lunedì 23 dicembre 2019



IL CORPO (STAND BY ME)

ESTRATTO da Stagioni diverse
Stephen King

1

Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci sì vergogna, perché le parole le immiseriscono — le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov'è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portar via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.
Avevo dodici anni — quasi tredici — la prima volta che vidi un essere umano morto. Successe nel 1960, tanto tempo fa... anche se a volte non mi pare così lontano. Soprattutto la notte quando mi sveglio da quei sogni in cui la grandine cade nei suoi occhi aperti.

2

Avevamo una casa su un albero, un grande olmo che sovrastava un terreno vuoto a Castle Rock. Oggi in quel lotto c'è una società di traslochi, e l'olmo è scomparso. Progresso. Era una specie di circolo sociale, anche se non aveva nome. Eravamo cinque, forse sei, i fissi, più qualche altro di passaggio. Li facevamo salire quando c'era una partita a carte e avevamo bisogno di sangue fresco. Il gioco di solito era il blackjack e ci giocavamo solo qualche penny. Ma prendi il doppio, con blackjack e cinque carte sotto... e il triplo con sei carte sotto, anche se solo Teddy era così pazzo da tentarlo.
I fianchi della casa sull'albero erano delle assi che avevamo recuperato dal mucchio di rifiuti vicino alla Mackey Lumber & Building Supply di Carbine Road — erano piene di schegge e di buchi che otturavamo con la carta igienica o i tovagliolini di carta. Il tetto era una lastra di lamiera ondulata che avevamo predato dallo scarico, guardandoci alle spalle per tutto il tempo che la portavamo via, perché il cane del custode della discarica aveva fama di essere un vero e proprio mostro mangia-bambini. Trovammo una porta a zanzariera il giorno stesso. Era a prova di mosche, ma arrugginitissima — intendo dire, la ruggine era estrema. Poteva essere qualunque ora del giorno, ma quando si guardava da quella porta pareva sempre il tramonto.
Oltre a giocare a carte, il club era un buon posto per andare a fumare le sigarette e a guardare i giornali con le ragazze. C'era una mezza dozzina di portacenere di latta ammaccati che dicevano CAMEL sul fondo, una quantità di paginoni centrali attaccati alla parete scheggiata, venti o trenta mazzi di carte Bike tutte sciupate (Teddy se le faceva dare dallo zio, il proprietario della cartoleria di Castle Rock — quando lo zio di Teddy gli chiese un giorno a che giocavamo, lui gli disse che si facevano dei tornei di cribbage e lo zio giudicò che andasse bene), una serie di gettoni di plastica da poker, e una pila di vecchissime riviste poliziesche, Master Detective, da sfogliare quando non c'era altro da fare. Costruimmo anche un nascondiglio, 30 x 20, sotto il pavimento per nasconderci parte di questa roba per le rare occasioni in cui il padre di uno di noi decideva che era tempo di fare la scena siamo-proprio-buoni-amici. Quando pioveva, stare nel club era come stare in un tamburo giamaicano, quelli fatti con i bidoni... ma quell'estate di pioggia non ce n'era stata.
Era stata l'estate più calda e più secca dal 1907 — o così dicevano i giornali — e quel venerdì che precedeva il weekend del Labor Day e l'inizio di un altro anno di scuola, anche l'erba nei campi e i fossati lungo le strade avevano un'aria secca e miserabile. Nessuno era riuscito a ricavare niente dall'orto, quell'estate, tranne, forse, il vino di tarassaco.
Teddy, Chris e io eravamo su nel club quel venerdì mattina, considerando tristemente che la scuola era vicina e giocando a carte e scambiandoci le solite vecchie barzellette sui piazzisti e i francesi. Come sai che un francese è passato dal tuo cortile? Be', se trovi i bidoni dell'immondizia vuoti e la cagna incinta. Teddy ci provava, a mostrarsi offeso, ma era il primo a portare una barzelletta nuova appena la sentiva, cambiando solo il francese in polacco.
L'olmo dava una bella ombra, ma già ci eravamo tolti le camicie per non inzupparle troppo di sudore. Giocavamo a three-penny-scat, il gioco di carte più idiota mai inventato, ma faceva troppo caldo per pensare a qualcosa di più complicato. Avevamo avuto una discreta squadra di baseball fino a metà di agosto, ma poi un sacco di ragazzi se n'erano andati. Troppo caldo.
Io andavo a picche. Avevo cominciato con tredici, avevo avuto un otto e faceva ventuno, e da allora non era successo più niente. Chris batté. Io presi la mia ultima carta e non arrivò niente di utile.
«Ventinove», disse Chris, calando quadri.
«Ventidue», fece Teddy, con un'aria disgustata.
«Andate a farvi fottere», dissi io, e buttai le carte sul tavolo a faccia in giù.
«Gordie è fuori, il vecchio Gordie è fuori dalla porta», cantilenò Teddy, e poi se ne uscì con la sua risata brevettata Teddy Duchamp — Eee-eeeeee, come un chiodo arrugginito tirato fuori lentamente da una tavola marcia. Be', era un tipo strano, lo sapevamo tutti. Aveva quasi tredici anni come tutti noi, ma quelle lenti spesse e l'apparecchio acustico qualche volta lo facevano sembrare un vecchio. I ragazzi cercavano sempre di scroccargli una sigaretta, in strada, ma il rigonfio nella camicia era solo la batteria dell'apparecchio acustico.
Nonostante gli occhiali e il bottone color carne sempre infilato nell'orecchio, Teddy non vedeva molto bene e spesso non capiva quello che gli si diceva. A baseball bisognava metterlo in fondo, molto oltre Chris sulla sinistra e Billy Greer sulla destra. Si sperava solo che nessuno ne
lanciasse una così lontano perché Teddy le sarebbe andato dietro sparato, che la vedesse o meno. Ogni tanto ne prendeva una buona, e una volta finì in pieno contro la rete vicino all'albero della casa. Rimase steso sul dosso con gli occhi sbarrati per quasi cinque minuti, e io mi spaventai. Poi si riebbe e si mise a girare col naso sanguinante e un enorme livido blu sulla fronte, sostenendo che il tiro era irregolare.  Se la vista era cattiva per motivi naturali, non c'era niente di naturale in quello che gli era capitato alle orecchie. A quei tempi, quando era normale farsi tagliare i capelli in modo che le orecchie sporgevano come un paio di manici, Teddy portava il primo taglio alla Beatles mai visto a Castle Rock — quattro anni prima che in America si sentisse parlare dei Beatles. Si teneva le orecchie coperte perché sembravano due grumi di cera fusa.
Un giorno, quando aveva otto anni, il padre di Teddy si infuriò con lui perché aveva rotto un piatto. La madre era al lavoro nella fabbrica di scarpe quando successe, e quando lo venne a sapere era già tutto accaduto.
Il padre trascinò Teddy alla grande stufa a legna in fondo alla cucina e gli schiacciò il lato della testa contro una delle piastre di ferro dove si appoggiano le pentole per cucinare. Ce lo tenne per una decina di secondi. Poi lo tirò su per i capelli e fece l'altro lato. Poi chiamò l'ambulanza del
Central Maine General Emergency e disse di venire a prendere suo figlio. Poi mise giù il telefono, andò in salotto, prese il suo calibro 410 e si mise seduto a guardare la TV col fucile sulle ginocchia. Quando Mrs. Burroughs, l'inquilina della porta accanto, venne a vedere se Teddy stava bene — aveva sentito le urla — il papà di Teddy le puntò contro il fucile. Mrs. Burroughs schizzò dalla casa dei Duchamp più o meno alla velocità della luce, e chiamò la polizia. Quando arrivò l'ambulanza, Mr. Duchamp fece entrare i barellieri e poi uscì sul portico per rimanere di guardia mentre loro caricavano Teddy sulla vecchia ambulanza Buick con una barella.
Il papà di Teddy spiegò agli infermieri che anche se quei fottuti di generali dicevano che la zona era stata ripulita, c'erano ancora dappertutto dei crucchi franchi tiratori. Uno degli infermieri chiese al papà di Teddy se pensava di poter resistere. Il papà di Teddy fece un sorriso tirato e disse all'infermiere che avrebbe resistito finché l'inferno non fosse diventato un frigorifero, se necessario. Il barelliere fece il saluto, e il papà di Teddy gli rispose scattando. Qualche minuto dopo che l'ambulanza era andata via, arrivò la polizia di stato e sollevò Norman Duchamp dalla sua consegna.
Era più di un anno che stava facendo cose strane, tipo sparare ai gatti e accendere il fuoco nelle cassette postali, e dopo l'atrocità che aveva perpetrato sul figlio, gli fecero un processo rapido e lo spedirono a Togus, che è una specie di ospedale per veterani. Togus è dove devi andare se sei un sezione otto. Il papà di Teddy aveva preso la spiaggia di Normandia, come l'ha sempre messa Teddy. Teddy era orgoglioso del suo vecchio nonostante quello che gli aveva fatto, e andava a fargli visita tutte le settimane.
Era il più tardo di quelli con cui andavamo in giro, probabilmente, ed era matto. Correva i rischi più folli che si possano immaginare, e la faceva sempre franca. La cosa più grossa era quello che chiamava «scansacamion». Spuntava all'improvviso davanti ai camion, sulla 196, e a volte quelli lo mancavano per un pelo. Lo sa Dio quanti attacchi di cuore deve aver provocato, e rideva mentre il gas di scarico del camion che passava gli agitava i vestiti. Ci terrorizzava perché aveva una vista che faceva schifo, con o senza quegli occhiali a fondo di Coca cola. Pareva solo una questione di tempo, quando avrebbe finalmente sbagliato i conti con uno di quei camion. E bisognava star attenti a che cosa lo si sfidava a fare, perché Teddy, sfidato, avrebbe fatto qualsiasi cosa.
«Gordie è fuori, eeeeee-eee-eee!»
«Fottiti», dissi io, e raccolsi una copia di Master Detective per leggere mentre loro finivano di giocare. Aprii a «Pestò a morte la bella Co-Ed in un ascensore bloccato», e mi ci immersi.
Teddy prese le sue carte, diede una breve occhiata, e disse: «Busso».  «Quattr'occhi di merda!» gridò Chris.
«La merda ha mille occhi», disse Teddy gravemente, e Chris e io scoppiammo a ridere. Teddy ci fissò un po' accigliato come chiedendosi che cosa ci aveva fatto ridere. Questa era un'altra cosa tutta sua — se ne usciva sempre con delle frasi incredibili tipo «La merda ha mille occhi», e non potevi mai essere sicuro se voleva essere spiritoso o se era così per caso. Guardava sempre quelli che ridevano con quell'espressione leggermente accigliata, come per dire Oh, Dio, cosa c'è questa volta?
Teddy aveva un trenta reale — jack, regina, e re di fiori. Chris aveva solo sedici.
Teddy stava mischiando le carte con quel suo modo goffo e io ero quasi arrivato alla parte più succosa della storia dell'omicidio, dove questo marinaio sbalestrato di New Orleans stava facendo il Bristol Stomp su questa studentessa di Bryn Mawr perché non ce la faceva più a stare in un luogo chiuso, quando sentimmo qualcuno che saliva in fretta su per la scala inchiodata al tronco dell'olmo. Un pugno picchiò sulla parte inferiore della porta.
«Chi va là?» strillò Chris.
«Vern!» Appariva eccitato e senza fiato.
Andai alla porta e tirai il catenaccio. La porta si aprì e Vern Tessio, uno degli altri fissi, si tirò dentro il club. Era tutto sudato, e i capelli, che solitamente portava pettinati in una imitazione perfetta di Bobby Ryddel, il suo idolo del rock and roll, gli stavano incollati sul cranio a mazzetti. «Wow, gente», ansimò. «Aspettate a sentire questa.» «Sentire che?» chiesi io.  «Fatemi riprendere fiato. Sono venuto di corsa da casa.»
«Sono venuto di corsa da casa,» gorgheggiò Teddy in un terrificante falsetto alla Little Anthony, «solo per chiederti scu-u-sa...» «Fatti una sega, amico», disse Vern.
«Crepa stecchito dentro un cesso», ribatté argutamente Teddy.
«Vieni di corsa da casa tua?» chiese incredulo Chris. «Amico, sei pazzo.» La casa di Vern era a due miglia giù per Grand Street. «Dev'essere novanta miglia da lì a qua.»
«Ne valeva la pena», disse Vern. «Cristosantissimo. Non ci crederete.
Sinceramente.» Si batté la fronte sudata per mostrarci quanto fosse sincero.  «Va bene, ma che cosa?» chiese Chris.
«Potete dormire fuori in tenda stanotte?» Vern ci guardava con aria seria, eccitata. Gli occhi sembravano chicchi d'uva cacciati negli scuri cerchi di sudore. «Voglio dire, se dite ai vostri vecchi che dormiamo in tenda nel mio cortile?»
«Sì, io penso di sì», disse Chris, prendendo la sua nuova mano di carte e studiandola. «Ma mio padre è in vena cattiva. È bevuto, sapete.»
«Devi farlo, amico», disse Vern. «Sinceramente. Non ci crederete. Tu puoi, Gordie?»
«Probabilmente.»
Io potevo fare quasi tutto, di queste cose — anzi, in pratica ero stato come il «Ragazzo invisibile» per tutta l'estate. Ad aprile mio fratello maggiore, Dennis, era rimasto ucciso in un incidente di jeep. Era successo al Fort Benning, in Georgia, dove faceva l'addestramento da recluta. Lui e un compagno stavano andando allo spaccio e un camion dell'esercito li aveva presi di lato. Dennis era rimasto ucciso sul colpo e il suo passeggero era in coma fino da allora. Dennis avrebbe fatto ventidue anni alla fine di quella settimana. Gli avevo già comprato un biglietto di auguri al Dahlie's su a Castle Green.
Piansi quando lo seppi, e piansi ancora al funerale, e non riuscivo a credere che Dennis se ne fosse andato, che uno che mi picchiava in testa o mi spaventava con un ragno di gomma finché non mi mettevo a piangere o mi dava un bacio quando cadevo e mi sbucciavo tutt'e due le ginocchia e mi mormorava all'orecchio, «Ora basta piangere, moccioso!» — che una persona che mi aveva toccato potesse essere morta. Mi offendeva e mi spaventava che potesse essere morto... ma ai miei genitori pareva aver strappato via il cuore. Per me, Dennis era poco più che un conoscente. Aveva dieci anni più di me, capite, e aveva compagni e amici suoi. Mangiammo alla stessa tavola per un sacco di anni, e a volte era il mio amico e a volte il mio tormentatore, ma per lo più era, capite, solo un tizio. Quando morì era via da un anno a parte un paio di permessi. Non ci assomigliavamo neppure. Mi ci volle molto tempo dopo quell'estate per rendermi conto che la gran parte delle lacrime che piansi erano per mamma e papà. E fecero un sacco di bene a me, o a loro.
«Insomma di che stai blaterando, Vern-O?» chiese Teddy.  «Busso», fece Chris.
«Che cosa?» strillò Teddy, dimenticandosi immediatamente tutto di Vern.
«Bugiardo fottuto! Non è la mano tua. Non ho preso, non è la mano tua!»
Chris fece un ghigno. «Fai la tua presa, merdoso.»
Teddy allungò la mano verso il mazzo di Bikes. Chris prese il pacchetto di Winston sulla mensola dietro di lui. Io mi chinai per raccogliere la rivista poliziesca.
Vern Tessio disse: «Gente, volete vedere un morto?» Ci bloccammo tutti.

3

Lo avevamo sentito tutti alla radio, ovviamente. La radio, una Philco con la cassa spaccata raccolta anche lei dalla discarica dei rifiuti, era accesa tutto il tempo. La tenevamo sulla WLAM di Lewiston, che ci serviva la super-hit e i vecchi classici: «What in the World Come Over You» di Jack Scott e «This Time» di Xroy Shondell e «King Creole» di Elvis e «Only the Lonely» di Roy Orbison. Quando attaccava col notiziario di solito ci scattava un qualche interruttore mentale che la metteva a tacere. Le notizie erano sempre un cumulo di allegre puttanate su Kennedy e Nixon e Quemoy e Matsu e il gap dei missili e che merda dopo tutto si stava dimostrando quel Castro. Ma la storia di Ray Brower l'avevamo sentita tutti con un po' più di attenzione, perché era un ragazzo della nostra età.
Era di Chamberlain, una cittadina a una quarantina di miglia a est di Castle Rock. Tre giorni prima che Vern arrivasse sfinito al club dopo la corsa di due miglia per Grand Street, Ray Brower era uscito con una pentola della madre per raccogliere mirtilli. Quando si era fatto buio e lui non era ancora rientrato, i Brower chiamarono lo sceriffo di contea e iniziò una ricerca — prima limitata ai dintorni della casa del ragazzo e poi allargata ai paesi vicini di Motton e Durham e Pownal. Tutti si misero in attività — poliziotti, pompieri, guardiani delle riserve, volontari. Ma tre giorni dopo il ragazzo non era stato ancora trovato. Si capiva, sentendo la radio, che non avrebbero mai ritrovato vivo quel povero fesso; prima o poi la ricerca sarebbe semplicemente finita in niente. Poteva essere finito in una cava di pietre o annegato in una roggia, e tra dieci anni qualche cacciatore avrebbe ritrovato le ossa. Stavano già dragando gli stagni di Chamberlain, e il lago artificiale di Motton.
Una cosa del genere oggi non potrebbe succedere più nel Maine del sudovest; quasi tutta la zona si è suburbanizzata, e le comunità dormitorio attorno a Portland e Lewiston si sono allargate come tentacoli di un calamaro gigante. Le foreste ci sono ancora, e si fanno più fitte man mano che ci si inoltra verso le White Mountains, ma oggigiorno, se tieni la testa a posto abbastanza a lungo da camminare per cinque miglia nella stessa direzione, sei sicuro di incontrare una strada asfaltata a due corsie. Nel 1960 però tutta la zona tra Chamberlain e Castle Rock non era sviluppata, e c'erano punti dove non si era fatto legna da prima della seconda guerra mondiale. A quei tempi era ancora possibile entrare nella foresta, perdere l'orientamento e morirci.

4

Vern Tessio era stato sotto il suo portico, quella mattina, a scavare.
Noi lo capimmo subito tutti, ma forse è meglio che vi spieghi un attimo. Teddy Duchamp era poco intelligente, forse, ma neppure Vern Tessio avrebbe mai passato un minuto del suo tempo libero su College Bowl. Eppure, suo fratello Billy era ancora più idiota, come vedrete. Ma prima devo dirvi perché Vern stava scavando sotto il portico.
Quattro anni prima, quando aveva otto anni, Vern seppellì una brocca da un quarto piena di penny sotto il lungo portico davanti casa sua. Vern chiamava quel luogo buio sotto il portico la sua «caverna». Faceva una specie di gioco dei pirati, e i penny erano il tesoro sepolto — solo che se giocavate con Vern ai pirati non potevate chiamarlo tesoro sepolto, dovevate chiamarlo «bottino». Insomma, seppellì in profondità la brocca di monete, riempì la buca e coprì il terreno fresco con un po' delle foglie secche che aveva accumulato là sotto negli anni. Disegnò una mappa del tesoro e la mise in camera sua col resto della sua roba. Per un mesetto si scordò di tutto. Poi, a corto di soldi per il cinema o per qualcosa, si ricordò dei penny e andò a prendere la sua mappa. Ma la mamma aveva fatto pulizia due o tre volte da allora, e aveva raccolto tutti i vecchi fogli dei compiti e le carte dei dolci e i fumetti e i giornali di barzellette. Una mattina li aveva bruciati nella stufa per accendere il fuoco per cucinare, e la mappa del tesoro di Vern se n'era andata in fumo su per il camino.
O almeno lui così se l'era immaginato.
Aveva tentato di ritrovare il posto a memoria e si era messo a scavare. Non aveva avuto fortuna. A destra e a sinistra di quel punto. Ancora niente fortuna. Per quel giorno ci aveva rinunciato e da allora aveva fatto ancora qualche tentativo di tanto in tanto. Quattro anni, gente. Quattro anni. Non è pazzesco? Non sai se ridere o piangere.
Per lui era diventata una specie di ossessione. Il portico anteriore dei Tessio correva lungo tutto il fronte della casa, un dodici metri di lunghezza per due di larghezza. Aveva scavato fino all'ultimo dannato centimetro di quell'area, forse due o tre volte, e niente penny. Il numero delle monete cominciò a crescere nella sua mente. Quando per la prima volta lo disse a Chris e a me saranno state tre dollari di monetine. Un anno dopo era arrivato a cinque e da poco si avviava ai dieci, più o meno, a seconda di quanto era al verde.
Ogni tanto cercavamo di dirgli una cosa che per noi era chiarissima — Billy aveva saputo del vaso e lo aveva tirato fuori. Vern rifiutava di crederci, anche se odiava Billy come gli arabi odiano gli ebrei, e probabilmente avrebbe votato per la condanna a morte del fratello per un furto in un negozio, se si fosse presentata l'opportunità. Rifiutava d'altra parte di chiederlo chiaro e tondo a Billy. Probabilmente aveva paura che quello si mettesse a ridere e dicesse Certo che li ho presi io, imbecille, e c'erano penny per venti dollari e me li sono spesi fino all'ultimo centesimo. Invece, Vern usciva a scavare ogni volta che lo spirito lo spingeva (e che Billy non era in giro). E ogni volta strisciava da sotto il portico con i jeans sporchi e i capelli infangati e le mani vuote. Noi lo sfottevamo pesante su questa storia, e gli avevamo dato come soprannome Penny — Penny Tessio. Secondo me era venuto di corsa al club con la notizia non solo per darcela, ma per mostrarci che dai suoi scavi finalmente qualcosa di buono era venuto.
Si era alzato, quella mattina, prima degli altri, aveva mangiato i suoi cornflakes, ed era uscito a tirare il pallone nel vecchio canestro inchiodato sopra il garage, senza un gran che da fare, nessuno con cui giocare a Ghost o a nient'altro, e decise di farsi un'altra scavata in cerca dei penny. Era sotto il portico quando la porta a zanzariera si aprì sopra di lui. Rimase immobile, senza fare il minimo rumore. Se era suo padre, sarebbe strisciato fuori; se era Billy sarebbe rimasto lì finché Billy e il suo amico delinquente Charlie Hogan non se ne fossero andati.
Due paia di passi risuonarono sul portico, e poi Charlie Hogan in persona disse con una voce tremante, sul punto di piangere: «Gesù Cristo, Billy, che facciamo?»
Vern disse che solo sentire Charlie Hogan parlare così — Charlie, uno dei più duri della città — gli fece rizzare le orecchie. Charlie in fin dei conti se la faceva con Ace Merrill ed Eyeball Chambers, e se te la fai con gente del genere devi per forza essere un duro.
«Niente», disse Billy. «Questo è quello che facciamo. Niente.»
«Qualcosa dobbiamo farla», disse Charlie, e si sedettero sul portico proprio vicino a dov'era nascosto Vern. «Non lo hai visto?»
Vern si arrischiò a farsi un po' più vicino agli scalini, praticamente sbavando. A quel punto pensava che probabilmente Billy e Charlie, sbronzi marci, avevano investito qualcuno. Vern faceva la massima attenzione a non far rumore con le foglie secche mentre si muoveva. Se quei due scoprivano che c'era lui là sotto, e che li aveva sentiti, lo avrebbero ridotto in modo tale che quello che ne rimaneva potevate metterlo in un barattolo di cibo per cani Ken-L Ration.
«A noi non ci frega», disse Billy Tessio. «Il ragazzo è morto e così non gli frega nemmeno a lui. Chi se ne fotte se lo troveranno mai? Io no.»
«Era quello di cui parlava la radio», disse Charlie. «Era lui, quanto è vera la merda. Brocker, Brower, Flowers, come cazzo si chiama. Un fottuto treno deve averlo beccato.»
«Già», fece Billy. Rumore di un fiammifero sfregato. Vern lo vide cade- re sulla ghiaia e poi sentì l'odore del fumo di sigaretta. «E tu hai vomitato.»
Nessuna parola, ma Vern avvertì le onde emotive della vergogna che partivano da Charlie Hogan.
«Be', le ragazze non l'hanno visto», disse Billy dopo un po'. «Per fortuna.» Dal rumore, doveva aver battuto una mano sulla spalla di Charlie per tirarlo su. «Sono arrivate fin qui blaterando da Portland. Noi le abbiamo portate via di corsa, però. Dici che hanno capito che c'era qualcosa che non andava?»
«No», disse Charlie. «A Marie non piace andare giù per la Harlow Road dietro il cimitero, comunque. Ha paura dei fantasmi.» Poi di nuovo con quella voce spaventata e piagnucolosa: «Gesù, vorrei proprio che non avessimo preso quella macchina ieri sera! Potevamo andare solo al cinema come avevamo detto!»
Charlie e Billy andavano in giro con due che si chiamavano Marie Dougherty e Beverly Thomas; due tipe così rozze si vedono difficilmente fuori da uno spettacolo di carnevale — foruncoli, baffi, tutto quanto. Qualche volta loro quattro — o magari in sei o otto se c'erano anche Fuzzy Bracowicz o Ace Merrill con le ragazze — si facevano una macchina in un parcheggio di Lewiston e se ne andavano in giro per la zona con due o tre bottiglie di vino, Wild Irish Rose, e una confezione da sei di Ginger Ale. Portavano le ragazze a parcheggiare da qualche parte, a Castle View o a Harlow o a Shiloh, bevevano Purple Jesus, e se le facevano. Poi mollavano la macchina da qualche parte vicino casa. Brivido nella casa delle scimmie, come diceva Chris. Non li avevano mai beccati, ma Vern continuava a sperare. Lo entusiasmava l'idea di andare la domenica a trovare Billy al riformatorio.
«Se lo diciamo ai piedipiatti quelli vogliono sapere come diavolo siamo arrivati a Harlow», disse Billy. «La macchina non ce l'abbiamo, né io né tu.
La cosa migliore è tenere la bocca chiusa. Così non ci possono fare niente.»  «Potremmo fare una telefonata anonima», disse Charlie.
«Quelle fottute chiamate le rintracciano», disse Billy con aria sinistra.
«L'ho visto in Highway Patrol. E in Dragnet.»
«Già, è vero», disse Charlie avvilito. «Gesù. Se Ace fosse stato con noi.
Potevamo dire ai poliziotti che eravamo nella sua macchina.»
«Be', ma non c'era.»
«Già», fece Charlie. Sospirò. «Probabilmente hai ragione tu.» Un mozzicone di sigaretta rimbalzò sul vialetto. «Dovevamo proprio andare a pisciare sulle rotaie? Non potevamo andare dall'altra parte, no? E mi sono vomitato sulle scarpe nuove.» Abbassò la voce. «Quel fottuto ragazzo era proprio steso, lo sai? Tu l'hai visto quel figlio di troia, Billy?»
«L'ho visto», disse Billy, e un secondo mozzicone andò a raggiungere il primo sul vialetto. «Andiamo a vedere se Ace è sveglio. Voglio bere qualcosa.»
«Glielo diciamo?»
«Charlie, non lo diciamo a nessuno. A nessuno mai. Mi hai capito?»
«Ti ho capito», disse Charlie. «Cristo, vorrei che non avessimo preso mai quella fottuta Dodge.»
«Bah, chiudi quella fogna e vieni con me.»
Due paia di gambe in jeans scoloriti, due paia di piedi in stivaletti neri con la fibbia di lato, scesero gli scalini. Vern rimase immobile sulle mani e le ginocchia («Le palle mi erano risalite così in alto che pensavo adesso mi rientrano dentro», ci disse), sicuro che il fratello si sarebbe accorto di lui e lo avrebbe tirato fuori e ammazzato — lui e Charlie gli avrebbero tirato fuori a calci quel poco cervello che il Signore gli aveva messo tra le orecchie e poi gli sarebbero passati sopra con i loro stivali. Ma continuarono a camminare e quando Vern fu sicuro che se n'erano proprio andati, si era tirato fuori dal portico ed era corso fin qui.

5

«Hai avuto proprio fortuna», dissi io. «Ti avrebbero ammazzato sicuramente.»
Teddy disse: «Io la conosco la Black Harlow Road. Finisce sul fiume. Ci andavamo a pescare».
Chris annuì. «Una volta c'era un ponte, ma poi ci fu un'inondazione. Un sacco di tempo fa. Ora ci sono solo i binari del treno.»
«Ma è possibile che un ragazzo abbia fatto tutta la strada da Chamberlain a Harlow?» chiesi a Chris. «Sono venti o trenta miglia.»
«Penso di sì. Probabilmente è capitato sulle rotaie e le ha seguite. Magari pensava che l'avrebbero portato fuori, o magari che poteva fermare un treno, eventualmente. Ma è solo una linea per treni merci ora — la GS&WM su fino a Derry e Brownsville — e neanche di quelli ce ne sono più tanti ormai. Doveva camminare fino a Castle Rock per uscirne. Dopo il buio dev'essere finalmente comparso un treno... e ciack.»
Chris batté il pugno destro sul palmo sinistro, facendo un rumore piatto.
Teddy, veterano di tanti incontri a scansare camion sulla 196, appariva vagamente compiaciuto. Io sentivo un po' di nausea, immaginandomi quel ragazzo così lontano da casa, spaventato a morte ma che continua a seguire tenace i binari della GS&WM, probabilmente camminando sulle traversine per star lontano dai rumori notturni che arrivano dagli alberi in alto... e forse anche dalla ghiaia della massicciata della ferrovia. Ed ecco che arriva il treno, e forse il gran faro sul muso lo ipnotizza finché è troppo tardi per saltare. O forse se ne stava sdraiato lì sulle rotaie, svenuto per la fame, quando è arrivato il treno. In tutti e due i casi, in ogni caso, Chris ci aveva azzeccato: ciack era stato il risultato finale. Il ragazzo era morto.
«Allora, insomma, volete venire a vederlo?» chiese Vern. Continuava a gironzolare saltellando come se dovesse andare al gabinetto, tanto era eccitato.
Lo guardammo tutti a lungo, e nessuno diceva niente. Poi Chris buttò giù le sue carte e disse: «Certo! E scommetto qualunque cosa che avremo la foto sui giornali!» «Sì?» fece Vern.
«È vero?» disse Teddy, col suo sorriso folle da scansa camion.
«Pensate», disse Chris, allungandosi sul tavolo da gioco traballante. «Possiamo trovare il corpo e avvertire! Saremo nella cronaca!»
«Non so», disse Vern, evidentemente preso alla sprovvista. «Billy capirà come l'ho scoperto. Mi farà la pelle.»
«No invece», dissi io, «perché saremo noi a trovare quel ragazzo, non Billy e Charlie Hogan in una macchina rubata. Dopo non dovranno star più a preoccuparsi. Probabilmente ti daranno una medaglia, Penny.»
«Dici?» Vern ghignò, mostrando i suoi denti guasti. Era un sorriso imbambolato, come se il pensiero di Billy contento di qualcosa che aveva fatto lui agisse su di lui come un cazzotto al mento. «Sì, lo pensi davvero?» Anche Teddy sorrideva. Poi si accigliò e fece: «Oh-oh».
«Cosa?» chiese Vern. Aveva ripreso ad agitarsi, temendo che qualche obiezione importante all'idea avesse attraversato la mente di Teddy... o quello che passava per la mente di Teddy.
«I nostri», disse Teddy. «Se scopriamo il corpo di quel ragazzo giù a South Harlow domani, sapranno che non abbiamo passato la notte a campeggiare dietro casa di Vern.»
«Già», disse Chris. «Sapranno che siamo andati a cercare il ragazzo.»
«No invece», intervenni io. Mi sentivo strano — eccitato e spaventato insieme perché sentivo che potevamo farcela a passarla liscia. Quel misto di emozioni mi dava una sensazione di nausea e di mal di testa. Raccolsi le Bikes per avere qualcosa da fare con le mani e cominciai a mescolarle abilmente con i due mazzetti affiancati. Questo, e giocare a cribbage, erano tutto quello che avevo avuto da Dennis come eredità di fratello maggiore. Gli altri mi invidiavano quel modo di mescolare, e credo che tutti quelli che conoscevo mi avevano chiesto di mostrargli come funzionava... tutti tranne Chris. Solo Chris, immagino, capiva che insegnarlo a qualcuno sarebbe stato come dar via un pezzo di Dennis, e non ne avevo poi tanto da potermi permettere di distribuirne in giro dei pezzi.
Dissi: «Diremo che eravamo stufi di campeggiare da Vern perché lo avevamo fatto già tante volte. E così abbiamo deciso di andare a mettere il campo nei boschi. Scommetto che non ci sgrideranno neppure, perché saranno tutti eccitatissimi per quello che avremo trovato».
«Mio padre me le suonerà comunque», disse Chris. «Stavolta è proprio di un brutto umore.» Scosse tristemente la testa. «Al diavolo, una suonata la vale.»
«Okay», disse Teddy, alzandosi. Aveva ancora quel ghigno da pazzo, pronto a scoppiare da un momento all'altro nella sua risata acuta e gracidante.
«Vediamoci tutti da Vern dopo pranzo. Che diciamo della cena?»
«Tu, io e Gordie», disse Chris, «possiamo dire che mangiamo da Vern.»
«E io», fece Vern, «dirò a mia madre che ceno da Chris.»
Avrebbe funzionato, a meno che non si presentasse qualche emergenza che non potevamo controllare o a meno che qualcuno dei nostri genitori si ritrovasse insieme. E né a casa di Vern né a quella di Chris c'era il telefono. A quel tempo c'era ancora una quantità di famiglie che consideravano il telefono un lusso, soprattutto famiglie di basso livello. E nessuno di noi veniva da un ambiente di alta aristocrazia.
Mio padre era in pensione. Il padre di Vern lavorava al mulino e guidava ancora una DeSoto del 1952. La mamma di Teddy aveva una casa in Danberry Street e prendeva un inquilino ogni volta che poteva. Quell'estate non ne aveva; il cartello AFFITTASI CAMERA AMMOBILIATA era ri-
masto alla finestra del salotto fin da giugno. E il padre di Chris era sempre «di cattivo umore», più o meno; era un ubriacone che prendeva il sussidio di disoccupazione ora sì ora no — più sì che no — e passava la gran parte del suo tempo nella Sukey's Tavern con Junior Merrill, il vecchio di Ace Merrill, e un paio di altre spugne del posto.
Chris non parlava mai troppo di suo padre, ma sapevamo tutti che lo odiava come il veleno. Ogni paio di settimane, compariva segnato, graffi sulle guance e sul collo o un occhio gonfio e variopinto come un tramonto, e una volta venne a scuola con una grossa fasciatura dietro la testa. Altre volte non ci veniva affatto, a scuola. La madre gli faceva la giustificazione perché era troppo malconcio per venire. Chris era in gamba, davvero in gamba, ma faceva una quantità di assenze e Mr. Haliburton, l'agente che in paese si occupava della scuola, si presentava continuamente a casa di Chris, con la sua vecchia Chevrolet nera con l'adesivo NIENTE PASSAGGI sull'angolo del parabrezza. Se Chris bigiava e Berte (come lo chiamavamo — ma sempre alle sue spalle, è chiaro) lo coglieva, lo portava di peso a scuola e vedeva che Chris si prendesse una settimana di punizione. Ma se Berte scopriva che Chris era a casa perché il padre l'aveva menato, se ne andava via senza dire ba. Non mi venne in mente di mettere in dubbio questa scala di valori se non una ventina di anni dopo.
L'anno prima Chris era stato sospeso dalla scuola per tre giorni. Erano scomparsi i soldi del latte quando era il turno di Chris di raccoglierli e dato che lui era un Chambers di quei Chambers che non contano niente, si beccò la punizione anche se aveva sempre giurato di non essere stato lui. Fu quella volta che Mr. Chambers mandò Chris per una notte all'ospedale. Quando sentì che Chris era stato sospeso gli ruppe il naso e il polso destro. Chris veniva da una brutta famiglia, d'accordo, e tutti pensavano che avrebbe fatto una brutta fine... lui compreso. I suoi fratelli erano stati all'altezza delle aspettative del paese in maniera ammirevole. Frank, il maggiore, era scappato da casa quando aveva diciassette anni, si era arruolato nella marina ed era finito con una lunga condanna a Portsmouth per aggressione e violenza carnale. Il secondo, Richard (l'occhio destro era tutto strano e pieno di tic, e per questo tutti lo chiamavano Eyeball) aveva abbandonato la scuola al decimo delle superiori, e si era messo a farsela con Charlie e Billy Tessio e i loro amici delinquenti.
«Io dico che andrà tutto bene», dissi a Chris. «E John e Marty?» John e Marty DeSpain erano altri due membri fissi della nostra banda.
«Sono ancora via», disse Chris. «Torneranno non prima di lunedì.»  «Oh, peccato.»
«Allora siamo intesi?» chiese Vern ancora eccitato. Non voleva che la conversazione cambiasse argomento nemmeno per un minuto.
«Direi di sì», fece Chris. «Chi vuole fare un altro giro di carte?»
Nessuno. Eravamo troppo agitati per giocare a carte. Scendemmo dalla casa, scavalcammo la siepe del terreno abbandonato e giocammo un po' con la vecchia palla da baseball di Vern, ma neppure questo ci divertiva.  Non riuscivamo a pensare ad altro che a quel ragazzo Brower, abbattuto da quel treno, e a come l'avremmo visto, e che cosa era rimasto di lui su quel tratto dei binari. Verso le dieci volammo tutti a casa per accordarci con i genitori.

6

Arrivai a casa alle undici meno un quarto, dopo essermi fermato al drugstore e dare un'occhiata ai paperback. Lo facevo ogni paio di giorni per vedere se c'era qualche nuovo John D. MacDonald. Avevo un quarto di dollaro e pensavo che se ce n'era uno potevo prenderlo. Ma c'erano solo i vecchi, e li avevo letti quasi tutti una mezza dozzina di volte.
Quando arrivai a casa la macchina non c'era e mi ricordai che mia madre e qualcuna delle sue amiche erano andate a Boston a un concerto. Grande frequentatrice di concerti, mia madre. E perché no? Il suo unico ragazzo era morto e lei doveva pure far qualcosa per distrarsi. Probabilmente suona un po' amaro. E probabilmente se foste stati lì avreste capito perché la sentivo a quel modo.
Papà era fuori sul retro, a passare uno spruzzo leggero con la canna sul giardino in sfacelo. Se non vi accorgevate che era una causa persa dalla sua faccia scura, potevate farlo guardando direttamente il giardino. Il suolo era polvere di un grigio chiaro. Tutto era morto tranne il grano, che non era mai neppure arrivato a una sola spiga mangiabile. Papà diceva che non aveva mai saputo annaffiare un giardino; doveva essere madre natura o nessuno. Annaffiava troppo in un solo punto e annegava le piante. Quelle della fila dopo, morivano di sete. Non riusciva mai a trovare il giusto mezzo. Ma non ne parlava volentieri. Aveva perso un figlio in aprile e un giardino in agosto. E se non voleva parlare né dell'uno né dell'altro, immagino che fosse suo diritto. Quello che mi seccava era che aveva smesso di parlare anche di tutto il resto. Questo era portare la democrazia un po' troppo in là.
«Ciao papà», dissi, avvicinandomi e offrendogli i Rollos che avevo comprato al drugstore. «Ne vuoi uno?»
«Salve Gordon. No, grazie.» Continuò a spargere il getto fine sulla terra disperatamente grigia.
«Va bene se stanotte facciamo un campo dietro casa di Vern Tassio con qualcuno dei ragazzi?»
«Quali ragazzi?»
«Vern. Teddy Duchamp. Forse Chris.»
Mi aspettavo che attaccasse subito con Chris — che brutta compagnia era Chris, la mela marcia, un ladro, futuro delinquente.
Ma si limitò a sospirare e disse: «Direi che va bene».
«Magnifico! Grazie!»
Mi girai per entrare in casa e vedere cosa c'era alla tele quando lui mi fermò con: «Quella gente sono gli unici con cui ti fa piacere stare, vero Gordon?»
Lo guardai, pronto a una discussione, ma non c'erano discussioni per lui quella mattina. Sarebbe stato meglio, se ci fossero state, credo. Le spalle gli cascavano. La faccia, rivolta al giardino morto e non a me, cedeva. C'era nei suoi occhi una certa luce innaturale, che poteva essere di lacrime.  «Ma papà, sono a posto...»
«Come no. Un ladro e due mezzi scemi. Bella compagnia per mio figlio.»
«Vern Tessio non è mezzo scemo», protestai. Teddy era un caso più difficile da sostenere.
«Dodici anni e ancora in quinta», disse mio padre. «E dorme per tutto il tempo. Quando arriva il giornale della domenica, ci mette un'ora e mezza a leggere la pagina delle barzellette.»
Questo mi fece infuriare, perché non mi pareva giusto. Stava giudicando Vern come giudicava tutti i miei amici, per averli visti una volta tanto, dentro e fuori di casa. Aveva torto. E quando chiamava ladro Chris mi faceva vedere rosso, perché lui di Chris non sapeva niente. Avrei voluto dirglielo, ma se lo facevo uscire dai gangheri poi non mi avrebbe lasciato andare la notte. E non era proprio arrabbiato, come gli capitava qualche volta a cena, che si metteva a predicare finché nessuno aveva più voglia di mangiare. Ora appariva solo triste, stanco e consumato. Aveva sessantatré anni, abbastanza da essere mio nonno.
Mia madre ne aveva cinquantacinque — neppure lei proprio una pollastrella. Quando lei e papà si erano sposati si erano messi subito d'impegno per fare famiglia e mia mamma era rimasta incinta e però aveva abortito. Abortì altre due volte e il dottore le disse che non sarebbe stata mai in grado di portare a termine una gravidanza. Tutta questa storia me la dovevo sorbire, per filo e per segno, ogni volta che mi facevano la predica, capite. Volevano farmi pensare che ero una specie di dono speciale del Cielo e che non apprezzavo la mia grande fortuna per essere stato concepito quando mia madre aveva quarantadue anni e cominciava a fare i capelli grigi. Io la mia grande fortuna non l'apprezzavo, e non apprezzavo le sue pene tremende e i suoi sacrifici neppure.
Cinque anni dopo che il dottore aveva detto a mamma che non avrebbe mai avuto un bambino, lei rimase incinta di Dennis. Lo portò per otto mesi, dopo di che lui fu come se cadesse fuori, con tutti i suoi tre chili e sei — mio padre diceva sempre che se avesse portato Dennis a termine, il piccolo sarebbe nato di sette chili. Il dottore disse: Be', qualche volta la natura ci prende in giro, ma questo sarà l'unico che mai avrete. Ringraziate Iddio per lui e siate contenti. Dieci anni dopo rimase incinta di me. Non solo mi portò a termine, ma il dottore do ette usare il forcipe per tirarmi fuori. Avete mai sentito di una famiglia così fottuta? Venni al mondo come figlio di due consumatori di Gerovital, non per insistere, e il mio solo fratello giocava a baseball nel parco dei ragazzi grandi ancora prima che io smettessi i pannolini.
Nel caso di mia madre e mio padre, un dono di Dio era stato abbastanza. Non dico che mi trattavano male, e sicuramente non mi hanno mai picchiato, ma ero una grossa sorpresa, e immagino che quando uno ha passato i quaranta non è più tanto contento delle sorprese come quando aveva vent'anni. Dopo che fui nato, mamma si fece quell'operazione che le sue amiche chiamano il «Band-Aid». Immagino che volesse essere sicura al cento per cento che non ci sarebbero stati più doni di Dio. Quando sono andato al college ho scoperto che l'ho scampata per un pelo dall'essere nato ritardato... anche se penso che mio padre aveva i suoi dubbi quando vedeva che avevo per amici gente come Vern, che ci metteva dieci minuti a decifrare i dialoghi di Beetle Baily.
Questa faccenda sull'essere ignorato: non riuscii a chiarirmela bene finché non ebbi da fare una relazione a scuola, su un libro che si intitolava L'uomo invisibile. Quando accettai di fare il libro per Miss Hardy pensavo che era il romanzo di fantascienza di quel tipo bendato — nel film lo faceva Claude Rains. Quando mi accorsi che era un'altra storia tentai di restituire il libro, ma Miss Hardy non lasciò che mi sganciassi. Alla fine fui contentissimo. Questo Uomo invisibile parla di un negro. Nessuno si accorge della sua esistenza se non quando fa dei casini. La gente gli guarda attraverso. Quando parla, non risponde nessuno. È come un fantasma nero. Una volta che mi ci fui immerso, mi divorai il libro come se fosse un romanzo di John D. MacDonald, perché era di me che questo Ralph Ellison scriveva. A cena era tutto un Denny quanti fuoricampo hai fatto e Denny chi hai invitato al ballo di Sadie Hopkins e Denny volevo parlarti da uomo a uomo di quella macchina a cui stiamo pensando. Io dicevo: «Passami il burro» e papà diceva: Denny sei sicuro che l'esercito è proprio quello che vuoi? Io dicevo: «Passami il burro, sì?» e mamma chiedeva a Denny se voleva che gli prendesse una delle camicie Pendleton in vendita in paese, e io finivo col prendermi il burro da solo. Una sera che avevo nove anni, giusto per vedere che sarebbe successo, dissi: «Per favore mi passi quelle stramaledette schife di patate?» e mia madre disse: Denny, la zia Grace ha chiamato oggi e ha chiesto notizie di te e di Gordon.
La sera in cui Dennis si diplomò a pieni voti alla Castle Rock High School io finsi di star male e rimasi a casa. Chiesi a Royce, il fratello maggiore di Stevie Darabont, di comprarmi una bottiglia di Wild Irish Rose e me ne scolai mezza e poi a metà nottata vomitai nel letto.
In una situazione familiare del genere, quello che può succedere è o che odi tuo fratello grande o che lo idolatri disperatamente — almeno questo ti insegnano a psicologia al college. Stronzate, eh? Per quello che posso dire, non mi sentivo né in un modo né nell'altro, con Dennis. Litigavamo raramente e mai ci facemmo una scazzottata. Sarebbe stato ridicolo. Ve lo vedete uno di quattordici anni che cerca un pretesto per suonarle al fratello di quattro? E i nostri vecchi erano sempre un po' troppo impressionati da lui per appesantirlo della cura del piccolo, per cui non ha mai avuto nei miei confronti quel risentimento che spesso i fratelli maggiori provano per i più piccoli. Quando Denny mi portava con sé da qualche parte era sempre di sua volontà, e quelle occasioni sono tra i momenti più felici che posso ricordare.
«Ehi, Lachance, chi cazzo è questo?»
«È mio fratello piccolo e tu farai bene a badare a come parli, Davis.
Guarda che te le suona. Gordie è un duro.»
Si riuniscono attorno a me per un momento, enormi, alti in maniera impossibile, solo un attimo di interessamento come un lampo di sole. Sono così grossi, sono così grandi.
«Ehi piccolo! Questo qui è davvero tuo fratello grande?» Faccio di sì con la testa, timidamente.
«È un gran rotto in culo, eh, piccolo?»
Io faccio ancora di sì e tutti, Dennis compreso, si sganasciano dalle risate. Poi Dennis batte le mani due volte, secco, e dice: «Allora, vogliamo allenarci o starcene attorno come un branco di fighette?»
Corrono a mettersi in posizione, già passandosi la palla per il campo interno.
«Vai a sederti laggiù sulla panchina, Gordie. Stai buono. Non dar fastidio a nessuno.»
Io vado a sedermi laggiù sulla panchina. Sto buono. Mi sento incredibilmente piccolo sotto quelle dolci nuvole estive. Guardo mio fratello che lancia. Non do fastidio a nessuno.
Ma non erano tanti i momenti così.
A volte mi leggeva prima di dormire storie che erano più belle di quelle di mamma; le storie di mamma erano sull'Uomo di pan di zenzero o sui Tre porcellini, roba buona, ma quelle di Dennis erano storie come Barbablu e Jack lo Squartatore. E, come ho già detto, mi insegnò a giocare a cribbage e a mescolare le carte in quel modo. Non tanto, ma, ehi! in questo mondo si prende quel che si può: ho torto?
Crescendo, i miei sentimenti di amore per Dennis furono sostituiti da un timore reverenziale pressoché clinico, quel genere di timore che i cristiani così così provano per Dio, credo. E quando morì, fui moderatamente scosso e moderatamente rattristato, come penso che dovettero sentirsi quei cristiani così così quando Time disse che Dio era morto. Mettiamola così: mi dispiacque per la morte di Denny come quando sentii alla radio che era morto Dan Blocker. Li vedevo tutti e due praticamente con la stessa frequenza, e Denny non ebbe mai nemmeno una replica in televisione.
Fu sepolto in una bara chiusa, con la bandiera americana sopra (tolsero la bandiera dalla cassa prima di metterla finalmente nella fossa e la piegarono — la bandiera, non la cassa — a tricorno e la diedero a mia madre). I miei genitori andarono proprio in pezzi. Quattro mesi non erano stati sufficienti per rimetterli insieme; non sapevo se ci sarebbero mai tornati. Mr. e Mrs. Dumpty, che tutti gli uomini e i cavalli del re non riuscirono a rimettere in piedi. La camera di Denny era rimasta come un'immagine bloccata a una porta di distanza dalla mia — un'immagine bloccata o forse una curva del tempo. I gagliardetti del college Ivy League erano ancora sulle pareti, e le foto delle ragazze con cui aveva avuto degli appuntamenti erano ancora infilate nella cornice dello specchio, davanti al quale se ne stava per periodi che parevano di ore a pettinarsi alla Elvis. I cumuli di True e di Sports Illustrated erano rimasti sulla sua scrivania, con le date che apparivano sempre più antiche col passare del tempo. Il genere di cose che si vedono nei film strappalacrime. Ma per me non era sentimentale, era terrificante. Non entravo in camera di Denny se non ci ero costretto perché mi aspettavo sempre che lui fosse dietro la porta o sotto il letto, o nell'armadio. Soprattutto era l'armadio che sollecitava la mia fantasia e se mia madre mi mandava a prendere l'album di cartoline di Denny, o la scatola da scarpe con tutte le foto, per guardarle, immaginavo quella porta che si apriva lentamente mentre io rimanevo incatenato sul posto dall'orrore. Lo immaginavo pallido e coperto di sangue nell'oscurità, il lato della testa schiacciato, un impasto grigio e venoso di sangue e cervello secco sulla camicia. Immaginavo il braccio che si alzava, le mani insanguinate piegarsi ad artiglio, e la voce gracchiare: Dovevi essere tu, Gordon. Dovevi essere tu.

7

Stud City, di Gordon Lachance. Pubblicato originariamente in Greenspun Quarterly, n. 45, autunno 1970. Per gentile concessione.

MARZO
Chico è alla finestra, le braccia incrociate, i gomiti sulla cornice che divide le lastre superiori da quelle inferiori, nudo, lo sguardo verso l'esterno, il fiato che appanna il vetro. Uno spiffero gli sfiora il ventre. La lastra inferiore di destra manca. Al suo posto un pezzo di cartone.  «Chico.»
Non si gira. Lei tace. Lui ne vede il fantasma sul vetro, nel letto, seduta, le coperte tirate su in apparente disprezzo della forza di gravità. Il trucco le si è sbavato disegnandole solchi profondi attorno agli occhi.
Chico sposta lo sguardo oltre il fantasma, fuori oltre la casa. Piove. Chiazze di neve semisciolta rivelano il terreno nudo di sotto. Vede l'erba morta dell'anno prima, un giocattolo di plastica — di Billy — un rastrello arrugginito. La Dodge di suo fratello Johnny è sui ceppi, le ruote senza copertoni sporgono come tronchi. Ripensa a quelle volte che lui e Johnny ci lavoravano, ascoltando le super-hit e i vecchi classici della WLAM di Lewiston serviti dal vecchio transistor di Johnny — un paio di volte Johnny gli aveva dato una birra. Correrà forte, diceva Johnny. Si mangerà tutti su questa strada da Gates Falls a Castle Rock. Vedrai quando ci mettiamo quel cambio Hearst!
Ma quello era allora, e questo era ora.
Al di là della Dodge di Johnny c'era l'autostrada. La Route 14, va da Portland e New Hampshire sud su fino alla Canada nord, se svolti a sinistra sulla U.S. 1 a Thomaston.
«Stud City», dice Chico al vetro. Tira una boccata dalla sigaretta.
«Come?»
«Niente, piccola.»
«Chico?» La sua voce è perplessa. Bisognerà cambiare le lenzuola prima che torni papà. Ha perso sangue.
«Cosa?»
«Ti amo, Chico.»
«Bene.»
Marzo schifoso. Sei una vecchia puttana, pensa Chico. Lercia traballante vecchia tettecascanti puttana di mese con la pioggia sulla faccia. «Questa era la stanza di Johnny», dice d'un tratto.
«Chi?»
«Mio fratello.»
«Oh. Dov'è?»
«Sotto le armi», dice Chico, ma Johnny non è sotto le armi. Era andato a lavorare l'estate prima all'Oxford Plains Speedway e una macchina ha perso il controllo ed è uscita di pista verso l'area dei box. dove Johnny stava cambiando i pneumatici posteriori a una Chevy. Qualcuno gli ha gridato di fare attenzione ma Johnny non l'ha sentito. Uno di quelli che gridavano era il fratello di Johnny, Chico.
«Non hai freddo?» gli chiede lei.  «No. Be', ai piedi. Un po'.»
E all'improvviso pensa: Be', Dio mio. Non è successo niente a Johnny che non possa succedere anche a te, prima o poi. Lo rivede ancora, però: La Ford Mustang che slitta, scivola, le vertebre della spina dorsale del fratello che spiccano come una serie di ombre sulla maglietta bianca; era curvo, a togliere uno dei copertoni della Chevy. C'era stato il tempo di vedere la gomma schizzare dalle ruote della Mustang impazzita, di vedere la marmitta ciondolante mandare scintille dall'asfalto. Aveva colpito Johnny nel momento in cui cercava di rimettersi in piedi. Poi la vampata gialla delle fiamme.
Be', pensa Chico, sembrava al rallentatore, e pensa a suo nonno. Odore di ospedale. Infermiere giovani e carine che portano le padelle. Un ultimo respiro come carta. Dov'è finita la buona creanza?
Rabbrividisce e pensa a Dio. Tocca la medaglietta di San Cristoforo appesa alla catenina che porta al collo. Non è cattolico e sicuramente non è messicano: il suo vero nome è Edward May e i suoi amici lo chiamano Chico perché ha i capelli neri e li pettina con il Brylcreem e porta stivali a punta e tacchi alla cubana. Non è cattolico, ma porta questa medaglietta. Forse se Johnny ne avesse avuta una, la Mustang impazzita lo avrebbe mancato. Non si sa mai.
Fuma e guarda dalla finestra e dietro di lui la ragazza scende dal letto e gli si avvicina rapida, a passettini, forse temendo che lui possa girarsi e guardarla. Gli mette una mano calda sulla schiena. Gli spinge i seni contro il braccio. Gli tocca la natica col ventre.
«Oh, ma fa freddo.»
«È questo posto.»
«Mi ami, Chico?»
«Ci puoi scommettere», dice lui senza pensare, e poi, più serio: «Eri una ciliegia.»
«Come sarebbe...»
«Eri vergine.»
La mano di lei sale. Un dito segue la curva della nuca. «Te l'avevo detto, no?»
«È stato brutto? Ti ha fatto male?»
Lei ride. «No. Ma avevo paura.»
Guardano la pioggia. Una Oldsmobile nuova passa per la 14, alzando una scia di acqua.
«Stud City», dice Chico.
«Che?»
«Quello. Sta andando a Stud City. Con la sua macchina nuova.»
Lei bacia il punto dove teneva il dito, delicatamente, e lui fa un gesto per scacciarla come fosse una mosca.
«Cos'hai?»
Lui si gira. Lei abbassa gli occhi per un attimo al suo pene e poi li rialza in fretta. Si stringe tra le braccia per coprirsi, poi si ricorda che al cinema non fanno mai una cosa così e le lascia ricadere lungo i fianchi. I suoi capelli sono neri e la sua pelle è bianca come l'inverno, del colore della panna. I seni sono solidi, la pancia forse un po' sporgente. Un difetto, pensa Chico, per ricordare che questo non è un film.
«Jane?»
«Sì?» Sente che è pronto. Non che comincia a sentirsi, ma che è pronto.
«Tutto bene», dice lui. «Siamo amici.» La squadra lentamente, dappertutto. Quando torna con gli occhi sul suo viso, lo vede avvampato. «Ti dispiace che ti guardo?»
«Io... no. No, Chico.»
Indietreggia, chiude gli occhi, siede sul letto e si stende, a gambe aperte.  Lui vede tutto. I muscoli, i piccoli muscoli all'interno delle cosce... guizzano incontrollati, e questo improvvisamente lo eccita più dei coni tesi dei suoi seni o del rosa perla della fica. L'eccitazione gli trema dentro, come un pupazzo su una molla. L'amore può essere una cosa divina come dicono i poeti, ma il sesso è Bozo il pagliaccio che saltella su una molla. Come fa una donna a guardare un pene in erezione senza scoppiare in un mare di risate pazze?
La pioggia batte sul tetto, contro la finestra, contro il foglio di cartone ormai inzuppato che chiude la parte inferiore, senza vetro, della finestra. Si preme la mano sul petto, prendendo l'aria, per un momento, di un antico romano sul punto di declamare un'orazione. La mano è fredda. La lascia ricadere sul fianco.
«Apri gli occhi. Siamo amici, ho detto.»
Obbediente, li riapre. Lo guarda. Ora i suoi occhi appaiono violetti. La pioggia che scorre sui vetri le traccia sul viso un mobile disegno, sul collo, sui seni. Stesa sul letto, il ventre ora è piatto. È perfetta in questo momento.  «Oh», dice. «Oh Chico, mi pare così curioso.» Un brivido l'attraversa. Involontariamente ha contratto le dita dei piedi. Lui le può vedere il collo del piede. È rosa. «Chico. Chico.»
Fa un passo verso di lei. Ha il corpo che gli trema, e lei tiene gli occhi spalancati. Gli dice qualcosa, una sola parola, ma lui non capisce. Non è il momento di chiedere. Si inginocchia quasi, davanti a lei, solo per un attimo, fissando il pavimento con accigliata concentrazione, toccandole le gambe appena sopra le ginocchia. Misura la marea che ha dentro. La sua spinta è priva di asprezza, fantastica. Si ferma ancora un po'.
L'unico suono è il ticchettio della sveglia sul comodino, appoggiata con le gambe di ottone sopra una pila di fumetti dell'Uomo Ragno. Il respiro di lei si fa sempre più rapido. I suoi muscoli scivolano lisci mentre si tuffa in avanti. Cominciano. Questa volta è meglio. Fuori, la pioggia continua a lavar via la neve.
Mezz'ora dopo Chico la riscuote da un leggero torpore: «Dobbiamo muoverci», dice. «Papà e Virginia saranno a casa ben presto.»
Lei guarda il suo orologio e si mette a sedere. Stavolta non tenta di coprirsi. Tutto il suo tono — il linguaggio del suo corpo — è cambiato. Non che sia maturata (anche se probabilmente lei ne è convinta) o che abbia imparato qualcosa di più complesso che allacciarsi le scarpe, ma il suo tono è ugualmente cambiato. Lui annuisce e lei gli sorride incerta. Lui allunga il braccio verso il comodino per prendere le sigarette. Mentre lei si infila le mutandine, lui ripensa a una vecchia canzone: Continua a giocare finché io finisco di sparare, Blue... gioca ancora, gioca. «Tie Me Kangaroo Down», di Rolf Harris. Sorride. Era una canzone che Johnny cantava sempre.
Lei si allaccia il reggiseno e comincia ad abbottonarsi la camicetta. «Di che stai sorridendo, Chico?» «Niente», dice lui.
«Mi tiri su la lampo?»
Lui le si avvicina, ancora nudo, e le tira su la lampo. Le dà un bacio sulla guancia. «Vai pure in bagno a rifarti la faccia, se vuoi», le dice. «Solo non metterci troppo, sì?»
Lei attraversa il corridoio con grazia, e Chico la osserva, fumando. È una ragazza alta — più alta di lui — e deve un po' abbassare la testa entrando in bagno. Chico trova le mutande sotto il letto. Le butta nel sacchetto dei panni sporchi appeso all'interno della porta dell'armadio, e ne prende un altro paio dalla cassettiera. Le infila e poi, tornando verso il letto, scivola e quasi cade su una pozza di umidità che il quadrato di cartone ha lasciato entrare.  «Maledizione», mormora irritato.
Guarda in giro per la stanza, che era di Johnny quando era vivo (perché le ho detto che era sotto le armi, per l'amor del cielo? si chiede... un po' a disagio). Pareti di cartone, così sottili che può sentire papà e Virginia andare avanti tutta la notte, pareti che non arrivano neppure fin sotto il soffitto. Il pavimento ha una leggera inclinazione, così che la porta rimane aperta solo se la blocchi — se te ne dimentichi, sbatte non appena volti le spalle. Sulla parete di fronte c'è un poster di Easy Rider — Due Uomini Vanno in Cerca dell'America e Non Riescono a Trovarla. La stanza aveva più vita quando Johnny viveva qui. Chico non sa come né perché; sa solo che è così. E sa anche qualche altra cosa. Sa che qualche volta di notte la stanza è viva. A volte pensa che l'anta dell'armadio si aprirà e Johnny sarà lì, il corpo bruciato e contorto e annerito, i denti come spuntoni gialli che sporgono da una cera parzialmente fusa e indurita di nuovo; e Johnny che sussurra: Fuori dalla mìa stanza, Chico. E se allunghi una mano sulla mia Dodge, ti ammazzo.
Capito?
Capito, fratello, pensa Chico.
Per un attimo rimane immobile, guardando le lenzuola disfatte macchiate del sangue della ragazza, e poi tira su la coperta con un gesto veloce. Qui. Proprio qui. Ti piace, Virginia? Ti va? Si infila i pantaloni, gli stivali, cerca un maglione.
Si sta pettinando davanti allo specchio quando lei viene fuori dal bagno. Ha un'aria di classe. Il suo ventre un po' molle non si vede. Guarda il letto, qualche ritocco, e ora sembra rifatto anziché solo messo a posto.  «Bene», dice Chico.
Lei ride un po' imbarazzata e si spinge un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. È un gesto allusivo, intenso.
«Andiamo», dice lui.
Escono attraversando il corridoio e il soggiorno. Jane si ferma davanti a una foto a colori sopra il televisore. Raffigura suo padre e Virginia, Johnny in età da superiori, Chico in età da elementari e Billy bambino — nella foto Johnny tiene in braccio Billy. Hanno tutti un sorriso fisso, irrigidito... tutti tranne Virginia, sulla cui faccia c'è il suo sonnacchioso, indecifrabile io.
Quella foto, ricorda Chico, fu fatta meno di un mese dopo che il padre sposasse quella cagna.
«Tuo padre e tua madre?»
«Mio padre», dice Chico. «Lei è la mia matrigna, Virginia. Andiamo.»
«È ancora così carina?» chiede Jane, prendendo il cappotto e porgendo a Chico la giacca a vento.
«Probabilmente il mio vecchio crede di sì.»
Escono nella rimessa. È un posto umido e pieno di spifferi — il vento sibila attraverso le fessure delle sue pareti improvvisate. C'è un mucchio di vecchi copertoni consumati, la vecchia bici di Johnny che Chico ha ereditato quando aveva dieci anni e che ha ben presto rovinato, una pila di riviste poliziesche, un cesto da arance pieno di libri tascabili, un vecchio disegno da colorare di un cavallo ritto su un prato verde polveroso.
Chico l'aiuta a farsi strada verso l'uscita. La pioggia continua a cadere con una costanza avvilente. La vecchia macchina di Chico sta in mezzo a una pozzanghera sul vialetto, con un'aria malmessa. Anche sui ceppi e con un pezzo di plastica dove dovrebbe andare il parabrezza, la Dodge di Johnny ha più classe. La macchina di Chico è una Buick. La vernice è opaca e punteggiata di macchie di ruggine. Sulla tappezzeria del sedile anteriore è stata distesa una coperta marrone dell'esercito. Un grosso bottone attaccato al parasole dalla parte del passeggero dice: LO FAREI TUTTI I GIORNI. C'è un motorino di avviamento arrugginito; se mai dovesse smettere di piovere, pensa, lo pulirà e magari lo metterà alla Dodge. O forse no.
La Buick ha un odore di umido e anche il suo motorino gracchia un bel po' prima che l'auto si metta in moto.
«È la batteria?» chiede lei.
«Solo quest'accidenti di pioggia, credo.» Esce sulla strada a marcia indietro, aziona i tergicristalli e si ferma un attimo a guardare la casa. Ha un colore d'acqua assolutamente poco invitante. La rimessa sporge dalla casa di sbieco, con le sue pareti scrostate di cartone catramato.
La radio attacca a blaterare e Chico la spegne subito. Avverte l'inizio di un mal di testa da pomeriggio domenicale dietro la fronte. Superano la Grange Hall, la caserma dei pompieri e il Brownie's Store. La T-Bird di Sally Morrison è parcheggiata vicino alla pompa dell'aria del Brownie's e Chico alza una mano per salutarla mentre svolta nella vecchia strada di Lewiston.
«Chi era?»
«Sally Morrison.»
«Bella donna.» Molto neutrale.
Cerca le sigarette. «È stata sposata due volte e ha divorziato due volte. Ora se la farebbe tutta la città, se credi alla metà delle chiacchiere che si fanno in questo schifo di paese.»
«Sembra giovane.»
«Lo è.»
«Tu l'hai mai...»
Le appoggia una mano sulla gamba e sorride. «No», dice. «Forse mio fratello, ma io no. Mi piace Sally, però. Lei ha i suoi alimenti e la sua grande Bird bianca, non le importa quello che dice di lei la gente.»
Comincia a parere un lungo viaggio. L'Androscoggin, sulla destra, è lucido e tetro. Il ghiaccio è tutto sciolto ormai. Jane si è fatta silenziosa e assorta. L'unico rumore è il fruscio continuo dei tergicristalli. Quando l'auto passa sulle pozzanghere della strada si leva una specie di nebbia, in attesa della sera, quando sguscerà fuori da queste pozze e si impossesserà di tutta la River Road.
Entrano ad Auburn e Chico taglia per la scorciatoia e svolta in Minot Avenue. Le quattro corsie sono semideserte, e tutte le case della periferia sembrano impacchettate. Si vede soltanto un bambino con un impermeabile giallo di plastica che cammina sul marciapiede, entrando accuratamente in tutte le pozzanghere.
«Dai, amico», dice Chico a bassa voce.
«Cosa?» chiede Jane.
«Niente, piccola. Torna a dormire.» Lei ride, un po' dubbiosa.
Chico gira per Keston Street e si immette nel vialetto di una delle case impacchettate. Non spegne il motore.
«Se entri ti do un po' di dolce», dice lei.  Lui scuote la testa. «Devo tornare.»
«Lo so.» Gli passa un braccio attorno al collo e lo bacia. «Grazie per il momento più meraviglioso della mia vita.»
Improvvisamente lui sorride. Il viso gli risplende. È come una magia. «Ci vediamo lunedì, Janney-Jane. Ancora amici, d'accordo?»
«Lo sai di sì», dice lei, e lo bacia di nuovo... ma quando lui le mette una mano sul seno sopra il maglione, lei si tira via. «No. Mio padre potrebbe vedere.»
Lui la lascia andare, conservando solo un leggero sorriso. Lei scende dall'auto in fretta e corre sotto la pioggia fino alla porta di dietro. Un secondo dopo è scomparsa. Chico si ferma un attimo ad accendere una sigaretta e poi esce a marcia indietro dal vialetto. La Buick si spegne e il motorino sembra che stia ore a gracchiare prima che il motore riesca a prendere.
È un lungo viaggio verso casa.
Quando ci arriva, la giardinetta di papà è parcheggiata nel vialetto di accesso. Ferma la macchina vicino a lei e lascia spegnere il motore. Per un momento rimane seduto in silenzio, ascoltando la pioggia. È come essere dentro un bidone di ferro.
Dentro casa, Billy sta guardando Carl Stromer and His Country Buckaroos alla TV. Quando Chico entra, Billy salta su, eccitato. «Eddie, ehi Eddie, sai che ha detto lo zio Pete? Ha detto che lui e un casino di altra gente hanno affogato un sub crucco nella guerra! Mi porti al cinema sabato prossimo?»
«Non lo so», dice Chico sorridendo. «Forse, se mi baci le scarpe tutte le sere prima di cena per una settimana.» Tira i capelli a Billy. Billy si divincola e ride e gli dà un calcio in uno stinco.
«Basta adesso», dice Sam May, entrando nella stanza. «Basta, voi due. Lo sapete cosa pensa vostra madre di queste scene.» Si è allentato la cravatta e ha sbottonato il colletto della camicia. Porta due o tre hotdog su un piatto. Gli hotdog sono di pane bianco, e Sam May ci ha messo vicino la vecchia mostarda. «Dove sei stato, Eddie?»
«Da Jane.»
Lo sciacquone scarica nel bagno. Virginia. Chico si chiede per un attimo se Jane può aver lasciato un capello nel lavandino, il rossetto, una forcina.
«Potevi venire con noi a trovare zio Pete e zia Ann», dice suo padre.
Intanto mangia un panino con il wurstel in tre rapidi bocconi. «Finirai per diventare un estraneo qua dentro, Eddie. Non mi piace. Visto che siamo noi a procurarti cibo e letto.»  «Bel letto», dice Chico. «Bel cibo.»
Sam alza lo sguardo di scatto, prima offeso, poi arrabbiato. Quando parla, Chico vede che ha i denti gialli di senape. Si sente vagamente disgustato. «La bocca. Tieni d'occhio quella dannata bocca. Non sei ancora abbastanza grande, moccioso.»
Chico si stringe nelle spalle, taglia una fetta di Wonder Bread dal pezzo che è sul vassoio da TV vicino alla poltrona del padre e la cosparge di ketchup. «Entro tre mesi comunque me ne vado.»
«Che diavolo stai dicendo?»
«Sistemo la macchina di Johnny e me ne vado in California. A cercare lavoro.»
«Ah sì, bravo.» È un uomo grosso, grosso e dinoccolato, ma ora Chico pensa che si è fatto più piccolo quando ha sposato Virginia, e più piccolo ancora dopo che è morto Johnny. E con la mente si sente dire a Jane: Forse mio fratello, ma io no. E subito dopo: Continua a giocare, Blue. «Con quella macchina non arriverai neppure a Castle Rock, figurarsi in California.»
«Non ci credi? Vedrai la polvere, cazzo.»
Per un momento il padre guarda solo lui, e poi scaraventa il salsicciotto che teneva in mano. Colpisce Chico nel petto, schizzandogli il maglione e la sedia di senape.
«Di' ancora quella parola e ti spacco il naso.»
Chico raccoglie il wurstel e lo guarda. Salsicciotto rosso da pochi soldi spalmato di senape. Lo ributta al padre. Sam si alza, la faccia del colore di un mattone vecchio, le vene in mezzo alla fronte pulsanti. La gamba si incastra nel vassoio da TV e lo rovescia. Billy sta sotto la porta della cucina e li guarda. Si è preso un piatto di wurstel e fagioli e il piatto è inclinato e il sugo dei fagioli si riversa sul pavimento. Billy ha gli occhi spalancati, la bocca tremante. In TV Carl Stormer and The Country Buckaroos stanno correndo attraverso «Long Black Veil» a un ritmo da rompersi il collo.
«Li allevi meglio che sai e loro ti sputano in faccia», dice suo padre teso. «Già. È così che va.» Si afferra alla cieca alla sedia e si alza con l'hotdog mezzo mangiato in mano. Lo tiene in pugno come un fallo troncato. Incredibilmente, comincia a mangiarlo... allo stesso tempo, Chico vede che ha cominciato a piangere. «Già, ti sputano in faccia, è così che va.»
«Be', perché diavolo hai dovuto sposarla?» scoppia, e poi deve mordersi la lingua per non dire il resto: Se non l'avessi sposata Johnny sarebbe ancora vivo.
«Questi non sono affari tuoi!» ruggisce Sam May tra le lacrime. «Questi sono affari miei!»
«Ah sì?» grida ora Chico. «È così? Anche a me, mi tocca vivere con lei! A me e a Billy, ci tocca vivere con lei! Guarda come ti sta riducendo! E non sai neppure...»
«Che cosa?» dice suo padre, e la voce s'è fatta improvvisamente bassa e minacciosa. Il pezzo di hotdog che gli è rimasto in mano è come un troncone sanguinante d'osso. «Che cosa non so?»
«Non sai un cazzo di niente», dice lui, spaventato da quello che gli era quasi uscito di bocca.
«Tu adesso la pianti», dice suo padre. «Altrimenti ti suono in modo che non ti scordi, Chico.» Lo chiama così solo quando è molto, molto, arrabbiato.
Chico si gira e vede che Virginia è dall'altra parte della stanza, sistemandosi accuratamente la camicetta, guardandolo con quegli occhi marroni grandi, calmi. I suoi occhi sono bellissimi; il resto non è altrettanto bello, altrettanto fresco ma quegli occhi la porteranno avanti ancora per anni, pensa Chico, e sente l'odio marcio risalirgli in gola.
«Ti sta strizzando fuori il midollo e tu non hai il fegato di farci niente!»
Tutto questo lungo urlo è finalmente diventato troppo per Billy — emette un gran lamento di terrore, lascia cadere il suo piatto di wurstel e fagioli e si copre la faccia con le mani. Il sugo gli sporca tutte le scarpe della domenica e si spande sul tappeto.
Sam fa un solo passo avanti e poi si ferma quando Chico gli fa un secco gesto d'invito, come a dire: Sì, vieni avanti, facciamola finita, com'è che ci hai messo tutto questo cazzo di tempo? Stanno immobili come statue finché Virginia non parla — la voce bassa, calma come i suoi occhi castani.
«Hai avuto una ragazza in camera tua, Ed? Lo sai come la pensiamo tuo padre e io su questo argomento.» Poi, quasi ripensandoci, «Ha lasciato un fazzoletto.»
Lui la fissa, selvaggiamente incapace di esprimere quello che sente, quanto lei è sporca, come colpisce sempre alle spalle, come ti scivola dietro e ti taglia i tendini.
Potresti ferirmi se volessi, dicono i calmi occhi castani. Lo so che tu sai che cosa succedeva prima che morisse. Ma questo è l'unico modo che hai per ferirmi, eh, Chico? E solo se tuo padre ti credesse, poi. E se ti credesse, la cosa lo ucciderebbe.
Suo padre si butta come un orso sulla nuova occasione. «Sei stato a scopare in casa mia, bastardo?»
«Controlla il linguaggio, per favore, Sam», dice Virginia con calma.
«È per questo che non sei voluto venire con noi? Così potevi sco... così potevi...»
«E dillo!» geme Chico. «Non lasciarglielo fare! Dillo! Dillo quello che vuoi dire!»
«Vai via», dice lui sordamente. «Non tornare finché non puoi chiedere scusa a tua madre e a me.»
«Non permetterti!» grida. «Non ti permettere di chiamare mia madre quella cagna! Ti ammazzo!»
«Basta Eddie!» singhiozza Billy. Le parole sono soffocate, confuse dietro le mani con cui ancora si copre la faccia. «Basta gridare con papà! Basta, ti prego!»
Virginia non si muove dalla porta. I suoi occhi calmi rimangono fissi su Chico.
Sam fa un passo indietro e urta con le gambe il bordo della poltrona. Ci si siede pesantemente e nasconde la faccia verso la spalliera. «Non posso nemmeno guardarti quando hai parole del genere in bocca, Eddie. Mi fai stare male.»
«È lei che ti fa star male! Perché non lo ammetti?»
Non risponde. Sempre senza guardare Chico piazza un altro wurstel nel pane sul vassoio della TV. Cerca a tentoni la senape. Billy continua a piangere. Carl Stormer and His Country Buckaroos stanno cantando una canzone da camionisti. «Il mio attrezzo è vecchio, ma non vuol dire che è lento», dicono ai loro spettatori.
«Il ragazzo non sa quello che dice, Sam», dice Virginia dolcemente. «È un'età difficile, la sua. È difficile crescere.»
Lo ha infrollito. Questa è la fine, sta bene.
Chico si gira e si dirige verso la porta che dà prima nella rimessa e poi fuori. Mentre apre la porta guarda Virginia, e lei lo fissa tranquilla quando lui dice il suo nome.
«Cosa c'è, Ed?»
«C'è del sangue nelle lenzuola.» Fa una pausa. «Gliel'ho rotta.»
Gli pare che qualcosa si sia agitato nei suoi occhi, ma probabilmente è solo il suo desiderio. «Per favore, Ed, ora vai. Stai spaventando Billy.» Esce. La Buick non vuole partire e lui è quasi rassegnato a camminare sotto la pioggia quando il motore finalmente prende. Accende una sigaretta ed esce sulla 14, schiacciando la frizione e dando gas quando comincia a sobbalzare e a perdere colpi. La luce del generatore lampeggia un paio di volte e poi la macchina si mette su un tono continuo e stridente. Finalmente è in marcia, scivola sulla strada verso Gates Falls.
Un'ultima occhiata per la Dodge di Johnny.
Johnny avrebbe potuto avere un lavoro sicuro alla Gates Mills & Weaving, ma solo nel turno di notte. Il lavoro notturno non gli dava fastidio, aveva detto a Chico, la paga era migliore che ai Plains, ma loro padre lavorava di giorno, e lavorare di notte alla fabbrica significava che Johnny sarebbe stato a casa con lei, a casa solo o con Chico nella stanza vicino... e le pareti erano sottili. Non posso smetterla, e lei non mi lascerebbe provare, diceva Johnny. Già, lo so che cosa gli farebbe, a lui. Ma lei... lei non vuole smetterla ed è come se io non potessi smetterla... mi sta sempre appresso, sai che voglio dire, tu l'hai vista, Billy è troppo piccolo per capire, ma tu l'hai vista...
Sì. L'aveva vista. E Johnny era andato a lavorare ai Plains, dicendo al padre che era perché poteva procurarsi a poco prezzo i pezzi per la Dodge. E fu così che accadde che stava a cambiare una gomma quando la Mustang arrivò scivolando e slittando con la marmitta ciondolante che sollevava scintille; così la sua matrigna aveva ucciso suo fratello, così semplicemente continua a giocare mentre io sparo, Blue, perché stiamo arrivando a Stud City con questa merda di Buick, e gli torna in mente l'odore della gomma e come le vertebre della spina dorsale di Johnny proiettavano piccole ombre a mezzaluna sul bianco candido della maglietta, ricorda di aver visto Johnny che si rialza dalla posizione in cui stava per lavorare quando la Mustang lo prese, schiacciandolo tra lui e la Chevy, e c'era stato un tonfo sordo quando la Chevy era venuta giù dal crick, e poi la vivida vampata gialla della fiamma, l'odore penetrante di benzina...
Chico schiaccia i freni con tutt'e due i piedi, bloccando la macchina con uno sferragliare cigolante contro il ciglio inzuppato di pioggia. Si china di furia sul sedile, apre lo sportello del passeggero, e lancia un getto di vomito giallo sul fango e la neve. Quella vista lo fa vomitare di nuovo, e il pensiero gli provoca nuovi conati a vuoto. Il motore si spegne quasi, ma lui fa in tempo a riprenderlo. La luce del generatore lampeggia riluttante quando ravvia il motore. Rimane seduto, aspettando che il tremito si calmi. Un'auto lo supera veloce, una Ford nuova, bianca, sollevando grandi ventagli sporchi di acqua e fango.
«Stud City», dice Chico. «Con la sua macchina nuova.»
Sente il gusto del vomito sulle labbra e in gola e nel naso. Non ha voglia di fumare. Danny Carter lo lascerà dormire da lui. Domani ci sarà tempo per altre decisioni. Si rimette sulla Route 14 e riprende ad andare.

8

Molto fottutamente melodrammatico, vero?
Il mondo ha visto uno o due racconti meglio di questo, lo so — uno o due centinaia di migliaia meglio di questo, anzi. Dovrebbe avere stampato su ogni pagina QUESTO È IL PRODOTTO DI UN CORSO SUPERIORE DI SCRITTURA CREATIVA... perché era esattamente questo, almeno fino a un certo punto. Oggi mi sembra penosamente scopiazzato e al tempo stesso penosamente scolastico; stile da Hemingway (tranne che ho tenuto il tutto al presente, per qualche motivo), tema da Faulkner. Può esserci niente di più serio? Di più letterario?
Ma anche le sue pretenziosità non riescono a nascondere il fatto che è una storia estremamente sensuale scritta da un giovanotto estremamente inesperto (all'epoca in cui scrissi «Stud City» ero stato a letto con due ragazze e avevo avuto un'eiaculazione precocemente schizzando tutt'addosso a una delle due — non proprio come Chico nel racconto surriportato, direi). Il suo atteggiamento nei confronti delle donne va al di là dell'ostilità, verso un punto che sconfina col vero e proprio squallore — due delle donne di «Stud City» sono delle troie; e la terza è un semplice ricettacolo che dice cose come «Ti amo, Chico», e «Entra, ti do un po' di dolce.» Chico, da parte sua, è un macho, sempre con la sigaretta in bocca, un eroe della classe operaia che sarebbe potuto venir fuori tutt'intero dai solchi di un disco di Bruce Springsteen — anche se di Springsteen non si era ancora sentito parlare quando pubblicai il racconto sulla rivista letteraria del college (dove stava tra una poesia intitolata «Immagini di me» e un saggio sui graffiti studenteschi scritto tutto in minuscole). È il lavoro di un giovanotto insicuro quanto inesperto.
Eppure è stata la prima storia che abbia mai scritto che mi sembrava la mia storia — la prima che sembrava davvero intera, dopo cinque anni di tentativi. La prima che potrebbe ancora stare in piedi, anche togliendole tutti i puntelli. Brutta ma viva. Ancora adesso, quando la leggo, soffocando un sorriso davanti alla sua pseudodurezza e alle sue pretese, posso vedere la vera faccia di Gordon Lachance che si affaccia dietro le righe di stampa, un Gordon Lachance più giovane di quello che vive e scrive oggi, certamente più idealista del romanziere da bestseller di cui vengono recensiti più facilmente i contratti che i libri, ma non più giovane di quello che andò quel giorno con i suoi amici a vedere il corpo di un ragazzo morto che si chiamava Ray Brower. Un Gordon Lachance a metà strada del processo di opacizzazione.
No, non è una storia molto bella — il suo autore era troppo preso dall'ascoltare le voci degli altri per ascoltare, come avrebbe dovuto, quella proveniente dall'interno. Ma era la prima volta che, in un racconto, usavo i posti che conoscevo e le cose che sentivo e c'era una specie di entusiasmo smarrito nel vedere le cose che mi avevano turbato per anni presentarsi in una nuova forma, una forma su cui avevo imposto il mio controllo. Erano passati anni da quando mi era venuta quella idea infantile di Denny nell'armadio della sua stanza accuratamente preservata; avrei creduto sinceramente di averla dimenticata. Ma in «Stud City» c'è, solo leggermente cambiata... ma controllata.
Ho resistito all'impulso di cambiarla molto di più, di riscriverla, di asciugarla — e questo impulso era piuttosto forte, perché ora trovo la storia non poco imbarazzante. Ma ci sono ancora, dentro, delle cose che mi piacciono, cose che sarebbero state impoverite dai cambiamenti fatti da questo Lachance successivo, che ha i primi fili di grigio nei capelli. Cose, come l'immagine delle ombre sulla maglietta bianca di Johnny, o come i disegni mobili della pioggia sul corpo nudo di Jane, che mi sembrano migliori di quanto meriterebbero.
E poi è la prima storia che non mostrai mai a mio padre e a mia madre.
C'era troppo di Denny dentro. Troppo Castle Rock. E soprattutto, troppo 1960. La verità la riconosci sempre, perché quando ti ci tagli, o ci tagli qualcuno, c'è sempre spargimento di sangue.

9

La mia stanza era al secondo piano, e dovevano esserci almeno trentasette gradi lassù. Nel pomeriggio sarebbero arrivati a quarantatré, anche con tutte le finestre aperte. Ero felice di non dover dormire là quella notte, e il pensiero di dove stavamo andando mi eccitava ancora di più. Mi feci un sacco-letto con due coperte e lo legai con la mia vecchia cintura. Raccolsi tutti i soldi che avevo, sessantotto centesimi. Ero pronto a partire.
Scesi dalla scala posteriore per evitare di incontrare mio padre davanti alla casa, ma non avevo da preoccuparmi; era ancora in giardino con la pompa, a fare inutili arcobaleni in aria e a guardarci attraverso.
Mi avviai per Summer Street e tagliai per un terreno incolto verso Carbine — dove oggi sono gli uffici del Call di Castle. Ero diretto a Carbine verso il club quando una macchina si accostò al marciapiede e ne scese Chris. Aveva in una mano il vecchio zaino da boy scout e due coperte, arrotolate e legate, nell'altra.
«Grazie, signore», disse, e affrettò il passo per raggiungermi mentre l'auto si allontanava. La borraccia da boy scout che portava a tracolla a ogni passo gli batteva contro l'anca. Gli occhi gli brillavano.
«Gordie! Vuoi vedere una cosa?»
«Sì, certo. Che cosa?»
«Andiamo prima laggiù.» Indicò lo stretto viottolo tra il Blue Point Diner e il Castle Rock Drugstore.
«Che cos'è, Chris?»
«Andiamo, ho detto!»
Corse giù per il vicolo e dopo un breve momento (fu tutto quello che mi ci volle per mettere a tacere il giudizio che mi diceva di no) mi misi a correre dietro di lui. I due edifici erano messi un po' di sbieco tra loro, anziché correre paralleli, per cui il vicolo, andando avanti, si restringeva. Superammo i mucchi di cartacce e le bottiglie vuote di birra e di soda. Chris tagliò dietro il Blue Point e mise giù il suo sacco-letto. C'erano otto o nove bidoni di spazzatura allineati là in fondo, e il fetore era incredibile.
«Puah! Chris! Andiamo, non si respira!»
«Aspetta un momento.»
«No, davvero, sto per vomi...»
Le parole mi si spensero in gola e dimenticai tutto sui bidoni di spazzatura puzzolenti. Chris aveva scaricato lo zaino e lo aveva aperto e ci aveva frugato dentro. Ora teneva in mano una pistola enorme, con i fianchi dell'impugnatura di legno nero.
«Tu vuoi fare Lone Ranger o Cisco Kid?» chiese ghignando.  «Gesù Cristo! Dove l'hai pescata?»
«Tirata fuori dal cassetto di mio padre. È una quarantacinque.»
«Già, lo vedo», dissi, anche se per quello che ne sapevo poteva essere una trentotto o una trecentocinquantasette — nonostante tutti i John D. MacDonald e gli Ed McBain che avevo letto, l'unica pistola che avevo visto da vicino era quella che portava l'agente Bannerman... e anche se tutti i ragazzi gli chiedevano di tirarla fuori dalla fondina, lui non lo faceva mai. «Amico, tuo padre ti farà nero quando lo scoprirà. Hai anche detto che era in vena cattiva.»
I suoi occhi continuavano a danzare. «Questo è il bello, amico. Non scoprirà un bel niente. Lui e quelle altre tre spugne sono tutti stesi, giù a Harrison, con sei o otto bottiglie di vino. Non torneranno per una settimana. Ubriaconi fottuti.» Storse la bocca. Era l'unico della banda che non avrebbe mai bevuto, neppure per mostrare che aveva, sapete com'è, le palle. Diceva che non aveva intenzione di ritrovarsi, da grande, un fottuto alcolizzato come il suo vecchio. E una volta mi disse in privato — fu dopo che i gemelli DeSpain si erano presentati con una confezione da sei che avevano fregato al loro vecchio e tutti sfottettero Chris perché non volle prendere una birra e nemmeno un sorso — che era terrorizzato dall'idea di bere. Disse che suo padre non staccava più il naso dalla bottiglia, che suo fratello maggiore era pieno fino alle orecchie quando aveva violentato quella ragazza, e che Eyeball stava continuamente a scolarsi Purple Jesus con Ace Merril e Charlie Hogan e Billy Tessio. Che possibilità aveva secondo me, mi chiese, di lasciare la bottiglia una volta che avesse iniziato? Forse può sembrare ridicolo, un dodicenne che si preoccupa di poter essere un incipiente alcolizzato, ma in Chris non era ridicolo. Non lo era proprio per niente. Aveva molto riflettuto su quella possibilità. Ne aveva avuto tante occasioni.  «Hai i colpì?»
«Nove — tutti quelli rimasti nella scatola. Penserà che li ha usati lui, per sparare ai barattoli mentre era ubriaco.»
«È carica?»
«No! Cristo santo, per chi mi prendi?»
Finalmente presi in mano la pistola. Mi piaceva quel suo modo pesante di starsene accomodata nella mia mano. Mi vedevo come Steve Carella dell'ottantasettesima squadra sulle tracce di quell'Heckler o magari mentre coprivo le spalle a Meyer Meyer o Kling che fanno irruzione nello squallido appartamento del tossico disperato. Puntai a uno dei bidoni puzzolenti e tirai il grilletto.
KA-BLAM!
La pistola fece un salto nella mia mano. Dalla bocca uscì una fiammata. Mi pareva di avere il polso spezzato. Il cuore balzò rapido su fino in gola e rimase lì tremante. Un grosso buco apparve sulla superficie di lamiera ondulata del bidone.  «Gesù!» strillai.
Chris rideva come un pazzo — se veramente divertito o se per una crisi isterica non saprei dirlo. «Sei stato tu, sei stato tu! È stato Gordie!» si mise a gridare. «Ehi, Gordon Lachance sta sforacchiando tutta Castle Rock!» «Zitto! Andiamo via!» gridai io, e lo afferrai per la camicia.
Mentre correvamo, la porta posteriore del Blue Point si aprì di scatto e ne venne fuori Francine Tupper nella sua bianca uniforme di rayon da cameriera. «Chi è stato? Chi è che tira bombe carta qua dietro?»
Corremmo come dannati, tagliando dietro il drugstore, il negozio di ferramenta, l'Emporium Galorium che vendeva roba vecchia e libri da un decino. Scavalcammo uno steccato, riempiendoci le mani di schegge e finalmente sbucammo in Curran Street. Mentre correvamo lanciai la quarantacinque a Chris; lui stava crepando dalle risate, ma la prese al volo e riuscì in qualche modo a ficcarla di nuovo nello zaino e a chiudere una delle fibbie. Una volta girato l'angolo di Curran e tornati su Carbine Street rallentammo, rimettendoci al passo per non dare nell'occhio, correndo con quel caldo. Chris ghignava ancora.
«Amico, avresti dovuto vedere che faccia avevi, oh gente, era impagabile. È stato bellissimo.» Scosse la testa e si batté la gamba, sempre ridendo.
«Lo sapevi che era carica, eh? Stronzo! Sono nei guai. La Tupper mi ha visto.»
«Cazzo, ha pensato che fosse un petardo. E poi la vecchia Tupper non vede a un palmo dal naso, lo sai. È convinta che se si mette gli occhiali si guasta quel bel faccino.» Si mise una mano sulla vita e si batté il fianco e riprese a ridere.
«Be', non me ne frega niente. È stato uno scherzo del cavolo, Chris. Sul serio.»
«Dài, Gordie.» Mi mise una mano sulla spalla. «Non lo sapevo che era carica, quant'è vero Iddio, giuro su mia madre. L'ho solo presa dal cassetto di mio padre. Lui la scarica sempre. Doveva essere sbronzo forte quando l'ha messa via l'ultima volta.»
«Veramente non l'hai caricata tu?»
«Signornò.»
«Giuri su tua madre che possa andare all'inferno se non è vero?»
«Giuro.» Si fece il segno della croce e sputò, il viso aperto e pentito come un chierichetto. Ma quando svoltammo nel terreno dov'era il nostro club e vedemmo Vern e Teddy seduti sui sacchi-letto ad aspettarci, scoppiò di nuovo a ridere. Raccontò tutta la storia, e dopo che tutti si furono sbellicati, Teddy gli chiese secondo lui a che ci serviva una pistola.
«Niente», disse lui. «Solo che potremmo incontrare un orso. Qualcosa del genere. E poi, è pericoloso passare una notte nel bosco.»
A questo annuimmo tutti. Chris era il più grande, il più duro della banda, e a lui andava sempre liscia quando diceva cose del genere. A Teddy, invece, gli avremmo fatto il culo se solo avesse fatto sospettare che aveva paura del buio.
«Hai piantato la tenda dietro casa?» chiese Teddy a Vern.
«Sì. E ci ho messo due pile accese così pare che siamo dentro, dopo il buio.»
«Bel colpo!» dissi io e battei Vern sulla spalla. Per lui quella pensata era stata il massimo. Sorrise e arrossì.
«Allora, si va», disse Teddy. «Forza, è già quasi mezzogiorno!» Chris si alzò e ci raccogliemmo attorno a lui.
«Passiamo per il campo di Beeman, poi dietro la stazione di servizio della Texaco di Sonny», disse. «Poi scendiamo sulla ferrovia giù per lo scarico e passiamo attraverso il ponte nella zona di Harlow.» «Secondo te quanto sarà lontano?» chiese Teddy.
Chris si strinse nelle spalle. «Harlow è grande. Potremmo dover camminare almeno venti miglia. Sei d'accordo, Gordie?»
«Sì. Potrebbero essere anche trenta.»
«Anche se sono trenta dobbiamo essere di nuovo qui per domani pomeriggio, se nessuno si mette a fare la femminuccia.» «Niente femminucce qui», disse subito Teddy.
Ci guardammo in faccia tutti per un momento.
«Andiamo, gente», disse Chris, e si caricò lo zaino in spalla.
Uscimmo tutti insieme dal campo, Chris un po' avanti agli altri.

10

Quando, attraversato il campo di Beeman, ci fummo arrampicati a fatica sulla scarpata fuligginosa della ferrovia Great Southern and Western Maine, ci eravamo già tolti tutti la camicia e ce l'eravamo legata attorno alla vita. Sudavamo come porci. Una volta in cima alla massicciata ci eravamo fermati a guardare in fondo ai binari, verso la nostra meta.
Non dimenticherò mai quel momento, finché vivrò. Io ero l'unico ad avere un orologio — un Timex da due soldi che avevo avuto in premio l'anno prima per una vendita di Cloverine Brand Salve. Le lancette stavano precise sulle dodici, e il sole picchiava sull'arido paesaggio senz'ombra che si stendeva davanti a noi, infocandolo. Lo si sentiva, il sole, farsi strada fin dentro il cranio a cuocerci il cervello.
Dietro di noi c'era Castle Rock, allungata sulla collina nota come Castle View, attorno ai giardini pubblici verdi e ombreggiati. Più giù si potevano vedere le ciminiere dei filatoi che mandavano nel cielo un fumo color acciaio e riversavano nell'acqua i loro rifiuti. Il Jolly Furniture Barn era sulla nostra sinistra. E dritto davanti a noi il tracciato della ferrovia, luccicante nel sole. Correva parallelo al Castle River, sulla nostra sinistra. Sulla destra avevamo una distesa di cespugli e di erbacce incolte (oggi c'è una pista per motociclette — ci fanno le gare ogni domenica alle due). Un vecchio serbatoio d'acqua abbandonato si levava all'orizzonte, arrugginito e un po' minaccioso.
Rimanemmo lì per quel momento di mezzogiorno e poi Chris disse impaziente: «Forza, avviamoci».
Camminavamo lungo i binari in mezzo ai ciottoli, sollevando nuvolette di polvere nerastra a ogni passo. Ben presto ne avemmo piene calze e scarpe. Vern attaccò a cantare «Roll Me Over in the Clover» ma la smise presto, con gran sollievo per le nostre orecchie. Solo Teddy e Chris avevano portato la borraccia e ci stavamo attingendo tutti piuttosto forte.
«Potremo riempirle di nuovo allo scarico», dissi io. «Mio padre mi ha detto che c'è un pozzo sicuro. È profondo quasi sessanta metri.»
«Okay», disse Chris, essendo lui il duro capoplotone. «Sarà un posto adatto per cinque minuti di sosta, comunque.»
«E da mangiare?» chiese all'improvviso Teddy. «Scommetto che nessuno ha pensato a portare qualcosa da mangiare. Io almeno no.»
Chris si bloccò. «Cazzo! Nemmeno io. Gordie?»
Io scossi la testa, chiedendomi come potevo essere stato così idiota.
«Vern?»
«Zero», disse Vern. «Spiacente.»
«Be', vediamo quanti soldi abbiamo», dissi io. Mi slegai la camicia, la stesi sulla ghiaia e ci versai sopra i miei sessantotto centesimi. Le monete scintillarono febbrili al sole. Chris aveva un biglietto da un dollaro tutto spiegazzato e due penny. Teddy aveva due quarti di dollaro e due nichelini. Vern aveva preciso sette centesimi.
«Due e trentasette», dissi. «Non male. C'è un negozio in fondo a quella stradina che va allo scarico. Bisogna che qualcuno vada fin là a prendere qualche hamburger e qualcosa da bere mentre gli altri si riposano.»  «E chi?» chiese Vern.
«Tiriamo a sorte quando arriviamo allo scarico. Andiamo.»
Infilai le monete nella tasca dei calzoni e stavo legandomi la camicia ai fianchi quando Chris gridò: «Treno!»
Misi la mano su una rotaia per sentirlo, ma potevo già udirlo. Il binario vibrava violentemente; per un momento fu come tenere il treno in mano.
«Paracadutisti fuori!» strillò Vern, e con un solo salto fu a metà della massicciata. Vern aveva la passione di giocare ai paracadutisti ogni volta che trovava un terreno soffice — una cava di ghiaia, un mucchio di fieno, una scarpata come quella. Chris saltò dietro di lui. Il treno ora si sentiva forte, probabilmente diretto verso il nostro lato del fiume su Lewinston. Invece di saltare, Teddy si girò nella direzione da cui stava arrivando. Le sue lenti spesse scintillarono al sole. I lunghi capelli gli scendevano scomposti sulla fronte incollati dal sudore.
«Andiamo, Teddy», dissi.
«No, huh-hu. Lo scanso.» Mi guardò, gli occhi ingranditi dalle lenti frenetici per l'eccitazione. «Uno scansatreno, capito? Che saranno più i camion dopo un cazzo di scansatreno?»
«Sei pazzo, amico. Ti vuoi ammazzare?»
«Come la spiaggia in Normandia!» urlò Teddy, e si piazzò in mezzo ai binari. Si mise sopra una traversina, in equilibrio.
Io rimasi interdetto per un attimo, incapace di credere che potesse esistere una stupidità di questa forma e dimensione. Poi lo afferrai per un braccio, lo trascinai che si divincolava e protestava fin sul margine della scarpata, e lo spinsi via. Saltai subito dopo e lui mi colse in pieno con un pugno nello stomaco mentre ero ancora in aria. Cacciai tutta l'aria che avevo nei polmoni ma riuscii lo stesso a colpirlo col ginocchio allo sterno e a mandarlo lungo disteso sulla schiena prima che riuscisse a risalire. Atterrai, boccheggiante, e Teddy mi prese al collo. Rotolammo fino in fondo alla scarpata, tempestandoci di pugni a vicenda mentre Chris e Vern ci guardavano, allibiti dalla sorpresa.
«Figlio di puttana!» mi stava gridando dietro Teddy. «Stronzo! Non starmi tra i coglioni! Ti ammazzo, pezzo di merda!»
Ora stavo riprendendo fiato, e riuscii a rimettermi in piedi. Indietreggiai, mentre Teddy mi veniva incontro, tenendo le mani aperte per parare i pugni, mezzo ridendo e mezzo spaventato. Con Teddy non c'era da scherzare quando gli venivano quei momenti. Avrebbe attaccato anche uno grande, quando era in quello stato, e dopo che il grande gli avesse spezzato tutt'e due le braccia, lui si sarebbe messo a mordere.
«Teddy, puoi metterti a scansare tutto quello che vuoi dopo che abbiamo visto quello che dobbiamo vedere ma whack sulla spalla mentre un altro pugno, agitato all'impazzata, mi oltre-
passava
«Fino allora nessuno deve vederci, lo  whack sulla faccia, e poi ci sarebbe stata una vera scazzottata se Chris e
Vern
«Stupido imbecille!»  non ci avessero presi e separati. Sopra di noi il treno passava ruggendo tra una nuvola di gas di scarico e il pesante fragore delle ruote. Dei sassi caddero rimbalzando lungo il pendio e la discussione si interruppe... almeno finché non potemmo di nuovo sentire quello che dicevamo.
Era un merci breve, e quando l'ultimo carro fu passato, Teddy disse: «Io lo ammazzo. Lasciatemi almeno gonfiargli un occhio». Si divincolò per liberarsi dalla presa di Chris, ma Chris lo teneva solidamente.
«Mettiti calmo, Teddy», disse Chris tranquillo, e continuò a dirlo finché
Teddy non smise di divincolarsi e rimase fermo, gli occhiali di traverso e il filo dell'apparecchio acustico ciondolante sul petto verso la batteria, che teneva infilata nella tasca dei jeans.
Quando fu completamente fermo, Chris si girò verso di me e fece: «Perché diavolo stavate facendo a botte, Gordon?»
«Voleva scansare il treno. Ho pensato che il macchinista lo avrebbe visto e avrebbe fatto rapporto. Sicuramente avrebbero mandato un poliziotto.»
«Ahhh, sarebbe stato troppo occupato a farsi la cioccolata nelle mutande», disse Teddy, ma non sembrava più arrabbiato. La tempesta era passata.
«Gordie stava solo cercando di fare la cosa più giusta», intervenne Vern.
«Forza, fate pace.» «Pace, su», ripeté Chris.
«Sì, okay», dissi io, e tesi la mano, palmo in su. «Pace, Teddy?»
«Ce l'avrei fatta a scansarlo», mi disse lui. «Lo sai, sì, Gordie?»
«Sì», feci io, anche se il solo pensiero mi raggelò. «Lo so.»
«Okay, pace allora.»
«La mano, amico», ordinò Chris, e lasciò andare Teddy.
Teddy mi colpì la mano con la sua, forte da farmela bruciare e poi girò in alto il suo palmo. Io lo battei.
«Fottuto gatto pauroso di un Lachance», disse Teddy.
«Miaooo», feci io.
«Forza, gente», disse Vern, «si va?»

11

Arrivammo alla discarica verso l'una e mezzo, e Vern fece strada giù dalla scarpata con un Paracadutisti fuori! Scendemmo a grandi balzi e saltammo oltre il rivolo salmastro di acqua che scolava svogliato dal canale che spuntava dai ciottoli. Oltre questa piccola zona acquitrinosa c'era la distesa sabbiosa, cosparsa di rifiuti, dello scarico.
C'era attorno una rete di sicurezza alta quasi due metri, lungo la quale, ogni sei metri, compariva un cartello con una scritta scolorita. Diceva:

DISCARICA DI CASTLE ROCK
ORE 16 - 20
DOMENICA CHIUSO
ASSOLUTO DIVIETO DI ACCESSO

Ci arrampicammo in cima al reticolato, lo scavalcammo e saltammo giù. Teddy e Vern fecero strada verso il pozzo, sormontato da una pompa antiquata — di quelle che per richiamare l'acqua ci vuole un bel po' di olio di gomito. Accanto al manico della pompa c'era un barile pieno d'acqua, e il peccato capitale era dimenticarsi di lasciarlo pieno per il prossimo che sarebbe arrivato. Il manico di ferro sporgeva ad angolo, dandole l'aspetto di un uccello con un'ala sola che tentasse di prendere il volo. Una volta era stato verde, ma quasi tutta la vernice era stata scrostata via dalle migliaia di mani che dal 1940 avevano fatto funzionare quella pompa.
Lo scarico è uno dei miei ricordi più forti di Castle Rock. Mi fa venire sempre in mente i pittori surrealisti, quando ci ripenso — quelli che dipingevano sempre quadranti di orologio mollemente adagiati su biforcazioni di rami d'albero, o salotti vittoriani nel mezzo del Sahara, o locomotive che escono dai camini. Ai miei occhi di bambino, niente appariva come se facesse davvero parte di quel posto.
Eravamo entrati dalla parte posteriore. Arrivando dal davanti c'era una grande strada sterrata che passava dal cancello, si allargava in un'area semicircolare, appiattita coi bulldozer come una pista di atterraggio, e terminava all'improvviso sull'orlo del pozzo di scarico. La pompa (ora Teddy e Vern ci stavano sopra, litigando su chi la doveva far funzionare) era dall'altra parte del grande pozzo. Sarà stato profondo venticinque metri, ed era pieno di tutte le cose americane che si svuotano, si consumano o semplicemente non funzionano più. C'era tanta di quella roba che mi veniva male agli occhi solo a guardarla — o forse era il cervello a farmi male, non riuscendo a decidere su che cosa fermare gli occhi. Prima o poi l'occhio si fermava, o era fermato da qualcosa che sembrava fuori posto come quei quadranti molli o quei salotti nel deserto. Un telaio da letto di ottone steso ubriaco al sole. Una bambola che si guardava stupita tra le gambe nell'atto di partorire l'imbottitura. Una Studebaker ribaltata con il muso cromato scintillante al sole con un missile di Buck Rogers. Una di quelle bocce d'acqua giganti che hanno negli uffici, trasformata dal sole estivo in uno zaffiro abbagliante.
C'era anche una quantità di animali, laggiù, ma non del genere che si vedono nei documentari di Walt Disney o in quegli zoo di bestie addomesticate che si fanno accarezzare. Grassi ratti, marmotte lustre e pesanti grazie ai ricchi bocconi di hamburger marciti e di verdure piene di vermi, gabbiani a migliaia, e, ad aggirarsi gravemente tra i gabbiani come un pensieroso, assorto prete, un occasionale enorme corvo. Era anche il posto dove andavano i cani randagi del paese in cerca di un pasto quando non trovavano un bidone di immondizia da rovesciare o una daina da inseguire. Era una razza miserabile, cattiva, bastarda; fianchi stretti e ringhio aspro, si attaccavano a vicenda per un pezzo di insaccato pieno di mosche o un mucchietto di interiora di pollo fumanti al sole.
Ma questi cani non attaccavano mai Milo Pressman, il gestore della discarica, perché Milo non andava mai senza Chopper alle calcagna. Chopper era — almeno fino a quando, venti anni dopo, Cujo, il cane di Joe Chamber, impazzì — il cane più temuto e meno visto di Castle Rock. Era il cane più cattivo per un raggio di quaranta miglia (o così si diceva) e brutto da fermare un orologio. I ragazzi mormoravano leggende sulla cattiveria di Chopper. Qualcuno diceva che per metà era un pastore tedesco, qualcuno che era per lo più boxer, e uno di Castle View con l'infelice nome di Harry Horr assicurava che Chopper era un dobermann e che aveva avuto le corde vocali asportate chirurgicamente così che non lo sentivi quando partiva all'attacco. Altri ragazzi affermavano che Chopper era un lupo irlandese pazzo e che Milo Pressman gli dava da mangiare un impasto speciale di Gaines Meal e di sangue di pollo. Questi stessi sostenevano che Milo non osava tirar fuori Chopper dal suo canile a meno che il cane non avesse su un cappuccio, come un falcone da caccia.
La storia più diffusa era che Pressman aveva addestrato Chopper non semplicemente ad addentare, ma ad addentare parti specifiche dell'anatomia umana. Così lo sfortunato ragazzo che avesse scalato illegalmente la rete dello scarico in cerca di illeciti tesori, poteva sentire Milo Pressman gridare: «Chopper! Attacca! Mano!» E Chopper avrebbe azzannato la mano e tenuto duro, strappando pelle e tendini, sbriciolando ossa tra le fauci sbavanti, finché Milo non gli dicesse di mollare. Si diceva che Chopper potesse prendere un orecchio, un occhio, un piede, o una gamba... e che un recidivo sorpreso da Milo e dal fedelissimo Chopper avrebbe sentito il grido spaventoso: «Chopper! Attacca! Palle!» E quel ragazzo sarebbe stato un soprano per tutta la vita. Milo, lui lo si vedeva più spesso, e lo si considerava più comune. Era uno non troppo intelligente, che arrotondava il magro salario comunale rimettendo a posto le cose che la gente buttava via e rivendendole per il paese.
Quel giorno non c'era traccia né di Milo né di Chopper.
Chris e io guardammo Vern che teneva la pompa mentre Teddy faceva andare freneticamente il manico su e giù. Finalmente fu ricompensato da un getto di acqua chiaro. Un momento dopo tutti e due erano con la testa sotto la fontana, con Teddy che continuava a pompare alla velocità di un miglio al minuto.
«Teddy è matto», dissi io a bassa voce.
«Ah, sì», rispose Chris con naturalezza. «Non arriverà al doppio dell'età che ha ora, scommetto. Suo padre a bruciargli le orecchie in quel modo. È stato quello. È pazzo a scansare i camion in quel modo. Non ci vede un cazzo, lenti o non lenti.»
«Ti ricordi quella volta dell'albero?»
«Già.»
L'anno prima, Teddy e Chris stavano arrampicandosi sul grande pino dietro casa mia. Erano quasi in cima e Chris disse che non era possibile andare oltre perché tutti i rami da quel punto in su erano marci. Teddy prese quell'aria folle, testarda, e disse chi se ne fotte, lui aveva resina di pino su tutte le mani e sarebbe andato su finché non avesse toccato la cima. Chris non riuscì in nessun modo a convincerlo. E così salì, e ce la fece davvero — pesava non più di trentacinque chili, non dimenticatelo. Se ne stette lì, incollato alla cima del pino con una mano piena di resina, a urlare che lui era il re della terra o qualche idiozia del genere, e poi ci fu uno schianto e il ramo su cui stava cedette e lui precipitò. Quello che accadde poi è una di quelle cose che vi danno la certezza che Dio c'è. Chris allungò un braccio, per puro riflesso, e quello che prese fu un pugno di capelli di Teddy Duchamp. E anche se il polso di Chris si fece gonfio così e non poté usare a dovere la mano destra per quasi due settimane, lo tenne finché Teddy, urlando e bestemmiando, mise il piede su un ramo vivo abbastanza grosso da reggere il suo peso. Non fosse stato per la presa cieca di Chris, si sarebbe sfracellato ai piedi dell'albero, un volo di quasi quaranta metri. Quando scesero Chris aveva la faccia grigia, e quasi vomitava. E Teddy voleva dargliele perché gli aveva tirato i capelli. E ci sarebbero arrivati, a suonarsele, se non ci fossi stato io a mettere pace.
«Ogni tanto me lo sogno», disse Chris e mi guardò con occhi stranamente indifesi. «Solo che in questo sogno che faccio, lo manco sempre. Mi restano un paio di capelli in mano e Teddy precipita urlando. Brutto, eh?»
«Brutto», convenni io, e per un attimo ci guardammo negli occhi e vedemmo qualcuna di quelle cose autentiche che ci facevano amici. Poi distogliemmo lo sguardo e guardammo Teddy e Vern che si tiravano l'acqua addosso, strillando e ridendo e chiamandosi femminuccia a vicenda.
«Sì, ma non l'hai mancato», dissi io. «Chris Chambers fa sempre centro, giusto?»
«Anche quando la signora prima di me lascia giù il sedile del cesso.» Mi strizzò l'occhio, formò un cerchio con pollice e indice e ci sputò attraverso un bianco e netto proiettile. Ci sorridemmo.
Vern gridò: «Venite a prendere la vostra acqua prima che se ne rivada giù per la canna!»
«Facciamo una corsa», disse Chris.
«Con questo caldo? Sei fuori di testa?»
«Forza», fece lui, sempre sorridendo. «Al mio via.»
«Okay.»
«Via!»
Scattammo, le scarpe che sollevavano il terreno duro, cotto al sole, il torace spinto avanti alle gambe in jeans, i pugni serrati. Arrivammo pari, con Vern dalla parte di Chris e Teddy dalla mia che ci alzarono il medio nello stesso istante. Crollammo ridendo nell'odore immobile, fumoso del posto, e Chris lanciò la sua borraccia a Vern. Quando fu piena, Chris e io andammo alla pompa e prima Chris pompò per me e poi io per lui, quell'acqua improvvisamente gelida che toglieva via tutto d'un colpo polvere e caldo, mandando avanti di quattro mesi, fino a gennaio, i nostri crani improvvisamente gelati. Poi riempii di nuovo il bidone e ci allontanammo tutti per sederci all'ombra dell'unico albero della discarica, un frassino contorto a una dozzina di metri dalla baracca di cartone catramato di Milo Pressman. L'albero si incurvava leggermente verso est, come se avesse tanta voglia di tirarsi su le radici, al modo che una vecchia signora si tira su le sottane, e andarsene al diavolo via da quel posto.
«Fantastico!» disse Chris, tirandosi via i capelli appiccicati sulla fronte.
«Una bomba», dissi io, ancora ridendo.
«È proprio un bel momento», disse semplicemente Vern, e non intendeva dire solo il fatto di essere in un posto proibito, o di aver imbrogliato i nostri, o di andare a fare questa escursione lungo la ferrovia fin dentro Harlow; si riferiva sì a queste cose, ma ora mi pare che ci fosse dell'altro, e che tutti noi lo sapevamo. Tutto era lì e attorno a noi. Sapevamo esattamente chi eravamo ed esattamente dove stavamo andando. Era magnifico.
Rimanemmo seduti per un po' sotto l'albero, a discutere di cazzate come sempre — qual era la squadra migliore (ancora gli Yankees con Mantle e Maris, ovviamente), qual era la macchina migliore (Thunderbird del '55, con Teddy che insisteva testardo per la Corvette del '58), chi era il tipo più duro di Castle Rock al di fuori della nostra banda (eravamo tutti d'accordo su Jamie Gallant, che mostrò il medio a Mrs. Ewing e poi se ne uscì dalla classe con le mani in tasca mentre lei gli urlava dietro), il miglior telefilm (Gli intoccabili o Peter Gunn — sia Robert Stack come Eliot Ness che Craig Stevens come Gunn erano a posto), tutte cose del genere.
Fu Teddy ad accorgersi che l'ombra del frassino si stava allungando e mi chiese che ora era. Guardai l'orologio e fui sorpreso di vedere che erano le due e un quarto.
«Ehi, gente», disse Vern. «Qualcuno deve andare a far provviste. La discarica apre alle quattro. Non ho voglia di essere qui quando entrano in scena Milo e Chopper.»
Perfino Teddy fu d'accordo. Non aveva paura di Milo, che aveva la pancia e almeno quarant'anni, ma ogni ragazzo di Castle Rock si stringeva le palle tra le gambe tutte le volte che si faceva il nome di Chopper.
«Okay», dissi io. «Chi sta fuori va.»
«Sarai tu, Gordie», mi prese in giro Chris sorridendo. «Fuori come un merluzzo.»
«E tua madre», feci io, e diedi una moneta ciascuno. «Via.»
Quattro monete scintillarono al sole. Quattro mani le agguantarono al volo. Quattro schiaffi sordi su quattro polsi sudici. Scoprimmo. Due teste e due croci. Lanciammo di nuovo e questa volta avevamo quattro croci.
«Oh Gesù, croce nera», disse Vern, ma non ci diceva niente di nuovo.
Quattro teste erano una luna: si diceva che erano una straordinaria fortuna.
Quattro croci, croce nera, e una vera iella.
«Che stronzate», disse Chris. «Non vuol dire niente. Rifacciamo.»
«No, gente», disse con molta serietà Vern. «Una croce nera è una cosa proprio brutta. Vi ricordate quando Clint Bracken e quegli altri uscirono di strada su Sirois Hill a Durham? Billy mi disse che stavano lanciando le monete per la birra e venne fuori una croce nera subito prima che entrassero in macchina. E bang! Furono fregati tutti. Non mi piace. Veramente.»
«Chi ci crede a quelle stronzate di lune e croci nere», disse Chris impaziente. «È roba da bambini, Vern. Vuoi lanciarla o no?»
Vern lanciò, ma con evidente riluttanza. Stavolta lui, Chris e Teddy avevano tutti e tre croce. Io presentavo un bel Thomas Jefferson sul mio nikel. E improvvisamente ebbi paura. Fu come se un'ombra avesse oscurato un qualche sole interno. Avevano ancora una croce nera, loro tre, come se il destino sordo avesse indicato loro una seconda volta. Improvvisamente ripensai a Chris che diceva: mi restano un paio di capelli in mano e Teddy precipita urlando. Brutto eh?  Tre croci, una testa.
Poi Teddy cominciò a ridere la sua risata da folle, chiocciando e indicandomi e la sensazione scomparve.
«Ho sentito dire che solo gli gnomi ridono così», gli faccio mostrandogli il medio.
«Eeee-eee-eeee, Gordie», rise Teddy. «Vai a prendere le provviste, fottuto ermafrodito.»
Non mi seccava affatto andare. Ero riposato e non mi dispiaceva andare giù in fondo alla strada fino al Florida Market.
«Non chiamarmi con uno dei nomignoli di tua madre», dissi a Teddy.
«Eeeee-eee-eeee, che fottuto pisciasotto che sei, Lachance.» «Dài, Gordie», disse Chris. «Ti aspettiamo vicino alla ferrovia.» «Farete meglio a non andarvene senza di me», dissi io.
Vern rise. «Andarcene senza di te sarebbe come andare con Slitz invece che con Budweiser, Gordie.»
«Andate a farvi fottere», dissi, e tirai su il culo, mostrandogli il medio da sopra la spalla mentre mi allontanavo. Non ho mai più avuto amici, in seguito, come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, e voi?

12

Impressioni diverse per persone diverse, dicono, ed è esatto. Così se vi dico estate, voi ricevete un insieme di immagini private, personali, che sono completamente differenti dalle mie. Regolare. Ma per me, estate significherà sempre correre lungo la strada verso il Florida Market con le monete che mi risuonano in tasca, la temperatura allegramente oltre i quaranta, i piedi nelle scarpe da tennis. La parola mi evoca l'immagine delle rotaie della ferrovia GS&WM che corre verso un punto di fuga in lontananza, così bianche luccicanti sotto il sole che quando chiudi gli occhi le vedi ancora lì nel buio, solo blu invece che bianche. Ma c'era dell'altro in quell'estate oltre alla nostra spedizione di là dal fiume per cercare Ray Brower, anche se questo è quello che spicca di più. Suoni; i Fleetwood che cantano «Come Softly to Me» e Robin Luke che canta «Susie Darlin» e Little Anthony che canta «I Ran All the Way Home». Erano tutti hit di quell'estate del 1960? Sì e no. Per lo più sì. Nelle lunghe serate violacee quando il rock and roll della stazione WLAM si confondeva con le partite notturne di baseball del WCOU, il tempo slittava. Io credo che fosse tutto il 1960 e che l'estate andò avanti per anni, mantenuta magicamente intatta da una ragnatela di suoni: il dolce canto dei grilli, la raffica di mitra delle carte da gioco che crepitano contro i raggi della bici di qualche ragazzo che pedala verso casa per una cena di affettati freddi e tè ghiacciato, la piatta voce texana di Buddy Knox che canta «Vieni con me, sii la mia bambina, e io farò l'amore con te, con te», e la voce del radiocronista delle partite di baseball che si mescola alla canzone e al profumo di erba appena tagliata: «Il punteggio è tre a due adesso. Whitey Ford si china... si concentra... fa il caricamento... lancia... ed è andata! Williams l'ha presa! E fatta! I RED SOX CONDUCONO, TRE A UNO!» Ted Williams giocava ancora nei Red Sox nel 1960? Ci potete scommettere che ci giocava — 316 per il mio Ted. Me lo ricordo perfettamente. Il baseball era diventato importante per me, nell'ultimo paio di anni, da quando avevo dovuto accettare l'idea che i giocatori di baseball erano di carne e ossa come me. Questa consapevolezza mi era arrivata quando la macchina di Roy Campanella si era ribaltata e i giornali strillavano notizie ferali dalle prime pagine; la sua carriera era finita, avrebbe passato il resto della vita su una sedia a rotelle. Con che forza questo mi tornò in mente, con lo stesso urto mortale, quando sedetti a questa macchina da scrivere una mattina di due anni fa, accesi la radio e sentii che Thurman Munson era morto tentando di far atterrare il suo aereo.
C'erano i film da andare a vedere al Gem, che da tempo è stato abbattu- to; film di fantascienza come Gog con Richard Egan e western con Audi Murphy (Teddy aveva visto ogni film di Audi Murphy almeno tre volte; per lui Murphy era quasi un dio) e film di guerra con John Wayne. C'erano le partite e i pasti mandati giù in fretta, prati da falciare, posti dove correre, muri da tirarci contro le monetine, gente che ti dava pacche sulla spalla. E ora sto qui seduto e cerco di guardare attraverso la tastiera di un'IBM e di vederci quel tempo, cerco di ricordare il meglio e il peggio di quell'estate verde e bruna, e riesco quasi a sentire quel ragazzino smilzo e pieno di croste ancora sepolto in questo corpo che avanza, a sentire quei suoni. Ma l'apoteosi della memoria e del tempo è Gordon Lachance che corre lungo la strada verso il Florida Market con in tasca gli spiccioli e il sudore che gli scorre sulla schiena.
Chiesi tre libbre di carne da hamburger e presi qualche panino, quattro bottiglie di Coca e un cavatappi da due centesimi per aprirle. Il proprietario, uno che si chiamava George Dusset, prese la carne e poi si chinò vicino al registratore di cassa, una mano enorme piantata sul banco vicino al grande vaso delle uova sode, uno stuzzicadenti in bocca, la pancia gonfia di birra che tendeva la maglietta bianca come una vela piena di buon vento. Si mise lì fisso per tutto il tempo mentre io facevo la spesa per accertarsi che non tentassi di fregare niente. Non disse una parola, finché non si mise a pesare la carne degli hamburger.
«Io ti conosco. Tu sei il fratello di Denny Lachance. No?» Lo stuzzicadenti viaggiò da un angolo all'altro della bocca come su cuscinetti a sfera. Allungò un braccio dietro la cassa, prese una bottiglia di soda S'OK e la stappò.  «Sì, signore. Ma Denny, lui...»
«Sì, lo so. Una cosa triste, ragazzo. Dice la Bibbia: 'Nel mezzo della vita, siamo nella morte'. Lo sapevi? Già. Io ho perso un fratello in Corea. Tu assomigli moltissimo a Denny, te l'hanno mai detto? Già. Uguale sputato.» «Sì, signore, qualche volta», dissi io depresso.
«Mi ricordo l'anno che era nel campionato. Da mediano, giocava. Già. Se sapeva correre? Dio padre e figliolo Gesù! Probabilmente tu eri troppo giovane per ricordarti.» Guardava oltre la mia testa, fuori attraverso la porta a zanzariera nel caldo soffocante, come se stesse avendo una visione meravigliosa di mio fratello.
«Mi ricordo. Ehm, Mr. Dusset?»
«Cosa, ragazzo?» I suoi occhi erano ancora velati dal ricordo; lo stuzzicadenti gli tremava un po' tra le labbra.
«Ha il pollice sulla bilancia.»
«Cosa?» Abbassò lo sguardo, stupito, al punto in cui il polpastrello del dito premeva fermamente sul piatto di smalto bianco. Se non mi fossi allontanato da lui un poco quando aveva cominciato a parlare di Dennis, la carne macinata me l'avrebbe nascosto. «Oh, be', succede. Già. Evidentemente ero troppo preso a pensare a tuo fratello, che Dio l'abbia in gloria.» George Dusset si fece la croce. Quando tolse la mano dal piatto della bilancia, la lancetta tornò indietro di sei once. Versò ancora un po' di carne in cima al mucchio e poi fece il pacchetto con carta bianca da macellaio.
«Bene», disse dietro lo stuzzicadenti. «Vediamo che abbiamo qui. Tre libbre di carne macinata, fa un dollaro e quarantaquattro. Panini da hamburger, sono ventisette. Quattro bottiglie, quaranta centesimi. Un apribottiglie, due pence. Sarebbero...» fece la somma sul sacchetto in cui stava mettendo la roba. «Due e ventinove.» «Tredici», dissi io.
Lui mi guardò alzando molto lentamente uno sguardo accigliato. «Eh?»
«Due e tredici. Ha sbagliato la somma.»
«Ragazzo, stai...»
«Ha sbagliato la somma», ripetei. «Prima ha messo la mano sulla bilancia e poi ha alzato il prezzo della roba, Mr. Dusset. Avrei aggiunto qualche Hostess Twinkies in cima a quella lista, ma ora penso proprio di no.» Piazzai due dollari e tredici centesimi sul banco davanti a lui.
Lui guardò i soldi, poi me. Il cipiglio ora era tremendo, le rughe sulla faccia profonde come crepacci. «Che fai, ragazzino?» disse con una voce bassa minacciosamente confidenziale. «Vuoi fare il furbo?»
«No signore», dissi io. «Ma lei non riuscirà a fregarmi e a farla franca. Che direbbe la sua mamma se sapesse che frega i ragazzini?»
Infilò la nostra roba nel sacchetto di carta con rapidi movimenti bruschi, facendo urtare rumorosamente tra loro le bottiglie di coca. Spinse rozzamente la borsa verso di me, senza far caso che la prendessi o che la lasciassi cadere rompendo tutte le bottiglie. La sua faccia, scura di carnagione, era avvampata e torpida, il cipiglio rimasto lì congelato. «Okay, ragazzo. Adesso vattene. Quello che fai adesso è che te ne vai fuori dal mio negozio. Se ti vedo un'altra volta qua dentro ti butto fuori io. Già. Piccolo furbetto figlio di puttana.»
«Non ci torno», dissi io, avviandomi alla porta e aprendola. Il caldo pomeriggio, fuori, andava avanti sonnolento ronzando lungo il corso previsto, verde e bruno e pieno di luce silenziosa. «E nemmeno i miei amici.
Ne avrò cinquanta.»
«Tuo fratello non era così furbetto, figlio di puttana!»
«Vaffanculo!» urlai e mi misi a correre come un razzo lungo la strada.
Sentii la porta aprirsi sbattendo come una fucilata e il suo muggito di toro infuriato mi raggiunse: «Provati a rimettere piede qua dentro e ti faccio due occhi gonfi così, piccolo bastardo!»
Corsi finché non fui oltre la prima salita, impaurito e ridendo tra me, col cuore che mi batteva come un martello dentro al petto. Poi rallentai fino a un'andatura di passo veloce, guardandomi ogni tanto alle spalle per accertarmi che non si fosse messo a seguirmi con la macchina, o che so.
Ma no, e ben presto arrivai all'ingresso della discarica. Mi misi la borsa di carta dentro la camicia, mi arrampicai sul cancello e mi calai come una scimmia dall'altro lato. Ero a metà strada verso l'area dello scarico quando vidi una cosa che non mi piacque — la Buick '56 di Milo Pressman parcheggiata vicino alla baracca di cartone catramato. Se Milo mi vedeva, mi sarei trovato in un mare di guai. Finora non c'erano segni né di lui né del suo famigerato Chopper, ma improvvisamente il reticolato in fondo alla discarica mi parve lontanissimo. Mi trovai a desiderare di aver fatto il giro dall'esterno, ma ormai ero troppo avanti per aver voglia di girarmi e tornare indietro. Se Milo mi vedeva scavalcare, probabilmente mi sarei trovato nei guai quando fossi tornato a casa, ma questo non mi preoccupava quanto l'idea di Milo che gridava a Chopper di attaccare.
Il violino della paura prese a suonarmi nella testa. Cominciai a mettere un piede dopo l'altro, tentando di mostrarmi disinvolto, di confondermi con l'ambiente mentre col sacchetto di carta della spesa che mi gonfiava la camicia mi dirigevo verso la rete che divideva la discarica dai binari della ferrovia.
Ero a una quindicina di metri dal reticolato e cominciavo a pensare che sarebbe andato tutto bene, dopo tutto, quando sentii Milo che urlava: «Ehi!
Ehi tu! Via da quella rete. Fuori di qui!»
La cosa saggia da fare sarebbe stata accettare il consiglio e fare dietrofront, ma ormai ero così eccitato che invece di fare la cosa saggia mi misi a correre verso il reticolato con un urlo selvaggio, sollevando una nuvola di polvere.
Vern, Teddy e Chris vennero fuori dai cespugli dall'altra parte della rete e fissarono ansiosamente attraverso le maglie.
«Torna qui!» abbaiava Milo. «Torna qui o sciolgo il cane, maledizione!»
Non mi parve che quella fosse precisamente la voce della saggezza e della conciliazione, e corsi ancora più forte, agitando le braccia, il sacchetto
marrone che mi scricchiolava contro la pelle. Teddy attaccò con quella sua risatina da demente, eeee-eee-eeee, come un qualche strano strumento di canna suonato da un folle.
«Dài, Gordie, dài!» gridava Vern.
E Milo urlò: «Attacca, Chopper! Vai a prenderlo, piccolo!»
Lanciai il sacchetto oltre la rete e Vern per prenderlo spinse via Teddy con una gomitata. Dietro di me sentivo Chopper che arrivava, scuotendo la terra, mandando fiamme da una narice e ghiaccio dall'altra, sbavando zolfo dalle fauci spalancate. Arrivai con un balzo a metà altezza del reticolato, urlando. Raggiunsi la cima in non più di tre secondi e mi lasciai andare dall'altra parte senza neppure guardar giù per vedere dove sarei atterrato. Dove atterrai — quasi — fu su Teddy, che rideva come un pazzo piegato in due. Gli occhiali gli erano caduti e le lacrime gli scorrevano lungo le guance. Lo mancai per un pelo e toccai la massicciata di ghiaia giusto alla sua sinistra. Nello stesso momento Chopper toccò il reticolato dietro di me ed emise un ululato di dolore e di rabbia. Mi girai, tenendomi un ginocchio sbucciato, e diedi la mia prima occhiata al famigerato Chopper — e ne trassi la mia prima lezione sulla vasta distanza tra mito e realtà.
Invece dell'enorme cane infernale con i feroci occhi rossi e le zanne che sporgono dalle fauci come chiodi, mi trovavo davanti un bastardello di mezza taglia di un comunissimo bianco e nero. Saltellava avanti e indietro senza frutto, alzandosi sulle zampe di dietro e appoggiandosi alla rete.
Teddy ora camminava su e giù per il reticolato, roteando gli occhiali in mano e incitando Chopper per farlo infuriare ancora di più.
«Baciami il culo, Choppie!» invitava Teddy, con la saliva che gli spruzzava tra le labbra. «Baciami il culo! Azzanna la merda!»
Sbatteva col sedere contro la rete e Chopper faceva del suo scarso meglio per rispondere all'invito di Teddy. Non ricavò, dalla pena che si dava, niente di più che una salutare botta sul naso. Cominciò ad abbaiare come un pazzo, con la schiuma che gli schizzava dal naso. Teddy continuava a battere il sedere contro la rete e Chopper continuava a lanciarsi, mancandolo sempre, senza altro risultato che scorticarsi il naso, che ora sanguinava. Teddy continuava a incitarlo, chiamandolo col diminutivo di Choppie, e Chris e Vern erano sdraiati sulla massicciata, ridendo così forte che ora emettevano solo gemiti.
Ed ecco che arrivò Milo Pressman, con la sua tuta macchiata di sudore e il berretto da baseball dei New York Giant, la bocca tesa da rabbia furibonda.
«Qui, qui!» gridava. «Voialtri, smettetela di sfottere quel cane! Mi avete sentito? Smettetela immediatamente!»
«Azzanna, Choppie!» strillava Teddy, andando avanti e indietro dal nostro lato del reticolato come un prussiano pazzo che passa in rivista le sue truppe. «Avanti, prendimi! Prendimi!»
Chopper impazzì. Dico sul serio. Si mise a correre in cerchio, abbaiando e mugolando e schiumando, sollevando con le zampe di dietro piccole nuvole di polvere. Fece tre volte il giro, accumulando il coraggio, immagino, e poi si lanciò contro la rete. Doveva andare a cinquanta all'ora quando la colpì, non scherzo — le labbra ritirate sui denti e le orecchie schiacciate. Tutto il reticolato fece un suono musicale, profondo, rimbalzando contro i pali. Come una nota di cetra — yimmmmmmmm. Dalla gola di Chopper venne fuori un guaito strozzato, rovesciò gli occhi e fece una capriola all'indietro sbalorditiva, atterrando sulla schiena con un tonfo sordo che sollevò una nuvola di polvere. Rimase steso lì per un momento e poi strisciò via con la lingua penzolante da un angolo della bocca.
A questo punto anche Milo perse completamente la testa dalla rabbia. Il colorito gli si scurì fino a un pauroso color prugna — anche il cuoio capelluto gli diventò scarlatto sotto le corte setole del suo taglio a spazzola. Seduto a terra, tutt'e due le ginocchia dei jeans strappate, col cuore che ancora mi batteva per il pericolo scampato per un pelo, mi accorsi che Milo era la versione umana di Chopper.
«Vi conosco!» Inveiva Milo. «Tu sei Teddy Duchamp! Vi conosco tutti!
Vi farò un culo così, a tormentare il mio cane in questo modo!»
«Vorrei proprio vedere come fai!» reagì subito Teddy. «Facci vedere come fai a scavalcare, vieni a prendermi, faccia di merda!»
«COME? COME MI HAI CHIAMATO?»
«FACCIA DI MERDA!» urlò felice Teddy. «SACCO DI LARDO!
PALLA DI GRASSO! VIENI! VIENI!» Saltava su e giù, a pugni stretti, col sudore che gli grondava dai capelli. «TI INSEGNO IO A MANDARE
IL TUO STRONZO DI CANE ADDOSSO ALLA GENTE! VIENI! VO-
GLIO VEDERE SE CI PROVI!»
«Piccolo bastardo figlio di un mentecatto! Ci penso io a far avere a tua madre un invito per andare a parlare col giudice in tribunale per quello che hai fatto al mio cane!»
«Come mi hai chiamato?» fece Teddy roco. Aveva smesso di saltellare.
Gli occhi si erano fatti grandi e vitrei, e la pelle era plumbea.
Milo aveva chiamato Teddy in un sacco di modi, ma fu in grado di risalire senza la minima difficoltà a quello che era andato a segno — è da allora che ho cominciato a notare l'abilità della gente in queste cose... nel trovare il bottone MENTECATTO giù dentro, e non soltanto schiacciarlo, ma darci sopra col martello.
«Tuo padre era un mentecatto», disse, con un ghigno. «Mentecatto, su a Togus, proprio così. Più pazzo di un topo di fogna. Più matto di un cervo morso dalla tarantola. Più frenetico di un gatto con la coda lunga in una stanza piena di sedie a dondolo. Mentecatto. Non mi meraviglia che ti comporti così, con un mentecatto per pa...»
«TUA MADRE FA I BOCCHINI AI TOPI MORTI!» Urlò Teddy. «E SE CHIAMI ANCORA MIO PADRE MENTECATTO TI AMMAZZO, BOCCHINARO!»
«Mentecatto», ripeté Milo soddisfattissimo. Aveva trovato il bottone, sì, l'aveva proprio trovato. «Figlio di mentecatto, figlio di mentecatto, a tuo padre si è spappolato il cervello, ragazzo, completamente andato.»
Vern e Chris avevano superato la crisi di risate, forse pronti ad apprezzare la serietà della situazione e a tirar via Teddy, ma quando Teddy rivelò a Milo che sua madre faceva i bocchini ai topi morti, furono ripresi da un convulso di risa isteriche, sdraiati lì sulla massicciata a rotolarsi da una parte all'altra, tirando calci all'aria, tenendosi la pancia. «Basta», fece Chris stremato. «Basta, ti prego, basta, giuro su Dio che sto crepando!»
Chopper stava girando in tondo dietro Milo. Sembrava il pugile perdente dieci secondi dopo che l'arbitro ha messo fine all'incontro e ha indicato il vincitore per KO tecnico. Nel frattempo Teddy e Milo continuavano la loro discussione sul padre del primo, naso a naso, con in mezzo la rete che Milo era troppo vecchio e troppo grasso per scavalcare.
«Non dire nient'altro di mio padre! Mio padre ha preso le spiagge di Normandia, fottuto pisciasotto.»
«Come no, e dov'è adesso, brutto stronzo quattr'occhi? È su a Togus, non è vero? È su a Togus perché GLI HANNO DATO LA FOTTUTA SEZIONE OTTO!»
«Okay, è fatta», disse Teddy. «Questo è tutto, adesso è finita, adesso ti ammazzo.» Si slanciò contro la rete e cominciò ad arrampicarsi.
«Vieni, provaci, lurido piccolo bastardo.» Milo fece un passo indietro, sorridendo e aspettando.
«No!» gridai io. Mi alzai in piedi, afferrai Teddy per il fondo dei jeans e lo tirai via dal reticolato. Barcollammo tutti e due e cademmo, lui addosso a me. Mi schiacciò proprio le palle e io cacciai un lamento. Non c'è niente che faccia male come le palle schiacciate, lo sapete, vero? Ma io continuai a tenerlo con le braccia attorno alla vita.
«Lasciami alzare!» singhiozzava Teddy, divincolandosi tra le mie braccia.
«Lasciami alzare, Gordie! Nessuno insulta il mio vecchio. LASCIAMI
ALZARE MALEDIZIONE LASCIAMI ALZARE!»
«Ma è quello che vuole lui!» gli gridai nell'orecchio. «Vuole solo che tu vai dall'altra parte e gliele suoni e poi ti porta dalla polizia!» «Eh?» Teddy girò la testa verso di me, stupito.
«Lascia perdere le furbate, piccolo», fece Milo, avanzando di nuovo verso la rete con le mani strette in pugni grossi come prosciutti. «Fagli fare le sue battaglie.»
«Certo», dissi io. «Tu pesi solo duecento chili più di lui.»
«Conosco anche te», disse Milo minaccioso. «Ti chiami Lachance.» Indicò verso Vern e Chris che stavano finalmente rialzandosi, ancora col fiatone per il tanto ridere. «E quelli sono Chris Chambers e uno di quegli idioti di ragazzi Tessio. I padri di tutti quanti si vedranno arrivare delle denunce da me, tranne il mentecatto su a Togus. Al riformatorio, vi mando, tutti quanti, piccoli delinquenti.»
Rimase lì in piedi, le grosse mani lentigginose a palme in fuori come se volesse fare un gioco, il respiro pesante, gli occhi stretti, aspettando che ci mettessimo a piangere o dicessimo che eravamo pentiti o magari gli consegnassimo Teddy così che lo potesse dare in pasto a Chopper.
Chris fece un cerchio con pollice e indice e ci sputò attraverso.  Vern mugolò e guardò il cielo.
Teddy disse: «Forza Gordie, andiamo via da questo pezzo di merda prima che mi metta a vomitare».
«Oh, te la farò pagare, lurido piccolo magnaccia. Aspetta che vada alla polizia.»
«Abbiamo sentito che cosa hai detto di suo padre», gli dissi io. «Siamo tutti testimoni. E mi hai sguinzagliato il cane dietro. È contro la legge.»
Milo parve un po' incerto. «Eri entrato abusivamente.»
«Col cavolo. La discarica è proprietà pubblica.»
«Hai scavalcato la rete.»
«Certo, dopo che mi hai mandato addosso il cane», dissi, sperando che a Milo non venisse in mente che avevo anche scavalcato il cancello per entrare.
«Secondo te che dovevo fare? Stare qui e aspettare che mi sbranasse?
Andiamo, gente. Andiamocene. Ci puzza, qui.»
«Riformatorio», promise Milo roco, la voce tremante. «Riformatorio per tutti voi furboni.»
«Non vedo l'ora di raccontare ai poliziotti che hai chiamato mentecatto un veterano di guerra», gli lanciò Chris da sopra la spalla mentre ci
allontanavamo. «Che cosa hai fatto tu durante la guerra, Mr. Pressman?»
«NON SONO CAZZI VOSTRI!» urlò Milo. «MI AVETE ROVINATO
IL CANE!»
«Mettilo sulla barella e portalo dal cappellano», mormorò Vern e poi risalimmo sulla massicciata.
«Tornate qui!» urlò Milo, ma ora la sua voce era più flebile e pareva aver perso interesse.
Teddy gli mostrò il medio mentre ci allontanavamo. Io guardai indietro quando fummo sulla cima. Milo era lì, dietro la rete di sicurezza, quest'uomo grosso con il berretto da baseball e il cane seduto ai piedi. Le sue dita erano agganciate alle maglie del reticolato e ci gridava dietro, e improvvisamente mi sentii triste per lui — mi pareva il più grande scolaretto del mondo, rimasto chiuso per sbaglio nel campo da gioco, che grida perché qualcuno venga a tirarlo fuori. Continuò a gridare per un po' e poi o lasciò perdere o fummo noi a uscire dal suo raggio. Quel giorno non vedemmo né sentimmo più Milo Pressman e Chopper.

13

Ci furono un po' di commenti — con un tono spavaldo che in realtà suonava un po' forzato — su come gliel'avevamo fatto vedere, a quello schifoso di Milo Pressman, che non eravamo un qualsiasi branco di femminucce. Raccontai come quel tale del Florida Market aveva cercato di fregarci, e quindi piombammo in un cupo silenzio, a riflettere.
Da parte mia, stavo pensando che dopo tutto poteva entrarci in qualche modo quella stupida faccenda della croce nera. Le cose non sarebbero potute andare molto peggio — in effetti, pensavo, sarebbe stato meglio cercare di risparmiare ai miei il dolore di avere un figlio nel cimitero di Castle View e l'altro nel riformatorio di South Windham. Non avevo dubbi che Milo sarebbe andato alla polizia non appena l'idea che al momento dell'incidente la discarica era chiusa gli fosse penetrata dentro quel cranio duro. Quando ciò fosse avvenuto, si sarebbe reso conto che davvero ero un abusivo, proprietà pubblica o no. Probabilmente questo gli dava tutti i diritti del mondo ad aizzare il suo stupido cane contro di me. E anche se Chopper non era la belva feroce che lui andava raccontando, certo mi avrebbe strappato il fondo dei calzoni se non avessi vinto la gara fino alla rete. Tutto ciò metteva una nuvola nera sulla giornata. E c'era un'altra idea cupa che mi girava per la testa — l'idea che forse quello non era un incidente da ridere, e che forse la nostra iella ce la meritavamo. Forse era addirittura Dio che ci avvertiva di tornarcene a casa. Che ci andavamo a fare, comunque, a vedere un disgraziato che era stato maciullato da un treno merci?
Ma lo stavamo facendo, e nessuno aveva intenzione di smetterla.
Avevamo quasi raggiunto il ponte che porta la ferrovia dall'altra parte del fiume quando Teddy scoppiò a piangere. Fu come se una grande ondata interna di marea avesse schiantato un sistema accuratamente costruito di dighe mentali. Non esagero — fu altrettanto improvviso e altrettanto violento. I singhiozzi lo costringevano a piegarsi in due come pugni, e crollò quasi a terra, portandosi le mani alternativamente allo stomaco e a quei globi di carne mutilata che era quanto rimaneva delle sue orecchie. Continuò a piangere in scoppi aspri e violenti.
Nessuno di noi sapeva che cazzo fare. Non era un piangere come quando prendi un colpo alla testa mentre giochi a football nel campo del paese o quando cadi dalla bicicletta. Non c'era niente che non andasse fisicamente, in lui. Ci allontanammo un po' e lo guardammo, le mani in tasca.
«Ehi, amico...» disse Vern con una voce esilissima. Chris e io guardammo Vern speranzosi. «Ehi amico» è sempre un buon inizio. Ma Vern non sapeva come andare avanti.
Teddy si chinò in avanti sulle traversine e si mise una mano sugli occhi. Ora pareva che stava facendo il saluto ad Allah — «Salam, salam», come dice Braccio di Ferro. Solo che non faceva ridere.
Finalmente, quando la violenza del pianto si fu un po' calmata, fu Chris ad andargli vicino. Era il duro della banda (forse anche più duro di Jamie Gallant, pensavo in segreto), ma era anche quello che sapeva meglio mettere pace. Aveva un modo suo. Lo avevo visto sedersi sul marciapiede accanto a un ragazzino in lacrime con un ginocchio spellato, un ragazzino che non conosceva nemmeno per le palle, e mettersi a parlare con lui di qualcosa — il circo Shrine che stava per arrivare in paese o Huckleberry Hound in TV — finché il piccolo dimenticava che doveva fargli male. In questo Chris era bravissimo. Era abbastanza duro da essere bravissimo, in questo.
«Sta' a sentire, Teddy, che ti frega di quello che un vecchio sacco di merda come quello dice di tuo padre? Eh? Dico sul serio, parola! Questo non cambia niente, no? Quello che dice un vecchio sacco di merda come lui?
Eh? Eh? Cambia?»  Teddy scosse la testa violentemente. Non cambiava niente. Ma sentirlo dire alla luce del sole, una cosa che doveva avergli girato all'infinito nella mente mentre lui era steso a letto senza dormire e guardava la luna fuori centro su un vetro della finestra, una cosa a cui doveva aver pensato in quel suo modo lento e rotto finché non gli era parsa quasi una cosa sacra, cercare di darle un senso, per poi doversi rendere conto che gli altri avevano liquidato suo padre semplicemente come un mentecatto... questo lo aveva steso. Ma non cambiava niente. Niente.
«Ha sempre preso la spiaggia in Normandia, giusto?» disse Chris. Prese una delle mani, sporche e sudate, di Teddy, e vi batté sopra.
Teddy annuì con foga, piangendo. Gli colava il muco dal naso.
«Pensi che quel sacco di merda è stato in Normandia?»
Teddy scosse la testa violentemente. «N-n-no!»
«Credi che quel tizio ti conosce?»
«N-no! No, m-m-ma...»
«O tuo padre? È uno degli amici di tuo padre?»
«No!» Infuriato, orripilato. Che idea. Il petto di Teddy si sollevò e ne uscirono altri singhiozzi. Si era tolto i capelli da sopra le orecchie e potei vedere il bottone rotondo di plastica marrone dell'apparecchio acustico infilato in mezzo a quello di destra. La forma di quell'apparecchio faceva più senso della forma dell'orecchio, se afferrate quello che intendo dire.
Chris disse con calma: «Parlare è facile».
Teddy annuì, sempre senza alzare lo sguardo.
«E quello che ci può essere tra te e il tuo vecchio, parlare non può cambiarlo.»
La testa di Teddy si scosse senza convinzione, incerto che questo fosse vero. Qualcuno aveva ridefinito la sua pena, e ridefinita in termini dolorosamente comuni. Questo andava
(mentecatto) esaminato
(fottuta sezione otto) in seguito. Nelle lunghe notti insonni.
Chris lo dondolò. «Ti stava provocando, amico», disse con una voce suadente che pareva quasi una ninnananna. «Stava cercando di provocarti e farti oltrepassare quella fottuta rete, lo sai questo? Del tuo vecchio non sa un cazzo. Non sa altro che quello che ha sentito da quegli ubriaconi giù al  Mellow Tiger. È solo una merda di cane. È vero, Teddy? Eh? È vero?»
Il pianto era quasi cessato. Tirando su col naso, si strofinò gli occhi, lasciandoci una riga nera di polvere attorno, e si mise seduto.
«Sto bene», disse, e il suono della sua voce parve convincerlo. «Si, sto bene.» Si alzò in piedi e si rimise gli occhiali — rivestendo la faccia nuda, mi parve. Fece un risolino e si passò il braccio nudo sul labbro per togliersi il moccio. «Fottuto frignone, eh?»
«No, amico», disse Vern a disagio. «Se uno si mette a sfottere mio padre...»
«Allora lo ammazzi!» disse Teddy vivacemente, quasi arrogante. «Gli spacchi il culo. Giusto, Chris?»
«Giusto», fece Chris amabilmente, e batté Teddy sulla spalla.  «Giusto, Gordie?»
«Assolutamente», dissi io, chiedendomi come facesse Teddy a tenerci tanto a suo padre quando lo aveva praticamente ucciso, e come mai a me praticamente non me ne fregava un cazzo di mio padre anche se, da quello che potevo ricordarmi, non aveva mai alzato una mano su di me da una volta che avevo tre anni e tirai fuori certa candeggina da sotto il lavandino e cominciai a bermela.
Camminammo ancora per un paio di centinaia di metri lungo la ferrovia e Teddy disse con voce più calma: «Sentite, mi dispiace se vi ho rovinato lo spasso. Credo che ho fatto proprio una cazzata giù alla rete».
«Non sono proprio sicuro che è uno spasso», disse Vern improvvisamente.  Chris lo guardò. «Stai dicendo che vuoi tornare indietro, amico?»
«No... no!» La faccia di Vern si chiuse nei pensieri. «Ma andare a vedere un ragazzo morto — non dovrebbe essere proprio una gita, probabilmente. Voglio dire, se mi capite, voglio dire...» Ci guardò con aria dura. «Voglio dire, potrei anche essere un po' spaventato. Se mi capite.»
Nessuno disse niente e Vern riprese: «Voglio dire, qualche volta mi vengono gli incubi. Come... ah, voi vi ricordate quella volta che Danny Naughton lasciò quel mucchio di vecchi fumetti, quelli con i vampiri e gente fatta a pezzi e tutte quelle stronzate? Dio Cristo, mi svegliavo nel mezzo della notte sognando qualche tizio appeso in una casa con la faccia tutta verde o qualcosa, sapete, come questa, e mi pareva che c'era qualcosa sotto il letto, e se facevo dondolare una gamba da un lato, quella cosa poteva, sapete, afferrarmi...»
Tutti annuimmo. Sapevamo del turno di notte. Allora mi sarei messo a ridere, però, se qualcuno mi avesse detto che un giorno non troppo lontano avrei tramutato tutti quei terrori infantili e incubi notturni in un milione di dollari, più o meno.
«E non ho il coraggio di dire niente perché il mio fottutissimo fratello... be', voi sapete com'è Billy... lui lo va a strombazzare in giro...» Si strinse tristemente nelle spalle. «E così ho paura di guardare quel tizio perché se è, sapete, se è proprio brutto...»
Inghiottii e lanciai un'occhiata a Chris. Stava guardando gravemente Vern e gli faceva cenno di andare avanti.
«Se è proprio brutto», riprese Vern, «mi verranno degli incubi su di lui e mi sveglierò pensando che è lui sotto il mio letto, tutto fatto a pezzi in una pozza di sangue come se fosse appena uscito da uno di quegli aggeggi di Saladmaster che mostrano in TV, solo occhi e capelli, ma che si muovono, se riuscite a capire, che si muovono in qualche modo, sapete, e si preparano ad afferrarti...»
«Gesù Cristo», disse Teddy con voce roca. «Che cazzo di storia della buonanotte.»
«Be', non posso farci niente», disse Vern con voce sulla difensiva. «Ma sento come se dovessimo vederlo, anche se poi ci sono gli incubi. Sapete?
Come se dovessimo... ma forse non dovrebbe essere uno spasso.»
«Già», fece Chris piano. «Forse non dovrebbe.»
Vern fece una voce supplicante: «Non lo direte a nessun altro, vero? Non dico degli incubi, ce li hanno tutti — dico di svegliarsi e pensare che può esserci qualcosa sotto il letto. Sono troppo fottutamente vecchio per credere all'orco.»
Dicemmo tutti che non l'avremmo raccontato, e cadde su di noi un'altra volta un silenzio cupo. Erano appena le tre meno un quarto, ma pareva molto più tardi. Faceva troppo caldo, ed erano successe troppe cose. Non eravamo neppure arrivati in Harlow ancora. Ci toccava allungare il passo se volevamo fare qualche vero miglio prima del buio.
Passammo il nodo ferroviario e un segnale sopra un alto palo arrugginito, e tutti ci fermammo a tirare sassi alla bandiera metallica sulla cima, ma nessuno la colpì. E verso le tre e mezzo raggiungemmo il Castle River e il ponte della GS&WM che lo attraversa.

14

Il fiume, nel 1960, era largo più di cento metri in quel punto; sono tornato a guardarlo, da allora, e ho trovato che si era ristretto un bel po' nel corso degli anni. Da sempre sono stati a giocare con il fiume, cercando di farlo lavorare meglio per i mulini, e ci hanno messo tante di quelle dighe che è quasi del tutto domato. Ma a quei tempi c'erano solo tre dighe per tutta la lunghezza del fiume attraverso il New Hampshire e mezzo Maine. Il Castle era ancora quasi libero allora, e una primavera sì e due no usciva dagli argini e inondava la Route 136 a Harlow o a Danvers Junction, o in tutti e due i posti.
Ora, alla fine dell'estate più secca che il Maine occidentale avesse mai visto dalla depressione, era ancora ampio. Da dove eravamo noi, dal lato di Castle Rock, il lato di fitta foresta dalla parte di Harlow sembrava tutto un altro paese. I pini e gli abeti rossi dall'altra parte erano azzurrini nella foschia del calore pomeridiano. I binari attraversavano il fiume a un'altezza di una quindicina di metri, sostenuti da una struttura di pali di legno incatramato e di travi incrociate. L'acqua era così bassa che guardando di sotto si poteva vedere la parte superiore dei blocchi di cemento piantati a tre metri di profondità nel letto del fiume per sostenere il ponte.
Questo era piuttosto rozzo — i binari correvano su una lunga piattaforma di travi di legno di dieci per quindici. Tra ogni coppia di queste travi c'era uno spazio di dieci centimetri, attraverso il quale si poteva guardare nell'acqua per tutto l'attraversamento. Dai due lati, non c'era più di mezzo metro tra la rotaia e il bordo del ponte. Se arrivava un treno, forse c'era spazio a sufficienza per evitare di farsi schiacciare... ma l'aria spostata da un merci sparato ti avrebbe spedito sicuramente a morte certa sulle rocce affioranti alla superficie dell'acqua che correva di sotto.
Guardando il ponte, sentimmo tutti la paura che prendeva a strisciarci nello stomaco... e mista alla paura c'era l'eccitazione di una grossa sfida, ma grossa davvero, qualcosa di cui potevi poi vantarti per settimane una volta tornato a casa... se tornavi a casa. Quella luce strana stava tornando negli occhi di Teddy, e pensai che non era affatto il ponte ferroviario della GS&WM che vedeva, ma una lunga spiaggia sabbiosa, mille mezzi da sbarco prendere terra tra le onde schiumose, diecimila Gì caricare sulla sabbia, gli stivali da combattimento ben piantati. Saltano rotoli di filo spinato! Lanciano granate nelle casematte! Snidano postazioni di mitragliere!
Eravamo accanto ai binari dove i ciottoli scivolavano via verso la riva del fiume — il punto in cui la massicciata terminava e iniziava il ponte. Guardando giù, potevo vedere dove la discesa cominciava a farsi ripida. I ciottoli lasciavano il posto ai cespugli ispidi e duri e alle lastre di roccia grigia Più giù c'era qualche abete stentato con le radici all'aria che si tacevano strada attraverso le fessure delle lastre di roccia; sembravano guardar giù verso il loro misero riflesso nell'acqua che scorreva.
In quel punto, il Castle sembrava davvero abbastanza pulito; a Castle Rock sarebbe entrato nella zona degli impianti tessili del Maine. Ma non c'erano pesci che guizzavano, anche se il fiume era così limpido che si vedeva il fondo — bisognava risalirlo di una decina di miglia verso il New Hampshire prima di vedere qualche pesce, nel Castle. Non c'erano pesci, e lungo le rive si potevano vedere le strisce di schiuma sudicia attorno alle rocce — schiuma del colore dell'avorio vecchio. Neppure l'odore del fiume era particolarmente gradevole; sembrava una vasca di ammollo di una lavanderia piena di tovaglie ammuffite. Le libellule si appoggiavano al pelo dell'acqua deponendovi impunemente le loro uova. Non c'erano trote che le mangiassero. Cavoli, nemmeno lasche c'erano.
«Gente», disse Chris a bassa voce.
«Forza», fece Teddy con quella sua maniera secca, arrogante. «Andiamo.» Già si stava dirigendo verso il ponte, camminando sulle travi tra le rotaie scintillanti.
«Sentite», disse Vern a disagio, «qualcuno di voi sa quando dovrebbe passare il prossimo treno?»
Ci stringemmo tutti nelle spalle.
Io dissi: «C'è il ponte stradale della 136...»
«Ehi, un momento, piantatela!» esclamò Teddy. «Significherebbe camminare per cinque miglia lungo il fiume da questa parte e per cinque miglia in qua dall'altra parte... faremmo notte! Se usiamo questo ponte possiamo arrivare allo stesso punto in dieci minuti!»
«Ma se arriva il treno, non c'è dove andare», disse Vern. Non guardava Teddy. Guardava giù per il fiume rapido.
«Cazzo se non c'è!» disse Teddy schifato. Passò oltre il bordo e si tenne a uno dei supporti di legno tra le rotaie. Non si era spinto troppo in là — le scarpe gli toccavano quasi il suolo — ma l'idea di fare la stessa cosa sopra il centro del fiume con un salto di quindici metri sotto e un treno che passa sferragliando giusto sopra la mia testa, un treno che probabilmente mi schizza un bel po' di scintille infuocate tra i capelli e lungo la schiena... proprio non mi faceva sentire la Reginetta del Giorno.
«Vedete com'è facile?» disse Teddy. Si lasciò cadere sulla massicciata, si spolverò le mani e risalì tra noi.
«Vuoi dire che ti appendi in quel modo se c'è sopra un merci da duecento carri?» chiese Chris. «Che te ne stai appeso lì attaccato con le mani per cinque o dieci minuti?»
«Ti tiri indietro?» ringhiò Teddy.
«No, sto solo chiedendo che intendi fare», disse Chris sorridendo. «Stai buono, amico.»
«Voi fate il giro se volete!» sbraitò Teddy. «Chi se ne fotte? Vi aspetto!
Mi faccio un sonno!»
«Un treno è già passato», dissi io riluttante. «E probabilmente non ce ne sono più di uno o due al giorno che passano a Harlow. Guardate qua.» Diedi un calcio alle erbacce che crescevano in mezzo alle traversine. Tra i binari della linea che va da Castle Rock a Lewiston di erbacce non ce n'erano.
«Ecco. Visto?» fece Teddy trionfante.
«Ma c'è sempre la possibilità», aggiunsi.
«Già», disse Chris. Guardava soltanto me, gli occhi che gli brillavano.
«Ti sfido, Lachance.»
«Chi sfida va prima.»
«Okay», disse Chris. Allargò lo sguardo fino a comprendere Teddy e
Vern. «C'è qualche femminuccia qui?» «No!» urlò Teddy.
Vern si schiarì la voce, tossì, se la schiarì di nuovo, e disse «No» con una voce esilissima. Fece un debole sorriso.
«Okay», disse Chris... ma esitammo un attimo, anche Teddy, guardando cauti su e giù per le rotaie. Mi inginocchiai e strinsi forte con una mano un binario, senza curarmi che scottava quasi da bruciare la pelle. Il binario era muto.
«Okay», dissi, e mentre lo dicevo qualcuno nel mio stomaco fece il salto con l'asta. Mi piantò l'asta nelle palle, mi parve, e mi finì a cavalcioni sul cuore.
Ci avviamo lungo il ponte in fila indiana; Chris per primo, poi Teddy, poi Vern e poi io a fare il fanalino di coda perché avevo detto io chi sfida va prima. Camminavamo sulle traverse in mezzo ai binari, e bisognava guardare dove si mettevano i piedi, che si avesse paura dell'altezza o meno. Un passo falso e ci si infilava nello spazio vuoto, probabilmente con anche una caviglia rotta.
La massicciata scendeva ripida sotto di me, e ogni passo avanti sembrava sigillare più fermamente la nostra decisione... e farla sembrare più stupidamente suicida. Mi fermai per alzare gli occhi quando vidi le rocce lasciare il posto all'acqua, lontano, sotto di me. Chris e Teddy erano molto avanti, quasi a metà, e Vern avanzava lentamente dietro di loro, scrutando attentamente giù ai suoi piedi. Sembrava una vecchia signora che prova i trampoli, la testa spinta in avanti, la schiena curva, le braccia in fuori per mantenere l'equilibrio. Mi guardai alle spalle. Troppo lontano, amico. Dovevo continuare ad andare, ormai, e non solo perché poteva arrivare un treno. Se fossi tornato indietro sarei stato una femminuccia per tutta la vita.
E così ripresi a camminare. Dopo aver guardato giù l'interminabile serie di traversine per un po', con tra l'una e l'altra la visione dell'acqua che ci scorreva sotto, cominciai a sentire le vertigini, a sentirmi disorientato. Ogni volta che mettevo giù un piede, una parte del mio cervello mi giurava che sarei affondato nel vuoto, anche se potevo vedere benissimo che non era così.
Mi venne la coscienza precisissima di tutti i rumori dentro e fuori di me, come una orchestra di matti che accorda gli strumenti. Il picchiare continuo del cuore, il battito del sangue nelle orecchie come un tamburo suonato con le spazzole, il cigolio dei tendini come le corde di un violino troppo tese, il sibilo ininterrotto del fiume, il ronzare incandescente di una cavalletta che scavava in una corteccia, il richiamo monotono di una cincia, e da qualche parte, molto lontano, il latrato di un cane. Forse Chopper. L'odore di muffa del Castle penetrava acuto nel mio naso. I muscoli delle cosce mi tremavano. Continuavo a dirmi quanto più sicuro (e probabilmente anche più rapido) sarebbe stato mettersi a quattro zampe e avanzare così. Ma non potevo farlo — nessuno di noi poteva farlo. Se mai gli spettacoli del sabato mattina al cinema Gem ci avevano insegnato qualcosa, questo era che Solo i Perdenti Strisciano. Era uno dei comandamenti fondamentali del Vangelo secondo Hollywood. I tipi in gamba camminano eretti, e se i tendini ti cigolano come corde di violino troppo tirate perché l'adrenalina ti scorre a fiumi per tutto il corpo, e se i muscoli delle gambe ti tremano per la stessa ragione, be', amen.
Dovetti fermarmi in mezzo al ponte e alzare gli occhi al cielo per un po'.
La sensazione di vertigine stava peggiorando. Vidi delle traversine fantasma — mi ballavano giusto davanti al naso. Poi svanirono e mi sentii di nuovo a posto. Guardai avanti e vidi che avevo quasi raggiunto Vern, che avanzava più lentamente che mai. Chris e Teddy erano arrivati quasi dall'altra parte.
E anche se da allora ho scritto sette libri su gente che sa fare cose stravaganti come leggere il pensiero e prevedere il futuro, fu quella la mia prima e ultima esperienza di un lampo psichico. Sono sicuro che si trattò di quello; come spiegarlo altrimenti? Mi chinai e presi nel pugno il binario alla mia sinistra. Vibrava nella mano. Vibrava così forte che era come tenere un pugno di serpenti metallici.  Avete sentito dire: «Sentì le viscere farsi acqua»? Io lo so che cosa significa questa frase — so esattamente che cosa significa. Potrebbe essere la più precisa frase fatta mai coniata. Da allora ci sono state altre volte in cui ho avuto paura, molta paura, ma mai quanta ne avevo in quel momento, mentre tenevo in mano quel binario vivo e rovente. Mi parve per un attimo che tutti gli organi al di sotto del livello della gola si fossero fatti inerti e rimanessero lì stesi in uno svenimento interno. Un sottile rivolo di orina mi corse abbandonato lungo una coscia. La bocca mi si aprì. Non la aprii io, si aprì da sola, la mascella scattò cadendo come una trappola a cui sia stato d'un tratto tolto il fermo. La lingua mi si era incollata contro il palato in maniera soffocante. Tutti i muscoli erano bloccati. Questo era il peggio. Gli organi erano inerti ma i muscoli erano in una specie di spaventosa paralisi, e non potevo fare alcun movimento. Fu solo un attimo, ma nel flusso temporale soggettivo, parve un'eternità.
Tutti i dati sensoriali si intensificarono, come se fosse avvenuto un sovraccarico di corrente nell'impianto elettrico del cervello, portando il tutto da centodieci volt a duecentoventi. Sentii un aeroplano passare nel cielo da qualche parte nelle vicinanze ed ebbi il tempo di desiderare di esserci sopra, seduto in poltrona con una Coca in mano a guardare oziosamente giù la linea scintillante di un fiume di cui non sapevo il nome. Potevo vedere ogni minima scheggia e nodo della traversina incatramata su cui ero accucciato. E con la coda dell'occhio potevo vedere il binario che la mia mano stringeva ancora, che scintillava pazzamente. La vibrazione del binario era penetrata così profondamente nella mano che quando la tolsi vibrava ancora, le terminazioni nervose che si urtavano all'infinito, formicolandomi come formicola una mano o un piede che s'è addormentato e comincia a svegliarsi. Potevo sentire il sapore della mia saliva, improvvisamente tutta elettrica e aspra e spessa sulle gengive. E, peggio, più orribile di tutto, non potevo ancora sentire il treno, non potevo sapere se mi avrebbe travolto davanti o dalle spalle, né quanto era vicino. Era invisibile. Non annunciato, tranne che per quella rotaia vibrante. C'era solo questo ad avvertire l'arrivo imminente. Un'immagine di Ray Brower, spaventosamente maciullato e scaraventato in un fosso da qualche parte come un sacco di biancheria squarciato, mi si presentò davanti agli occhi. Lo avremmo raggiunto, o almeno lo avremmo raggiunto Vern e io, o almeno l'avrei raggiunto io. Ci eravamo invitati al nostro funerale.
Quest'ultimo pensiero ruppe la paralisi e scattai in piedi. Probabilmente a chi mi avesse visto sarei sembrato un pupazzo a molla di quelli che balzano fuori dalla scatola, ma a me diedi l'impressione di uno visto al rallentatore sott'acqua, che schizza su non per un metro e mezzo di aria ma attraverso centocinquanta metri di acqua, muovendosi lentamente, muovendosi con paurosa fiacchezza in mezzo all'acqua che si apre a fatica.
Ma finalmente ruppi la superficie. Urlai
«TRENO!»
Le ultime tracce di paralisi mi abbandonarono e attaccai a correre.
La testa di Vern si girò di scatto. La sorpresa che ne distorceva i lineamenti pareva quasi una caricatura umoristica, scritta in grande come le lettere del sillabario. Mi vide rompere nella mia goffa corsa sbilenca, saltellando da una traversina orribilmente alta all'altra, e capì che non scherzavo. Si mise anche lui a correre.
Molto più in là, vidi Chris che scendeva dai binari sulla solida sicura massicciata e lo odiai con un improvviso lampo verde di odio, aspro e amaro come il succo di una foglia di aprile. Era in salvo. Quel fottuto era in salvo. Lo vidi che si buttava in ginocchio e afferrava una rotaia.
Il piede sinistro mi mancò quasi sotto. Agitai le braccia, gli occhi che mi scottavano come cuscinetti a sfera in un macchinario, ripresi l'equilibrio e continuai la mia corsa. Ora ero alle spalle di Vern. Avevamo superato la metà e per la prima volta sentii il treno. Veniva da dietro di noi, dal lato Castle Rock del fiume. Era un rombo profondo che cominciava a crescere e a dividersi nel ruggito del motore e nel rumore più acuto, più sinistro delle grosse ruote che giravano pesanti sui binari.
«Ahhhhhhhhhh, cazzo!» strillava Vern.
«Corri, vigliacco!» urlai io e gli diedi un colpo nella schiena.
«Non posso! Cado!»
«Corri più forte!»
«AHHHHHHHHHHH-CAZZO!»
Ma correva più forte, spaventapasseri saltellante col dorso nudo, abbronzato, il colletto della camicia ciondolante sotto il sedere. Vedevo il sudore spuntargli sulle scapole spellate; fermo in perline perfette. Vedevo la peluria fine sulla base del collo. I suoi muscoli si tendevano e si distendevano, si tendevano e si distendevano, si tendevano e si distendevano. La spina dorsale spuntava con una serie di nodi, e ogni nodo proiettava la sua ombra a mezzaluna — vedevo che questi nodi si facevano più fitti man mano che si avvicinavano al collo. Stringeva ancora il suo sacco a pelo e io stringevo ancora il mio. I piedi di Vern pestavano sulle traversine. Ne mancò quasi una, balzò in avanti con le braccia in fuori, e io gli battei ancora sulla schiena per spingerlo ad andare avanti.
«Gooordieee non posso AHHHHHHHHH-CAAAAAZZOOO...»
«CORRI PIÙ FORTE, FACCIADICAZZO!» urlai e me la stavo godendo?
Già — in un certo modo particolarissimo, autodistruttivo, un modo che ho poi provato solo quando ero completamente e definitivamente sbronzo, me la stavo godendo. Stavo spingendo Vern Tessio come un vaccaro che porta al mercato una vacca particolarmente bella. E forse lui si stava godendo la sua paura in quello stesso modo, muggendo come quella stessissima vacca, urlando e sudando, la cassa toracica che si gonfiava e ricadeva come il mantice del fabbro, mantenendo goffamente il passo, barcollando avanti.
Il treno era fortissimo adesso, il motore profondo come un tuono continuo. Il fischio risuonò quando arrivò al punto di snodo dove ci eravamo fermati a tirare sassi alla bandierina. Alla fine l'avevo avuto il mio cane infernale, che mi piacesse o no. Continuavo ad aspettare che il ponte si mettesse a tremarmi sotto i piedi. A quel punto lo avremmo avuto giusto dietro di noi.
«VAI PIÙ FORTE, VERN! PIÙ FORTEEE!»
«ODDIO Gordie Oddio Gordie Oddio Gordie OHHHHHHHH- CAAAAAAZZOOO!»
La sirena elettrica del merci frantumò all'improvviso l'aria in mille pezzi con un solo lungo violento scoppio, facendo volar via tutto quello che hai mai visto in un film o in un libro di fumetti o in uno dei tuoi sogni a occhi aperti, facendoti sapere che cosa eroi e vigliacchi sentono veramente quando la morte vola su di loro:
  WHHHHHHHHONNNNNNK!  WHHHHHHHHHHHH-
HONNNNNNNNNK!
Ed ecco che Chris era sotto di noi e sulla destra, e Teddy era dietro di lui, gli occhiali lampeggianti di sole, e tutti e due avevano sulla bocca una sola parola e la parola era salta! ma il treno aveva succhiato via tutto il sangue, dalla parola, lasciandone solo la forma sulla bocca. Il ponte cominciò a vibrare appena il treno vi montò sopra. Saltammo.
Vern finì lungo disteso nella polvere e i sassi, e io atterrai vicinissimo a lui, quasi addosso a lui. Non lo vidi mai, quel treno, né so se il macchinista ci vide — quando un paio di anni fa accennai a Chris alla possibilità che non ci avesse visto, lui disse: «Non suonano la sirena così per gioco, Gordie».
Ma poteva anche essere; poteva aver tirato la sirena tanto per fare. Penso io. In quel momento, questi particolari non avevano eccessiva importanza. Mi schiacciai le orecchie con le mani e ficcai la faccia nella polvere mentre il merci passava, metallo stridente contro metallo, l'aria che ci investiva. Non avevo nessuna fretta di guardare. Era un lungo treno, ma non lo guardai mai. Prima che fosse completamente passato sentii una mano calda sul collo e seppi che era Chris.
Quando fu passato — quando fui sicuro che fosse passato — alzai la testa come un soldato che esce dalla sua tana alla fine di un giorno intero di sbarramento di artiglieria. Vern era ancora incollato a terra, tremante. Chris sedeva a gambe incrociate in mezzo a noi, una mano sul collo sudato di Vern, l'altra ancora sul mio.
Quando Vern finalmente si mise a sedere, tremando per tutto il corpo e leccandosi freneticamente le labbra, Chris disse: «Che ne dite se ci beves- simo quelle Coche? A qualcun altro andrebbe oltre che a me?» A tutti ne andava una.

15

A circa quattrocento metri dentro la zona di Harlow, il tracciato della GS&WM si infilava direttamente in mezzo ai boschi. Il terreno fitto di vegetazione scendeva in pendio verso un'area paludosa. Era pieno di zanzare grosse quanto dei caccia, ma era fresco... benedettamente fresco.
Ci sedemmo all'ombra a berci le nostre Coca cola. Vern e io ci tirammo le camicie sulle spalle per difenderci dagli insetti, mentre Chris e Teddy rimasero nudi fino alla vita, freschi e a loro agio come due eschimesi nel loro igloo. Non eravamo lì neppure da cinque minuti che Vern dovette allontanarsi tra i cespugli a farsi una seduta, cosa che provocò un bel po' di battute e di gomitate quando ritornò.
«Te ne ha messa di paura il treno, eh, Vern?»
«No», rispose Vern. «Dovevo già farla quando abbiamo cominciato ad attraversare, comunque, dovevo farla, sapete?» «Verrrrrrn?» fecero Chris e Teddy in coro.
«Andiamo ragazzi, dovevo. Veramente.»
«Allora non ti dispiace se controlliamo il fondo dei tuoi calzoni?» chiese Teddy, e Vern rise, comprendendo finalmente che lo stavano prendendo in giro.
«Andate a farvi fottere.»
Chris si volse a me. «Ti ha spaventato quel treno, Gordie?» «Noo», feci io, e presi un sorso di Coca.
«Non molto, sbruffone.» Mi diede un pugno al braccio.
«Veramente! Non ero per niente spaventato.»
«Sì? Non eri spaventato?» Teddy mi scrutava attentamente.  «No! Ero pietrificato.»
Questo li stese tutti, compreso Vern, e ridemmo forte e a lungo. Poi rimanemmo sdraiati lì, senza dire altro, solo a bere in silenzio. Mi sentivo il corpo caldo, attivo, in pace con me stesso. Dentro filava tutto liscio come l'olio. Ero vivo e felice di esserlo. Mi pareva che ogni cosa spiccasse con una tenerezza speciale, e anche se non avrei mai potuto esprimerlo a parole pensavo che non importasse — forse quel senso di tenerezza era qualcosa che volevo tenere per me.
Credo che fu quel giorno che cominciai a capire un po' come succede che un uomo diventa un temerario. Un paio di anni fa ho pagato venti dollari per vedere Evel Kneivel che tentava il salto sopra lo Snake River Canyon e mia moglie ne fu inorridita. Mi disse che se fossi nato nell'antica Roma sarei stato sempre nel Colosseo a piluccare grappoli d'uva e a guardare i leoni che sbudellavano i cristiani. Aveva torto, anche se mi fu difficile spiegarle perché. Non tirai fuori quei venti biglietti per guardare quell'uomo morire, anche se ero sicuro che era esattamente quello che sarebbe successo. Ci andai per quelle ombre che sono sempre da qualche parte dietro i nostri occhi, per quello che Bruce Springsteen in una delle sue canzoni chiama le tenebre al limite del paese, e prima o poi credo che tutti vogliano sfidare quelle tenebre a dispetto dei goffi corpi che qualche burlone di un Dio ha dato a noi esseri umani. No... non a dispetto dei goffi corpi, ma grazie a loro.
«Ehi, raccontaci quella storia», disse all'improvviso Chris, mettendosi a sedere.
«Che storia?» chiesi io, anche se immaginavo di saperlo.
Mi sentivo sempre imbarazzato quando il discorso cadeva sulle mie storie, nonostante tutti sembrassero apprezzarle — aver voglia di raccontare storie, o addirittura di scriverle... era quasi tanto bizzarro da essere fin troppo regolare, come desiderare crescere e fare l'ispettore delle fogne o il meccanico del Grand Prix. Richie Jenner, un ragazzo che se la faceva con noi finché nel 1959, la famiglia non si trasferì nel Nebraska, fu il primo a scoprire che da grande volevo fare lo scrittore, che volevo farlo come lavoro a tempo pieno. Eravamo su nella mia stanza, a perdere tempo, e lui trovò un mazzo di fogli scritti, sotto i fumetti in una cartella nell'armadio. Cosa è questo? chiede Richie. Niente, dico io, e cerco di tirarglieli via. Richie tiene le pagine lontane dalla mia presa... e devo ammettere di non aver fatto uno sforzo eccessivo per riprenderle. Volevo che le leggesse e al tempo stesso non volevo — un misto scomodo di orgoglio e di timidezza che non è mai cambiato troppo dentro di me quando qualcuno chiede di vedere. L'atto di scrivere in sé è fatto in segreto, come la masturbazione — oh, ho un amico che ha fatto cose come scrivere storie nelle vetrine delle librerie e dei grandi magazzini, ma quello è un uomo che ha un coraggio quasi folle, il tipo di uomo che vorreste avere con voi se vi capita un infarto in una città dove non vi conosce nessuno. Per me è sempre un voler essere sesso e non arrivarci — sempre il lavoro di mano da adolescente nel bagno con la porta chiusa.
Richie stette quasi tutto quel pomeriggio seduto sul mio letto a leggere la roba che avevo fatto, per lo più influenzata dallo stesso genere di fumetti che dava gli incubi a Vern. E quando ebbe finito, Richie cominciò a guardarmi in uno strano modo nuovo, che mi faceva sentire molto particolare, come se si vedesse costretto a riconsiderare tutta quanta la mia personalità. Disse: Sei bravo. Perché non glieli fai vedere a Chris? Io dissi no, doveva essere un segreto, e Richie disse: Perché? Non è mica cosa da femminucce. Non sei mica un finocchio. Voglio dire, mica sono poesie.
Mi feci promettere lo stesso di non dire a nessuno delle mie storie, cosa che chiaramente lui fece immediatamente, e risultò che a quasi tutti piacevano le cose che scrivevo, cose per lo più su essere sepolti vivi o su uno che torna dall'aldilà e fa fuori la giuria che l'ha condannato con i Dodici Metodi Più Interessanti o del maniaco che dà fuori e riduce la gente in cotolette prima che l'eroe, Curt Cannon «fece a pezzi il folle subumano, un pezzo di piombo dopo l'altro, con la sua fumante quarantacinque automatica».
Nei miei racconti c'erano sempre pezzi di piombo. Mai proiettili.
Per cambiare ritmo c'erano le storie di Le Dio. Le Dio era una cittadina della Francia, e durante il 1942, uno sporco plotone di stanche facce di mastini americani cercavano di riprenderla dai nazisti (questo due anni prima che scoprissi che gli Alleati non sbarcarono in Francia prima del 1944). Continuavano a tentare di rioccuparla, combattendo di strada in strada, nel corso di una quarantina di racconti che scrissi tra i nove e i quattordici anni. Teddy andava completamente pazzo per le storie di Le Dio, e credo di aver scritto l'ultima dozzina solo per lui — a quel punto ero stufo marcio di Le Dio e di scrivere cose come Mon Dieu e Cherchez le Boche! e Fermez la porte! A Le Dio i contadini francesi sibilavano in continuazione sulle facce di mastino americane di Fermez la porte! Ma Teddy si curvava sulle pagine, gli occhi spalancati, la fronte imperlata di sudore, la faccia contratta. Certe volte potevo proprio sentire le Browning raffreddate ad aria e le 88 sventagliare dentro il suo cranio. Il modo in cui sollecitava sempre nuove storie di Le Dio era a un tempo lusinghiero e spaventoso.
Oggi scrivere è il mio lavoro e il piacere è un po' diminuito, e sempre più spesso quel piacere colpevole, masturbatorio, è venuto ad associarsi nella mia mente con le fredde immagini cliniche dell'inseminazione artificiale: vengo secondo le norme e le regole stabilite dal mio contratto di edizione. E anche se nessuno mi chiamerà mai il Thomas Wolfe della mia generazione, raramente mi sento un imbroglione: mi ci metto con tutta la mia forza ogni fottuta volta. Fare di meno sarebbe, in un certo senso, come diventare finocchio — o quello che significava per noi allora. Quello che mi spaventa è quanto spesso oggi mi fa male. Allora a volte mi prendeva il disgusto per quanto dannatamente mi faceva star bene scrivere. Oggi, qualche volta, guardo questa macchina per scrivere e mi domando quando rimarrà all'asciutto di parole giuste. Non voglio che questo accada. Scommetto che posso rimanere in forma finché non rimango a corto di parole giuste, sapete?  «Che storia è?» chiese Vern a disagio. «Non sarà una storia dell'orrore, eh, Gordie? Non credo che ho voglia di sentire storie dell'orrore. Non sono in vena, amico.»
«No, non è dell'orrore», disse Chris. «È divertentissima. Vai avanti Gordie.
Raccontaci.»
«È su Le Dio?» chiese Teddy.
«No, non è su Le Dio, fanatico», fece Chris e gli diede un pugno. «È su una gara di mangiatorte.»
«Ehi, ma non l'ho ancora nemmeno scritta», dissi io.
«Sì, ma raccontala.»
«Volete sentirla?»
«Certo», disse Teddy. «Dai, capo.»
«Be', è su questa città inventata, Gretna, l'ho chiamata. Gretna, Maine.»
«Gretna?» ghignò Vern. «Che razza di nome è? Non ci sono Gretne nel
Maine.»
«Stai zitto, idiota», disse Chris. «Ti ha appena detto che si tratta di una città inventata, no?»
«Sì, ma Gretna, suona così stupido...»
«Un sacco di paesi suonano stupidi», disse Chris. «Voglio dire, che c'è di intelligente in Alfred, Maine? O in Saco, Maine? O in Jerusalem's Lot? O in Castle-fottuto-Rock? C'è un castello, lì. Tutti i nomi di paesi, quasi, sono stupidi. Non ci fai caso perché sei abituato. Giusto, Gordie?»
«Certo», dissi, ma dentro di me pensai che Vern aveva ragione — Gretna era un nome proprio stupido per una città. Solo che non me ne era venuto un altro. «Insomma, fanno le loro annuali Giornate dei Pionieri, proprio come a Castle Rock...»
«Già, le Giornate dei Pionieri sono una cosa bestiale», fece Vern gravemente. «Ho convinto tutta la famiglia a salire su quella galera a ruote che hanno, perfino quel fottuto di Billy. Era solo un'ora e mezzo e mi è costato tutta quanta la mia paga settimanale, ma valeva la pena solo per sapere dove quel figlio di puttana di...»
«Vuoi chiudere il becco e lasciarlo continuare?» lo zittì Teddy. Vern sbatté gli occhi. «Certo. Sicuro. Okay.» «Vai avanti, Gordie», disse Chris.
«Non è davvero un gran...»
«Andiamo, non ci aspettiamo molto da un piscione come te», disse Teddy, «ma raccontala lo stesso.»
Mi schiarii la gola. «Allora. Sono le Giornate dei Pionieri e l'ultima sera fanno queste tre grosse manifestazioni. C'è la gara con le uova per i bambini piccoli, una corsa nei sacchi per quelli sugli otto o nove anni, e poi c'è la gara delle torte. E il personaggio principale della storia è questo ragazzino grasso che non è simpatico a nessuno e che si chiama Davie Hogan.»
«Come il fratello di Charlie Hogan, se ne avesse uno», disse Vern, e poi si tirò indietro quando Chris gli diede un altro pugno.
«Questo ragazzo è uno della nostra età, ma è grasso. Peserà ottanta chili e continuano a picchiarlo e a sfotterlo. E tutti i ragazzi invece di chiamarlo Davie lo chiamano Culo di Lardo Hogan e lo sfottono ogni volta che ne hanno l'occasione.»
Annuirono pieni di rispetto e di considerazione per il povero Culo di Lardo, anche se, se mai un tipo così si fosse presentato a Castle Rock, saremmo tutti usciti a sfotterlo e a tormentarlo.
«E allora lui decise di prendersi una rivincita perché ne ha, diciamo, piene le scatole, sapete? Lui si presenta soltanto alla gara delle torte da mangiare, ma quella è la manifestazione finale durante le Giornate dei Pionieri e ci tengono tutti. Il premio sono cinque carte...»
«E allora lui vince e glielo mette nel culo a tutti!» disse Teddy. «Fantastico!»
«No, è meglio di così», disse Chris. «Stai zitto e senti.»
«Culo di Lardo pensa tra sé, cinque carte, che saranno? Se qualcuno si ricorderà più niente del tutto tra due settimane, sarà solo che quel brutto porco di Hogan si è fatto fuori tutto, be', diranno, andiamo a casa sua e facciamogli il culo, solo che ora lo chiameremo Culo di Torta invece che
Culo di Lardo.»
Annuirono ancora, d'accordo sul fatto che David Hogan era uno con le rotelle che gli giravano bene. Cominciavo ad affezionarmi alla mia storia.
«Ma tutti si aspettano che lui partecipi alla gara, sapete. Anche la sua mamma e il suo papà. Ehi, praticamente danno quei cinque dollari per già spesi.»
«Già, esatto», disse Chris.
«E così lui ci pensa su, e tutta la faccenda gli fa schifo, perché essere grasso non è poi colpa sua. Vedete, ha quelle fottute glandole strane, qualcosa, e...»
«Mia cugina è così!» esclamò Vern eccitato. «Veramente! Pesa quasi centocinquanta chili! Dovrebbe essere la glandola iboide o qualcosa del genere. Non so niente della sua glandola iboide, ma cazzo che palla che è, senza scherzi, pare un fottuto tacchino ripieno e una volta...»
«Vuoi chiudere quella cazzo di bocca, Vern?» gridò con violenza Chris. «Per l'ultima volta! Giuro su Dio!» Aveva finito la sua coca e ora aveva impugnato la bottiglia per il collo e la puntava minaccioso verso la testa di Vern.
«Sì, giusto, scusa. Vai avanti, Gordie. È una storia bestiale.»
Sorrisi. In realtà non mi dispiacevano le interruzioni di Vern, ma ovviamente questo a Chris non potevo dirlo; lui si era autonominato Guardiano dell'Arte.
«E così si sta rigirando la cosa nella mente, sapete, per tutta la settimana prima della gara. A scuola, i compagni continuano ad andargli vicino e a dirgli: Ehi Culo di Lardo, quante torte ti mangi? Te ne mangi dieci? Venti? Ottanta? E Culo di Lardo, lui dice: Che ne posso sapere? Non so neppure di che tipo sono. E, vedete, c'è un certo interesse per la gara perché il campione è uno grande che si chiama, ehm, Bill Traynor, probabilmente. E questo Traynor, lui non è nemmeno grasso. Anzi, è un vero chiodo. Ma è capace di mangiare torte come se niente fosse, e l'anno prima si è mangiato sei torte in cinque minuti.»
«Torte intere?» chiese Teddy sbalordito dall'ammirazione.
«Esatto. E Culo di Lardo è il più giovane che abbia mai partecipato alla gara.»
«Forza, Culo di Lardo!» gridò Teddy eccitato. «Fatti fuori quelle fottute torte!»
«Digli degli altri della gara», mi sollecitò Chris.
«Okay. Oltre a Culo di Lardo Hogan e Bill Traynor, c'era Calvin Spier, il tizio più ciccione della città — era il proprietario della gioielleria.»
«Gretna Gioielli», fece Vern e sghignazzò. Chris gli lanciò un'occhiata da fulminarlo.
«E poi c'era questo tizio che faceva il disc jockey in una radio di Lewiston. Non era proprio grasso, ma un po' paffuto, sapete. E infine c'era Hubert
Gretna Terzo, che era il direttore della scuola di Culo di Lardo Hogan.»  «E lui mangia contro il suo direttore?» chiese Teddy.
Chris si strinse le ginocchia e si mise a dondolare avanti e indietro felice.
«Non è grande? Vai avanti, Gordie!»
Ormai li tenevo in pugno. Erano tutti ansiosi. Sentivo un inebriante senso di potere. Lanciai la mia bottiglia vuota nel folto e mi agitai un po' per trovare una posizione comoda. Mi ricordo che sentii di nuovo la cincia, tra gli alberi, molto più lontana, adesso, che alzava il suo richiamo monotono, interminabile, nel cielo: di-di-di-di...
«E allora gli viene quest'idea», dissi, «la più grande idea di vendetta che abbia mai avuto un ragazzino. La grande serata arriva - l'ultima delle
Giornate dei Pionieri. La gara delle torte si fa subito prima dei fuochi d'artificio. Il corso principale di Gretna è stato chiuso al traffico, così che la gente può camminarci, e c'è un grande palco alzato proprio nella via. È tutto imbandierato e davanti c'è una gran folla. C'è anche un fotografo del giornale. E poi, avevo quasi dimenticato di dirvelo, devono mangiare le torte con le mani legate dietro la schiena. E così sapete, salgono sul palco...»

16

Da La Vendetta di Culo di Lardo Hogan, di Gordon Lachance. Pubblicato originariamente in Cavalier, marzo 1975. Per gentile concessione.

Salirono sul palco uno per uno e si misero dietro un lungo tavolo su cavalietti coperti da una tovaglia di lino. Il tavolo era carico di torte e stava sull'orlo della piattaforma. Sopra, c'erano le ghirlande delle lampadine da cento watt, con le falene e le zanzare che vi giravano attorno e picchiandoci contro. Sopra la piattaforma, immersa nella luce, una lunga scritta dice-
va LA GRANDE MANGIATA DI TORTE DI GRETNA DEL 1960; dalle due parti della scritta pendevano gli altoparlanti ammaccati forniti da Chuck Day del Great Day Appliance Shop. Bill Travis, il campione in carica, era cugino di Chuck.
Appena salito, a ogni concorrente venivano legate le mani dietro e gli veniva aperta la camicia sul davanti, come Sydney Carton sulla via della ghigliottina; il sindaco Charbonneau annunciava il nome dell'impianto di amplificazione di Chuck e legava un grande bavaglio bianco attorno al collo. Calvin Spier si ebbe solo un applauso di cortesia; nonostante la sua pancia, grande quanto un barile da venti galloni, era considerato un perdente, secondo solo al ragazzo Hogan (molti vedevano Culo di Lardo come una speranza, ma troppo giovane e inesperto per far bene quest'anno).
Dopo Spier fu presentato Bob Cormier. Cormier era un disc jockey che aveva un popolare programma pomeridiano al WLAM di Lewiston. Ebbe un applauso caloroso, accompagnato da qualche urletto delle ragazzine del pubblico. Le ragazze dicevano che era «carino». John Wiggins, direttore della scuola elementare di Gretna, seguì a Cormier. Ricevette un cordiale applauso dalla sezione più anziana del pubblico — e qualche fischio sparso da membri del suo corpo studentesco. Wiggins riuscì a sorridere paternamente e al tempo stesso a lanciare un'occhiata severa al pubblico.
Quindi, il sindaco Charbonneau presentò Culo di Lardo.
«Un nuovo partecipante alla Grande Gara di Gretna, ma uno da cui ci aspettiamo grandi cose in futuro... il giovane signor David Hogan!» Culo di Lardo si prese un grosso scroscio di applausi mentre il sindaco Charbonneau gli legava il bavaglino, e quando gli applausi si smorzarono un coro ben esercitato raggiunse le lampadine da cento: «Fatteli-tutti-CuIo-di- Lardo!»
Ci furono risolini soffocati, passi di corsa, delle ombre che nessuno poté (o volle) identificare, qualche risata nervosa, qualche cipiglio giudizioso (il più severo da Hizzoner Charbonneau, l'autorità più visibile). Culo di Lardo, lui, pareva non essersene neppure accorto. Il sorrisetto che gli increspava le labbra grosse e che gli tendeva le gonfie guance non si mosse mentre il sindaco, ancora lanciando il suo sguardo severo, finì di legargli il tovagliolo dicendogli di non prestare attenzione agli sciocchi del pubblico (come se il sindaco avesse anche la più vaga idea di che mostruosi sciocchi Culo di Lardo fosse stato costretto a sopportare, e avrebbe continuato a sopportare, avanzando nella vita come un carro armato tedesco). Il fiato del sindaco era caldo e sapeva di birra.
L'ultimo partecipante a montare sul palco decorato dai festoni strappò l'applauso più forte e più sostenuto; era il leggendario Bill Travis, un metro e novantacinque, dinoccolato, voracissimo. Travis faceva il meccanico nella locale stazione di servizio della Amoco giù lungo la ferrovia, simpatico tipo se mai ce n'è stato uno.
Era ben noto in paese che nella Grande Gara c'era di più che semplicemente i cinque dollari — almeno, per Bill Travis era così. C'erano due ragioni per questo. Primo, la gente andava sempre alla stazione di servizio a congratularsi con Bill dopo che aveva vinto la gara, e quasi tutti quelli che ci andavano si fermavano a farsi fare il pieno. E i due posti dell'officina erano a volte prenotati per un mese buono dopo la gara. La gente veniva a farsi sostituire una marmitta, ingrassare un ingranaggio, e sedeva nelle sedie da cinema sistemate lungo la parete (Jerry Maling, il proprietario dell'Amoco, le aveva recuperate dal vecchio cinema Gem quando era stato abbattuto, nel 1957), bevendo Coca e Moxie del distributore, e scambiando battute con Bill sulla gara mentre lui cambiava una candela o si muoveva su un carrello a ruote per infilarsi sotto il furgoncino International Harvester in cerca di un buco sul sistema di scappamento. Bill sembrava sempre disposto a parlare, e questo era uno dei motivi per cui a Gretna era così benvoluto.
Si discuteva in paese se Jerry Maling desse a Bill un premio per gli affari extra procurati dalla sua impresa annuale, o se ricevesse ogni volta un aumento. Comunque sia, era innegabile che a Travis andasse molto meglio che altri meccanici di officina di paese. Aveva una bella casa a due piani sulla Sabbatus Road, e qualche maligno la chiamava «la casa costruita torta su torta». Questo probabilmente era un'esagerazione, ma Bill aveva altre entrate — e questo ci porta alla seconda ragione per cui per Travis c'era più che i cinque dollari.
La gara delle torte era una manifestazione su cui si puntava forte, a Gretna. Forse i più ci andavano solo per farsi una risata, ma una discreta minoranza ci veniva anche per metterci su dei soldi. I concorrenti venivano osservati e discussi da questi scommettitori con la passione con cui vengono osservati e discussi i purosangue alle corse di cavalli. I giocatori accostavano gli amici dei partecipanti, i loro parenti, perfino semplici conoscenti. Ne spremevano fino alla minima informazione sulle abitudini alimentari del concorrente. C'erano sempre una quantità di discussioni sulla torta ufficiale dell'anno — quella di mela era considerata una torta «pesante», mentre quella di albicocca «leggera» (anche se un concorrente doveva rassegnarsi a uno o due giorni di corse al cesso dopo essersi ingollato tre o quattro torte di albicocca). La torta ufficiale di quell'anno, ai mirtilli, era considerata una felice via di mezzo. Gli scommettitori, ovviamente, erano particolarmente interessati alla disposizione dello stomaco del loro uomo verso i piatti di mirtilli. Com'era messo con i pasticcini di mirtilli? Preferiva la marmellata di mirtilli o la conserva di fragole? Era noto per aggiungere mirtilli ai fiocchi d'avena della colazione, o era una personalità strettamente banane e panna?
C'erano altre questioni di una certa importanza. Era un mangiatore veloce che poi rallentava o uno lento all'inizio che poi prendeva velocità quando le cose si facevano serie, o solo un costante dall'inizio alla fine? Quanti hotdog poteva farsi guardando una partita della Babe Ruth League giù al campo di baseball di St. Doni? Era un bevitore di birra, e, in questo caso, quante bottiglie normalmente faceva fuori nel corso di una serata? Era uno che ruttava? Si riteneva che un bravo ruttatore fosse un po' più duro da battere sul lungo percorso.
Tutto questo più altre informazioni venivano raccolte, venivano fatti i conti, poste le scommesse. Quanto denaro passasse effettivamente di mano durante la settimana che seguiva la notte delle torte non ho modo di saperlo, ma se mi puntate una pistola alla testa e mi costringete a fare un'ipotesi, direi che ci avviciniamo ai mille dollari — forse sembra una cifra da niente, ma erano un sacco di soldi per un paese così piccolo e per quindici anni fa.
E dato che la gara era onesta e il limite di tempo di dieci minuti veniva osservato strettamente, nessuno faceva obiezioni a che un concorrente scommettesse su se stesso, cosa che Bill Travis faceva ogni anno. Si diceva, mentre lui annuiva sorridendo al suo pubblico in quella sera d'estate del 1960, che avesse scommesso di nuovo su se stesso una bella somma, e che il meglio che aveva avuto quell'anno era uno a cinque. Se non siete esperto di scommesse, lasciate che vi spieghi in questo modo: avrebbe dovuto giocare duecentocinquanta dollari per rischiare di vincerne cinquanta. Non un grande affare, ma questo era il prezzo del successo — e mentre se ne stava lì, a raccogliere gli applausi sorridendo a suo agio, non pareva affatto preoccupato.
«Ed ecco a voi il campione in carica», strombazzò il sindaco Charbonneau, «il nostro Bill Travis!»
«Hoo, Bill!»»
«Quante te ne fai stasera, Bill?»
«Te ne fai dieci, Billy-boy?»
«Ne ho puntati due su di te, Bill! Non deludermi, ragazzo!»
«Lasciami una di quelle torte, Trav!»
Annuendo e sorridendo con la modestia del caso, Bill Travis lasciò che il sindaco gli legasse il suo bavaglino attorno al collo. Poi sedette all'estremità destra della tavola, vicino al posto dove sarebbe stato il sindaco Charbonneau durante la gara. Da destra a sinistra, quindi, i mangiatori erano Bill Travis, David «Culo di Lardo» Hogan, Bob Cormier, il direttore John Wiggins, e Calvin Spier che occupava lo sgabello dell'estrema sinistra.
Il sindaco Charbonneau diede la parola a Sylvia Dodge, che era un personaggio tipico della gara anche più dello stesso Bill Travis. Era stata presidentessa della Gretna Ladies' Auxiliary per un numero indicibile di anni (fin dalla Prima Manassas, secondo qualche spiritoso del paese), ed era lei che sovrintendeva alla preparazione delle torte tutti gli anni, sottoponendo severamente ciascuna al suo rigoroso controllo di qualità, che comprendeva una cerimonia di pesata sulla bilancia da macellaio di Mr. Bancichek giù al Freedom Market — questo per accertarsi che ogni torta non differisse dalle altre di più di un'oncia.
Sylvia dedicò un sorriso regale alla folla, i capelli azzurrini luccicanti sotto il bagliore delle lampadine. Fece un breve discorso su quanto era lieta che tanta parte del paese aveva partecipato alla celebrazione dei loro duri antenati pionieri, la gente che ha fatto grande questo paese, perché era grande, e non solo al nostro livello, al livello delle radici dell'erba, dove il sindaco Charbonneau avrebbe condotto di nuovo i repubblicani ai seggi della città a novembre, ma anche a livello nazionale dove il gruppo NixonLodge avrebbe raccolto la fiaccola della libertà dal Nostro Grande e Amato Generale e l'avrebbe tenuta alta per...
La pancia di Calvin Spier brontolò rumorosamente — ci furono delle risate e anche qualche applauso. Sylvia Dodge, che sapeva benissimo che Calvin era democratico e pure cattolico (da sole le due cose sarebbero state perdonabili, ma combinate, mai), riuscì ad arrossire, a sorridere e a mostrarsi furiosa contemporaneamente. Si schiarì la gola e attaccò una sonante esortazione a ogni ragazzo e ragazza tra il pubblico, dicendo loro di tenere sempre alto il rosso, bianco e blu, nelle mani e nel cuore, e di ricordare che il fumare è un'abitudine sporca e dannosa e che fa venire la tosse. I ragazzi e le ragazze tra il pubblico, molti dei quali di lì a otto anni avrebbero portato distintivi della pace e fumato non Camel ma marijuana, strisciarono i piedi e attesero che l'azione iniziasse.
«Meno chiacchiere, più mangiate!» gridò qualcuno in fondo, e ci fu un altro scoppio di applausi — più caloroso questa volta.
Il sindaco Charbonneau porse a Sylvia un cronometro e un fischietto argentato della polizia, che doveva suonare alla fine dei dieci minuti di spazzolamento-torte. Il sindaco Charbonneau si sarebbe allora fatto avanti e avrebbe alzato la mano del vincitore.
«Siete pronti?» La voce di Hizzoner rotolò trionfante per il palco e lungo la Main Street.
I cinque mangiatone dichiararono che erano pronti.
«A POSTO?» si informò ulteriormente Hizzoner.
I mangiatori grugnirono che erano proprio a posto. Giù in strada, un ragazzo accese una fila di castagnole.
Il sindaco Charbonneau alzò una mano suina e la lasciò ricadere.
«VIA!!!»
Cinque teste caddero in cinque piatti di torte. Il rumore fu come di cinque piedi che pestassero sodo nel fango. I nasi intasati si alzarono nella tiepida aria della sera e poi si sturarono mentre scommettitori e sostenitori cominciavano a incitare i loro favoriti. E la prima torta non era stata ancora demolita che i più si resero conto che era in corso un possibile rovesciamento.
Culo di Lardo Hogan, perdente sicuro dato sette a uno per l'età e l'inesperienza, stava mangiando come un invasato. Le sue mascelle macinavano la crosta (le regole della gara prevedevano che fosse mangiata solo la crosta superiore e l'interno, non il fondo) e quando questa fu sparita, un enorme rumore di risucchio partì dalle sue labbra. Era come un aspirapolvere industriale in funzione. Poi tutta la testa scomparve nel piatto. La alzò quindici secondi dopo per segnalare che aveva finito. Le guance e la fronte erano sporche di sugo di mirtilli, e sembrava un cantante truccato da negro in un minstrel show. Aveva finito — finito prima che il leggendario Bill Travis fosse arrivato a metà della sua prima torta.
Applausi di sorpresa scoppiarono quando il sindaco esaminò il piatto di Culo di Lardo e lo dichiarò sufficientemente pulito. Ne piazzò un secondo davanti al battistrada. Culo di Lardo si era ingoiato una torta di grandezza regolamentare in appena quarantadue secondi. Un record.
Si avventò sulla seconda torta con furia ancora maggiore, la testa che andava su e giù nel morbido ripieno di mirtilli, e Bill Travis gli lanciò un'occhiata preoccupata mentre chiedeva la sua seconda torta. Come disse poi agli amici, sentì di essere per la prima volta veramente in gara dal 1957, quando George Gamache si era ingurgitato tre torte in quattro minuti e poi era stato portato via svenuto. Dovette chiedersi, disse, se si trovava davanti un ragazzo o un demonio. Pensò ai soldi che aveva in gioco e raddoppiò gli sforzi.
Ma se Travis aveva raddoppiato, Culo di Lardo aveva triplicato. I mirtilli volavano dal secondo piatto, macchiando la tovaglia attorno a lui come un quadro di Jackson Pollock. C'erano mirtilli tra i suoi capelli, mirtilli appiccicati alla fronte come se, in un tremendo sforzo di concentrazione, avesse preso davvero a sudare mirtilli.
«Finito!» gridò, sollevando la testa dal secondo piatto prima che Bill Travis avesse consumato anche la crosta della sua nuova torta.
«È meglio che rallenti, ragazzo», mormorò Hizzoner. Charbonneau stesso aveva puntato dieci dollari su Bill Travis. «Devi darti un ritmo se vuoi arrivare alla fine.»
Ma come se Culo di Lardo non avesse sentito, si buttò sulla terza crostata con rapidità folle, le mandibole che si muovevano alla velocità della luce. E poi...
Ma devo interrompere per un momento per dirvi che c'era una boccetta vuota nell'armadietto dei medicinali a casa di Culo di Lardo Hogan. Prima, la boccetta era stata piena per tre quarti di olio di castoro giallo perla, forse il liquido più nocivo che il buon Dio, nella Sua infinita saggezza, abbia mai permesso di comparire sulla faccia della terra. Culo di Lardo se l'era svuotata lui quella bottiglia, bevendone fino all'ultima goccia e poi leccando il bordo, la bocca contratta, lo stomaco in subbuglio, il cervello pieno di pensieri di dolce vendetta.
E mentre si faceva strada rapidamente in mezzo alla sua terza torta (Calvin Spier, buon ultimo come da previsioni, non aveva ancora finito la prima), Culo di Lardo cominciò a torturarsi deliberatamente con fantasie disgustose. Non erano torte quelle che stava mangiando: erano merde di vacca. Stava mangiando grossi pezzi di intestino viscido di marmotta. Stava mangiando intestino di marmotta affettato e cosparso di salsa di mirtillo. Salsa di mirtillo rancida.
Finì la terza torta e chiamò la quarta, e adesso era avanti al leggendario Bill Travis di una intera torta. La fitta folla, avvertendo la presenza di un nuovo e inatteso campione, cominciò a incitarlo eccitata.
Ma Culo di Lardo non aveva né speranza né intenzione di vincere. Non avrebbe potuto continuare al ritmo a cui stava andando neppure se fosse stata in gioco la vita della madre. E poi, per lui vincere significava perdere; la vendetta era l'unica medaglia a cui tendeva. La pancia gemente per l'olio di castoro, la gola stretta per la nausea, finì la quarta torta e chiese la quinta, la Torta Ultima Definitiva — Il Mirtillo si addice a Elettra, per così dire. Lasciò cadere la testa nel piatto, rompendo la crosta, e aspirò mirtilli su per il naso. Mirtilli gli si riversarono sulla camicia. Il contenuto del suo stomaco parve all'improvviso guadagnare peso. Masticò la crosta friabile e l'inghiottì. Aspirò mirtilli.
E improvvisamente il momento della vendetta fu a portata di mano. Il suo stomaco, caricato al di là del tollerabile, si rivoltò. Si strinse come una mano infilata in un liscio guanto di gomma. La gola si aprì.
Culo di Lardo alzò la testa.
Sorrise a Bill Travis con denti blu.
Il vomito rombò su per la sua gola come un Peterbilt da sei tonnellate sparato attraverso un tunnel.
Uscì ruggendo dalla sua bocca in una massa blu e gialla, calda e allegramente fumante. Ricoprì Bill Travis, che ebbe il tempo di emettere una sola sillaba insensata — «Gug!», così sembrava. Delle donne tra il pubblico strillarono. Calvin Spier, che aveva osservato questo evento inatteso con un'espressione vacua e sorpresa sulla faccia, si sporse con aria da conversazione sopra la tavola come per spiegare al pubblico a bocca aperta cos'era successo, e vomitò sulla testa di Marguerite Charbonneau, moglie del sindaco. Lei urlò e indietreggiò, portandosi inutilmente le mani ai capelli, ormai coperti di una miscela di bacche masticate, fagioli stufati e wurstel parzialmente digeriti. Si volse verso la sua buona amica Maria Lavin e vomitò sul davanti della giacca di daino di Maria.
In rapida successione, come una serie di mortaretti:
Bill Travis lanciò un grande — e apparentemente sovraccarico — getto di vomito sulle prime due file di spettatori, con la faccia sbalordita che proclamava a ciascuno e a tutti. Gente, non posso crederci che sono io a far questo;
Chuck Day, che aveva ricevuto una generosa porzione del dono a sorpresa di Bill Travis, vomitò sulle sue Hush Puppies e poi le fissò con aria interrogativa, ma sapendo benissimo che quella roba non sarebbe mai andata via dalla pelle scamosciata;
John Wiggins, direttore delle elementari di Gretna, aprì la bocca macchiata di blu e disse con tono di disapprovazione: «Davvero, questo è... YURRK!» Come si addice a un uomo della sua educazione e della sua posizione, lo fece dentro il suo piatto;
Hizzoner Charbonneau, che improvvisamente si trovò a presiedere su quello che doveva sembrare più un reparto ospedaliero di malati di stomaco che una gara di mangiatorte, aprì la bocca per dichiarare chiuso il tutto e vomitò tutto sul microfono.
«Gesù ci aiuti!» gemé Sylvia Dodge, e poi la sua cena oltraggiata — molluschi fritti, insalata mista di cavoli, granturco burro e zucchero (per due pannocchie) e una porzione generosa di torta al cioccolato di Muriel Harrington — schizzò su dall'uscita di emergenza e atterrò con un gran tonfo umido sulle spalle dell'abito del sindaco.
Culo di Lardo Hogan. ora all'apogeo assoluto della sua giovane vita, gongolava beato sul pubblico. Il vomito era dappertutto. La gente barcollava in cerchio come ubriaca, tenendosi la gola e facendo versi strozzati. Il pechinese di qualcuno corse oltre il palco ululando come impazzito, e un uomo in jeans e camicia di seta gli vomitò addosso, quasi annegandolo. Mrs. Brockway, la moglie del ministro metodista, fece un lungo basso verso eruttivo seguito da un getto di roastbeef semidigerito e di puré di patate e di succo di mela. Il succo non doveva essere male quando era andato giù la prima volta. Jerry Maling, che era venuto a vedere come il suo coccolato meccanico se ne andava via con tutti i suoi soldini, decise di allontanarsi dignitosamente da quel manicomio. Fece una quindicina di metri prima di inciampare sull'automobilina rossa di un bambino e di rendersi conto che era atterrato in una pozza di bile calda. Jerry si depose in grembo la cena e più tardi disse alla gente che aveva ringraziato la Provvidenza perché aveva adosso la tuta di lavoro. E Miss Norman, che insegnava latino e inglese alla Consolidated High School di Gretna, si vomitò dentro la borsa in uno sforzo di decenza.
Culo di Lardo osservava tutto ciò, il faccione calmo e sorridente, lo stomaco improvvisamente raddolcito e tranquillizzato da un caldo balsamo che forse non avrebbe mai più provato — quel balsamo era una sensazione di completa e totale soddisfazione. Si alzò, prese il microfono leggermente appiccicoso dalla mano tremante del sindaco Charbonneau, e disse...

17

«'Dichiaro nulla questa gara'. Poi mette giù il microfono, si avvia verso il fondo della piattaforma e se ne va dritto a casa. Sua madre è lì, visto che non è riuscita a trovare una baby sitter per la sorellina di Culo di Lardo, che ha solo due anni. Non appena lui entra in casa, coperto di vomito e di torta sbavata, ancora col bavaglino addosso, lei dice, 'Davie, hai vinto tu?' Ma lui non dice una fottutissima parola, sapete. Se ne va su in camera sua, chiude la porta e si sdraia sul letto.»
Bevvi l'ultimo sorso dalla bottiglia di Chris e la buttai tra gli alberi.  «Sì, bene, e poi che è successo?» chiese ansioso Teddy.
«Non lo so.»
«Come sarebbe, non lo sai?»
«Sarebbe che è finito. Quando non sai dopo che cosa è successo, allora è finito.»
«Coooome?» esclamò Vern. C'era uno sguardo stravolto, sospettoso sulla sua faccia, come se avesse appena cominciato a divertirsi al bingo della
Fiera di Topsham. «Com'è questa storia? Come ne esce?»
«Devi usare la tua immaginazione», spiegò Chris pazientemente.
«Ma neanche per sogno!» fece Vern arrabbiato. «È lui che deve usare la sua immaginazione! È lui che ha fatto questa fottutissima storia!»
«Sì, che è successo al tizio?» insisté Teddy. «Dai, Gordie, diccelo.»
«Secondo me suo padre era alla gara e quando è tornato a casa gliele ha suonate a sangue, a Culo di Lardo.»
«Sì, giusto», disse Chris. «Scommetto anche io che è successo questo.»
«E», continuai, «i ragazzi continuarono a chiamarlo Culo di Lardo. Solo che magari qualcuno di loro cominciò a chiamarlo anche Vomita-
Budella.»
«Che finale di merda», disse Teddy tristemente.
«Per questo non ve lo volevo dire.»
«Potevi fare che lui stendeva il padre e scappava ed entrava nei Texas
Rangers», disse Teddy. «Che te ne pare?»
Chris e io ci scambiammo un'occhiata. Chris sollevò impercettibilmente una spalla.
«Può andare», dissi io.
«Ehi, hai qualche nuova storia di Le Dio, Gordie?»
«Ora no. Magari ne penserò una.» Non volevo sconvolgere Teddy, ma non mi interessava troppo sapere che cosa stava succedendo a Le Dio. «Mi dispiace che questa non ti è piaciuta.»
«No, era buona», fece Teddy. «Fino alla fine era buona. Tutto quel vomito era a posto.»
«Sì, quello era a posto, forte», convenne Vern. «Ma Teddy ha ragione sul finale. È una specie di bidone.» «Già», dissi io, e sospirai.
Chris si alzò. «Camminiamo un po'», disse. Era ancora pieno giorno, il cielo di un azzurro caldo, metallico, ma le nostre ombre avevano cominciato ad allungarsi. Mi ricordo che da ragazzo le giornate di settembre mi parevano finire sempre troppo presto, cogliendomi di sorpresa — era come se qualcosa dentro il mio cuore si aspettasse che fosse sempre giugno, con la luce in cielo fino quasi alle nove e mezzo. «Che ora è, Gordie?»
Guardai l'orologio e rimasi stupito a vedere che erano le cinque passate.
«Sì, andiamo», fece Teddy. «Ma mettiamo il campo prima di buio così che ci vediamo per prendere la legna e la roba. E poi mi sta venendo fame.»
«Alle sei e mezzo», promise Chris. «Per voi va bene?»
Andava bene. Riprendemmo a camminare, tenendoci sui ciottoli di fianco alle rotaie, ora. Presto il fiume fu così lontano dietro di noi che non potevamo neppure sentirne più il rumore. Le zanzare ronzavano e io me ne schiacciai una sul collo. Vern e Teddy camminavano avanti, elaborando un qualche complicato accordo di scambio di fumetti. Chris era accanto a me, le mani in tasca, la camicia che gli sventolava contro le ginocchia e le cosce come un grembiule.
«Ho portato qualche Winston», disse. «Fregate dal cassetto del mio vecchio. Una per uno. Per dopo cena.»
«Sì? Magnifico.»
«È allora che le sigarette sono più buone», disse Chris, «Dopo cena.»
«Esatto.»
Camminammo in silenzio per un po'.
«È una storia bellissima», disse Chris all'improvviso. «Sono proprio un po' troppo stupidi per capirla.»
«No, non è un gran che. È una fesseria.»
«Dici sempre così. Non raccontarmi cazzate che non ci credi nemmeno tu. La scrivi, la storia?»
«Può darsi. Ma per ora no. Non posso scriverle subito dopo averle raccontate. Aspetterà.»
«Sai, quello che ha detto Vern? Del finale che sarebbe un bidone?»
«Be'?»
Chris rise. «La vita è un bidone, lo sai? Guarda noi.»
«Ma no, ce la stiamo spassando.» «Come no, tutto il tempo, moccioso.» Risi.
Anche Chris.
«Ti vengono fuori così, come bolle dalla coca», fece dopo un po'.
«Che cosa?» Ma credevo di sapere a che si riferiva.
«Le storie. Mi fai morire, amico. È come se potessi raccontare un milione di storie e ne avessi sempre una da aggiungere. Sarai un grande scrittore un giorno, Gordie.»
«No, non credo.»
«Ma sì invece. Forse scriverai anche su di noi se mai ti trovassi a secco di materiale.»
«Dovrei essere proprio maledettamente a secco!» Gli diedi di gomito.
Ci fu una breve pausa di silenzio e poi mi chiese, all'improvviso: «Sei pronto per la scuola?»
Mi strinsi nelle spalle. E chi lo è mai? Ci si eccita un po' a pensare di ritornare, di rivedere gli amici; ci si incuriosisce sugli insegnanti nuovi e su come saranno — giovanissimi appena usciti dall'università che puoi maltrattare o qualche vecchia cariatide che è lì dai tempi di Alamo. In un certo senso strano ci si può anche sentire eccitati per le lunghe pallose lezioni, perché con l'avvicinarsi della fine delle vacanze estive a volte ci si sente così stufi da credere che sia possibile anche imparare qualcosa. Ma la noia estiva non ha niente a che fare con la noia della scuola, che si instaura immancabilmente entro la fine della seconda settimana, e all'inizio della terza sei immerso nella sostanza vera della faccenda: Sarai in grado di colpire Stinky Fiske dietro la testa con la sua Art-Gum mentre l'insegnante sta scrivendo alla lavagna le principali esportazioni del Sudamerica? Quanti bei cigolii forti sarai capace di estrarre dalla superficie verniciata del banco se hai le mani sudate come si deve? Chi sa fare la scorreggia più forte negli spogliatoi mentre ci si cambia per ed fis? Quante ragazze sarai capace di portarti a giocare al dottore nell'ora del pranzo? Istruzione superiore, gente.
«La prima delle superiori», disse Chris. «E sai una cosa, Gordie? Per giugno prossimo saremo tutti divisi.»
«Che stai dicendo? Perché dovrebbe succedere una cosa del genere?»
«Non è come le elementari, ecco perché. Tu sarai nei corsi di college. Io e Teddy e Vern saremo nei corsi professionali, a giocare a biglie con il resto dei ritardati, a fare posacenere e ripari per uccelli. Vern potrebbe addirittura dover andare al corso di recupero. Tu incontrerai un sacco di compagni nuovi. Gente in gamba. È così che va, Gordie. È così che l'hanno organizzata.»
«Incontrerò un sacco di femminucce, è questo che devi dire.»
Mi strinse il braccio. «No, amico. Non dirlo. Non pensarlo neanche.
Accetteranno le tue storie. Non come Vern e Teddy.»
«Al diavolo le storie. Non ho intenzione di farmela con un mucchio di femminucce. Nossignore.»
«Se non lo fai, sei una testa di cazzo.»
«È una testa di cazzo uno che vuole stare con i suoi amici?»
Mi guardò pensieroso, come decidendo se dovesse o no dirmi qualcosa. Avevamo rallentato il passo; Vern e Teddy erano ormai quasi mezzo miglio avanti a noi. ll sole, ora più basso, ci arrivava attraverso l'intrico degli alberi, in raggi spezzati e polverosi, mutando tutto in oro — ma era un oro pacchiano, da bottega di paccottiglia, se capite che intendo. I binari si stendevano davanti a noi nella foschia che cominciava a raccogliersi — sembravano quasi scintillare. Puntini luminosi, come stelle, brillavano sulle rotaie qua e là, come se qualche ricco strampalato travestito da operaio delle ferrovie avesse deciso di ficcare un diamante nell'acciaio ogni sessantina di metri. Faceva ancora caldo. Il sudore ci scorreva addosso, ungendo i nostri corpi.
«È una testa di cazzo se i suoi amici possono trascinarlo a fondo», disse finalmente Chris. «Io conosco te e i tuoi. Tuo fratello maggiore, a lui sì ci tenevano. Come mio padre, quando Frank fu messo dentro a Portsmouth. Fu allora che cominciò a prendersela sempre con noialtri e a picchiarci sempre. Tuo padre non ti batte, ma forse così è anche peggio. Ti ha messo a dormire. Potresti dirgli che ti sei iscritto alla fottuta divisione commerciale e sai che farebbe lui? Girerebbe la pagina del giornale e direbbe: Bene, bravo Gordon, vai a chiedere a tua madre che c'è per cena. E non provare a dirmi che non è così. L'ho conosciuto.»
Non provai a dirgli che non era così. Fa paura scoprire che qualcun altro, anche un amico, sa come stanno le cose per te.
«Sei solo un ragazzo, Gordie...»
«Ghii, grazie, papà.»
«Ti farei vedere io se fossi tuo padre!» disse con rabbia. «Non te ne andresti in giro a cianciare di fare quegli stupidi corsi commerciali, se io fossi tuo padre! È come se Dio ti avesse dato qualcosa, tutte quelle storie che sai inventare, e ti dicesse: Questo è quello che abbiamo per te, ragazzo. Cerca di non perderlo. Ma i ragazzi perdono tutto se non c'è qualcuno che li tiene d'occhio, e se i tuoi sono troppo distrutti per farlo loro, allora dovrei farlo io.»
Dalla faccia sembrava che si aspettasse che gli allungassi un pugno; era chiusa e infelice in quella luce verde dorata del tardo pomeriggio. Aveva infranto la regola base che vigeva tra i ragazzi a quei tempi. Potevi dire qualsiasi cosa di un altro ragazzo, potevi trattarlo come un cane, ma non dovevi dire mai niente di male di sua madre e suo padre. Questo era il Mitico Automatico, allo stesso modo che non invitare a cena un amico cattolico di venerdì senza prima accertarsi che non ci fosse carne era il Mitico Automatico. Se un compagno parlava male di tua madre o di tuo padre, eri obbligato a fargli assaggiare i pugni.
«Queste storie che racconti, non servono a nessuno oltre che a te, Gordie. Se continui a fartela con noi perché non vuoi che la banda si spacchi, finirai come un deficiente qualunque. Andrai alla stessa fottuta scuola commerciale a lanciare gomme e a tirare avanti insieme al resto dei deficienti. Avrai le punizioni. Le fottutissime sospensioni. E dopo un po' la sola cosa che ti importerà sarà procurarti una macchina per portare una pollastra a fare due salti o giù alla fottuta Two Bridges Tavern. Poi la metterai incinta e passerai il resto della vita in fabbrica o in qualche fottuto calzaturificio di Auburn o magari anche su a Hillcrest a curare i polli. E quella storia delle torte non sarà mai scritta. Niente sarà mai scritto. Perché sarai uno dei tanti furboni con merda al posto del cervello.»
Chris Chambers aveva dodici anni mentre mi diceva tutto questo. Ma mentre me lo diceva la sua faccia si era raggrinzita e trasformata in qualcosa di più vecchio, di vecchissimo, di senza età. Parlava senza tono, senza colore, ma ciononostante quello che diceva riempì di terrore le mie viscere. Era come se avesse già vissuto tutta quella vita, quella vita dove vi dicono di salire su e far girare la Ruota della Fortuna, e quella gira alla perfezione e uno spinge sul pedale e viene fuori il doppio zero, il banco vince, perdono tutti. Ti danno l'ingresso libero e poi ti mettono il secchio d'acqua sulla porta, divertentissimo, ah ha, uno scherzo che anche Vern Tessio potrebbe apprezzare.
Mi afferrò per il braccio nudo e le sue dita si strinsero. Mi segnavano dei solchi nella carne. Stritolavano le ossa. I suoi occhi erano velati e morti — così morti, amico, che pareva appena uscito dalla bara.
«Lo so che cosa pensa della mia famiglia la gente di questo paese. Lo so che cosa pensano di me e che cosa si aspettano. Nessuno mi ha mai nemmeno domandato se avevo preso io i soldi quella volta. Mi dettero semplicemente una vacanza di tre giorni.»
«Li avevi presi tu?» chiesi. Non gliel'avevo mai chiesto, e se qualcuno mi avesse detto che un giorno l'avrei fatto, gli avrei dato del pazzo. Le parole mi uscirono come un piccolo proiettile secco.
«Già», disse. «Già, li ho presi io.» Rimase in silenzio per un momento, guardando avanti verso Teddy e Vern. «Tu lo sapevi che li avevo presi io, Teddy lo sapeva. Tutti lo sapevano. Perfino Vern lo sapeva, credo.»
Feci per negarlo, e poi chiusi la bocca. Aveva ragione. Nonostante tutto quello che potessi sostenere con mio padre e mia madre sul fatto che una persona deve essere ritenuta innocente finché non si dimostra colpevole, lo sapevo.
«Allora forse mi pentii e cercai di restituirli», disse Chris.
Lo fissai, con gli occhi sgranati. «Tu cercasti di restituirli?»
«Forse, ho detto. Solo forse. E forse li portai alla vecchia Simons e glielo dissi, e forse i soldi erano tutti lì ma io ebbi lo stesso i tre giorni di vacanza, perché i soldi non sono mai saltati fuori. E forse la settimana dopo la vecchia Simons aveva quella gonna nuova nuova quando venne a scuola.»
Fissai Chris, senza parole per l'orrore. Lui mi sorrise, ma era un sorriso tirato, spaventoso, che non gli arrivò mai agli occhi.
«Solo forse», ripeté ancora, ma io ricordai la gonna nuova, una gonna di lana, grigio chiara. Ricordai di aver pensato che la faceva sembrare più giovane, la vecchia Simons, quasi carina.
«Chris, quanti erano quei soldi?» «Quasi sette dollari.» «Cristo», mormorai.
«E così diciamo che io ho rubato i soldi del latte ma poi la vecchia Simons li ha rubati a me. Supponiamo che fossi andato a raccontare questa teoria. Io, Chris Chambers. Fratello minore di Frank Chambers e di Eyeball Chambers.
Pensi che qualcuno ci avrebbe mai creduto?»
«Mai», mormorai ancora. «Gesù Cristo!»
Fece ancora quel sorriso gelido, spaventoso. «E pensi che quella cagna avrebbe mai osato tentare una cosa del genere se fosse stato uno di quei fighetti su a The View a prendere i soldi?»
«No», dissi.
«Già. Se fosse stato uno di loro, la Simons avrebbe detto: Va be', va be', per questa volta perdoniamo, ma una bella bacchettata sulla mano non te la toglie nessuno e se lo fai ancora, la bacchettata sarà su tutt'e due le mani, e forte. Ma io... be', forse teneva d'occhio quella gonna da chi sa quanto tempo. Comunque, vide l'occasione e la colse. Sono stato io l'idiota a tentare di restituire i soldi. Ma non avrei mai pensato... non avrei mai pensato che un'insegnante... oh, chi se ne fotte, comunque? perché poi ne sto parlando?»
Si strofinò un braccio sugli occhi e mi resi conto che stava quasi piangendo.
«Chris», dissi, «perché non vai nel corso del college? Sei abbastanza in gamba.»
«Questo lo decidono tutto nell'ufficio. E nelle loro piccole eleganti riunioni. Gli insegnanti, loro siedono attorno in questo grande cerchio e tutti dicono Sì, Sì, Giusto, Giusto. Non gliene frega un cazzo a nessuno se ti sei comportato bene alle elementari e che ne pensa il paese della tua famiglia. Tutto quello che decidono loro è se contaminerai o no tutti quei preziosi fighetti destinati al college. Ma forse proverò a farcela da solo a uscirne. Non lo so se ci riesco, ma posso provare. Perché voglio andarmene da Castle Rock e andare al college e non voglio rivedere mai più il mio vecchio o i miei fratelli. Voglio andarmene in qualche posto dove nessuno mi conosce e dove non ho nessuna macchia nera addosso prima di cominciare.
Ma non so se ce la faccio.»
«Perché?»
«La gente. La gente ti trascina giù.»
«Chi?» chiesi io, pensando che si riferisse agli insegnanti, o a mostri adulti come Miss Simons, che aveva desiderato una gonna nuova, o magari a suo fratello Eyeball che se ne andava in giro con Ace e Billy e Charlie e gli altri, o magari a suo padre e a sua madre.
Ma lui disse: «I tuoi amici, loro ti trascinano giù, Gordie. Non lo sai?» Indicò Vern e Teddy, che si erano fermati e aspettavano che li raggiungessimo. Stavano ridendo di qualcosa; Vern, anzi, era piegato in due dalle risate. «I tuoi amici. Sono come quelli che ti annegano attaccandosi alle gambe. Non puoi salvarli. Puoi solo annegare con loro.»  «Avanti, lumache fottute!» gridò Vern, sempre ridendo.
«Ecco, arriviamo!» rispose Chris, e prima che potessi dire altro, si mise a correre. Corsi anch'io, ma lui li raggiunse prima che io riuscissi a raggiungere lui.

18

Camminammo per un altro miglio e poi decidemmo di mettere il campo per la notte. C'era ancora un po' di luce, ma nessuno aveva molta voglia di usarla per andare avanti. Eravamo sfiancati dalla scena allo scarico e dalla paura sul ponte della ferrovia, ma non era solo questo. Ora eravamo nella zona di Harlow, nei boschi. Da qualche parte davanti a noi c'era un ragazzo morto, probabilmente maciullato e coperto di mosche. E di vermi, anche, ormai. Nessuno aveva voglia di arrivargli troppo vicino con il buio che veniva avanti. Avevo letto da qualche parte — in un racconto di Algernon Blackwood, mi pare — che un fantasma si aggira attorno al suo corpo finché questo non ha avuto una decente sepoltura cristiana, e nemmeno lontanamente avevo voglia di svegliarmi durante la notte e trovarmi davanti il fantasma luminoso e incorporeo di Ray Brower, gemente e farfugliante e svolazzante tra i pini neri e mormoranti. Fermandoci lì, pensammo che dovessero esserci almeno una decina di miglia tra lui e noi, e certamente ognuno di noi sapeva benissimo che non esistono cose come i fantasmi, ma dieci miglia sembravano la misura giusta nel caso che quello che ognuno sapeva fosse sbagliato.
Vern, Chris e Teddy raccolsero la legna e fecero un modesto fuocherello su un letto di ciottoli. Chris preparò una zona ripulita tutt'attorno al fuoco — la legna era secchissima e non voleva correre rischi. Mentre loro facevano questo io preparavo alcuni stecchi e davo forma a quelle che mio fratello Denny chiamava «bacchette di tamburo dei pionieri» — una palla di carne macinata applicata all'estremità di un rametto verde. Loro tre ridevano e si rimbeccavano sulla loro catasta di legno (che era quasi nulla: esisteva un reparto di Boy Scout a Castle Rock, ma la gran parte dei ragazzi che frequentavano il nostro lotto di terreno abbandonato la ritenevano un'organizzazione costituita soprattutto da femminucce), discutendo animatamente se fosse meglio cuocere sulla fiamma o sulla brace (discussione del resto accademica: eravamo troppo affamati per aspettare la brace), se il muschio secco potesse funzionare da esca, cosa fare se avessero consumato tutti i fiammiferi prima che il fuoco prendesse. Teddy sosteneva che lui sapeva fare un fuoco strofinando due bastoncini. Chris sosteneva che era così pieno di merda che cigolava. Non ci fu bisogno di provarci; Vern riuscì a dare fuoco alla piccola pila di rametti e di muschio secco al secondo fiammifero. Il giorno era immobile e non c'era vento che soffiasse sulla fiamma. Facemmo a turno ad alimentare il fuoco finché non cominciò a farsi più robusto, grazie ai rami grossi quanto un polso che prendemmo da un vecchio albero secco a una trentina di metri nel folto della foresta.
Quando le fiamme presero a calare un po', infilai nel terreno attorno al fuoco, inclinati verso la fiamma, gli stecchi delle bacchette dei pionieri. Rimanemmo seduti attorno al fuoco guardandole sfrigolare e sgocciolare finché cominciarono a scurirsi. Gli stomaci intanto facevano la loro conversazione prima di cena.
Incapaci di aspettare che fossero completamente cotte, ne prendemmo una ciascuno, la infilammo in un panino, e sfilammo lo stecco bollente dal centro. Erano bruciati fuori e crudi dentro, e assolutamente deliziosi. Li divorammo in tre bocconi e ci ripulimmo l'unto dalla bocca con il braccio nudo. Chris aprì lo zaino (sul fondo c'era sempre la pistola) e tirò fuori una scatoletta di Band-Aid. L'aprì e diede a ciascuno di noi una Winston malconcia. Le accendemmo con rametti infiammati presi dal fuoco e poi ci sdraiammo all'indietro, uomini di mondo, a guardare il fumo delle sigarette che si disperdeva nel morbido crepuscolo. Nessuno di noi aspirava perché poteva venirci da tossire, e questo significava un giorno o due di prese per il culo da parte degli altri. Ed era già sufficientemente piacevole tirare e soffiare, sputando nel fuoco per sentire lo sfrigolio (fu quella l'estate in cui imparai come si riconosce uno che sta appena imparando a fumare: se sei un novellino sputi in continuazione). Ci sentivamo bene. Fumammo le Winston fino al filtro, poi le buttammo nel fuoco.
«Non c'è niente come fumare dopo mangiato», disse Teddy.  «Bestiale», convenne Vern.
I grilli avevano cominciato a cantare nella penombra verde. Alzai lo sguardo verso la striscia di cielo visibile sopra il taglio della ferrovia e vidi che l'azzurro era ora avviato verso il viola. Vedere quel preannuncio di tramonto mi rese triste e calmo allo stesso tempo, coraggioso ma non proprio coraggioso, confortevolmente malinconico.
Ci trovammo un posto in piano tra il sottobosco accanto alla massicciata e stendemmo i nostri sacchi letto. Poi, per un'oretta, continuammo ad alimentare il fuoco e a parlare, quel genere di discorsi che non puoi più ricordarti bene una volta che hai superato i quindici anni e hai scoperto le ragazze. Parlavamo di chi ci sapeva fare di più con le macchine, a Castle Rock, del Boston che magari quell'anno riusciva a rimanere fuori dalla cantina del campionato, e dell'estate appena passata. Teddy ci raccontò di quella volta che era stato alla White's Beach a Brunswick e uno si era preso una botta in testa tuffandosi su un cavallone ed era quasi annegato. Discutemmo per un po' dei relativi meriti degli insegnanti che avevamo avuto. Fummo d'accordo che Mr. Brooks era la peggiore femminuccia della scuola elementare di Castle Rock — si sarebbe messo a piangere se uno gli rispondeva duro. Dall'altra parte c'era Mrs. Cote (pronunciato Cody) — lei era tra le peggiori vipere che Dio avesse mai messo sulla terra. Vern disse che aveva sentito che due anni prima aveva colpito un ragazzo così forte che quello era diventato quasi cieco. Guardai Chris chiedendomi se avesse voluto dire niente su Miss Simons, ma lui non disse niente del tutto, non vide neppure che lo stavo guardando — lui stava guardando Vern e annuendo sobriamente alla storia di Vern.
Non parlammo di Ray Brower ora che il buio si faceva vicino, ma io pensavo a lui. C'è qualcosa di orribile e di affascinante nel modo in cui cala l'oscurità in un bosco, il suo arrivo non attutito dai fari o dai lampioni stradali o dalle luci delle case o dalle insegne al neon. Arriva senza le voci delle madri, che chiamano i figli dicendo basta adesso torna dentro, ad annunciarla. Se siete abituati alla città, l'arrivo del buio nei boschi vi sembrerà più una catastrofe naturale che un fenomeno naturale; deborda, come il Castle deborda in primavera.
E come pensavo al corpo di Ray Brower in questa luce o nella sua mancanza — quello che sentivo non era la tremarella o la paura che improvvisamente apparisse davanti a noi, verde spirito mormorante il cui scopo era rimandarci là dove eravamo venuti prima di andare a disturbare la sua pace, ma un'improvvisa e imprevista ondata di pena per lui che se ne doveva stare così solo e indifeso nel buio che ora stava coprendo la nostra parte di terra. Se qualcosa voleva mangiarlo, l'avrebbe fatto. Non c'era lì la mamma a impedirlo, né il padre, né Gesù Cristo in compagnia di tutti i santi.
Era morto, ed era solo, sbattuto giù dalla ferrovia nel fossato, e mi resi conto che se non avessi smesso di pensarci mi sarei messo a piangere.
E così raccontai una storia di Le Dio, improvvisata e non un gran che, e quando finì, come quasi tutte le mie storie di Le Dio, con un solitario americano faccia di mastino che tossisce una moribonda dichiarazione di patriottismo e di amore per la ragazza che ha a casa, sulla faccia triste e saggia del sergente del plotone, non fu la faccia pallida e spaventata di qualche conoscenza di Castle Rock o di White River Junction che mi vidi davanti agli occhi della mente, ma la faccia di un ragazzo molto più giovane, già morto, gli occhi chiusi, i lineamenti sconvolti, un rivolo di sangue dall'angolo sinistro della bocca. E sullo sfondo, invece delle botteghe e delle chiese diroccate del mio paesaggio immaginario di Le Dio, vidi solo la foresta buia, e la massicciata della ferrovia stagliarsi contro il cielo stellato come un cumulo sepolcrale preistorico.

19

Mi svegliai nel mezzo della notte, disorientato, chiedendomi come mai facesse tanto freddo nella mia stanza e chi avesse lasciato aperte le finestre. Denny forse. Sognavo Denny, qualcosa come un giro sui pattini all'Harrison State Park. Ma quello era successo quattro anni prima.
Non era la mia stanza; era qualche altro posto. Qualcuno mi teneva in una stretta potente, qualcun altro era schiacciato contro le mie spalle, e l'ombra di un terzo era accucciata accanto a me, la testa china in atteggiamento di ascolto.
«Ma che cazzo?» feci, sinceramente perplesso.
Un lungo gemito in risposta. Sembrava Vern.
Questo mi mise le cose a fuoco, e ricordai dov'ero... ma che facevano tutti svegli nel mezzo della notte? O avevo dormito solo per qualche secondo? No, non poteva essere, perché un'unghia argentata di luna si vedeva nel centro di un cielo d'inchiostro.
«Non farmi prendere!» borbottava Vern. «Giuro che sarò un bravo ragazzo, non farò niente di male, tirerò su la tavoletta prima di pisciare, io... io...» Con un certo stupore mi resi conto che stavo ascoltando una preghiera — o almeno quello che per Vern Tessio equivaleva a una preghiera.
Saltai a sedere, spaventato. «Chris?»
«Zitto, Vern», disse Chris. Era lui quello accoccolato ad ascoltare. «Non è niente.»
«Oh, sì che è», disse Teddy sinistramente. «È qualcosa.»
«Che cosa è?» chiesi. Ero ancora mezzo addormentato e disorientato, spostato dal mio posto nello spazio e nel tempo. Mi faceva paura essere arrivato in ritardo in quello che stava succedendo — troppo tardi per difendermi a dovere, probabilmente.
Allora, come per rispondere alla mia domanda, un urlo lungo e profondo si levò languidamente dalla foresta — quel genere di urlo che ci si aspetta di sentire da una donna morente in estrema agonia e in estrema paura.
«Oh-Gesù-mio!» guaì Vern, la voce acuta e piena di lacrime. Riprese la stretta che mi aveva svegliato, impedendomi di respirare bene e aumentando il mio terrore. Me ne liberai con uno strattone ma lui ritornò strisciando come un cucciolo che non trova un altro posto dove andare.
«È quel ragazzo Brower», bisbigliò roco Teddy. «È il suo fantasma che si aggira per i boschi.»
«Oh Dio!» urlò Vern, evidentemente per niente entusiasta dell'idea. «Prometto di non rubare più i libri sporchi al Dahlie's Market! Prometto di non dare più le mie carote al cane! Prometto... prometto... prometto...» Si affannò, disposto a fare baratto con Dio su qualsiasi cosa, ma senza riuscire a trovare niente di veramente buono nell'eccesso della paura. «Non fumerò più sigarette senza filtro! Non bestemmierò più! Non...»
«Zitto Vern», ripeté Chris, e sotto il suo solito tono autoritario, potei sentire il rimbombo vuoto della paura. Mi chiesi se anche lui aveva le braccia e la schiena e lo stomaco rigidi e con la pelle d'oca come me, e se i capelli sulla nuca tentavano di rizzarglisi come setole, come i miei.
La voce di Vern si fece un bisbiglio mentre continuava a enumerare le riforme che si proponeva di mettere in atto se solo Dio gli avesse fatto passare vivo quella notte.
«È un uccello, no?» chiesi a Cris.
«No. Almeno, non credo. Credo che sia un gatto selvatico. Mio padre dice che fanno delle urla strazianti quando sono pronti ad accoppiarsi. Dei versi come di una donna, eh?»
«Sì», dissi io. La voce mi si spezzò in mezzo alla parola e due cubetti di ghiaccio caddero nella frattura.
«Ma nessuna donna potrebbe urlare così forte», disse Chris... e poi aggiunse disperato: «O potrebbe, Gordie?»
«È uno spettro», ripeté Teddy bisbigliando. Le lenti riflettevano la luce della luna in due deboli macchie, un po' irreali. «Vado a cercarlo.»
Non credo che dicesse sul serio, ma non potevamo correre rischi. Quando cominciò ad alzarsi, Chris e io lo ritirammo giù. Forse fummo troppo bruschi, ma i nostri muscoli si erano trasformati in cavi per la paura.
«Lasciatemi alzare, teste di cazzo!» sibilò Teddy, divincolandosi. «Se dico che vado a cercarlo, vado a cercarlo! Voglio vederlo! Voglio vedere il fantasma! Voglio vedere se...»
Il selvaggio urlo singhiozzante si levò di nuovo nella notte, tagliando l'aria come un coltello dalla lama di cristallo, congelandoci con le mani su Teddy — se fosse stato una bandiera, saremmo apparsi esattamente come quella foto dei marines che prendono Iwo Jima. L'urlo salì con agilità folle di ottava in ottava, raggiungendo finalmente il suo picco agghiacciante. Rimase lì per un momento e poi tornò giù vibrando, scomparendo in un registro basso impossibile che ronzava come un'ape mostruosa. Questo fu seguito da quello che pareva uno scoppio di risate pazze... e poi tornò il silenzio.
«Gesù Cristo Testapelata!» mormorò Teddy, e non parlò più di andare tra gli alberi a vedere chi è che faceva quei versi. Ci stringemmo tutti e quattro vicini e io pensai di scappare di corsa. Non credo che fossi l'unico. Se fossimo stati a dormire nel campo di Vern — dove i nostri genitori pensavano che fossimo — probabilmente saremmo scappati. Ma Castle Rock era troppo lontana, e il pensiero di tentare di correre sopra il ponte al buio mi gelava il sangue. Correre nell'altra direzione, addentrandosi nella zona di Harlow e verso il cadavere di Ray Brower era ugualmente
impensabile. Eravamo inchiodati. Se c'era una bestia là nel bosco, e ci voleva, con ogni probabilità ci avrebbe avuto.
Chris propose di fare dei turni di guardia e tutti fummo d'accordo. Sorteggiammo e Vern uscì per primo. Io ebbi l'ultimo turno. Vern si mise a sedere a gambe incrociate accanto al bagliore del fuoco da campo mentre noialtri ci stendevamo di nuovo. Ci ammucchiammo vicini come pecore.
Ero convinto che dormire sarebbe stato impossibile, ma dormii — un sonno leggero, agitato, che oscillava dentro e fuori dall'incoscienza come un sottomarino col periscopio alzato. I miei sogni nel dormiveglia furono popolati di urla selvagge che potevano essere tanto reali quanto prodotte solo dalla mia immaginazione. Vidi — o mi parve di vedere — qualcosa di bianco e informe sgattaiolare tra gli alberi come un grottesco lenzuolo semovente.
Alla fine scivolai in qualcosa che sapevo essere un sogno. Chris e io stavamo nuotando alla White's Beach, una cava di ghiaia a Brunswick trasformata in un laghetto quando le scavatrici avevano raggiunto l'acqua. Era lì che Teddy aveva visto quel ragazzo battere la testa rischiando di annegare.
Nel sogno eravamo nell'acqua in un punto dove non si toccava, nuotando pigramente, con un caldo sole di giugno che splendeva. Dietro di noi, sul galleggiante, si sentivano le grida e gli scoppi di risa dei ragazzi che si arrampicavano e si tuffavano, o che si arrampicavano e venivano spinti giù. Sentivo i bidoni di cherosene vuoti che tenevano a galla la zattera urtarsi e rimbombare uno contro l'altro — un suono non diverso da quello delle campane della chiesa, altrettanto solenne e profondo. Sulla spiaggia di sabbia e ghiaia, i corpi unti d'olio giacevano a pancia sotto sugli asciugamani, i bambini piccoli con i secchielli erano accovacciati sulla riva o sedevano schizzandosi allegramente la sabbia bagnata nei capelli con le palette di plastica, e i ragazzi più grandi si riunivano in gruppi allegri, osservando le ragazze passeggiare senza posa avanti e indietro in due o in tre, mai da sole, i punti segreti dei loro corpi nascosti dal costume da bagno. C'era gente che camminava sulla sabbia bollente sui talloni, facendo smorfie di dolore, fino al bar. Tornavano con patatine, Devii Dogs, Red Ball Popsicles.
Mrs. Cote ci superò su un materassino gonfiabile. Era sdraiata sul dorso, vestita con la sua uniforme da scuola, che portava da settembre a giugno: un abito in due pezzi con un pesante maglione al posto della camicia sotto la giacca, un fiore appuntato su un petto praticamente inesistente, grosse calze elastiche color menta. Le scarpe nere coi tacchi da vecchia signora pescavano nell'acqua lasciandosi dietro tante piccole V. I capelli erano tinti e mandavano dei riflessi azzurri, come quelli di mia madre, ed erano acconciati in fitti riccioli a molla di orologio che odoravano di medicinale. Gli occhiali riflettevano brutalmente il sole.
«State attenti a dove camminate, ragazzi», disse. «State attenti a dove camminate o vi colpirò così forte che rimarrete ciechi. Posso farlo; il consiglio scolastico mi ha dato questo potere. Ora, Mr. Chambers, 'Mending  Wall,' per favore. A memoria.»
«Io ho cercato di restituire i soldi», disse Chris. «La vecchia signora Simons disse va bene ma poi se li tenne! Mi ha sentito? Se li tenne! Adesso lei che pensa di fare? Farà diventare lei cieca?»
«'Mending Wall', Mr. Chambers, per favore. A memoria.»
Chris mi lanciò uno sguardo disperato, come per dire Non te l'avevo detto che sarebbe stato così? e poi cominciò a mettersi mezzo fuori dall'acqua agitando le gambe e le braccia. Attaccò: «'Qualcosa c'è che non ama un muro, che ci manda sotto...'» e poi la sua testa andò sotto e la bocca che continuava a recitare si riempì d'acqua.
Saltò fuori, gridando, «Aiutami, Gordie! Aiutami!»
Poi fu trascinato sotto di nuovo. Guardando giù nell'acqua trasparente potevo vedere due cadaveri gonfi, nudi, attaccati alle sue caviglie. Uno era Vern e l'altro Teddy, e i loro occhi aperti erano bianchi e senza pupille come gli occhi delle statue greche. I loro piccoli peni prepuberali fluttuavano inerti dalle pance distese come alghe albine. La testa di Chris riemerse. Mi tese una mano ed emise un grido stridente, come di donna, che crebbe e crebbe, ululando nell'aria afosa assolata d'estate. Guardai di furia verso la spiaggia ma nessuno aveva sentito. Il bagnino, col suo corpo abbronzato e atletico adagiato sul suo sedile in cima alla torre di legno a croce, continuava a sorridere a una ragazza, di sotto, col costume rosso. L'urlo di Chris si mutò in un gorgoglio soffocato dall'acqua mentre i cadaveri lo tiravano di nuovo sotto. Mentre lo trascinavano verso l'acqua nera riuscii a vedere i suoi occhi stravolti rivolti verso di me in un'espressione di agonia supplicante; le sue mani bianche come un pesce tese disperatamente verso la superficie dell'acqua bruciata dal sole. Ma invece di immergermi e cercare di salvarlo, mi misi a nuotare come un pazzo verso la spiaggia, o almeno verso un punto dove toccassi il fondo. Prima di poterci arrivare — prima ancora di arrivarci vicino — sentii una mano molle, marcia, implacabile, stringersi attorno al mio polpaccio e cominciare a tirare. Un urlo mi crebbe nel petto... ma prima di poterlo cacciare, il sogno si dissolse in un grigio facsimile di realtà. Era Teddy con la mano sulla mia gamba. Mi stava scuotendo per svegliarmi. Era il mio turno.
Ancora mezzo in sogno, quasi parlando nel sonno, gli chiesi con voce impastata: «Sei vivo, Teddy?»
«No, sono morto e tu sei un negro nero», mi rispose, dissolvendo definitivamente il sogno. Mi misi seduto vicino al fuoco e Teddy si mise giù a dormire.

20

Gli altri dormirono pesante per il resto della notte. Io continuavo a fare dentro e fuori, sonnecchiavo, mi svegliavo, sonnecchiavo di nuovo. La notte era tutt'altro che silenziosa; sentivo il verso trionfante del gufo che piombava sulla preda, l'esile grido di qualche piccolo animale forse sul punto di essere mangiato, un qualcosa di più grosso strisciare irrequieto nell'intrico del sottobosco. Sotto tutto questo, il canto continuo dei grilli. Di quelle urla non se ne sentirono più. Sonnecchiavo e mi svegliavo, sonnecchiavo e mi svegliavo e probabilmente se fossi stato scoperto a fare la guardia in questo modo a Le Dio, sarei stato portato davanti alla corte marziale e fucilato.
Feci un sobbalzo più forte uscendo dal mio ultimo sonnellino e mi resi conto che c'era qualcosa di cambiato. Mi ci volle un momento per capire cosa: anche se la luna era tramontata, potevo vedere le mani appoggiate sui jeans. L'orologio diceva cinque meno un quarto. Era l'alba.
Mi alzai, sentendo la spina dorsale che mi scricchiolava, mi allontanai di una ventina di passi dai corpi ammucchiati uno accanto all'altro dei miei amici, e orinai nei cespugli. Cominciavo a scuotermi di dosso le ragnatele della notte: le sentivo allontanarsi. Era una bella sensazione.
Mi arrampicai sui ciottoli della linea della ferrovia e mi misi seduto su uno dei binari, giocherellando oziosamente con i sassi tra i piedi, senza fretta di svegliare gli altri. In quel momento preciso il nuovo giorno pareva troppo bello per dividerlo con altri.
Il mattino arrivò presto. Il verso dei grilli cominciò a calare, e le ombre sotto gli alberi e i cespugli evaporarono come pozzanghere dopo un acquazzone. L'aria aveva quella tipica mancanza di sapore che presagisce l'ultimo giorno caldissimo di una serie di giorni caldissimi. Uccelli che probabilmente erano rimasti rintanati tutta la notte come noi ora cominciavano a trillare con aria di importanza. Uno scricciolo si posò in cima all'albero morto da cui avevamo preso la legna, si lisciò le penne col becco, e poi spiccò il volo.
Non so quanto tempo rimasi seduto lì sulla rotaia, a guardare il colore viola uscire dal cielo, silenzioso come la sera prima quando ci era entrato. Abbastanza, comunque, perché il mio sedere cominciasse a lamentarsi. Stavo per alzarmi quando guardai verso destra e vidi una daina, sul letto della ferrovia a meno di dieci metri da me.
Il cuore mi saltò in gola, così in alto che avrei potuto mettermi una mano in bocca e toccarlo. Sentii lo stomaco e i genitali riempirsi di un'eccitazione rovente. Non mi mossi. Non avrei potuto nemmeno volendo. I suoi occhi non erano marroni, ma di un nero profondo, polveroso — come il velluto che si vede sul fondo delle vetrine dei gioiellieri. Le piccole orecchie erano di una pelle vellutata. Mi guardava con tranquillità, la testa leggermente inclinata in quella che mi parve un'espressione di curiosità, a vedere un ragazzo con i capelli arruffati per il sonno, con i jeans con i risvolti e una camicia beige con le toppe ai gomiti e il colletto rialzato secondo la moda del giorno. Quello che vedevo io era una sorta di dono, un dono offerto con una disinvoltura che mi spaventava.
Ci guardammo a lungo... credo che fosse a lungo. Poi si girò e si allontanò dall'altra parte della ferrovia, con la corta coda che scattava svogliata. Trovò dell'erba e prese a brucarla. Non potevo crederci. Si era messa a brucare. Non guardò verso di me, e non ne avrebbe avuto bisogno: io ero completamente paralizzato.
Allora i binari si misero a tremarmi sotto il sedere e pochi secondi dopo la testa della daina si sollevò, girata verso Castle Rock. Rimase ritta lì, il naso nero che annusava l'aria. Poi in tre salti fu scomparsa, svanendo nel bosco senza altro rumore che quello di un ramo marcio, che si spezzò con uno scatto secco.
Io rimasi come ipnotizzato seduto a guardare il punto dov'era stata la daina, finché lo sferragliare del treno merci non emerse dal silenzio. Allora scivolai giù dalla massicciata fino a dove gli altri stavano dormendo.
Il lento, fragoroso passaggio del convoglio li svegliò, e si misero tutti subito a sbadigliare e a grattarsi. Ci furono un po' di battute, nervose, sul «caso dello spettro urlante», come lo chiamò Chris, ma non quanto potreste immaginare. Alla luce del sole sembrava più stupido che interessante — quasi imbarazzante. Meglio dimenticare.
Stavo proprio per dire della daina; ma poi finii per non farne niente. È una cosa che mi tenni per me. Finora, fino a oggi, non ne avevo mai parlato o scritto. E devo dirvi che scritto sembra una cosa di poco conto, quasi insignificante. Ma per me fu la cosa più bella della spedizione, la parte più pulita, e fu un momento a cui mi sono trovato a ritornare, quasi inevitabilmente, ogni volta che mi sono trovato in difficoltà nella mia vita — il mio primo giorno nella foresta in Vietnam, e quel tizio uscì con la mano davanti al naso nella radura dove eravamo e quando tolse la mano naso non ce n'era perché gli era stato sparato via; quella volta che il dottore ci disse che nostro figlio più piccolo poteva essere idrocefalo (poi risultò che aveva solo una testa un po' grande, grazie a Dio); le lunghe, allucinanti settimane prima che mia madre morisse. Sempre avrei trovato che i miei pensieri tornavano a quella mattina, al morbido pelo delle sue orecchie, al lampeggiare bianco della coda. Ma a ottocento milioni di cinesi rossi non gliene frega proprio niente, giusto? Le cose più importanti sono le più difficili da dire, perché le parole le rimpiccioliscono. È difficile far in modo che un estraneo provi interesse per le cose belle della tua vita.

21

Le rotaie ora curvavano verso sudovest e correvano in mezzo all'intrico degli abeti e del fitto sottobosco. Facemmo una colazione a base di more tardive colte da quei rovi, ma le more non ti riempiono mai; lo stomaco dà loro solo un'opzione di una mezz'oretta e poi ricomincia a brontolare. Tornammo ai binari — erano quasi le otto ormai — e ci concedemmo cinque minuti di sosta. Avevamo la bocca blu e il torace nudo pieno di graffi dei rovi. Vern chiedeva tristemente a gran voce un paio di uova fritte con bacon.
Questo era l'ultimo giorno di afa, e credo che fosse il peggiore di tutti. La prima nuvolaglia si disciolse via e per le nove il cielo era di un pallido color acciaio che faceva sentire più caldo solo a guardarlo. Il sudore ci rotolava giù sul petto e sulla schiena, lasciando delle righe di pulito in mezzo alla polvere e al sudiciume accumulato. Zanzare e moscerini ci ronzavano a sciami sempre più fitti attorno alla testa. Sapere che avevamo ancora lunghe miglia da percorrere non ci faceva sentire meglio. Ma il fascino della cosa ci attraeva e ci faceva camminare più in fretta che se avessimo avuto chi sa che faccenda da sbrigare, in quel caldo. Eravamo tutti pazzi dalla voglia di vedere il corpo di quel ragazzo — non so metterla in un modo più semplice e sincero di questo. Che fosse inoffensivo o che risultasse avere il potere di assassinare il sonno con cento sogni maciullati, volevamo vederlo. Credo che fossimo arrivati a ritenere che ci spettasse.
Erano quasi le nove e mezzo quando Teddy e Chris videro l'acqua davanti a noi — gridarono a Vern e a me. Corremmo per raggiungerli. Chris rideva, felice. «Guardate là! Sono stati i castori!» indicò.
Era proprio opera dei castori. Un canale ampio correva sotto la massicciata della ferrovia e un po' avanti e i castori avevano sigillato l'estremità di destra con una delle loro precise e industriose piccole dighe — rami e bastoni cementati insieme con foglie, rametti e fango secco. Oltre la diga si era formata una pozza chiara e scintillante di acqua, che rifletteva brillante la luce del sole. Le case dei castori si levavano qua e là dall'acqua in diversi punti — sembravano piccoli igloo di legno. Un piccolo ruscello si riversava nell'estremità dall'altro lato della pozza, e gli alberi che la fiancheggiavano erano morsicati fino al bianco per un'altezza, in qualunque punto, di quasi un metro.
«La ferrovia farà ben presto piazza pulita di tutto questo», disse Chris.  «Perché?» chiese Vern.
«Non possono avere un laghetto qui», spiegò Chris. «Taglia la loro preziosa linea ferroviaria. È per questo che hanno messo qui il canale. Spareranno a qualche castoro e spaventeranno gli altri e poi abbatteranno la loro diga. E allora questo ritornerà a essere un pantano, come probabilmente era prima.»
«Secondo me se li mangiano», disse Teddy.
Chris si strinse nelle spalle. «Chi si cura dei castori? Non la Great
Southern and Western Maine, questo è certo.»
«Credete che sia abbastanza profondo da nuotarci?» chiese Vern, guardando con aria vogliosa l'acqua.
«C'è un solo modo per saperlo», disse Teddy.
«Chi va per primo?» chiesi io.
«Io!» disse Chris. Scese di corsa giù per l'argine, scalciando via le scarpe e sciogliendosi con uno strappo la camicia dalla vita. Si tolse calzoni e mutande con un solo movimento dei pollici. Si tenne in equilibrio, prima su una gamba e poi sull'altra, per sfilarsi le calze. Poi fece un tuffo. Tornò su scuotendo la testa per togliersi i capelli bagnati dagli occhi. «Cazzo, è grande!» gridò.
«Quanto è profondo?» chiese Teddy. Non aveva mai imparato a nuotare.
Chris si mise in piedi nell'acqua ed emerse dalla superficie fino alle spalle. Su una spalla gli vidi qualcosa — un qualcosa di nero, di grigiastro. Decisi che era un pezzo di fango e non ci pensai più. Se avessi guardato meglio mi sarei risparmiato un bel po' di incubi in seguito. «Forza, conigli!»
Si girò e si avviò verso il centro della vasca in una specie di nuoto a rana, si girò e tornò indietro. Ormai eravamo tutti svestiti. Vern entrò per secondo, poi io.
Entrare in acqua fu fantastico — pulita e fresca. Nuotai verso Chris, godendo di quella sensazione di seta di non aver addosso nient'altro che l'acqua. Mi misi in piedi e ci sorridemmo guardandoci negli occhi.
«Magnifico!» dicemmo esattamente nello stesso istante.
«Mezza sega,» mi disse ridendo, mi schizzò acqua in faccia, e si allontanò a nuoto.
Rimanemmo a giocare nell'acqua per mezz'ora prima di renderci conto che la pozza era piena di sanguisughe. Ci tuffammo, nuovamente sott'acqua, ci spingemmo sotto a vicenda. Non ci accorgemmo di niente. Poi Vern nuotò in un punto dove il fondo era più basso, andò sotto, e venne fuori stando sulle mani. Quando le gambe emersero dall'acqua in una instancabile ma trionfante V, vidi che erano coperte di grumi nero-grigiastri, esattamente come quello che avevo visto sulla spalla di Chris. Erano sanguisughe — e grosse.
Chris spalancò la bocca, e io sentii tutto il sangue farsi gelato come ghiaccio secco. Teddy urlò, impallidendo. Poi tutti e tre ci precipitammo sguazzando verso l'argine, avanzando più in fretta che potevamo. Oggi sulle sanguisughe di acqua dolce ne so molto di più di allora, ma il fatto di sapere che per lo più sono inoffensive non diminuisce minimamente l'orrore quasi folle che provo per loro da quel giorno nel laghetto dei castori.
Nella loro strana saliva portano un anestetico locale e un anticoagulante, il che significa che l'ospite non sente niente quando si attaccano. Se capita che uno non le vede, loro vanno avanti a succhiare finché il loro corpo gonfio e schifoso cada da solo, o finché non scoppiano letteralmente.
Ci tirammo sulla riva e Teddy piombò in una crisi isterica quando abbassò gli occhi sul suo corpo. Urlava tirandosi via quelle bestie dal corpo nudo.
Vern cacciò fuori la testa dall'acqua e ci fissò, perplesso. «Che diavolo avete...»
«Mignatte!» urlò Teddy, staccandosene due dalle cosce tremanti e lanciandole il più lontano possibile. «Schifose troie di succhiasangue!»  «OddioDioDioDio!» gridò Vern. Avanzò nell'acqua e rotolò fuori.
Io ero ancora gelato; il calore del giorno era stato sospeso. Continuavo a dirmi di rimanere calmo. Di non mettermi a urlare. Di non fare la femminuccia. Ne tolsi una mezza dozzina dalle braccia e parecchie di più dal petto.
Chris si girò di spalle. «Gordie, ce ne sono ancora? Toglimele se ce ne sono, per favore, Gordie!» Ce n'erano sì ancora, cinque o sei, disposte lungo la schiena come grotteschi bottoni neri. Tirai via quei corpi molli, senza ossa, da lui.
Ne levai ancora di più dalle mie gambe, poi volsi la schiena a Chris.
Cominciavo a rilassarmi un po' — e fu allora che abbassai lo sguardo e vidi la madre, la campionessa di tutte loro attaccata ai miei testicoli, il corpo gonfiatosi quattro volte la grandezza normale. La pelle nero-grigiastra si era fatta di un rosso violaceo. Fu allora che cominciai a perdere il controllo. Non esteriormente, almeno non in modo vistoso, ma dentro, dove conta.
Colpii quel corpo viscido e gelatinoso col dorso della mano.
Lui resistette. Cercai di farlo di nuovo e non ce la feci a costringermi a toccarlo. Mi girai verso Chris, cercai di parlare, non ci riuscii. Indicai con la mano. Le sue guance, già pallide, si fecero ancora più bianche.
«Non riesco a toglierlo», dissi, attraverso le labbra inerti. «Tu... puoi...»
Ma lui indietreggiò, scuotendo la testa, la bocca contratta. «Non posso, Gordie», disse, incapace di distogliere lo sguardo. «Mi dispiace non posso. No. Oh. No.» Si girò, si inchinò con la mano sullo stomaco come il maggiordomo di una commedia musicale, e vomitò in una macchia di cespugli di ginepro.
Devi mantenere il controllo, pensai, guardando la sanguisuga che pendeva da me come una barba pazza. Il suo corpo si stava ancora visibilmente gonfiando. Devi mantenere il controllo e prenderla. Sii forte. È l'ultima di tutte. L'ultima. Di. Tutte.
Portai giù la mano e la tirai via e lei mi scoppiò tra le dita. Il mio sangue mi scorse sul palmo e lungo il polso in un getto caldo. Scoppiai a piangere.
Sempre piangendo, tornai ai miei vestiti e me li rimisi. Avrei voluto smettere di piangere, ma parevo proprio incapace di chiudere i rubinetti. Poi si aggiunse il tremito, peggiorando le cose. Vern corse da me, ancora nudo.  «Sono andate, Gordie? Da me se ne sono andate?»
Continuava a ruotarmi davanti come un ballerino pazzo su un palcoscenico.
«Sono andate? Eh? Eh? Da me sono andate via, Gordie?»
I suoi occhi continuavano a guardare oltre me, grandi e vuoti come quelli di un cavallo di giostra.
Io facevo con la testa che sì, se n'erano andate, e continuavo a piangere. Sembrava che quella del pianto sarebbe stata la mia nuova carriera. Mi infilai la camicia e l'abbottonai su fino al collo. Misi calze e scarpe. Poco a poco le lacrime cominciarono a diminuire. Finalmente non rimase che qualche singhiozzo, poi finì anche quello.
Chris mi si avvicinò, strofinandosi la bocca con una manciata di foglie di olmo. Aveva gli occhi spalancati, muti e pieni di mortificazione.
Quando fummo tutti vestiti rimanemmo lì a guardarci l'un l'altro per un momento, e poi ci arrampicammo di nuovo sopra la scarpata della ferrovia. Mi voltai un attimo a guardare le sanguisughe scoppiate sui cespugli calpestati dove avevamo danzato e urlato e ce l'eravamo strappate via. Avevano un'aria sgonfiata... ma sempre sinistra.
Quattordici anni dopo vendetti il mio primo romanzo e feci il mio primo viaggio a New York. «Sarà un festeggiamento di tre giorni», mi disse il mio nuovo editore al telefono. «I cacciaballe saranno sottoposti a esecuzione sommaria.» Ma ovviamente furono tre giorni passati a cacciare balle.
Mentre ero lì volli fare tutte le cose classiche del turista — vedere uno spettacolo al Radio City Music Hall, andare in cima all'Empire State Building (al diavolo il World Trade Center; il grattacielo scalato da King
Kong nel 1933 per me sarà sempre il più alto del mondo), visitare Times Square di notte. Keith, il mio editore, pareva più che contento di mostrarmi la sua città. L'ultima cosa da turista che facemmo fu un giro sullo Staten Island Ferry, e mentre ero appoggiato al parapetto mi capitò di guardar giù, e vidi file di preservativi usati fluttuare sulla superficie dell'acqua. Ed ebbi un momento di ritorno totale con la memoria — o forse fu proprio un episodio di viaggio nel tempo. In un caso o nell'altro, per un secondo mi ritrovai letteralmente nel passato, fermo a metà della scarpata a riguardare indietro le sanguisughe scoppiate: morte, sgonfie... ma ancora sinistre.
Keith dovette vedere qualcosa sulla mia faccia perché disse: «Non è un bello spettacolo, vero?»
Io scossi solo la testa; avrei voluto dirgli che non doveva chiedere scusa; avrei voluto dirgli che non è necessario venire alla Grande Mela e fare un giro in traghetto per vedere preservativi usati; avrei voluto dirgli: L'unico motivo per cui uno scrive delle storie è per poter capire il passato e prepararsi per una qualche futura mortalità; è per questo che tutti i verbi nelle storie sono al passato, mio buon Keith, anche in quelle che vendono milioni di copie di paperbacks. Le uniche due forme d'arte utili sono la religione e la narrativa.
Ero piuttosto bevuto, quella sera, come avrete immaginato.
Quello che gli dissi fu: «Stavo pensando ad altro, ecco tutto». Le cose più importanti sono le più difficili da dire.

22

Proseguimmo ancora lungo i binari — non so per quanto — e io cominciavo a pensare: Bene, okay, ce la farò, comunque è tutto passato, solo un branco di sanguisughe, che cazzo; stavo ancora pensando questo che un'ondata di bianco mi coprì la vista e caddi.
Dovetti cadere di piombo, ma atterrare sulle traversine fu come affondare in un caldo e soffice letto di piume. Qualcuno mi rigirò. Il tocco delle mani mi pareva leggerissimo e lontano. Le loro facce erano palloni incorporei che mi fissavano da un'altezza di miglia. Apparivano come deve apparire la faccia dell'arbitro al pugile che è stato suonato e che sta prendendosi un riposo di dieci secondi sul tappeto. Le loro parole mi arrivarono oscillando, svanendo e tornando.
«... lui?»
«... sarà tutto...»
«Gordie, stai...»
Poi dovetti dire qualcosa che non aveva molto senso perché cominciavano ad apparire veramente preoccupati.
«Meglio che lo riportiamo indietro, gente», disse Teddy, e poi il bianco- re coprì di nuovo tutto.
Quando si schiarì, mi parve di stare di nuovo bene. Chris mi stava accoccolato accanto, e diceva: «Mi senti, Gordie? Ci sei, amico?»
«Sì», dissi io, e mi misi a sedere. Uno sciame di macchie nere mi esplose davanti agli occhi, e poi scomparve. Aspettai per vedere se tornava, e visto che no, mi alzai.
«Mi hai fatto fottere dalla paura, Gordie», disse. «Vuoi un sorso d'acqua?»  «Sì.»
Mi diede la sua borraccia, mezza piena d'acqua, e feci scendere in gola tre sorsate di quel liquido tiepido.
«Ma perché sei svenuto, Gordie?» chiese Vern con tono ansioso.  «Ho fatto lo sbaglio di guardarti in faccia», risposi. «Eee-eeeeee!» gracchiò Teddy. «Fottuto di un Gordie!» «Stai proprio bene?» insistette Vern.
«Sì. Certo. È stato... brutto, lì, per un momento. A pensare a quei succhiasangue.»
Annuirono seri. Rimanemmo a riposare cinque minuti all'ombra e poi riprendemmo a camminare, io e Vern di nuovo da un lato dei binari, Chris e Teddy dall'altro. Pensavamo di dover essere vicini, ormai.

23

Non eravamo tanto vicini quanto immaginavamo e, se avessimo avuto tanto cervello da passare due minuti a studiare una mappa, avremmo visto perché. Sapevamo che il cadavere di Roy Brower doveva essere vicino alla Back Harlow Road, che termina sulla riva del Royal. Un altro ponte ferroviario porta i binari della GS&WM dall'altra parte del fiume. E così questo era quello che immaginavamo: una volta arrivati vicino al Royal saremmo stati vicino alla Back Harlow Road, dove Billy e Charlie avevano fermato la macchina quando avevano visto il ragazzo. E dato che il Royal era solo a dieci miglia dal Castle, calcolavamo di dover essere nei paraggi.
Ma quelle erano dieci miglia in linea d'aria, e la ferrovia non andava in linea retta tra il Castle e il Royal. Faceva invece un arco piuttosto ampio per evitare una regione collinosa, chiamata The Bluffs. Comunque, avremmo potuto vedere benissimo quell'arco se avessimo dato un'occhiata a una carta, e capito che invece di dieci, le miglia da percorrere erano più di una quindicina.
Chris cominciò a sospettare la verità quando, arrivato e passato mezzogiorno, del Royal non c'era ancora traccia. Ci fermammo mentre lui si arrampicava su un alto pino per dare un'occhiata attorno. Quando ne scese, ci fece un rapporto piuttosto semplice: sarebbero state almeno le quattro del pomeriggio prima di arrivare al Royal, e solo se tagliavamo diritto.
«Oh, cazzo!» esclamò Teddy. «E adesso che facciamo?»
Ci scambiammo uno sguardo, stanchi, sudati. Eravamo affamati e coi nervi tesi. La grande avventura si era trasformata in una lunga sfacchinata — sporca e a volte paurosa. Ormai a casa si dovevano essere accorti della nostra assenza, e anche se Milo Pressman non aveva già chiamato i poliziotti, il macchinista del treno che attraversava il ponte avrebbe potuto farlo lui. Il piano era di tornare a Castle Rock con l'autostop, ma le quattro erano solo tre ore prima del buio, e nessuno dà un passaggio a quattro ragazzi in una strada di campagna secondaria, quando è buio.
Cercai di richiamare la fresca immagine della mia daina, che brucava la verde erba del mattino, ma anche quello sembrava polveroso e inutile, niente di più che un trofeo impagliato sopra il camino in casa di un cacciatore, gli occhi lucidati con la lacca per dar loro un barlume artificiale di vivezza.
Finalmente Chris disse: «Non sarà mai più vicino se non ci muoviamo.
Coraggio».
Si girò e si avviò lungo i binari con le sue scarpe polverose, la testa bassa, l'ombra niente di più che una pozza ai suoi piedi. Dopo un minuto lo seguimmo, in fila indiana.

24

Negli anni che sono passati tra allora e quando ho scritto queste memorie, ho pensato pochissimo a quei due giorni di settembre, almeno consapevolmente. Le associazioni che i ricordi portano in superficie sono spiacevoli come i corpi di una settimana che le cannonate portano a galla nei fiumi. Di conseguenza, non ho mai messo seriamente in discussione la decisione di seguire le rotaie. In altre parole, qualche volta mi sono chiesto che cosa avevamo deciso di fare, ma mai come.
Ma ora mi viene in mente uno scenario molto più semplice. Mi consolo pensando che se l'idea fosse venuta fuori, sarebbe stata subito bocciata — camminare lungo la ferrovia sarebbe sembrato più netto, più forte, come dicevamo allora. Ma se l'idea fosse venuta fuori e non fosse stata bocciata, niente di quello che successe poi sarebbe avvenuto. Forse Chris e Teddy e Vern sarebbero perfino ancora vivi. No, non che morirono nei boschi o sulle rotaie; in questa storia non muore nessuno tranne qualche succhiasangue e Ray Bower e, se vogliamo essere completamente onesti, anche lui era morto prima che la storia cominciasse. Ma è vero che, di noi quattro che lanciammo le monete per vedere chi doveva andare al Florida Market a fare provviste, solo quello che poi ci andò è ancora vivo. Il Vecchio Marinaio trentaquattrenne, con te, Gentile Lettore, nel ruolo dell'Inviato allo Sposalizio (a questo punto non è il caso di dare un'occhiata alla mia foto sul risvolto di copertina e vedere se il mio occhio vi tiene in suo potere?). Se vi pare che ci sia una certa leggerezza da parte mia, avete ragione — ma forse ne ho motivo. A un'età in cui tutti e quattro noi saremmo considerati troppo giovani e immaturi per fare il presidente, tre di noi sono morti. E se è vero che i piccoli eventi rimbalzano allargandosi sempre di più nel tempo, sì, forse, se avessimo fatto la cosa più semplice e avessimo semplicemente fatto l'autostop fino alla zona di Harlow, allora loro oggi sarebbero ancora vivi.
Avremmo potuto prendere un passaggio sulla Route 7 fino alla Shiloh Church, che si trova all'incrocio tra l'autostrada e la Back Harlow Road (o meglio ci si trovava fino al 1967, quando fu rasa al suolo da un incendio attribuito al mozzicone di sigaretta di un vagabondo). Con una ragionevole quantità di fortuna saremmo arrivati dov'era il corpo per il tramonto del giorno prima.
Ma l'idea non avrebbe avuto vita. Non sarebbe stata respinta con argomenti rigidamente sostenuti e con retorica da società di dibattiti, ma con ringhi e occhiatacce e scorregge e diti medi levati. La parte verbale della discussione sarebbe stata portata avanti con incontrovertibili e arguti contributi quali «Cazzo, no», «Che stronzata»; e il vecchio classico sempre buono: «Ma tua madre non ha mai avuto un figlio nato vivo?»
Inespressa — forse troppo fondamentale per essere espressa — era l'idea che questa era una cosa da grandi. Non era andare in giro a sparare botti o cercare di guardare dal buco nel retro del gabinetto delle ragazze a Harrisson State Park. Questo era qualcosa al livello di andare per la prima volta a letto con una donna, o andare sotto le armi, o comprare la prima bottiglia di liquore legalmente — semplicemente entrare nel negozio, capite, scegliere una bottiglia di buon scotch, mostrare al commesso la cartolina precetto e la patente, poi uscire con un sorriso sulla faccia e quel sacchetto marrone tra le mani, membro di un club con appena qualche diritto e privilegio in più rispetto alla tua vecchia casa sull'albero col tetto di lamiera.
Esiste un rituale per ogni evento fondamentale, i riti di passaggio, il corridoio magico in cui avviene il cambiamento. Comprare i preservativi. Stare davanti al prete. Alzare la mano e fare il giuramento. O, se preferite, camminare lungo le rotaie della ferrovia per andare incontro a uno della vostra età, lo stesso che se mi fossi avviato per Pine Street per andare incontro a Chris se lui stava venendo a casa mia, o che Teddy si fosse avviato giù per Gates Street per venirmi incontro se io stavo andando da lui. Sembrava giusto farlo in questo modo, perché il rito di passaggio è un corridoio magico e perciò ci mettiamo sempre una corsia — che è quella che percorri quando ti sposi, quella lungo la quale ti portano quando ti seppelliscono. Il nostro corridoio erano quei binari gemelli, e ci camminavamo in mezzo, andando avanti verso qualunque cosa potesse significare. Non si chiede un passaggio per una cosa del genere, forse. E forse ci pareva anche giusto che si fosse rivelato più duro di quanto avevamo previsto. Gli eventi che avevano circondato la nostra gita l'avevano trasformata in quello che per tutto il tempo avevamo sospettato che fosse: una faccenda seria.
Quello che non sapevamo mentre giravamo attorno al Bluffs era che Billy Tessio, Charlie Hogan, Jack Mudgett, Norman «Fuzzy» Bracowicz, Vince Desjardins, il fratello maggiore di Chris, Eyeball, e Ace Merrill stesso si stavano mettendo in viaggio per dare un'occhiata al corpo anche loro — in un modo un po' sinistro, Ray Brower era diventato famoso, e il nostro segreto si era trasformato in una vera e propria parata stradale. Si stavano infilando nella Ford truccata del '52 di Ace e nella Studebaker del '54 di Vince proprio quando noi iniziavamo l'ultima tappa del nostro viaggio.
Billy e Charlie erano riusciti a tenere il loro terribile segreto per più o meno trentasei ore. Poi Charlie l'aveva spifferato ad Ace mentre giocavano a biliardo, e Billy spifferato a Jack Mudgett mentre pescavano dal Boom Road Bridge. Tanto Ace che Jack avevano giurato solennemente sul nome delle loro madri di mantenere il segreto, e fu così che per mezzogiorno nella banda lo sapevano tutti. Non è difficile capire che cosa pensavano delle loro madri.
Si riunirono tutti nella sala biliardi, e Fuzzy Bracowicz avanzò una teoria
(che tu hai già sentito, Gentile Lettore), che potevano diventare tutti degli eroi — oltre che da un momento all'altro personalità della radio e della TV — «scoprendo» il corpo. Tutto quello che avevano da fare, sosteneva Fuzzy, era mettersi in due macchine con l'attrezzatura per la pesca dentro il cofano.
Trovato il corpo, la loro storia avrebbe funzionato al cento per cento.
Avevamo giusto in mente di tirare fuori dal Royal qualche pesciolino, agente.
Eh-heh-e-eh. Guardi che cosa abbiamo trovato.
Erano sulla strada tra Castle Rock e l'area di Back Harlow proprio quando noi cominciavamo finalmente ad arrivare vicini.

25

Le nuvole presero ad accumularsi nel cielo verso le due, ma all'inizio nessuno di noi le prese sul serio. Non pioveva dai primi di giugno, e allora perché doveva piovere proprio ora? Ma quelle continuarono ad ammassarsi verso sud, sempre più grosse, cumuli violacei come lividi, e presero a muoversi lentamente verso di noi. Io le guardavo attentamente, cercando se si vedeva quel velo sotto che significava che venti, o cinquanta miglia in là sta già piovendo. Ma non c'era ancora pioggia. Le nuvole continuavano solo ad ammassarsi.
Vern aveva una vescica al tallone e ci fermammo a riposare mentre lui metteva nella scarpa sinistra del muschio preso dalla corteccia di una vecchia quercia.
«Pioverà, Gordie?» chiese Teddy.
«Penso di sì.»
«Piscio!» disse, e sospirò. «Pisciata finale di un bel giorno di piscio.» Io risi e lui mi strinse l'occhio.
Riprendemmo a camminare, un po' più lentamente ora per rispetto del piede malandato di Vern. E nell'ora tra le due e le tre la qualità della luce del giorno cominciò a cambiare, e fummo certi che la pioggia era in arrivo. Faceva caldo come sempre, e c'era ancora più umidità, ma ne fummo certi lo stesso. E anche gli uccelli ne erano certi. Parevano apparire dal nulla e attraversare il cielo, cinguettando e cantando e lanciandosi richiami l'un l'altro. E la luce. Sembrava trasformarsi da quella salda luminosità martellante in qualcosa di filtrato, quasi perlaceo. Le nostre ombre, che avevano ricominciato ad allungarsi, erano diventate anche loro grigie e indefinite. Il sole aveva cominciato ad apparire e a sparire tra gli strati di nuvole che si andavano ispessendo, e il cielo verso sud aveva preso una tonalità di rame. Guardavamo le nubi temporalesche che incombevano sempre più vicine, affascinati dalla loro massa, dalla loro muta minaccia. Ogni tanto pareva che dentro una di esse scoppiasse una lampadina gigante, mutandone per un momento il colore livido in un grigio chiaro. Vidi il raggio spezzato di un lampo scoccare dal fondo di quella più vicina. Era così luminoso da incidermi un tatuaggio azzurro sulla retina. Fu seguito da un lungo, assordante rombo di tuono.
Facemmo un po' di mugugni sul guarda un po' dove ci doveva capitare di farci prendere dalla pioggia, ma solo perché era quello che ci si aspettava che dicessimo — in realtà eravamo tutti ansiosi, non vedevamo l'ora che arrivasse. Sarebbe stato fresco e rinfrescante... e senza sanguisughe.
Poco dopo le tre e mezzo vedemmo dell'acqua che scorreva di là dagli alberi.
«Eccolo!» gridò Chris esultante. «È il Royal!»
Cominciammo a camminare più in fretta, riprendendo lena. Il temporale ormai era vicinissimo. L'aria cominciava a muoversi, e parve che la temperatura facesse un tuffo di dieci gradi nel giro di pochi secondi. Guardai a terra e vidi che l'ombra sotto di me era scomparsa completamente.
Ora camminavamo di nuovo appaiati, ogni coppia tenendo d'occhio un lato della massicciata. Avevo la bocca secca, un senso di tensione e di nausea. Il sole si nascose dietro un altro banco di nubi, e stavolta non ne uscì. Per un attimo gli orli furono bordati d'oro, come una nuvola in un'illustrazione del Vecchio Testamento, e poi il ventre color vino della nube soffocò ogni traccia di sole. Il giorno si fece cupo — le nuvole stavano rapidamente cancellando tutto l'azzurro. Sentivamo chiarissimo l'odore del fiume, come se fossimo dei cavalli — o forse era l'odore della pioggia in arrivo. C'era un oceano sopra di noi, trattenuto da un tenue sacco che poteva creparsi e lasciarlo andare da un momento all'altro.
Continuavo a sforzarmi di guardare nel sottobosco, ma i miei occhi erano continuamente attratti da quel cielo turbolento, agitatissimo; nei suoi colori che si andavano facendo più scuri si poteva leggere il destino che si preferiva: acqua, fuoco, vento, grandine. La fresca brezza si fece più insistente, fischiando tra gli abeti. Un fulmine improvviso scoppiò da un punto che pareva proprio sopra le nostre teste, strappandomi un grido e facendomi tappare gli occhi con le mani. Dio mi aveva fatto la fotografia, un ragazzino con la camicia legata attorno alla vita, la pelle d'oca sul petto nudo e le guance impolverate. Sentii il rumore lacerante di un albero che si abbatteva a meno di cinquanta metri. Il fragore del tuono che seguì mi fece contrarre la faccia. Desiderai essere a casa a leggere un buon libro in un posto sicuro... come giù in cantina.
«Gesù!» strillo Vern con una voce acuta, tremante. «Oh, Gesù Cristo, guardate là!»
Guardai nella direzione indicata da Vern e vidi una palla di fuoco biancoazzurra che avanzava rotolando sul binario di sinistra della GS&WM, crepitando e sibilando come un gatto scottato. Ci sorpassò e ci girammo per seguirla con lo sguardo mentre si allontanava, sbalorditi, consapevoli per la prima volta che una cosa del genere esisteva davvero. A meno di dieci metri da noi fece un pop! improvviso e sparì, lasciando nell'aria l'odore acuto dell'ozono.
«Ma che ci faccio io qui?» mormorò Teddy.
«Che doccia!» esclamò Chris felice, con la faccia verso il cielo. «Sarà una doccia da non credersi.» Ma io ero più del parere di Teddy. Guardare quel cielo mi dava un senso avvilente di vertigine. Era come guardare dentro un profondo gorgo misterioso. Un altro lampo scoppiò, facendoci ritrarre la testa tra le spalle. Stavolta l'odore di ozono era più rovente, più urgente. Lo scoppio di tuono che seguì fu quasi immediato.
Le mie orecchie ne erano ancora piene quando Vern si mise a urlare trionfante: «LÀ! ECCOLO! PROPRIO LÀ! L'HO VISTO!»
Posso rivedere Vern in questo stesso momento, se voglio — mi basta appoggiarmi allo schienale per un momento e chiudere gli occhi. È lì ritto sul binario sinistro come un esploratore sulla prua della sua nave, una mano a ripararsi gli occhi dalla pugnalata d'argento del fulmine appena sceso, l'altra tesa a indicare.
Corremmo vicino a lui e guardammo. Pensavo tra me: L'immaginazione di Vern gli è corsa avanti, ecco tutto. Le succhiasangue, il caldo, ora questo temporale... gli occhi gli stanno truccando le carte, ecco tutto. Ma non era affatto così, anche se ci fu una frazione di secondo in cui desiderai che lo fosse. In quella frazione di secondo seppi che non avrei mai voluto vedere un cadavere, neppure di una marmotta schiacciata da un'auto.
Nel punto dove eravamo noi, le piogge dell'inizio della primavera avevano portato via parte della massicciata, lasciando un salto ghiaioso di quasi un metro e mezzo. Forse gli operai della manutenzione della ferrovia non erano ancora arrivati da queste parti con i loro carrelli diesel gialli, o era successo da poco tempo e non erano stati ancora avvertiti. Sul fondo del salto c'era una macchia di sottobosco paludoso, fangoso, che mandava un brutto odore.
E da un cespuglio di more spuntava una mano bianchissima.
Qualcuno di noi respirò? Io no.
La brezza ora era un vento — teso e a raffica, che ci veniva addosso, non da una particolare direzione, saltando e turbinando, schiaffeggiandoci la pelle sudata, i pori aperti, Non me ne accorgevo quasi. Penso che una parte della mia mente stesse aspettando che Vern gridasse Paracadutisti fuori! e pensai che se l'avesse fatto molto probabilmente sarei impazzito. Sarebbe stato meglio vedere il corpo intero, tutto d'un colpo, ma c'era solo quella mano inerte tesa, orribilmente bianca, le dita aperte, come la mano di un bambino annegato. Ci diceva la verità di tutta la faccenda. Ci spiegava tutti i cimiteri del mondo. L'immagine di quella mano mi ritorna ogni volta che sento o leggo di un'atrocità. Da qualche parte, attaccato a quella mano, c'era il resto di Ray Brower.
I lampi scattavano e colpivano. I tuoni seguivano ogni fulmine come se sopra le nostre teste fosse iniziata una corsa di macchine truccate.
«Caaaaa...» disse Chris, ma il suono non era quello di un'imprecazione — solo una lunga sillaba senza tono, senza significato, un sospiro che per caso era passato attraverso le corde vocali.
Vern si passava la lingua sulle labbra freneticamente, inarrestabilmente, come se avesse assaggiato una oscura prelibatezza, Panini di Salsiccia Tibetana, Lumache Interstellari, qualcosa di così bizzarro che lo eccitasse e lo rivoltasse allo stesso tempo.
Teddy era immobile e guardava. Il vento faceva svolazzare i suoi capelli unti coprendogli e scoprendogli le orecchie. La faccia era totalmente inespressiva. Potrei dirvi che vi vidi qualcosa, e forse a ripensarci in seguito ce la vidi ... ma allora no.
C'erano delle nere formiche che andavano avanti e indietro sulla mano.
Un forte rumore frusciante cominciò a levarsi tra gli alberi dai due lati della ferrovia, come se la foresta si fosse appena accorta che eravamo lì e stesse commentando la cosa. La pioggia era iniziata.
Gocce grosse come monete mi caddero sulla testa e sulle braccia.
Colpirono la massicciata, facendo per un attimo la terra nera — e poi il colore cambiava di nuovo mentre il terreno arido si beveva avidamente tutta l'umidità.
Queste gocce grosse caddero per forse cinque secondi e poi si arrestarono. Guardai Chris e lui mi restituì lo sguardo.
Poi, improvviso, il temporale si scatenò, come se in cielo avessero tirato la catena della doccia. Il suono bisbigliante di prima si mutò in una sfuriata violenta. Era come se ci stessero rimproverando per la nostra scoperta, e faceva paura. Finché non sei al college nessuno ti parla dell'errore di prestare sentimenti umani alla natura... e anche allora ho notato che solo le teste più dure credono completamente che sia proprio un errore.
Chris saltò giù per la scarpata, i capelli già bagnati e appiccicati alla testa. Io lo seguii. Vern e Teddy vennero subito dopo, ma Chris e io fummo i primi a raggiungere il corpo di Ray Brower. Era steso bocconi. Chris mi guardò negli occhi, la faccia tesa e seria — una faccia da adulto. Io annuii leggermente, come se avesse parlato ad alta voce.
Penso che se era laggiù e relativamente intatto anziché su tra le rotaie e completamente maciullato, era perché stava cercando di togliersi dai binari quando il treno lo aveva colpito, scaraventandolo giù a capofitto. Era atterrato con la testa verso la ferrovia, le braccia sopra la testa come un tuffatore pronto a buttarsi. Era atterrato in questa sacca di terreno paludoso che si stava trasformando in un piccolo stagno. I suoi capelli avevano un colore rossastro, scuro. L'umidità dell'aria glieli aveva leggermente arricciati. C'era sangue, ma non molto, non molto diffuso. Le formiche erano più grandi delle macchie di sangue. Aveva una maglietta di cotone verde scuro e i blue jeans. Aveva i piedi nudi, e a pochi passi dietro di lui, impigliati tra i rovi, vidi un paio di scarpe da ginnastica tutte sporche. Per un attimo fui perplesso — perché lui era qui e le sue scarpe lì? Poi capii, e la risposta fu un pugno cattivo sotto la cintura. Mia moglie, i miei figli, i miei amici — sono convinti che avere un'immaginazione come la mia dev'essere molto bello; a parte il fatto che mi procura un bel po' di quattrini, ho la possibilità di vedermi un piccolo film mentale ogni volta che le cose si fanno noiose. In linea di massima hanno ragione. Ma ogni tanto la cosa si rivolta e ti morde a sangue con quei lunghi denti, denti che sono stati limati e appuntiti come quelli di un cannibale. Vedi cose che vorresti proprio non vedere, cose che ti tengono sveglio fino alle prime luci dell'alba. In quel momento vidi una di quelle cose, la vidi con assoluta chiarezza e certezza. Era stato strappato via dalle sue scarpe. Il treno lo aveva strappato via dalle sue scarpe come aveva strappato via la vita dal suo corpo.
Questo finalmente mi illuminò. Il ragazzo era morto. Non era malato, non stava dormendo. Il ragazzo non si sarebbe più alzato la mattina né avrebbe avuto mal di pancia per aver mangiato troppe mele o per l'edera velenosa né avrebbe mai più consumato tutta la gomma in cima alla sua Ticonderoga n. 2 durante un difficile compito di matematica. Il ragazzo era morto; morto stecchito. Il ragazzo non sarebbe mai più uscito per bottiglie in primavera, con gli amici, un sacco di tela sulle spalle a raccogliere i vuoti che riaffiorano quando la neve si scioglie. Il ragazzo non si sarebbe svegliato alle due di notte del primo novembre di quest'anno per correre in bagno a vomitare un bel po' di dolci da quattro soldi di Halloween. Il ragazzo non avrebbe più tirato trecce alle ragazze. Il ragazzo non avrebbe più fatto a nessuno un occhio nero né nessuno più lo avrebbe fatto a lui. Il ragazzo era no. Era il lato della batteria dove il terminale dice NEG. Il cestino della carta accanto alla cattedra dell'insegnante, che odora sempre di segatura dei temperamatite e di bucce d'arancia morte della colazione. La casa infestata fuori città con le finestre a pezzi, i cartelli di VIETATO L'ACCESSO strappati via e buttati nei campi, la soffitta piena di pipistrelli, la cantina piena di topi. Il ragazzo era morto, signori, signore, giovanotti, signorine. Potrei andare avanti per tutto il giorno e mai coprire la distanza tra i suoi piedi nudi a terra e le sue scarpe sporche di terra appese ai rovi. Era quasi un metro, era miliardi di anni luce. Il ragazzo era sconnesso dalle sue scarpe al di là di ogni possibile speranza di riconciliazione. Era morto.
Lo girammo a faccia in su sotto la pioggia che cadeva, i lampi, il fragore ininterrotto dei tuoni.
C'erano formiche e insetti su tutta la faccia e il collo. Correvano all'impazzata dentro e fuori dal colletto rotondo della maglietta. Gli occhi erano aperti ma spaventosamente fuori sincronia — uno era rovesciato all'indietro tanto che se ne vedeva solo un sottile arco di pupilla; l'altro fissava dritto su, verso il temporale. Sulla bocca e sul mento c'era un grumo di sangue secco — sangue uscito dal naso, pensai — e il lato destro della faccia era lacerato e livido. Eppure, pensai, non aveva un aspetto proprio brutto. Una volta ero finito contro la porta che mio fratello stava in quel momento spalancando, ne ero venuto fuori con contusioni ancora peggiori di quelle del ragazzo, più il sangue dal naso, però io ebbi una doppia razione di tutto quello che c'era a cena, quella sera.
Teddy e Vern erano in piedi dietro di noi, e se ci fosse rimasta un po' di vista nell'occhio che guardava in alto, immagino che saremmo apparsi a Ray Brower come i becchini in un film dell'orrore.
Uno scarabeo gli uscì dalla bocca, attraversò la guancia glabra, passò su un'ortica, e scomparve.
«Avete visto?» fece Teddy con una voce acuta, strana, esile. «Scommetto che è tutto fottutamente pieno di bestie! Scommetto che ha il cervello pie...»  «Stai zitto Teddy», disse Chris, e Teddy tacque, come sollevato.
I lampi solcavano di azzurro il cielo, accendendo l'occhio del ragazzo. Si poteva quasi credere che fosse contento di essere stato trovato, e trovato da ragazzi della sua età. Il torace gli si era fatto gonfio, e c'era attorno un odore leggero di gas, come il puzzo di vecchie scorregge.
Mi girai, sicuro di essere sul punto di vomitare, ma il mio stomaco era secco, duro, tranquillo. Improvvisamente mi misi due dita in gola, cercando di costringermi a vomitare, sentendone il bisogno, sperando di buttare tutto fuori e liberarmi. Ma il mio stomaco fece solo un piccolo singulto e poi tornò tranquillo.
Il rumore dell'acquazzone e dei tuoni che lo accompagnavano avevano coperto completamente il motore delle macchine che si avvicinavano lungo la Back Harlow Road, che correva a pochi metri da quel gruppo di cespugli. E coprì anche il rumore dei passi e del sottobosco smosso mentre si avvicinavano dal punto dove avevano parcheggiato.
E la prima cosa che sentimmo di loro fu la voce di Ace Merrill, alta sopra il tumulto del temporale, che diceva: «E voi che cazzo ne sapete di questo?»

26

Saltammo tutti come se ci avessero dato un colpo alle reni e Vern cacciò un grido — più tardi confessò di aver pensato, solo per un secondo, che la voce venisse dal ragazzo morto.
Dall'altra parte della radura acquitrinosa, dove riprendevano gli alberi mascherando il termine della strada, Ace Merrill ed Eyeball Chambers erano ritti, insieme, mezzo oscurati dalla grigia cortina della pioggia che veniva giù. Avevano tutti e due le giacche a vento rosse di nylon, di quelle che ti danno gratuitamente allo stadio.
«Figlio di puttana!» disse Eyeball. «Ma questo è mio fratello piccolo!»
Chris fissava Eyeball a bocca aperta. La sua camicia, bagnata, ciondolante e scura era ancora legata attorno alla magra vita. Lo zaino, di un verde più scuro per la pioggia, gli pendeva dalle spalle nude.
«Vattene, Rich», disse con voce tremante. «Lo abbiamo trovato noi. Tocca a noi.»
«Col cavolo tocca a voi. Avvertiremo noi che l'abbiamo trovato.»
«No, non lo farete», dissi io. Improvvisamente ero furioso con loro, presentarsi così all'ultimo minuto. Se ci avessimo pensato avremmo saputo che doveva succedere una cosa del genere... ma questa era la volta, in qualche modo, che i ragazzi più vecchi, i grandi, non ce l'avrebbero fatta a rubarcelo — a portarci via qualcosa che volevano loro come per diritto divino, come se il loro modo comodo fosse il modo giusto, l'unico modo. Erano arrivati in macchina — credo che fu questo a rendermi furioso. Erano venuti in macchina. «Siamo in quattro, Eye-ball. Provaci soltanto.»
«Oh, ci proviamo, non ti preoccupare», disse Eyeball, e gli alberi dietro di lui e Ace si mossero. Comparvero Charlie Hogan e Billy, il fratello di Vern, imprecando e togliendosi l'acqua dagli occhi. Sentii come una palla di piombo cadermi dentro. Si faceva più grande man mano che dietro a Charlie e Billy comparivano Jack Mudgett, Fuzzy Bracowicz e Vince Desjardins.
«Eccoci tutti qui», fece Ace ghignando. «Allora se proprio...»
«VERN!!» gridò Billy Tessio con voce terribile, accusatoria, in tono ilmiogiudizio-arriva-ed-è-vicino. Strinse le mani a pugno. «Piccolo figlio di puttana! Eri sotto il portico! Rompicazzo!» Vern indietreggiò.
Charlie Hogan spillò la sua vena lirica: «Piccolo guardone lecca-fiche mangiamerda! Dovrei farti cacare l'anima a botte!»
«Sì? Bene, provaci!» scattò Teddy all'improvviso. I suoi occhi avevano una luce di pazzia dietro le lenti gocciolanti. «Avanti, facciamola finita, vediamo di chi è! Avanti! Coraggio grand'uomo!»
Billy e Charlie non se lo fecero ripetere. Si buttarono in avanti contemporaneamente e Vern indietreggiò ancora — certo visualizzando i fantasmi dei Pestaggi Passati e dei Pestaggi Ancora a Venire. Indietreggiò... ma tenne duro. Lui era con i suoi amici, e ne avevano passate, e non eravamo mica arrivati lì su un paio di macchine.
Ma Ace trattenne Billy e Charlie, semplicemente toccandoli sulla spalla.
«Statemi a sentire adesso», disse Ace. Parlò in tono paziente, come se non fossimo tutti sotto un violentissimo temporale. «Siamo più noi che voi. Siamo più grandi. Vi diamo solo un'occasione per sparire. Non mi frega un cazzo dove. Fate come il gelato e squagliatevi.»
Il fratello di Chris ridacchiò e Fuzzy batté la mano sulla spalla di Ace come apprezzamento della splendida arguzia. Il Sid Caesar della delinquenza giovanile.
«Perché lo prendiamo noi.» Ace sorrise gentilmente, e potete vedervelo con lo stesso sorriso gentile se ve lo immaginate un attimo prima di spezzare la stecca da biliardo sulla testa di qualche porco maleducato che abbia fatto il terribile errore di fiatare mentre Ace sta prendendo la mira. «Se ve ne andate, lo prendiamo. Se rimanete, vi facciamo il culo a tutti e poi lo prendiamo lo stesso. E poi», aggiunse, cercando di infiorare la prepotenza con un po' di senso del diritto, «sono stati Charlie e Billy a trovarlo, per cui comunque tocca a loro.»
«Erano fottuti dalla paura!» gridò Teddy. «Vern ce l'ha detto! Erano fottuti dalla paura fin dentro quelle fottute teste!» Contrasse la faccia nella parodia di un terrorizzato, piagnucoloso Charlie Hogan. «Oh, se non avessimo mai fregato quella macchina! Come vorrei che non fossimo mai andati là su quella Back Harlow Road a farci le seghe! Oh, Billino, che dobbiamo fare? Oh, Billino...»
«E va bene», disse Charlie, e scattò di nuovo. La sua faccia era tesa dalla rabbia e dall'imbarazzo. «Ragazzo, come ti chiami, preparati ad arrivare giù fino in gola la prossima volta che ti gratti il naso.»
Abbassai lo sguardo su Ray Brower. Lui fissava calmo verso l'alto nella pioggia col suo unico occhio, sotto di noi ma al di sopra di tutto quanto. I tuoni rimbombavano ancora ininterrotti, ma la pioggia aveva cominciato ad alleggerirsi.
«Che dici, tu, Gordie?» chiese Ace. Tratteneva Charlie leggermente per il braccio, come un esperto allevatore tratterrebbe un cane feroce. «Tu dovresti avere almeno un po' del buon senso di tuo fratello. Di' a questi qua di togliersi dai piedi. Io tengo buono Charlie e poi ce ne andiamo tutti per i fatti nostri. Che ne dici?»
Fece male a nominare Denny. Avrei voluto ragionare con lui, sottolineare quello che Ace sapeva benissimo, che erano passati a noi i diritti di Billy e Charlie quando Vern aveva sentito che loro questi diritti li buttavano via. Avrei voluto dirgli che Vern e io eravamo quasi stati travolti da un treno merci sul ponte che passa sul Castle. Di Milo Pressman e del suo intrepido — anche se idiota — comprimario, Chopper il Supercane. Delle sanguisughe, anche. Probabilmente tutto quello che avrei voluto dirgli era: Andiamo, Ace, quel che è giusto è giusto. Lo sai. Ma lui dovette mettere in mezzo Denny e quello che sentii uscire dalla mia bocca, invece della dolce voce della ragione, fu la mia stessa condanna a morte: «Succhiami questo pezzo grosso, delinquente da due soldi!»
La bocca di Ace formò una perfetta O di sorpresa — la mia espressione era stata così inaspettata che in altre circostanze avrebbe provocato uno scoppio di ilarità. Tutti gli altri — dai due lati del pantano — mi fissavano stupefatti.
Allora Teddy si mise a gridare, giubilante: «Questo è parlare, Gordie! Oh, gente! Troppo forte!»
Rimasi lì io stesso sbalordito; non riuscivo a crederci. Era come se una comparsa impazzita fosse venuta in primo piano al momento culminante della scena e si fosse messa a declamare battute che non erano neppure nel copione. Dire a uno di succhiare era il massimo a cui si potesse arrivare senza tirare in ballo sua madre. Con la coda dell'occhio vidi Chris che aveva scaricato a terra lo zaino e ci stava frugando dentro freneticamente, ma non mi venne in mente — non allora, comunque.
«Okay», fece Ace piano. «Prendiamoli. Non facciamo male a nessuno, solo al ragazzo Lachance. Gli spezzo tutt'e due quelle fottute braccia.»
Mi sentii gelare come un morto. Non mi pisciai addosso come mi era successo sul ponte della ferrovia, ma forse solo perché non avevo niente dentro da lasciar andare. Faceva sul serio, vedete; gli anni passati da allora hanno modificato la mia opinione su un sacco di cose, ma su questo no. Quando Ace disse che mi avrebbe spezzato tutt'e due le braccia, faceva assolutamente sul serio.
Si mosse verso di noi in mezzo alla pioggia che si stava facendo più leggera. Jackie Mudgett tirò fuori un coltello a serramanico dalla tasca e schiacciò il bottone. Quindici centimetri di acciaio scattarono fuori, grigio perla nella mezza luce del pomeriggio. Vern e Teddy si misero immediatamente in posizione di difesa ai miei fianchi. Teddy lo fece con entusiasmo, Vern con una smorfia disperata sulla faccia.
I ragazzi grandi avanzavano in fila, i piedi che sguazzavano nel fango del pantano, che ora era un'unica grossa pozza limacciosa a causa del temporale. Il corpo di Ray Brower giaceva ai nostri piedi come un barile saturo d'acqua. Mi preparai a battermi... e fu allora che Chris sparò, con la pistola presa dal cassetto del suo vecchio.

KA-BLAM

Dio, che suono meraviglioso che fu! Charlie Hogan fece un salto in aria. Ace Merrill, che mi guardava fisso, ora si girò di scatto e guardò Chris. La sua bocca fece di nuovo quell'O. Eye-ball pareva completamente stordito.
«Ehi, Chris, quella è di papà», disse. «Vedrai che ti capita quando se ne accorge...»
«È niente rispetto a quello che capita adesso a te», disse Chris. Aveva la faccia terribilmente pallida, e la vivacità del viso sembrava risucchiata tutta negli occhi.
«Gordie aveva ragione, non siete altro che un mucchio di delinquenti da quattro soldi. Charlie e Billy hanno rinunciato al loro fottuto diritto e voi lo sapete tutti. Non saremmo venuti fin quaggiù se sapevamo che lo facevano loro. Loro sono andati da qualche parte e hanno vomitato tutta la storia e hanno lasciato che Ace Merrill pensasse al posto loro.» La sua voce si alzò fino a essere un urlo. «Ma non lo prenderete, mi avete sentito?»
«Adesso ascoltami», disse Ace. «Farai meglio a mettere via quell'affare prima di spararti in un piede. Non avresti il fegato di sparare nemmeno a una marmotta.» Riprese ad avanzare, riprendendo quel sorriso gentile. «Tu sei solo un piccolo, moccioso piscione, e io ora te la faccio mangiare quella fottuta pistola.»
«Ace, se non ti fermi ti sparo. Giuro su Dio.»
«Tu vai in ga-le-ra», gracchiò Ace, senza neppure rallentare. Gli altri lo guardavano con un'aria affascinata e di orrore... non diversamente da come Teddy e Vern e io stavamo guardando Chris. Ace Merrill era il personaggio più tosto per un raggio di miglia, e non credevo che Chris riuscisse a bluffare contro di lui. Che rimaneva allora? Ace non pensava che un moccioso di dodici anni potesse sparargli davvero. Io pensavo che aveva torto; pensavo che Chris avrebbe sparato piuttosto di lasciare che Ace gli prendesse la pistola del padre. In quei pochi secondi fui certo che ci sarebbero stati brutti pasticci, i più brutti che avevo mai conosciuto. Un morto, forse.
E tutto questo su chi aveva i diritti sul corpo di un morto.
Chris disse piano, con grande rimpianto: «Dove la vuoi, Ace? Nel braccio o nella gamba? Io non voglio scegliere, scegli tu per me». E Ace si fermò.

27

La faccia gli si afflosciò, e improvvisamente vi vidi sopra il terrore. Fu il tono di Chris, più che le parole, credo; il rimpianto autentico perché le cose stavano mettendosi male. Se era un bluff, fu il migliore che abbia mai visto. Gli altri grandi erano completamente convinti; le loro facce erano rattrappite come se qualcuno avesse appena avvicinato un fiammifero alla miccia di una bomba.
Ace lentamente riprese il controllo di se stesso. I muscoli della faccia ripresero tono, le labbra gli si richiusero, e guardò Chris come si guarda un uomo che vi ha appena fatto una seria proposta di affari — fondersi con la vostra società, o gestire la vostra linea di credito, o spararvi nelle palle. Era un'espressione di attesa, quasi incuriosita, un'espressione che lasciava capire che il terrore o era andato via o era strettamente sotto controllo. Ace aveva ricalcolato le probabilità di non essere sparato e aveva deciso che quelle in suo favore non erano tante quanto aveva pensato. Ma era sempre pericoloso — forse più di prima. Da allora ho pensato che quello fosse il più feroce esempio di rischio calcolato a cui abbia mai assistito. Nessuno dei due bluffava, facevano sul serio tutti e due.
«Sta bene», disse Ace piano parlando con Chris. «Ma io so come ne uscirai da questo, stronzo.»
«No che non lo sai», fece Chris.
«Testa di cazzo!» intervenne forte Eyeball. «Finirai al riformatorio per questo!»
«Fottiti», gli disse Chris.
Con un suono inarticolato di rabbia Eyeball scattò in avanti e Chris piantò una pallottola nell'acqua a tre metri davanti a lui. Sollevò uno spruzzo d'acqua. Eyeball saltò all'indietro, imprecando.
«Okay, e ora?» chiese Ace.
«Ora voi vi infilate in macchina e vi fiondate a Castle Rock. Dopo di che non mi interessa. Ma lui non lo prendete.» Toccò leggermente, quasi con reverenza, Ray Brower con la punta della scarpa. «Mi sono spiegato?»  «Ma prenderemo voi», disse Ace. Stava ricominciando a sorridere.
«Questo non lo sai?»
«Può darsi. E può darsi di no.»
«Vi prenderemo e forte», ripeté Ace sorridendo. «Vi faremo male. Non posso credere che questo non lo sai. Vi manderemo tutti nel fottuto ospedale tutti pieni di fottutissime fratture. Sinceramente.»
«Oh, perché non te ne vai a casa a fotterti ancora un po' tua madre? Ho sentito dire che le piace molto come lo fai.»
Il sorriso di Ace si gelò. «Ti ucciderò per questo. Nessuno si permette di parlare di mia madre.»
«Ho sentito dire che tua madre fotte per soldi», lo informò Chris, e mentre Ace cominciava a impallidire, e il suo colorito iniziava ad avvicinarsi al biancore spettrale di Chris, aggiunse: «Anzi, ho sentito dire che fa un bocchino per un gettone del jukebox. Ho sentito dire...»
A questo punto ritornò il temporale, improvviso, cattivo. Solo che questa volta era grandine, non pioggia. Invece di bisbigliare o di parlare, la foresta era sembrata piena di tutti i tamburi della giungla di ogni film di serie B — il rumore di tutte quelle pietre di ghiaccio che rimbalzavano contro i tronchi. Quei ciottoli pungenti presero a colpirmi le spalle — mi pareva che ci fosse una forza cosciente, malevola, a tirarle. Peggio, cominciarono a colpire la faccia riversa di Ray Brower con un rumore spaventoso che ci fece ricordare di nuovo di lui, della sua terribile e infinita pazienza.
Vern fu il primo a cedere, con un urlo lamentoso. Corse sopra la massicciata con lunghissimi balzi scomposti. Teddy resisté un minuto di più, poi corse dietro Vern, le mani sopra la testa. Da parte loro, Vince Desjardins si precipitò sotto uno degli alberi vicini, e Fuzzy Bracowicz lo raggiunse. Ma gli altri rimasero immobili, e Ace ricominciò a sorridere.
«Resta con me, Gordie», disse Chris con voce bassa, tremante. «Resta con me, amico.»
«Sono qui.»
«Vattene, ora», disse Chris ad Ace, e riuscì come per magia a togliere ogni traccia di tremore dalla sua voce. Il tono era come se stesse dando istruzioni a un bambino stupido.
«Vi prendiamo», disse Ace. «Non lo dimenticheremo, se è questo che stai pensando. Qui la faccenda è davvero grossa, bambino.»  «Sta bene. Ora vattene, la tua presa la fai un altro giorno.» «Vi prenderemo mentre meno ve lo aspettate, Chambers, Noi...» «Via!» urlò Chris, e puntò la pistola. Ace fece un passo indietro.
Guardò Chris ancora per un momento, annuì, poi si girò. «Andiamo», disse agli altri. Lanciò ancora un'occhiata di sopra la spalla a me e a Chris. «Ci vediamo.»
Scomparvero dietro lo schermo degli alberi tra il pantano e la strada. Chris e io rimanemmo perfettamente immobili nonostante la grandine che ci investiva, arrossandoci la pelle e accumulandosi tutt'attorno a noi come neve d'estate. Rimanemmo lì ad ascoltare e al di sopra del ritmo di calipso dei chicchi che colpivano i tronchi, sentimmo le due macchine mettersi in moto.
«Rimani qui», mi disse Chris, e si avviò ad attraversare il pantano.
«Chris!» dissi io in preda al panico.
«Devo farlo. Rimani qui.»
Mi pareva che fosse andato via da moltissimo tempo. Mi convinsi che Ace o Eyeball lo avessero preso alle spalle. Rimasi al mio posto con la sola compagnia di Ray Browern e aspettai che qualcuno — chiunque — tornasse.
Dopo un po', fu Chris a tornare.
«È fatta», disse. «Se ne sono andati.»
«Sei sicuro?»
«Sì. Tutt'e due le macchine.» Alzò le mani sopra la testa, strette insieme con la pistola in mezzo, e scosse il doppio pugno nel gesto del vincitore. Poi le lasciò ricadere e mi sorrise. Credo che sia il sorriso più triste e spaventato che abbia mai visto. «'Succhiami questo pezzo grosso'... e chi è che te l'ha detto che ce l'hai grosso, Lachance?»
«Il più grosso di quattro stati», dissi. Tremavo in tutto il corpo.
Ci guardammo con calore per un secondo e poi, forse imbarazzati da quello che ognuno vedeva negli occhi dell'altro, abbassammo lo sguardo contemporaneamente. Un brutto brivido di paura mi attraversò la schiena, e l'improvviso splash splash di Chris che sollevava i piedi improvvisamente dal fango mi fece capire che anche lui aveva visto. Gli occhi di Ray Brower erano diventati grandi e bianchi, fissi e senza pupille, come gli occhi che ti guardano dalle statue greche. Ci volle un solo secondo per capire che cosa era successo, ma capire non attuti l'orrore. Gli occhi gli si erano riempiti dei tondi bianchi chicchi di grandine. Ora si stavano sciogliendo e l'acqua scorreva giù lungo le guance come se stesse piangendo per la sua stessa grottesca posizione — malconcio trofeo conteso da due branchi di stupidi ragazzotti. Anche i suoi vestiti erano bianchi di grandine. Sembrava avvolto in un sudario.
«Oh, Gordie, ehi», disse Chris con voce rotta. «Che spettacolo per lui.»  «Non credo che lui sappia...»
«Ma forse era proprio il suo fantasma quello che abbiamo sentito. Forse lo sapeva che sarebbe successo. Che fottuto spettacolo, ti dico la verità.»
Dei rami si mossero frusciando dietro di noi. Io mi girai di scatto, sicuro che fossero loro che ci avevano aggirato, ma Chris continuò a fissare il corpo dopo una rapida occhiata, quasi casuale. Erano Vern e Teddy, i jeans neri per l'acqua e incollati alle gambe, tutti e due con una smorfia da cani bastonati.
«Che facciamo, amico?» chiese Chris, e io risentii un brivido agghiacciante lungo la schiena. Forse stava parlando con me, forse... però stava guardando giù verso il corpo.
«Ce lo portiamo dietro, no?» disse Teddy perplesso. «Saremo gli eroi. Non ho ragione?» Continuava a passare con lo sguardo da Chris a me e poi ancora a Chris.
Chris si guardò attorno come riscuotendosi da un sogno. Storse la bocca. Si diresse a grandi passi verso Teddy, gli mise tutt'e due le mani sul petto, e lo spinse con violenza. Teddy barcollò, agitò le braccia per mantenere l'equilibrio, poi cadde a sedere con un tonfo nel bagnato. Guardò su verso Chris sbattendo le palpebre come un topo colto di sorpresa. Vern guardava impaurito Chris, come temendo che fosse impazzito. Forse non era troppo lontano dalla verità.
«Tieni chiusa quella trappola», disse Chris a Teddy. «Paracadutista dei miei coglioni. Sporco vigliacco.»
«È stata la grandine!» gridò Teddy, pieno di rabbia di vergogna. «Non sono stati quelli là, Chris! Mi sono spaventato per il temporale! Non ho potuto farne a meno! Me li sarei fatti tutti subito, te lo giuro sul nome di mia madre! Ma ho avuto paura del temporale! Cazzo! Non ho potuto farci niente!» Cominciò a piangere, seduto lì nell'acqua.
«E tu?» chiese Chris passando a Vern. «Anche tu hai paura dei temporali?»
Vern scosse la testa inespressivo, ancora stordito per la furia di Chris. «Ehi amico, pensavo che stavamo scappando tutti.»
«Allora devi essere uno che legge nel pensiero, perché sei scappato per primo.»
Vern inghiottì due volte e non disse nulla.
Chris lo fissò, gli occhi gonfi e feroci. Poi si rivolse a me. «Facciamogli una barella, Gordie.»
«Se vuoi, Chris.»
«Certo! Come negli scout.» La sua voce era cominciata a salire di tono, a un livello strano, soprannaturale. «Proprio come nei fottuti scout. Una barella — pali e camicie. Come nel manuale. Giusto, Gordie?»
«Sì, se vuoi. Ma che si fa se quelli...»
«Al diavolo quelli!» urlò. «Siete tutti un branco di conigli! Andate a fare in culo!»
«Chris, potrebbero chiamare la polizia. Tornare a prenderci.»
«Lui è nostro e noi ce lo portiamo VIA!»
«Quelli là direbbero qualsiasi cosa per metterci nei guai», gli dissi. Le mie parole suonavano deboli, stupide, impastate dal catarro. «Raccontare qualcosa e mentire tutti d'accordo. Lo sai com'è facile mettere nei guai qualcuno contando delle storie, amico. Come coi soldi del lat...»
«NON ME NE FREGA NIENTE!» urlò, e mi si lanciò contro con i pugni alzati. Ma uno dei piedi urtò nel torace di Ray Brower mandando un tonfo sordo, facendo rotolare il corpo. Inciampò e cadde lungo disteso e io aspettai che si alzasse e magari mi desse un pugno in bocca, ma invece rimase lì dov'era caduto, la testa verso la massicciata, le braccia allungate sopra la testa come un tuffatore pronto a buttarsi, nella posizione precisa in cui era Ray Brower quando lo avevamo trovato. Corsi subito con lo sguardo ai suoi piedi per accertarmi che avesse ancora le scarpe. Poi cominciò a piangere e a gridare, dimenandosi nell'acqua fangosa, schizzandola tutt'attorno, pestando i pugni, scuotendo la testa da una parte all'altra. Teddy e Vern lo fissavano, senza fiato, perché nessuno aveva mai visto Chris Chambers piangere. Dopo qualche momento ritornai alla massicciata, ci montai su e sedetti su una delle rotaie. Teddy e Vern mi seguirono. E rimanemmo seduti lì, sotto la pioggia, senza parlare, come le tre scimmiette sagge che vendono in quei negozi di regali da due soldi che sembrano sempre sull'orlo del fallimento.

28

Passarono venti minuti prima che Chris montasse sulla massicciata per sedersi accanto a noi. Le nuvole avevano cominciato a rompersi. Qualche lama di sole veniva giù in mezzo agli squarci di sereno. La vegetazione sembrava essersi fatta di tre toni più scura negli ultimi tre quarti d'ora. Lui aveva melma su tutto un lato del corpo. I capelli gli stavano ritti in ciuffi fangosi. L'unica zona pulita di lui erano i due cerchi bianchi attorno agli occhi.
«Hai ragione, Gordie», disse. «Nessuno ha la meglio alla fine. Croce nera dappertutto, eh?»
Annuii. Passarono cinque minuti. Nessuno disse niente. E a me per caso venne un'idea — giusto nel caso che avessero effettivamente chiamato Bannerman. Scesi di nuovo dalla massicciata fino al punto dove prima era Chris. Mi misi in ginocchio e cominciai a rastrellare accuratamente con le dita tra l'acqua e l'erba acquitrinosa.
«Che stai facendo?» chiese Teddy, raggiungendomi.
«È alla tua sinistra, credo», disse Chris, e indicò.
Guardai lì e dopo uno o due minuti trovai tutt'e due i bossoli. Brillavano alla fresca luce del sole. Li diedi a Chris. Lui annuì e se li infilò nella tasca dei jeans.
«Andiamo adesso», disse Chris.
«Ehi, dài!» esclamò Teddy, realmente angustiato. «Io voglio portarlo!»
«Stammi a sentire, deficiente», disse Chris, «se lo riportiamo indietro potremmo finire tutti in riformatorio. È come dice Gordon. Quelli potrebbero inventare qualsiasi storia. E se dicono che lo abbiamo ucciso noi, eh?
Che te ne pare?»
«Non me ne frega niente», disse Teddy roco. Poi ci guardò con un lampo di speranza assurda. «E poi potrebbero darci solo un paio di mesi, più o meno. Come massimo. Voglio dire, abbiamo solo dodici fottuti anni, non ci manderanno mica a Shawshank.»
Chris fece, piano: «Non puoi entrare nell'esercito se hai la fedina sporca, Teddy».
Ero sicurissimo che non fosse che una balla inventata di sana pianta — ma per qualche motivo quello non mi parve il momento opportuno per dirlo.
Teddy fissò Chris a lungo, la bocca tremante. Finalmente riusci a tirar fuori: «Senza scherzi?» «Chiedi a Gordie.» Guardò me speranzoso.
«Ha ragione», dissi, sentendosi come uno stronzo grande e grosso. «Ha ragione, Teddy. La prima cosa che fanno quando chiedi di andare volontario è controllare il tuo nome, se è pulito.»
«Dio santo!»
«Muoviamo il culo fino al ponte della ferrovia», disse Chris. «Poi ci allontaniamo dai binari ed entriamo a Castle Rock dall'altra direzione. Se ci chiedono dove eravamo, diciamo che siamo andati a campeggiare su Brickyard Hill e ci siamo persi.»
«Milo Pressman sa che le cose stanno diversamente», dissi io. «E anche quella merda al Florida Market.»
«Benissimo, diremo che Milo ci ha messo paura ed è stato allora che abbiamo deciso di andare sul Brickyard.»
Annuii. Poteva funzionare. Se mai Vern e Teddy fossero riusciti a ricordarsi che dovevano attenersi a questa versione.
«E se i nostri si sono riuniti?» chiese Vern.
«Preoccupatene tu se vuoi», disse Chris. «Mio padre sarà ancora sotto spirito.»
«Andiamo, allora», disse Vern, occhieggiando lo schermo di alberi tra noi e la Back Harlow Road. Aveva l'aria di aspettarsi che da un momento all'altro facesse irruzione Bannerman con una muta di segugi. «Andiamo finché la situazione è buona.»
Eravamo tutti in piedi, ora, pronti a metterci in cammino. Gli uccelli cantavano come impazziti, contenti della pioggia e della luce brillante e dei vermi e praticamente di tutto al mondo, immagino. Ci girammo tutti indietro, come tirati da un filo, e guardammo Ray Brower.
Era sdraiato lì, di nuovo da solo. Le braccia gli si erano allargate quando lo avevamo girato e ora era come un'aquila ad ali spiegate, come a salutare il sole. Per un momento parve che andasse tutto bene, una scena di morte più naturale di quella che potrà mai organizzare l'impresa di pompe funebri per la camera ardente. Poi si notava la ferita, il sangue rappreso sul mento e sotto il naso, e il modo in cui il corpo cominciava" a gonfiarsi. Si vedevano i tafani, tornati fuori col sole, girare a cerchio attorno al corpo, ronzando indolenti. Ci si ricordava dell'odore gasoso, nauseante ma secco, come scorregge in una stanza chiusa. Era un ragazzo della nostra età, era morto, e rifiutavo l'idea che potesse esserci alcunché di naturale in questo; la spinsi via con orrore.»
«Okay», fece Chris, e intendeva essere brusco, ma la voce gli uscì dalla gola come una manciata di setole secche da una vecchia spazzola. «In marcia veloce.»
Partimmo quasi al trotto lungo la strada che avevamo fatto a venire. Non parlammo. Non so gli altri, ma io ero troppo occupato a pensare per poter parlare. C'erano delle cose che mi turbavano sul corpo di Ray Brower — mi turbavano allora e mi turbano adesso.
Una brutta contusione sul lato della faccia, una lacerazione al cuoio capelluto, un naso sanguinante. Niente di più — almeno, niente di più di visibile. C'è gente che esce da risse da bar in condizioni peggiori, e continua tranquillamente a bere. Ma il treno doveva averlo colpito; perché altrimenti sarebbe schizzato in quel modo dalle scarpe? E com'era successo che il macchinista non l'aveva visto? Era possibile che il treno l'avesse colpito forte abbastanza da scaraventarlo via ma non da ucciderlo? Pensavo che, con questa combinazione di circostanze, poteva essere accaduto. Lo aveva preso, il treno, con un colpo forte laterale mentre lui cercava di togliersi dalla via ferrata? Colpito e lanciato all'indietro in volo oltre la parte franata della massicciata? Forse lui era rimasto sveglio e tremante nel buio per ore, non solo perso ma anche disorientato, tagliato fuori dal mondo? Forse era morto di paura. Un uccello con le penne della coda rotte una volta morì tra le mie mani proprio in questo modo. Il suo corpo tremava e vibrava leggero, il becco si apriva e si chiudeva, gli occhi neri e brillanti mi fissavano. Poi la vibrazione cessò, il becco si irrigidì semiaperto e gli occhi neri si fecero opachi e indifferenti. Forse era stato così anche per Ray Brower. Poteva essere morto perché era semplicemente troppo spaventato per continuare a vivere.
Ma c'era anche un'altra cosa, e questo mi turbava più di tutte, credo. Era partito per andare a mirtilli. Mi sembrava di ricordare che la radio aveva detto che portava una pentola per metterci i mirtilli. Quando tornammo andai in biblioteca e guardai i giornali per accertarmene, e avevo ragione. Era andato per frutti di bosco, e aveva con sé un secchiello, una pentola — qualcosa del genere. Ma noi non l'avevamo trovata. Trovammo lui, e trovammo le sue scarpe. Doveva averla buttata via a un certo punto tra Chamberlain e la zona acquitrinosa a Harlow dove era morto. Probabilmente ci si era stretto ancora più forte, sulle prime, come pensando che lo legasse alla casa e alla salvezza. Ma col crescere della paura, e insieme con essa della sensazione di essere completamente solo, senza possibilità di una salvezza che non venisse da qualcosa che poteva fare lui stesso, con l'arrivo del terrore vero, probabilmente la gettò via tra gli alberi da un lato o dall'altro della ferrovia, accorgendosi appena di non averla più.
Ho pensato di tornare a cercarla — vi pare una curiosità morbosa? Ho pensato di arrivare in fondo alla Back Harlow Road con il mio furgoncino Ford quasi nuovo in qualche splendente mattino d'estate, da solo, mia moglie e i bambini lontanissimi, in un altro mondo, dove se giri un interruttore arriva la luce nel buio. Ho pensato come sarebbe. Tirare fuori dal retro il mio zaino e appoggiarlo sul paraurti mentre con cura mi tolgo la camicia e me la lego attorno alla vita. Strofinarmi il petto e le spalle con Muskol contro gli insetti e poi entrare tra la vegetazione fin dove era quel posto paludoso, il posto dove lo trovammo. L'erba sarebbe cresciuta gialla, lì, seguendo la forma del suo corpo? Certamente no, non ci sarebbe alcun segno, ma uno se lo chiede lo stesso, e si rende conto di quanto è sottile il velo tra la tua attitudine di uomo razionale — lo scrittore con le toppe di pelle sui gomiti della giacca di velluto — e i bizzarri miti gorgonici dell'infanzia. Quindi montare sulla massicciata, ormai infestata dalle erbacce, e camminare lentamente lungo le rotaie arrugginite e le traversine marcite verso Chamberlain.
Stupide fantasie. Una spedizione per trovare un secchiello da mirtilli vecchio di vent'anni, probabilmente lanciato nel folto del bosco o schiacciato sotto un bulldozer che preparava un lotto da mezzo acro per una casa, o soffocato così profondamente dalla vegetazione cresciutagli attorno da essere diventato invisibile. Ma sono certo che è ancora lì, da qualche parte lungo la linea abbandonata della GS&WM, e a volte l'impulso di andare è quasi una frenesia. Di solito mi viene di mattina presto, quando mia moglie fa la doccia e i ragazzini stanno guardando Batman o Scooby Doo sul canale 38 di Boston, e io più che mai mi sento come il preadoloscente Gordon Lachance che una volta passò sulla terra, camminando e parlando e occasionalmente strisciando sulla pancia come un rettile. Quel ragazzo ero io, penso. E il pensiero che segue, che mi agghiaccia come un getto di acqua gelata è: Quale ragazzo intendi?
Sorseggiando una tazza di tè, guardando il sole che passa dalle finestre della cucina, sentendo la TV da una parte della casa e la doccia dall'altra, avvertendo dietro gli occhi la pulsazione che significa che ho preso una birra di troppo la sera prima, mi sento sicuro di poterlo trovare. Vedrei il metallo chiaro scintillare attraverso la ruggine, il sole vivido dell'estate rimandarlo ai miei occhi. Scenderei dal fianco della massicciata, spingerei da parte le erbacce cresciute attorno e che avvolgono il manico, e poi potrei... cosa? Be', semplicemente tirarlo fuori dal tempo. Me lo rigirerei tra le mani, attento alla sensazione che produce, riflettendo sul fatto che so che l'ultima persona che l'ha toccato è da tempo sepolta. E se dentro ci fosse un biglietto? Aiutatemi, mi sono perduto. Chiaramente non ci sarebbe — i ragazzi non vanno per mirtilli portandosi dietro carta e matita — ma supponiamolo soltanto. Immagino che la soggezione che sentirei sarebbe oscura quanto un'eclisse. Eppure, è soprattutto solo l'idea di tenere quel secchiello tra le mie due mani, immagino — oltre che un simbolo del mio vivere mentre lui muore, la prova che in realtà io so quale ragazzo era — quale ragazzo tra noi cinque. Stringerlo. Leggere ogni anno nella sua crosta di ruggine e nello sbiadire del suo lucido scintillare. Sentirlo, cercare di capire il sole che ci è brillato sopra, la pioggia che ci è caduta, le nevi che l'hanno coperto. E chiedermi dove ero io quando ognuna di queste cose gli stava accadendo nel suo posto solitario, dove ero io, cosa stavo facendo, chi amavo, come me la cavavo, dov'ero. Lo stringerei, lo leggerei, lo sentirei tra le mani... E guarderei il mio viso in quei punti dove ci fosse ancora rimasto del riflesso. Riuscite ad afferrare?

29

Rientrammo a Castle Rock un po' dopo le cinque della mattina di domenica, il giorno prima del Labor Day. Avevamo camminato tutta la notte. Nessuno si era lamentato, anche se avevamo tutti le vesciche ai piedi ed eravamo tutti affamati. La testa mi pulsava con un'emicrania che mi uccideva, e mi sentivo le gambe spezzate e brucianti dalla stanchezza. Due volte dovemmo scendere di corsa dalla massicciata per toglierci dalla via dei treni merci. Uno di loro andava nella nostra direzione, ma troppo veloce per saltarci su. Cominciava a vedersi la prima luce del giorno quando arrivammo al ponte sul Castle. Chris lo guardò, guardò il fiume, guardò noi.
«Al diavolo. Io ci passo sopra. Se mi becca un treno non avrò più da preoccuparmi di quello stronzo di Ace Merrill.»
Lo attraversammo tutti — ci arrancammo, per meglio dire. Nessun treno arrivò. Quando fummo alla discarica scavalcammo il reticolato (nessuna traccia di Milo né di Chopper, così presto, e poi di domenica mattina) e andammo direttamente alla pompa. Vern la azionò e facemmo tutti a turno a infilare la testa sotto il getto gelato, spruzzandoci l'acqua sul corpo, bevendo fino a non poterne più. Poi dovemmo rimetterci le camicie perché la mattina pareva gelata. Camminammo — zoppicammo — fino al paese e rimanemmo per un momento sul marciapiede davanti al terreno del nostro club. Guardammo la casa sull'albero per non doverci guardare l'un l'altro.
«Be'», disse finalmente Teddy, «ci vediamo a scuola mercoledì. Credo che fino ad allora dormirò.»
«Anch'io», fece Vern. «Sono a pezzi.»  Chris fischiettò tra i denti senza dir nulla.
«Ehi, amico», disse Teddy imbarazzato. «Senza rancore, okay?»
«Certo», fece Chris, e improvvisamente la sua faccia stanca e scura si aprì in un sorriso dolce e luminoso. «Ce l'abbiamo fatta, no? Ce l'abbiamo fatta a quei bastardi.»
«Già», disse Vern. «Fottuto che sei. Ora Billy si farà me.»
«E con questo?» rispose Chris. «Richie si lavorerà me, e Ace probabilmente si lavorerà Gordie, e qualcun altro si lavorerà Teddy. Ma ce l'abbiamo fatta.»
«È vero», ammise Vern. Ma pareva ugualmente infelice.
Chris guardò me. «Ce l'abbiamo fatta, no?» chiese a bassa voce. «Ne è valsa la pena, no?»
«Certo.»
«Che cazzo», fece Teddy con quel suo tono da adesso-comincia-anonfregarmene-più-niente. «Mi parete come quei fottuti Incontro con la stampa. Qua la mano, amico. Me ne vado a casa a vedere se la mamma mi ha fatto mettere nella lista dei Dieci Massimi Ricercati.»
Ridemmo tutti, Teddy prese la sua aria da Oh-Dio-e-adesso-che-c'è, e gli demmo la mano. Poi lui e Vern si avviarono per la loro direzione e io sarei dovuto andare dalla mia... ma esitai per un momento.
«Faccio un pezzo con te», propose Chris.  «Certo, benissimo.»
Facemmo uno o due isolati senza parlare. Castle Rock era spaventosamente silenziosa nella prima luce del giorno, e io avvertii la sensazione quasi soprannaturale della stanchezza che scivolava via. Noi eravamo svegli e tutto il resto del mondo dormiva e mi aspettavo quasi di girare l'angolo e vedere la mia daina in fondo a Carbine Street, dove i binari della GS&WM passano attraverso il cortile di carico della fabbrica.
Finalmente Chris parlò. «Lo diranno.»
«Ci puoi scommettere che lo diranno. Ma non oggi, né domani, se è questo che ti preoccupa. Passerà molto tempo prima che lo dicano, credo. Anni, forse.»
Mi guardò, sorpreso.
«Sono spaventati, Chris. Soprattutto Teddy, ha paura che non lo prendano nell'esercito. Ma anche Vern è spaventato. Ci perderanno un po' di sonno, e ci saranno delle volte, quest'autunno, che ce l'avranno proprio sulla punta della lingua, lì lì per dirlo a qualcuno, ma non credo che lo faranno. E poi... sai una cosa? Può sembrare pazzesco, ma... credo che dimenticheranno perfino che sia mai successo.»
Annuiva lentamente. «Non ci avevo pensato. Tu vedi dentro le persone,
Gordie.»
«Magari, amico.»
«È così, davvero.»
Facemmo un altro isolato in silenzio.
«Non me ne andrò mai da questo paese», sospirò Chris. «Quando tornerai per le vacanze estive dal college potrai vedere me e Vern e Teddy giù al Sukey's quando è finito il turno sette-tre. Se vuoi. Solo che probabilmente non vorrai mai.» Fece una risatina da rabbrividire.
«Piantala di farti le seghe», feci io sforzandomi di apparire più duro di quanto mi sentissi — stavo pensando a noi là fuori nei boschi, a Chris che diceva: E forse li portai alla vecchia Simons e glielo dissi, e forse i soldi erano tutti lì ma io ebbi lo stesso i tre giorni di vacanza perché i soldi non sono mai saltati fuori. E forse la settimana dopo la vecchia Simons aveva quella gonna nuova nuova quando venne a scuola... Lo sguardo nei suoi occhi.
«Niente seghe, paparino», disse Chris.
Mi strofinai indice e pollice. «Questo è il più piccolo violino del mondo che suona 'Il mio cuore pompa piscio scarlatto per te.'»
«Era nostro», disse Chris, gli occhi scuri nella luce del mattino.
Avevamo raggiunto l'angolo della mia strada e ci fermammo lì. Erano le sei e un quarto. Verso il centro vedemmo il camion del Telegram fermarsi davanti al negozio dello zio di Teddy. Un uomo in jeans e maglietta gettò a terra un pacco di giornali. Il pacco rimbalzò capovolto sul marciapiede, mostrando i colori del supplemento dei fumetti (sempre Dick Tracy e Blondie in prima pagina). Poi il camion proseguì, l'autista intento a consegnare il mondo esterno al resto delle successive fermate lungo la linea Otisfield, Norway-South Paris, Waterford, Stoneham. Avrei voluto dire qualche altra cosa a Chris e non sapevo come.
«Qua la mano, amico», disse, con voce stanca.
«Chris...»
«La mano.»
Gliela porsi. «Ti vedo poi.»
Sorrise — quello stesso sorriso dolce, luminoso. «No, se ti vedo prima io, faccia di fesso.»
Si allontanò, sempre ridendo, muovendosi con agilità e con grazia, come se non fosse tutto rotto come me e non avesse le vesciche ai piedi come me e non fosse pieno di bolle e di morsi di zanzare e di calabroni e di tafani, come me. Come se non avesse il minimo pensiero al mondo, come se se ne stesse andando in un gran bel posto invece che solo a casa, in una casa (una baracca, sarebbe più vicino alla verità) di tre stanze senza servizi e con le finestre rotte coperte di plastica e un fratello che probabilmente lo stava aspettando nel cortile davanti. Anche se avessi saputo la cosa giusta da dire, probabilmente non avrei potuto dirla. I discorsi distruggono le funzioni dell'amore, credo — è un bel casino per uno scrittore dire una cosa del genere, penso, ma sono sicuro che è così. Se parlate per dire a una daina che non avete nessuna intenzione di farle del male, quella svanisce in un batter di coda. La parola è danno. L'amore non è quello che quei poeti del cazzo come McKuen vogliono farvi credere. L'amore ha i denti; i denti mordono; i morsi non guariscono mai. Nessuna parola, nessuna combinazione di parole, può chiudere quelle ferite d'amore. È tutto il contrario, questo è il bello. Se quelle ferite si asciugano, le parole muoiono con loro. Credetemi pure. Io mi sono fatto una vita con le parole, e so che è così.

30

La porta di dietro era chiusa e così pescai la chiave di riserva da sotto lo stuoino ed entrai. La cucina era vuota, silenziosa, pulita da suicidio. Sentii il ronzio dei tubi fluorescenti sopra il lavandino quando girai l'interruttore. Erano anni, alla lettera, che non mi alzavo prima di mia madre; non mi ricordavo neppure l'ultima volta che era successa una cosa del genere.
Mi tolsi la camicia e la misi nel cesto di plastica dei panni sporchi accanto alla lavatrice. Presi un asciugamano pulito da sotto il lavandino, lo spugnai nell'acqua e mi ci ripulii un po' — faccia, collo, orecchie, pancia. Poi aprii la lampo dei calzoni e mi strofinai — in particolare i testicoli — finché la pelle cominciò a farmi male. Pareva che non riuscissi a ripulirmi fino in fondo, laggiù, anche se il segno rosso lasciato dalla sanguisuga stava sbiadendo in fretta. Ho ancora una piccola cicatrice a forma di mezzaluna. Una volta mia moglie mi chiese cos'era e io le dissi una bugia prima ancora di rendermi conto che intendevo farlo.
Quando ebbi finito con l'asciugamano lo buttai via. Era lercio.
Tirai fuori una confezione da dodici uova e ne ruppi sei insieme. Quando si furono un po' rapprese nella padella, mi preparai anche un piatto di ananas e un bicchiere di latte. Mi stavo appunto sedendo a mangiare quando entrò mia madre, i capelli grigi raccolti dietro la nuca. Aveva una vestaglia rosa stinta e fumava una Camel.
«Gordon, dove sei stato?»
«A campeggiare», dissi io, e attaccai a mangiare. «Abbiamo cominciato nel campo di Vern e poi siamo andati sulla Brickyard Hill. La madre di
Vern aveva detto che ti avrebbe chiamato. Non lo ha fatto?»
«Probabilmente ha parlato con tuo padre», disse, e mi passò accanto diretta al lavandino. Sembrava un fantasma rosa. I tubi fluorescenti erano tutt'altro che gentili con la sua faccia; le facevano apparire la carnagione quasi gialla. Sospirò... singhiozzò quasi. «Più di tutto Dennis mi manca al mattino», disse. «Guardo sempre nella sua stanza ed è sempre vuota. Gordon. Sempre.»
«Sì, è una puttana», feci io.
«Dormiva sempre con la finestra aperta e le coperte... Gordon? Hai detto qualcosa?»
«Niente d'importante, mamma.»
«... e le coperte tirate su fino al mento», finì. Poi si mise a guardare dalla finestra, dandomi la schiena. Continuai a mangiare. Tremavo per tutto il corpo.

31

La storia non venne mai a galla.
Oh, non voglio dire che il corpo di Ray Brower non fu trovato; lo trovarono. Ma né la nostra banda né la loro si prese il merito. Alla fine Ace dovette aver deciso che una telefonata anonima era il sistema più sicuro, perché è con questo mezzo che fu riportata la locazione del cadavere. Quello che volevo dire è che nessuno dei nostri genitori scoprì mai che cosa avevamo fatto in quel weekend del Labor Day.
Il padre di Chris era ancora ubriaco, esattamente come aveva detto Chris. Sua madre era andata a Lewiston per stare con sua sorella, come faceva praticamente ogni volta che Mr. Chamber si sbronzava. Era andata e aveva lasciato Eyeball a prendersi cura dei più piccoli. Eyeball aveva assolto la sua responsabilità andandosene in giro con Ace e i suoi compari delinquenti, lasciando Sheldon, nove anni, Emery, cinque, e Deborah, due anni, a nuotare o affogare per conto loro.
La madre di Teddy si impensierì la seconda sera e chiamò la madre di Vern. La madre di Vern, senza neppure andare a controllare, disse che eravamo ancora nella tenda. Lo sapeva perché ci aveva visto la luce accesa la sera prima. La madre di Teddy disse che sperava proprio che nessuno si mettesse a fumare là dentro e la madre di Vern disse che le era sembrato piuttosto una pila, e poi era sicura che nessuno degli amici di Vern o di Billy fumavano.
Mio padre mi fece qualche vaga domanda, apparendo leggermente preoccupato alle mie risposte evasive, disse che dovevamo andare a pesca insieme una volta o l'altra, e questo fu tutto. Se i genitori si fossero ritrovati insieme nella settimana successiva, o in quella dopo, sarebbe crollato tutto... ma non successe.
Nemmeno Milo Pressman parlò mai. Secondo me ci pensò su bene, sul fatto che sarebbe stata la sua parola contro la nostra, e che noi avremmo giurato tutti che mi aveva aizzato Chopper contro.

32

Un giorno verso la fine del mese, mentre stavo tornando a casa da scuola, una Ford nera del 1952 mi tagliò la strada e si fermò davanti a me sul marciapiede. Non c'era da sbagliare sulla macchina. Le portiere si spalancarono; Ace Merrill e Fuzzy Bracowicz ne vennero fuori.
«Delinquenti da strapazzo, vero?» disse Ace, col suo sorriso gentile.
«Mia madre adora come glielo faccio, vero?» «Adesso ti suoniamo, bambino», disse Fuzzy.
Lasciai cadere i libri di scuola sul marciapiede e mi misi a correre. Mi stavo facendo scoppiare le gambe, ma loro mi presero prima ancora che arrivassi alla fine dell'isolato. Ace mi colpì con un calcio al volo e caddi lungo disteso sul marciapiede. Il mento urtò il cemento e non vidi solo le stelle: vidi intere costellazioni, intere nebulose. Quando mi tirarono su, stavo già piangendo, non tanto per i gomiti e le ginocchia, sbucciati e sanguinanti, e neppure per la paura — era un'enorme, impotente rabbia che mi faceva piangere. Chris aveva ragione. Lui era nostro.
Mi divincolai e mi rigirai e riuscii quasi a liberarmi. Allora Fuzzy mi diede una ginocchiata all'inguine. Il dolore fu stupefacente, incredibile, unico; allargava gli orizzonti del dolore dal vecchio schermo normale al VistaVision. Mi misi a urlare. Urlare pareva la mia scelta migliore.
Ace mi diede due pugni in faccia, due colpi lunghi e ganciati. Il primo mi chiuse l'occhio sinistro; ci sarebbero voluti quattro giorni prima che potessi tornare a vedere da quell'occhio. Il secondo mi ruppe il naso con un rumore che pareva quello che fanno dentro la testa i cereali croccanti quando li mastichi. Poi la vecchia Mrs. Chalmers venne fuori sul suo portico col suo bastone stretto in una mano deformata dall'artrite e una Herbert Tareyton appiccicata all'angolo della bocca. Si mise a urlare: «Ehi! Ehi là, ragazzi! Basta! Polizia! Poliziaaa!»
«Non farti vedere in giro, sacco di merda», disse Ace, sorridendo, e mi lasciarono andare e fecero un passo indietro. Io mi tirai su a sedere e poi mi piegai in avanti, tenendomi le palle colpite, sicuro che avrei vomitato e poi sarei morto. Stavo ancora piangendo. Ma quando Fuzzy prese a girarmi attorno, la vista della gamba borchiata dei suoi jeans sopra lo stivaletto da moto mi riportò tutta la furia. Lo afferrai e gli morsi il polpaccio attraverso i calzoni. Lo morsi più forte che potei. Fuzzy cominciò a emettere anche lui un lungo urlo. Si mise anche a saltellare in giro su una gamba e, incredibile, mi dava del lottatore sleale. Io lo guardavo saltellare e fu allora che Ace mi saltò sulla mano sinistra, spezzandomi il primo e il secondo dito. Sentii che si rompevano. Il rumore non era di cereali croccanti. Era di biscotto. Poi Ace e Fuzzy se ne tornarono alla '52 di Ace, Ace a grandi passi con le mani nelle tasche di dietro, Fuzzy saltando su una gamba e lanciandomi maledizioni da sopra la spalla. Mi raggomitolai sul marciapiede, piangendo. Zia Evvie Chalmers venne giù da casa sua, picchiando con rabbia il bastone a terra. Mi chiese se avevo bisogno di un medico. Mi misi a sedere e riuscii a fermare il grosso del pianto. Le dissi di no.
«Sciocchezze», urlò — zia Evvie era sorda e urlava sempre. «Ho visto quel bullo che te le dava. Ragazzo, ti verranno due pasticcini grandi come due bocce.»
Mi portò a casa sua, mi diede un asciugamani bagnato per il naso — a quel punto cominciava a parere un melone — e una gran tazza di caffè che sapeva di medicina e che riuscì in qualche modo a calmarmi. Continuava a urlarmi che doveva chiamare il dottore e io continuavo a dirle di no. Finalmente ci rinunciò e io tornai a casa. Lentissimamente, tornai a casa. Le palle non mi erano ancora diventate grandi come due bocce, ma ci si stavano avviando.
Mia madre e mio padre mi diedero un'occhiata e cominciarono a farmi il terzo grado — per la verità fui un tantino sorpreso che se ne fossero accorti. Chi erano? Li avrei riconosciuti se li avessi visti in un confronto? Questa era di mio padre, che non si perdeva mai Naked City e Gli intoccabili. Dissi che non credevo di poter riconoscere i ragazzi da un confronto. Dissi che ero stanco. In effetti credo che fossi in stato di shock — in stato di shock e non poco sbronzo per il caffè della zia Evvie, che doveva essere fatto almeno al sessanta per cento di brandy VSOP. Dissi che probabilmente erano di qualche altro paese, o di «su in città» — frase che per tutti significava Lewiston-Auburn.
Mi portarono dal dottor Clarkson con la giardinetta — il dottor Clarkson, che è ancora vivo, era già allora così vecchio da essere con Dio in un rapporto da pari a pari. Mi sistemò naso e dita e diede a mia madre la ricetta per un antidolorifico. Poi con qualche pretesto li mandò via dalla sala visite e tornò da me, sbuffando, la testa in avanti, come Boris Karloff che si avvicina a Igor.
«Chi è stato, Gordon?»
«Non lo so, dottor Cla...»
«Stai mentendo.»
«No, signore, ehm.»
Le sue guance cascanti cominciarono a coprirsi di colore. «Perché devi proteggere quelle bestie che ti hanno conciato così? Pensi che ti rispetteranno? Ti rideranno dietro e ti chiameranno stupido fesso! 'Oh', diranno, 'arriva lo stupido fesso che l'altro giorno abbiamo riempito di calci.
Ah-ah!
Hoo-hoo! Har-har-har-harg!'»
«Non li conosco. Davvero.»
Vidi che gli prudevano le mani dalla voglia di prendermi a schiaffi, ma ovviamente non poteva farlo. E così mi mandò dai miei genitori, scuotendo la testa bianca e mormorando qualcosa sulla delinquenza giovanile. Senza dubbio avrebbe detto tutto al suo amico Dio quella sera, mentre si godevano i loro sigari e il loro sherry.
Non mi importava che Ace e Fuzzy e il resto di quegli stronzi mi rispettassero o pensassero che ero fesso o non pensassero proprio niente di me.
Ma c'era Chris a cui pensare. Suo fratello Eyeball gli aveva spezzato il braccio in due punti e gli aveva lasciato una faccia che pareva l'aurora boreale. Dovettero sistemargli la frattura del gomito con un chiodo d'acciaio. Mrs. McGinn aveva visto dalla strada Chris che avanzava barcollando, con la spalla inerte, sanguinando dalle due orecchie, e leggendo un fumetto di Richie Rich. Lo portò al pronto soccorso del CMG dove Chris disse al dottore che era caduto giù per le scale della cantina al buio.
«Bene», disse il dottore, disgustato con Chris non meno di quanto il dottor Clarkson lo era stato con me, e poi andò a telefonare all'agente Bannerman.
Mentre lui telefonava dal suo ufficio, Chris se ne andò lentamente lungo il corridoio, tenendosi contro il petto l'ingessatura temporanea perché il braccio non si muovesse strofinando insieme le ossa rotte, e usò un nichelino per chiamare Mrs. McGinn — mi disse poi che era la prima telefonata addebitata al ricevente che avesse mai fatto e aveva una gran paura che lei non l'accettasse — ma lo fece.
«Chris, stai bene?» chiese lei.
«Sì, grazie», fece lui.
«Mi dispiace di non essere potuta rimanere con te, Chris, ma avevo le torte nel...»
«Non importa, Missis McGinn», disse Chris. «Vede la Buick nel nostro cortile?» La Buick era la macchina che usava la madre di Chris. Aveva vent'anni, e quando il motore si surriscaldava puzzava come quando si friggono Hush Puppies.
«C'è», disse lei con cautela. Meglio non immischiarsi troppo con i Chambers. Rifiuti bianchi; feccia irlandese.
«Le dispiace andare da mamma e dirle di andare di sotto a togliere la lampadina dalle scale della cantina?»
«Chris, veramente, le mie torte...»
«Le dica», continuò implacabile Chris, «di farlo immediatamente. Se non vuole vedere mio fratello in galera.»
Ci fu un lungo, lungo silenzio, e poi Mrs. McGinn acconsentì. Non fece domande e Chris non le disse bugie. L'agente Bannerman si presentò effettivamente a casa Chambers, ma Richie Chambers non andò in galera.
Anche Vern e Teddy si presero le loro, anche se non pesanti come Chris o me. Billy stava aspettando Vern quando Vern arrivò a casa. Lo prese con un tubo da stufa e lo picchiò così forte da lasciarlo in stato di incoscienza dopo solo quattro o cinque colpi. Vern era solo svenuto, ma Billy ebbe paura di averlo ucciso e si fermò. Tre di loro colsero Teddy che tornava a casa dal campo dell'albero, un pomeriggio. Lo presero a pugni e gli ruppero gli occhiali. Lui reagì, ma loro non vollero battersi quando si accorsero che brancolava come un cieco al buio.

Ci rivedemmo a scuola, e sembravamo i resti della forza d'assalto in Corea. Dei compagni, nessuno sapeva esattamente cos'era successo, ma tutti capivano che c'era stato uno scontro piuttosto grave con i ragazzi grandi, e ci trattavano da uomini. Circolarono un po' di storie. Tutte sfrenatamente false.
Quando le ammaccature furono sparite e le ferite guarite, Vern e Teddy semplicemente migrarono. Avevano scoperto tutto un nuovo gruppo di coetanei su cui potevano padroneggiare. Erano quasi tutti dei veri miserabili mocciosi, ma Vern e Teddy continuavano a portarli alla casa sull'albero, a dare ordini, a fare i generali nazisti.
Chris e io cominciammo a farci vedere lassù sempre meno spesso, e dopo un po' il posto fu tutto loro per forfait. Mi ricordo di esserci andato una volta nella primavera del 1961 e di aver notato che il posto puzzava come una stalla. Che io ricordi non ci tornai più. Teddy e Vern lentamente divennero due facce come tante a scuola, nei corridoi o nell'aula delle punizioni delle tre e mezzo. Un cenno della testa, ciao, ciao. Questo era tutto. Gli amici entrano ed escono nella nostra vita come camerieri in una sala di ristorante, lo avete mai notato? Ma quando ripenso a quel sogno, i corpi morti sott'acqua che tirano implacabili le mie gambe, mi pare giusto che debba essere così. Qualcuno va a fondo, ecco tutto. Non è giusto, ma succede. Qualcuno va a fondo.

33

Vern Tessio rimase ucciso in un incendio che rase al suolo un edificio di appartamenti di Lewiston, nel 1966 — a Brooklyn e nel Bronx, quel genere di edificio lo chiamano slum tenement, credo. Il dipartimento dei pompieri disse che era iniziato verso le due di notte, e tutto l'edificio era ridotto in cenere per l'alba. C'era stata una grossa festa dove si erano ubriacati; Vern era lì. Qualcuno si era addormentato in una delle camere da letto con una sigaretta accesa. Vern stesso, forse, sbronzo, sognando dei suoi penny. Identificarono lui e gli altri quattro che erano morti tramite i denti.
Teddy se ne andò in uno squallido incidente automobilistico. Era il 1971, mi pare, o forse l'inizio del 1972. C'era un detto, quando ero adolescente:
«Se te ne vai da solo, sei un eroe. Portati qualcuno altro con te e sei una merda». Teddy, che da quando aveva cominciato ad avere desideri non ne aveva avuti altri che fare il militare, fu respinto dall'Air Force e classificato 4-F dalla commissione di leva. Chiunque avesse visto le sue lenti e l'apparecchio acustico avrebbe saputo che sarebbe andata così — chiunque tranne Teddy. Al primo anno delle superiori si prese una
sospensione di tre giorni dalla scuola per aver chiamato il consigliere scolastico bugiardo sacco di merda. Il consigliere aveva visto arrivare
sempre più spesso Teddy da lui — anche tutti i giorni — per vedere come fare per andare sotto le armi. Lui gli aveva consigliato di pensare magari a un'altra carriera, e fu allora che Teddy gli diede del bugiardo sacco di merda.
Rimase un anno indietro per ripetute assenze, ritardi e corsi saltati... ma riuscì a diplomarsi. Aveva una vecchissima Chevrolet Bel Air, e frequentava i posti che Ace e Fuzzy e il resto avevano frequentato prima di lui; il biliardo, la sala da ballo, Sukey's Tavern, che ora è chiusa, e The Mellow Tiger, che non lo è. Alla fine ebbe un lavoro dal Dipartimento dei lavori pubblici di Castle Rock, riempire le buche delle strade con il catrame.
L'incidente avvenne a Harlow. La Bel Air di Teddy era piena di suoi amici (due di loro avevano fatto parte di quel gruppo che lui e Vern tiranneggiavano nel 1960), e si stavano passando in giro un paio di spinelli e un paio di bottiglie di Popov. Presero un palo della luce e lo sradicarono e la Chevrolet rotolò sei volte su se stessa. Una delle ragazze ne venne fuori tecnicamente viva. Rimase per sei mesi in quello che infermiere e barellieri del Central Main General chiamano Reparto C&R — Cavoli e Rape. Poi qualche fantasma misericordioso tirò via la spina del respiratore. A Teddy Duchamp fu conferito il premio postumo Merda dell'Anno.
Chris si iscrisse ai corsi di college al secondo anno delle superiori — sapevamo tutti e due che se avesse aspettato di più sarebbe stato troppo tardi; non sarebbe mai riuscito a recuperare. Lo tormentavano tutti per questo; i genitori, che pensavano che stesse mettendo su delle arie, gli amici, molti dei quali lo liquidarono come femminuccia, il consigliere scolastico, che non pensava fosse in grado di farcela, e quasi tutti gli insegnanti, che non approvavano questa apparizione dai capelli imbrillantinati, il giubbotto di cuoio, gli stivaletti, che si era materializzata senza preavviso nelle loro aule. Si vedeva benissimo che la vista di quegli stivaletti e di quel giubbotto pieno di cerniere in connessione con argomenti elevati quali l'algebra, il latino e la geologia li offendeva; una simile tenuta andava bene solo per i corsi commerciali. Chris sedeva in mezzo ai benvestiti, brillanti ragazzi e ragazze delle famiglie della borghesia di Castle View e di Brickyard Hill come una specie di silenzioso e rimuginante orco Grendel pronto a rivoltarsi da un momento all'altro contro di loro, emettere un orribile ruggito e sbranarseli in un boccone, mocassini, colletti Peter Pan, gonne scozzesi e tutto.
Fu sul punto di ritirarsi una dozzina di volte, quell'anno. Suo padre in particolare lo perseguitava, accusandolo di credersi meglio del suo vecchio, accusandolo di voler «andare laggiù al college per farmi sentire un fallito». Una volta ruppe una bottiglia di Rhinegold sulla testa di Chris e Chris si presentò un'altra volta al pronto soccorso del CMG, dove ci vollero quattro punti per ricucirgli il cuoio capelluto. I suoi vecchi amici, molti dei quali erano ormai dei maestri nell'Area Fumo, lo sfottevano in strada. Il consigliere scolastico lo spingeva a fare almeno qualche corso commerciale in modo da non buttare via tutto l'anno, eventualmente. La cosa peggiore, ovviamente, era proprio questa: se n'era fottuto per tutti e sette gli anni della sua istruzione pubblica, e ora gli veniva presentato il conto, e con gli interessi.
Studiammo insieme quasi tutte le sere, perfino per sei ore di seguito. Io da quelle sedute venivo sempre fuori distrutto, e a volte ne uscivo anche spaventato — spaventato dalla sua rabbia incredula a vedere quanto mortalmente alto era quel conto. Prima di poter anche iniziare a capire l'algebra elementare, dovette imparare da capo le frazioni, spiegate in quinta mentre lui e Teddy e Vern se la passavano a giocare a biglie. Prima di poter anche cominciare a capire Pater noster qui es in caelis, dovette imparare che cos'è un nome, una preposizione, un complemento oggetto. All'interno della sua vecchia grammatica d'inglese, con scrittura precisa, c'erano le parole IN CULO AI GERUNDI. Le sue idee per le composizioni scritte erano buone e organizzate non male, ma la grammatica era pessima, e si accostava all'intera questione della punteggiatura come armato di fucile. Ridusse in pezzi, per l'uso, la sua copia del Warriner e ne comprò un'altra in una libreria di Portland — fu il primo libro rilegato che possedesse, e divenne per lui una specie di Bibbia.
Ma alla fine dell'ultimo anno alle superiori, era stato accettato. Nessuno dei due aveva preso il massimo dei voti, ma io risultai settimo e Chris ottenne un diciannovesimo posto. Fummo ammessi tutti e due all'Università del Maine, ma io andai al campus di Orono, mentre Chris si iscrisse a quello di Portland. Pre-legge, ci credereste? Altro latino.
Alle superiori uscivamo spesso insieme, ma con noi non veniva mai nessuna ragazza. Vi pare che eravamo diventati finocchi? La gran parte dei nostri vecchi amici, compresi Vern e Teddy, l'avrebbero pensata così. Ma era solo per la sopravvivenza. Ci aggrappavamo l'uno all'altro in acque profonde. Di Chris l'ho spiegato, credo; i miei motivi per aggrapparmi a lui erano meno definibili. Il suo desiderio di andarsene via da Castle Rock e via dall'ombra delle fabbriche mi appariva come la parte migliore di me, e non avrei mai potuto lasciarlo andare a fondo o nuotare da solo. Se fosse annegato, quella parte di me sarebbe annegata con lui, credo.
Verso la fine del 1971, Chris entrò in un Chicken Delight di Portland per il pranzo. Giusto avanti a lui, due uomini cominciarono a litigare su chi era primo nella fila. Uno dei due tirò fuori un coltello. Chris, che era sempre stato il migliore di noi a mettere pace, si mise in mezzo e si prese una coltellata alla gola. L'uomo col coltello era stato in quattro diversi penitenziari; era stato rilasciato dal Penitenziario di Stato di Shawshank solo la settimana prima. Chris morì quasi all'istante.
Lo lessi sul giornale — stava finendo il suo secondo anno di università. Io, io ero sposato da un anno e mezzo e insegnavo inglese alle superiori. Mia moglie era incinta e io stavo cercando di scrivere un libro. Quando lessi il titolo sul giornale — STUDENTE PUGNALATO A MORTE IN UN RISTORANTE DI PORTLAND — dissi a mia moglie che uscivo a
prendermi un frullato. Uscii di città con la macchina, parcheggiai, e piansi per lui. Piansi per una buona mezz'ora, credo. Non avrei mai potuto farlo davanti a mia moglie, per quanto l'amassi. Sarebbe stata una cosa da femminucce.

34

Io?
Io sono uno scrittore, adesso, come ho detto. E un sacco di critici pensano che quello che scrivo è merda. Molte volte penso che abbiano ragione... ma ancora adesso mi fa girare la testa mettere questa parola, «Scrittore», nel punto Occupazione dei formulari che devi riempire in banca o dal dottore. La mia storia pare tanto una favola che è fottutamente assurda.
Vendetti quel libro, e ne fecero un film e il film ebbe buone critiche, e anche molto successo di pubblico. Tutto questo successe quando avevo ventisei anni. Ve l'ho detto — è fottutamente assurdo. Nel frattempo, a mia moglie non pareva dispiacesse avermi tra i piedi in casa e ora abbiamo tre figli. Mi sembrano tutti meravigliosi, e per la gran parte del tempo sono felice.
Ma come ho detto scrivere non è più così facile o così divertente come una volta. Il telefono suona continuamente. A volte ho dei mal di testa, ma forti, e mi tocca mettermi sdraiato in una stanza buia finché non mi sono passati. Il dottore dice che non sono vere emicranie: li chiama «attacchi da stress» e mi dice di rallentare. A volte mi preoccupo per me stesso. Che abitudine stupida... eppure non posso proprio smetterla. E mi chiedo se c'è davvero senso in quello che sto facendo, o in quello che si suppone stia facendo, in un mondo in cui un uomo può arricchirsi giocando a «facciamo finta che».
Ma è stato buffo come ho rivisto Ace Merrill. I miei amici sono morti ma Ace è vivo. L'ho visto uscire dal parcheggio della fabbrica subito dopo il fischio delle tre, l'ultima volta che ho portato i miei ragazzi giù a casa a vedere mio padre.
La Ford del '52 era diventata una Ford giardinetta del '77. Un adesivo stinto diceva REAGAN/BUSH 1980. Aveva i capelli a spazzola ed era diventato grasso. I lineamenti aguzzi, belli, che ricordavo erano sepolti da una valanga di carne. Avevo lasciato i ragazzi da mio padre per il tempo di andare in centro a prendere il giornale. Ero all'angolo tra Main e Carbine e lui mi lanciò un'occhiata mentre io aspettavo di attraversare. Non vidi segno che mi avesse riconosciuto sulla faccia di quest'uomo di trentadue anni che, in un'altra dimensione del tempo, mi aveva rotto il naso.
Lo guardai mentre entrava con la giardinetta nel parcheggio polveroso accanto al Mellow Tiger, ne scendeva, si grattava, ed entrava nel locale. Potei immaginare la breve folata di country-western mentre apriva la porta, il fugace odore aspro di Knick e Gansett, le grida di benvenuto degli altri clienti abituali mentre chiudeva la porta e piazzava il suo gran sedere sullo stesso sgabello che con ogni probabilità lo aveva sostenuto per almeno tre ore ogni giorno della sua vita — tranne la domenica — da quando aveva ventun anni.
Pensai: E così ecco che cos'è Ace adesso.
Guardai verso sinistra, e oltre la fabbrica potei vedere il Castle, non tanto ampio ora, ma un po' più pulito, scorrere ancora sotto il ponte tra Castle Rock e Harlow. Il ponte ferroviario è scomparso, ma il fiume è ancora in giro. E anch'io.