venerdì 31 gennaio 2025

PERCHÉ HAMAS PUÒ SPACCIARE ORRORE SENZA MAI TEMERE IL BIASIMO Di Filippo Piperno

 


PERCHÉ HAMAS PUÒ SPACCIARE ORRORE SENZA MAI TEMERE IL BIASIMO 

Di Filippo Piperno

Hamas lo sapeva già prima del 7 ottobre. Perché in fondo lo sapevamo e lo sappiamo tutti. Certo, la conferma dei fatti è andata al di là di ogni più rosea previsione. Ma Hamas sapeva che non è complicato attizzare l’odio per Israele nel mondo occidentale. Sapeva che l’odio per Israele è solo un corollario di quell’antisemitismo che continua a prosperare.

Un odio così viscerale che chiude gli occhi e tappa le bocche se neanche di fronte al massacro a sangue freddo dei suoi abitanti, Israele ha ricevuto una stilla di solidarietà e cordoglio. Perché per una vasta fetta di opinione pubblica occidentale Israele non dovrebbe neanche esistere. Israele è un’oscenità, è uno scandalo. Per costoro chi prova a cancellarlo dalle mappe ha una legittimazione morale prima ancora che giuridica.

La oramai celebre frase del segretario generale delle nazioni Unite António Manuel de Oliveira Guterres per il quale “il 7 ottobre non viene dal nulla” è pronunciata a pochi giorni dal massacro, ben prima che la guerra di Gaza entrasse nella sua fase più virulenta. Il che dimostra che esisteva già una “contestualizzazione” nei confronti dell’operato di tagliagole che avevano massacrato uomini, donne e bambini, strappandone altri dalle loro case e dai loro affetti per farne merce di scambio.

È una situazione di esplicita collusione morale con il terrorismo che non ha eguali. Il terrorismo si definisce tale non per la causa per cui combatte ma per come la combatte. Uccidere delle persone innocenti ed inermi è terrorismo anche qualora si simpatizzasse con una determinata causa. È un crimine abietto che non può essere contestualizzato come invece si è fatto per l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre (era già avvenuto con le Torri Gemelle, “gli americani se la sono cercata” dissero in molti).

Alla causa dei palestinesi, viceversa, tutto è concesso a tal punto che ciò che accade il 7 ottobre è stato totalmente rimosso. Il conflitto che oppone gli arabi agli israeliani da 80 anni si accende sui media e nella coscienza collettiva solo quando è Israele ad offendere. Il fatto che Israele offenda per difendersi o per rappresaglia o per rimuovere le minacce che lo affliggono dal primo giorno in cui è nato non è mai contemplato. Tutto il dolore del 7 ottobre, tutta la rabbia che ne è scaturita sono stati letteralmente cancellati e annichiliti dall’ennesima balla antisemita sul “genocidio dei palestinesi”.

C’è sempre una sproporzione nell’operato d’Israele che deriva dal peccato originale di cui abbiamo già detto: Israele non ha diritto di esistere perché ha rubato la terra ai suoi legittimi proprietari. Una tesi che non è interessante per quello che afferma nel merito ma per il fatto che venga puntualmente evocata solo per Israele.

È la pervicacia con cui qualcuno si esercita da quasi un secolo per cercare di delegittimare il diritto d’Israele ad esistere la vera spia di un accanimento che non ha eguali. Eppure, di casi di rivendicazioni e dispute territoriali, ce ne sarebbero a decine nel mondo. Ma nessuno ne parla e nessuno si scandalizza.

E neanche il fatto che la causa palestinese è da vent’anni gestita da un gruppo terroristico come Hamas (nonostante qualcuno provi ad interporre qualche acrobatico distinguo tra Hamas e il popolo palestinese, almeno quello che vive a Gaza) ha scalfito l’imperativo categorico del rifiuto preconcetto nei confronti delle ragioni d’Israele. Viene da pensare che se anche Belzebù attaccasse Israele diventerebbe un amico perché nemico del mio nemico.

Si rifletta sul fatto che l’unica opzione concreta che i paesi arabi e mussulmani hanno offerto ai loro “sodali” palestinesi è consistita nel fornire soldi e armi per distruggere Israele. Nessuno si è mai sognato di fare altro. I ricchi finanziatori dei palestinesi non hanno mai obiettato sul fatto che i loro soldi venissero destinati all’acquisto di armi e non magari a migliorare le condizioni di vita delle persone.

Sviluppo economico e welfare non sembrano essere abbastanza seducenti per questi incendiari integralisti religiosi. Dall’uscita di scena di Arafat, quella è rimasta l’unica vera opzione sul tavolo e quell’opzione si è sedimentata anche nella coscienza degli occidentali che hanno sposato, sic et simpliciter, la causa palestinese. Cosicché per qualcuno il 7 ottobre è stato un atto di “Resistenza”.

Con queste premesse non può destare meraviglia che l’ufficio stampa di Hamas non abbia avuto nessuna remora nello spacciare a tamburo battente fake news, alcune delle quali, talmente ridicole che non ci sarebbe neanche bisogno di smascherarle. A cominciare dalla balla del “genocidio”, furbissimo artifizio semantico che consente di liberare l’antisemita dal fastidioso fardello della Shoah: gli ebrei che subirono un genocidio oggi si sono trasformati a loro volta in genocidi. Uno a uno e palla al centro.

L’orribile sceneggiata che accompagna il rilascio degli ostaggi israeliani, messi alla gogna e alla mercé di una folla plaudente – che ci riporta ai trionfi di Roma con i nemici umiliati ed in catene (ma sono passati duemila anni) – è l’ennesima riprova che Hamas non teme alcun biasimo da parte dell’opinione pubblica mondiale.

Hamas oramai sa bene che può raccontare e fare tutto quello che vuole perché volenterose redazioni di ogni parte del mondo saranno sempre pronte a divulgare il verbo palestinese senza alcun ritegno per la verità dei fatti. Un ospedale di Gaza viene colpito da un missile che poi si scopre essere palestinese? È un missile israeliano, dice subito Hamas: “missile israeliano fa 500 morti in un ospedale palestinese” titolano subito diligentemente i media di tutto il mondo, americani compresi.

Se c’è di mezzo Israele e gli israeliani, prudenza, equidistanza e senso dell’orrore soccombono sempre e Hamas lo sa e lo ha sempre saputo. E lo sappiamo anche noi.




mercoledì 29 gennaio 2025

VERITÀ E POLITICA Anna Arendt



 VERITÀ E POLITICA

Anna Arendt 

"È forse proprio dell’essenza stessa della verità essere impotente e dell’essenza stessa del potere essere ingannevole? […] la verità impotente non è forse disprezzabile quanto il potere che non presta ascolto alla verità?" H. Arendt, Verità e politica, p. 30


Turlupinare è parola desueta ma efficacie se parliamo del potere che falsifica i fatti per turlupinarci. 

Fin dall’antichità la questione etica e sociale del dire il vero è emersa con chiarezza, in particolare con il concetto di parresia, che per i Greci indicava la virtù di dire tutta la verità, richiesta soprattutto a chi esercita il potere politico e quello giudiziario.

Sono i fatti, come sostiene la Arendt, che sono più vulnerabili rispetto alla verità, perché se si negano i fatti, «nessuno sforzo razionale li potrà più riportare». Sono i fatti quelli che maggiormente vengono fatti oggetto di falsificazione da parte di chi ha potere, dato che sono proprio i fatti quelli che costituiscono il tessuto stesso dell'agire. Per questo «le probabilità che la verità di fatto sopravviva all'assalto del potere sono veramente pochissime; essa rischia sempre di essere bandita dal mondo, non solo temporaneamente, ma potenzialmente per sempre» Anna Arendt "Verità e politica" A cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pag 35.

Nell’usare il termine verità la Arendt non intende né la verità ontologica, né la verità come presupposto implicito di ogni azione, dunque la verità pratica: il riferimento è chiaramente alla verità nel senso del dire la verità. Ella infatti afferma, come già aveva fatto Koyré, (A. Koyré, Sulla menzogna politica, Lindau, Torino 2010.) che il conflitto tra verità e potere non scaturisce dal negare che si dia una verità: piuttosto, presuppone che la verità ci sia, ma che la decisione se occultarla, manipolarla o riscriverla costituisca parte integrante dell’esercizio del potere. Il problema cruciale del rapporto tra potere e verità, insomma, riguarda la veridicità: chi ha potere si trova di fronte al dilemma se dire o non dire la verità, o anche se attestare o confutare i fatti, tramite la propria azione.

Possiamo osservare che ciò ha innumerevoli applicazioni: non solo il politico ha il potere di decidere se ammettere il fallimento rispetto a quanto promesso agli elettori, o celarlo riportando statistiche addomesticate per non perdere i privilegi acquisiti; ma anche il medico può ammettere di aver sbagliato diagnosi, oppure ostinarsi a riconfermare la stessa terapia, nella speranza che nessuno scoprirà l’errore; il docente ha la facoltà di decidere se insegnare onestamente la propria materia o trasmetterla in modo unilaterale, così da adattarla a una certa visione ideologica; lo studente ha il potere di imparare quanto prescritto dall’insegnante, o fingere di aver studiato, copiando all’esame. 

DON’T CRY FOR ME ARGENTINA Adria Bartolich

 



DON’T CRY FOR ME ARGENTINA

Adria Bartolich

29 Gennaio 2025 

Un alternarsi di movimenti populisti di estrema destra ed estrema sinistra , nonostante la retorica del decentramento e federalista del peronismo in primis, hanno però sempre trascurato le provincie periferiche e valorizzato Buenos Aires. 

La presenza della fortissima CGT, Confederación General del Trabajo, il sindacato più forte in Argentina, e le sue rivendicazioni sociali e salariali, è stata determinante per il mantenimento del consenso del peronismo e nel definire le politiche economiche e del lavoro argentine.

Una rete di caudillos ha assunto il compito storico di difendere gli interessi locali dalle incursioni dello stato centrale.

Anche la sua struttura sociale non è priva di particolarità.

La vita economica dell’Argentina è costellata di default a partire dal primo, del 1827 , subito dopo l’indipendenza, poi alla fine del secolo una grande crisi economica, quindi un altro paio di default negli anni ’50 del XX° secolo, al momento della ricostruzione post bellica e poi all’instabilità politica, l’aumento del debito durante la dittatura militare e poi un altro default negli anni ’90 a causa dell’iperinflazione, negli anni 2000 per non avere ripagato il debito di 100 miliardi di dollari, un altro dovuto alla crisi con i debitori , infine l’ultimo con il Covid. La storia economica dell’Argentina, in sintesi, è una vera tragedia.

L’Argentina non è un paese come tutti gli altri. E’ una nazione post coloniale, di grande immigrazione, con una presenza di italiani che costituisce circa il 50 % della popolazione. Non si può dire che il suo funzionamento, o meglio, mancato funzionamento, non ci riguardi.

Milei è argentino e dire queste cose provenendo da un paese come l’Argentina è certamente fare una mossa decisamente contro corrente.

Milei dice in sostanza la nuova destra si qualificherà per essere antistatalista, liberista, contro l’assistenzialismo e per il merito.

E’ interessante vedere chi include ma anche chi esclude, per esempio la Le Pen, almeno per il momento.

E’ un intervento di grande forza, chiaro e illuminante su quello che potrebbe essere il futuro di una moderna destra mondiale. Disegna un asse Musk, Trump , Bukele, Orban, Netanyahu, Meloni e delinea i principi fondamentali sui quali il movimento conservatore si qualifica oggi.

Il discorso di Milei a Davos sta tenendo banco dal alcuni giorni su social e media, a parere mio giustamente.

Nonostante l’Argentina vanti un ordinamento federale, i soldi vendono raccolti dallo stato e redistribuiti sul territorio creando sperequazioni ed evidentemente anche redistribuzioni di denaro fortemente orientate al mantenimento del consenso.

In altre parole , in Argentina, lo stato ha avuto una funzione determinante, perfino nell’alternarsi di governi populisti e militari, per la redistribuzione delle risorse e la riproduzione del consenso.

I numerosi default, l’irrisolta questione del debito pubblico e l’inflazione ciclicamente alle stelle hanno reso l’Argentina un paese altamente clientelare e instabile, in preda a governi discutibili e a potentati locali.

Milei critica aspramente le politiche della sinistra argentina che definisce contagiata dal socialismo.

In un quadro del genere , le politiche ultraliberiste sul piano economico, di Milei sono un gesto di sanità mentale. E’ chiaro, infatti , che una riduzione del ruolo dello stato significa smantellare il potere enorme di un apparato burocratico che impiega il 20% della popolazione, ma anche quello di determinare l’adesione o meno alle politiche di un governo attraverso la distribuzione dei soldi ai più consenzienti.

L’Argentina è in grande ed estremo, quello che l’Italia è in piccolo. Un paese statocentrico, clientelare, pieno zeppo di caudillos e potentati locali che si chiamino mafia, boss, deputati, governatori di regioni, sindaci, imprenditori, anche se, ovviamente, non sono sullo stesso piano.

Milei ha trovato un paese con un livello d’inflazione al 211%, una cifra spaventosa, che ha quasi dimezzato in un solo anno operando un gigantesco ridimensionamento della spesa pubblica.

Ha operato tagli ai ministeri, alla sanità, all’istruzione, alle pensioni, tagliato una trentina di fondi fiduciari per finanziare le opere pubbliche e ha cambiato l’agenzia delle entrate.

Dopo un primo incremento della povertà nei suoi primi mesi di governo, adesso pare abbia ridotto anche quella passata dal 41% al 38 %. Intendiamoci è sempre molto alta, ma lo era ancor di più prima di Milei nonostante le politiche assistenziali.

La spesa pubblica è stata ridotta in un solo anno del 30% nonostante l’aumento delle spese militari e per gli stipendi dei militari, la costituzione di quattro costosi uffici di intelligence che rispondono direttamente a lui con il il SIDE (Segretariato dell’Intelligence di Stato); per quest’ultimo Milei aveva chiesto un finanziamento di circa 100 milioni di dollari bocciato dal Parlamento, a cui si aggiunge la promessa di investire ulteriori 2 miliardi di dollari per l’efficientamento dell’esercito.

Naturalmente questa attenzione per le forze armate, in un paese come l’Argentina, è stata oggetto di aspre critiche sia da parte dell’opposizione e da prese di distanza di parte della maggioranza.

Nel complesso la situazione del paese rimane grave ma i risultati sono lì da vedere.

E’ evidente che in una situazione in cui lo stato è storicamente pervasivo , costoso e opprimente, una ricetta come quella di Milei è dirompente.

Le politiche di Milei, inoltre, seppur originate da una situazione del tutto particolare e anomala, si innestano con il nuovo corso di Trump negli USA ma anche in una tendenza che sta prendendo piede anche in Europa.

Il primo gesto di Trump è stato l’uscita da alcuni organismi internazionali come l’OMS e dagli Accordi di Parigi sul clima e l’accordo sulle tasse dell’OCSE.

Entrambi, Milei e Trump, hanno come punto qualificante della loro azione politica lo smantellamento della Woke culture cioè verso la cultura di orientamento progressista che ha dominato il decennio precedente, soprattutto in America, che va dall’ecologismo, al femminismo radicale, all’ipertutela di alcune minoranze etniche piuttosto che quelle LGBTQ+ alle correzioni linguistiche.

La woke culture ha un atteggiamento fortemente critico nei confronti del suprematismo bianco e dei valori patriarcali

Entrambi, Milei e Trump, sono per il recupero dei valori tradizionali e contro i desideri trasformati in diritti civili e sociali.

Il diritto alla vita in contrapposizione all’aborto, la libertà e la proprietà privata sono i loro valori di riferimento. Perciò, nonostante le visioni economiche difformi, è possibile la creazione di un asse anche con una parte della destra europea, tradizionalmente statalista, rappresentata da Meloni e Orban.

Milei dimentica che la tradizione statalista non è solo della sinistra socialista ma anche della destra estrema passando per il mondo cattolico, che statalista non è, ma ha largamente attinto dalle risorse pubbliche per allargare la sua rete d’influenza.  

E’ un dettaglio di cui tenere debitamente conto

Lo statalismo purtroppo è di tutti. Lo stato è il centro di tutte le culture politiche del ‘900.

Certo c’è un diverso modo di vedere come impiegare le risorse dello stato.

Ad ogni modo la riduzione di un ruolo dello stato non è un tema solo argentino, bensì sia un esigenza dal momento. L’inversione delle tendenze demografiche , meno giovani e più vecchi, e i livelli di tassazione necessari per coprire la spesa pubblica, sono ormai molto alti e a questi si aggiungono anche continue richieste di esborsi per accedere a servizi di vario genere.

Al di là della missione divina di Milei volta a porre fine al comunismo internazionale come dice lui, le trasformazioni sociali ed economiche della 4° rivoluzione industriale, quella in corso, hanno già messo in crisi profondamente tutte le istituzioni tradizionali, sia nazionali che internazionali.

La politica arranca mentre le forze economiche e finanziarie si sono ormai internazionalizzate.

La disintermediazione si estende a macchia d’olio e con essa si fa sempre più forte l’esigenza di effettuare riforme radicali sia negli assetti interni degli stati che degli organismi internazionali.

La destra pare avere un progetto culturale e politico molto chiaro mentre sull’altro fronte, oltre al richiamo continuo alle tradizionali e sempre più insostenibili politiche stataliste e assistenzialiste, sembra non si riesca ad esprimere nulla di innovativo, da qui l’insistenza sui diritti delle minoranze.

A questo si aggiunge ormai la percezione, non destituita di qualche fondamento, dello schieramento progressista come un blocco di potere e una casta di persone più che benestanti con la tendenza ad volere infliggere sili di vita irreali ai ceti medi e popolari, concentrati invece su come risolvere i problemi più spiccioli della vita quotidiana, come pagare le bollette per l’energia continuamente rincarate o gli affitti alle stelle, soprattutto in alcune città, oppure pagare le rate del mutuo per la casa, al bisogno di sicurezza per le strade.

Alla radicalizzazione di posizioni eccessivamente distoniche rispetto al senso comune sul fronte dei diritti civili e totalmente insufficienti sul piano economico, si contrappone un avanzamento considerevole dei partiti di destra e conservatori che non si spiega con il populismo, termine usato abbastanza impropriamente, a volte a caso, e perfino abusato, bensì con la mancata comprensione di alcune necessità da parte della sinistra mondiale.

Non c’è dubbio che i movimenti di destra siano una risposta molto forte alle classi dirigenti del blocco progressista colpevole non solo di non avere risolto i problemi dei ceti più deboli, ma anzi di averli, per molti versi, acuiti.

La continua sottolineatura sulla riduzione della mobilità sociale, cosa assolutamente vera, pone un interrogativo molto forte sul ruolo che hanno esercitato ed esercitano, le classi dirigenti della sinistra e progressiste, laddove per classi dirigenti non si intende solo chi è al governo, bensì coloro che hanno il potere di dirigere i grandi apparati dello stato, le strutture burocratiche, i mezzi di comunicazione, le strutture organizzate dei corpi intermedi.

Se la conservazione delle società stratificate ed escludenti dei secoli scorsi passava soprattutto con il mancato accesso all’istruzione, che concretamente era uno strumento di emancipazione e mobilità sociale, nella società del terzo millennio, stante che l’istruzione, almeno nei paesi progrediti viene garantita a tutti, l’esclusione avviene attraverso la diversificazione della qualità dell’istruzione ma, soprattutto, tramite il filtro delle reti sociali e personali, di supporto, al momento dell’entrata nel mondo del lavoro.

Il vero blocco sociale si verifica a questo punto.

Per la semplice ragione che se si interviene nei confronti della povertà solo con misure assistenziali e interventi caritatevoli, non solo un povero è condannato a vita ad essere tale, ma soprattutto non si risolve il problema dei ceti medi che non hanno bisogno di misure assistenziali, che peraltro non ottengono, ma di un’economia più competitiva e una pressione fiscale meno oppressiva e più ragionevole.

Se la pressione fiscale, a fronte di una produttività e competitività molto bassa, com’è il caso dell’Italia, erode quasi il 50 % del salario, si dovrà intervenire con costose misure a sostegno delle famiglie più disagiate, ma questo, contestualmente, impedirà ad esse qualsiasi sviluppo.

Senza parlare della sudditanza politica alla quale saranno esposte.

Oltre a questo , la determinazione delle aliquote per fasce di reddito, superate le quali la pressione fiscale non aumenta proporzionalmente bensì a blocchi, determinando cifre piuttosto folli da dare allo stato, rende poco conveniente se non addirittura dannoso, lavorare di più e guadagnare di più e rende semplicemente vantaggioso rivolgersi al mercato del lavoro sommerso.

Occorre, in altre parole, prendere atto che la mondializzazione e le nuove tecnologie, dall’intelligenza artificiale alle tecnologie quantistiche, le biotecnologie e via di seguito, provocano nella società e nel mondo del lavoro e nel mercato economico mondiale, cambiamenti economici, sociali e politici radicali, ai quali non si può rispondere semplicemente con prediche morali sui valori solidali o imponendo impossibili visioni del mondo destinate a rendere felici solo piccole élite untrabenestanti.

Milei, ma anche Trump, sono la risposta a tutto questo : fateci vivere liberamente senza rotture di scatole, secondo le nostre possibilità reali non modificate dall’intervento dello stato e secondo i nostri valori tradizionali che hanno reso grande l’Occidente.

 A questo la sinistra può rispondere dicendo consumi e inquini troppo, devi pagare le tasse, sei omofobo perché parli di famiglia tradizionale, se non sei per l’accoglienza e sei un egoista ,magari quando magari vivi in un quartiere dove è rischioso uscire alla sera?

Certo questo per Trump e Milei significa sia restrizioni sulle politiche migratorie che più disinteresse nei confronti delle minoranze etniche o di altro genere.

Però penalizzando o criminalizzando le maggioranze non si tutelano nemmeno le minoranze, anzi!

A questo nuovo manifesto conservatore occorre contrapporne un altro, ragionevolmente progressista e con contenuti nuovi, non radicalmente progressista , feroce e colpevolizzante nei confronti di stili di vita radicati.

A nessuno piace sentirsi dire in continuazione che rappresenta l’arretratezza e un mondo oppressivo, quando peraltro la gran parte delle culture lo è, generalmente, molto di più.

Soprattutto nessuna cultura nuova può prescindere dalla considerazione di quello che c’è stato prima, perché nei momenti di crisi, altrimenti , quello che è stato riemerge con tutta la sua forza e nel modo peggiore.



martedì 28 gennaio 2025

LA PENNA DI TRUMP Walter Veltroni

 




LA PENNA DI TRUMP 

Walter Veltroni

27 gen 2025

[...] È facile fare un’intervista per condannare Trump, ma non basta. Bisogna convincere milioni di esseri umani della giustezza di proposte alternative, chiare e risolutive. Il tema della sicurezza personale, il governo dei flussi migratori, il superamento del politicamente corretto come recinto asfissiante, la riforma delle istituzioni per renderle più funzionanti devono essere parte di un programma che contenga la difesa e la conquista di nuovi diritti, a partire da quelli sociali, dalla valorizzazione della formazione, del sapere, del pluralismo, la difesa del multilateralismo. [...]

“Grazie, Peter. Potevano passare anni prima di trovarla", così Donald Trump al giornalista che gli aveva chiesto di una lettere lasciata da Biden. Il neo eletto Presidente Usa, mentre firmava i primi ordini esecutivi, ha trovato la missiva nel cassetto della scrivania nello studio ovale, alla Casa Bianca. "Forse dovremmo leggerla insieme..."ha scherzato Trump con i cronisti presenti.

I decreti e le risposte (difficili) alle paure. Il presidente americano firma e così realizza, se il congresso lo seguirà, la sua rivoluzione populistica

Tutto sta in quella penna. O, meglio, nella sua plateale esibizione. Il simbolo del tempo che ci attende è in quella sequenza infinita di firme con le quali Donald Trump ha voluto dare ragione a quanti, tra noi, pensavano e scrivevano che il secondo mandato non sarebbe stato come il primo. Prendendolo sul serio, e non pensando fosse un giullare, non era difficile prevedere che la sua seconda esperienza alla Casa Bianca sarebbe stata diversa dalla prima e che le promesse elettorali non erano bravate estremiste per conquistar voti ma sarebbero diventate, almeno in intenzioni ed atti, delle decisioni.

Quella penna, quei faldoni di documenti esibiti a favore di telecamera sulla scrivania dello studio ovale raccontano di un nuovo tempo, tutto da decifrare, della vita democratica degli Stati Uniti. E non solo. Con quella penna Trump ha assunto, a nome del suo Paese, posizioni e decisioni che hanno capovolto gli indirizzi, su varie materie, di molte amministrazioni precedenti, sia repubblicane che democratiche. Per memoria: ritiro degli Usa dagli accordi sul clima di Parigi. Gli Stati Uniti sono, con la Cina, il maggiore emettitore di gas serra in atmosfera. Il loro disimpegno può fortemente compromettere il raggiungimento degli obiettivi di contenimento del riscaldamento globale. Va forse ricordato, a tutela delle generazioni future, che gli ultimi tre decenni sono stati i più inquinanti dei 200 anni precedenti, che le previsioni, secondo l’ultimo rapporto della Convenzione delle Nazioni Unite, sono che entro la fine del secolo la temperatura del globo aumenterà di 2,7 gradi. Balle catastrofiste? Andrebbe detto ai diciassette milioni di esseri umani che sono stati costretti a fuggire dalla loro terra che fuggono per siccità e alluvioni. Per la penna di Trump l’emergenza invece è consentire trivellazioni a tutto spiano: «Drill, baby, drill». Poi l’uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità, l’annuncio di mire annessionistiche del canale di Panama, della Groenlandia, la mutazione di nome del Golfo del Messico, la grazia per 1.500 partecipanti ai drammatici eventi del 6 gennaio 2021 e persino per il fondatore di un importante sito che nel dark web, ha consentito la vendita di armi e droga; «Dio, patria e famiglia». Poi, in omaggio alla rigida struttura binaria della civiltà digitale, l’annuncio che d’ora in poi esisteranno, per firma presidenziale, solo due sessi. Infine la diffusione della foto con gli immigrati in catena che si avviano verso l’aereo che li rimpatrierà, la sospensione persino dei programmi per i richiedenti asilo, lo stato d’emergenza al confine del Messico, con quello che ne conseguirà. Il tutto definito con orgoglio smemorato, «una grande deportazione di massa». Si possono aggiungere i dazi e il resto.

Tutto con una penna, tutto in pochi giorni. Bisogna ricordare che molti presidenti hanno utilizzato lo strumento degli ordini esecutivi, non solo Trump. Ma la valenza plateale del gesto della firma del tycoon repubblicano è qualcosa di più, ha un significato rivolto urbi et orbi. Sta a dire che, per fare qualcosa, serve e basta una penna; che se ti impantani nella gelatina delle commissioni del congresso, nei tempi delle aule parlamentari, nelle faide tra partiti e correnti, non ne uscirai mai. Quella penna è la testimonianza pericolosa di un problema reale: l’afasia delle democrazie, la frizione tra la lentezza delle procedure e la velocità della società digitale. Se la democrazia non troverà un modo per diventare più veloce e trasparente alla fine sarà travolta dall’inchiostro, tutto di un colore, delle penne di presidenti o nuovi zar che del resto, forti di consenso mediatico presso l’opinione pubblica, si disinteressano esplicitamente di regole ed equilibri.

Trump firma e così realizza, vedremo se il congresso lo seguirà, la sua rivoluzione populistica.

Ma l’opposizione, la cultura democratica, cosa fa di fronte all’uragano provocato da queste decisioni? Protesta, e va bene. Ma poi? Ha capito o no che tutti i temi sui quali Trump ha conquistato, almeno per ora, l’opinione pubblica, a cominciare dai giovani e dagli strati più deboli della popolazione, meritano risposte nuove che non deridano paure e ansie ma avanzino soluzioni chiare, ispirate da un sistema di valori opposto a quello del sovranismo populista, ma capaci di parlare al cuore del popolo profondo? È facile fare un’intervista per condannare Trump, ma non basta. Bisogna convincere milioni di esseri umani della giustezza di proposte alternative, chiare e risolutive. Il tema della sicurezza personale, il governo dei flussi migratori, il superamento del politicamente corretto come recinto asfissiante, la riforma delle istituzioni per renderle più funzionanti devono essere parte di un programma che contenga la difesa e la conquista di nuovi diritti, a partire da quelli sociali, dalla valorizzazione della formazione, del sapere, del pluralismo, la difesa del multilateralismo. Lasciare temi popolari a questa destra significa spalancare porte e finestre alla deriva autoritaria che essa stessa non nasconde e che tutti dovrebbero riconoscere, senza la tendenza ricorrente a sistemare le sedie a sdraio sul Titanic. Trump ha preso tre milioni di voti in più del 2020, ma i democratici ne hanno perduti sei e non è certo dipeso solo dal candidato.

Se vuole, come è possibile, tornare a conquistare consenso, il pensiero democratico deve trovare soluzioni nuove, armoniche con la sua identità, capaci di parlare alle inedite forme di disagio, specie tra i più deboli.

È il tema di cento anni fa, in fondo.

Altrimenti non resterà che una penna, con il suo ambiguo messaggio.





THE GIRL WITH THE NEEDLE Magnus von Horn

 


THE GIRL WITH THE NEEDLE
Regia Magnus von Horn

Recensione
P.b.
The Girl with the Needle (disponibile sulla piattaforma MUBI) è l'ultimo film del regista polacco-danese Magnus von Horn, È un film duro, che lascia il segno attraverso una rappresentazione che attinge dal noir la cupezza dei toni e delle atmosfere. 
Ambientato nel 1919 a Copenaghen, The Girl with the Needle segue in una città   piena di ombre la sua protagonista Karoline (Vic Carmen Sonne), una giovane operaia che lavora come sarta, rimasta sola e senza casa dopo la scomparsa del marito durante la Prima Guerra Mondiale.
Karoline convinta di essere rimasta vedova dopo la sparizione del marito  viene sedotta, e poi abbandonata, dal capo della fabbrica dove svolge la mansione di operaia. Incinta e ridotta alla povertà, si avvicinerà progressivamente a Dagmar (Trine Dyrholm), donna che gestisce un traffico di adozioni clandestine. La fotografia in bianco e nero fa emergere un chiaro riferimento al cinema espressionista degli anni Dieci e Venti. Attraverso ombre allungate e inquadrature trasversali, si presenta come un allucinato racconto, dove    la  Grande Guerra si mostra  esclusivamente tramite le grida del marito di Karoline e di un giovanissimo venditore di giornali. Il film è un noir e, allo stesso tempo, una cronaca-sociale,  che rievoca un terrificante fatto di cronaca nera, con una forte influenza da parte della narrativa di Charles Dickens: lo stato di estrema miseria e marginalità da cui Karoline cerca disperatamente di fuggire ne è un  esempio. 
Così come nei grandi romanzi di inizio secolo è Karoline il perno dell’intera storia. E su di essa il regista costruisce un racconto  cinematografico di grandissima raffinatezza.
Il film mostra la predilezione di von Horn per l’indagine  della società e, e rivela la realtà bruta delle classi e il dramma inesorabile della miseria.

lunedì 27 gennaio 2025

UN MAZZO DI ROSE Estratto da “Il tuono viola" Jaroslav Hašek



UN MAZZO DI ROSE

Estratto da  “Il tuono viola"

Jaroslav Hašek

La popolarità di Hasek è legata principalmente a questo romanzo (anche grazie alla riscrittura teatrale che ne fece Brecht); come spesso capita, il successo di un’opera celebrata ne oscura altre, in questo caso i racconti, nel quali Hasek stempera la comicità nell’ironia immergendola in una soluzione che contiene qualche traccia di malinconia.

Un mazzo di rose

Da sei mesi stava il mazzo di rose bianche nel vaso nel salotto, appassito e secco; naturalmente non emanava più il profumo di mezz’anno prima, quando la signorina Carla Kalinová lo aveva portato fresco, riempiendo la stanza, sebbene fosse inverno, di odore di estate.

— State attenta a quelle rose, quando fate le pulizie, — ordinava la signorina alla domestica. — E tu, papà, — diceva al signor Kalina — non ti mettere le rose nel tabacco.

— Sei matta, Carla? — rispondeva il signor Kalina, — sai bene quanto io stimi simili doni d’amore. Dio mio, anch’io, quando ero celibe, portavo a tua madre le rose. Eh, non arrossire. Si dice che i piccoli doni mantengono l’amicizia e che dall’amicizia si può sviluppare l’amore e dall’amore viene di solito il matrimonio. E il signor Mařík ti avrà donato questo mazzo certamente per amicizia.

— Del resto, — concludeva l’esperto cassiere-capo in pensione — volentieri ti vedrei già sistemata. Perché arrossisci? Ogni donna si sposa volentieri e il signor Mařík è un uomo ricco, maturo, ben situato.

— E prima di morire, — aggiungeva malinconico come migliaia di altri padri — ti vorrei vedere felice.

Il signor Kalina aveva acceso la pipa e, andando su e giù per la stanza, fumava la sua prediletta miscela di vari tabacchi con una piccola aggiunta di quei petali di rose che danno al fumo del tabacco un fine aroma, sebbene nell’osteria, dove si recava quotidianamente, gli amici dicessero che il fumo della sua pipa non era molto diverso dalla puzza d’una serra bruciata e qualcuno pensasse addirittura al bruciare d’una bica...

— È la cosa più sana! Una piccola aggiunta di rose aromatizza il fumo, — diceva il signor Kalina per difendere la sua miscela, — peccato però che già mi stia finendo la piccola provvista di rose che avevo fatto l’estate scorsa e non mi va di comprarle secche dal droghiere, perché è del tutto impossibile trovare nei negozi le rose pure. Vi mischiano tanti altri fiori, per esempio le peonie, che i ragazzi raccolgono nei cimiteri, e valle poi a fumare! Come se fumassi i fiori delle tombe! Credetemi, sono davvero avvilito quando mi finisce la provvista.

Ma le rose secche non erano finite al signor Kalina, ebbe presto il piacere di tagliarle a strisce strette e pezzetti, cosa che lo rallegrava sempre moltissimo, come un presentimento di quei momenti belli e gradevoli, in cui i pezzetti delle rose mescolati al tabacco avrebbero cominciato a sfriggolare dolcemente, riempiendo dei loro anelli odorosi tutta la stanza e altre due, tre stanze, la cucina, l’anticamera, il corridoio.

La signorina Carla tornò un pomeriggio dalla passeggiata (detto in tono ufficiale, da una visita a un’amica, scusa a cui ricorrono quasi tutte le signorine innamorate), portando a casa un altro mazzo di rose, non bianche ma gialle.

E fece subito coi fiori ciò che si fa di solito. Riempì il vaso d’acqua, e il vaso con le rose gialle restò per un quarto d’ora accanto al vaso col mazzo di rose bianche.

— Sono anche queste del signor Mařík? — domandò seccato il signor Kalina, pur di dire qualcosa, — sempre rose, nient’altro che rose.

— No, papà, — rispose la signorina Carla — queste belle rose me le ha regalate il signor Ningr, un signore molto simpatico. Non lo conosci? È molto carino, bruno, simpatico. Lo conosci certamente, il signor Ningr.

— Non lo conosco, — disse serio il signor Kalina, — ti prego, che ne dirà il signor Mařík? Non sai nemmeno tu quello che vuoi!

— Con quel signore ho interrotto tutti i rapporti, — disse la signorina Carla con sorpresa di suo padre, — pensa che già da tre settimane conosco il signor Ningr. Devi conoscerlo anche tu. È il signore che al ballo quella volta ha ballato tutte le danze con me. Vedi, oggi è andato in campagna, è amministratore d’una tenuta, e mi ha portato per ricordo queste rose. Non ti sarai arrabbiato, papà, il signor Mařík era un vecchio scapolo, un brontolone, mentre il signor Ningr è così simpatico, è bruno, ancora giovane e bello, papà, e gli scriverò spesso. Guarda queste rose gialle, come odorano...

— E del primo mazzo che farai? — domandò il signor Kalina.

— Puoi tagliarlo a pezzetti per il tuo tabacco, papà, — disse generosamente Carla, — e non ti arrabbiare col signor Ningr.

— Ma va, sciocchina, — disse il signor Kalina; e da quel momento si dedicò al taglio delle rose bianche ormai secche, mentre nel vaso odoravano le fresche rose gialle.

Quello stesso giorno aggiunse le rose tagliate al tabacco: il fumo dileguava, dileguava, come le speranze del signor Mařík.

Anche le rose gialle divennero secche, e restarono impolverate nel vaso, perché la domestica ebbe l’ordine di non toccarle, e quanto più stavano nel vaso, tanto più diminuiva la provvista delle rose tagliate del signor Kalina.

— Fra poco finirò di fumare il signor Mařík, — disse il signor Kalina, personificando il fumo, — e dopo?

Finché un giorno la signorina Carla portò a casa un nuovo mazzo di rose, questa volta rosse, e disse: — Caro papà, non ti arrabbiare col signor Kautský.

— Parli del mio vecchio amico o di suo figlio? — domandò meravigliato il signor Kalina.

— Parlo del giovane Kautský, — rispose la signorina — prenderà presto la laurea, è simpatico.

— E con questo? — domandò il signor Kalina.

— Mi ha dato queste rose, — rispose la signorina — e chiede il permesso di venirci a trovare qualche volta.

Quel giorno il signor Kalina tagliò a pezzetti nel suo tabacco le rose gialle del secondo mazzo e il fumo svanì di nuovo, stavolta come le speranze del signor Ningr.

— Fumo il signor Ningr, — diceva — e che sarà dopo?

Poi si mise a fumare le rose secche comprate dal droghiere, perché il signor Kautský, quando si fu sposato con sua figlia Carla, non portò più mazzi di rose.

Questi regali gli uomini li fanno solo prima delle nozze.


(1905)


QUELLO TRA ISRAELE E HAMAS NON È UNO «SCAMBIO DI OSTAGGI» Iuri Maria Prado

 


QUELLO TRA ISRAELE E HAMAS NON È UNO «SCAMBIO DI OSTAGGI»

Iuri Maria Prado

27 Gennaio 2025

È a dir poco blasfema l’equiparazione tra lo stragista o lo stupratore detenuto in un carcere israeliano e l’inerme rapito durante gli eccidi del Sabato Nero e trattenuto per 480 giorni nei tunnel di Gaza. Definire “scambio di ostaggi” l’operazione con cui Israele, per riscattare la vita di alcuni tra i rapiti del 7 ottobre, libera centinaia di palestinesi – molti dei quali responsabili di gravissimi delitti – significa alternativamente l’uno o l’altro. L’uno: che davvero si ritiene trattarsi, nei due casi e sui due fronti, di “ostaggi”, e che si tratti dunque dell’equanime incrocio restitutorio di persone gravate di identiche responsabilità e identicamente trattenute in modo indebito. L’altro: che, al contrario, si sa bene che non si tratta di ostaggi in entrambi i casi, si sa bene che definire ostaggi gli uni e gli altri è uno sproposito, si sa bene che lo “scambio” è tutt’altro, e tuttavia si scrive ugualmente “scambio di ostaggi” perché scriverlo adempie in modo efficace alla dolosa alterazione di verità circa il ruolo, le ragioni, le pratiche e gli obiettivi delle parti in conflitto.

Dovrebbe essere inutile star qui a indugiare sul carattere a dir poco blasfemo dell’enormità che equipara lo stragista o lo stupratore detenuto in un carcere israeliano all’inerme rapito durante gli eccidi del Sabato Nero e trattenuto per 480 giorni nei tunnel di Gaza. Dovrebbe essere inutile ricordare i trasalimenti per i “22 bambini” rilasciati giorni fa da Israele, il più giovane dei quali era un quindicenne arrestato non esattamente per il furto di una mela. Dovrebbe essere inutile rievocare i bei titoli del giornalismo democratico secondo cui il popolo di Gaza, apprestandosi ad accogliere una turba composta perlopiù da terroristi, faceva “ritorno alla libertà”.

Non è inutile, evidentemente. Perché, se fosse inutile, lo “scambio di ostaggi” che non esiste nella realtà non sarebbe esistito sui giornali che invece hanno provveduto a confezionarlo in perfetto stile da reporter embedded in Hamas.

Si potrebbe osservare che nei due casi – e cioè sia che l’uso della dicitura “scambio di ostaggi” dipenda dall’incommensurabile ignoranza dell’utilizzatore, sia che esprima la disinvoltura del più volgare propagandista – la cosa è dopotutto innocua perché gli uni come gli altri, vale a dire gli ostaggi israeliani e i detenuti palestinesi, tali restano a prescindere da come li si chiama.

Osservazione abbastanza vacua. Che porterebbe a ritenere innocuo chiamare “genocidio” anziché guerra la guerra di Gaza, o “resistenza“ anziché quel che è il pogrom del 7 ottobre.



domenica 26 gennaio 2025

IL VELO DIPINTO W. Somerset Maugham

 


IL VELO DIPINTO

W. Somerset Maugham

[...]ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé disfecemi Maremma:
salsi colui che inanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma.”
[Dante, Purgatorio, Canto V vv. 133 – 136]

Recensione 
P.b.
Il velo dipinto (uscito a puntate sulla rivista «Cosmopolitan» fra il 1924 e il 1925) fu ispirato a W. Somerset Maugham dai pochi versi che Dante, nel canto V del Purgatorio, dedica a Pia De’ Tolomei. Durante un suo lungo soggiorno a Firenze W. S. Maugham lesse la Divina Commedia e fu colpito dal personaggio di Pia De’ Tolomei, al quale continuò a pensare per anni. Fu durante un viaggio in Cina che i vari elementi si ricomposero nella mente dello scrittore: la storia del XIII secolo si poteva rendere attuale (negli anni ’20, per Maugham), sostituendo la Cina alla Maremma e il colera alla malaria.
Se si pensa alle avanguardie e agli stili innovativi e articolati che dominavano la scena letteraria degli anni ’20, il romanzo di Maugham, pubblicato nel 1925, appare ancorato ad un filone diverso, sorretto da dialoghi brillanti e da una trama magistralmente orchestrata.
La storia inizia in Inghilterra negli anni venti, per poi svilupparsi prima a Hong Kong e poi nella Cina rurale.
Il racconto, in terza persona ma in forma di monologo interiore, ci fa sentire i pensieri, le emozioni, le paure della protagonista.
Il velo dipinto” è un romanzo forte, introspettivo.  Al suo interno le pagine sono intrise di molte riflessioni  che toccano non solo la dimensione femminile e umana per mezzo della voce della protagonista principale e dei coprotagonisti, quanto anche aspetti più propriamente morali e identitari. Il Il lettore è chiamato a interrogarsi, a soffermarsi su quei temi che vengono introdotti nello scorrimento della storia.
Come suggerisce la poesia di Shelley da cui il romanzo prende il titolo:
Non sollevare quel velo dipinto, quel che i viventi
chiamano Vita: per quanto forme irreali vi sian ritratte
e tutto quello che vorremmo credere
vi sia imitato a colori capricciosamente,
dietro stanno in agguato Paura e Speranza,
Destini gemelli, che tessono l’ombre in eterno
sopra l’abisso cieco e desolato.[…]
Sollevare il velo dipinto, incontrare la vera sofferenza, affrontarla e rinascere è invece l’unico modo per vivere una vita che ha un senso, sembra raccontare la storia di Kitty. 

IL VELO DIPINTO

IL VELO DIPINTO Film del 2006 Regia di John Curran



 IL VELO DIPINTO

Film del 2006  

Regia di John Curran con Naomi Watts 

Recensione 

Il film del 2006, diretto da John Curran,  è un remake di un film del 1934 interpretato da Greta Garbo e tratto da un romanzo di Somerset Maugham uscito lo stesso anno. L'autore inglese ebbe un grandissimo successo letterario specie nel periodo tra le due guerre mondiali, e diverse sue opere furono trasposte cinematograficamente.

Il risultato è un film delicato che che solo in parte fa rivivere allo spettatore l'esperienza di una lettura  del libro, a cui rimane fedele almeno nelle atmosfere e nei dialoghi. Anche se cambia  il senso della storia con un epilogo che è la più facile soluzione della riconciliazione spirituale e fisica della coppia.

Inghilterra, anni 20. Pieno imperialismo britannico.  Storia d'amore da parte di un microbiologo (Edward Norton alias Walter Fane) nei confronti di una viziata ragazza londinese (Naomi Watts alias Kitty Fane), che, pur di sfuggire al monotono tran tran della borghesia inglese, sposa alla cieca il bel medico e "fugge" con lui in Cina, inizialmente a Shangai.

“Quando amore e dovere coincidono, allora la grazia è dentro di te”, dice la Madre superiora Diana Rigg a Naomi Watts che per scacciare la terribile solitudine nella quale è costretta, “sposa” la missione umanitaria del marito Edward Norton, aiutando le suore del convento della colonia inglese Shangai degli anni venti a crescere cristianamente i bambini, spesso ospiti “forzati” e da convertire.

La storia mostra come a volte l'amore può rinascere anche quando si pensa di non poter più provare nulla nei confronti dell'altro/a. E invece si possono scoprire nell'altra persona cose che mai ci saremmo aspettati di trovare e viceversa. Improvvisamente si ha ancora tanto da dare e stare insieme ha di nuovo un senso, anche dopo un tradimento. Il perdono, la comprensione, l'accettazione dell'altro,  sono tutti elementi che compongono i tasselli di questa intensa storia che ci insegna che a volte la prima persona che dobbiamo perdonare per poter andare avanti siamo proprio noi stessi.

A parte tutto, questo film si dovrebbe vedere per la musica, meravigliosa, e il paesaggio, incantevole, in forte contrasto con la materia trattata.


sabato 25 gennaio 2025

I TRE OSTAGGI NELL'EDIFICIO DELL'UNRWA Giulio Meotti



I TRE OSTAGGI NELL'EDIFICIO DELL'UNRWA

Giulio Meotti 

 23 gen 2025

I tre ostaggi israeliani liberati erano tenuti in un edificio dell'Unrwa. Lo scandalo umanitario

Gli edifici presi di mira per scopi militari rappresentano la violazione del diritto internazionale umanitario. L'agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente dichiarata antisemita, lo stop dei finanziamenti americani

Prima un video del massacro del 7 ottobre che mostra un dipendente dell’agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi Unrwa che mette il corpo di un uomo israeliano nel retro di un suv. Si tratta di Faisal Ali Mussalem al Naami, assistente sociale dell’Onu a Gaza. Poi Ayelet Samerano, la madre di Jonathan, 21 anni, rapito dal kibbutz Be’eri, che durante una protesta in Svizzera tiene una foto di Jonathan mentre urla “l’Unrwa ha rapito mio figlio!”. Un’inchiesta del New York Times rivela che un consulente scolastico dell’Unrwa di Khan Younis ha rapito una donna israeliana. Poi il corpo dell’ostaggio tedesco-israeliano Shani Louk viene trovato in un edificio dell’Unrwa. Ora questa: “Gli ex ostaggi Romi, Emily e Doron sono stati tenuti nei rifugi delle Nazioni Unite a Gaza, che erano destinati ai civili”.

Così un servizio trasmesso ieri dal canale televisivo israeliano 13, che afferma quanto segue: “Due giorni dopo essere stati liberati dopo 471 giorni di prigionia, Rumi Gonen, Emily Demari e Doron Steinbracher iniziano a raccontare cosa hanno vissuto, le condizioni della prigionia, così come i luoghi in cui sono stati tenuti nella Striscia di Gaza dai terroristi di Hamas da quando sono stati rapiti il ​​7 ottobre. Le conversazioni con i rimpatriati mostrano che durante il loro periodo di prigionia sono stati nascosti nei rifugi delle Nazioni Unite e nei campi destinati alla popolazione civile che le Nazioni Unite hanno istituito durante la guerra e che dovrebbero essere aree in cui le persone soggiornano e ricevono cibo e acqua”. Richard Goldberg della Fondazione per la difesa delle democrazie di Washington, ha affermato che la rivelazione significa che “dobbiamo smettere di pensare a Unrwa come a un semplice sostenitore di Hamas e iniziare a interiorizzare che l’agenzia è una facciata per Hamas”.

Un prigioniero di ottant’anni, rilasciato nell’ambito della tregua del novembre 2023, aveva già affermato di essere stato tenuto nella soffitta di un dipendente delle Nazioni Unite. Un anno fa invece la scoperta che sotto la sede centrale dell’Unrwa a Gaza Hamas aveva nascosto il suo centro dati, completo di sala elettrica e alloggi per i terroristi che gestiscono i server dei computer. Israele aveva poi accusato dodici membri dello staff dell’agenzia delle Nazioni Unite di aver preso parte al massacro del 7 ottobre, spingendo poi la stessa Onu a licenziarli. Elise Stefanik, nuova ambasciatrice americana all’Onu, ieri ha detto che l’Unrwa è “antisemita”, lasciando intendere la fine dei finanziamenti da parte degli Stati Uniti. Il capo dell’Unrwa, lo svizzero Philippe Lazzarini, dichiara che “attaccare, prendere di mira o utilizzare edifici delle Nazioni Unite per scopi militari è una palese violazione del diritto internazionale umanitario”, ma tace su come da quindici mesi Hamas usa le stesse strutture, non solo per nascondere armi e missili, ma anche gli ostaggi. 

Secondo un altro servizio esclusivo di Fox News andato in onda ieri e che si basa sull’intelligence israeliana, i terroristi di Hamas hanno confessato che ostaggi israeliani erano stati tenuti anche nell’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza in momenti diversi durante il loro calvario. Anas Muhammad Faiz al Sharif, uno dei terroristi sotto custodia israeliana, parla dell’ospedale come “un rifugio sicuro perché l’esercito israeliano non può prenderlo di mira”. D’altro canto, il 24 ottobre 2023, il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres aveva praticamente giustificato gli attacchi di Hamas contro Israele affermando che “non sono avvenuti nel vuoto”. No, non sono avvenuti nel vuoto, sono avvenuti anche nelle strutture dell’Onu.



UNA CASA TUTTA PER NOI Regia di Tony Bill con Cathy Bates

 


UNA CASA TUTTA PER NOI

Film del 1993 

con Regia di Tony Bill con Cathy Bates

Recensione

Visto su Amazon Prime

Melassa? Sdolcinato? Questi sono gli aggettivi che il solito critico "professionista" ha usato per recensire il film. 

Certamente il film ha qualcosa di naïve, ma anche di autentico, la sceneggiatura è buona e gli attori bravissimi.  Un film che ispira e incoraggia chi cerca ancora nella vita i sogni e le speranze. 

Siamo in U.S.A. anni '60. Tutto (o quasi) era possibile se lo volevi e mettevi tutte le tue forze per cercare di realizzarlo. Poca (o del tutto assente) burocrazia, nessun sindacato dei lavoratori a proteggere (licenziamenti a go go) o ad ostacolare (bambini che aiutano la famiglia e se stessi con lavoretti occasionali). Stato (comprese forze dell'ordine o servizi sociali) praticamente assente e comunità presente. Film da confrontare con "Elegia americana" del 2020, ambientato in questo secolo.( Vedi Nota)

Certo per i non Americani sembra una cosa impossibile lasciare una vita e ricominciarne un'altra, adattarsi a qualsiasi lavoro perché non ci sono mammma e papà alle spalle ad aiutarci, tanto meno il governo, lo stato, la sanità pubblica che ci protegge, i sussidi pubblici, no, niente di tutto questo. Ti fai la tua vita, sbagli, fai errori, ti va male, ma poi ti riprendi e vai avanti. E' quello che succede a Frances Lacey interpretata dalla sempre brava  Kathy Bates, qui diretta da Tony Bill, e alla sua truppa di 6 figli che sono altrettanto bravi e collaborativi e capiscono i problemi famigliari e si danno da fare come dei veri piccoli americani. 

Sicuramente il film ha il sapore della favola, ma chi non ama le favole vuol dire che è già vecchio, che è nato vecchio e di sicuro non ha più sogni. L'America, soprattutto nella provincia, era così, il senso delle community è vivo e vegeto, il neighbour è lì per aiutare, per davvero.

Rappresenta l'America degli anni sessanta, nel suo lato positivo,  nel suo modo di vivere e di vedere le cose. E' solo un pregio, non un difetto. I vecchi europei sono abituati ad altro... e infatti sono vecchi.


Nota

Elegia americana (Hillbilly Elegy) è un film del 2020 diretto da Ron Howard e interpretato da Amy Adams e Glenn Close. È un film basato sull’autobiografia di J.D. Vance, pubblicata con il titolo Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis e che è stato un caso editoriale nel 2016. Probabilmente avendo portato alla ribalta una zona depressa e una situazione critica americana, non ebbe particolare accoglienza in generale negli Stati Uniti, e neanche nella comunità degli Appalchiani, gruppo da cui discendono i Vance descritti nel romanzo.



  



MILEI A DAVOS: TRA ILLUMINISMO E OSCURANTISMO Alessandra Libutti

 


MILEI A DAVOS: TRA ILLUMINISMO E OSCURANTISMO

Alessandra Libutti

Il discorso di Milei a Davos e il grande reset dell'Occidente tra illuminismo e oscurantismo |InOltre

Il discorso di Javier Milei a Davos è destinato a lasciare un segno nella storia, rappresentando, nel bene e nel male, il simbolo di un grande reset culturale e sociale che sta prendendo forma in Occidente. Un intervento potente e provocatorio, apprezzabile nella sua critica incisiva all’ideologia woke, meno nelle generalizzazioni e l’inclusione sotto la cappella “woke” di temi che con il cosiddetto “woke” hanno ben poco a che fare.

Milei ha accomunato questioni come l’aborto e l’omosessualità a quell’ideologia, senza considerare che entrambe esistono da millenni in società estranee al pensiero progressista moderno. E anche in Occidente questioni come quelle della legalizzazione dell’aborto è ricollegabile alla secolarizzazione della società, che nulla ha a che vedere con la Teoria critica della razza, l’ideologia gender o il femminismo radicale. Insomma, lì Milei è cascato nella banalità di in un potpourri un po’ posticcio che ha fatto calare di tono il suo discorso. Ma d’altra parte è inevitabile perché aborto e liberismo radicale, in realtà dovrebbero andare a braccetto, ma per motivi che spiegheremo più avanti, per gli ultra-liberisti sposare la causa dei Pro-vita è diventata ormai una tappa obbligata.

Inoltre, il modo in cui Milei si è espresso su questi temi è apparso privo di sfumature o di chiarimenti necessari a evitare ambiguità. Di conseguenza, il discorso, per quanto ispirato in molti passaggi, ha lasciato una sensazione di condanna generalizzata, un giudizio che – all’interno di rivendicazioni legittime sulla deriva woke – rischia di essere percepito come una negazione di libertà fondamentali.

Milei si è fatto portavoce di una visione di libertà assoluta, ma nel farlo è caduto in contraddizioni evidenti. Proclamare la libertà economica e individuale, per poi negarla in ambiti personali come il diritto della donna a decidere sul proprio corpo o la libertà di amare chi si desidera, appare come un paradosso difficile da conciliare. Questa ambiguità lo porta a oscillare tra l’immagine di un leader innovativo e quella di un moderno Torquemada, pronto a censurare le libertà che non rientrano nella sua visione di ordine sociale.

E in fondo, il paradosso di Milei è proprio questo. Riprendendo Karl Popper e il suo famoso paradosso della tolleranza – secondo cui la tolleranza illimitata porta inevitabilmente al trionfo dell’intolleranza – l’ultra-liberismo di Milei cade nella stessa trappola. Nel proclamare un’estrema libertà individuale e nel negare il ruolo dello Stato come garante del bene comune, finisce per minare le basi stesse della libertà che intende difendere. Una società fondata sulla libertà assoluta non è realmente libera, ma piuttosto anarchica, dominata dalla legge del più forte, in cui la libertà diventa un privilegio di pochi e una costrizione per molti.

La libertà, per essere tale, necessita di limiti, di equilibri e di garanzie che ne assicurino l’effettivo esercizio per tutti, non solo per i più forti o i più privilegiati. La negazione dello Stato, quindi, non porta a una società più libera, ma a una nella quale il disordine diventa legge e la libertà, anziché ampliarsi, si restringe fino a dissolversi in nuove forme di oppressione.

Esiste poi un problema strutturale nella visione ultra-liberista, un nodo irrisolto che il thatcherismo aveva già affrontato e contro il quale si è inevitabilmente scontrato: l’assenza di un collante sociale. La celebre frase di Margaret Thatcher, “There is no such thing as society”, con cui negava l’esistenza di una società collettiva a favore di un individualismo radicale, si è rivelata una concezione incapace di sostenere la coesione sociale a lungo termine.

L’idea che l’individuo sia l’unico motore della realtà, da cui tutto parte e a cui tutto ritorna, si è scontrata con le conseguenze concrete di una disgregazione sociale sempre più evidente, un’emarginazione diffusa e, nella sua forma più estrema, in nichilismo. In una società costruita esclusivamente su logiche economiche, dove il cittadino è ridotto a lavoratore e consumatore, il senso di appartenenza e di scopo svanisce, lasciando spazio a un vuoto esistenziale difficile da colmare.

Nemmeno la cosiddetta terza via di Tony Blair, con la sua versione più sociale del liberalismo economico, è riuscita a rispondere a questa esigenza. Pur cercando di coniugare efficienza economica e politiche sociali, non ha saputo offrire un senso di comunità autentico, capace di dare alle persone un’identità collettiva oltre il benessere materiale. Ed è qui che si manifesta l’importanza di un collante: che sia religioso, ideologico o identitario, ogni società ha bisogno di qualcosa che vada oltre la dimensione economica, un elemento che fornisca direzione, appartenenza e significato.

Senza questo legame profondo, il rischio è quello di una società frammentata, in cui il perseguimento del benessere individuale lascia il posto alla solitudine collettiva, all’indifferenza, l’assenza di empatia e alla mancanza di solidarietà. Un mondo in cui il valore dell’individuo è definito unicamente dal suo ruolo produttivo o dalla sua capacità di consumo è destinato a implodere sotto il peso di un malessere diffuso e di una crisi esistenziale che nessuna crescita economica può davvero compensare.

Consapevole della necessità di un collante sociale che l’individualismo esasperato non può fornire, l’ultra-liberismo ha trovato un alleato strategico nel sovranismo di matrice cristiano-conservatrice. Questa alleanza non è casuale, ma nasce da un preciso intento: creare una coesione culturale e religiosa che possa compensare il vuoto lasciato da un modello economico fondato esclusivamente sulla competizione e sul mercato. Il sovranismo, con le sue radici identitarie e la sua retorica di recupero delle tradizioni, offre quell’elemento di appartenenza e continuità storica che il liberalismo economico puro non è in grado di garantire.

Tuttavia, questa sintesi tra ultra-liberismo e sovranismo religioso non è priva di profonde contraddizioni, e presenta diversi problemi strutturali. In primo luogo, una società ormai largamente laicizzata difficilmente accetterà, nel lungo periodo, una regressione al dogmatismo religioso. Le generazioni cresciute in contesti pluralisti e secolarizzati, dove la libertà di scelta e di espressione sono considerate diritti inalienabili, potrebbero resistere a un’imposizione di valori religiosi come fondamento sociale. La religione, per quanto possa offrire un senso di appartenenza, non può essere imposta come collante universale in un contesto dove la diversità di pensiero è ormai consolidata.

venerdì 24 gennaio 2025

ULTIMA SORTITA DEI TOGATI DEL CSM CONTRO NORDIO Ermes Antonucci

 



ULTIMA SORTITA DEI TOGATI DEL CSM CONTRO NORDIO
Ermes Antonucci

L'ultima sortita dei togati del Csm: pratica a tutela contro Nordio
 24 gen 2025

Per i magistrati che siedono al Consiglio superiore della magistratura, Nordio nella sua relazione annuale ha delegittimato l'ordine giudiziario. Il consigliere laico Aimi: "Sconcertato dall'iniziativa dei miei colleghi. Il Csm non è la terza Camera"
Con un’iniziativa senza precedenti, tutti i componenti togati del Consiglio superiore della magistratura (più il laico in quota Pd, Roberto Romboli) hanno depositato al comitato di presidenza la richiesta di apertura di una pratica a tutela dell’ordine giudiziario, contestando le parole espresse mercoledì in Parlamento dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nella relazione annuale sullo stato della giustizia. “Il ministro Nordio nel descrivere l’attività del pubblico ministero, ha riferito di ‘clonazioni’ di fascicoli, di indagini ‘occulte ed eterne’, di ‘disastri finanziari’ descrivendo tali condotte come prassi diffuse e condivise dalle procure della Repubblica”, denunciano i togati del Csm. “Ha poi spiegato come i pubblici ministeri siano già ‘superpoliziotti’ che godono, però, delle garanzie dei giudici proponendo così un’erronea ricostruzione dell’attività del pm e del suo ruolo nell’attuale assetto ordinamentale”, aggiungono i consiglieri, concludendo che “le parole del ministro – pronunciate, peraltro, in una sede istituzionale – integrano un comportamento lesivo del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento alla credibilità della funzione giudiziaria”. L’iniziativa, oltre a essere senza precedenti, risulta ancora più sconcertante se si riascoltano le parole dette dal ministro Nordio in Parlamento.
 
Le riportiamo: “Nel sistema attuale il pm è già un superpoliziotto, con l’aggravante che godendo delle stesse garanzie del giudice egli esercita un potere immenso senza alcuna reale responsabilità. Oggi, infatti, il pm non solo dirige le indagini, ma addirittura le crea, attraverso la cosiddetta clonazione del fascicolo, svincolata da qualsiasi parametro e da qualsiasi controllo, che può sottoporre una persona a indagini occulte, eterne e che alla fine creano dei disastri anche finanziari nell’ambito dell’amministrazione della giustizia che sono irreparabili. Pensiamo a quante inchieste sono state inventate e si sono concluse con sentenze secondo cui il fatto non sussiste e sono costate milioni e milioni di euro in intercettazioni, tempi, in ora di lavoro perdute e altro”.
 
Si comprende bene il motivo per il quale i togati del Csm non siano entrati nel merito delle parole espresse da Nordio: perché non avrebbero avuto modo di smentirle. 
 
Come smentire che il pm sia oggi un superpoliziotto se egli “dispone direttamente della polizia giudiziaria” (art. 327 cpp), può acquisire notizie di reato “di propria iniziativa” (art. 330 cpp), svolgendo quindi attività volte a individuare persone, documenti, fonti ancor prima della formulazione della notizia di reato? Come smentire che il pm goda di un potere ampissimo privo di efficaci forme di responsabilità, come evidenziato anche da numerosi studiosi del settore? Come smentire il ricorso al metodo della “clonazione del fascicolo”, che consente ai pubblici ministeri di aprire indagini, archiviarle e poi riaprirle per un tempo indefinito (si veda il caso di Dell’Utri e Berlusconi, accusati da trent’anni a Firenze di essere mandante delle stragi di Cosa nostra del 1993-1994)? Come smentire il fatto che numerosissimi processi, magari preceduti anche da pesanti misure di custodia cautelare nei confronti dei soggetti coinvolti, finiscono con l’assoluzione degli imputati, che però nel frattempo hanno visto le loro esistenze distrutte? 
 
Interpellato dal Foglio, il consigliere laico del Csm Enrico Aimi si dice “sconcertato” dall’iniziativa dei suoi colleghi togati: “Il Csm non ha il compito di ergersi a censore delle parole espresse dal ministro della Giustizia, peraltro in Parlamento. Siamo veramente fuori dal garbo istituzionale. Il Csm non è la terza Camera”.
 
“Temo che l’imminenza delle elezioni per il rinnovo dei vertici dell’Anm e la riforma costituzionale della giustizia stiano creando un clima da campagna elettorale che porta ad alzare sempre di più l’asticella dello scontro istituzionale. Ciò che manca in questo momento è l’equilibrio”, aggiunge Aimi. “Ho il timore che questo clima arroventato possa perpetrarsi fino al referendum sulla separazione delle carriere”, conclude.
 












QUEGLI OSTAGGI DIMENTICATI Alfonso Lanzieri

 

QUEGLI OSTAGGI DIMENTICATI

Alfonso Lanzieri


[...] Nel tragico conflitto di Gaza, il ruolo di Hamas non è stato solo quello dell’innesco. Colpire il nemico e nascondersi tra la popolazione, sotto scuole e ospedali, portando con sé gli ostaggi, in modo da pervertire la morale da avvocata dei seviziati in salvacondotto per i seviziatori, ha strutturato il conflitto dal 7 ottobre in poi.[...]


Quegli ostaggi dimenticati: quando l'occultamento dei carnefici cancella le vittime | InOltre

Non ho le competenze per giudicare la solidità e le conseguenze future della tregua raggiunta tra Israele e Hamas, dopo 15 mesi di tremendo conflitto. Sono discorsi che spettano agli analisti. Posso però forse dire che la scarsa empatia verso gli ostaggi detenuti da Hamas è tra le cose che più mi hanno turbato. Tenuti sullo sfondo o infilati fugacemente nelle premesse, nei discorsi su Gaza sovente gli ostaggi hanno avuto un ruolo da comprimari, quando tutti sappiamo che un loro rilascio, avrebbe potuto comportare l’immediata cessazione del conflitto.

Quando si svelano in pubblico questi pensieri – mi è capitato all’inizio della guerra, poi sempre di meno, perché pandemia, Ucraina e Gaza hanno decostruito il mio feticcio del “dibattito”: le catastrofi non vengono solo per nuocere – dicevo che quando si svelano in pubblico questi pensieri, s’incontra una solita obiezione. Quest’ultima, con una mossa disonesta, getta sul tavolo le decine migliaia di morti di Gaza (le varie diatribe sulla correttezza delle cifre le terrei ora fuori, se permettete), esponendo l’interlocutore al ricatto morale: e di queste vittime qui non dici nulla? È un “eallorismo” da agit-prop dell’indignazione molto praticato sui social e, purtroppo, non solo dallo sciame anonimo del web, ma pure da qualche volto noto della comunicazione di massa.

Chi attua tale mossa si presta de facto (delle coscienze non intendo farmi giudice) alla strategia dei terroristi, che ben prima dell’inferno degli ultimi due anni, avevano premeditato l’utilizzo della strage di palestinesi usati come scudo, quale fideiussione politico-morale a proprio favore. E bisogna ammettere che ha funzionato. La spregevole indifferenza nichilista, mascherata da un afflato mistico che non cela la putrescenza della religione sfigurata a ideologia dell’odio, non è stata sufficientemente denunciata né adeguatamente inclusa tra i fattori imprescindibili per interpretare la guerra di Gaza.

Il punto non è scegliere le vite di quale popolo piangere di più, postura turpe e contraria al sentimento di umanità, che sicuramente qualcuno dei miei quattro o cinque lettori mi attribuirà comunque, visto il clima. Pazienza. Il sangue sparso di un bimbo palestinese grida al cielo come quello di un bimbo israeliano: entrambi erano venuti al mondo per ben altro destino che non essere massacrati dalla grande carnevalata del male che affligge la storia. La questione posta qui è l’occultamento dei carnefici che in automatico cancella le vittime.

Nel tragico conflitto di Gaza, il ruolo di Hamas non è stato solo quello dell’innesco. Colpire il nemico e nascondersi tra la popolazione, sotto scuole e ospedali, portando con sé gli ostaggi, in modo da pervertire la morale da avvocata dei seviziati in salvacondotto per i seviziatori, ha strutturato il conflitto dal 7 ottobre in poi. Perciò, quando si parla delle vittime palestinesi temperando o tacendo il ruolo di Hamas nell’averle rese tali, si fa loro un torto enorme, oltre a comprendere meno ciò che è accaduto fin qui. Quella parte mediatica che rimuove tutto ciò, e declama i numeri delle vittime solo per vincere la partita dialettica ideologicamente anti-Israele, strumentalizza in morte quelle persone che Hamas ha strumentalizzato in vita usandoli come scudi umani.

Nessuna sorpresa, allora, che gli appelli di liberazione dei circa 250 ostaggi israeliani, molti dei quali torturati e uccisi, non ci abbiano proprio sommersi, per dirla in maniera eufemistica, né che le manifestazioni pubbliche di biasimo alla condotta militare del governo Netanyahu, celebrate a decine nelle nostre piazze, abbiano riservato spazi angusti o inesistenti a nomi, volti e storie degli ostaggi. Se almeno per ogni “Stop al genocidio” (una giaculatoria della mostrificazione che meriterebbe un discorso a parte) ci fosse stato un “Rilasciate gli ostaggi”: purtroppo non è stato così.

Senza contare, poi, le scene in cui anche il solo nominare gli ostaggi o l’ostensione di manifesti che li ricordassero, ha generato reazioni stizzite. Per tacere dei cortei in cui si è inneggiato all’intifada, si è detto “Palestina libera dal fiume al mare” (cioè senza ebrei). Mentre si urlavano queste parole, il piccolo Kefir Bibas, sua mamma e il fratellino Ariel, erano da qualche parte nei tunnel di Hamas, tanto per dire. Rimossi i carnefici, in effetti, sono rimosse anche le vittime: quegli ostaggi, per molti, non erano vittime israeliane ma solo israeliani. A questo punto contava il gruppo umano di appartenenza, non la condizione in cui erano e purtroppo ancora sono.

Né pare faccia granché differenza il fatto che Hamas abbia accettato il cessate il fuoco, a patto però di rilasciare col contagocce inermi superstiti per vedersi restituire una parte del proprio notabilato terroristico. Come non ricordare, in questo orizzonte, le cavillose ricostruzioni degli stupri e delle esecuzioni di bimbi piccoli dell’attacco terroristico del 7/10, tutte tese a sminuire l’orrore, condotte con tanta pedanteria esegetica e tale dogmatico scetticismo, da tradire palesemente i preconcetti di chi indagava. Tolto il carnefice, tolta la vittima.

A distanza di 15 mesi dall’inizio del conflitto e all’alba, tra mille dubbi e preoccupazioni, di un periodo di tregua, è forse necessario ribadire a una parte del mondo che è sbagliato percepire gli ostaggi israeliani, quelli vivi e quelli morti, come la mossa disperata di oppressi costretti alla malvagità dalla storia: sono un’infame garanzia di carne umana rapinata da un gruppo di terroristi. Mentre scrivo queste righe, le emittenti televisive mostrano il rilascio di tre ostaggi israeliani. Tre giovani donne, Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher, sfilano tra miliziani armati e a volto coperto, in una piazza che ribolle, a stento tenuta dagli uomini coi mitra. Il cronista ripete che “stanno bene”.

Mi metto a pensare che forse l’incubo in cui siamo precipitati da troppo tempo si concluderà così, come in fondo si chiudono tutte le tragedie vere: non una parola solenne, un gesto potente, un’immagine storica, ma una banalità, tipo “gli ostaggi stanno bene”, poi due banalità, poi tre banalità. Le banalità si accumuleranno, formeranno un muro alto tra noi e l’orrore, e la ruota della storia tornerà a girare.