venerdì 24 gennaio 2025

QUEGLI OSTAGGI DIMENTICATI Alfonso Lanzieri

 

QUEGLI OSTAGGI DIMENTICATI

Alfonso Lanzieri


[...] Nel tragico conflitto di Gaza, il ruolo di Hamas non è stato solo quello dell’innesco. Colpire il nemico e nascondersi tra la popolazione, sotto scuole e ospedali, portando con sé gli ostaggi, in modo da pervertire la morale da avvocata dei seviziati in salvacondotto per i seviziatori, ha strutturato il conflitto dal 7 ottobre in poi.[...]


Quegli ostaggi dimenticati: quando l'occultamento dei carnefici cancella le vittime | InOltre

Non ho le competenze per giudicare la solidità e le conseguenze future della tregua raggiunta tra Israele e Hamas, dopo 15 mesi di tremendo conflitto. Sono discorsi che spettano agli analisti. Posso però forse dire che la scarsa empatia verso gli ostaggi detenuti da Hamas è tra le cose che più mi hanno turbato. Tenuti sullo sfondo o infilati fugacemente nelle premesse, nei discorsi su Gaza sovente gli ostaggi hanno avuto un ruolo da comprimari, quando tutti sappiamo che un loro rilascio, avrebbe potuto comportare l’immediata cessazione del conflitto.

Quando si svelano in pubblico questi pensieri – mi è capitato all’inizio della guerra, poi sempre di meno, perché pandemia, Ucraina e Gaza hanno decostruito il mio feticcio del “dibattito”: le catastrofi non vengono solo per nuocere – dicevo che quando si svelano in pubblico questi pensieri, s’incontra una solita obiezione. Quest’ultima, con una mossa disonesta, getta sul tavolo le decine migliaia di morti di Gaza (le varie diatribe sulla correttezza delle cifre le terrei ora fuori, se permettete), esponendo l’interlocutore al ricatto morale: e di queste vittime qui non dici nulla? È un “eallorismo” da agit-prop dell’indignazione molto praticato sui social e, purtroppo, non solo dallo sciame anonimo del web, ma pure da qualche volto noto della comunicazione di massa.

Chi attua tale mossa si presta de facto (delle coscienze non intendo farmi giudice) alla strategia dei terroristi, che ben prima dell’inferno degli ultimi due anni, avevano premeditato l’utilizzo della strage di palestinesi usati come scudo, quale fideiussione politico-morale a proprio favore. E bisogna ammettere che ha funzionato. La spregevole indifferenza nichilista, mascherata da un afflato mistico che non cela la putrescenza della religione sfigurata a ideologia dell’odio, non è stata sufficientemente denunciata né adeguatamente inclusa tra i fattori imprescindibili per interpretare la guerra di Gaza.

Il punto non è scegliere le vite di quale popolo piangere di più, postura turpe e contraria al sentimento di umanità, che sicuramente qualcuno dei miei quattro o cinque lettori mi attribuirà comunque, visto il clima. Pazienza. Il sangue sparso di un bimbo palestinese grida al cielo come quello di un bimbo israeliano: entrambi erano venuti al mondo per ben altro destino che non essere massacrati dalla grande carnevalata del male che affligge la storia. La questione posta qui è l’occultamento dei carnefici che in automatico cancella le vittime.

Nel tragico conflitto di Gaza, il ruolo di Hamas non è stato solo quello dell’innesco. Colpire il nemico e nascondersi tra la popolazione, sotto scuole e ospedali, portando con sé gli ostaggi, in modo da pervertire la morale da avvocata dei seviziati in salvacondotto per i seviziatori, ha strutturato il conflitto dal 7 ottobre in poi. Perciò, quando si parla delle vittime palestinesi temperando o tacendo il ruolo di Hamas nell’averle rese tali, si fa loro un torto enorme, oltre a comprendere meno ciò che è accaduto fin qui. Quella parte mediatica che rimuove tutto ciò, e declama i numeri delle vittime solo per vincere la partita dialettica ideologicamente anti-Israele, strumentalizza in morte quelle persone che Hamas ha strumentalizzato in vita usandoli come scudi umani.

Nessuna sorpresa, allora, che gli appelli di liberazione dei circa 250 ostaggi israeliani, molti dei quali torturati e uccisi, non ci abbiano proprio sommersi, per dirla in maniera eufemistica, né che le manifestazioni pubbliche di biasimo alla condotta militare del governo Netanyahu, celebrate a decine nelle nostre piazze, abbiano riservato spazi angusti o inesistenti a nomi, volti e storie degli ostaggi. Se almeno per ogni “Stop al genocidio” (una giaculatoria della mostrificazione che meriterebbe un discorso a parte) ci fosse stato un “Rilasciate gli ostaggi”: purtroppo non è stato così.

Senza contare, poi, le scene in cui anche il solo nominare gli ostaggi o l’ostensione di manifesti che li ricordassero, ha generato reazioni stizzite. Per tacere dei cortei in cui si è inneggiato all’intifada, si è detto “Palestina libera dal fiume al mare” (cioè senza ebrei). Mentre si urlavano queste parole, il piccolo Kefir Bibas, sua mamma e il fratellino Ariel, erano da qualche parte nei tunnel di Hamas, tanto per dire. Rimossi i carnefici, in effetti, sono rimosse anche le vittime: quegli ostaggi, per molti, non erano vittime israeliane ma solo israeliani. A questo punto contava il gruppo umano di appartenenza, non la condizione in cui erano e purtroppo ancora sono.

Né pare faccia granché differenza il fatto che Hamas abbia accettato il cessate il fuoco, a patto però di rilasciare col contagocce inermi superstiti per vedersi restituire una parte del proprio notabilato terroristico. Come non ricordare, in questo orizzonte, le cavillose ricostruzioni degli stupri e delle esecuzioni di bimbi piccoli dell’attacco terroristico del 7/10, tutte tese a sminuire l’orrore, condotte con tanta pedanteria esegetica e tale dogmatico scetticismo, da tradire palesemente i preconcetti di chi indagava. Tolto il carnefice, tolta la vittima.

A distanza di 15 mesi dall’inizio del conflitto e all’alba, tra mille dubbi e preoccupazioni, di un periodo di tregua, è forse necessario ribadire a una parte del mondo che è sbagliato percepire gli ostaggi israeliani, quelli vivi e quelli morti, come la mossa disperata di oppressi costretti alla malvagità dalla storia: sono un’infame garanzia di carne umana rapinata da un gruppo di terroristi. Mentre scrivo queste righe, le emittenti televisive mostrano il rilascio di tre ostaggi israeliani. Tre giovani donne, Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher, sfilano tra miliziani armati e a volto coperto, in una piazza che ribolle, a stento tenuta dagli uomini coi mitra. Il cronista ripete che “stanno bene”.

Mi metto a pensare che forse l’incubo in cui siamo precipitati da troppo tempo si concluderà così, come in fondo si chiudono tutte le tragedie vere: non una parola solenne, un gesto potente, un’immagine storica, ma una banalità, tipo “gli ostaggi stanno bene”, poi due banalità, poi tre banalità. Le banalità si accumuleranno, formeranno un muro alto tra noi e l’orrore, e la ruota della storia tornerà a girare.