venerdì 13 marzo 2020

IN BALÌA DEL CASO

Estratto Da Una bellezza russa e altri racconti
Vladimir Nabokov

Faceva il cameriere nella carrozza ristorante internazionale di un treno espresso tedesco. Si chiamava Aleksej L'vovic Luzin. Aveva lasciato la Russia cinque anni prima, nel 1919, e da allora, passando di città in città, aveva tentato vari mestieri e occupazioni: in Turchia il bracciante agricolo, a Vienna il fattorino, l'imbianchino, il commesso, e così via. E adesso, su entrambi i lati della carrozza ristorante, i campi, le colline ricoperte di erica, i boschetti di pini scorrevano all'infinito, e il brodo fumava e sciabordava nelle tazze spesse sul vassoio che egli trasportava lesto nello stretto corridoio fra i tavoli sistemati accanto ai finestrini. Serviva con rapidità magistrale, sollevando con la forchetta fette di manzo o di prosciutto dal piatto che recava in mano e depositandole nei piatti, mentre inclinava con gesto rapido la testa rasata dalla fronte contratta e dalle sopracciglia nere e folte.
La carrozza sarebbe arrivata a Berlino alle cinque del pomeriggio per ripartire alle sette in direzione opposta, verso il confine francese. Luzin viveva su una specie di altalena d'acciaio: soltanto di notte aveva tempo di pensare e ricordare, in un cantuccio stretto che puzzava di pesce e di calze sporche. Il ricordo più frequente era quello di una casa di San Pietroburgo, il suo studio in quella casa, i bottoni di cuoio sulle rotondità superimbottite delle poltrone e del divano, e la moglie Lena, della quale non aveva notizie da cinque anni. Nel momento presente, sentiva che stava sprecando la vita. Troppe sniffate di cocaina gli avevano devastato il cervello; le piaghette all'interno delle narici stavano intaccando il setto nasale.
Quando sorrideva, i grossi denti lucevano di un particolare nitore, e quel russo sorriso eburneo, chissà perché, gli attirava la simpatia degli altri camerieri: Hugo, un berlinese tarchiato e biondo addetto ai conti, e Max, veloce, rosso di capelli e dal naso affilato, che assomigliava a una volpe, il cui lavoro consisteva nel portare il caffè e la birra negli scompartimenti. Tuttavia, ultimamente Luzin sorrideva meno spesso.
Durante le ore di riposo, quando le scintillanti ondate cristalline della droga si frangevano su di lui, penetrandogli i pensieri con la loro radiosità e trasformando l'inezia più insignificante in un miracolo etereo, annotava scrupolosamente su un foglio di carta tutti i passi che intendeva fare per rintracciare la moglie. Mentre li scribacchiava, pervaso da quelle sensazioni ancora felicemente integre, essi gli parevano oltremodo importanti e appropriati. Al mattino, tuttavia, con la testa dolorante e la camicia viscida e appiccicaticcia, guardava con seccato disgusto le note convulse e confuse. Di recente, però, un'altra idea gli si era affacciata alla mente. Aveva cominciato, con pari diligenza, a elaborare un piano per la propria morte; disegnava una specie di grafico rilevando picchi e cadute del suo senso di panico; e, infine, per semplificare le cose, si fissò una data precisa: la notte tra il 10 e il 2 di agosto. Concentrava l'interesse non tanto sulla morte in sé, quanto piuttosto sui particolari che l'avrebbero preceduta, e se ne immedesimava al punto da dimenticare la morte stessa. Non appena ritornava sobrio, però, lo scenario suggestivo di questo o quell'altro metodo immaginario di autodistruzione sbiadiva, e solo una cosa restava ben visibile: la sua vita si era andata logorando, non ne rimaneva nulla e non c'era scopo alcuno a continuarla.
Il primo giorno d'agosto giunse al termine. Alle sei e trenta, nel vasto buffet fiocamente illuminato della stazione di Berlino, l'anziana principessa Maria Uchtomskij, obesa, interamente vestita di nero, con una faccia giallastra da eunuco, sedeva a un tavolino disadorno. C'erano poche persone. I contrappesi d'ottone delle lampade baluginavano sotto il soffitto alto che si intravedeva a malapena. Di quando in quando una sedia veniva scostata con una sorda risonanza.
La principessa Uchtomskij gettò un'occhiata arcigna alla lancetta dorata dell'orologio appeso alla parete. La lancetta scattò in avanti. E un minuto dopo ebbe un nuovo fremito. L'anziana signora si alzò, raccolse il sac de voyagedi lucida pelle nera e, appoggiandosi al bastone maschile dal grande pomo, si diresse faticosamente verso l'uscita.
Un facchino l'attendeva al cancello. Il treno entrava allora in stazione a marcia indietro. Uno dopo l'altro sfilavano i lugubri vagoni tedeschi color grigio ferro. Sul bruno legno di tek verniciato di una carrozza letto compariva, sotto il finestrino centrale, un cartello con la scritta «Berlino-Parigi»; quel vagone internazionale, come pure il vagone ristorante anch'esso rivestito di tek, a un finestrino del quale intravide i gomiti sporgenti e la testa di un cameriere dai capelli color carota, erano gli unici che ricordassero l'austero ed elegante Nord Express d'anteguerra.
Il treno si fermò con un clangore di respingenti e un sospiro lungo e sibilante dei freni.
Il facchino sistemò la principessa Uchtomskij nello scompartimento di seconda classe di una carrozza Schnellzug, scompartimento riservato ai fumatori, come da sua richiesta. In un angolo, vicino al finestrino, un uomo vestito di beige, dall'espressione insolente e dal colorito olivastro, era già intento a spuntare un sigaro.
La vecchia principessa si accomodò di fronte a lui. Controllò con sguardo lento e meticoloso che tutte le sue cose fossero state messe nella rete in alto. Due valigie e un paniere. Nient'altro. E il lucido sac de voyage in grembo. Le sue labbra erano impegnate in un arcigno movimento masticatorio.
Una coppia tedesca entrò rumorosamente nello scompartimento, ansando.
Poi, un minuto prima della partenza, fece il suo ingresso una giovane donna dalla larga bocca imbellettata, con una toque nera aderente che le copriva la fronte. Sistemò i bagagli e uscì nel corridoio. L'uomo in beige la seguì con gli occhi. Lei sollevò il finestrino con strattoni inesperti e si affacciò a salutare qualcuno. La principessa colse le cadenze della parlata russa.
Il treno si mise in movimento. La giovane rientrò nello scompartimento. Il sorriso che indugiava sul suo volto si smorzò, sostituito da un'aria stanca. Il retro degli edifici, una sequenza di mattoni rossi, scivolava all'indietro; uno di essi esibiva la pubblicità a colori di un'enorme sigaretta riempita di una specie di paglia dorata. I tetti, ancora bagnati dal recente temporale, luccicavano sotto i raggi del sole basso sull'orizzonte.
La vecchia principessa Uchtomskij non riuscì più a trattenersi. Chiese gentilmente in russo: «Le spiace se metto qui la mia borsa?».
La donna trasalì e rispose: «No, no, prego».
L'uomo oliva-e-beige nell'angolo la sbirciò da sopra il giornale.
«Bene, sono diretta a Parigi» disse non richiesta la principessa con un lieve sospiro. «Ho un figlio che vive là. Sa, ho paura a rimanere in Germania».
Dal sac de voyage estrasse un grande fazzoletto e con quello si strofinò risolutamente il naso, da sinistra a destra e ritorno.
«Sì, paura. Si dice che a Berlino ci sarà una rivoluzione comunista. Ha sentito niente in proposito?».
La giovane fece un cenno di diniego con la testa. Guardò diffidente l'uomo con il giornale e la coppia tedesca.
«Non ne so nulla. Sono arrivata l'altro ieri dalla Russia, da Pietroburgo».
Il viso paffuto e giallastro della principessa Uchtomskij manifestò una vivissima curiosità. Le sopracciglia minuscole si sollevarono lentamente.
«Non mi dica!».
Con gli occhi fissi sulla punta delle scarpe grigie, la donna disse rapidamente, a bassa voce: «Sì, una persona di buon cuore mi ha aiutato a venire via. Anch'io sto andando a Parigi. Ho dei parenti là».
Cominciò a sfilarsi i guanti. Una fede d'oro le scivolò dal dito. L'afferrò prontamente.
«Contìnuo a perdere l'anello. Devo essere dimagrita o non so…».
Tacque, sbattendo le palpebre. Al di là del finestrino del corridoio, oltre la porta a vetri dello scompartimento, si vedeva la schiera uniforme dei fili del telegrafo slanciarsi verso l'alto.
La principessa Uchtomskij si accostò alla vicina.
«Mi dica,» chiese sussurrando con un tono di voce troppo alto «i sovietici non se la passano troppo bene adesso, vero?».
Un palo telegrafico, nero contro il tramonto, passò veloce interrompendo il fluido movimento ascensionale dei fili che caddero come cade una bandiera al cessare del vento; poi ripresero furtivamente a salire. L'espresso viaggiava veloce fra le pareti ariose di un vasto e fiammeggiante tramonto. Da un punto imprecisato del soffitto degli scompartimenti proveniva un crepitio leggero, come se i tetti d'acciaio fossero battuti dalla pioggia. I vagoni tedeschi oscillavano violentemente; quello internazionale, tappezzato all'interno di stoffa blu, viaggiava in modo più piano e silenzioso degli altri. Tre camerieri apparecchiavano i tavolini nella carrozza ristorante. Uno di loro, con i capelli rasati e le sopracciglia irsute, pensava alla fialetta che aveva nel taschino della giacca, sul petto. Continuava a leccarsi le labbra e a tirare su con il naso. La fiala conteneva una polvere cristallina e recava la marca Kramm. Stava disponendo coltelli e forchette e infilando le bottiglie sigillate nei portabottiglie circolari collocati sui tavoli, ma non resse oltre. Lanciò un sorriso trepido a Max Fuchs, che stava abbassando i pesanti avvolgibili, e si precipitò nell'altra carrozza superando con un balzo la piattaforma instabile dell'intercomunicante. Si chiuse a chiave nella toilette. Calcolando con precisione le scosse del treno, versò una piccola quantità di polvere sull'unghia del pollice; la portò avidamente prima a una narice, poi all'altra; aspirò; con un colpo di lingua leccò la polvere scintillante rimasta sull'unghia; batté forte le palpebre un paio di volte a causa del sapore amaro e gommoso, e uscì dalla toilette, ubriaco ed euforico, la testa che si andava riempiendo di deliziosa aria gelida. Attraversando il divisorio a mantice per fare ritorno alla carrozza ristorante pensò: «Come sarebbe semplice morire in questo momento!». Sorrise. Meglio aspettare fino all'imbrunire. Era un peccato troncare l'effetto di quel veleno incantevole.
«Dammi i foglietti delle prenotazioni, Hugo, vado a distribuirli».
«No, lascia che ci pensi Max. É più svelto. Ecco, Max».
Il cameriere dai capelli rossi afferrò il blocchetto di tagliandi con la mano lentigginosa. Sgusciò come una volpe ira i tavoli, percorse il corridoio azzurro del vagone letto. Lungo i finestrini, cinque nitide corde d'arpa si avventavano disperate verso l'alto. Il cielo si andava oscurando. Nello scompartimento di seconda classe di un vagone tedesco un'anziana signora vestita di nero, somigliante a un eunuco, ascoltava intenta, con esclamazioni sommesse, il racconto di una vita lontana e desolata.
«E suo marito… è rimasto là?».
La giovane spalancò gli occhi e scosse il capo:
«No. É all'estero già da tempo. Il destino ha voluto così. Allo scoppio della rivoluzione si è diretto verso sud, a Odessa. Gli davano la caccia. Avrei dovuto raggiungerlo là, ma non sono scappata in tempo».
«Terribile. Terribile. E non ha mai avuto sue notizie?».
«Mai. Ricordo, mi convinsi che fosse morto. Cominciai a portare la fede infilata nella catenina con il crocifisso… temevo che mi togliessero anche quella. Poi, a Berlino, degli amici mi hanno detto che era vivo. Qualcuno l'aveva visto. Proprio ieri ho messo un annuncio sul giornale dell'emigrazione».
Si affrettò a estrarre dal lacero beauty-case di seta una pagina piegata del «Rul'».
«Ecco, guardi».
La principessa Uchtomskij si mise gli occhiali e lesse: «Elena Nikolaevna Luzin cerca il marito Aleksej L'vovic Luzin».
«Luzin?» chiese, togliendosi gli occhiali. «Si tratta forse del figlio di Lev Sergeic? Aveva due maschi. Non ricordo i nomi…».
Elena sorrise raggiante. «Oh, che bello. É proprio una sorpresa. Non mi dica che conosceva suo padre».
«Certo, come no» prese a dire la principessa in tono compiaciuto e benevolo. «Lèvuska Luzin, già nel corpo degli Ulani. Le nostre proprietà confinavano. Era solito farci visita».
«É morto».
«Sì, sì, l'ho sentito dire. Che riposi in pace. Arrivava sempre accompagnato dal suo levriero russo. Però non ricordo bene i figli. Vivo all'estero dal 1917. Il più giovane era biondo, mi pare. Ed era balbuziente».
Elena sorrise di nuovo.
«No, no, quello era il più grande».
«Oh, be', li ho confusi, mia cara» disse la principessa, placida. «La memoria non è più tanto buona. Non mi sarei neppure ricordata di Lèvuska se lei non l'avesse nominato. Ma adesso mi torna tutto alla mente. Veniva da noi a cavallo per il tè e… Oh, lasci che le racconti…». La principessa si avvicinò un poco e continuò con voce limpida e un accenno di vivacità, senza tristezza, perché sapeva che delle cose allegre si può parlare solo in modo allegro, senza crucciarsi perché non ci sono più.
«Lasci che le racconti,» riprese «avevamo un servizio di piatti divertenti… con il bordo d'oro tutt'attorno e, proprio nel centro, una zanzara talmente realistica che chi non lo sapeva cercava di cacciarla con un gesto della mano».
La porta dello scompartimento si aprì. Un cameriere dai capelli rossi distribuiva i tagliandi per la cena. Elena ne prese uno. Altrettanto fece l'uomo seduto nell'angolo, che da qualche tempo cercava di farsi notare da lei.
«Mi sono portata da mangiare» disse la principessa. «Prosciutto e un panino».
Max percorse tutti i vagoni e ritornò nella carrozza ristorante. Nel passare, urtò leggermente il collega russo, fermo nel vestibolo della carrozza con un tovagliolo sotto il braccio. Luzin lo seguì con occhi lucenti, inquieti. Una sensazione di fresco vuoto solleticante andava sostituendosi alle ossa e agli organi interni, come se tutto il suo corpo fosse sul punto di starnutire, espellendo l'anima. Per la centesima volta immaginò le circostanze della sua morte. Studiò ogni minimo particolare, come se elaborasse un problema scacchistico. Sarebbe sceso di notte a una certa stazione, avrebbe girato attorno ai vagoni fermi per poi appoggiare la testa contro l'estremità del respingente quando si fosse avvicinato un altro vagone in procinto di essere agganciato al primo. I respingenti avrebbero cozzato l'uno contro l'altro. La testa china si sarebbe trovata fra le due superfici di congiunzione. Sarebbe esplosa come una bolla di sapone, sarebbe diventata aria iridescente. Doveva sistemarsi in perfetto equilibrio sulla traversina e premere la tempia saldamente contro il freddo metallo del respingente.
«Non mi senti? É ora di annunciare la cena».
Adesso era stato Hugo a parlare. Luzin rispose con un sorriso intimorito ed eseguì l'ordine, aprendo per un attimo le porte degli scompartimenti e annunciando ad alta voce, in fretta: «Prima chiamata per la cena!».
In uno scompartimento il suo sguardo si posò di sfuggita sul viso paffuto e giallastro di una anziana signora intenta a scartare un panino. Qualche cosa di quel viso lo colpì, qualche cosa di familiare. Nel tornare speditamente alla carrozza ristorante, continuò a chiedersi chi potesse essere. Era come se l'avesse già vista in un sogno. La sensazione che il corpo fosse lì lì per starnutire espellendo l'anima si faceva più concreta… Sto per ricordare a chi assomiglia quella vecchia signora. Ma quanto più sforzava la memoria, tanto più il ricordo gli sfuggiva in modo irritante. Rientrò nella carrozza ristorante cupo, con le narici che si dilatavano e uno spasmo in gola che gli impediva di deglutire.
«Oh, al diavolo… che stupidaggine».
I passeggeri cominciarono a dirigersi verso la carrozza ristorante procedendo per i corridoi con andatura incerta, appoggiandosi alle pareti. Nei finestrini ormai bui già baluginavano immagini riflesse, benché fosse ancora visibile una striscia gialla di tramonto. Elena notò, allarmata, che l'uomo in beige aveva atteso che lei si alzasse prima di fare altrettanto. Aveva occhi sgradevoli, vitrei e sporgenti, come impregnati di scura tintura di iodio. Nel corridoio le camminava tanto dappresso che avrebbe potuto inciampare nei suoi piedi, e quando una scossa le fece perdere l'equilibrio (i vagoni oscillavano violentemente) l'uomo si schiarì intenzionalmente la voce. Chissà perché, le venne all'improvviso in mente che fosse una spia, un informatore, e pur sapendo che era una sciocchezza – non si trovava più in Russia, dopotutto – non riusciva a scacciare quell'idea.
Nel percorrere il corridoio del vagone letto l'uomo disse qualche cosa. Elena affrettò il passo. Oltrepassò le sobbalzanti pedane dell'intercomunicante tra il vagone letto e la carrozza ristorante. E a quel punto, d'improvviso, nel vestibolo della carrozza ristorante, l'uomo le afferrò il braccio con una specie di ruvida delicatezza. La giovane trattenne un grido e strappò via il braccio con tale forza che stava quasi per cadere.
L'uomo disse in tedesco, con accento straniero: «Tesoro mio!».
Elena fece un rapido dietrofront. Percorse di nuovo l'intercomunicante, attraversò il vagone letto, quindi un altro intercomunicante. Si sentiva intollerabilmente oltraggiata. Preferiva non cenare del tutto piuttosto che avere di fronte quell'essere ripugnante e zotico. «Dio solo sa per chi mi ha presa,» rifletté «e solo perché uso il rossetto».
«Cosa succede, mia cara? Non cena?».
La principessa Uchtomskij teneva in mano un panino al prosciutto.
«No, non ne ho più voglia. Mi scusi, vorrei dormire un poco».
L'anziana signora sollevò sorpresa le sopracciglia sottili, e riprese a masticare.
Quanto a Elena, appoggiò la testa all'indietro e fece finta di dormire. In breve si addormentò davvero. Il viso pallido, stanco, si contraeva di quando in quando. Le narici rilucevano nei punti in cui la cipria era svanita. La principessa Uchtomskij accese una sigaretta dal lungo bocchino di cartone.
Mezz'ora più tardi l'uomo ritornò, si sedette imperturbabile nel suo angolo e prese a frugarsi tra i molari con uno stuzzicadenti. Quindi chiuse gli occhi, si dimenò un poco e si coprì la testa con una falda del soprabito appeso a un gancio vicino al finestrino, a mo' di tenda. Trascorse un'altra mezz'ora e il treno rallentò. Le luci dei marciapiedi passavano spettrali oltre i finestrini appannati. Il vagone si fermò con un prolungato sospiro di sollievo. Giungevano vari rumori: qualcuno che tossiva nello scompartimento accanto, passi in corsa sul marciapiede della stazione. Il treno si fermò a lungo, e in lontananza si incrociavano i richiami di fischietti notturni. Poi, con uno scossone, si rimise in movimento.
Elena si svegliò. La principessa sonnecchiava, la bocca aperta come una caverna tenebrosa. La coppia tedesca non c'era più. Anche l'uomo dormiva, la faccia coperta dal soprabito e le gambe distese in una posa grottesca.
Elena si passò la lingua sulle labbra secche e con un gesto stanco si strofinò la fronte. Improvvisamente sussultò: dall'anulare era scomparso l'anello.
Per un istante fissò, immobile, la mano nuda. Poi, con il cuore che le batteva, cominciò a perlustrare frenetica il sedile, il pavimento. Gettò un'occhiata al ginocchio aguzzo dell'uomo.
«Oh, Signore, ma naturalmente… deve essermi caduto mentre andavo alla carrozza ristorante quando mi sono divincolata con uno strattone…».
Uscì in fretta dallo scompartimento; a braccia aperte, oscillando di qua e di là, trattenendo le lacrime, attraversò un vagone, quindi un altro. Arrivò all'estremità del vagone ledo e, al di là della porta posteriore, non vide che aria, vuoto, il cielo notturno, lo scuro cuneo della massicciata scomparire in lontananza.
Pensò di essersi confusa e di avere preso la direzione sbagliata. Con un singhiozzo si girò per tornare indietro.
Vicino a lei, accanto alla porta della toilette, una donna anziana con un grembiule grigio, una fascia di stoffa al braccio e l'aspetto di un'infermiera del turno di notte, teneva in mano un secchiello dal quale sporgeva una spazzolina.
«Hanno sganciato la carrozza ristorante» disse la vecchietta e per qualche ragione sospirò. «Ne attaccheranno un'altra dopo Colonia».
Nella carrozza ristorante ferma sotto la volta di una stazione, che avrebbe proseguito per la Francia non prima della mattina seguente, i camerieri stavano rassettando, piegavano le tovaglie. Quando ebbe finito, Luzin si soffermò nel vano dello sportello aperto, dentro il vestibolo della carrozza. La stazione era buia e deserta. In lontananza un lampione brillava come una stella umida dietro una grigia nuvola di fumo. Il torrente delle rotaie luccicava appena. Non riusciva a capire per quale ragione il viso della vecchia signora con il panino lo avesse turbato tanto. Tutto il resto era chiaro, con l'eccezione di quella zona d'ombra.
Il fulvo Max dal naso affilato lo raggiunse sul vestibolo. Spazzava il pavimento. Notò il bagliore dell'oro in un angolo. Si chinò. Era un anello. Lo nascose nella tasca del panciotto e si guardò rapidamente attorno per controllare se qualcuno l'avesse visto. La schiena di Luzin era immobile nel vano dello sportello. Max, cauto, tirò fuori l'anello; alla luce fioca distinse una scritta e dei numeri incisi all'interno. Dev'essere cinese, pensò. In realtà, la scritta diceva «1-VIII-1915. Aleksej». Lo rimise in tasca.
La schiena di Luzin si mosse. Scese con lentezza dal treno. Si incamminò in diagonale verso le rotaie vicine con passo tranquillo, rilassato, come per una passeggiata.
Un treno in transito entrò in stazione rombando. Luzin arrivò sul bordo del marciapiede e saltò giù. Le scaglie di carbone gli scricchiolarono sotto i tacchi.
In quell'attimo la locomotiva gli fu addosso in un solo balzo vorace. Max, del tutto ignaro dell'accaduto, da lontano guardava scorrere veloce la lunga fila ininterrotta dei finestrini illuminati.