MILEI A DAVOS: TRA ILLUMINISMO E OSCURANTISMO
Alessandra Libutti
Il discorso di Milei a Davos e il grande reset dell'Occidente tra illuminismo e oscurantismo |InOltre
Il discorso di Javier Milei a Davos è destinato a lasciare un segno nella storia, rappresentando, nel bene e nel male, il simbolo di un grande reset culturale e sociale che sta prendendo forma in Occidente. Un intervento potente e provocatorio, apprezzabile nella sua critica incisiva all’ideologia woke, meno nelle generalizzazioni e l’inclusione sotto la cappella “woke” di temi che con il cosiddetto “woke” hanno ben poco a che fare.
Milei ha accomunato questioni come l’aborto e l’omosessualità a quell’ideologia, senza considerare che entrambe esistono da millenni in società estranee al pensiero progressista moderno. E anche in Occidente questioni come quelle della legalizzazione dell’aborto è ricollegabile alla secolarizzazione della società, che nulla ha a che vedere con la Teoria critica della razza, l’ideologia gender o il femminismo radicale. Insomma, lì Milei è cascato nella banalità di in un potpourri un po’ posticcio che ha fatto calare di tono il suo discorso. Ma d’altra parte è inevitabile perché aborto e liberismo radicale, in realtà dovrebbero andare a braccetto, ma per motivi che spiegheremo più avanti, per gli ultra-liberisti sposare la causa dei Pro-vita è diventata ormai una tappa obbligata.
Inoltre, il modo in cui Milei si è espresso su questi temi è apparso privo di sfumature o di chiarimenti necessari a evitare ambiguità. Di conseguenza, il discorso, per quanto ispirato in molti passaggi, ha lasciato una sensazione di condanna generalizzata, un giudizio che – all’interno di rivendicazioni legittime sulla deriva woke – rischia di essere percepito come una negazione di libertà fondamentali.
Milei si è fatto portavoce di una visione di libertà assoluta, ma nel farlo è caduto in contraddizioni evidenti. Proclamare la libertà economica e individuale, per poi negarla in ambiti personali come il diritto della donna a decidere sul proprio corpo o la libertà di amare chi si desidera, appare come un paradosso difficile da conciliare. Questa ambiguità lo porta a oscillare tra l’immagine di un leader innovativo e quella di un moderno Torquemada, pronto a censurare le libertà che non rientrano nella sua visione di ordine sociale.
E in fondo, il paradosso di Milei è proprio questo. Riprendendo Karl Popper e il suo famoso paradosso della tolleranza – secondo cui la tolleranza illimitata porta inevitabilmente al trionfo dell’intolleranza – l’ultra-liberismo di Milei cade nella stessa trappola. Nel proclamare un’estrema libertà individuale e nel negare il ruolo dello Stato come garante del bene comune, finisce per minare le basi stesse della libertà che intende difendere. Una società fondata sulla libertà assoluta non è realmente libera, ma piuttosto anarchica, dominata dalla legge del più forte, in cui la libertà diventa un privilegio di pochi e una costrizione per molti.
La libertà, per essere tale, necessita di limiti, di equilibri e di garanzie che ne assicurino l’effettivo esercizio per tutti, non solo per i più forti o i più privilegiati. La negazione dello Stato, quindi, non porta a una società più libera, ma a una nella quale il disordine diventa legge e la libertà, anziché ampliarsi, si restringe fino a dissolversi in nuove forme di oppressione.
Esiste poi un problema strutturale nella visione ultra-liberista, un nodo irrisolto che il thatcherismo aveva già affrontato e contro il quale si è inevitabilmente scontrato: l’assenza di un collante sociale. La celebre frase di Margaret Thatcher, “There is no such thing as society”, con cui negava l’esistenza di una società collettiva a favore di un individualismo radicale, si è rivelata una concezione incapace di sostenere la coesione sociale a lungo termine.
L’idea che l’individuo sia l’unico motore della realtà, da cui tutto parte e a cui tutto ritorna, si è scontrata con le conseguenze concrete di una disgregazione sociale sempre più evidente, un’emarginazione diffusa e, nella sua forma più estrema, in nichilismo. In una società costruita esclusivamente su logiche economiche, dove il cittadino è ridotto a lavoratore e consumatore, il senso di appartenenza e di scopo svanisce, lasciando spazio a un vuoto esistenziale difficile da colmare.
Nemmeno la cosiddetta terza via di Tony Blair, con la sua versione più sociale del liberalismo economico, è riuscita a rispondere a questa esigenza. Pur cercando di coniugare efficienza economica e politiche sociali, non ha saputo offrire un senso di comunità autentico, capace di dare alle persone un’identità collettiva oltre il benessere materiale. Ed è qui che si manifesta l’importanza di un collante: che sia religioso, ideologico o identitario, ogni società ha bisogno di qualcosa che vada oltre la dimensione economica, un elemento che fornisca direzione, appartenenza e significato.
Senza questo legame profondo, il rischio è quello di una società frammentata, in cui il perseguimento del benessere individuale lascia il posto alla solitudine collettiva, all’indifferenza, l’assenza di empatia e alla mancanza di solidarietà. Un mondo in cui il valore dell’individuo è definito unicamente dal suo ruolo produttivo o dalla sua capacità di consumo è destinato a implodere sotto il peso di un malessere diffuso e di una crisi esistenziale che nessuna crescita economica può davvero compensare.
Consapevole della necessità di un collante sociale che l’individualismo esasperato non può fornire, l’ultra-liberismo ha trovato un alleato strategico nel sovranismo di matrice cristiano-conservatrice. Questa alleanza non è casuale, ma nasce da un preciso intento: creare una coesione culturale e religiosa che possa compensare il vuoto lasciato da un modello economico fondato esclusivamente sulla competizione e sul mercato. Il sovranismo, con le sue radici identitarie e la sua retorica di recupero delle tradizioni, offre quell’elemento di appartenenza e continuità storica che il liberalismo economico puro non è in grado di garantire.
Tuttavia, questa sintesi tra ultra-liberismo e sovranismo religioso non è priva di profonde contraddizioni, e presenta diversi problemi strutturali. In primo luogo, una società ormai largamente laicizzata difficilmente accetterà, nel lungo periodo, una regressione al dogmatismo religioso. Le generazioni cresciute in contesti pluralisti e secolarizzati, dove la libertà di scelta e di espressione sono considerate diritti inalienabili, potrebbero resistere a un’imposizione di valori religiosi come fondamento sociale. La religione, per quanto possa offrire un senso di appartenenza, non può essere imposta come collante universale in un contesto dove la diversità di pensiero è ormai consolidata.