi è morto, Tutti dobbiamo morire, Ma non dovremmo essere uccisi, e io ho ammazzato una persona, Non accusi se stessa, sono state le circostanze, qui tutti siamo colpevoli e innocenti, molto di peggio hanno fatto i soldati che ci sorvegliano, e persino loro potranno addurre la più grande di tutte le scuse, la paura, Che importava se quel poveretto mi toccava, adesso lui sarebbe vivo e io non avrei nel corpo né più né meno di quel che ho, Non ci pensi più, riposi, tenti di dormire. L’accompagnò a letto, Suvvia, si corichi, Lei è molto buona, disse la ragazza, poi, abbassando la voce, Non so cosa fare, mi stanno arrivando le mestruazioni e non ho portato assorbenti, Stia tranquilla, ne ho io. Le mani della ragazza dagli occhiali scuri cercarono qualcosa cui afferrarsi, ma fu la moglie del medico a prenderle dolcemente fra le proprie, Riposi, riposi. La ragazza chiuse gli occhi, così rimase per un minuto, forse si sarebbe addormentata se non fosse stato per quell’alterco che all’improvviso scoppiò, qualcuno che era andato ai gabinetti e al ritorno aveva trovato il letto occupato, non era stato fatto apposta, l’altro si era alzato per lo stesso scopo, si erano incrociati stra da facendo, ovviamente a nessuno dei due era venuto in mente di dire, Veda un po’ di non sbagliare letto quando torna. In piedi, la moglie del medico guardava i due ciechi discutere, notò che non gesticolavano, quasi non muovevano il corpo, avevano imparato in fretta che solo la voce e l’udito erano adesso di qualche utilità, certo, le braccia ce le avevano, avrebbero potuto litigare, azzuffarsi, venire alle mani come si suol dire, ma un letto scambiato non valeva tanto, se tutti gli errori della vita fossero come questo, basterebbe mettersi d’accordo, Il due è mio, il tre è il suo, sia chiaro una volta per tutte, Se non fossimo ciechi, questo sbaglio non sarebbe avvenuto, Ha ragione, il guaio è che siamo ciechi. La moglie del medico disse al marito, Il mondo è tutto qui dentro.
Non tutto. Il cibo, per esempio, era fuori e tardava. Da una camerata e dall’altra, alcuni uomini erano andati ad appostarsi nell’atrio, in attesa che l’ordine risuonasse nell’altoparlante. Muovevano i piedi, nervosi, impazienti. Sapevano di dover uscire nel recinto esterno per ritirare le casse che i soldati, rispettando quanto promesso, avrebbero lasciato nello spazio fra il portone e la scala, e te mevano qualche trucco, qualche trappola, Chi ci dice che non ci spareranno addosso, Lo hanno già fatto, ne sono capacissimi, Non possiamo fidarci, Io fuori non ci vado, Neanche io, Qualcuno dovrà pur andare, se vogliamo mangiare, Non so se sia meglio morire fucilato, o morire di fame a poco a poco, Io vado, Anch’io, Non è necessario andare tutti, I soldati potrebbero non gradire, O spaventarsi, credere che vogliamo scappare, magari è per questo che hanno ammazzato quello della gamba, Dobbiamo deciderci, La cautela è sempre troppo poca, ricordatevi cosa è successo ieri, né più né meno che nove morti, I soldati hanno avuto paura di noi, E io ho paura di loro, Quello che vorrei sapere è se diventano ciechi anche loro, Loro chi, I soldati, A mio parere, dovrebbero essere addirittura i primi. Tutti furono d’accordo, senza tuttavia domandarsene il perché, ci mancò chi ne spiegasse l’ottima ragione, Perché così non potrebbero sparare. Il tempo passava, passava, e l’altoparlante era sempre silenzioso. Vi siete occupati di sotterrare i vostri, domandò un cieco della prima camerata per dire qual che cosa, Ancora no, Cominciano a puzzare, ammorbano tutto, E allora, che ammorbino pure, per quel che mi riguarda non intendo muovere un dito finché non avrò mangiato, come dice il proverbio prima si mangia e poi si lava la pentola, Non è così, è sbagliato, generalmente si mangia e si beve, ma dopo i funerali, Invece per me è il contrario. Passati alcuni minuti uno di questi ciechi disse, Sto qui a rimuginare una cosa, Che cosa, Come divideremo il cibo, Come si è fatto prima, sappiamo quanti siamo, si contano le razioni, ciascuno riceve la propria parte, è la maniera più semplice e più giusta, Non ha funzionato, c’è chi è rimasto a bocca asciutta, E pure chi ha mangiato il doppio, La divi sione è stata fatta male, Sarà sempre fatta male se non ci saranno rispetto e disciplina, Se avessimo qualcuno che ci vedesse almeno un minimo, Sì, così troverebbe subito uno stratagemma per tenersene la maggior parte, Diceva il proverbio che in terra di ciechi l’orbo è re, Lascia perdere, Non è lo stesso, Qui neanche i guerci si salverebbero, Come la intendo io, la miglior soluzione sarebbe dividere il cibo in parti uguali tra le camerate, poi ciascuna si regolerebbe con quanto avesse ricevuto, Chi è che ha parlato, Io, Io chi, Di che camerata è lei, Della seconda, Infatti me l’immaginavo, bella furbizia, siccome avete meno gente vi converrebbe, così mangereste più di noi che abbiamo la camerata completa, L’ho detto solo perché è più facile, Il proverbio diceva anche che chi parte e riparte senza tenersi la miglior parte, o è sciocco, o nel partire non ha arte, Cazzo, la pianti con quello che dice il proverbio, i detti mi rendono nervoso, Quello che dovremmo fare, invece, sarebbe di portare tutto il cibo nel refettorio, ogni camerata elegge tre persone per fare la divisione, in sei a contare non dovrebbe esserci pericolo di errori né di imbrogli, E come facciamo a sapere che dicono la verità se gli altri affermano nella nostra camerata siamo tanti, Abbiamo a che fare con gente onesta, E questo, l’ha detto pure il proverbio, No, questo lo dico io, Ehi, galantuomo, la verità è che siamo gente affamata.
Come se per tutto questo tempo fosse stato in attesa della parola in codice, della battuta, dell’apriti-sesamo, si udì finalmente l’altoparlante, Attenzione, attenzione, gli internati sono autorizzati a venire a ritirare il cibo, ma attenti, se qualcuno si avvicina troppo al portone avrà prima un avvertimento verbale, qualora non tornasse immediatamente indietro il secondo avvertimento sarà una pallottola. I ciechi avanzarono lentamente, alcuni più fiduciosi, diritti verso il punto in cui pensavano dovesse trovarsi la porta, gli altri, meno sicuri delle proprie recenti capacità di orientamento, preferirono scivolare pian piano lungo il muro, così non c’era da sbagliarsi, una volta arrivati all’angolo dovevano solo seguire la parete che faceva angolo retto, lì doveva esserci la porta. Imperiosa, impaziente, la voce dell’altoparlante ripeté la chiamata. Il cambiamento di tono, chiaro anche per chi non avesse ulteriori motivi di diffidenza, spaventò i ciechi. Uno di essi dichiarò, Io da qui non esco, quello che vogliono è di beccarci fuori per poi ammazzarci tutti, Io pure non esco, disse un altro, Neanche io, rincarò un terzo. Stavano lì fermi, titubanti, alcuni volevano uscire, ma la paura si stava impossessando di tutti. Di nuovo si udì la voce, Se entro tre minuti non si presenterà nessuno a portar via le casse del cibo, le ritireremo. La minaccia non ebbe la meglio sul ti more, lo ricacciò solo verso le ultime caverne della mente, come un animale braccato che si aspetta un’occasione per attaccare. Timorosi, tentando di nascondersi uno dietro l’altro, i ciechi cominciarono a uscire sul pianerottolo della scala. Non potevano ve dere che le casse non stavano vicino al corrimano, e cioè dove si aspettavano di trovarle, non potevano sapere che i soldati, per paura del contagio, si erano rifiutati di avvicinarsi persino alla corda cui si erano aggrappati i ciechi lì ricoverati. Le casse del cibo erano radunate, impilate, più o meno nel punto dove la moglie del medico aveva raccolto la zappa. Venite avanti, venite avanti, ordinò il sergente. In modo confuso, i ciechi cercavano di mettersi in fila per poter avanzare ordinatamente, ma il sergente gridò loro, Le casse non sono lì, lasciate la corda, lasciatela, spostatevi a destra, la vostra, la vostra, stupidi, non c’è bisogno degli occhi per sapere da che lato sta la mano destra. L’avvertimento fu dato in tempo, ma alcuni ciechi, particolarmente rigidi, avevano inteso l’ordine alla lettera, se era la destra, logicamente doveva essere la destra di chi parlava, perciò tentavano di passare sotto la corda per andare a cercare le casse Dio sa dove. In circostanze differenti, il grottesco spettacolo avrebbe fatto scoppiare dalle risa il più impettito degli osservatori, c’era da crepare, un gruppo di ciechi che procedevano a quattro zampe, con la faccia strisciante per terra come suini, un braccio avanti a scandagliare l’aria, mentre altri, forse per paura che lo spazio bianco, fuori dalla protezione del soffitto, li inghiottisse, continuavano a stare disperatamente avvinghiati alla corda e tendevano l’orecchio, in attesa della prima esclamazione che avrebbe segnalato il ritrovamento delle casse. Il desiderio dei soldati era di puntare le armi e fucilare deliberatamente, freddamente, quegli imbecilli che si muovevano davanti ai loro occhi come dei granchi zoppi, agitando le pinze malsicure in cerca della zampa mancante. Sapevano quel che era stato detto la mattina dal comandante del reggimento, che il problema dei ciechi si sarebbe potuto risolvere solo con l’eliminazione fisica di tutti quanti, gli attuali e i futuri, senza considerazioni falsamente umanitarie, testuali parole, così come si taglia un arto in cancrena per salvare il corpo, La rabbia di un cane morto, diceva lui a mo’ di esemplificazione, guarisce naturalmente. Alcuni soldati, meno sensibili ai voli del linguaggio figurato, stentarono a intendere cosa la rabbia del cane avesse a che vedere con i ciechi, ma la parola di un comandante di reggimento, sempre figurativamente parlando, vale quanto pesa, nessuno arriva tanto in alto nella vita militare senza aver ragione in tutto quanto pensa, dice e fa. Un cieco aveva finalmente urtato contro le casse, urlava tenendole abbracciate, Sono qui, sono qui, se mai quest’uomo dovesse recuperare la vista, certamente non annuncerebbe con più gioia la stupenda buona notizia. Dopo pochi secondi, gli altri ciechi erano già tutti lì accalcati sopra le casse, braccia mescolate a gambe, a tirare ciascuno dalla propria parte, disputandosi il primato, me la prendo io, invece me la prendo io. Quelli che se n’erano rimasti avvinghiati alla corda erano nervosi, adesso la loro paura era un’altra, quella di ritrovarsi, per castigo della loro indolenza, o vigliaccheria, esclusi dalla spartizione dei generi alimentari, Ah, non avete voluto strisciare culo all’aria, rischiare di beccarvi una pallottola, allora non mangiate, ricordatevi di quel proverbio, chi non risica non rosica. Spinto da questo pensiero decisivo, uno di essi abbandonò la corda e si avviò, con le braccia in aria, verso il tumulto, Non mi lascerete mica fuori, ma le voci tacquero all’improvviso, si udirono solo rumori di trascinamento, esclamazioni soffocate, un miscuglio vago e confuso di suoni provenienti da tutti i lati e da nessuno. Si fermò, indeciso, fece per riguadagnare la sicurezza della corda, ma il senso dell’orientamento gli venne meno, non ci sono stelle nel cielo bianco, adesso si sentiva invece la voce del sergente dare istruzioni a quelli delle casse per tornare alla scala, ma ciò che diceva aveva senso solo per quelli, per poter arrivare dove si vuole, tutto di pende da dove ci si trova. Non c’erano più ciechi avvinghiati alla corda, a loro sarebbe bastato rifare la strada al contrario, e adesso aspettavano sul pianerottolo della scala l’arrivo degli altri. Il cieco sganciato non si azzardava a muoversi da dove si trovava. Angosciato, cacciò un urlo, A iutatemi, per favore, non sapeva che i soldati lo tenevano di mira col fucile, in attesa che calpestasse la linea invisibile per cui si passava dalla vita alla morte. Vuoi forse restar lì, orbo, domandò il sergente, ma nella sua voce c’era un certo nervosismo, la verità è che non condivideva l’opinione del proprio comandante, Chi mi dice che domani questa scalogna non mi bussi alla porta, quanto ai soldati, si sa, gli danno un ordine e loro ammazzano, gliene danno un altro e loro muoiono, Sparate solo al mio comando, urlò il sergente. Queste parole fecero comprendere al cieco il pericolo in cui si trovava. Si mise in ginocchio, implorando, Per favore, aiutatemi, ditemi dove devo andare, Avanti, caro cieco, vieni avanti, disse da lontano un soldato in tono falsamente amichevole, il cieco si alzò, fece tre passi, ma si bloccò di nuovo, il verbo gli parve sospetto, vieni avanti non è vai avanti, vieni avanti vuol dire verso qui, proprio verso qui, in questa direzione, arriverai dove ti stanno chiamando, incontro alla pallottola che ti sostituirà una cecità con un’altra. Fu un’iniziativa per così dire criminale di un soldato dall’animo cattivo, che il sergente stroncò immediatamente con due strilli successivi, Alt, Dietrofront, seguiti da un severo richiamo all’ordine del disobbediente, a quanto pare appartenente a quella specie di persone cui non si può mettere un fucile in mano. Animati dal benevolo intervento del sergente, i ciechi che avevano raggiunto il pianerottolo della scala attaccarono con un fortissimo baccano che finì per servire da polo magnetico al disorientato non vedente. Ormai sicuro di sé, questi avanzò in linea retta, Continuate, continuate, diceva mentre i ciechi applaudivano come se stessero assistendo a un lungo, vibrante e intrepido sprint. Fu accolto fra gli abbracci, come si meritava, è nelle avversità, sia le provate sia le prevedibili, che si riconoscono gli amici.
Non durò molto la fraternizzazione. Approfittando della confusione, alcuni ciechi se l’erano squagliata con un bel po’ di casse, quelle che riuscirono a trasportare, un modo palesemente sleale di prevenire ipotetiche ingiustizie nella distribuzione. Quelli in buona fede, che ce n’è sempre per quanto se ne dica, protestarono, indignati, che così non si poteva campare, Se non possiamo fidarci gli uni degli altri, dove andremo a finire, si domandavano alcuni, retoricamente, ancorché a ragione, Mi sa che questi mascalzoni vogliono una buona scarica di botte, minacciavano altri, non era vero che la volessero, ma tutti intesero il significato di quelle parole, un’espressione, questa, leggermente migliorata di un barbarismo che ci si aspetta sia perdonato solo perché capita tanto a proposito. Rientrati nell’atrio, i ciechi si misero d’accordo, ritenendola la maniera più pratica di risolvere la prima parte della delicata situazione che si era creata, nel dividere in parti uguali fra le due camerate le casse rimaste, per fortuna in numero pari, e creare una commissione d’indagine, anch’essa paritaria, al fine di recuperare le casse perdute, o meglio rubate. Sprecarono un po’ di tempo a dibattere, come ormai stava diventando abitudine, sul prima e sul dopo, cioè se si dovesse mangiare prima e indagare poi, o il contrario, finendo per prevalere l’opinione che la cosa più conveniente, tenuto conto delle molte ore trascorse a digiuno forzato, sarebbe stata di rifocillare lo stomaco e procedere in seguito agli accertamenti, E non dimenticatevi che dovete sotterrare i vostri, disse uno della prima camerata, Non li abbiamo ancora ammazzati e vuoi già che li sotterriamo, rispose uno spiritoso della seconda, giocando allegramente con le parole. Tutti risero. Ben presto, però, si venne a sapere che i furfanti non si trovavano nelle camerate. Alla porta dell’una e dell’altra c’erano stati sempre dei ciechi in attesa che il cibo arrivasse, e furono loro a dire che in effetti avevano sentito passare nei corridoi qualcuno che sembrava avere molta fretta, ma lì, nelle camerate, nessuno era entrato, e tanto meno con casse di cibo, ci potevano giurare. Qualcuno ricordò che il modo più sicuro di identificare quegli individui era che tut ti i presenti andassero a occupare i rispettivi letti, quelli che fossero rimasti vuoti avrebbero dovuto essere ovviamente i letti dei ladroni, dopo di che non c’era da far altro che aspettare che ritornassero da dove si erano nascosti, leccandosi le labbra, e saltargli addosso, così imparavano a rispettare il sacro principio della proprietà collettiva. Procedere seguendo il suggerimento, peraltro opportuno e di uno sviscerato spirito di giustizia, aveva però il grave inconveniente di rinviare, impossibile prevedere a quando, l’agognata e a quest’ora ormai fredda colazione, Mangiamo prima, disse uno dei ciechi, e la maggioranza pensò che sì, era meglio mangiare prima. Disgraziatamente, solo quel poco che gli era rimasto dopo l’infame furto. In quel momento, in qualche luogo nascosto delle vetuste e decrepite costruzioni, i ladri con ogni probabilità si stavano rimpinzando con razioni doppie e triple di un rancio che, inaspettatamente, sembrava più buono, costituito da caffelatte, per la verità freddo, biscotti e pane con margarina, mentre la gente onesta non poteva far altro che saziarsi con dosi due o tre volte minori, e non di tutto. Si udì, lo udirono alcuni del la prima ala mentre malinconicamente sorbivano il loro pane e acqua, l’alto parlante chiamare i contagiati per andare a ritirare la loro parte di cibo. Uno dei ciechi, certo influenzato dall’atmosfera malsana creatasi dopo il delitto commesso, ebbe un’ispirazione, Se li aspettassimo nell’atrio si prenderebbero uno spavento da morire solo a vederci, magari lascerebbero cadere un paio di casse, ma il medico disse che non gli sembrava bello, sarebbe stata un’ingiustizia, castigare chi non ha colpa. Quando tutti ebbero finito di mangiare, la moglie del medico e la ragazza dagli occhiali scuri portarono nel giardino le scatole di cartone, i recipienti vuoti del latte e del caffè, i bicchieri di carta, insomma, tutto quanto non era commestibile, Dobbiamo bruciare la spazzatura, disse poi la moglie del medico, eliminare questo orribile moscaio.
Seduti sui letti, ciascuno sul proprio, i ciechi si misero in attesa che rientrassero nel gregge le capre smarrite, Caproni sono quelli là, commentò una voce possente, senza immaginare di corrispondere alla pastorale reminiscenza di chi non ha colpa di non saper esprimere le cose in altra maniera. Ma i malviventi non comparivano, dovevano sospettare qualcosa, sicuramente c’era fra loro qualcuno altrettanto perspicace di questo qui che aveva avuto l’idea della scarica di botte. I minuti passavano, qualche cieco qua e là si era coricato, qualcuno si era già addormentato. Qui, signori miei, si mangia e si dorme. A ben vedere le cose, non si sta mica tanto male. Purché il cibo non venga a mancare, che senza non si può vivere, è come stare in albergo. Invece, che calvario sarebbe essere cieco là fuori, in città, sì, che calvario. Andare ruzzolando per le strade, tutti a evitarlo, la famiglia spaventata, che ha paura di avvicinarsi, amore materno, amore filiale, tutte storie, magari mi facevano la stessa cosa che mi fanno qui, mi rinchiudevano in una camera e mi mettevano il piatto davanti alla porta come grande favore. Considerando la situazione freddamente, senza quei preconcetti o quei risentimenti che sempre oscurano il ragionamento, bisognava riconoscere che le autorità avevano avuto occhio decidendo di riunire ciechi con ciechi, ciascuno col proprio simile, che è la buona norma della vicinanza, come i lebbrosi, non c’è dubbio, quel medico laggiù ha ragione quando dice che dobbiamo organizzarci, effettivamente è questione di organizzazione, per primo il cibo, poi l’organizzazione, sono tutti e due indispensabili per vivere, scegliere un certo numero di persone disciplinate e disciplinanti per dirigere la baracca, stabilire delle norme consensuali di convivenza, cose semplici, spazzare, riordinare e lavare, per questo non possiamo lamentarci, ci hanno addirittura mandato sapone, detergenti, tenere il letto fatto, la cosa fondamentale è non perdere il rispetto di noi stessi, evitare conflitti con i militari che compiono il loro dovere sorvegliandoci, di morti ne abbiamo già abbastanza, domandare se c’è qualcuno fra noi che conosca delle storie da raccontare la sera, storie, favole, aneddoti, tant’è, pensate che fortuna se qualcuno conoscesse la Bibbia a memoria, ripeteremmo tutto partendo dalla creazione del mondo, l’importante è che ci ascoltiamo a vicenda, peccato non ci sia una radio, la musica è sempre stata una grande distrazione, e avremmo potuto seguire le notizie, per esempio se si scoprisse una cura per la nostra malattia, che gioia sarebbe.
Poi accadde ciò che doveva accadere. Si udirono degli spari nella strada. Vengono ad ammazzarci, gridò qualcuno, Calma, disse il medico, cerchiamo di essere logici, se avessero voluto ammazzarci sarebbero venuti a sparare qui dentro, non là fuori. Aveva ragione il medico, era il sergente che aveva dato ordine di sparare in aria, non era stato un soldato che all’improvviso fosse divenuto cieco mentre teneva il dito sul grilletto, si capisce, non c’era altro modo di inquadrare e mantenere l’ordine tra i ciechi che uscivano accalcandosi dagli autobus, il Ministero della Sanità aveva avvisato l’Esercito, Ne invieremo quattro pullman, E cioè quanti, Circa duecento, Ma dove metteremo tutta quella gente, le camerate destinate ai ciechi sono le tre dell’ala destra, secondo le informazioni che abbiamo la capienza massima è di centoventi, e ce ne sono già sessanta o settanta, meno una dozzina che abbiamo dovuto ammazzare, C’è un sistema, occupare tutte le camerate, In tal caso i contaminati si troveranno a contatto diretto con i ciechi, La cosa più probabile è che, prima o poi, finiscano per diventare anch’essi ciechi, del resto, così com’è la situazione, suppongo che contaminati lo siamo già tutti, sicuramente non c’è una sola persona che non sia stata in vista di un cieco, Se un cieco non vede, mi domando, come potrà trasmettere il male con la vista, Generale, questa deve essere la malattia più logica del mondo, l’occhio che è cieco trasmette la cecità all’occhio che vede, niente di più semplice, C’è un colonnello, qui da noi, secondo il quale la soluzione sarebbe quella di ammazzare i ciechi a mano a mano che si presentano, Morti, invece che ciechi, non modificherebbe molto il quadro, Essere cieco non è tale e quale a essere morto, Sì, ma essere morto è tale e quale a essere cieco, Beh, allora saranno circa duecento, Sì, E cosa ne facciamo dei conducenti degli autobus, Internate anche loro. Quello stesso giorno, nel tardo pomeriggio, l’Esercito chiamò il Ministero della Sanità, Volete sapere la novità, quel colonnello di cui parlavo è diventato cieco, Chi sa cosa ne penserà adesso dell’idea che aveva, Ci ha già pensato, si è sparato un colpo alla testa, Atteggiamento coerente, non c’è che dire, L’esercito è sempre pronto a dare l’esempio.
Il portone era stato spalancato. Spinto dalle abitudini militari, il sergente ordinò lo schieramento in colonna per cinque, ma i ciechi non riuscivano ad azzeccare il conto giusto, ora erano di più, ora di meno, finirono per ammucchiarsi tutti all’ingresso, da civili quali erano, senza alcun ordine, non si ricordarono neanche di mandare avanti le donne e i bambini, come negli altri naufragi. C’è da dire, prima di dimenticarcene, che non tutti gli spari erano stati mirati in aria, uno dei conducenti si era rifiutato di andare con i ciechi, protestò che ci vedeva perfettamente, il risultato, tre secondi dopo, diede ragione al Ministero della Sanità quando aveva affermato che essere morto è tale e quale a essere cieco. Il sergente impartì gli ordini già noti, Proseguite diritto, in fondo c’è una scala con sei gradini, sei, quando ci arrivate salite lentamente, se qualcuno inciampa non voglio neanche pensare a cosa potrà succedere, l’unica raccomandazione mancante fu quella di seguire la corda, ma è comprensibile, se l’avessero usata non l’avrebbero mai più finita di entrare, Attenzione, raccomandava il sergente, tranquillizzato perché ormai erano tutti all’interno del portone, ci sono tre camerate a destra e tre a sinistra, ogni camerata ha quaranta letti, che le famiglie non si separino, evitate i disordini, contatevi all’ingresso, chiedete a quelli che stanno già dentro di aiutarvi, andrà tutto bene, sistematevi, tranquilli, tranquilli, il mangiare arriverà.
Non sarebbe bello, però, immaginare che questi ciechi, tanto numerosi, procedano lì come montoni al macello, belando come al solito, un po’ accalcati, è vero, ma è sempre stato il loro modo di vivere, pelo contro pelo, fiato contro fiato, odore contro odore. Qui ce ne sono alcuni che piangono, altri che gridano di paura o di rabbia, altri ancora che imprecano, qualcuno ha lanciato una minaccia terribile e inutile, Se un giorno vi acchiappo, si suppone si riferisse ai soldati, vi cavo gli occhi. Inevitabilmente, i primi ad arrivare alla scala dovettero fermarsi, bisognava tastare con il piede l’altezza e la profondità del gradino, la pressione di quelli che seguivano ne fece cadere due o tre in avanti, per fortuna niente di più di qualche ginocchio sbucciato, il consiglio del sergente era stato davvero una benedizione. Una parte è entrata nell’atrio, ma non si sistemano con tanta facilità duecento persone, per giunta cieche e senza guida, poi si aggiunga a questa circostanza, già di per sé abbastanza penosa, il fatto che ci troviamo in un edificio antico, dal la disposizione poco funzionale, non basta che un sergente, che conosce solo il proprio mestiere, dica, Sono tre camerate per lato, bisogna poi vedere com’è dentro, porte talmente strette che sembrano vicoli, corridoi folli quanto gli occupanti, non si sa perché comincino, non si sa dove finiscano, e non si riesce a sapere che cosa vogliano. Per istinto, l’avanguardia dei ciechi si era divisa in due colonne che si spostavano lungo le pareti, da un lato e dall’altro, in cerca di una porta dove entrare, un metodo sicuro, senza dubbio, nell’ipotesi che non si frappongano dei mobili. Prima o poi, con garbo e pazienza, i nuovi ospiti finiranno per sistemarsi, ma non prima che si decidano le sorti della battaglia scoppiata poco fa tra le prime linee della colonna di sinistra e i contaminati che vivono da quella parte. C’era da aspettarselo. In base a quanto si era concordato, c’era persino un regolamento predisposto dal Ministero della sanità, quell’ala doveva essere riservata ai contaminati, e se era vero che si poteva prevedere, con altissimo grado di probabilità, che alla fine sarebbero diventati tutti ciechi, era anche vero, obbedendo alla pura logica, che fino a quando i contaminati non fossero diventati ciechi non si sarebbe potuto giurare che fossero effettivamente destinati a diventarlo. Uno se ne sta dunque tranquillamente seduto a casa propria, fiducioso che, malgrado gli esempi contrari, almeno nel suo caso tutto finisca per risolversi al meglio, e all’improvviso vede avanzare nella propria direzione giusto uno stuolo ululante di coloro che più teme. In un primo momento i contaminati pensarono si trattasse di un gruppo par loro, solo più numeroso, ma l’equivoco durò poco, quella gente era proprio cieca, Qui non potete entrare, quest’ala è solo nostra, non è per i ciechi, voi dovete stare nell’altro lato, gridarono quelli di guardia alla porta. Alcuni ciechi tentarono di compiere mezzo giro e cercare un’altra entrata, sinistra o destra per loro tant’era, ma la massa di quelli che continuavano ad affluire dall’esterno li spingeva inesorabilmente. I contaminati difendevano la porta a pugni e calci, i ciechi rispondevano come potevano, non vedevano gli avversari, ma sapevano da dove arrivavano i colpi. Nell’atrio non potevano entrarci duecento persone, né niente di simile, perciò ben presto la porta che dava nel recinto, benché abbastanza ampia, si ritrovò completamente intasata, come se la ostruisse un grosso tappo, né indietro né avanti, quelli che stavano dentro, compressi, schiacciati, tentavano di proteggersi scalciando, dando gomitate ai vicini che li soffocavano, si udivano urli, bambini ciechi che piangevano, donne cieche che svenivano, mentre i tanti che non erano riusciti a entrare spingevano sempre più, terrorizzati dagli strilli dei soldati che non capivano perché quegli idioti stessero ancora lì. Un momento terribile fu quando si produsse un violento reflusso di gente che faceva di tutto per sottrarsi alla confusione, all’imminente pericolo di schiacciamento, mettiamoci noi al posto dei soldati, all’improvviso vedono uscire di botto un certo numero di quelli che erano già entrati, pensarono subito al peggio, che i ciechi stessero per tornare indietro, ricordiamoci dei precedenti, sarebbe potuta diventare una carneficina. Fortunatamente, il sergente si dimostrò ancora una volta all’altezza della situazione, sparò egli stesso un colpo in aria, con la pistola, solo per richiamare l’attenzione, e gridò con l’altoparlante, Calma, voi che state sulla scala, indietreggiate un po’, tranquilli, non spingete, aiutatevi a vicenda. Era chiedere troppo, all’interno la lotta continuava, ma l’atrio, a poco a poco, si andò svuotando grazie a uno spostamento più numeroso di ciechi verso la porta dell’a la destra, dove venivano accolti da altri ciechi che non si preoccuparono minimamente di incamminarli verso la terza camerata, fino ad allora libera, e verso i letti che nella seconda erano ancora vuoti. Per un momento parve che la battaglia si sarebbe risolta a favore dei contaminati, non tanto perché erano i più forti e per di più dotati di vista, ma perché i ciechi, avendo capito che l’entrata dell’altro lato era sgombra, interruppero il contatto, come avrebbe detto il sergente nelle sue lezioni militari di strategia e tattica elementare. Però non durò molto la gioia dei difensori. Dal la porta dell’ala destra cominciarono ad arrivare voci che lì non c’erano più posti, che tutte le camerate erano piene, alcuni ciechi furono addirittura spintonati di nuovo nell’atrio, nel momento preciso in cui, disgregatosi il tappo umano che fino ad allora bloccava l’ingresso principale, i ciechi che si trovavano ancora fuori, ed erano molti, riuscirono ad avanzare e a ripararsi sotto quel tetto dove, in salvo dalle minacce dei soldati, avrebbero vissuto da allora in poi. Il risultato di questi due spostamenti, praticamente simultanei, fu il riaccendersi della contesa all’ingresso dell’ala sinistra, di nuovo colpi, di nuovo schiamazzi, e, come se non bastasse, un certo numero di ciechi sgusciati via, i quali avevano trovato e forzato la porta che dall’atrio dava accesso diretto al cortile interno, attaccarono a gridare che c’erano dei morti. S’immagini il terrore. Indietreggiarono questi ultimi alla meglio, Ci sono dei morti, ci sono dei morti, ripetevano, come se i prossimi a morire fossero loro, in un attimo l’atrio tornò a essere quel gorgo furioso dei peggiori momenti, poi la massa umana deviò con uno slancio repentino e disperato verso l’ala sinistra, spingendo tutto avanti, dopo aver sbaragliato la resistenza dei contaminati, molti dei quali non lo erano più, mentre altri, correndo come pazzi, tentavano ancora di sfuggire alla nera iattura. Correvano invano. Uno dopo l’altro, tutti divennero ciechi, con gli occhi che all’improvviso annegavano nell’orrida marea bianca che inondava i corridoi, le camerate, lo spazio intero. Là fuori, nell’atrio, nel recinto, i ciechi si trascinavano derelitti, chi tutto ammaccato, chi calpestato, e soprattutto gli anziani, le donne e i bambini, come sempre, esseri generalmente ancora oppure ormai con poche difese, fu un miracolo se non ci scapparono molti più morti da sotterrare. Sparpagliati per terra, oltre alle scarpe perdute dai piedi, c’erano borse, valigie, cesti, l’ultima ricchezza di ciascuno, ormai perduta per sempre, chi troverà qualcosa dirà che gli appartiene.
Un vecchio con una benda nera su un occhio arrivò dal cortile. O aveva perso il bagaglio anche lui, o non lo aveva portato. Era stato il primo a inciampare nei morti, ma lui non gridò. Se ne rimase lì con loro, accanto a loro, in attesa che tornassero la pace e il silenzio. Per un’ora ha aspettato. Adesso è il suo turno di cercare un rifugio. Lentamente, con le braccia tese, cercò la strada. Trovò la porta della prima camerata dell’ala destra, udì alcune voci provenire da dentro, allora domandò, C’è un letto per me.

8.

L’arrivo di tanti ciechi parve recare almeno un vantaggio. A pensarci bene, due, il primo di ordine per così dire psicologico, è davvero molto diverso lo stare continuamente in attesa che ci si presentino nuovi inquilini e il vedere che finalmente il palazzo è pieno, che da ora in poi è possibile creare e mantenere con i vicini rapporti stabili, duraturi, non turbati, come era successo fino ad ora, da successive interruzioni e intromissioni di nuovi arrivati che ci obbligavano a ricostruire continuamente i canali di comunicazione. Il secondo vantaggio, di ordine pratico, diretto e sostanziale, fu che le autorità esterne, civili e militari, avevano capito che una cosa è fornire generi alimentari per due o tre dozzine di persone, più o meno tolleranti, più o meno predisposte, dato l’esiguo numero, a rassegnarsi in caso di occasionali mancanze o ritardi nel vitto, e tutt’altra cosa era adesso la repentina e complessa responsabilità di mantenere duecentoquaranta esseri umani di ogni sorta, provenienza e tipo in fatto di carattere e temperamento. Duecentoquaranta per modo di dire, si badi, perché sono per lo meno venti i ciechi che non sono riusciti a trovare una branda e dormono per terra. In tutti i casi, bisogna riconoscere che non è la stessa cosa doversi adattare a mangiare in trenta quanto dovrebbe bastare per dieci, e distribuire per duecentosessanta il cibo destinato a duecentoquaranta. La differenza è quasi impercettibile. Orbene, fu la consapevolezza di questa maggiore responsabilità e forse, ipotesi tutt’altro che trascurabile, il timore che si potessero scatenare nuovi tumulti, a indurre le autorità a cambiare sistema, e cioè a mandare da mangiare in tempo e in orario, e nelle quantità giuste. Ovviamente, dopo la pugna, sotto tutti gli aspetti deplorevole, cui abbiamo dovuto assistere, non poteva certo esser facile né esente da conflitti localizzati l’insediamento di tanti ciechi, ci basterà rammentare quei poveri contaminati che prima ci vedevano ancora e adesso non ci vedono più, le coppie divise e i figli smarriti, i lamenti dei calpestati e pigiati, alcuni due o tre volte, e tutti quelli che vanno in cerca dei loro amati beni senza trovarli, bisognerebbe essere del tutto insensibili per dimenticare, come se niente fosse, le pene della povera gente. Eppure, non si può negare che l’annuncio dell’arrivo del pranzo fu, per tutti, un balsamo ristoratore. E se è innegabile che il ritiro di così grandi quantità di cibo e la loro distribuzione fra tante bocche, per la mancanza di una organizzazione adeguata e di un’autorità capace di imporre la necessaria disciplina, diede origine a nuovi dissapori, dobbiamo pur riconoscere che l’atmosfera cambiò sostanzialmente, in meglio, quando in tutto l’antico manicomio non si udì altro se non il rumore di duecentosessanta bocche che masticavano. Chi poi pulirà tutto è questione per il momento senza risposta, solo verso la fine del pomeriggio l’altoparlante tornerà a elencare le norme di buona condotta che dovranno essere osservate per il bene di tutti, e allora si vedrà fino a che grado le rispetteranno coloro che sono appena arrivati. Già non è poco che gli occupanti della seconda camerata dell’ala destra si siano decisi, finalmente, a sotterrare i propri morti, almeno ci siamo liberati di questo odore, all’odore dei vivi, anche se fetido, sarà più facile abituarsi.
Quanto alla prima camerata, forse perché è la più antica e quindi da più tempo in via di adattamento alla condizione di cecità, un quarto d’ora dopo che i suoi occupanti avevano finito di mangiare non si vedeva un solo pezzo di carta sporca per terra, né un piatto dimenticato, o un recipiente gocciolante. Tutto era stato radunato, le cose più piccole infilate nelle più grandi, le più sporche in quelle meno sporche, come avrebbe indicato una razionale regolamentazione dell’igiene, attenta non solo alla maggiore efficacia possibile nella raccolta degli avanzi e dei rifiuti, ma anche all’economia dello sforzo necessario a realizzare il lavoro. La mentalità che obbligatoriamente dovrà determinare comportamenti sociali di questo tipo non si improvvisa né nasce spontaneamente. Nel caso in esame sembra abbia avuto influenza decisiva l’azione pedagogica della cieca in fondo alla camerata, quella sposata con l’oculista, si è tanto affannata a dirci, Se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto per non vivere globalmente come animali, lo ha ripetuto tante volte che il resto della camerata ha finito per trasformare in massima, in sentenza, in dottrina, in norma di vita, quelle parole, in fondo semplici ed elementari. Probabilmente un tale stato d’animo, propizio alla comprensione delle necessità e delle circostanze, è ciò che ha contribuito, ancorché in modo collaterale, alla benevola accoglienza che ha trovato il vecchio dalla benda nera quando si è affacciato alla porta e ha domandato, C’è un letto per me. Per un caso fortunato, ovviamente preannunciante sviluppi nel futuro, un letto c’era, l’unico, chissà poi perché sopravvissuto, per così dire, all’invasione, in quel letto aveva sofferto il ladro di automobili inenarrabili dolori, ecco forse perché gli era rimasto un alone di sofferenza che aveva tenuto lontana la gente. Sono disposizioni del destino, misteri degli arcani, la porzione è già in serbo, e questa non è stata la prima coincidenza, tornando indietro basta notare come in questa camerata siano venuti a finire tutti i pazienti che si trovavano nell’ambulatorio oculistico quando vi era comparso il primo cieco, a quel tempo si pensava ancora che non si sarebbe andati oltre. Sottovoce come al solito, per non denunciare il segreto della sua presenza lì, la moglie del medico sussurrò all’orecchio del marito, Forse è stato anche lui un tuo malato, è un uomo anziano, mezzo calvo, qualche ciuffo bianco, e ha una benda nera su un occhio, mi ricordo che ne hai parlato, Che occhio, Il sinistro, Deve essere lui. Il medico si fece avanti nella corsia e disse, alzando un po’ la voce, Vorrei poter toccare la persona che si è appena unita a noi, le chiedo di camminare in questa direzione, io le verrò incontro. Si trovarono a metà strada, dita contro dita, come due formiche che avrebbero dovuto riconoscersi manovrando le antenne, non andrà così in questo caso, il medico chiese permesso, con le mani tastò la faccia del vecchio, trovò rapidamente la benda, Non c’è dubbio, era l’ultimo che ci mancava, il paziente dalla benda nera, esclamò, Cosa vuol dire, chi è lei, domandò il vecchio, Sono, anzi ero il suo oculista, si ricorda, avevamo concordato la data della sua operazione alla cataratta, Come ha fatto a riconoscermi, Soprattutto dalla voce, la voce è la vista di chi non vede, Sì, la voce, anch’io riconosco la sua, chi ce lo avrebbe detto, dottore, adesso non c’è più bisogno che mi operi, Se c’è un rimedio, ne abbiamo bisogno tutti e due, Rammento, dottore, che mi ha detto che dopo operato non avrei neanche riconosciuto il mondo in cui vivevo, a questo punto sappiamo quanto avesse ragione lei, Quand’è che è diventato cieco, Ieri sera, E l’hanno portata subito qui, Là fuori c’è una tale paura che fra poco cominceranno ad ammazzare le persone appena si accorgono che sono diventate cieche, Qui ne hanno già fatti fuori dieci, disse una voce di uomo, Li ho trovati, rispose semplicemente il vecchio dalla benda nera, Erano di un’altra camerata, i nostri li abbiamo sotterrati subito, aggiunse la stessa voce, come se terminasse un resoconto. La ragazza dagli occhiali scuri si era avvicinata, Si ricorda di me, portavo degli occhiali scuri, Mi ricordo bene, nonostante la mia cataratta ricordo che era molto bella, la ragazza sorrise, Grazie, disse, e tornò al suo posto. Disse poi, C’è qui anche quel bambino, Voglio la mamma, disse la voce del ragazzino, come stanca di un pianto remoto e inutile. E io sono il primo che è diventato cieco, disse il primo cieco, sono qui con mia moglie, E io sono l’impiegata dell’ambulatorio, disse l’impiegata dell’ambulatorio. La moglie del medico disse, Manca solo che mi presenti io, e disse chi era. Allora il vecchio, come per ricambiare l’accoglienza, annunciò, Ho una radio, Una radio, esclamò la ragazza dagli occhiali scuri battendo le mani, musica, che bello, Sì, ma è una radiolina, a pile, e le pile non dureranno sempre, ricordò il vecchio, Non mi dica che dovremo restare qui per sempre, disse il primo cieco, Per sempre no, per sempre è sempre troppo tempo, Servirà per ascoltare le notizie, osservò il medico, E un po’ di musica, insistette la ragazza dagli occhiali scuri, Non a tutti potrebbe piacere la stessa musica, ma sicuramen te siamo tutti interessati a sapere come vanno le cose fuori, la cosa migliore è risparmiare la radio, Lo penso anch’io, disse il vecchio dalla benda nera. Tirò fuori il piccolo apparecchio dalla tasca esterna della giacca e lo accese. Si mise a cercare le stazioni, ma la sua mano, ancora poco sicura, perdeva facilmente la sintonia con la lunghezza d’onda, all’inizio non si udì altro che rumori intermittenti, frammenti di musica e parole, infine la mano divenne più ferma, la musica parve riconoscibile, La lasci solo un attimo, chiese la ragazza dagli occhiali scuri, le parole divennero più chiare, Non sono notizie, disse la moglie del medico, e poi, come un’idea che le fosse venuta all’improvviso, Che ore saranno, domandò, ma già sapeva che nessuno avrebbe potuto risponderle. La lancetta della sintonia continuava a cavar rumori dal la piccola cassa, poi si fissò, era una canzone, una canzone qualunque, ma i ciechi si avvicinarono lentamente, non si spingevano, si fermavano appena sentivano una presenza davanti a sé e stavano lì a sentire, con gli occhi be ne aperti in direzione della voce che cantava, alcuni piangevano, come probabilmente soltanto i ciechi possono piangere, semplicemente lacrime che scorrevano, come da una fontana. La canzone arrivò alla fine, l’annunciatore disse, Attenzione, al terzo segnale saranno le quattro. Una delle cie che domandò ridendo, Del pomeriggio o del mattino, e fu come se la risata le facesse male. Celatamente, la moglie del medico regolò e caricò l’orologio, erano le quattro del pomeriggio, anche se, in verità, per un orologio tant’è, va dall’una alle dodici, il resto sono idee degli esseri umani. Cos’è questo rumorino, domandò la ragazza dagli occhiali scuri, sembrava, Sono stata io, ho sentito che dicevano alla radio che erano le quattro e ho caricato il mio orologio, uno di quei movimenti automatici che facciamo tante volte, si premunì la moglie del medico. Poi pensò che non ne fosse valsa la pena, rischiare così, le sarebbe bastato guardare il polso dei ciechi che erano entrati quel giorno, qualcuno doveva pur avere l’orologio funzionante. Ce lo aveva proprio il vecchio dalla benda nera, come notò in quel momento, e il suo orario era preciso. Allora il medico chiese, Ci parli di com’è la situazione là fuori. Il vecchio dalla benda nera disse, Certo, ma è meglio che mi sieda, non riesco a reggermi in piedi. Stavolta a gruppi di tre o quattro per letto, in compagnia, i ciechi si sistemarono come meglio poterono, fecero silenzio, e quindi il vecchio dalla benda nera raccontò ciò che sapeva, ciò che aveva visto con i propri occhi finché li aveva avuti, ciò che aveva sentito dire durante i pochi giorni intercorsi fra l’inizio dell’epidemia e la propria ce cità.
Nelle prime ventiquattr’ore, disse, se era veritiera la notizia che circolava, c’erano stati centinaia di casi, tutti uguali, tutti manifestatisi nella stessa maniera, rapidità istantanea, assenza sconcertante di lesioni, biancore splendente del campo visivo, nessun dolore prima, nessun dolore dopo. Il secondo giorno si parlò di una certa diminuzione nel numero di nuovi casi, si passò dalle centinaia alle decine, il che portò il Governo ad annunciare prontamente che, in base alle più ragionevoli prospettive, la situazione sarebbe stata ben presto sotto controllo. Da questo punto in avanti, salvo alcuni commenti qua e là che non si sono potuti evitare, il racconto del vecchio dalla benda nera non sarà più seguito alla lettera, sostituito piuttosto da una riorganizzazione del discorso orale, orientata nel senso di valorizzare l’informazione con l’uso di un corretto e adeguato vocabolario. Motivo di questa alterazione, non prevista prima, è il modo di esprimersi controllato, tutt’altro che dialettale, impiegato dal narratore, che per poco lo squalificava come relatore complementare, importante, senza dubbio, giacché senza di lui non avremmo modo di sapere quel che è successo nel mondo esterno, come relatore complementare, dicevamo, di questi straordinari avvenimenti, quando si sa che la descrizione di qualsiasi fatto ha solo da guadagnarne con il rigore e la proprietà dei termini usati. Tornando al l’argomento, escluse quindi il Governo l’ipotesi, precedentemente ventilata, che il paese si trovasse sotto l’azione di una epidemia senza precedenti noti, provocata da un agente morboso ancora non identificato, a effetto istantaneo, con assenza totale di previ segnali di incubazione o di latenza. Doveva trattarsi, dunque, secondo la nuova opinione scientifica e la conseguente e aggiornata interpretazione amministrativa, di una casuale e sfortunata concomitanza temporale di circostanze anch’esse per il momento non accertate e nella cui esaltazione patogenica ormai era possibile, rilevava il comunicato del Governo, partendo dall’elaborazione dei dati disponibili che indicano la prossimità di una chiara curva di risoluzione, osservare indizi di esaurimento. Un commentatore televisivo ebbe l’ingegnosità di trovare la metafora giusta quando paragonò l’epidemia, o quel che fosse, a una freccia scagliata verso l’alto, che, nel raggiungere il culmine dell’a scensione, si mantiene per un momento come sospesa, e poi comincia a descrivere l’obbligatoria curva discendente che, a Dio piacendo, e con questa invocazione il commentatore ritornava alla trivialità degli scambi umani e al l’epidemia propriamente detta, poi ci penserà la gravità ad accelerare, fino alla scomparsa del terribile incubo che ci tormenta, una mezza dozzina di parole, queste, che comparivano continuamente nei vari mezzi di comunicazione sociale, i quali finivano sempre col formulare il compassionevole augurio che i poveri ciechi potessero recuperare ben presto la vista perduta, promettendo loro, nel frattempo, la solidarietà di tutta la società organizzata, sia ufficiale che privata. In un passato remoto, ragioni e metafore simili erano state tradotte dall’imperterrito ottimismo della gente comune in detti tipo questo, Non c’è bene che sempre duri, né male che perduri, oppure, in versione letteraria, Così come non c’è bene che duri sempre, non c’è male che sempre duri, massime supreme di chi ha avuto il tempo di apprendere con gli scossoni della vita e della fortuna, e che, trasposte fra i ciechi, andranno lette come segue, Ieri vedevamo, oggi non vediamo, domani vedremo, con una leggera intonazione interrogativa nella terza parte della frase, come se la prudenza, all’ultimo istante, avesse deciso, per sì e per no, di aggiungere l’ambiguità del dubbio alla speranzosa conclusione.
Disgraziatamente, non tardò a dimostrarsi l’inanità di tali voti, le aspettative del Governo e le previsioni della comunità scientifica andarono semplicemente a rotoli. La cecità stava dilagando, non come una marea repentina che tutto inondasse e spingesse avanti, ma come un’infiltrazione insidiosa di mille e uno rigagnoli inquietanti che, dopo aver inzuppato lentamente la terra, all’improvviso la sommergono completamente. Davanti all’allarme sociale, ormai sul punto di esserne travolte, le autorità promossero in tutta fretta riunioni mediche, soprattutto di oculisti e neurologi. Per via del tempo che fatalmente avrebbe richiesto la sua organizzazione, non si arrivò a convocare il congresso che alcuni preconizzavano, ma in compenso non mancarono i colloqui, i seminari, le tavole rotonde, alcune aperte al pubblico, altre celebrate a porte chiuse. L’effetto combinato del la palese inutilità dei dibattiti e i casi di alcune cecità improvvise verificatesi nel corso delle sedute, portarono i giornali, la radio e la televisione, quasi tutti, a cessare di occuparsi di tali iniziative, a eccezione del discreto e sotto ogni aspetto lodevole comportamento di certi organi di comunicazione che, campando a forza di scandali di ogni tipo, delle grazie e delle disgrazie altrui, non erano disposti a perdere una sola occasione si presentasse di riferire in diretta, con la drammaticità che la situazione giustificava, la cecità improvvisa, per esempio, di un cattedratico di oculistica.
La prova del progressivo deterioramento dello stato d’animo generale la diede lo stesso Governo, modificando per ben due volte, in una mezza dozzina di giorni, la propria strategia. Prima, aveva creduto fosse possibile circoscrivere il male ricorrendo all’isolamento dei ciechi e dei contaminati in certi spazi discriminati, come il manicomio in cui ci troviamo. Poi, l’inesorabile aumento dei casi di cecità portò alcuni influenti membri del Governo, timorosi che l’iniziativa ufficiale non corrispondesse abbastanza alle richieste, il che avrebbe determinato pesanti penalizzazioni politiche, a sostenere l’idea che dovesse spettare alle famiglie sorvegliare in casa i propri ciechi, non lasciandoli uscire, al fine di non complicare il già difficile traffico e di non offendere la sensibilità di coloro che ancora vedevano con gli occhi di cui disponevano e che, indifferenti alle opinioni più o meno tranquillizzanti, credevano che il mal bianco si propagasse per contatto visivo, come il malocchio. In effetti, non era legittimo attendersi diversa reazione da chi, immerso nei propri pensieri, tristi, neutri o allegri, ammesso che di questi ultimi ancora ce ne fossero, vedeva all’improvviso trasformarsi l’espressione di qualcuno che procedeva nella sua direzione, configurarglisi nel volto tutti i segni del terrore assoluto, e subito dopo il grido inevitabile, Sono cieco, sono cieco. Non c’erano nervi che resistessero. Il peggio è che le famiglie, soprattutto le meno numerose, rapidamente si trasformarono in famiglie tutte di ciechi, dove quindi non c’era più nessuno a poter guidare e sorvegliare, e a proteggere dai ciechi la comunità dei vicini con vista buona, ed era chiaro che quei ciechi non potevano, per quanto fossero padre, madre e figlio, badare gli uni agli altri, o se no gli sarebbe finita come ai ciechi del dipinto, che camminano insieme, cadono insieme e insieme muoiono.
In questa situazione, il Governo non ebbe altro rimedio se non fare di corsa marcia indietro, allargando i criteri già stabiliti sui luoghi e gli spazi requisibili, col risultato dell’immediato e improvvisato utilizzo di fabbriche abbandonate, templi sconsacrati, centri sportivi e magazzini vuoti, Da due giorni si parla già di organizzare delle tendopoli, aggiunse il vecchio dalla benda nera. All’inizio, molto all’inizio, alcune organizzazioni benefiche avevano ancora offerto volontari per andare a badare ai ciechi, rifare letti, pulire gabinetti, lavare biancheria, preparare da mangiare, quelle cure minime senza le quali la vita diviene ben presto insopportabile, persino per i vedenti. Quei poveracci diventavano immediatamente ciechi, ma almeno passava alla storia la beltà del gesto. è venuto qualcuno qui, domandò il vecchio dalla benda nera, No, rispose la moglie del medico, nessuno, Forse era una chiacchiera, E la città, e i trasporti, domandò il primo cieco, ricordandosi della propria macchina e dell’autista di tassì che lo aveva portato all’ambulatorio e che lui aveva aiutato a sotterrare, I trasporti sono nel caos, rispose il vecchio dalla benda nera, e passò ai particolari, agli episodi e agli incidenti. La prima volta che divenne cieco un conducente di autobus, in servizio e in piena via pubblica, la gente, malgrado i morti e i feriti provocati dal disastro, non vi prestò grande attenzione, per la stessa ragione, e cioè la forza dell’abitudine, che portò il responsabile dell’ufficio stampa dei trasporti a dichiarare, papale papale, che il disastro era stato originato da un errore umano, senza dubbio deprecabile, ma, a ben pensarci, imprevedibile quanto poteva esserlo un infarto fulminante in chi non avesse mai sofferto di cuore. I nostri impiegati, spiegò il responsabile, così come le parti meccaniche e gli impianti elettrici dei nostri automezzi, sono periodicamente soggetti a control li estremamente rigorosi, e ciò è confermato, con diretto e chiaro rapporto di causa ed effetto, dalla bassissi ma percentuale di incidenti, in totale, nei quali sono stati coinvolti fino a ora i veicoli della nostra compagnia. La profusa spiegazione uscì sui giornali, ma la gente aveva altro cui pensare, più che preoccuparsi di un semplice disastro occorso a un autobus, in fin dei conti non sarebbe andata peggio se gli si fossero rotti i freni. Peraltro fu questa, due giorni dopo, la vera causa di un altro incidente ma così è fatto il mondo, che spesse volte la verità deve celarsi sotto la menzogna per raggiungere i propri scopi, la voce che si diffuse fu che era diventato cieco il conducente. Non ci fu modo di convincere il pubblico di quanto era effettivamente accaduto, e il risultato si vide ben presto, da un momento all’altro le per sone smisero di servirsi degli autobus, dicendo che preferivano diventar cieche loro piuttosto che morire per la cecità altrui. Un terzo incidente, subito dopo, per lo stesso motivo, con un veicolo che non portava passeggeri, diede adito a commenti simili, dal tono notoriamente popolare, Pensa se stavo là dentro. Non poteva neanche immaginare, chi parlava così, quanto avesse ragione. Per la cecità simultanea dei due piloti, non tardò che un aereo commerciale si incendiasse e poi si disintegrasse in fase di atterraggio, provocando la morte di tutti i passeggeri e membri dell’equipaggio, benché, in questo caso, si trovassero in perfetto stato sia la meccanica che l’elettronica, come avrebbe rivelato l’esame della scatola nera, unica sopravvissuta. Una tragedia di queste dimensioni non era come un normale incidente di autobus, la conseguenza fu che persero le ultime illusioni coloro che ancora ne avevano, dopo di che non si udì più un solo rumore di motore, non una ruota, grande o piccola, veloce o lenta, si rimise in movimento. Coloro che, prima, solevano lamentarsi delle difficoltà sempre maggiori del traffico, pedoni che a prima vista sembravano incerti nella direzione perché le automobili, ferme o in movimento, continuamente tagliavano loro la strada, conducenti che, dopo aver fatto mille e tre giri prima di riuscire a scoprire un posto dove piazzare finalmente la macchina, si trasformavano in pedoni e cominciavano a protestare per le stesse ragioni degli altri dopo aver reclamato per le proprie, adesso tutti quanti avrebbero dovuto essere soddisfatti, se non per la palese circostanza che, non essendoci più nessuno che si azzardava a guidare un qualsiasi veicolo, neanche per andare da qui a lì, le automobili, i camion, le moto, e perfino le biciclette, così discrete, erano sparpagliati caoticamen te per tutta la città, abbandonati dovunque la paura avesse prevalso sul senso di proprietà, una grottesca evidenza simboleggiata da quella gru con un’automobile mezza sollevata, appesa all’asse anteriore, probabilmente il primo a diventare cieco era stato il conducente della gru.
Brutta per chiunque, la situazione, per i ciechi, era catastrofica, dal momento che, come si dice correntemente, non potevano vedere dove andavano né dove mettevano i piedi. Era penoso vederli sbattere contro le macchine abbandonate, uno dopo l’altro, sbucciandosi gli stinchi, alcuni cadevano e piangevano, C’è qualcuno che mi dia una mano ad alzarmi, ma c’erano anche quelli che, abbrutiti dalla disperazione o per carattere, imprecavano e respingevano la mano benemerita accorsa in loro aiuto, Mi lasci, arriverà anche il suo turno di diventare cieco, allora l’anima compassionevole si spaventava, scappava via, si perdeva nella densità di quella nebbia bianca, subitamente consapevole del rischio che la bontà gli aveva fatto correre, magari per diventare cieco qualche metro più avanti.
Così stanno le cose fuori, concluse il vecchio dalla benda nera, e non so mica tutto, parlo solo di quanto ho potuto vedere con i miei occhi, e qui si interruppe, fece una pausa e si corresse, No, non con i miei occhi, perché ne avevo solo uno, e adesso neanche quello, cioè, ce l’ho ma non mi serve, Non le ho mai domandato perché non usasse un occhio di vetro invece della fascia, E perché avrei dovuto, me lo dica lei, la prego, domandò il vecchio dalla benda nera, Si usa, è per l’estetica, e inoltre è molto più igienico, si toglie, si lava e si rimette, come le dentiere, Sì, certo, ma mi dica, cosa succederebbe oggi se tutti coloro che adesso si ritrovano ciechi avessero perduto, dico materialmente perduto, entrambi gli occhi, a cosa gli servirebbe adesso andarsene in giro con due occhi di vetro, In effetti, non servirebbe a niente, Se diventeremo tutti ciechi, come pare succederà, a che scopo l’estetica, e quanto all’igiene, mi dica, dottore, che specie di igiene potrà esserci qui, Probabilmente solo in un mondo di ciechi le cose saranno ciò che veramente sono, disse il medico, E le persone, domandò la ragazza dagli occhiali scuri, Anche le persone, non ci sarà nessuno a vederle, Mi è venuta un’idea, disse il vecchio dalla benda nera, facciamo un gioco per passare il tempo, Come si può giocare senza vedere a cosa si gioca, domandò la moglie del primo cieco, Non sarà proprio un gioco, ciascuno di noi dovrebbe dire esattamente ciò che stava vedendo nel momento in cui è diventato cieco, Potrebbe essere sconveniente, ricordò qualcuno, Chi non vuole partecipare al gioco, non partecipa, ma in ventare non vale, Dia l’esempio, dis se il medico, Senz’altro, disse il vecchio dalla benda nera, sono diventato cieco mentre mi stavo guardando l’occhio cieco, Cosa vuol dire, è molto semplice, ho sentito come se l’interno dell’orbita vuota fosse infiammato e ho tolto la benda per accertarmene, in quel momento sono diventato cieco, Sembra una parabola, disse una voce sconosciuta, l’occhio che si rifiuta di riconoscere la propria assenza, Io, disse il medico, mi ero messo a consultare a casa dei manuali di oculistica, proprio per via di quanto sta accadendo, l’ultima cosa che ho visto sono le mie mani sopra un libro, La mia ultima immagine è diversa, disse la moglie del medico, l’interno di un’ambulanza mentre aiutavo mio marito a entrare, Il mio caso lo avevo già raccontato al dottore, disse il primo cieco, mi ero fermato a un semaforo, era rosso, c’era gente che attraversava la strada da un lato all’altro, è allora che sono diventato cieco, poi quel tizio che è morto l’altro giorno mi ha portato a casa, in faccia non l’ho visto, chiaro, Quanto a me, disse la moglie del primo cieco, l’ultima cosa che ricordo di aver visto è il mio fazzoletto, ero a casa e piangevo, ho portato il fazzoletto agli occhi e in quell’istante sono diventata cieca, Io, disse l’impiegata dell’ambulatorio, ero appena entrata nell’ascensore, ho teso la mano per spingere il pulsante e all’improvviso non ho più visto, immaginate la mia angoscia, chiusa lì, da sola, non sapevo se salire o scendere, non trovavo il pulsante di apertura della porta, Il mio caso, disse il commesso di farmacia, è più semplice, avevo sentito dire che c’era gente che diventava cieca, allora ho pensato a come sarebbe stato se lo fossi diventato anch’io, ho chiuso gli occhi per provare e quando li ho aperti ero cieco, Sembra un’altra parabola, disse la voce sconosciuta, se vuoi essere cieco, lo sarai. Tacquero. Gli altri ciechi erano tornati ai rispettivi letti, il che non era impresa da poco, perché se è vero che sapevano i numeri loro spettanti, solo cominciando a contare da una delle estremità, da uno in su o da venti in giù, potevano aver la certezza di arrivare dove volevano. Quando il mormorio della enumerazione, monotono come una litania, si smorzò, la ragazza dagli occhiali scuri raccontò quel che le era successo, Ero nella camera di un albergo, avevo un uomo sopra di me, a questo punto tacque, si vergognò di dire cosa stesse facendo, che aveva visto tutto bianco, ma il vecchio dalla benda nera domandò, E ha visto tutto bianco, Sì, rispose lei, Forse la sua cecità non è come la nostra, disse il vecchio dalla benda nera. Mancava solo la cameriera dell’albergo, Stavo rifacendo un letto, qualcuno era diventato cieco proprio lì, ho alzato e disteso il lenzuolo bianco davanti a me, l’ho rimboccato ai lati come si deve, lo stavo lisciando con tutte e due le mani, a quel punto ho smesso di vedere, mi ricordo di come lisciavo il lenzuolo, pian pianino, era quello di sotto, concluse, come se ciò avesse una particolare importanza. Avete già raccontato tutti la vostra ultima storia di quando vedevate, domandò il vecchio dalla benda nera, Adesso racconto la mia, se non c’è nessun altro, disse la voce sconosciuta, Se c’è, parlerà dopo, racconti lei, L’ultima cosa che ho visto è un quadro, Un quadro, ripeté il vecchio dalla benda nera, e dove si trovava, Ero andato al museo, era un campo di grano con corvi e cipressi e un sole che sembrava esser fatto con pezzi di altri soli, Ha tutto l’aspetto di essere di un olandese, Credo di sì, ma c’era anche un cane sul punto di sprofondare, era già mezzo sotterrato, poverino, In tal caso, può essere solo di uno spagnolo, prima di lui nessuno aveva dipinto così un cane, dopo di lui nessun altro ha osato farlo, Probabilmente, e c’era un carro carico di fieno, tirato da cavalli, che attraversava un ruscello, C’era una casa a sinistra, Sì, Allora è di un inglese, Potrebbe essere, ma non credo, perché c’era anche una donna con un bambino in braccio, Di bambini in braccio a donne se ne vedono dovunque in pittura, In effetti, l’ho notato, Quello che non capisco è come potrebbero trovarsi in un unico quadro dipinti così diversi e di così diversi pittori, E c’erano degli uomi ni che mangiavano, Sono talmente numerosi i pranzi, le merende e le cene nella storia dell’arte che, in base a questa sola indicazione, non è possibile sapere chi mangiava, Gli uomini erano tredici, Ah, allora è facile, vada avanti, C’era anche una donna nuda, con i capelli biondi, dentro una conchiglia fluttuante nel mare, e intorno a lei tanti fiori, Italiano, chiaro, E una battaglia, Eccoci di nuovo come nel caso dei pasti e delle madri con bambini in braccio, non basta per sapere chi lo ha dipinto, Morti e feriti, è naturale, prima o poi tutte le creature muoiono, e i soldati pure, E un cavallo impaurito, Con gli occhi che sembravano voler fuoriuscire dalle orbite, Esattamente, I cavalli sono così, e quali altri quadri c’erano in quel suo quadro, Non ce l’ho fatta a saperlo, sono diventato cieco nel preciso istante in cui stavo guardando il cavallo. La paura acceca, disse la ragazza dagli occhiali scuri, Parole giuste, eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi, Chi sta parlando, domandò il medico, Un cieco, rispose la voce, un semplice cieco, qui non c’è altro. Allora il vecchio dalla benda nera domandò, Di quanti ciechi ci sarà bisogno per fare una cecità. Nessuno gli seppe rispondere. La ragazza dagli occhiali scuri lo pregò di accendere la radio, forse davano qualche notizia. La diedero più tardi, nel frattempo sentirono un po’ di musica. A un certo momento comparvero alla porta della camerata un po’ di ciechi, uno dei quali disse, Che peccato non aver portato la chitarra. Le notizie non furono confortanti, correva voce che fosse prevista a breve scadenza la formazione di un governo di unità e di salvezza nazionale.

9.

All’inizio, quando i ciechi qui dentro si contavano ancora sulle dita, quando bastava lo scambio di due o tre parole perché gli sconosciuti si trasformassero in compagni di sventura, e con tre o quattro in più si perdonavano reciprocamente tutte le mancanze, talune anche gravi, e se il perdono non poteva esser completo, bastava solo aver la pazienza di aspettare qualche giorno, si è visto benissimo quante ridicole angosce abbiano dovuto sopportare gli sventurati ogni qualvolta il corpo pretendeva una di quelle urgenti liberazioni che siamo soliti designare come soddisfazione di necessità. Malgrado ciò, e pur sapendo come siano rarissime le educazioni perfette e come persino i più discreti recessi abbiano i loro punti deboli, c’è da riconoscere che i primi ciechi messi in quarantena sono stati capaci, più o meno consapevolmente, di portare con di gnità la croce della natura prevalentemente escatologica dell’essere umano. Ma adesso, con le brande tutte occupate, e sono duecentoquaranta, senza contare i ciechi che dormono per terra, non c’è immaginazione, per quanto fertile e creativa in paragoni, immagini e metafore, che possa descrivere con proprietà la distesa di schifezza che c’è qua dentro. Non è solo lo stato cui si sono rapidamente ridotti i cessi, antri fetidi, come probabilmente saranno all’inferno le fogne delle anime dannate, ma è anche la mancanza di rispetto di alcuni o l’improvvisa urgenza di altri che, in pochissimo tempo, ha trasformato i corridoi e gli altri posti di passaggio in gabinetti che inizialmente erano occasionali e ormai sono diventati abituali. I negligenti o i pressati pensavano, Non ha importanza, nessuno mi vede, e non andavano oltre. Quando divenne impossibile, in ogni senso, arrivare fino ai cessi, i ciechi presero a usare il recinto come posto per tutti gli sfoghi e tutte le decomposizioni corporali. Quelli che, per natura o per educazione, erano delicati, si trattenevano tutto il santissimo giorno, resistevano come potevano in attesa della notte, si presumeva che lo fosse quando nelle camerate c’era più gente a dormire, e allora, tenendosi la pancia o stringendo le gambe, andavano in cerca di tre palmi di pavimento pulito, ammesso che ci fossero in quella sorta di moquette fatta di escrementi mille volte calpestati, e col pericolo, per giunta, di perdersi nello spazio infinito del recinto, dove non esistevano altri segnali di orientamento se non quei pochi alberi i cui tronchi erano riusciti a sopravvivere alla mania di sopralluogo dei pazzi di un tempo, e poi quei monticelli, ormai quasi spianati, che a stento coprivano i morti. Una volta al giorno, sempre nel tardo pomeriggio, come una sveglia regolata sullo stesso orario, la voce dell’altoparlante ripeteva le note istruzioni e proibizioni, insisteva sui vantaggi di un uso regolare dei prodotti di pulizia, rammentava l’esistenza di un telefono in ogni camerata per richiedere i rifornimenti necessari, quando mancavano, ma quello di cui lì ci sarebbe stato veramente bisogno era un potente getto d’idrante che mandasse via tutta la merda, seguito da uno squadrone di idraulici che venissero a riparare gli sciacquoni, che li facessero funzionare, e poi acqua, tanta acqua, per mandare nelle fognature quello che ci sarebbe dovuto andare, e poi, per favore, un paio d’occhi, dei semplici occhi, una mano capace di condurci e guidarci, una voce che mi dica, Per di qua. Se a questi ciechi non gli diamo una mano, non tarderanno a trasformarsi in animali, o peggio ancora, in animali ciechi. Non lo disse la voce sconosciuta, quella che aveva parlato dei quadri e delle immagini del mondo, con altre parole lo sta dicendo, a notte fonda, la moglie del medico, coricata accanto al marito, le teste tutte e due ficcate sotto la stessa coperta, Si deve trovare un rimedio a questo orrore, non resisto, non posso continuare a fingere di non vedere, Pensa alle conseguenze, la cosa più sicura è che tenteranno di trasformarti in una schiava, in un fantoccio, dovrai badare a tutti e a tutto, pretenderanno da te che li imbocchi, che li lavi, che li metta a letto e li faccia alzare, che li porti da qui a lì, che gli soffi il naso e asciughi le lacrime, ti chiameranno quando starai dormendo, ti insulteranno se tarderai, E tu, come vuoi che continui a guardare queste miserie, ad averle perennemente sotto gli occhi senza muovere un dito per dare aiuto, Fai già molto, Cosa faccio, se la mia preoccupazione maggiore è di evitare che qualcuno si accorga che vedo, Alcuni ti odieranno proprio per questo, non credere che la cecità ci abbia reso migliori, Neppure ci ha reso peggiori, Ma ci stiamo arrivando, pensa solo a cosa succede quando arriva il momento di distribuire il cibo, Esattamente, uno che vedesse potrebbe incaricarsi della suddivisione dei generi alimentari fra tutti gli in ternati, farlo con equità, con criterio, cesserebbero le proteste, finirebbero queste dispute che mi fanno ammattire, tu non sai cosa sia vedere due ciechi che lottano, Lottare è sempre stata, più o meno, una forma di cecità, Qui è diverso, Fai pure ciò che ti sembra meglio, ma non dimenticarti di quello che siamo, ciechi, semplicemente ciechi, ciechi senza retoriche né commiserazioni, il mondo caritatevole e pittoresco dei poveri ciechi è finito, adesso è il regno duro, crudele e implacabile dei ciechi, Se tu potessi vedere cosa sono costretta a vedere io, desidereresti essere cieco, Ci credo, ma non ne ho bisogno, cieco lo sono già, Perdonami, amore, se tu sapessi, Lo so, lo so, ho passato la vita a guardare negli occhi del la gente, è l’unico luogo del corpo dove forse esiste ancora un’anima, e se gli occhi si son perduti, Domani gli dirò che vedo, Spero tu non abbia a pentirtene, Domani glielo dirò, fece una pausa e aggiunse, Se finalmente non sarò entrata anch’io in quel mondo.
Ma non fu ancora la volta buona. Quando al mattino si svegliò, molto presto com’era solita, i suoi occhi ve devano altrettanto distintamente di prima. Tutti i ciechi della camerata dormivano. Pensò a come avrebbe dovuto comunicarglielo, se convocarli tutti e annunciare la novità, o forse era preferibile farlo in maniera discreta, senza ostentazione, dire per esempio, come se non volesse darvi troppa importanza, Immaginate, chi l’avrebbe mai pensato che avrei mantenuto la vista in mezzo a tanta gente che è diventata cieca, oppure, forse meglio, far finta di essere stata veramente cieca e di avere all’improvviso recuperato la visione, poteva anche essere una maniera di dargli un po’ di speranza, Se ha ricominciato a vedere lei, si sarebbero detti fra di loro, forse anche noi, ma poteva anche succedere che le dicessero, Se è così, allora fuori, se ne vada via, ma in tal caso avrebbe risposto che non poteva andarsene senza il marito, e visto che l’Esercito non faceva uscire dalla quarantena nessun cieco, non ci sarebbe stato altro da fare che consentirle di rimanere. Alcuni ciechi si stavano muovendo nelle brande, come tutte le mattine si alleggerivano dei gas, ma non per questo l’atmosfera divenne più nauseabonda, il livello di saturazione doveva essere già stato raggiunto. Non era soltanto l’odore fetido che proveniva dalle latrine a zaffate, esalazioni che facevano venir voglia di vomitare, era anche l’odore di duecentocinquanta persone i cui corpi, macerati nel loro stesso sudore, non potevano né avrebbero saputo lavarsi, che indossavano abiti ogni giorno più immondi, che dormivano in letti non di rado pieni di feci. A cosa potevano servire i saponi, le liscive, i detergenti dimenticati lì, se molte docce erano intasate o staccate dalle tubature, se i chiusini traboccavano di acqua sporca che dilagava fuoriuscendo dagli spogliatoi, inzuppando il pavimento di legno dei corridoi, infiltrandosi negli interstizi del lastricato. In quale follia sto pensando di cacciarmi, esitò allora la moglie del medico, anche se non pretendessero di essere serviti, com’è più che sicuro, sarei io a non resistere, mi metterei lì a lavare, a pulire, ma quanto tempo mi durerebbero le forze, non è certo lavoro per una persona sola. La sua baldanza, che prima era sembrata tanto salda, cominciava a sgretolarsi, ad andare in pezzi davanti all’abietta realtà che le assaliva le narici e le offendeva gli occhi, adesso che era arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Sono vigliacca, mormorò esasperata, tanto varrebbe essere cieca, non avrei queste velleità da missionaria. Si erano alzati tre ciechi, fra cui il commesso, andavano a prendere posizione nell’atrio per ritirare la razione di cibo spettante alla prima camerata. Non si poteva affermare, proprio perché mancavano gli occhi, che la ripartizione fosse fatta a occhio, cartone più cartone meno, al contrario, era penoso vedere come si sbagliavano nel contare e ricominciavano da capo, qualcuno di carattere più diffidente voleva sapere esattamente cosa portassero via gli altri, finiva sempre che c’erano discussioni, qualche spintone, un pugno alla cieca, com’era logico. Nella camerata ormai erano tutti svegli, pronti a ricevere ciascuno la propria parte, con l’esperienza avevano stabilito un modo alquanto comodo di fare la distribuzione, cominciavano col portare tutto il cibo in fondo alla camerata dove c’erano le brande del medico e della moglie e quelle della ragazza dagli occhiali scuri e del ragazzino che voleva la mamma, e andavano a prenderla lì, due alla volta, iniziando dai letti più vi cini all’entrata, uno destra uno sinistra, due destra due sinistra, e così via, senza bisticci né disordini, ci s’impiegava di più, certo, ma la tranquillità compensava l’attesa. I primi, e cioè quelli che avevano il cibo proprio lì, a portata di mano, erano gli ultimi a servirsi, tranne il ragazzino strabico, è chiaro, lui finiva sempre di mangiare prima che la ragazza dagli occhiali scuri ricevesse la propria dose, col risultato che una parte di quanto doveva spettare a lei finiva invariabilmente nello stomaco del piccino. I ciechi stavano tutti con il capo girato verso la porta, in attesa di sentire i passi dei compagni, i passi insicuri, inconfondibili, di chi trasporta un carico, ma il suono che all’improvviso si udì non fu quello, sembrava piuttosto che stessero arrivando di corsa, ammesso che un’impresa del genere fosse possibile trattandosi di gente che non poteva vedere dove metteva i piedi. E tuttavia non si sarebbe detto altro quando comparvero ansimanti alla porta, Che sarà mai successo per farvi venire così di corsa, e volevano entrare tutti e tre contemporaneamente per dare l’inattesa notizia, Non ci hanno fatto portar via il cibo, disse uno, e gli altri ripeterono, Non ce l’hanno fatto portar via, Chi, i soldati, domandò una voce, No, i ciechi, Quali ciechi, qui lo siamo tutti, Non lo sappiamo, disse il commesso di farmacia, ma penso siano alcuni di quelli arrivati tutti insieme, gli ultimi, E come mai non vi hanno fatto prendere il cibo, domandò il medico, fino a ora non c’è stato alcun problema, Dicono che è finita, da oggi in poi chi vuole mangiare deve pagare. Le proteste scoppiarono in tutta la camerata, Non può essere, Sottrarci il nostro cibo, Che banda di ladri, Che vergogna, ciechi contro ciechi, non mi aspettavo di dover vivere per vedere una cosa del genere, Andiamo a lamentarci dal sergente. Qualcuno più deciso propose di unirsi tutti per andare a reclamare quanto gli spettava, Non sarà facile, fu il parere del commesso di farmacia, sono molti, ho avuto l’impressione che siano un gruppo nutrito, e il peggio è che sono armati, Armati, come, Dei bastoni almeno ce li hanno, ancora mi fa male il braccio per la botta che ho preso, disse uno degli altri, Tenteremo di risolverla con le buone, disse il medico, vengo con voi a parlare con quella gente, deve esserci un malinteso, Senz’altro, dottore, io ci sto, disse il commesso, ma, dai loro modi, ho i miei dubbi che riesca a convincerli, Comunque dobbiamo andare, non possiamo restare così, Vengo con te, disse la moglie del medico. Il gruppetto uscì dalla camerata, tranne il cieco che si lamentava per il braccio, questi pensò di aver già compiuto il proprio dovere e rimase a raccontare agli altri la rischiosa avventura, tutto quel buon cibo lì a due passi, e una muraglia di corpi a difenderlo, Con i bastoni, insisteva.
Avanzando uniti, come una pigna, si fecero strada fra i ciechi di altre camerate. Quando raggiunsero l’atrio, la moglie del medico capì immediatamente che non sarebbe stato possibile al cun dialogo diplomatico, anzi, probabilmente non ci sarebbe stato nessun dialogo. Al centro dell’atrio, intorno alle casse del cibo, un circolo di ciechi armati di bastoni e sbarre di ferro puntati come baionette o lance faceva fronte alla disperazione dei ciechi che li assediavano e che, con maldestri tentativi, si adoperavano per forzare la linea difensiva, alcuni, con la speranza di trovare un varco, uno sportello lasciato socchiuso per disattenzione, paravano i colpi con le braccia alzate, altri si trascinavano a quattro zampe finché sbattevano contro le gambe degli avversari, che li accoglievano a botte sulla schiena e a calci. Botte da orbi, si suol dire. Non mancavano alla scena le proteste indignate, le urla furiose, Vogliamo il nostro cibo, Reclamiamo il diritto al pane, Delinquenti, Che roba è, è una vergogna, Sembra impossibile, ci fu persino un ingenuo o distratto che disse, Chiamate la polizia, e forse qualche poliziotto c’era per davvero, la cecità, si sa, non guarda né a mestieri né a funzioni, ma un poliziotto cieco non è lo stesso che un cieco poliziotto, e quanto ai due che conosciamo, sono morti e, a gran fatica, sotterrati. Pressata dall’assurda speranza di un’autorità che andasse a ristabilire nel manicomio la pace perduta, a rinsaldare la giustizia, a restituire la tranquillità, una cieca si avvicinò come poté al la porta principale e gridò nel vuoto, Aiutateci, questi vogliono rubarci il cibo. I soldati fecero finta di non aver sentito, gli ordini che il sergente aveva ricevuto da un capitano passato in ispezione erano perentori, chiarissimi, Se si ammazzano a vicenda, tanto meglio, ne restano meno. La cieca si sgolava come le pazze di un tempo, quasi impazzita anche lei, ma per l’angoscia. Infine, comprendendo l’inutilità dei propri appelli, tacque, si girò verso l’interno singhiozzando e, senza rendersi conto di dove andava, si beccò in testa una bastonata che la fece stramazzare. La moglie del medico fece per correre a tirarla su, ma la confusione era tale che non riuscì a fare neanche due passi. I ciechi che erano andati a reclamare il cibo cominciavano ormai a indietreggiare sbaragliati, completamente disorientati si scontravano fra di loro, cadevano, si rialzavano, cadevano di nuovo, alcuni non ci provavano neanche, rinunciavano, si abbandonavano prostrati a terra, esausti, miseri, contorcendosi dal dolore, con la faccia sul lastricato. Poi la moglie del medico, terrorizzata, vide uno dei ciechi della banda estrarre di tasca una pistola e alzarla bruscamente in aria. Lo sparo fece saltare dal soffitto una grande placca di stucco che andò a cadere sulle teste impreparate, aumentando il panico. Il cieco gridò, Tutti calmi e zitti, se qualcuno si azzarda ad alzare la voce, faccio fuoco, chi capita capita, poi non vi lamentate. I ciechi non si mossero. Quello della pistola continuò, è detto e non si torna indietro, da oggi in poi saremo noi a gestire il cibo, siete tutti avvisati, e che a nessuno venga in mente di andarlo a prendere fuori, metteremo dei sorveglianti a questo ingresso, subirete le conseguenze di qualsiasi tentativo di contravvenire agli ordini, adesso il cibo si vende, chi vuol mangiare paga, Ma paghiamo come, domandò la moglie del medico, Ho detto che nessuno doveva parlare, strillò quello della pistola, agitando l’arma davanti a sé, Qualcuno dovrà parlare, bisogna sapere come dobbiamo comportarci, dove andare a prendere il cibo, se tutti insieme oppure uno alla volta, Questa vuol fare la furba, commentò uno del gruppo, se le tiri un colpo è una bocca in meno a mangiare, Se la vedessi, avrebbe già una pallottola in pancia. Poi, rivolgendosi a tutti, Tornate immediatamente nelle camerate, subito, quando avremo portato il cibo dentro vi diremo cosa dovete fare, E il pagamento, ribatté la moglie del medico, quanto ci costerà un caffelatte e un biscotto, La tizia sta proprio facendo la furba, disse la stessa voce, Lasciala a me, disse l’altro, e cambiando tono, Ogni camerata nominerà due responsabili, questi saranno incaricati di raccogliere le cose di valore, tutte, di qualsiasi tipo, soldi, gioielli, anelli, bracciali, orecchini, orologi, quello che avete, e porteranno tutto nella terza camerata del lato sinistro, cioè dove stiamo noi, e se volete un consiglio da amico, che non vi passi per la testa di tentare di ingannarci, sappiamo già che alcuni di voi nasconderanno una parte di quanto possiedono di prezioso, ma vi dico che sarà una pessima idea, se non ci sembrerà sufficiente quello che consegnerete, semplicemente non mangerete, vi trastullerete masticando le banconote e sorbendovi i brillanti. Un cieco della seconda camerata lato destro domandò, E come facciamo, consegniamo tutto in una volta, o paghiamo in base a quello che mangiamo, A quanto pare non mi sono spiegato bene, disse quello della pistola ridendo, prima di tutto pagate, dopo di che mangiate, e quanto al resto, pagare in base a quanto si mangia, per questo ci vorrebbe una contabilità molto complicata, è meglio che portiate tutto in una volta e vedremo noi quanto cibo meritate, ma vi avverto di nuovo, non tentate di nascondere qualche cosa perché vi costerà molto caro, e perché poi non diciate che non ci comportiamo lealmente prendete nota, dopo che ci avrete consegnato quel che ave te faremo un’ispezione, poveri voi se troviamo una sola moneta, e adesso tutti fuori di qui, svelti. Alzò il braccio e sparò un altro colpo. Cadde un altro pezzo di stucco. E tu, disse quello della pistola, non dimenticherò la tua voce, Né io la tua faccia, rispose la moglie del medico.
Nessuno parve notare l’assurdità di una cieca che dice che non dimenticherà una faccia che non ha visto. I ciechi se l’erano battuta in ritirata più in fretta che potevano, in cerca delle porte, poco dopo quelli della prima camerata stavano rendendo edotti sulla situazione i compagni, Da quanto abbiamo sentito, non credo che, per adesso, possiamo far altro che obbedire, disse il medico, devono essere molti, e il peggio è che sono armati, Potremmo rimediare anche noi delle armi, disse il commesso, Sì, qualche bastone strappato dagli alberi, se ancora ci sono rami ad altezza di braccio, qualche sbarra dei letti, che a stento avremmo la forza di maneggiare, mentre loro dispongono almeno di un’arma da fuoco, Io non glielo do quello che mi appartiene a quei figli di una puttana cieca, disse qualcuno, Neanche io, aggiunse un altro, O tutti, o nessuno, disse il medico, Non abbiamo alternative, disse la moglie, e inoltre la regola, qui dentro, dovrà essere la stessa che ci hanno imposto fuori, chi non vuol pagare non paghi, è suo diritto, ma in tal caso non mangerà, non può mica cibarsi a spese degli altri, Daremo tutti e daremo tutto, disse il medico, E chi non ha niente da dare, domandò il commesso di farmacia, Questi sì, mangerà di quanto daranno gli altri, è giusto come ha detto qualcuno, da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo le sue necessità. Ci fu una pausa, e il vecchio dalla benda nera domandò, Allora, chi designeremo come responsabili, Io scelgo il dottore, disse la ragazza dagli occhiali scuri. Non fu necessario proseguire la votazione, la camerata era tutta d’accordo. Dovremo essere due, rammentò il medico, c’è qualcuno che si offre, domandò, Io, se nessun altro si presenta, disse il primo cieco, Molto bene, allora comin ciamo la raccolta, ci serve un sacchetto, una borsa, una valigetta, una cosa qualsiasi, Posso liberare questa, disse la moglie del medico, e si apprestò a svuotare una borsetta dove aveva riunito alcuni prodotti di bellezza e qualcos’altro quando ancora non poteva immaginare le condizioni in cui era destinata a vivere. Fra le boccette, le scatolette e i tubetti provenienti dall’altro mondo, c’era un paio di lunghe forbici, dalle punte sottili. Non ricordava di averle messe, ma c’erano. La moglie del medico alzò la testa. I ciechi aspettavano, il marito si era avvicinato al letto del primo cieco, con il quale parlava, la ragazza dagli occhiali scuri stava dicendo al ragazzino strabico che fra poco arrivava da mangiare, per terra, verso il comodino, come se la ragazza dagli occhiali scuri avesse voluto, con puerile e inutile pudore, occultarlo alla vista di chi non vedeva, c’era un assorbente igienico macchiato di sangue. La moglie del medico guardava le forbici, tentando di pensare al perché le guardasse così, così come, così, ma non trovava nessun motivo, e realmente che motivo avrebbe potuto esserci in un semplice paio di lunghe forbici, lì fra le mani, con le due la me d’acciaio e le punte aguzze e brillanti, Hai fatto, domandava il marito da laggiù, Sì, ho fatto, rispose, e tese il braccio con cui teneva la borsa vuota mentre l’altro si spostava dietro la schiena, nascondendo le forbici, Cosa c’è, domandò il medico, Niente, rispose la moglie, come del resto avrebbe potuto rispondere Niente che tu possa vedere, ti sarà sembrata strana la mia voce, solo questo, nient’altro. Insieme col primo cieco, avanzò, prese la borsa con mani incerte, e disse, Preparate quello che avete, ora cominciamo a raccogliere. La donna si sganciò l’orologio, lo stesso fece con quello del marito, si tolse gli orecchini, un piccolo anello con rubino, il filo d’oro che portava al collo, la fede, quella del marito, non diedero molto da fare a sfilarsi, Abbiamo le dita più sottili, pensò mettendo tutto nella borsa, poi i soldi che avevano portato da casa, un po’ di banconote di diverso valore, alcune monete, è tutto, disse, Sei sicura, domandò il medico, cerca bene, Di valore, avevamo solo questo. La ragazza dagli occhiali scuri aveva già radunato i propri beni, non molto diversi, in più c’erano solo due bracciali, in meno una fede. La moglie del medico aspettò che il marito e il primo cieco le voltassero le spalle, che la ragazza dagli occhiali scuri si chinasse verso il ragazzo strabico, Fai finta che sono tua mamma, diceva, pago per me e per te, e poi indietreggiò fino alla parete di fondo. Lì, come sulle altre pareti, c’erano dei grossi chio di che dovevano esser serviti ai matti per appendervi chi sa quali tesori e quali manie. Scelse il più alto a cui riusciva ad arrivare, e vi infilò le forbici. Poi si sedette sul letto. Lentamente, il marito e il primo cieco procedevano in direzione della porta, si fermavano per raccogliere, da un lato e dall’altro, quel che ciascuno aveva da consegnare, alcuni protestavano che li stavano vergognosamente derubando, ed era la pura verità, altri si liberavano di quanto possedevano quasi con indifferenza, come se pensassero che, a ben vedere, non c’è al mondo niente che in senso assoluto ci appartenga, altra verità non meno trasparente. Quando giunsero alla porta della camerata, terminata la colletta, il medico domandò, Abbiamo consegnato tutto, risposero di sì un bel po’ di voci rassegnate, ci fu chi tacque, sapremo a suo tempo se per non mentire. La moglie del medico alzò gli occhi verso le forbici. Si stupì di vederle tanto in alto, appese per uno degli anelli, o occhielli, quasi non fosse stata lei stessa a metterle lassù, e poi, fra sé e sé, considerò che era stata un’eccellente idea quella di portarle, ora avrebbe potuto pareggiare la barba del suo uomo, renderlo più presentabile, visto che, ormai è chiaro, nelle condizioni in cui viviamo è impossibile farsi la barba regolarmente. Quando guardò di nuovo in direzione della porta, i due uomini erano già scomparsi nell’ombra del corridoio, diretti alla terza camerata del lato sinistro, dove avevano ordine di andare a pagare il cibo. Quello di oggi, quello di domani pure, e forse quello di tutta la settimana, E dopo, alla domanda non c’era risposta, tutto quanto possedevamo è lì.
Contrariamente al solito, i corridoi erano sgombri, in genere non era così, quando si usciva dalle camerate non si faceva altro che inciampare, sbattere e cadere, gli aggrediti imprecavano, lanciavano parolacce volgari, gli aggressori rispondevano a tono, però nessuno vi dava importanza, bisogna pur sfogarsi in qualche maniera, soprattutto se si è ciechi. Davanti a loro c’era rumore di passi e di voci, dovevano essere gli emissari di un’altra camerata che si sottoponevano allo stesso obbligo. Che situazione, dottore, disse il primo cieco, non ci bastava essere ciechi, siamo caduti nelle grinfie di ciechi ladri, addirittura sembra una mia maledizione, prima quello della macchina, adesso questi che rubano il cibo, e per giunta con la pistola, La differenza è questa, l’arma, Ma le cartucce non durano per sempre, Niente dura per sempre, eppure in questo caso forse sarebbe auspicabile il contrario, Perché, Se le cartucce finiranno, sarà perché qualcuno le ha sparate, e di morti ne abbiamo avuto già fin troppi, Siamo in una situazione insostenibile, è insostenibile fin da quando siamo entrati in questo posto, e malgrado ciò continuiamo a resistere, Lei, dottore, è ottimista, Affatto, ma non riesco a immaginare niente di peggio di quel che stiamo vivendo, Invece io sospetto che non ci siano limiti alla cattiveria, al male, Forse ha ragione, dis se il medico, e poi, come se stesse parlando con se stesso, Qualcosa dovrà succedere, una conclusione che comporta una certa contraddizione, o c’è in definitiva qualcosa di peggio, o d’ora in poi tutto migliorerà, anche se dal campione non sembra. In base alla strada percorsa, agli angoli che avevano svoltato, si stavano avvicinando alla terza camerata. Né il medico, né il primo cieco ci erano mai venuti, ma la costruzione a due ali, logicamente, obbediva a una rigida simmetria, conoscendo bene l’ala destra ci si poteva orientare facilmente nell’ala sinistra, e viceversa, bastava svoltare a sinistra quando nel lato opposto si sarebbe dovuto svoltare a destra. Udirono delle voci, dovevano essere quelli che erano venuti prima, Dobbiamo aspettare, disse il medico a bassa voce, Perché, Quelli dentro vorranno sapere esattamente cosa portano, per loro non fa differenza, siccome hanno già mangiato non hanno fretta, Non mancherà molto all’ora di pranzo, Anche se potessero vedere, a questi non servirebbe a niente saperlo, non hanno più neanche gli orologi. Un quarto d’ora dopo, minuto più minuto meno, lo scambio si concluse. I due uomini passarono davanti al medico e al primo cieco, dal discorso si capi va che portavano via del cibo, Attenzione, non farlo cadere, diceva uno, e l’altro mormorava, Ma non so se basterà per tutti, Stringeremo la cinghia. Facendo scivolare la mano sulla parete, col primo cieco appresso, il medico avanzò fino a toccare con le dita lo stipite della porta, Siamo del la prima camerata lato destro, annunciò all’interno. Tentò di fare un passo, ma la gamba urtò contro un ostacolo. Capì che era un letto messo lì di traverso, a mo’ di bancone di negozio, Sono organizzati, pensò, non è mica un’improvvisazione. Udì voci, passi, Quanti saranno, la moglie gli aveva parlato di una decina, ma non era da escludere che fossero molti di più, certamente non tutti stavano nell’atrio quando erano andati a impadronirsi del cibo. Quello della pistola era il capo, era la sua voce che, scherzando, diceva, Vediamo un po’ quali ricchezze ci porta la prima camerata lato destro, e poi, in tono più basso, parlando a qualcuno che doveva stargli molto vicino, Prendi nota. Il medico rimase perplesso, cosa significa, ha detto Prendi nota, quindi c’è qualcuno che può scrivere, quindi c’è qualcuno che non è cieco, i casi sono già due, Dobbiamo tutelarci, pensò, un domani potremmo ritrovarcelo accanto senza accorgercene, questo pensiero del medico differiva di poco da quello che stava pensando il primo cieco, Con la pistola e uno spione siamo fregati, non potremo più alzare la testa. Il cieco di dentro, capitano dei ladri, aveva già aperto la borsa, con mani abili andava estraendo, palpando e identificando gli oggetti, i soldi, senza dubbio distingueva al tatto l’oro da quello che non lo era, al tatto anche il valore delle banconote e delle monete, è facile quando uno ha esperienza, fu solo alcuni minuti dopo che l’udito distratto del medico comin ciò a percepire un picchiettio inconfondibile che identificò immediatamente, lì accanto c’era qualcuno che stava scrivendo in alfabeto braille, detto anche anagliptografia, si udiva il suono sordo e, insieme, nitido della lancetta che perforava la carta e picchiava contro la piastra metallica del ripiano inferiore. C’era dunque un cieco normale fra i ciechi delinquenti, un cieco come tutti quelli ai quali prima si dava il nome di ciechi, evidentemente era stato acchiappato nel la rete insieme agli altri, non era il momento che il cacciatore si mettesse ad appurarlo, Lei è uno dei ciechi moderni o di quelli antichi, ci spieghi un po’ in quale maniera non vede. Hanno avuto una bella fortuna questi qua, non solo gli è uscito alla lotteria uno scrivano, ma potranno anche utilizzarlo come guida, un cieco addestrato da cieco è tutta un’altra cosa, vale il suo peso in oro. L’inventario continuava, ogni tanto quello della pistola chiedeva l’opinione del contabile, Cosa ne pensi, e questi in terrompeva la registrazione per esprimere un parere, diceva, Similoro, nel qual caso il cieco della pistola commentava, Tanti così e non mangiano, oppure, è buono, e allora il commento era, Non c’è niente come trattare con gente onesta. Alla fine furono collocate tre casse sopra il letto, Prendete queste, disse quello della pistola. Il medico le contò, Tre non bastano, disse, ne ricevevamo quattro quando il cibo era solo per noi, e nel lo stesso istante sentì il freddo della canna della pistola sul collo, per essere un cieco, mica male come mira, Faccio togliere una cassa ogni volta che reclami, adesso vattene, portati via queste e ringrazia Dio di poter ancora mangiare. Il medico mormorò, Va bene, afferrò due casse, il primo cieco si occupò dell’altra, e così, ora più lentamente per via del carico, rifecero la strada che li avrebbe portati alla camerata. Quando raggiunsero l’atrio, dove sembrava non ci fosse nessuno, il medico disse, Non mi capiterà più un’occasione così, Cosa vuol dire, domandò il primo cieco, Mi ha appoggiato la pistola al collo, avrei potuto strappargliela dalle mani, Sarebbe stato rischioso, Non quanto sembra, io sapevo dov’era la pistola, lui non poteva sapere dov’erano le mie mani, Sì, comunque, Ne sono certo, in quel momento il più cieco era lui, è un peccato non averci pensato, o for se l’ho pensato, ma non ho avuto il coraggio, E poi, domandò il primo cieco, Poi, cosa, Supponiamo che fosse riuscito veramente a togliergli l’arma, non credo proprio che sarebbe stato capace di usarla, Se avessi avuto la certezza di poter risolvere la situazione, sì, Ma la certezza non ce l’ha, No, in effetti non ce l’ho, Al lora tanto meglio che le armi stiano dalla loro parte, per lo meno finché non le useranno per attaccarci, Minacciare con un’arma è come attaccare, Se lei gli avesse tolto la pistola, la vera guerra sarebbe già cominciata, ed è molto probabile che non saremmo neanche venuti via di là, Ha ragione, disse il medico, farò finta di avere immaginato tutto, Lei, dottore, deve ricordarsi di quanto mi ha detto poco fa, Cosa le ho detto, Che qualcosa dovrà succedere, è successa, e non ne ho approfittato, Sarà un’altra cosa, non questa.
Quando entrarono nella camerata con quel poco che portavano da mettere in tavola, ci fu chi pensò che fosse colpa loro, perché non avevano reclamato e preteso di più, si erano nominati apposta dei rappresentanti. Allora il medico spiegò com’era andata, parlò del cieco scrivano, dei modi insolenti del cieco della pistola, e pure della pistola. Gli scontenti abbassarono il tono, finirono per convenire che, sissignore, la difesa degli interessi del la camerata era in buone mani. Infine si distribuì il cibo, ci fu chi non tralasciò di ricordare agli impazienti che il poco è sempre meglio del niente, e inoltre che, dall’ora che doveva essere, il pranzo non avrebbe tardato, Il guaio è se ci capita come al tradizionale cavallo, che morì quando finalmente aveva perso l’abitudine di mangiare, disse qualcuno. Gli altri sorrisero fiaccamente, e uno disse, Non sarebbe una cattiva idea, se è vero che il cavallo, quando muore, non sa che morirà.

10.

Il vecchio dalla benda nera aveva inteso che la radio portatile, sia per la fragilità della struttura sia per la nota informazione sul tempo della sua vita utile, fosse esclusa dalla lista dei valori da consegnare in pagamento del cibo, considerando che il funzionamento dell’apparecchio dipendeva, in primo luogo, dall’avere o non avere pile, e, in secondo luogo, dal tempo che queste sarebbero durate. Dal suono roco delle voci che uscivano ancora dalla piccola cassa era evidente che non c’era più molto da aspettarsi. Perciò il vecchio dalla benda nera decise di non ripetere le audizioni generali, ma anche perché i ciechi della terza camerata lato sinistro potevano magari presentarsi con diversa opinione, non per via del valore materiale dell’apparecchio, praticamente nullo a breve scadenza, come si venne a dimostrare, ma per il suo valore d’uso nell’immediato, questo sì, indubbiamente altissimo, per non parlare dell’ipotesi plausibile che là dove c’è almeno una pistola ci siano anche delle pile. Disse quindi il vecchio dalla benda nera che da allora avrebbe ascoltato le notizie sotto la coperta, a letto, con la testa tutta tappata, e che se ci fosse stata qualche novità interessante avrebbe avvisato subito. La ragazza dagli occhiali scuri gli chiese ancora di farle sentire di tanto in tanto un po’ di musica, Solo per non perderne il ricordo, si giustificò, ma lui fu inflessibile, diceva che l’importante era sapere come andavano le cose fuori, chi voleva sentire un po’ di musica, se la sentisse pure, ma nella propria testa, a qualcosa di buono dovrà pur servirci la memoria. Aveva ragione il vecchio dalla benda nera, la musica della radio ormai graffiava come solo un brutto ricordo può graffiare, perciò teneva il volume al minimo, in attesa che arrivassero le notizie. A quel punto lo alzava un po’ e tendeva l’orecchio per non perdere una sillaba. Poi, con parole sue, riassumeva le informazioni e le trasmetteva ai più vicini. Così, di letto in letto, le notizie facevano lentamente il giro della camerata, deformate a mano a mano che passavano da un ricevente al ricevente successivo, ridotta o aggravata in tal maniera l’importanza delle informazioni, secondo il personale grado di ottimismo e pessimismo di ogni emittente. Finché arrivò il momento in cui le parole tacquero e il vecchio dalla benda nera si ritrovò senza niente da dire. E non fu perché la radio si fosse guastata o le pile scaricate, l’esperienza della vita e delle vite ha fatalmente dimostrato come il tempo non lo regoli nessuno, sembrava che quest’attrezzetto sarebbe durato poco e in definitiva c’è qualcuno che al suo cospetto ha dovuto tacere. Durante questo primo giorno, tutto vissuto sotto la zampa dei ciechi malvagi, il vecchio dalla benda nera se n’era stato a sentire e trasmettere notizie, confutando personalmente l’ovvia falsità degli ottimistici vaticini ufficiali, e adesso, a sera inoltrata, col capo finalmente fuori dalla coperta, applicava l’orecchio al rantolo in cui la debole alimentazione elettrica della radio trasformava la voce del locutore, quando all’improvviso lo udì gridare, Sono cieco, poi il rumore di qualcosa che urtava violentemente contro il microfono, una sequenza precipitosa di rumori confusi, esclamazioni, e di colpo il silenzio. L’unica stazione radio che l’apparecchio era riuscito a captare lì dentro si era zittita. Ancora per un bel pezzo il vecchio dalla benda nera tenne l’orecchio incollato alla cassa ora inerte, come se aspettasse il ritorno della voce e il proseguimento del notiziario. Però immaginava, sapeva che non sarebbe più tornata. Il mal bianco non aveva accecato solo il locutore. Come una miccia, aveva colpito rapidamente e successivamente quanti si trovavano nella stazione. Allora il vecchio dalla benda nera lasciò cadere per terra la radio. I ciechi malvagi, se fossero arrivati fiutando gioielli nascosti, avrebbero trovato conferma della ragione, ammesso che ci avessero pensato, per cui non avevano, essi stessi, incluso le radio portatili nella lista degli oggetti di valore. Il vecchio dalla ben da nera si tirò la coperta sul capo per poter piangere.
A poco a poco, sotto la luce giallastra e sporca delle flebili lampadine, la camerata scivolò in un sonno profondo, i corpi riconfortati dai tre pasti del giorno, come di rado era successo prima. Se le cose continuano così, finiremo, una volta ancora, col doverne concludere che anche nei mali peggiori è possibile trovare una porzione di bene sufficiente a sopportarli, i mali, con pazienza, il che, trasposto nell’attuale situazione, significa che, contrariamente alle prime e inquietanti previsioni, la concentrazione delle cibarie in un’unica entità di razionamento e distribuzione aveva, in definitiva, i suoi aspetti positivi, per quanto si lamentassero alcuni idealisti che avrebbero preferito continuare a lottare per la vita con i propri mezzi, anche se per via di questa ostinazione avessero dovuto fare un po’ la fame. Incuranti del domani, dimentichi che chi paga in anticipo è sempre mal servito, la maggioranza dei ciechi, in tutte le camerate, dormiva un sonno profondo. Gli altri, stanchi di cercare senza risultato un’onorevole via d’uscita alle vessazioni subite, poco alla volta si addormentarono anch’essi, sognando e sperando in giorni migliori di questi, più liberi, se non più sazi. Nella prima camerata lato destro solo la moglie del medico non dormiva. Coricata nel suo letto, pensava a quanto il marito le aveva raccontato, quando per un attimo aveva creduto che fra i ciechi ladri ci fosse qualcuno che vedeva, qualcuno di cui gli altri si sarebbero potuti servire come spia. Era curioso che poi non ne avessero riparlato, come se al medico, cosa non fa l’abitudine, non fosse venuto in mente che anche sua mo glie continuava a vedere. Lo pensò, ma tacque, non volle pronunciare le ovvie parole, Quello che in definitiva non potrà fare lui, lo posso fare io, Cosa, avrebbe domandato il medico fin gendo di non capire. Adesso, con gli occhi fissi sulle forbici appese alla parete, la moglie del medico si stava domandando, A cosa mi serve vedere. Le era servito per sapere dell’orrore più di quanto avesse mai potuto immaginare, le era servito per desiderare di essere cieca, nient’altro che a questo. Con un cauto movimento si sedette sul letto. Davanti a lei dormivano la ragazza dagli occhiali scuri e il ragazzino strabico. Notò che i due letti erano quasi accostati, la ragazza aveva spinto il suo, certamente per stare più vicina al ragazzo, se avesse avuto bisogno di consolazione, di qualcuno che gli asciugasse le lacrime per la mancanza di una mamma perduta. Come mai non mi è venuto in mente, pensò, avrei potuto unire i nostri letti, avremmo dormito insieme, e non a vrei avuto continuamente questa preoccupazione che potrebbe cadere dal letto. Guardò il marito che dormiva profondamente, in un sonno di puro esaurimento. Non era riuscita a dirgli che aveva portato lì le forbici, che uno di questi giorni gli avrebbe dovuto pareggiare la barba, un lavoro che potrebbe fare persino un cieco, purché non avvicini troppo le lame alla pelle. Si era data una buona giustificazione per non parlargli delle forbici, Poi me lo avrebbero chiesto tutti gli altri uomini, non avrei fatto altro che tagliare barbe. Scivolò col corpo fuori dal letto, posò i piedi per terra, cercò le scarpe. Mentre stava per calzarle, si trattenne, le guardò fissamente, poi scosse il capo e, senza rumore, le posò di nuovo. Imboccò la corsia fra i letti e cominciò a camminare lentamente verso la porta della camerata. I piedi scalzi sentirono l’immondezza appiccicosa del pavimento, ma lei sapeva che fuori, nei corridoi, sarebbe stato molto peggio. Andava guardando da un lato e dall’altro, per vedere se c’era qualche cieco sveglio, benché il fatto che ce ne fos se uno o più di veglia, o l’intera ca merata, non avesse alcuna importanza, purché lei non facesse rumore, e anche se lo avesse fatto, sappiamo a cosa costringono le necessità corporali, che non scelgono l’ora, insomma, l’unica cosa che in fondo non voleva era che il marito si svegliasse e notasse la sua assenza ancora in tempo per domandarle, Dove vai, che probabilmente è la domanda più spesso rivolta dagli uomini alle proprie mogli, l’altra è, Dove sei stata. Una delle cieche stava seduta sul letto, con le spalle appoggiate alla testiera bassa, lo sguardo vacuo fisso sulla parete di fronte, ma senza raggiungerla. La moglie del medico si fermò un momento, in dubbio se toccare quel filo invisibile sospeso nell’aria, come se un semplice contatto lo potesse distruggere irreparabilmente. La cieca alzò un braccio, doveva aver percepito una lieve vibrazione dell’atmosfera, poi lo lasciò ricadere incurante, già le bastava non poter dormire per il russare dei vicini. La moglie del medico continuò a camminare, sempre più in fretta a mano a mano che si avvicinava alla porta. Prima di proseguire in direzione dell’atrio guardò il corridoio che conduceva alle altre camerate di questo lato, un po’ più avanti ai cessi e, finalmente, alla cucina e al refettorio. C’erano ciechi coricati rasente alle pareti, di quelli che all’arrivo non erano stati capaci di con quistare un letto, o perché nell’assalto erano rimasti indietro, o perché mancarono loro le forze per disputare la lotta e vincerla. A dieci metri un cieco era sdraiato sopra una cieca, agganciato fra le gambe di lei, lo facevano il più discretamente possibile, erano tra quelli discreti in pubblico, ma non ci sarebbe stato bisogno di avere l’udito molto acuto per sapere in cosa erano occupati, tanto meno quando non riuscirono più a reprimere i sospiri e i gemiti, qualche parola inarticolata, che sono i segnali di come tutto stia per finire. La moglie del medico rimase lì ferma a guardarli, non per invidia, lei aveva il marito e la soddisfazione che lui le dava, ma per una impressione d’altra natura per cui non trovava un termine, avrebbe potuto essere un sentimento di simpatia, come se stesse pensando di dir loro Non badate a me che sono qui, lo so anch’io che cos’è, continuate, avrebbe potuto essere un sentimento di compassione, Anche se questo istante di supremo godimento potesse durarvi per la vita, non potrete mai, voi due, riuscire a fondervi in uno solo. Il cieco e la cieca adesso riposavano, separati, uno accanto all’altro, ma sempre tenendosi per mano, erano giovani, forse innamorati, erano andati al cinema e lì erano diventati ciechi, o forse una miracolosa coincidenza li ha riuniti qui, e, se è così, come avevano fatto a riconoscersi, questa poi, dalle voci, è chiaro, non è solo la voce del sangue a non aver bisogno d’occhi, anche l’amore, che dicono sia cieco, ha da dire la sua. è più probabile, però, che li avessero presi contemporaneamente, in tal caso quelle mani intrecciate non sono recenti, stanno così fin dall’inizio.
La moglie del medico sospirò, portò le mani agli occhi, ne fu costretta perché stava vedendo male, ma non si spaventò, sapeva che erano soltanto lacrime. Poi continuò per la sua strada. Arrivando nell’atrio, si avvicinò alla porta che dava sul recinto esterno. Guardò fuori. Al di là del portone c’era una luce su cui si stagliava la sagoma nera di un soldato. Dall’altro lato della strada i palazzi erano tutti al buio. Uscì sul pianerottolo. Non c’era pericolo. Anche se il soldato si fosse accorto di quella figura, avrebbe sparato solo se lei, scese le scale, si fosse avvicinata, dopo un primo avvertimento, a quell’altra linea invisibile che, per lui, rappresentava la frontiera della propria sicurezza. Ormai abituata ai rumori continui della camerata, la moglie del medico fu colpita dal silenzio, un silenzio che sembrava occupare lo spazio di un’assenza, come se l’umanità, tutta, fosse scomparsa, lasciando solo una luce accesa e un soldato a sorvegliarla, la luce e un residuo di uomini e donne che non potevano vedere. Si sedette per terra, con le spalle appoggiate allo stipite della porta, nella stessa posizione della cieca vista in camerata, e come lei guardando davanti a sé. La notte era fredda, il vento spirava lungo la facciata dell’e dificio, sembrava impossibile che nel mondo ci fosse ancora il vento, che fosse buia la notte, non lo diceva per sé, ma pensava a quei ciechi per cui il giorno durava per sempre. Nella lu ce comparve un’altra sagoma, doveva essere il cambio della guardia, Nessuna novità, stava probabilmente dicendo il soldato che andrà in tenda a dormire per il resto della notte, non immaginavano di certo cosa potesse esserci dietro quella porta, probabilmen te il frastuono degli spari non era neanche arrivato fuori, una comune pistola non fa molto rumore. Un paio di forbici ancora meno, pensò la moglie del medico. Non si domandò inutilmente da dove le fosse venuto un simile pensiero, fu solo sorpresa dalla sua lentezza, di quanto avesse tardato a presentarsi la prima parola, seguita lentamente dalle altre, e poi trovò che il pensiero era già lì da prima, in qualche posto, e gli mancavano solo le parole, proprio come un corpo che, nel letto, cercasse quell’avvallamento già preparato dalla semplice idea di coricarsi. Il soldato si è avvicinato al portone, malgrado si trovi in controluce si capisce che guarda da questo lato, deve avere intravisto la figura immobile, per il momento non c’è abbastanza luce per vedere che è solo una donna seduta per terra, con le braccia intorno alle gambe e il mento appoggiato sulle ginocchia, allora il soldato punta il fascio di luce di una torcia da questo lato, non ci sono più dubbi, è una donna che si sta rialzando con un movimento lento, quanto lo era stato il pensiero, ma questo il soldato non può saperlo, lui sa soltanto che ha paura di quella figura che sembra non finisca più di alzarsi, un attimo si domanda se debba dare l’allarme, l’attimo dopo decide di no, in definitiva è solo una donna ed è lontana, in tutti i casi, nell’incertezza, le punta preventivamente l’arma, ma per farlo ha dovuto lasciare la torcia, in quel movimento il fascio luminoso gli ha colpito in pieno gli occhi, come un’istantanea bruciatura gli è rimasta nella retina un’impressione di abbagliamento. Quando la visione si è ripristinata, la donna era scomparsa, ora questa sentinella non potrà dire a chi verrà a dargli il cambio, Nessuna novità.
La moglie del medico si trova ormai nell’ala del lato sinistro, nel corridoio che la condurrà alla terza camerata. Anche qui ci sono ciechi che dormono per terra, più che nell’ala destra. Cammina senza fare rumore, lentamente, sente il pavimento vischioso appiccicarsi ai piedi. Guarda all’interno delle prime due camerate, e vede quanto si aspettava di vedere, le figure coricate sotto le coperte, un cieco che non riesce ad addormentarsi e lo dice con voce disperata, sente il russare alterno di quasi tutti. Quanto all’odore che da tutto emana, non se ne stupisce, non ce n’è altro in tutto l’edificio, è l’odore del suo stesso corpo, degli abiti che indossa. Svoltando l’angolo verso quella parte di corridoio che dà accesso alla terza camerata, si è fermata. C’è un uomo sulla porta, un’altra sentinella. Ha in mano un bastone con cui fa movimenti lenti, da un lato e dall’altro, come a intercettare il passaggio di chi intendesse avvicinarsi. Qui non ci sono ciechi che dormono per terra, il corridoio è sgombro. Il cieco sulla porta continua in quel suo viavai uniforme, sembra sia instancabile, ma non è così, dopo alcuni minuti sposta il bastone di mano e ricomincia. La moglie del medico è andata avanti rasente alla parete del lato opposto, facendo attenzione a non sfiorarla. L’arco descritto dal bastone non arriva neppure a metà del corridoio, verrebbe voglia di dire che questa sentinella fa la guardia con un’arma scarica. La moglie del medico si trova adesso esattamente davanti al cieco, dietro di lui può vedere la camerata. I letti non sono tutti occupati. Quanti saranno, pensò. Avanzò un altro po’, quasi al limite della portata del bastone, e lì si fermò, il cieco aveva girato il capo dal lato in cui era lei, come se avesse avvertito qualcosa di anormale, un sospiro, un tremore dell’aria. Era un uomo alto, le mani grandi. Prima allungò in avanti il braccio con cui teneva il bastone, gesticolando nel vuoto davanti a sé, poi fece un passetto avanti, per un secondo la moglie del medico temette che lui potesse vederla, e cercasse solo il punto da cui attaccarla meglio, Quegli occhi non sono ciechi, pensò, allarmata. Ma sì, certo, erano ciechi, ciechi come tutti quelli di coloro che vivevano sotto questi tetti, fra queste pareti, tutti, tutti, eccetto lei. A voce bassa, quasi in un sussurro, l’uomo domandò, Chi c’è, non gridò come le vere sentinelle, Chi va là, la risposta giusta avrebbe dovuto essere, Gente di pace, e lui avrebbe concluso, Alla larga, ma le cose non andarono così, si limitò a scuotere il capo come se si rispondesse da solo, Che sciocchezza, non può esserci nessuno, a quest’ora stanno tutti dormendo. Palpeggiando con la mano libera, indietreggiò fino alla porta e poi, tranquillizzato dalle sue stesse parole, abbassò le braccia. A veva sonno, già da un pezzo stava aspettando che uno dei compagni andasse a dargli il cambio, ma per questo c’era bisogno che l’altro, richiamato dal dovere, si svegliasse da solo, perché lì non c’erano sveglie né modo di usarle. Con cautela, la moglie del medico si avvicinò all’altro stipite della porta e guardò dentro. La camerata non era piena. Fece un rapido conteggio, le parve che dovessero essere sui diciannove o venti. In fondo vide un certo numero di casse di cibo impilate, altre sopra i letti non occupati, C’era da aspettarselo, non distribuiscono tutto il cibo che via via ricevono, pensò. Il cieco parve di nuovo inquieto, ma non fece alcun movimento per indagare. I minuti passavano. Si udì una tosse violenta, da fumatore, provenire dall’interno. Il cieco girò il capo ansioso, finalmente sarebbe potuto andare a dormire. Nessuno di quelli che erano coricati si alzò. Al lora il cieco, lentamente, come se avesse paura di essere colto in flagrante delitto di abbandono del posto o infrangendo tutte in una volta le regole su cui sono obbligate a regolarsi le sentinelle, si sedette sul bordo del letto che ostruiva l’entrata. Per qualche momento ancora lasciò tentennare il capo, ma poi si abbandonò al fiume del sonno, e sicuramente, nell’affondarvi, avrà pensato, Non ha importanza, nessuno mi vede. La moglie del medico tornò a contare quelli che dormivano dentro, Con questo qui sono venti, almeno si riportava indietro un’informazione sicura, non era stata inutile l’escursione notturna, Ma ci sarò venuta solo per questo, si domandò, e non volle cercare la risposta. Il cieco dormiva col capo appoggiato allo stipite della porta, il bastone era scivolato silenziosamente a terra, eccolo lì, un cieco disarmato e senza colonne da abbattere. Deliberatamente, la moglie del medico si sforzò di pensare che quest’uomo era un ladro di cibo, che rubava quanto agli altri apparteneva per giustizia, che lo toglieva di bocca ai bambini, ma, pur pensandolo, non riuscì a provare disprezzo, e neppure una leggera irritazione, solo una strana pietà davanti a quel corpo abbandonato, col capo reclinato all’indietro, il collo dalle spesse vene. Per la prima volta da quando era uscita dalla camerata ebbe un brivido di freddo, sembrava che le lastre del pavimento le stessero gelando i piedi, come se li bruciassero, Speriamo non sia febbre, pensò. No, doveva essere solo un’infinita stanchezza, una voglia di avvolgersi su se stessa, gli occhi, ah, soprattutto gli occhi, rivolti all’interno, sempre di più, di più, fino a poter raggiungere e osservare l’interno stesso del cervello, nel punto esatto in cui la differenza fra il vedere e il non vedere è invisibile alla semplice vista. Lentamente, ancora più lentamente, trascinando il corpo, tornò indietro, verso il luogo cui apparteneva, passando accanto a ciechi che sembravano sonnambuli, come sonnambula era lei per loro, non doveva neanche fingere di esser cieca. I ciechi innamorati non si tenevano più per mano, dormivano sdraiati su un fianco, rannicchiati per mantenere il calore, lei nella conca formata dal corpo di lui, ma in definitiva, osservando meglio, si erano dati le mani, il braccio di lui sopra il corpo di lei, le dita intrecciate. Là dentro, nella camerata, la cieca che non riusciva a dormire era ancora seduta sul letto, in attesa che la stanchezza del corpo fosse tale da vincere l’ostinata resistenza della mente. Tutti gli altri sembravano dormire, alcuni con il capo coperto, come se fossero ancora alla ricerca di un’impossibile oscurità. Sul comodino della ragazza dagli occhiali scuri si vedeva la boccetta del collirio. Gli occhi erano guariti, ma lei non lo sapeva.

11.

Se il cieco incaricato di registrare gli illeciti guadagni della camerata dei malvagi avesse deciso, per effetto di un’illuminazione chiarificatrice del suo dubbioso spirito, di passare da quest’altro lato con i suoi tabulati, la sua carta e il suo punzone, adesso sarebbe certamente occupato a redigere l’istruttiva e incresciosa cronaca del pessimo vitto e di tante altre sofferenze di questi nuovi e depredati compagni. Comincerebbe col dire che là, da dove era venuto, non so lo gli usurpatori avevano cacciato dalla camerata i ciechi onesti, per re stare padroni e signori di tutto lo spazio, ma avevano anche, per giunta, proibito agli occupanti delle altre due camerate dell’ala sinistra l’accesso e l’uso dei rispettivi impianti sanitari, come si chiamano. Commenterebbe che il risultato immediato dell’infame prepotenza era stato l’afflusso di tutta quella gente ai gabinetti di questa parte qui, con conseguenze facili da immaginare per chi non abbia dimenticato lo stato in cui tutto quanto si trovava già prima. Renderebbe noto che non si può circolare nel recinto interno senza imbattersi in ciechi che scolano in diarrea o si contorcono tormentati da tenesmi che, dopo tante promesse, in definitiva non risolvevano niente, ed essendo uno spirito osservatore, non tralascerebbe, in proposito, di annotare la palese contraddizione fra quel poco che si ingeriva e quel molto che si eliminava, di tal maniera lasciando dimostrato casualmente che il famoso rapporto di causa ed effetto, tante volte citato, non è, per lo meno da un punto di vista quantitativo, sempre affidabile. Direbbe anche che, mentre a quest’ora la camerata dei malvagi dovrà essere ormai zeppa di cibo, questi poveri disgraziati qui fra poco si vedranno ridotti ad acchiappare le briciole dal pavimento immondo. Non si dimenticherebbe il cieco contabile di condannare nella sua duplice qualità di parte nel processo e suo cronista, il comportamento criminale dei ciechi oppressori, che preferiscono lasciare andare il cibo a male piuttosto che darlo a chi ne è tanto bisognoso, perché se è vero che certi generi alimentari possono durare alcune settimane senza perdere le loro qualità, altri, in particolare quelli da cucinare, se non li si mangia subito, in breve tempo si ritrovano acidi o coperti di muffe, e quindi inadatti agli esseri umani, ammesso che questi lo siano ancora. Cambiando argomento, ma non tema, scriverebbe il cronista, con un gran peso sul cuore, che qua le malattie non sono soltanto quelle dell’apparato digerente, o per carenza di ingestione o per morbosa decomposizione di quanto si è ingerito, qui non ci sono finite solo persone sane, ancorché cieche, alcune delle quali, tra parentesi, che pure sembravano aver salute da dare e vendere, si trovano adesso, come le altre, nella condizione di non potersi alzare dalle povere brande, sopraffatte da violentissime indisposizioni che sono sopravvenute non si sa come. E non si trova in nessun angolo di tutte e cinque le camerate un’aspirina che possa abbassare questa febbre e attenuare questo mal di testa, ben presto è finito anche quel poco che c’era, scovato nel la fodera di qualche borsetta. Rinuncerebbe il cronista, per circospezione, a fare un resoconto discriminativo di altri mali che affliggono molte del le quasi trecento persone messe in una quarantena tanto disumana, ma non potrebbe tralasciare di menzionare almeno due casi di cancro in stadio avanzato, verso i quali le autorità non hanno voluto fare alcuna considerazione umanitaria al momento di cacciare i ciechi e portarli qui dentro, hanno detto testualmente che la legge, quando vien fatta, è uguale per tutti e che la democrazia è incompatibile con trattamenti di favore. Di medici, fra tanta gente, così ha voluto la sfortuna, ce n’è soltanto uno, e per giunta oculista, quello di cui meno sentiremmo la mancanza. Arrivando a questo punto il cieco contabile, stanco di descrivere tanta miseria e dolore, lascerebbe cadere sul tavolo il punzone metallico, cercherebbe con mano tremula il pezzo di pane duro che avrebbe lasciato lì da parte fintanto che non avesse compiuto il proprio dovere di cronista della fine dei tempi, ma non lo troverebbe, perché un altro cieco, a tanto gli è potuto servire l’olfatto nel bisogno, glielo aveva rubato. Allora, rinnegando il gesto fraterno, lo slancio di abnegazione che lo aveva fatto accorrere da questo lato, il cieco contabile ecco che ha deciso, la cosa migliore, se ancora faceva in tempo, sarebbe stata di rientrare nella terza camerata lato sinistro, dove almeno, per quanto gli ribolla lo spirito di onesta indignazione contro le ingiustizie dei malvagi, non dovrà fare la fame.
Perché di questo si tratta. Ogni volta che gli incaricati di andare a prendere il cibo tornano nelle camerate con quel poco che è stato loro consegnato, scoppiano, furiose, le proteste. C’è sempre qualcuno che propone un’azione collettiva organizzata, una manifestazione massiccia, presentando come valido argomento la tanto spesso appurata forza espansiva del numero, sublimata nell’affermazione dialettica che le volontà, generalmente solo addizionabili le une alle altre, sono anche capacissime, in certe circostanze, di moltiplicarsi fra loro, all’infinito. Ben presto, però, gli animi si calmavano, bastava che qualcuno, più prudente, con la semplice e obiettiva intenzione di ponderare i vantaggi e i rischi dell’azione proposta, ricordasse agli entusiasti gli effetti mortali che sono soliti avere le pistole, Chi andrà avanti, dicevano, sa cosa lo aspetta, e quanto a chi sta dietro, è meglio non immaginare neanche cosa succederebbe nel caso assai probabile di spaventarci al primo colpo, più morti schiacciati che bucherellati. Come soluzione intermedia, in una delle camerate fu deciso, e della decisione si passò parola alle altre, che a prendere il cibo avrebbero mandato non i soliti emissari già castigati, ma un gruppetto nutrito, espressione ovviamente impropria, un dieci o dodici per sone, le quali avrebbero fatto in modo di esprimere, coralmente, la scontentezza di tutti. Si chiesero volontari, ma, forse per effetto dei noti avvertimenti dei prudenti, in nessuna camerata furono tanti a presentarsi per la missione. Grazie a Dio, questa evidente dimostrazione di debolezza morale cessò di avere importanza, e anche di essere motivo di vergogna, quando, dando ragione alla prudenza, si venne a conoscenza del risultato della spedizione organizzata dalla camerata che aveva avuto l’idea. Gli otto coraggiosi che avevano avuto l’ardire furono cacciati via a randellate, e se è vero che fu sparata solo una pallottola, non è meno vero che questa non l’avevano mirata in alto come le prime, prova ne sia che i reclamanti giurarono poi di essersela sentita fischiare vicinissimo alle teste. Se già ci fosse stata intenzione assassina, forse lo verremo a sapere in seguito, per ora si conceda al tiratore il beneficio del dubbio, e cioè, o quello sparo non fu veramente altro che un avvertimento, ancorché più serio, oppure il capo dei malvagi aveva equivocato circa l’altezza dei manifestanti, immaginandoli più bassi, oppure infine, supposizione inquietante, l’equivoco sarà stato l’immaginarli più alti di quanto fossero effettivamente, nel qual caso l’intenzione di ammazzare andrebbe inevitabilmente considerata. Tralasciando per adesso queste minime questioni, e badando agli interessi generali, che sono poi quelli che contano, fu un autentica provvidenza, quan d’anche si fosse trattato solo di una coincidenza, che i reclamanti si fossero annunciati come i delegati della camerata numero tot. Così soltanto quella dovette digiunare per tre giorni per castigo, e fu una gran fortuna, perché avrebbero potuto tagliarle i viveri per sempre, com’è giusto succeda a chiunque osi mordere la mano di chi gli dà da mangiare. Non ebbero quindi altro rimedio gli occupanti della camerata insorta, durante quei tre giorni, se non di andare di porta in porta a implorare l’elemosina di un tozzo di pane, per le anime del purgatorio, se possibile con un po’ di companatico, certo, non morirono di fame, ma dovettero sentirne delle buone e delle belle, Con queste vostre idee potete anche pulirvici le mani sui muri, Se avessimo dato retta alle vostre chiacchiere, in che situazione staremmo adesso, ma peggio di tutto fu quando dissero loro, Abbiate pazienza, abbiate pazienza, non esistono parole più dure da sentire, meglio l’insulto. E quando i tre giorni di castigo si conclusero e si credette che l’indomani sarebbe stato un nuovo giorno, si vide che la punizione della camerata derelitta, quella dove albergavano tutti i quaranta ciechi insorti, in definitiva non era terminata, infatti il cibo, fino ad allora appena sufficiente per venti, si era talmente ridotto che neanche a dieci sarebbe riuscito ad ammazzare la fame. Si può dunque immaginare la ribellione, l’indignazione, e anche, ci dispiace dirlo, ma i fatti sono fatti, la paura delle restanti camerate che già si vedevano assalite dai bisognosi, e divise, le camerate, fra i classici doveri dell’umana solidarietà e l’osservanza del vecchio e non meno classico precetto secondo cui la carità bene intesa dovrà comunque cominciare da noi stessi.
A questo punto stavano le cose quando giunse l’ordine dei malvagi di consegnar loro altri soldi e oggetti di valore, in quanto, sostenevano, il cibo fornito aveva già superato il valore del pagamento iniziale, peraltro, secondo quanto affermavano, generosamente calcolato in eccesso. Risposero afflitte le camerate che in tasca non gli era rimasto neppure un centesimo, che tutti i beni raccolti erano stati puntualmente consegnati e che, argomento, quest’ultimo, davvero vergognoso, non sarebbe stata del tutto equanime una decisione che deliberatamente ignorasse le differenze di valore dei distinti contributi, e cioè, in parole povere, non andava mica bene che fosse il giusto a pagare per il peccatore, e che dunque non si dovevano tagliare i viveri a chi, probabilmente, aveva ancora un saldo a proprio favore. Nessuna delle camerate, ovviamente, conosceva il valore di quanto era stato consegnato dalle altre, ma ciascuna pensava di aver motivi per continuare a mangiare ancora quando alle altre fosse già finito il credito. Fortunatamente, grazie alla qual cosa i conflitti latenti morirono sul nascere, i malvagi furono categorici, l’ordine andava eseguito da tutti quanti, se differenze di valutazione c’erano state rimanevano nel segreto della contabilità del cieco scrivano. Nelle camerate la discussione fu accesa, aspra, talvolta giunse alla violenza. Sospettavano alcuni che certi egoisti e malintenzionati avessero nascosto parte dei propri valori all’atto della raccolta, e dunque fossero stati lì a mangiare a spese di chi onestamente si era spogliato di tutto a beneficio della comunità. Adducevano altri, recuperando a uso personale ciò che fino ad allora era stata un’argomentazione collettiva, che quanto avevano già con segnato, da solo, sarebbe bastato per continuare a mangiare ancora per molti giorni, invece di doversene star lì a nutrire dei parassiti. La minaccia che i ciechi malvagi avevano fatto all’inizio, di andare a ispezionare le camerate e punire i trasgressori, finì per essere attuata in ciascuna, ciechi buoni contro ciechi cattivi, e pure malvagi. Non si trovarono magnifiche ricchezze, ma furono scoperti ancora un bel po’ di orologi e anelli, il tutto più da uomo che da donna. Quanto ai castighi della giustizia interna, non furono più di qualche ceffone a caso, di qualche fiacco pugno mal diretto, si udirono per lo più insulti, e frasi appartenenti a un’antica retorica accusatoria, per esempio, Saresti capace perfino di derubare tua madre, pensate un po’, come se per commettere un’ignominia del genere, e altre ben più consistenti, ci fosse da aspettare il giorno in cui tutti fossero diventati ciechi e, avendo perduto il lume degli occhi, avessero perduto anche il faro del rispetto. I ciechi malvagi ricevettero il pagamento con minacce di dure rappresaglie, che per fortuna poi non attuarono, si suppone per dimenticanza, ma in realtà perché avevano già un’altra idea in mente, come non tarderà a sapersi. Se avessero realizzato le minacce, ulteriori ingiustizie sarebbero venute ad aggravare la situazione, magari con conseguenze drammatiche immediate, in quanto due delle camerate, per occultare il delitto di trattenuta di cui erano colpevoli, si presentarono a nome delle altre, scaricando sulle camerate innocenti colpe non loro, qualcuna era addirittura talmente onesta da aver consegnato tutto il primo giorno. Fortunatamente, per non ritrovarsi con ulteriore lavoro, il cieco contabile aveva deciso di registrare a parte, in un unico foglio di carta, i nuovi diversi contributi, e fu la salvezza per tutti, innocenti e colpevoli, perché di certo l’irregolarità fiscale gli sarebbe balzata agli occhi se li avesse in seriti nei rispettivi conti.
Trascorsa una settimana, i ciechi malvagi mandarono a dire che volevano donne. Così, semplicemente, Portateci delle donne. Questa inattesa ancor ché non del tutto insolita pretesa causò l’indignazione che è facile immaginare, gli sbalorditi emissari giunti con l’ordine tornarono immediatamen te indietro a comunicare che le camerate, le tre di destra e le due di sinistra, compresi i ciechi e le cieche che dormivano per terra, avevano deciso, all’unanimità, di non accogliere la degradante imposizione, obiettando che non poteva abbassarsi fino a quel punto la dignità umana, in questo caso femminile, e che se nella terza camerata lato sinistro non c’erano donne, la responsabilità, se ce n’era, non si poteva addossare a loro. La risposta fu breve e secca, Se non ci portate delle donne, non mangiate. Umiliati, gli emissari ritornarono nelle camerate con l’ordine, O ci andate, o non ci danno da mangiare. Le donne sole, quelle che non avevano un compagno, o per lo meno non lo avevano fisso, protestarono immediatamente, non erano di sposte a pagare il cibo degli uomini altrui con quello che avevano fra le gambe, una ebbe persino l’audacia di dire, dimenticando il rispetto dovuto al proprio sesso, Io sono padronissima di andarci, ma quanto guadagno è per me, e se mi va ci resto pure a vivere, così mi garantisco letto e piatto. Lo disse con queste inequivocabili parole, ma poi non passò ai conseguenti fatti, pensò per tempo a quanto sarebbe stato amaro il boccone se avesse dovuto sostenere da sola la furia erotica di venti maschi sfrenati che, a giudicare dall’urgenza, dovevano essere accecati dalla foia. Ma questa dichiarazione, così sventatamente proferita nella seconda camerata lato destro, non cadde nel vuoto, uno degli emissari, dotati di un particolare senso dell’opportunità, la colse al volo per proporre che si presentassero dei volontari, tenendo conto del fatto che tutto quello che si fa spontaneamente costa generalmente meno di tutto quello che si deve fare per obbligo. Solo un’estrema cautela, un’ultima prudenza gli impedirono di concludere l’appello citando il noto proverbio, Chi corre per gusto, non si stanca. Le proteste, comunque, esplosero appena ebbe finito di parlare, saltaron su tutte le furie da tutti i lati, senza pietà né pena gli uomini furono stracciati moralmente, qualificati come magnaccia, ruffiani, lecchini, vampiri, sfruttatori, lenoni, secondo la cultura, l’ambiente sociale e lo stile personale delle donne, giustamente indignate. Alcune si dichiararono pentite di aver ceduto, per pura generosità e compassione, alle sollecitazioni sessuali di compagni di sventura che adesso le ringraziavano tanto male, spingendole alla peggiore delle sorti. Gli uomini cercarono di giustificarsi, beh, non era proprio così, non bisognava drammatizzare, che diavolo, solo parlando ci s’intende, è stato solo perché si usa chiedere dei volontari in situazioni difficili e pericolose, come lo è senza dubbio questa, Rischiamo tutti di morire di fame, voi e noi. Alcune donne si calmarono, così ricondotte alla ragione, ma una del le altre, subitamente ispirata, lanciò un nuovo ciocco nel fuoco quando ironicamente domandò, E cosa avreste fatto voi se, invece di chiedere donne, avessero chiesto uomini, cosa avreste fatto, raccontatecelo, stiamo a sentire. Le donne esultarono, Raccontatecelo, raccontatecelo, gridavano in coro, entusiasmate per aver messo gli uomini con le spalle al muro, presi nella loro stessa trappola logica cui non sarebbero potuti sfuggire, adesso volevano vedere fin dove giungesse la tanto decantata coerenza maschile, Qui froci non ce ne sono, si azzardò a protestare uno, E neanche puttane, ribatté la donna che aveva posto la domanda provocatoria, e anche se ce ne fossero, può darsi non siano disposte a esserlo per voi. Infastiditi, gli uomini si vergognarono, consapevoli che solo una risposta sarebbe stata in grado di dar soddisfazione alle vendicative femmine, Se avessero chiesto degli uomini, saremmo andati, ma non ci fu nessuno che ebbe il coraggio di pronunciare queste brevi, esplicite e disinibite parole, anzi, ne furono talmente turbati da non pensare neppure che non ci sarebbe stato grande pericolo nel dirle, visto che quei figli di puttana non volevano sfogarsi con gli uomini, ma con le donne.
Orbene, quel che nessun uomo pensò pare lo pensarono le donne, non doveva esserci altra spiegazione per quel silenzio che a poco a poco si instaurò nella camerata dove avvennero questi confronti, come se le donne avessero capito che, per loro, la vittoria nella contesa verbale era un tutt’uno con la sconfitta che ne sarebbe inevitabilmente seguita, e forse nelle altre camerate la discussione non sarà stata diversa, infatti è risaputo che le ragioni umane non fanno che ripetersi, e anche le nonragioni. Qui, chi pronunciò la sentenza finale fu una donna ormai cinquantenne che aveva con sé la vecchia madre e nessun altro modo di darle da mangiare, Io vado, disse, non sapendo che queste parole erano l’eco di quelle che nella prima camerata lato destro erano state dette dalla moglie del medico, Io vado, in questa camerata le donne sono poche, ecco forse perché le proteste non sono state tanto numerose né tanto veementi, c’era la ragazza dagli occhiali scuri, c’era la moglie del primo cieco, c’era l’impiegata dell’ambulatorio, c’era la cameriera dell’albergo, ce n’era una che non si sa chi sia, c’era quella che non riusciva a dormire, ma quest’ultima era talmente infelice, talmente sventurata che sarebbe stato meglio lasciarla in pace, della solidarietà delle donne non avevano da beneficiarne soltanto gli uomini. Il primo cieco aveva cominciato col dichiarare che sua moglie non si sarebbe assoggettata alla vergogna di concedere il corpo a gente sconosciuta in cambio di qualsiasi cosa fosse, che né lo avrebbe voluto lei né lo avrebbe permesso lui, che la dignità non ha prezzo, che si comincia col cedere nelle piccole cose e si finisce per perdere completamente il senso della vita. Il medico domandò allora quale senso della vita ci vedesse nella situazione in cui si trovavano, affamati, coperti di schifezze fino alle orecchie, rosi dai pidocchi, mangiati dalle cimici, pizzicati dalle pulci, Neanch’io vorrei che mia moglie andasse, ma il mio volere non serve a niente, lei ha detto di essere disposta ad andare, è stata la sua decisione, so che il mio orgoglio di uomo, questo che chiamiamo orgoglio di uomo, seppure dopo tanta umiliazione serbiamo ancora qualcosa che meriti tal nome, so che ne soffrirà, ne sta già soffrendo, non posso evitarlo, ma probabilmente è l’unico rimedio, se vogliamo campare, Ognuno si comporta secondo la propria morale, io la penso così e non intendo cambiare idea, ribatté aggressivo il primo cieco. Allora la ragazza dagli occhiali scuri disse, Gli altri non sanno quan te donne ci sono qui, quindi lei potrà tenersi la sua ad uso esclusivo, vi nutriremo noi, a tutti e due, voglio proprio vedere come si sentirà dopo la sua dignità, che sapore avrà il pane che le porteremo, Il problema non è questo, cominciò a rispondere il primo cieco, il problema è, ma rimase con la frase a metà, in realtà non sapeva quale fosse il problema, tutto quanto aveva detto prima erano solo opinioni sconnesse, nient’altro che opinioni, appartenenti a un altro mondo, non a questo, mentre, questo sì, avrebbe dovuto alzare le braccia al cielo e ringraziare la sorte di potersi tenere, per così dire, le vergogne in casa, invece di dover sopportare il disonore di sapersi mantenuto dalle donne altrui. Dalla moglie del medico per la precisione e l’esattezza, perché quanto alle altre, a parte la ragazza dagli occhiali scuri, nubile e libera, della cui vita dissipata abbiamo già più che sufficiente informazione, se i mariti li avevano, non erano comunque lì. Il silenzio che fece seguito alla frase interrotta parve in attesa di qualcuno che chiarisse definitivamente la situazione, perciò ben presto parlò chi doveva parlare, e cioè la moglie del primo cieco, che disse senza alcun tremore nella voce, Io sono come le altre, farò ciò che faranno loro, Tu fai solo quello che dico io, interruppe il marito, Lascia perdere l’autorità, qui non ti serve a niente, sei cieco quanto me, È un’indecenza, Sta in te non essere indecente, d’ora in poi non mangiare, fu la crudele risposta, inattesa in chi fino a oggi si era mostrata docile e rispettosa del marito. Si udì una brusca risata, era la cameriera dell’albergo, Ah, lui mangia, mangia, cosa deve fare, poverino, di colpo la risata si tramutò in pianto, le parole cambiarono, Cosa dobbiamo fare noi, disse, era quasi una domanda, una domanda appena rassegnata a cui non c’era risposta, come un accorato scuotimento del capo, tanto che l’impiegata dell’ambulatorio non fece altro che ripeterla, Cosa dobbiamo fare noi. La moglie del medico alzò gli occhi alle forbici appese alla parete, dalla loro espressione si sarebbe detto che stava rivolgendo alle forbici la stessa domanda, a meno che gli occhi non cercassero invece una risposta alla domanda che le forbici le rinviavano, Cosa vuoi farne di noi.
Però, ogni cosa a suo tempo, non perché ci si è alzati di buon mattino si deve morire più presto. I ciechi della terza camerata lato sinistro sono persone organizzate, hanno già deciso che cominceranno da quello che hanno più vicino, dalle donne delle camerate della loro ala. L’applicazione del metodo rotativo, termine più che corretto, presenta tutti i vantaggi e nessun inconveniente, in primo luogo perché permetterà di sapere, in qualsiasi momento, quanto si è fatto e quanto c’è da fare, è come guardare un orologio e dire del giorno che passa, Ho vissuto da qui a qui, mi manca tanto o tanto poco, in secondo luogo per ché, quando il giro delle camerate sarà concluso, il ritorno all’inizio porterà un’indiscutibile ventata di novità, soprattutto per chi ha la memoria sensoria più corta. Si rallegrino dunque le donne delle camerate dell’ala destra, del male altrui si guarisce, del proprio si muore, parole che non pronunciò nessuna, ma che tutte pensarono, in realtà deve ancora nascere il primo essere umano sprovvisto di quella seconda pelle che chiamiamo egoismo, ben più dura dell’altra, che per qualsiasi cosa sanguina. C’è da dire, inoltre, che doppiamente si stanno rallegrando queste donne, sono i misteri dell’anima umana, poiché la minaccia in ogni modo prossima, dell’umiliazione cui saranno soggette, ha risvegliato ed esacerbato, in ogni camerata, appetiti sensuali che la prolungata convivenza aveva indebolito, era come se gli uomini stessero disperatamente mettendo sulle donne il proprio marchio prima di portargliele, era come se le donne volessero saturarsi la memoria di sensazioni provate volontariamente per meglio potersi difendere dall’aggressione di quelle che, potendolo, avrebbero ricusato. È inevitabile domandarsi, prendendo a esempio la prima camerata lato destro, come fu risolto il problema della differenza quantitativa fra uomini e donne, anche detraendo gli impotenti di sesso maschile, che pure ce ne sono, come dev’essere il caso del vecchio dalla ben da nera e di qualcun altro, sconosciuto, vecchio o giovane, che per un verso o per l’altro non ha detto né fatto niente di pertinente al resoconto. Si è detto che sono sette le donne in questa camerata, comprese la cieca delle insonnie e quella che non si sa chi sia, e che le coppie normalmente costituite non sono più di due, il che lascerebbe fuori una sbilanciata quantità di uomini, il ragazzino strabico ancora non conta. Magari in altre camerate ci saranno più donne che uomini, ma una regola non scritta, che l’uso ha fatto nascere qui e poi ha trasformato in legge, detta che tutti i problemi vadano risolti entro le camerate in cui siano sorti, a esempio di quanto insegnavano gli antichi, la cui saggezza non ci stancheremo mai di lodare, A casa della vicina sono andata e mi son vergognata, nella mia son tornata e mi sono rimediata. Porranno dunque rimedio le donne della prima camerata lato destro alle necessità degli uomini che vivono sotto il loro stesso tetto, a eccezione della moglie del medico, che, vai a sapere perché, nessuno si è azzardato a sollecitare, a parole o con la mano tesa. La moglie del primo cieco, dopo quel passo avanti che era stato l’inattesa risposta data al marito, ha già fatto, benché discretamente, ciò che hanno fatto le altre, come lei stessa aveva avvisato. Ma contro certe resistenze non possono né la ragione né il sentimento, come nel caso della ragazza dagli occhiali scuri, che il commesso di farmacia, per quanto si fosse prodotto in argomentazioni, per quanto si profondesse in suppliche, non riuscì a sottomettere, pagando così quella mancanza di rispetto che aveva commesso all’inizio. Questa stessa ragazza, vai a capire le donne, che è la più carina di tutte quelle qui presenti, quella dal corpo più ben fatto, la più attraente, quella che tutti hanno cominciato a desiderare quando si è sparsa la voce di quanto valesse, è andata infine, una notte, a infilarsi di sua spontanea volontà nel letto del vecchio dalla benda nera, che l’ha accolta come un temporale d’estate e si è comportato come meglio poteva, niente male per l’età, dimostrandosi così, ancora una volta, che le apparenze ingannano, e che non certo dall’aspetto del viso e dalla prontezza del corpo si conosce la forza del cuore. Nella camerata compresero tutti che solo per pura carità la ragazza dagli occhiali scuri era andata a offrirsi al vecchio dalla benda nera, ma vi furono degli uomini, di quelli sensibili e sognatori, che, avendone già goduto prima, si misero a fantasticare, a pensare che non potesse esserci miglior premio a questo mondo del ritrovarsi distesi nel proprio letto, da soli, immaginando cose impossibili, e avvertire che una donna ti viene a sollevare le coperte molto lentamente e vi si insinua sotto, sfiorandoti lentamente il corpo con il corpo, fino ad acchetarsi poi, in silenzio, in attesa che l’ardore del sangue pacifichi l’improvviso tremore della pelle sussultante. E tutto per niente, solo perché lei lo ha voluto. Non sono mica fortune da quattro soldi, a volte è necessario esser vecchi e avere una benda nera lì a tappare un’orbita definitivamente cieca. Oppure certe cose è meglio lasciarle senza spiegazione, dire semplicemente quel che è accaduto, non interrogarsi nell’intimo, come quella volta, quando la moglie del medico si era alzata dal letto per andare a rimboccare il ragazzino strabico che si era scoperto. Non se ne tornò subito a letto. Appoggiata alla parete di fondo, nel poco spazio tra le due file di brande, guardava disperata la porta all’altra estremità quella da cui erano entrati un giorno che ormai sembrava lontano e che adesso non conduceva da nessuna parte. Mentre se ne stava così, vide il marito alzarsi e, con lo sguardo fisso, come un sonnambulo, dirigersi verso il letto della ragazza dagli occhiali scuri. Non fece un solo gesto per trattenerlo. In piedi, senza muoversi, vide come lui alzava le coperte e poi si sdraiava accanto a lei, come la ragazza si svegliò e lo accolse senza protestare, come le due bocche si cercarono e si trovarono, e poi successe quel che doveva succedere, il piacere dell’uno, il piacere dell’altro, il piacere di entrambi, i mormorii soffocati, lei disse, dottore, e questa parola avrebbe potuto essere ridicola, ma non lo fu, lui disse, Scusa, non so cosa mi abbia preso, infatti avevamo ragione, come avremmo potuto noi, che solo vediamo, sapere ciò che non sa neppure lui. Sdraiati nella stretta branda, non potevano immaginare di essere osservati, il medico sì, certo, subitamente inquieto, chi sa se la moglie stava dormendo, si domandò, o se ne andava in giro per i corridoi come tutte le notti, fece un movimento per tornare nel suo letto, ma una voce disse, Non ti alzare, e una mano gli si posò sul petto con la leggerezza di un uccello, lui stava per parlare, forse per ripetere che non sapeva cosa gli avesse preso, ma la voce disse, Se non dirai niente comprenderò meglio. La ragazza dagli occhiali scuri cominciò a piangere, Come siamo disgraziati, mormorava, e poi, L’ho voluto an ch’io, l’ho voluto anch’io, il dottore non ha colpa, Taci, disse dolcemen te la moglie del medico, taciamo tutti, in certe occasioni le parole non servono a niente, magari potessi piangere anch’io, dire tutto con le lacrime, non dover parlare per essere intesa. Si sedette sul bordo del letto, tese il braccio sopra i due corpi, come per cingerli nello stesso amplesso, e chinandosi verso la ragazza dagli occhiali scuri le mormorò sottovoce all’orecchio, Io vedo. La ragazza rimase immobile, rasserenata, ma perplessa di non provare alcuna sorpresa, era come se lo sapesse già fin dal primo giorno e non avesse voluto dirlo a voce alta solo perché era un segreto che non le apparteneva. Girò un po’ il capo e a sua volta sussurrò all’orecchio della moglie del medico, Lo sapevo, non ne sono del tutto sicura, ma penso che lo sapessi, È un segreto, non puoi dirlo a nessuno, Stia tranquilla, Ho fiducia in te, Può averla, preferirei morire piuttosto che ingannarla, Devi darmi del tu, Questo no, non ne sono capace. Mormoravano all’orecchio, ora l’una ora l’altra, sfiorandosi con le labbra i capelli, il lobo dell’orecchio, era un dialogo insignificante, era un dialogo profondo, se è possibile accostare questi contrari, una piccola conversazione complice che sembrava non contemplare l’uomo sdraiato fra loro due, ma che lo implicava in una logica al di fuori del mondo delle idee e delle comuni realtà. Poi la moglie del medico disse al marito, Resta qui un altro po’, se vuoi, No, vengo nel nostro letto, Allora ti aiuto. Si alzò per lasciargli i movimenti liberi, contemplò per un istante le due teste cieche, posate fianco a fianco sul guanciale sudicio, le facce sporche, i capelli arruffati, solo gli occhi risplendevano inutilmente. Lui si alzò lentamente, cercando appoggio, poi rimase fermo lì accanto al letto, indeciso, come se tutto a un tratto avesse perduto la nozione del luogo in cui si trovava, allora lei, come sempre aveva fatto, lo prese per un braccio, ma adesso il gesto aveva un significato nuovo, mai come in questo momento lui aveva avuto necessità di esser guidato, ma non poteva sapere fino a qual punto, soltanto le due don ne lo seppero veramente, quando la moglie del medico sfiorò con l’altra mano il viso della ragazza e istintivamente lei gliela prese per portarsela alle labbra. Parve al medico di sentir piangere, un suono quasi inudibile, come può esserlo solo quello di lacrime che scorrono lentamente fino agli angoli della bocca dove scompaiono per ricominciare l’eterno ciclo degli inspiegabili dolori e delle gioie umane. La ragazza dagli occhiali scuri sarebbe rimasta sola, era lei quella che doveva essere consolata, perciò la mano della moglie del medico tardò tanto a staccarsi.
Il giorno dopo, all’ora di cena, se qualche misero pezzo di pane duro e un po’ di carne rancida si potevano chiamare cena, comparvero alla porta della camerata tre ciechi provenienti dall’altro lato, Quante donne avete qui, domandò uno di essi, Sei, rispose la moglie del medico, con la buona intenzione di lasciar fuori la cieca delle insonnie, ma lei corresse con voce spenta, Siamo sette. I ciechi risero, Diavolo, disse uno, allora dovrete lavorare molto stanotte, e un altro suggerì, Forse è meglio andare a cercare rinforzi nella camerata seguente, Non ne vale la pena, disse il terzo cieco, che conosceva l’aritmetica, praticamente sono tre uomini per ogni donna, ce la faranno. Risero tutti di nuovo, e quello che aveva domandato quante donne ci fossero impartì l’ordine, Quando avete finito raggiungeteci, e aggiunse, Naturalmente se domani volete mangiare e dare la pappa ai vostri uomini. Ripetevano le stesse parole in ogni camerata, ma continuavano a divertirsi un mondo con quella spiritosaggine quanto il giorno in cui l’avevano inventata. Si contorcevano dalle risate, si davano pacche, picchiavano con i grossi bastoni per terra, subitamente uno di loro avvertì, Ehi, se c’è qualcuna con le sue cose non la vogliamo, sarà per la prossima volta, Non ce n’è nessuna, disse serenamente la moglie del medico, Allora preparatevi, e non tardate, vi aspettiamo. Girarono le spalle e scomparvero. La camerata rimase in silenzio. Un minuto dopo, la moglie del primo cieco disse, Non posso mangiare altro, era quasi niente quel che aveva in mano, e non riusciva a mangiarlo, Neanche io, disse la cieca delle insonnie, Neanche io, disse quella che non si sa chi sia, Io ho finito, disse la cameriera d’albergo, Anche io, disse l’impiegata dell’ambulatorio, Io vomiterò in faccia al primo che mi si avvicina, disse la ragazza dagli occhiali scuri. Stavano tutte lì in piedi, tremanti e risolute. Allora la moglie del medico disse, Vado avanti io. Il primo cieco nascose il capo sotto la coperta, come se servisse a qualche cosa, cieco lo era già, il medico attirò a sé la moglie e, senza parlare, le diede un rapido bacio sul la fronte, cos’altro poteva fare lui, agli altri uomini tanto si doveva dare, non avevano né diritti né obblighi coniugali su nessuna di quelle donne, perciò nessuno potrebbe andare a dirgli, Cornuto consenziente, cornuto due volte. La ragazza dagli occhiali scuri andò a mettersi dietro la moglie del medico, poi, una dopo l’altra, la cameriera dell’albergo, l’impiegata dell’ambulatorio, la moglie del primo cieco, quella che non si sa chi sia, e infine la cieca delle insonnie, una fila grottesca di femmine maleodoranti, con gli abiti immondi e cenciosi, sembra impossibile che la forza bestiale del sesso sia ancora tanto possente, al punto da accecare l’olfatto, che è il più delicato dei sensi, ci sono persino dei teologi che affermano, benché non con queste parole precise, che la maggior difficoltà per riuscire a vivere decentemente all’inferno è l’odore che c’è. Lentamente, guidate dal la moglie del medico, ciascuna con la mano sulla spalla della seguente, le donne cominciarono a camminare. Erano tutte scalze perché non volevano perdere le scarpe fra i tormenti e le angosce per cui sarebbero passate. Quando arrivarono nell’atrio d’ingresso, la moglie del medico si avviò verso la porta, forse voleva sapere se il mondo ci fosse ancora. Nel sentire la freschezza dell’aria, la cameriera dell’albergo ricordò spaventata, Non possiamo uscire, là fuori ci sono i soldati, e la cieca delle insonnie disse, Tanto meglio, in meno di un minuto saremmo morte, come del resto dovremmo essere, tutte morte, Noi, domandò l’impiegata dell’ambulatorio, No, tutte noi che ci troviamo qui dentro, almeno avremmo il migliore dei motivi per essere cieche. Non aveva mai pronunciato tante parole di seguito da quando l’avevano portata. La moglie del medico disse, Andiamo, solo chi dovrà morire morirà, la morte sceglie senza avvisare. Oltrepassarono la porta che dava accesso all’ala sinistra, si infilarono nei lunghi corridoi, le donne delle prime due camerate avrebbero potuto, volendo, dir loro cosa le aspettava, ma se ne stavano rannicchiate nei letti come bestie bastonate, gli uomini non si azzardavano a toccarle, appena tentavano di avvicinarsi, quelle si mettevano a gridare.
Nell’ultimo corridoio, giù in fondo, la moglie del medico vide un cieco che stava di sentinella, come al solito. Doveva aver sentito i passi strascicati, lanciò un avvertimento, Stanno arrivando, stanno arrivando. Dall’interno partirono grida, nitriti, risate. Quattro ciechi scostarono rapidamente il letto che fungeva da barriera all’entrata, Presto, ragazze, entrate, entrate, qui sembriamo tutti dei cavalli, ve ne andrete via a pancia piena, diceva uno. I ciechi le circondarono, tentavano di palpeggiarle, ma indietreggiarono subito dopo, scontrandosi, quando il capo, quello che aveva la pistola, gridò, Il primo a scegliere sono io, lo sapete. Gli occhi di tutti quegli uomini cercavano ansiosamente le donne, alcuni allungavano le mani avide, se di sfuggita ne toccavano qualcuna sapevano finalmente in che direzione guardare. In mezzo alla corsia, fra i letti, le donne erano come i soldati schierati in attesa che vengano a passarli in rivista. Il capo dei ciechi, pistola in pugno, si avvicinò, agile e disinvolto come se con gli occhi di cui disponeva potesse vedere. Posò la mano libera sulla cieca delle insonnie, che era la prima, la palpeggiò davanti e dietro, il sedere, le mammelle, in mezzo alle gambe. La cieca attaccò a gridare e lui la spinse via, Non vali niente, puttana. Passò alla successiva, che era quella che non si sa chi sia, adesso palpeggiava con tutte e due le mani, si era infilato la pistola nella tasca dei pantaloni, Guardate che questa non è niente male, e subito dopo passò alla moglie del primo cieco, poi all’impiegata dell’ambulatorio, poi alla cameriera dell’albergo, esclamò, Ragazzi, queste qui non sono affatto male. I ciechi nitrirono, diedero pacche per terra, Diamoci sotto, che si fa tardi, strillarono alcuni, Calma, disse quello della pistola, fatemi vedere prima come sono le altre. Palpeggiò la ragazza dagli occhiali scuri e fece un fischio, Ehilà, abbiamo vinto alla lotteria, di questa razza non ce n’erano ancora arrivate. Eccitato, mentre continuava a palpeggiare la ragazza, passò alla moglie del medico, fischiò di nuovo, Questa è una delle tardone, ma ha tutta l’aria di essere ben fornita. Tirò verso di sé le due donne, quasi sbavando mentre diceva, Mi tengo queste, appena le ho sbrigate ve le passo. Le trascinò giù in fondo alla camerata, dove erano ammucchiate le casse del cibo, i pacchi, le lattine, una dispensa che avrebbe potuto rifornire un reggimento. Le donne, tutte, stavano già urlando, si udivano colpi, schiaffi, ordini, State zitte, puttane, le donne sono tutte uguali, devono sempre mettersi a strillare, Dacci dentro forte, vedrai che starà zitta, Lasciate che arrivi il mio turno e ve drete come ne vorranno ancora, Sbrigati un po’, non resisto un minuto di più. La cieca delle insonnie ululava disperata sotto un cieco grasso, le altre quattro erano circondate da uomini coi pantaloni calati che si spingevano a vicenda come iene intorno a una carogna. La moglie del medico si trovava vicino alla branda dove era stata portata, stava lì in piedi, con le mani convulsamente aggrappate alle sbarre del letto, vide come il cieco della pistola tirò e strappò la gonna alla ragazza dagli occhiali scuri, come si abbassò i pantaloni e, guidandosi con le dita, puntò il sesso contro il sesso della ragazza, come spinse e forzò, udì i grugniti, le oscenità, la ragazza dagli occhiali scuri non diceva niente, aprì solo la bocca per vomitare, con la testa girata, gli occhi verso l’altra donna, lui non si accorse neppure di quanto accadeva, l’odore del vomito si nota solo quando l’aria e il resto non odorano allo stesso modo, infine l’uomo si agitò tutto, diede tre violenti scossoni come se piantasse tre puntelli, ansimò come un porco sgozzato, aveva finito. La ragazza dagli occhiali scuri piangeva in si lenzio. Il cieco della pistola estrasse il sesso ancora gocciolante e disse con voce insicura, mentre allungava il braccio verso la moglie del medico, Non essere gelosa, ora mi occupo di te, e poi, alzando il tono, Ehi, ragazzi, potete venire a prendere questa, ma trattatela bene, potrei ancora averne bisogno. Una mezza dozzina di ciechi avanzarono dimenandosi per la corsia, si buttarono sulla ragazza dagli occhiali scuri, la portarono via quasi trascinandola, Prima io, prima io, dicevano tutti. Il cieco della pistola si era seduto sul letto, il sesso flaccido adesso era posato sul bordo del materasso, i pantaloni arrotolati ai piedi. Inginocchia ti qui, fra le mie gambe, disse. La moglie del medico si inginocchiò. Succhia, disse lui, No, disse lei, O me lo succhi o ti picchio, e niente mangiare, disse lui, Non hai paura che te lo strappi a morsi, domandò lei, Puoi provarci, ho le mani intorno al tuo collo, ti strangolerei prima che riuscissi a farmi uscire un po’ di sangue, rispose lui. Poi disse, Adesso riconosco la tua voce, E io la tua faccia, Sei cieca, non puoi vedermi, No, non ti posso vedere, Allora perché dici che riconosci la mia faccia, Perché questa voce può avere solo questa faccia, Succhia, e piantala con ‘sti discorsi, No, O me lo succhi o nella tua camerata non entrerà mai più una briciola di pane, vai a dirgli che se non mangiano è perché ti sei rifiutata di succhiarmelo, e poi torna a raccontarmi cosa è successo. La moglie del medico si chinò in avanti, con la punta di due dita della mano destra prese e sollevò il sesso appiccicoso dell’uomo, con la sinistra si appoggiò per terra, toccò i pantaloni, li tastò, sentì la durezza metallica e fredda della pistola, Potrei ammazzarlo, pensò. No, non poteva. Coi pantaloni così com’erano, arrotolati ai piedi, era impossibile arrivare alla tasca dove si trovava l’arma. Adesso non lo posso ammazzare, pensò. Avanzò il capo, aprì la bocca, la chiuse, chiuse gli occhi per non vedere, cominciò a succhiare.
Albeggiava quando i ciechi malvagi lasciarono andare le donne. La cieca delle insonnie dovettero portarla via in braccio le compagne, che a stento riuscivano, anch’esse, a trascinarsi. Per ore erano passate da un uomo all’altro, da un’umiliazione all’altra, da un’offesa all’altra, tutto quanto è possibile fare a una donna lasciandola ancora viva. Lo sapete, no, il pagamento è in generi alimentari, dite ai vostri ometti di venirsi a prendere la minestra, le aveva schernite congedandole il cieco della pistola. E aggiunse, scherzoso, A presto, ragazze, preparatevi per la prossima seduta. Gli altri ciechi ripeterono più o meno in coro, A presto, alcuni dissero tizie, alcuni dissero puttane, ma gli si notava la spossatezza della libido nella scarsa convinzione delle voci. Sorde, cieche, taciturne, con un residuo di volontà sufficiente solo per non lasciare la mano di colei che avevano davanti, la mano, non la spalla come quando erano venute, certamente nessuna di loro avrebbe saputo rispondere se le avessero domandato, Perché camminate tenendovi per mano, era capitato così, ci sono gesti per cui non sempre si può trovare una spiegazione facile, e talvolta neppure quella difficile può essere trovata. Quando attraversarono l’atrio, la moglie del medico guardò fuori, dove c’erano i soldati, e dove c’era anche un camioncino che forse stava facendo la distribuzione del cibo alle varie quarantene. In quel preciso momento, alla cieca delle insonnie cedettero le gambe, letteralmente, come se gliele avessero troncate di colpo, e le cedette pure il cuore, non si concluse neanche la sistole appena iniziata, finalmente siamo venuti a sapere il motivo per cui questa cieca non riuscisse a dormire, adesso dormirà, non svegliamola. È morta, disse la moglie del medico, e la sua voce era priva di espressione, se mai fosse possibile che una voce così, morta come le parole appena pronunciate, uscisse da una bocca viva. Prese in braccio il corpo improvvisamente disarticolato, le gambe insanguinate, il ventre livido, i poveri seni scoperti, segnati con furia, un morso su una spalla, È il ritratto del mio corpo, pensò, il ritratto del corpo di tutte noi, fra queste offese e i nostri dolori non c’è che una differenza, noi, per il momento, siamo ancora vive. Dove la portiamo, domandò la ragazza dagli occhiali scuri, Adesso in camerata, poi la sotterreremo, disse la moglie del medico.
Gli uomini aspettavano sulla porta, mancavano solo il primo cieco, che di nuovo si era nascosto il capo sotto la coperta avvertendo l’arrivo delle donne, e il ragazzino strabico, che dormiva. Senza alcuna esitazione, senza aver bisogno di contare i letti, la moglie del medico andò a deporre la cieca delle insonnie nella branda che le apparteneva. Non si preoccupò del possibile stupore degli altri, in definitiva tutti quanti, lì, sapevano che lei era la cieca che meglio conosceva tutti gli angoli di casa. È morta, ripeté, Com’è stato, domandò il medico, ma la donna non gli rispose, la sua domanda avrebbe potuto limitarsi a ciò che apparentemente significava, Com’è stato che è morta, ma avrebbe anche potuto essere, Che cosa vi hanno fatto, orbene, né all’una né all’altra avrebbe dovuto esserci risposta, è morta, semplicemente, non importa di che cosa, domandare di cosa sia morto qualcuno è stupido, col tempo la causa si dimentica, soltanto due parole restano, È morta, e noi non siamo più le stesse di quando siamo uscite, le parole che avrebbero detto quelle donne noi non possiamo più dirle, e quanto alle altre, l’innominabile esiste, è il suo unico nome, nient’altro. Andate a prendere il cibo, disse la moglie del medico. Il caso, il fato, la sorte, il destino, o comunque si definisca ciò che possiede tanti nomi, è fatto di pura ironia, né altrimenti si intenderebbe come mai erano stati proprio i mariti di due di queste donne i prescelti per rappresentare la camerata e ritirare i generi alimentari quando ancora nessuno immaginava che il prezzo avrebbe potuto essere quello appena pagato. Potevano essere stati prescelti altri uomini, scapoli, liberi, senza un onore coniugale da difendere, ma dovettero essere proprio questi, di certo non vorranno vergognarsi, adesso, di tendere la mano elemosinante a quei bruti e malvagi che hanno violato le loro mogli. Lo disse il primo cieco, a chiare lettere e con decisa fermezza, Ci vada chiunque altro, ma io non vado, Andrò io, disse il medico, Vengo con lei, disse il vecchio dalla benda nera, Il cibo non sarà molto, ma badi che pesa, Per trasportare il pane che mangio le forze mi bastano ancora, Quello che pesa di più è sempre il pane degli altri, Non ho il diritto di lamentarmi, è il peso della parte altrui che pagherà il mio nutrimento. Immaginiamo, non il dialogo, ormai superato, ma gli uomini che lo hanno sostenuto, sono lì faccia a faccia come se si potessero vedere, il che in questo caso non è neanche impossibile, basta che la memoria di ciascuno dei due faccia emergere dall’abbagliante biancore del mondo la bocca che sta articolando le parole, e poi, come una lenta irradiazione da quel centro, il resto dei visi apparirà pian piano, un viso da vecchio, un altro non tanto, non si dica che è cieco chi ancora sia capace di vedere così. Quando si allontanarono per andare a riscuotere il salario della vergogna, come lo aveva definito il primo cieco protestando con retorica indignazione, la moglie del medico disse alle altre donne, Restate qui, torno subito. Sapeva ciò che voleva, non sapeva se lo avrebbe trovato. Voleva un secchio o qualcosa che ne facesse le veci, voleva riempirlo d’acqua anche se fetida, anche se putrida, voleva lavare la cieca delle insonnie, ripulirla del sangue proprio e della secrezione altrui, consegnarla purificata alla terra, ammesso che ancora abbia senso parlare di purezze del corpo in questo manicomio in cui viviamo, che alle purezze dell’anima, si sa, non c’è modo di giungervi.
Sui lunghi tavoli del refettorio c’erano ciechi sdraiati. Da un rubinetto mal chiuso, sopra una vasca di scarico, scorreva un filo d’acqua. La moglie del medico si guardò intorno in cerca del secchio, del recipiente, ma non vide niente di utilizzabile. Un cieco avvertì la presenza, domandò, Chi c’è. Lei non rispose, sapeva che non sarebbe stata bene accolta, nessuno le avrebbe detto, Vuoi un po’ d’acqua, prendila, e se poi serve per lavare una defunta, tutta quella di cui hai bisogno. Per terra, sparpagliate, c’erano buste di plastica, quelle per alimenti, alcune grandi. Pensò che si curamente erano rotte, ma poi pensò anche che, usandone due o tre, una dentro l’altra, avrebbe perso ben poca acqua. Agì rapidamente, i ciechi stavano già scendendo dai tavoli, domandavano, Chi c’è, tanto più allarmati quando udirono il rumore dell’acqua corrente, avanzarono in quella direzione, la moglie del medico corse a spostare e spingere un tavolo perché non potessero avvicinarsi, poi riprese la busta, l’acqua scorreva lentamente, disperata forzò la manopola, e allora, come se l’avessero liberata da una prigione, l’acqua sgorgò con forza, sprizzò violentemente e la bagnò dalla testa ai piedi. I ciechi si spaventarono e indietreggiarono, pensarono fos se saltato un tubo, e a maggior ragione lo pensarono quando l’acqua che si riversava gli arrivò come un’inondazione ai piedi, non potevano sapere che era stata versata da quell’estraneo che era entrato, solo allora la donna capì che non ce l’avrebbe fatta con tanto peso. Attorcigliò e arrotolò la busta, se la buttò sulle spalle e, come poté, corse via.
 Quando il medico e il vecchio dalla benda nera entrarono nella camerata con il cibo, non videro, non potevano vedere, sette donne nude, la cieca delle insonnie distesa sul letto, pulita come non lo era mai stata in tutta la sua vita, mentre un’altra donna lavava, una dopo l’altra, le sue compagne, e poi se stessa.

12.