CREPUSCOLO
Kent Haruf
Recensione
Il crepuscolo è quel breve spazio tra il giorno e la notte, e, metaforicamente, tra la vita e la morte, simbolo d’una lieve speranza. È questo il titolo, carico di significati e suggestioni, dell’ultimo romanzo della trilogia di Kent Haruf “Eventide”. “Eventide significa crepuscolo, è anche il titolo di un inno molto conosciuto dai cristiani americani, e in questo senso si avvicina il termine crepuscolo all’idea di fine vita.
"Abide with me, fast falls the eventide
The darkness deepens,
Lord with me abide"
"Rimani con me, veloce cala la sera
Le tenebre si fanno più profonde,
Signore con me dimora"
D’altra parte la componente spirituale e religiosa è costantemente presente nell’opera di Haruf, come si è visto sia in “Canto della pianura” che in “Benedizione”.
Ancora una volta ci troviamo a Holt, di fronte a quelle che sembrano banali vicende quotidiane raccontate con un realismo che rende interessante la lettura, perché in fondo è la vita dell’uomo qualunque che viene descritta come se fosse stata vissuta dallo stesso autore. Haruf affronta così alcuni dei temi che più affliggono la società moderna, come le violenze sui minori e gli atti di bullismo tra i giovani, come anche soprattutto il drammatico senso di solitudine che ognuno cerca di superare come meglio può, anche compiendo errori. Eppure quella luce del crepuscolo porta con sé una speranza, anche se è una speranza non priva di illusione.
CREPUSCOLO
PARTE PRIMA
1
Tornarono dalla scuderia nella luce obliqua del primo mattino. I fratelli McPheron, Harold e Raymond. Vecchi che si avvicinano a una vecchia casa alla fine dell’estate. Attraversarono il vialetto sterrato, superarono il furgone e l’automobile parcheggiata accanto alla recinzione in rete metallica e varcarono il cancello uno dopo l’altro. Sfregarono la suola degli stivali contro la lama di una sega piantata nel terreno, chiazzato di letame e compatto e lucido tutt’intorno per anni e anni di calpestio, e salirono gli scalini in legno fino alla zanzariera della veranda, poi entrarono in cucina, dove la diciannovenne Victoria Roubideaux, seduta al tavolo in pino, stava dando il porridge alla figlioletta.
Una volta dentro, si tolsero i cappelli e li appesero ai ganci fissati sulla parete accanto alla porta e subito andarono a lavarsi nell’acquaio. Sotto la fronte bianca avevano la faccia arrossata e segnata dalla vita all’aria aperta, i capelli crespi sulle teste rotonde erano ormai grigio ferro e rigidi come una criniera di cavallo tagliata a spazzola. Dopo essersi lavati, si asciugarono a turno con uno strofinaccio, ma quando si avvicinarono al fornello per riempirsi i piatti la ragazza li fece sedere.
È inutile che ci aspetti, disse Raymond.
Ci tengo, disse lei. Da domani non sarò più qui.
Si alzò con la bambina in braccio e portò in tavola due tazze di caffè, due scodelle di porridge e delle fette di pane tostate e imburrate, poi tornò a sedersi.
Harold fissò con diffidenza il porridge. Pensavo che almeno oggi ci avrebbe fatto una bistecca con le uova, disse. Data l’occasione. E invece no, sempre e soltanto questa poltiglia tiepida. Che ha più o meno lo stesso sapore dell’ultima pagina di un giornale bagnato. Il giornale di ieri, per giunta.
Quando non ci sarò più, mangerete quello che vi pare. So che lo fareste comunque.
Sissignora, probabilmente hai ragione. Poi la guardò. Ma non ho nessuna fretta che tu te ne vada. Sto solo cercando di prenderti un po’ in giro.
Lo so. Gli sorrise. I denti bianchi spiccavano sul suo volto scuro, i capelli neri, spessi e lucidi, erano tagliati a caschetto sotto le spalle. Sono quasi pronta, disse. Prima voglio dar da mangiare a Katie e vestirla, poi possiamo muoverci.
Dalla a me, disse Raymond. Ha finito con la pappa?
Non ancora, disse la ragazza. Ma magari con te mangia. Con me non fa altro che voltarsi dall’altra parte.
Raymond si alzò e girò intorno al tavolo per prendere la bambina, tornò a sedersi, se la mise in grembo, zuccherò il porridge nella scodella, versò il latte dalla caraffa sul tavolo e si mise a mangiare, mentre la bimba con i capelli neri e le guance paffute lo fissava, affascinata da quello che stava facendo. Reggendola tra le braccia con facilità e disinvoltura, lui prese una cucchiaiata scarsa, ci soffiò sopra e gliela avvicinò alla bocca. Lei ne mangiò un po’. Lui di più. Poi soffiò su un’altra cucchiaiata e gliela diede. Harold versò un bicchiere di latte e lei si allungò sul tavolo per prenderlo, bevve a lungo usando entrambe le mani, finché non si dovette fermare per prendere fiato.
Come farò a Fort Collins quando non vorrà mangiare? disse Victoria.
Puoi sempre chiamarci, rispose Harold. In un paio di minuti verremo a dare un’occhiata alla piccola. Vero, Katie?
Dall’altro capo del tavolo la bambina lo fissò senza batter ciglio. Aveva gli occhi neri come quelli della madre, simili a bottoni o a chicchi di uva passa. Non disse nulla, ma afferrò la mano callosa di Raymond e la spostò verso la scodella con i cereali. Quando lui le porse il cucchiaio, lei glielo spinse verso la bocca. Oh, disse lui. Va bene. Ci soffiò sopra con cura, gonfiando le guance e muovendo avanti e indietro il volto paonazzo, e a quel punto lei riprese a mangiare.
Una volta finito, Victoria andò con la figlia nel bagno accanto alla sala da pranzo per lavarle la faccia e poi la portò nella stanza da letto per cambiarla. I fratelli McPheron salirono nelle loro camere e indossarono i vestiti da città, pantaloni scuri e camicia chiara con bottoni automatici in madreperla e gli eleganti cappelli Bailey bianchi fatti a mano. Tornati di sotto, portarono alla macchina le valigie di Victoria e le sistemarono nel bagagliaio. Il sedile posteriore era già ingombro di scatole piene di vestiti, coperte, lenzuola e giocattoli, oltre al seggiolino imbottito della bambina. Dietro la macchina c’era il furgone e sul pianale, insieme a ruota di scorta, cric, una mezza dozzina di latte d’olio vuote, alcune balle di fieno e del filo spinato arrugginito, c’erano il seggiolone e il divano-letto della bambina, con il materasso avvolto in una tela cerata nuova e tenuto fermo con uno spago arancione.
Rientrarono in casa e uscirono con Victoria e la bambina. In veranda, Victoria si fermò un istante, all’improvviso i suoi occhi scuri si riempirono di lacrime.
Che ti succede? chiese Harold. C’è qualcosa che non va?
Lei scosse il capo.
Lo sai che puoi sempre tornare. Ce lo aspettiamo. Ci contiamo. Tienilo a mente, magari ti aiuta.
Non è questo, disse lei.
Forse sei un po’ spaventata? domandò Raymond.
È solo che mi mancherete, rispose lei. Non me n’ero mai andata prima, non in questo modo. Dell’altra volta con Dwayne nemmeno mi ricordo, ed è meglio così. Si passò la bambina da un braccio all’altro e si asciugò gli occhi. Mi mancherete, tutto qui.
Puoi chiamarci se ti serve qualcosa, disse Harold. Noi ci saremo sempre all’altro capo del filo.
Ma mi mancherete comunque.
Sì, disse Raymond. Guardò fuori dalla veranda, verso il cortile e più in là verso i pascoli bruni. Le alture sabbiose, basse e azzurrine in lontananza sul basso orizzonte, il cielo così vuoto e luminoso, l’aria così asciutta. Anche tu ci mancherai, disse. Quando non ci sarai più, vagheremo come vecchi cavalli da lavoro sfiniti. Ce ne staremo qui soli a guardare oltre la recinzione. Si girò per studiarla. Un volto caro e familiare, tutti e tre, loro e la bambina, che vivevano nella stessa aperta campagna, nella stessa vecchia casa malandata. Ora però mi sa che è meglio se sali, disse. Dovremo pur partire, no?
Raymond guidò l’auto di Victoria, che sedeva accanto a lui e poteva sporgersi verso il seggiolino di Katie. Harold li seguì con il furgone sul vialetto di casa e poi verso ovest, sulla strada sterrata, e da lì verso nord, sulla Statale a due corsie che portava a Holt. La campagna ai due lati della strada era piatta e brulla, il terreno sabbioso, nei campi pianeggianti le stoppie di grano ancora lucide e brillanti dalla mietitura di luglio. Oltre il canaletto di scolo il granturco, verde scuro e robusto, aveva superato i due metri. In lontananza i silos si stagliavano alti e bianchi sulla città accanto ai binari della ferrovia. Era una giornata luminosa e tiepida, da sud soffiava un vento caldo.
A Holt imboccarono la Highway 34 e si fermarono alla stazione di servizio Gas and Go all’incrocio tra Main Street e la Statale. I McPheron uscirono e si fermarono alle pompe per fare benzina ai due veicoli mentre Victoria entrava a prendere un caffè per loro, una Coca-Cola per sé e una bottiglietta di succo di frutta per la bambina. Alla cassa, in fila davanti a lei, c’erano un uomo massiccio con i capelli neri e sua moglie, con una ragazzina e un bambino. Li aveva visti in giro per Holt a tutte le ore e ne aveva sentito parlare. Pensò che se non fosse stato per i fratelli McPheron, lei sarebbe potuta diventare come loro. Osservò la ragazzina avvicinarsi alla porta, prendere una rivista dalla rastrelliera accanto alla vetrina e sfogliarla dando la schiena alle persone al bancone, come se non avessero nulla a che fare con lei. Ma dopo che l’uomo ebbe pagato un pacchetto di cracker al formaggio e quattro bibite in lattina con i buoni spesa del governo, rimise a posto la rivista e seguì il resto della famiglia fuori dal locale.
Quando Victoria uscì, l’uomo e la donna erano fermi sull’asfalto del parcheggio e stavano decidendo qualcosa fra loro. Non vedeva la ragazzina né il fratello, ma poi si girò e li scorse insieme, al semaforo all’angolo, stavano fissando Main Street in direzione del centro della cittadina, e Victoria proseguì fino al punto in cui Raymond e Harold la stavano aspettando, vicino alla macchina.
Era appena passato mezzogiorno quando lasciarono la Statale per infilarsi nella periferia di Fort Collins. Verso ovest le prime colline si stagliavano in una linea blu irregolare oscurata dallo smog giallo che il vento sospingeva da sud, da Denver. Su una collina c’era una A disegnata con pietre verniciate di bianco, rimasta là dai tempi in cui le squadre sportive dellʼuniversità locale, ai tempi soltanto una facoltà di Agraria, si chiamavano Aggies. Risalirono Prospect Road e svoltarono in College Avenue, il campus era tutto sulla sinistra, con i suoi edifici in mattoni, la vecchia palestra, i prati di un verde uniforme, e percorsero la strada fiancheggiata da pioppi e alti abeti del Colorado, poi girarono in Mulberry Street e svoltarono di nuovo finché trovarono, arretrato rispetto alla strada, il condominio in cui la ragazza stava andando ad abitare con la figlia.
Parcheggiarono l’auto e il furgone nello spiazzo dietro l’edificio e Victoria entrò con la bambina per cercare il custode. Il custode risultò essere una studentessa dell’università, proprio come lei, solo qualche anno più grande, una laureanda in felpa e jeans con i capelli biondi cotonatissimi. Le andò incontro nell’atrio per presentarsi e si mise subito a spiegare che si stava specializzando per diventare maestra elementare e intanto faceva un semestre di tirocinio in una scuola a est di Fort Collins. Non smise mai di parlare mentre accompagnava Victoria nell’appartamento al secondo piano. Aprì la porta, le consegnò la chiave insieme a quella del portone esterno, poi si interruppe di colpo e guardò Katie. La posso prendere in braccio?
Non credo, disse Victoria. Non si lascia tenere da tutti.
I McPheron portarono su le valigie e le scatole dalla macchina e le posarono nella piccola stanza da letto. Si guardarono intorno e andarono a prendere il divano-letto e il seggiolone.
La custode, ferma sulla soglia, diede un’occhiata a Victoria. Sono i tuoi nonni o qualcosa del genere?
No.
Chi sono? I tuoi zii?
No.
E il padre della bambina? Verrà anche lui?
Victoria la guardò. Fai sempre tutte queste domande?
Sto solo cercando di fare amicizia. Non vorrei sembrarti una ficcanaso o essere scortese.
Non siamo parenti, disse Victoria. Mi hanno salvato due anni fa, quando avevo un disperato bisogno d’aiuto. Ecco perché sono qui.
Sono pastori, è questo che intendi.
No. Non sono pastori. Però mi hanno salvato. Non so cos’avrei fatto senza di loro. E che nessuno si azzardi a dire una parola contro di loro.
Anch’io sono stata salvata, disse la ragazza. Ringrazio Gesù Cristo ogni giorno della mia vita.
Non mi riferivo a questo, ribatté Victoria. Non stavo proprio parlando di questo.
I fratelli McPheron rimasero con Victoria Roubideaux e sua figlia per tutto il pomeriggio e la aiutarono a sistemare le cose nelle stanze. La sera le portarono fuori a cena, poi tornarono all’appartamento. Fermi nel parcheggio dietro il condominio, uscirono dalla macchina per salutare. La ragazza pianse un po’. Si alzò in punta di piedi, baciò i due uomini sulle guance segnate, li abbracciò, li ringraziò per tutto quello che avevano fatto per lei e sua figlia, e i due fratelli a loro volta la abbracciarono e le diedero delle goffe pacche sulla schiena. Baciarono la bambina. Poi fecero un passo indietro, a disagio, non sopportavano più di guardare lei o sua figlia e non sapevano che altro fare a parte andarsene.
Chiamaci, mi raccomando, disse Raymond.
Vi chiamerò tutte le settimane.
Molto bene, disse Harold. Vogliamo avere tue notizie.
Poi tornarono a casa con il furgone. Si allontanarono dalle montagne e dalla città diretti a ovest, verso gli altipiani che si stendevano nell’oscurità sotto una luminosa miriade di stelle indifferenti. Era tardi quando imboccarono il vialetto e si fermarono di fronte alla fattoria. In quelle due ore non si erano quasi parlati. Il lampione del cortile si era acceso prima che loro rientrassero, gettando ombre viola scuro oltre il garage e gli altri fabbricati e al di là dei tre olmi stentati che crescevano all’interno della recinzione della casa in legno grigio.
In cucina Raymond mise a scaldare del latte in un pentolino e prese una scatola di cracker dalla credenza. Sedettero a tavola, sotto il lampadario, e bevvero il latte caldo senza dire una parola. In casa c’era silenzio. Non si sentiva neppure il rumore del vento.
Sarà meglio se vado di sopra a dormire, disse Harold. È inutile restare qui. Uscì dalla cucina, andò in bagno e poi tornò. A quanto pare hai deciso di startene seduto lì tutta la notte.
Salgo subito, disse Raymond.
Bene, rispose Harold. D’accordo. Si guardò intorno. Le pareti della cucina, la vecchia stufa smaltata, la sala da pranzo al di là della porta, dove il lampione del cortile proiettava la sua luce sul tavolo in noce attraverso le finestre senza tende. La sento già vuota, tu no?
Maledettamente vuota, disse Raymond.
Chissà cosa starà facendo in questo momento. Chissà se sta bene.
Spero che stia dormendo. Spero che stiano dormendo sia lei che la bambina. È la cosa migliore.
Sì, è vero. Harold si chinò per fissare fuori dalla finestra della cucina il buio a nord della casa, poi si rialzò. Va bene, vado di sopra, disse. Non vedo cos’altro potrei fare.
Salgo anch’io tra poco. Voglio starmene seduto ancora un po’.
Non addormentarti qui. O domani te ne pentirai.
Lo so. Non mi addormento. Vai pure. Arrivo subito.
Harold fece per uscire dalla stanza, ma si fermò sulla porta e si girò. Secondo te faceva abbastanza caldo nel suo appartamento? Continuo a pensarci. Non riesco a ricordarmi la temperatura nella casa che ha affittato.
A me sembrava che facesse abbastanza caldo. Almeno quando eravamo lì noi. Altrimenti ce ne saremmo accorti.
Pensi che fosse troppo caldo?
Non credo. Anche in quel caso ce ne saremmo accorti. Se fosse stato troppo caldo.
Me ne vado a dormire. Qui è tutto maledettamente tranquillo, non dico altro.
Io salgo tra poco, disse Raymond.
2
L’autobus passò a prenderle nella zona est di Holt alle sette e trenta del mattino. La donna alla guida attese, guardando di lato verso la porta della grossa roulotte. Suonò il clacson. Lo suonò una seconda volta, poi la porta si aprì e una ragazza con un vestito blu attraversò il cortile incolto, pieno di erbacce, diretta a testa bassa verso l’autobus, salì i gradini di metallo e si portò al centro del veicolo, dove c’erano posti liberi. Gli altri studenti la guardarono percorrere lo stretto corridoio e sedersi, poi ripresero a parlare. A quel punto dalla roulotte uscì la madre, che teneva per mano il figlio minore. Il ragazzino indossava blue-jeans e una camicia troppo grande abbottonata fino al collo.
Dopo che fu salito a bordo, l’autista disse: Non dovrei stare ad aspettare i ragazzi. Ho un orario da rispettare, casomai non lo sapesse.
La madre distolse lo sguardo e lo posò sulla fila di finestrini finché non vide il bambino seduto accanto alla sorella.
Non ve lo dico più, disse l’autista. Ne ho abbastanza di voi. Ho diciotto bambini da passare a prendere. Chiuse la porta, tolse il freno a mano e l’autobus si avviò sobbalzando lungo Detroit Street.
La donna continuò a osservarla finché l’autobus non ebbe svoltato l’angolo con Seventh Street e poi si guardò intorno come se in strada qualcuno potesse accorrere in suo aiuto suggerendole una risposta. Ma non c’era nessuno in giro a quell’ora del mattino e rientrò nella roulotte.
Vecchia e sgangherata, una volta era stata di un turchese vivace, ma il sole caldo e le raffiche di vento ne avevano sbiadito il colore, ormai ridotto a un giallo sporco. All’interno, gli indumenti erano ammucchiati negli angoli e, appoggiato al frigorifero, c’era un sacco della spazzatura pieno di lattine di bibite vuote. Seduto al tavolo della cucina, il marito stava bevendo una Pepsi-Cola da un grande bicchiere colmo di ghiaccio. Su un piatto di fronte a lui c’erano avanzi di waffle surgelato e uova fritte. Era un uomo alto e massiccio, con i capelli neri e i pantaloni troppo grandi. Il ventre enorme spuntava da una maglietta rosso granata, le grosse braccia ciondolavano dietro lo schienale della sedia. Stava riposando dopo la colazione. Quando sua moglie entrò le chiese: Cosa ti ha fatto? Hai di nuovo quella faccia.
Be’, mi fa imbestialire. Non dovrebbe fare così.
Cos’ha detto?
Ha detto che ha diciotto ragazzini da passare a prendere. Dice che non dovrebbe stare ad aspettare Richie e Joy Rae.
Sai cosa ti dico? Io chiamo il preside. Quella non si deve permettere di dirci niente.
Quella non si deve permettere di dirmi un bel niente, disse la donna. Ne parlerò con Rose Tyler.
A metà di quella tiepida mattina uscirono dalla roulotte e si incamminarono verso il centro. Attraversarono Boston Street, percorsero il marciapiedi fino al retro del vecchio edificio squadrato in mattoni rossi del tribunale ed entrarono da una porta con una scritta in caratteri neri sul vetro: CONTEA DI HOLT - SERVIZI SOCIALI.
All’interno, sulla destra c’era la reception. Una grande vetrata sovrastava il bancone e, ricavata nel piano di legno, c’era una fessura per far passare carte e documenti. Al di là del vetro sedevano due donne, sul pavimento accanto alle loro poltroncine c’erano pile di pratiche, altre pratiche giacevano sulle loro scrivanie insieme ai telefoni. Alle pareti erano appesi grandi calendari e avvisi ufficiali pubblicati dallo Stato.
L’uomo e la donna attendevano il loro turno allo sportello, mentre l’adolescente che li precedeva scriveva qualcosa su un foglio di carta gialla preso da un blocco di quelli a buon mercato. I due si sporsero per guardare cosa stesse scrivendo e un attimo dopo la ragazzina si interruppe, lanciò loro un’occhiata infastidita e si girò perché non potessero vedere ciò che stava facendo. Quando ebbe finito, si chinò e parlò nella fessura sotto il vetro: Può dare subito questo messaggio alla signora Stulson?
Una delle donne alzò lo sguardo. Dice a me?
Io ho finito.
La donna si alzò lentamente dalla sedia e si avvicinò allo sportello mentre la ragazza faceva passare il foglio sotto il vetro. Ecco la sua penna, disse. Infilò anche quella nella fessura.
Le devo dire qualcosa?
È tutto scritto, rispose la ragazza.
Glielo darò quando arriva. Grazie.
Appena la ragazzina fu uscita, la donna aprì il foglio e lo lesse da cima a fondo.
La coppia fece un passo avanti. Noi dovremmo vedere Rose Tyler, disse l’uomo. Abbiamo appuntamento con lei.
La donna dietro lo sportello alzò lo sguardo. La signora Tyler è occupata con unʼaltra persona al momento.
Eravamo d’accordo per le dieci e mezzo.
Se volete accomodarvi, vado a dirle che siete qui.
L’uomo guardò l’orologio sulla parete al di là del vetro. Avevamo appuntamento dieci minuti fa, disse.
Capisco. Riferirò che la state aspettando.
La coppia fissò la donna come in attesa che dicesse qualcos’altro, e lei sostenne il loro sguardo.
Le dica che Luther Wallace e Betty June Wallace sono qui, disse lui.
So chi siete, rispose la donna. Accomodatevi, prego.
Si allontanarono dallo sportello e in silenzio presero posto sulle sedie di plastica addossate alla parete. Accanto a loro c’erano alcuni contenitori pieni di giocattoli e un tavolino con qualche libro e una scatola aperta piena di mozziconi di pastelli e matite rotte. Nella stanza non c’era nessuno. Dopo un po’ Luther Wallace tirò fuori da una tasca un coltello a serramanico e cominciò a raschiarsi un’escrescenza dal dorso della mano, pulendo la lama contro la suola di una scarpa, aveva il respiro pesante e iniziava a sudare nella stanza surriscaldata. Betty, seduta al suo fianco, fissava la parete più lontana. Sembrava assorta in qualcosa che l’aveva intristita, qualcosa che non avrebbe mai potuto dimenticare, era come prigioniera di quel pensiero, qualunque esso fosse. Teneva sulle ginocchia una borsetta nera lucida. Era una donna robusta, di nemmeno quarant’anni, con il volto butterato e sottili capelli castani, e con gesto pudico continuava a tirare sotto le ginocchia l’orlo del suo ampio vestito.
Da una porta alle loro spalle uscì un anziano e zoppicò attraverso la stanza con un bastone in metallo. Aprì la porta con una spinta e uscì nell’atrio. Poi Rose Tyler, l’assistente sociale, entrò nella sala d’attesa. Una donna tarchiata con i capelli scuri e un abito a colori vivaci. Betty, disse. Luther. Volete seguirmi?
È per questo che siamo rimasti qui ad aspettare, disse Luther. Soltanto per questo.
Lo so. Sono pronta a parlare con voi.
Si alzarono, la seguirono nell’atrio, entrarono in una stanza per i colloqui piccola e senza finestre e sedettero a un tavolo quadrato. Betty si sistemò la falda del vestito mentre Rose Tyler chiudeva la porta e si accomodava di fronte a loro. Posò una pratica sul tavolo, la aprì e iniziò a sfogliarla leggendo rapidamente ogni pagina e alla fine alzò lo sguardo. Bene, disse. Com’è andata questo mese? Le cose vanno come vorreste voi?
Oh, è andato tutto abbastanza bene, disse Luther. Direi che non possiamo lamentarci. Giusto, cara?
Ho ancora quel dolore allo stomaco. Betty si posò delicatamente una mano sul vestito, come se ci fosse qualcosa di fragile. Quasi non ci dormo la notte, disse.
Sei stata dal medico come ci eravamo detti? Avevamo preso appuntamento.
Ci sono stata. Ma non mi è servito a niente.
Le ha dato un flacone di pillole, disse Luther. Lei le ha prese.
Betty la guardò. Non mi fanno nulla. Continua a farmi male.
Che pillole sono? chiese Rose.
Ho dato la ricetta del dottore al farmacista e lui mi ha dato il flacone. È a casa su una mensola.
E non ricordi che pillole sono?
Si guardò intorno nella stanza spoglia. Ora non ricordo, rispose.
Be’, stanno in una boccetta marrone, disse Luther. Le dico sempre che deve prenderne una al giorno.
È importante prenderle regolarmente. Altrimenti non fanno niente.
È quello che ho fatto, disse lei.
Sì. Bene, vedremo come stai il mese prossimo, quando tornerete.
È meglio se fanno effetto alla svelta, disse Betty. Non ce la faccio quasi più.
Lo spero proprio, disse Rose. A volte ci vuole un po’, sai. Riprese in mano la pratica e le diede una rapida occhiata. Volete parlarmi di qualcos’altro oggi?
No, disse Luther. Come ho detto, mi pare che vada tutto bene.
E quella che guida l’autobus? disse Betty. Forse te la sei dimenticata.
Eh? disse Rose. Che problema c’è con l’autista dell’autobus?
Be’, mi fa imbestialire. Mi dice cose che non dovrebbe permettersi di dire.
Già, disse Luther. Si protese in avanti e posò le grosse mani sul tavolo. Ha detto a Betty che non è obbligata ad aspettare Richie e Joy Rae. Dice che ha quindici bambini da passare a prendere.
Diciotto, disse Betty.
Non ha il diritto di parlare a mia moglie in quel modo. Ho intenzione di chiamare il preside per dirglielo.
Aspetta un attimo, disse Rose. Raccontami con calma cos’è successo. Richie e Joy Rae erano sul marciapiedi all’ora giusta? Ne abbiamo già parlato altre volte.
Erano là fuori. Vestiti e pronti.
È così che devi fare, lo sai. L’autista fa del suo meglio.
Sono usciti appena ha suonato il clacson.
Come si chiama l’autista? Lo sai?
Luther guardò la moglie. Sappiamo come si chiama, tesoro?
Betty scosse la testa.
Non ce l’hanno mai detto. Quella con i capelli gialli, non sappiamo altro.
Va bene, sì. Volete che chiami per capire cosa sta succedendo?
Chiami anche il preside. Gli dica quello che ci sta facendo.
Gli telefonerò. Ma anche voi dovete fare la vostra parte.
Stiamo già facendo la nostra parte.
Lo so, ma dovete cercare di andare d’accordo con lei, giusto? Se i vostri figli non potessero più prendere l’autobus, cosa fareste?
Guardarono prima Rose, poi il poster fissato con il nastro adesivo dall’altra parte della stanza. La scritta rossa LEAP, un sussidio per chi non poteva permettersi il riscaldamento.
Staremo a vedere, disse Rose. Ho qui i vostri buoni spesa. Li prese dalla cartelletta sul tavolo, erano in blocchetti da uno, cinque, dieci e venti dollari, ognuno di un colore diverso. Li fece scivolare dall’altra parte del tavolo e Luther li diede a Betty perché li mettesse in borsa.
E gli assegni di invalidità vi sono arrivati puntuali questo mese? chiese Rose.
Oh, sì. Sono arrivati con la posta di ieri.
E voi li state incassando come ci siamo detti, mettendo i soldi in buste separate per le diverse spese.
Ce le ha Betty. Fagliele vedere, cara.
Betty prese quattro buste dalla borsa. AFFITTO, SPESA, BOLLETTE, IMPTEVISTI. Su ogni busta le scritte nell’accurato stampatello di Rose.
Va bene. C’è altro per oggi?
Luther diede un’occhiata a Betty, poi si rivolse a Rose. Be’, mia moglie continua a parlare di Donna. È come se avesse sempre in testa Donna.
Ci stavo giusto pensando, disse Betty. Non capisco perché non la posso chiamare per telefono. È pur sempre mia figlia, no?
Certo, disse Rose. Ma l’ordinanza del tribunale impone che tu non abbia contatti con lei. Lo sai.
Voglio solo parlarle. Non avrei nessun tipo di contatto. Voglio solo sapere come le vanno le cose.
Chiamarla però sarebbe considerato un contatto, disse Rose.
Con le lacrime agli occhi, Betty si lasciò andare sulla sedia, le mani aperte sul tavolo, i capelli che le ricadevano sul viso, qualche ciocca appiccicata alle guance umide. Rose le porse un pacchetto di fazzoletti di carta attraverso il tavolo e Betty ne prese uno e iniziò ad asciugarsi la faccia. Voglio solo parlare con lei.
Ti fa star male, vero?
Se toccasse a te non staresti male?
Sì. Di sicuro.
Devi soltanto provarci e mettercela tutta, cara, disse Luther. Non puoi fare altro. Le diede un colpetto su una spalla.
Non è tua figlia.
Lo so, disse lui. Ti sto solo dicendo di fare del tuo meglio. Cos’altro vuoi fare? Guardò Rose.
Che mi dite di Joy Rae e Richie? chiese Rose. Come stanno?
Be’, Richie ha fatto a botte a scuola, disse Luther. L’altro giorno è tornato a casa con il naso tutto insanguinato.
È perché tutti gli altri bambini attaccano briga con lui, disse Betty.
Uno di questi giorni gli insegnerò a reagire.
Secondo voi da cosa dipende? chiese Rose.
Non so, rispose Betty. Se la prendono sempre con lui.
Li provoca?
Richie non li provoca mai.
È perché gli ho sempre insegnato: porgi l’altra guancia, disse Luther. Quando ti colpiscono su una guancia, porgi l’altra. Lo dice la Bibbia.
Ha solo due guance, disse Betty. Quante guance vuoi che porga?
Sì, disse Rose, ci sono dei limiti, vero?
E noi ci siamo arrivati al limite, disse Betty. Non so cosa possiamo fare.
No, disse Luther, per il resto non possiamo lamentarci troppo. Si raddrizzò sulla sedia, sembrava pronto ad andarsene, ad affrontare qualsiasi cosa gli potesse capitare. Mi sembra che ce la siamo cavata piuttosto bene. Accontentati di ciò che hai e non te la prendere, dico. Qualcuno una volta l’ha detto a me.