sabato 7 marzo 2020

IL SENSO DEL DOLORE 
Maurizio de Giovanni

Napoli, 1931. Marzo sta per finire, ma della primavera ancora nessuna traccia.
La città è scossa dal vento gelido e da una notizia: il grande tenore Arnaldo Vezzi — voce  sublime, artista di fama mondiale, amico del Duce —viene trovato cadavere nel suo camerino al Real Teatro di San Carlo prima della rappresentazione di Paghaccr. La gola squarciata da un frammento acuminato dello specchio andato in pezzi. A risolvere il caso è chiamato il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, in forza alla Squadra Mobile della Regia Questura di Napoli. Investigatore anomalo, mal sopportato dai superiori per la sua nsofferenza agli ordini ed evitato dai sottoposti per il carattere introverso, Ricciardi coltiva nell'animo tormentato un segreto inconfessabile: fin da bambino vede i morti nel loro 
ultimo attimo di vita e ne sente il dolore del distacco. Mentre i giorni passano e il vicequestore incalza, timoroso dell'impazienza del regime che da Roma chiede chiarezza ed esige che i colpevoli siano consegnati alla giustizia, la città freme sotto un alone cupo e 
livido, il risentimento cova nei vicoli e nei bassi, i raggi del sole illuminano a squarci le facciate degli antichi palazzi. Attento alle esigenze dei più deboli, il commissario segue il suo senso di giustizia per dare un nome all'assassino.
Cominciano con l'inverno le stagioni di Ricciardi: il cammino al confine tra due mondi di  un uomo condannato a guardare e amare da una finestra, interprete del disagio di un luogo sospeso tra luce e ombra.
      A mia madre

Il bambino morto stava all'impiedi, fermo sull'incrocio tra Santa Teresa e il Museo. 
Guardava i due ragazzi che, seduti a terra, facevano il giro d'Italia con le biglie. Li guardava e ripeteva: “Scendo? Posso scendere?”.
L'uomo senza cappello sapeva della presenza del bambino morto ancora prima di vederlo: 
sapeva che il lato sinistro, il primo che i suoi occhi avrebbero incontrato, era intatto; mentre a 
destra, il cranio era stato cancellato dall'impatto, la spalla era rientrata nella cassa toracica 
sfondandola, il bacino era ruotato attorno alla colonna vertebrale spezzata. E sapeva anche  che al terzo piano del palazzo d'angolo che gettava in quel primo mattino di mercoledì una  fascia d'ombra fredda sulla strada, un balconcino era serrato; sulla bassa ringhiera restava appeso un drappo nero. Poteva solo immaginare il dolore di una giovane madre che, contrariamente a lui, il figlio non lo avrebbe più rivisto. Meglio per lei, pensò. Tutto questo strazio.
Il bambino morto, per metà nascosto dall'ombra, alzò lo sguardo al passaggio dell'uomo 
senza cappello. “Scendo? Posso scendere?”, gli chiese. Un salto di tre piani, un dolore accecante lungo quanto un lampo. Chinò lo sguardo e accelerò il passo. Superò i due ragazzi che, con espressione seria, continuavano il giro d'Italia. Bambini poveri, pensò. Luigi Alfredo Ricciardi, l'uomo senza cappello, era commissario di pubblica sicurezza presso la squadra mobile della Regia Questura di Napoli. Aveva trentun anni, quanti erano gli anni di quel secolo. Nove dell'era fascista.
Non era povero il bambino che giocava da solo in un cortile della casa padronale di Fortino, in provincia di Salerno, una mattina di luglio di un quarto di secolo prima. Il piccolo Luigi Alfredo era l'unico figlio del barone Ricciardi di Malomonte; del padre, morto giovanissimo, non avrebbe avuto mai un ricordo. La madre fu sempre malata di nervi e morì in una casa di cura quando lui, adolescente, studiava in collegio dai gesuiti; ne avrebbe conservato l'ultima immagine, la carnagione bruna, i capelli già bianchi a trentott'anni, gli occhi febbrili. Minuta, in un letto troppo grande.
Ma fu quella mattina di luglio a cambiare definitivamente la sua vita. Aveva trovato un pezzo di legno, che si era trasformato nella sciabola di Sandokan, la Tigre della Malesia: facevano presto a diventare realtà i racconti di Mario, il fattore appassionato di Salgari con cui 
passava lunghe ore, a occhi sbarrati e col respiro sospeso. Così armato non temeva belve o 
nemici feroci, ma aveva bisogno di una giungla. C'era un piccolo vigneto accanto al cortile, dove gli era concesso andare: gli piacevano l'ombra delle larghe foglie della vite, il fresco inatteso, il ronzio degli insetti. Il piccolo Sandokan, spavaldo con la sua sciabola, s'inoltrò nell'oscurità, avanzando silenzioso nella sua foresta immaginaria: al posto di cicale e calabroni si figurava pappagalli dai mille colori e quasi sentiva i loro richiami esotici. Una lucertola si 
slanciò lungo il vialetto solcando la ghiaia, lui la seguì, lievemente piegato in avanti, la lingua 
che spuntava tra le labbra, gli occhi verdi concentrati. La lucertola svoltò, cambiando 
traiettoria.
Seduto sotto un tralcio, per terra, vide l'uomo: era in una zona di penombra, come a voler 
trovare ristoro dalla feroce calura di quel terribile luglio nella giungla. La testa reclinata, le 
braccia abbandonate lungo il busto, le mani che toccavano il suolo. Sembrava addormentato, 
ma la schiena era rigida e le gambe, allungate sul vialetto, lievemente scomposte. Era vestito 
all'uso dei braccianti, ma come fosse inverno: il panciotto di lana, un camiciotto di flanella 
senza collo, pantaloni di tela pesante legati in vita con lo spago. Il piccolo Sandokan, con la sua 
sciabola in pugno, registrò quei particolari senza rilevarne l'incongruenza: poi vide il manico 
del coltellaccio da potatura spuntare dal torace dell'uomo, sul lato sinistro, come il ramo da un 
albero. Un liquido scuro macchiava la camicia gocciolando fino a terra dove si era formata una 
piccola pozzanghera: adesso la Tigre della Malesia la vedeva bene nonostante l'ombra delle 
viti. Un po' più in là, la lucertola si era fermata e lo osservava, quasi delusa per l'interruzione 
dell'inseguimento.
L'uomo, che doveva essere morto, alzò lentamente la testa e la girò verso Luigi Alfredo, con 
un lieve scricchiolio delle vertebre: lo guardò con gli occhi velati e semichiusi. Le cicale 
smisero di frinire. Il tempo si fermò.
“Perdio, non l'ho nemmeno toccata la tua donna”.
Non fu per l'incontro inatteso, né per il manico del coltellaccio o per tutto quel sangue. 
Luigi Alfredo scappò urlando per lasciarsi alle spalle tutto il dolore che il cadavere del 
bracciante gli aveva buttato addosso. Nessuno gli disse mai che il delitto avvenuto nel vigneto 
cinque mesi prima era frutto della gelosia di un altro bracciante, fuggito dopo aver ucciso 
anche la giovane moglie; si diceva si fosse aggregato a un gruppo di briganti in Lucania. 
Attribuirono lo spavento e il terrore del bambino alla sua fantasia spiccata, al carattere 
solitario e alle chiacchiere delle comari che, la sera, cucivano sotto la finestra della sua stanza 
cercando un po' di fresco nel cortile. Ne parlavano come del “fatto”.
Luigi Alfredo si abituò a pensare alla cosa che gli era successa proprio con quel nome: il 
Fatto. Da quando gli era capitato il Fatto, come aveva capito dal Fatto. Il Fatto che gli aveva 
orientato l'esistenza. Nemmeno Rosa, la tata che gli aveva dedicato tutta la vita e che ancora 
viveva con lui, gli aveva creduto, allora; negli occhi di lei era affiorata la tristezza e poi un 
lampo di paura, come per il presagio che anche il piccolo fosse destinato a soffrire il male della 
madre. E lui aveva compreso che non avrebbe mai più potuto parlarne con nessuno, che 
questo marchio sull'anima ce l'aveva solo lui: una condanna, una dannazione.
Negli anni che seguirono, lui andò definendo i confini del Fatto. Vedeva i morti. Non tutti e 
non a lungo: solo quelli morti violentemente, e per un periodo di tempo che rifletteva 
l'estrema  emozione,  l'energia  improvvisa  dell'ultimo pensiero. Li  vedeva come  in  una 
fotografia che fissava il momento in cui si era conclusa la loro esistenza, con i contorni che 
andavano man mano sbiadendo fino a scomparire: anzi, come in una pellicola, di quelle che 
aveva visto qualche volta al cinematografo, che però replicava sempre la stessa scena. 
L'immagine del morto con i segni delle ferite e l'espressione dell'ultimo attimo prima della 
fine; e le ultime parole, ripetute incessantemente, come a voler finire un lavoro cominciato 
dall'anima prima di essere strappata via.
Sentiva l'emozione, più di tutto: coglieva di volta in volta il dolore, la sorpresa, la rabbia, la 
malinconia. Perfino l'amore: ricordava spesso, nelle notti in cui la pioggia batteva alla sua 
finestra e lui non riusciva a prendere sonno, la scena di un delitto in cui l'immagine di un 
bambino, seduto nel catino in cui era morto affogato, allungava la mano proprio verso il punto
      in cui si trovava la madre, a cercare aiuto dalla sua stessa assassina. Ne aveva percepito tutto 
l'amore incondizionato ed esclusivo. Un'altra volta si era trovato davanti al cadavere di un 
uomo pugnalato dall'amante pazza di gelosia nel momento dell'orgasmo: ne aveva colto 
l'intensità del piacere ed era dovuto uscire in tutta fretta dalla stanza, il fazzoletto premuto 
sulla bocca.
Così era il Fatto, la sua condanna: gli arrivava addosso come il fantasma di un cavallo in 
corsa,  senza  dargli  il  tempo  di  evitarlo;  nessun  avvertimento  lo  precedeva,  nessuna 
sensazione fisica lo seguiva se non il ricordo. Ancora una cicatrice sulla sua anima.
      2
Luigi Alfredo Ricciardi era di statura media, magro. Scuro di carnagione, gli occhi verdi che 
spiccavano nel viso; i capelli neri, pettinati all'indietro e fissati con la brillantina, liberavano 
talvolta un ciuffo che gli attraversava la fronte e che lui, distrattamente, metteva a posto con 
un gesto secco. Il naso era diritto e sottile, come le labbra. Le mani piccole, quasi femminili: 
nervose, sempre in movimento. Le teneva in tasca, consapevole del fatto che tradivano la sua 
emozione, la tensione.
Avrebbe potuto fare a meno di lavorare, grazie alle rendite di famiglia, alle quali non si 
interessava più di tanto. E avrebbe dovuto, come qualche parente gli ricordava nei rarissimi 
incontri al paese, d'estate, frequentare una società più consona al nome che portava. Ma lui 
teneva nascosti sia le rendite sia il titolo, per passare il più possibile inosservato e seguire la 
vita che si era scelto; o meglio, che lo aveva scelto. Provate voi, avrebbe detto se avesse potuto, 
a sentirlo, tutto quel dolore: costante, perenne; in ogni forma. Da sempre, tutti i giorni, a 
chiedere pace, a reclamare giustizia. Aveva deciso di studiare giurisprudenza, la tesi in diritto 
penale, poi era entrato in polizia: l'unico modo per raccogliere l'istanza, per alleggerire quel 
peso. Nel mondo dei vivi, per seppellire i morti.
Non aveva amici, non frequentava nessuno, non usciva la sera, non aveva una donna. La sua 
famiglia si esauriva con la vecchia tata Rosa, ormai settantenne, che lo assisteva con assoluta 
devozione, amandolo teneramente senza però mai provare a comprenderne gli sguardi e i 
pensieri.
Lavorava fino a tardi, isolato dal gruppo dei colleghi che lo evitavano con cura. I superiori 
ne temevano il valore, la straordinaria capacità di risolvere casi indecifrabili, la dedizione 
totale al lavoro: fattori che facevano pensare a un'ambizione sfrenata, a una determinazione a 
emergere, a scalare, a rimpiazzare. I sottoposti non ne comprendevano la cupezza, i silenzi: 
mai un sorriso, un commento superfluo. Seguiva stravaganti percorsi, non si atteneva alle 
procedure, ma alla fine aveva sempre ragione. I più superstiziosi, e in quella città non erano 
pochi, intuivano qualcosa di innaturale nelle soluzioni di Ricciardi: come se le sue indagini 
fossero all'inverso, come se risalisse a ritroso il corso degli eventi. Era difficile che le guardie, 
chiamate a collaborare direttamente col commissario, non reagissero con una smorfia di 
fastidio. Inoltre le sue indagini non avevano requie: una volta cominciate, finivano solo con la 
soluzione del caso. Né notte, né giorno, e neppure domeniche, fino a quando il colpevole non 
era in galera. Come se, ogni volta, la vittima fosse un suo parente; come se l'avesse conosciuta 
personalmente.
Qualcuno apprezzava il fatto che rinunciasse sistematicamente ai premi speciali in denaro, 
conferiti per le indagini più importanti, in favore della squadra; e poi era sempre presente, 
cedeva i suoi giorni di licenza, copriva con la propria persona gli errori dei sottoposti agli 
occhi dei superiori, salvo poi affrontare a muso duro il responsabile e richiamarlo a maggiore 
attenzione. Tuttavia, soltanto uno dei suoi collaboratori gli era veramente legato: il brigadiere 
Raffaele Maione.
Da poco doppiato il capo dei cinquant'anni, Maione era molto contento di essere ancora 
vivo e in forze. La sera, a tavola, amava ripetere alla moglie e ai cinque figli: «Ringraziate il 
Padreterno perché mangiate. E la fortuna, perché papà non si è fatto ancora ammazzare». E 
subito gli si riempivano gli occhi di lacrime al pensiero di Luca, il figlio maggiore entrato come 
lui in polizia, ma non altrettanto fortunato: in servizio da un anno, era stato accoltellato a 
morte nel quartiere Sanità durante una perquisizione. Il dolore era ancora fresco, anche se 
erano passati tre anni; la moglie non ne aveva più parlato, come se quel figlio bello e forte, che 
rideva sempre e la prendeva in braccio e la faceva volare e la chiamava “la fidanzata mia”, non 
fosse esistito. E invece c'era, seduto in mezzo alla sua anima, a togliere il posto ai fratelli e alle
      sorelle, ad accompagnarla per tutta la giornata.
Maione si era legato a Ricciardi proprio in occasione della morte del figlio. L'allora delegato 
di polizia era stato tra i primi ad arrivare sul posto. Con gentilezza aveva chiesto a Maione di 
allontanarsi dalla cantina dove era stato trovato il corpo del ragazzo, riverso in una pozza di 
sangue, il coltello che sporgeva dalla schiena. Era rimasto solo per alcuni minuti: quando era 
uscito dal buio gli occhi verdi sembravano illuminati da una luce interna come quelli di un 
gatto, ma erano pieni di lacrime. Si era avvicinato a Maione. Nel silenzio dei presenti, 
imbarazzati di fronte allo strazio del padre, Ricciardi aveva allungato una mano e gli aveva 
stretto il braccio. Maione ricordava ancora l'insospettata forza che aveva sentito, il calore di 
quella mano attraverso la stoffa della divisa.
«Ti voleva bene, Maione. Ti voleva bene da morire. Ti ha chiamato, come ultimo pensiero. 
Ti sarà vicino sempre, a te e a sua mamma».
Pur nella nebbia dell'immenso dolore, Maione senti un brivido lungo la schiena e dietro la 
nuca. Non aveva chiesto, né allora né dopo, durante gli anni di appostamenti o nelle lunghe 
trasferte imposte dalle varie indagini, come Ricciardi sapesse, perché era stato proprio lui a 
recapitargli l'estremo messaggio del figlio amatissimo. Ma sapeva che era andata proprio così, 
che il delegato aveva detto quello che aveva visto e sentito, che non erano le solite parole di 
conforto che lui stesso aveva tante volte ripetuto ai parenti dei morti.
Si era legato allora, Maione a Ricciardi. Nei giorni terribili che seguirono, senza riposo né 
perdono, notti e mattine e pomeriggi e sere senza mangiare, senza bere, senza tornare a casa; 
a erodere il muro consolidato dell'omertà del quartiere, a scambiare informazioni, perfino a 
promettere di girarsi dall'altra parte di fronte a certi traffici, pur di mettere le mani sul vile 
assassino della cantina. Perfino Maione, sebbene animato dalla rabbia, andava alla fine 
cedendo alla stanchezza. Non Ricciardi, che era come preso da un fuoco, invasato.
E l'avevano trovato, l'assassino: in un altro quartiere, ancora nel deposito della refurtiva, 
attorniato dai suoi. Rideva, quando irruppero, con le vedette che aveva messo in cima al vicolo 
già legate e piantonate. Un'operazione da dodici uomini, non c'era poliziotto che non volesse 
mettere le mani sull'assassino di Luca Maione. E quando, nello stanzone svuotato da complici 
e refurtiva, l'uomo si ritrovò solo con Ricciardi e Maione e, piagnucolando, chiedeva di aver 
salva la vita perdendo ogni dignità di guappo, Ricciardi guardava Maione. Maione fissava 
l'uomo e vedeva il figlio piccolo che gli portava una palla fatta con gli stracci, ridendo, la faccia 
sporca e gli occhi belli. Si girò e uscì dalla stanza senza una parola. Fu allora che anche 
Ricciardi si legò a Maione.
Da quel momento, Maione era diventato il fedele compagno di Ricciardi: ogni volta che il 
commissario usciva, era lui che predisponeva la squadra che lo doveva scortare. Sapeva che 
durante il primo sopralluogo sulla scena del delitto doveva essere lasciato solo; toccava a lui 
tenere fuori gli altri poliziotti, i testimoni, i familiari urlanti e i semplici curiosi, per quei primi 
lunghi attimi in cui Ricciardi andava a conoscere la vittima, a seguire la sua leggendaria 
intuizione, a rintracciare gli elementi per dare inizio alla caccia. Poi, faceva il controcanto alla 
solitudine e ai silenzi di Ricciardi con la sua innata bonomia, la capacità di dialogare con le 
persone in modo diretto, attento ai pericoli ai quali l'altro andava incontro, sempre disarmato, 
con una sfrontatezza che a volte sembrava incoscienza o addirittura istinto suicida. Maione 
sospettava che Ricciardi andasse alla ricerca della morte, della sua essenza, con una furia 
conoscitiva, come a volerla definire, scoprire; senza un particolare interesse per la propria 
sopravvivenza.
Ma lui non voleva che Ricciardi morisse. Anzitutto perché, nella sua bonaria semplicità, si 
era convinto che nel commissario abitasse una parte di quel figlio perduto; poi perché col 
tempo si era andato affezionando a quei silenzi, a quei fugaci sorrisi, all'eco del dolore che 
traspariva dai gesti di quelle mani tormentate. E allora avrebbe continuato a vegliare sulla 
salute del commissario, in nome e nel ricordo di Luca.
      3
Nel vento freddo di quel mercoledì mattina, Ricciardi scendeva da piazza Dante. Le mani 
nelle tasche del soprabito grigio scuro, la testa un po' incassata nelle spalle, lo sguardo fisso a 
terra. Camminando a passo svelto, senza guardarla, sentiva la città.
Sapeva che avrebbe varcato, nel percorso da piazza Dante a piazza del Plebiscito, un 
invisibile confine tra due realtà distinte: a valle, la città ricca, dei nobili e dei borghesi, della 
cultura e del diritto. A monte, i quartieri popolari, al cui interno vigeva un altro sistema di 
leggi e norme, altrettanto o forse ancora più rigido. La città sazia e quella affamata, la città 
della festa e quella della disperazione. Quante volte Ricciardi era stato testimone del 
contraddittorio tra le due facce della stessa medaglia.
Il confine: via Toledo. Palazzi antichi, muti sulla strada ma già rumorosi sul retro, le finestre 
spalancate sui vicoli, i primi canti delle massaie. Le porte delle chiese, dalle facciate incastrate 
tra gli altri edifici, si aprivano ad accogliere i fedeli che raccomandavano la giornata a Dio. 
Sulle larghe pietre che pavimentavano la strada rotolavano le ruote dei primi omnibus.
La mattina era uno dei pochissimi momenti in cui si realizzava un'osmosi: dal dedalo di 
vicoli dei Quartieri Spagnoli scendevano su via Toledo i carretti degli ambulanti, con le merci 
più disparate e i suoni festosi di richiamo; dai quartieri popolosi del porto e dalla periferia, 
artigiani dalle abilissime mani, calzolai, guantai, sarti salivano verso il labirinto, per arrivare al 
nascente quartiere residenziale del Vomero o alle botteghe dei vicoli oscuri. A Ricciardi 
piaceva pensare che quello era un momento di pacificazione, di scambio, prima che la 
coscienza della disparità e la fame portassero gli uni a rodersi dall'invidia e a meditare il 
delitto, gli altri a temere l'attacco e a inasprire la sferza.
All'angolo di largo della Carità, come da alcune mattine a quella parte, Ricciardi vide 
l'immagine di un uomo vittima di un borseggio: si era ribellato ed era stato selvaggiamente 
colpito con un bastone. Dal cranio sfondato colava materia cerebrale e il sangue copriva un 
occhio; l'altro mandava ancora lampi di furia e la bocca dai denti spezzati continuava a 
ripetere incessantemente che non avrebbe mai lasciato le sue cose. Ricciardi pensò al ladro 
ormai introvabile, ingoiato dai Quartieri Spagnoli, alla fame e al prezzo pagato da vittima e 
carnefice.
Come al solito, arrivò in questura per primo: la guardia all'ingresso scattò in un saluto 
militare e Ricciardi rispose con un breve cenno del capo. Non gli piaceva passare tra la folla, 
quando la vita di Palazzo San Giacomo era già nella fase del chiasso e del disordine, né 
camminare tra le invettive velenose dei fermati, i forti richiami all'ordine delle guardie, le 
discussioni a voce alta tra gli avvocati. Preferiva di gran lunga quelle ore del mattino, con lo 
scalone ancora pulito, il silenzio e l'atmosfera ottocentesca.
Aprendo la porta della sua stanza, come ogni giorno percepì l'odore familiare: libri vecchi, 
stampa, un po' di polvere del tempo e dei ricordi. La pelle della vecchia poltrona, delle due 
sedie di fronte alla scrivania, del logoro sottomano verde oliva. L'inchiostro del calamaio di 
cristallo incastrato nel portalettere. Il legno chiaro della scrivania e della libreria stracarica. Il 
piombo della scheggia di granata portata a Fortino dal vecchio Mario, reduce dalla guerra, e 
strumento di tante fantastiche battaglie di bambino, ora diventato un incerto fermacarte. La 
luce del sole forzava il polveroso vetro della finestra, raggiungendo la parete e illuminando i 
ritratti, come una divina investitura.
Che belli, ironizzò tra sé Ricciardi, con un mezzo sorriso. Il piccolo re senza forze, il grande 
comandante senza debolezze. I due uomini che avevano deciso di cancellare il crimine per 
decreto. Ricordava sempre le parole del questore, un azzimato diplomatico che improntava la 
propria vita al compiacimento assoluto dei potenti: non esistono suicidi, non esistono omicidi, 
non esistono rapine e ferimenti, a meno che non sia inevitabile o necessario. Nulla per la 
gente, soprattutto nulla per la stampa: la città fascista è pulita e sana, non conosce brutture. 
L'immagine del regime è granitica, il cittadino non deve avere nulla da temere; noi siamo i
      custodi della sicurezza.
Ma Ricciardi aveva capito, ben prima di studiarlo sui libri, che il delitto è la faccia oscura del 
sentimento: la stessa energia che muove l'umanità la devia, fa infezione e suppura esplodendo 
poi nell'efferatezza e nella violenza. Il Fatto gli aveva insegnato che la fame e l'amore sono 
all'origine di ogni infamia, in tutte le forme che possono assumere: orgoglio, potere, invidia, 
gelosia. Sempre e comunque, la fame e l'amore. Li trovavi in ogni delitto, una volta 
semplificato all'estremo, eliminati gli orpelli dell'apparenza: la fame o l'amore, o entrambi, e il 
dolore che generano. Tutto quel dolore, di cui lui solo era testimone costante. E allora tu, caro 
Mascellone, pensò Ricciardi con tristezza, puoi emettere tutti i decreti che vuoi; ma non 
riuscirai purtroppo a cambiare le anime, col tuo vestito nero e il cappello col fiocchetto. Potrai 
anche riuscire a far paura invece che a far ridere, ma non cambierai il lato oscuro della gente 
che continuerà ad avere fame e a provare amore.
Maione si era affacciato alla porta, dopo un discreto colpetto allo stipite.
«Dotto', buongiorno. Ho visto aperto: già siete arrivato? Ma non riposate bene manco con 
questo freddo? La primavera quest'anno non si vuole presentare. Io ce l'ho detto a mia moglie, 
che la spesa della legna per la stufa, ancora un mese, non ce la possiamo permettere. Se 
continua il tempo che sta facendo, ai ragazzi verranno i geloni. Voi come state stamattina? Ve 
lo porto un surrogato?»
«Come al solito. No, grazie. Devo completare una montagna di rapporti. Vai, vai: nel caso ti 
mando a chiamare».
Fuori, tra i primi richiami dei venditori ambulanti, un tram passò sferragliando e una 
nuvola di colombi si levò in volo nel sole ancora freddo. Erano le otto.
      4
Dodici ore dopo, l'unica cosa a essere cambiata nell'ufficio di Ricciardi era la luce: la 
polverosa  lampada  da  scrivania  col  paralume  verde  aveva  sostituito  l'anemico  sole 
dell'inverno tardivo. Il commissario era ancora chino sul tavolo, intento a compilare moduli.
Sempre più spesso pensava a se stesso come a un impiegato del catasto, obbligato a 
trascorrere la maggior parte del proprio tempo a trascrivere formule ed elencare numeri: la 
contabilità del crimine, la retorica del delitto.
Aveva ceduto alla fame verso le due, uscendo senza soprabito nel freddo, per prendere una 
pizza al carrettino sotto la questura: il fumo denso della pentola d'olio bollente, l'odore 
invitante della frittura, il calore della pasta incandescente, erano per lui irresistibili da 
sempre. Uno di quei momenti in cui si sentiva nutrito dalla città come da una madre. Poi un 
caffè veloce in piazza del Plebiscito, come d'abitudine al Gambrinus, a osservare il passaggio 
dei tram col solito carico di scugnizzi festanti a rimorchio, in bilico sulle rotaie, aggrappati alla 
carrozzeria.
Mentre stringeva con le dita gelate la tazza bollente, al vetro si era accostata una bambina, 
lo sguardo imbronciato: nella mano destra abbandonata lungo il corpo, un fagottino di stracci, 
forse una bambola. Il braccio sinistro non c'era: dalla carne strappata spuntava bianco un 
frammento  d'osso,   scheggiato  come  un  pezzo  di  legno  nuovo.  Il  fianco  incavato,  la 
depressione del torace sfondato. Una carrozza, pensò Ricciardi. La bambina lo fissava e, a un 
tratto, alzò il fagottino di stracci verso di lui: «La figlia mia, è questa. Io la faccio mangiare e la 
lavo». Ricciardi depose la tazza, pagò e uscì. Adesso avrebbe avuto freddo per tutto il giorno.
Alle venti e trenta Maione si affacciò di nuovo alla porta.
«Dotto', avete bisogno? Io me ne andrei, stasera c'è mio cognato con la moglie a cena. Ma io 
mi domando e dico: una casa questi non ce l'hanno? Sempre a carico mio li devo te-nere».
«No, Maione, grazie. Un altro poco e me ne vado pure io, finisco qua e chiudo la bottega. 
Buona serata. A domani».
Maione richiuse la porta, non senza aver lasciato entrare uno spiffero di gelo che fece 
rabbrividire Ricciardi, come un presentimento. E di presentimento doveva trattarsi, perché 
non erano passati nemmeno cinque minuti che la porta si riaprì a presentare la sagoma 
corpulenta e tarchiata di Maione.
«Come non detto, dotto': per una volta che me ne volevo andare in orario. Alinei ha 
chiamato col portavoce dal portone, c'è un ragazzo. Dobbiamo andare a vedere, dice che è 
successo un fatto brutto al San Carlo».
      5
Don Pierino Fava si era trovato alla solita porta laterale alle sette di sera, come convenuto. 
L'ingresso era quello dei giardini di Palazzo Reale, dove Lucio Patrisso faceva il custode. 
Amicizie che contano. Non che lui fosse più indulgente con Patrisso che con gli altri 
parrocchiani, o che gli rendesse qualche particolare considerazione: ma per l'uomo era 
comunque un onore essere destinatario di un saluto personale all'uscita della chiesa dopo la 
messa.
Con questo prezzo contenuto, don Pierino si guadagnava il piacere più grande della sua 
vita: l'opera lirica. Il suo cuore semplice si alzava in volo e accompagnava le voci, mentre le 
labbra silenziose seguivano i testi che conosceva a memoria; sin da bambino, a Santa Maria 
Capua Vetere, non lontano da Caserta, si sedeva a terra nel giardino di una villa dove un 
fonografo spandeva la magia nell'aria. Poteva rimanere ore, senza curarsi del freddo, del caldo 
o della pioggia, col fiato sospeso e gli occhi pieni di lacrime.
Piccolo e grassottello, gli occhi neri vivacissimi e il sorriso improvviso e contagioso, aveva 
un'intelligenza e una prontezza tali da preoccupare molto i genitori, braccianti con altri otto 
figli. Che ne avrebbero fatto di questo ragazzo furbo e sfaticato che trovava sempre ottime 
scuse per non lavorare? La risposta venne dal burbero parroco, che sempre più spesso lo 
chiamava per piccoli aiuti pur di avere attorno quell'allegro folletto. E così, il piccolo Pietro 
diventò  “Pierino della chiesa”: gli piacevano l'ombra fresca, l'odore acuto dell'incenso, i raggi 
del sole filtrati dai vetri colorati delle alte finestre.
Ma più di tutto gli piaceva il suono cavernoso e rimbombante del grande organo, che aveva 
preso a considerare la voce di Dio. E si sentì chiamato, quando capì che non avrebbe voluto 
vivere in nessun altro posto. Negli anni di studio che seguirono, Pierino mantenne intatto 
l'amore per il prossimo, per Dio e per la musica; e tra queste tre passioni divideva il suo 
tempo, assistendo i poveri, traendo esempio e insegnamento dalla vita dei santi, coltivando la 
musica sacra.
A quarant'anni era da dieci viceparroco di San Ferdinando, quartiere non vasto, ma molto 
popoloso. Comprendeva eleganti strade e la maestosa Galleria, ma anche i tuguri dei Quartieri 
e il labirinto di vicoli sopra via Toledo; al centro di quel territorio sorgeva un altro tempio, che 
esercitava un richiamo pagano sull'anima semplice di don Pierino: il Real Teatro di San Carlo. 
Non l'avrebbe mai ammesso, ma era proprio il teatro il motivo per cui aveva sempre 
umilmente risposto in Curia di non sentirsi all'altezza di diventare parroco altrove. Riteneva 
un dono personale di Dio il fatto di poter assistere alla magnificenza dell'arte viva dell'opera, 
sentirne il battito cristallino: poter guardare le passioni umane, rappresentate con tanta 
bellezza e forza. Quanto Dio c'era, nelle lacrime e nel riso che scorgeva sulle facce degli 
spettatori in platea, nei palchi, in loggione; e quanto amore umano e quanta grazia divina, 
nella musica che portava le anime per mano dove le menti non sapevano arrivare.
Perciò don Pierino era ben contento di continuare a fare il viceparroco del vecchio don 
Tommaso, che non poneva limiti alla sua immensa energia. Amatissimo dagli scugnizzi, da cui 
si faceva sbeffeggiare per l'aspetto tozzo, era soprannominato  'o munaciello, lo spiritello 
dispettoso della leggenda; ma era anche noto per le sue denunce delle frequenti epidemie che 
le indegne condizioni igieniche dei Quartieri favorivano. Gli si poteva perdonare quest'unica 
debolezza e regalare tre ore di gioia un paio di volte al mese. Per questo c'era il buon Lucio 
Patrisso, ai fini di don Pierino l'uomo più importante della platea parrocchiale. Il prete faceva 
studiare un po' di matematica al figlio maggiore del custode del teatro e l'altro lo lasciava 
entrare  dall'ingresso  dei  giardini,  la  sera  della  prima:  il  suo  posto  era  una  stretta 
intercapedine  dietro  le  quinte  da  cui  assisteva,  invisibile,  alla  rappresentazione.  Una 
prospettiva straordinaria, alla quale il prete non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. E 
infatti era lì anche il venticinque marzo del '31, quando fu ucciso Arnaldo Vezzi.
      A Ricciardi l'opera non piaceva. Non amava i luoghi affollati, quei grovigli di anime, di 
sensazioni, di emozioni. Quell'influenzarsi a vicenda, che faceva diventare la folla una cosa del 
tutto diversa dalle persone che la componevano. Conosceva per esperienza la bestia che la 
folla poteva diventare.
Poi, non gli piaceva la rappresentazione teatrale dei sentimenti. Li conosceva bene, sapeva 
meglio di chiunque altro che sopravvivevano a chi li provava, sommergendo e sollevando in 
un'ondata tutto quello che incontravano sulla loro strada. Sapeva bene che non erano mai di 
un solo sapore, che mai una passione aveva soltanto l'aspetto più evidente; che nel bene e nel 
male c'erano mille facce, sempre inattese e imprevedibili. Perciò disprezzava quei costumi 
colorati, quelle voci modulate, quelle parole arcaiche e dotte in bocca a poveracci che nella 
realtà morivano di fame: no, l'opera non gli piaceva. E a teatro non c'era mai andato; ma ne 
conosceva l'aspetto esterno nelle serate importanti, il clima di festosa attesa che si avvertiva 
anche solo passandoci davanti.
Uscendo dalla Galleria, quando alla guida della piccola squadra composta da Maione e da 
tre guardie si trovò in cima alla breve rampa di scale di marmo che dava in strada, Ricciardi 
vide l'usuale panorama: l'imponente mole di Palazzo Reale, l'elegante porticato dal quale si 
entrava a teatro; a destra, le luci di piazza Trieste e Trento, i caffè pieni di vita e allegria. Un 
suono soffuso di musica e risate. A sinistra, oltre il Castello angioino e gli alberi di piazza del 
Municipio, il tuono del mare nel porto.
Lo spazio davanti al teatro, però, non era come al solito. E la differenza era stridente.
In un silenzio innaturale, centinaia di persone si erano assiepate davanti all'ingresso 
principale: incuranti del vento sferzante che sibilava sotto lo stretto portico, uomini vestiti 
con suprema eleganza e donne dai lunghi abiti di seta si stringevano nei soprabiti, tenendo i 
cappelli con le mani guantate per non farli volar via. Bambini coperti di stracci si alzavano 
sulle punte dei piedi scalzi e tormentati dai geloni, per intravedere qualcosa. Nessun brusio, 
niente commenti: solo il lamento del vento. Perfino i cavalli, alla testa delle carrozze in attesa 
sulla strada, non sbuffavano né scalpitavano. E dai carretti degli ambulanti, con le castagne 
arrostite e i dolciumi, non giungeva alcun richiamo. Le luci dei lampioni a gas che adornavano 
la facciata del teatro chiazzavano la folla, svelando occhi spalancati e avidi di particolari, colli 
di pelliccia e sciarpe svolazzanti.
L'arrivo degli uomini della questura ebbe l'effetto di un sasso gettato in uno specchio 
d'acqua. La folla si aprì al loro passaggio e risuonò il coro delle voci di quelli che chiedevano 
cosa fosse successo, di quale guaio si trattasse, del perché la polizia giungesse in ritardo, come 
al solito. Un paio di ragazzini tentò un timido applauso. Nell'ampio ingresso del teatro, 
illuminato e riscaldato a giorno da luci e sfarzo, Ricciardi fu attorniato da giornalisti, 
dipendenti della struttura e spettatori: parlavano tutti insieme, risultando incomprensibili. 
D'altra parte lui e Maione sapevano bene, per consolidata esperienza, che le informazioni 
veramente utili sarebbero riusciti a tirarle fuori con difficoltà, combattendo con reticenze di 
ogni tipo: quindi era inutile, se non dannoso, ascoltare quella cacofonia di parole urlate nella 
concitazione del momento.
Ricciardi identificò tra gli altri un ometto in frac che saltellava come caricato a molla, 
sudando  copiosamente:  i  dipendenti  in  divisa  lo  guardavano  agitati  e il  commissario 
immaginò che fosse un responsabile del teatro.
«Signor delegato... anzi, Commissario... che tragedia...», balbettava in modo sconnesso. «Una 
cosa simile... qui, al San Carlo... ci tengo a dire che mai, mai! A memoria d'uomo...»
«Calmatevi, per favore. Siamo qui, adesso. Ditemi, voi siete...?» 
«Ma... sono il duca Francesco Maria Spinelli, il sovrintendente del Real Teatro di San Carlo; 
non mi avete riconosciuto?» 
«No,  veramente.  Vi  prego,  fate  strada;  togliamoci  da  questa  confusione»,   ribatté 
freddamente Ricciardi, mentre le tre guardie e Maione avevano il loro da fare a trattenere la 
folla di curiosi che si accalcava attorno. Il sovrintendente prese la risposta come un ceffone e
      la sua espressione da agitata divenne offesa. Due camerieri in livrea si guardarono negli occhi, 
trattenendo una risata, e furono gelati da un'occhiataccia. L'ometto si girò con altezzosa grazia 
e si avviò per lo scalone di marmo ingombro di gente che si spostava al suo passaggio come il 
Mar Rosso davanti a un Mosè nano.
      6
Patrisso, il custode all'ingresso dei giardini, si guardò attorno circospetto.
«Presto, don Pieri', passate. Non vi fate vedere, ché qua se mi acchiappano che vi faccio 
entrare, proprio la sera della prima, mi fanno passare un guaio. Correte, fate presto, voi lo 
sapete dove dovete andare».
Don Pierino sorrise, felice come un bambino in pasticceria: con insospettabile agilità e 
tirandosi la veste sopra le caviglie, salì veloce la rampa della scala principale, girò prima a 
destra e poi subito a sinistra nel corridoio dei palchi e imboccò la stretta scalinata che portava 
al palcoscenico. Lì si fermò su un piccolo pianerottolo e si spinse in una rientranza dalla quale 
poteva intravedere da un lato il corridoio dei camerini e la rampa di accesso degli attori, 
dall'altro gran parte della scena. Doveva allungare il collo e mettersi in punta di piedi, ma la 
prospettiva era particolare e straordinaria: al fianco dei cantanti, rivolto verso il pubblico, ma 
anche, volendo, verso il lavoro incessante che c'era dietro la scena. Trattenendo il fiato, si 
stava preparando. La “sua” serata.
Non per il programma, a dire il vero.  Cavalleria rusticana e  Pagliacci avevano un loro 
fascino, ma la cosa più importante era che stasera avrebbe risentito la voce celestiale di 
Arnaldo Vezzi, il più grande tenore del mondo. Vezzi era senza dubbio la stella del cartellone 
per la stagione. La sua scelta interpretativa, Canio di Pagliacci, non era la migliore possibile: 
don Pierino lo avrebbe preferito in un ruolo pucciniano, che avrebbe permesso alle sfumature 
della sua sonorità di trovare la giusta collocazione. Ma, sospettava il viceparroco, nessuna 
parte aveva la rilevanza di Canio rispetto agli altri ruoli. La partitura dell'opera di Leoncavallo 
consentiva a Vezzi di recitare in pratica da solo, di tenere in mano la scena senza che nessuno 
lo mettesse in ombra.
L'orchestra era entrata, accompagnata da un grande applauso. Il pubblico del San Carlo 
amava i suoi “professori”, tra i migliori del paese; li dirigeva Mariano Pelosi, un vecchio 
direttore di grande rigore interpretativo. Tre colpi di bacchetta sul leggio, le due mani alzate: 
era l'inizio della magia.
Alla fine della rampa di scale di marmo con la guida di velluto rosso, Ricciardi senza 
fermarsi sussurrò a Maione di mandare le guardie a bloccare gli ingressi, sia il principale che i 
secondari: nessuno dei presenti avrebbe dovuto lasciare il teatro. Il piccolo sovrintendente li 
guidò per un corridoio secondario e per una stretta scalinata, fino a un pianerottolo con una 
porticina sulla sinistra e due di fronte: un corridoio sulla destra lasciava intravedere altre 
porte aperte.
«Questo», disse il duca, indicando la porticina, «è l'ufficio del direttore del palcoscenico. 
Quello di fronte è il camerino del direttore d'orchestra. E là... che tragedia... nel mio, nel nostro 
grande teatro...»
Ricciardi si guardò attorno, per registrare il maggior numero di particolari. La porta che il 
sovrintendente aveva indicato per ultima era stata scardinata. A terra c'erano frammenti di 
legno e la serratura ancora chiusa pendeva quasi completamente divelta. Lo stipite recava 
danni visibili; la porta era stata forzata dall'esterno, lo si capiva dalla posizione della maniglia 
e dal chiavistello deformato. Tutt'intorno una folla variopinta: il commissario vide pagliacci, 
popolane in costume regionale siciliano, contadini calabresi, Arlecchino, Colombina. Sentì 
insorgere un consistente mal di testa. Inoltre l'ambiente era eccessivamente caldo e lui 
indossava il pesante soprabito.
«Chi ha sfondato la porta?», chiese.
«Io», rispose un uomo grande e grosso, coi capelli rossi e l'aria arruffata. «Sono il direttore 
di scena, Giuseppe Lasio».
«Chi vi ha avvisato?»
«Noi: eravamo venute a portare il costume. Abbiamo bussato per cinque minuti, abbiamo
      chiamato, ma nessuno ci ha risposto». A interloquire era stata una donna imponente, di mezza 
età, con un grembiule blu e un paio di grandi forbici appese al collo con un nastro; al suo 
fianco, una ragazza reggeva a fatica una gruccia sulla quale era appeso un costume da 
pagliaccio, molto colorato e ampio.
«Che nessuno si muova, fin quando esco dalla stanza. Maione, provvedi».
Maione sapeva bene cosa fare: si avvicinò alla porta scardinata, si affacciò all'interno della 
stanza,  verificò  che  non  ci  fosse  nessuno  e  disse:  «Fatevi  tutti  indietro.  Commissa', 
accomodatevi».
Ricciardi avanzò verso la porta, abbassò lo sguardo ed entrò.
Don Pierino, a metà di Cavalleria rusticana, era piacevolmente sorpreso. L'opera era di fatto 
un contorno, anzi un antipasto di Pagliacci per la presenza del grande Vezzi. Il viceparroco, 
come molti altri, era così ansioso di assistere all'esibizione del tenore che avrebbe invertito 
l'ordine canonico delle rappresentazioni; invece, con suo stupore, i cantanti di  Cavalleria 
stavano fornendo una prestazione notevole. Il tenore che interpretava compare Turiddu, il 
soprano nel ruolo di Santuzza e soprattutto il baritono, compare Alfio, sembravano in gran 
forma e vogliosi di non sfigurare al cospetto di tale interprete. Anche l'orchestra si stava 
dimostrando all'altezza e l'esecuzione, giunta al coro dopo l'intermezzo musicale, stava 
passando dal notevole al memorabile. Don Pierino era commosso per la musica struggente e 
non si accorse di essersi spostato, invadendo parte della stretta scala che portava alle quinte: 
quando si sentì urtare alle spalle si voltò sorpreso.
«Vogliate scusarmi», bisbigliò distrattamente un uomo alto e grosso, infagottato in un 
ampio cappotto nero; portava un cappello a larga tesa e una sciarpa bianca.
«Scusate voi», rispose don Pierino, riparando in tutta fretta nella sua intercapedine. Aveva 
paura di essere scoperto e temeva di creare problemi al povero Patrisso. Ma l'uomo non 
sembrò dare importanza alla sua presenza e, scesi i rimanenti gradini, si diresse verso i 
camerini. Don Pierino lo seguiva con gli occhi: possibile che fosse... Infatti l'uomo, lanciando 
uno sguardo attorno, sostò un istante fuori della porta al cui esterno era affissa una targhetta: 
Arnaldo Vezzi. Disse qualcosa e si infilò nel camerino. Per poco il prete non svenne: aveva 
urtato il più grande tenore del pianeta! Sospirò sorridendo e rivolse di nuovo l'attenzione alla 
scena, dove compare Turiddu stava proponendo un brindisi, inneggiando al vino sincero.
Il camerino era freddo, questo Ricciardi lo notò subito. Rivolse lo sguardo verso il 
finestrone e si accorse che era socchiuso, a lasciar entrare spifferi di vento gelido e l'odore 
dell'erba umida dei giardini reali. Le lampadine che sormontavano la specchiera erano accese 
e illuminavano a giorno la piccola stanza. C'era sangue dappertutto. Il cadavere era sulla sedia 
di fronte allo specchio, chino sulla mensola, con le spalle alla porta. In realtà lo specchio era 
completamente frantumato, fatta esclusione per la parte superiore, schizzata di sangue. Il 
vetro era ovunque.
Il cadavere poggiava la testa sulla mensola, dalla parte della guancia sinistra; dalla gola, 
sulla destra, sporgeva un grosso frammento di specchio, che rifletteva un occhio vitreo e la 
bocca distorta, dalla quale usciva un filo di bava. Ricciardi sentì cantare, a voce sommessa:
Io sangue voglio, all'ira m'abbandono, 
in odio tutto l'amar mio finì...
Sul lato visibile della faccia lo spesso strato di cerone era rigato dalla traccia di una lacrima. 
Il commissario si girò e vide, nell'angolo tra lo stipite della specchiera infranta e la parete, 
l'immagine di Arnaldo Vezzi in piedi, anche se lievemente piegato sulle ginocchia; il viso 
coperto di trucco, la bocca ridente da pagliaccio. Lacrime finte sugli occhi, lacrime vere lungo 
le guance. La mano destra a palmo aperto, tesa in avanti come a voler allontanare qualcuno, e
      fiotti di sangue denso che il cuore morente andava pompando fuori, attraverso lo squarcio sul 
lato destro del collo. Ricciardi fissò lo spettro a lungo, calmo: gli occhi spenti lo guardavano 
senza vederlo, la bocca articolava il canto e il torace non muoveva più respiro. Il commissario 
rivolse ancora uno sguardo al cadavere. L'ultimo canto del pagliaccio, solo per lui, che l'opera 
neppure la capiva. Si volse verso la porta e uscì.
      7
Don Pierino, estasiato, osservava il pubblico in piedi tributare un'ovazione alla compagnia 
che aveva appena concluso Cavalleria rusticana; era particolarmente fiero, perché con la solita 
modalità dell'ingresso laterale il giorno prima aveva assistito alle prove e si era affezionato 
agli interpreti. Non c'erano primedonne, ma solo giovani di talento e qualche professionista 
modesto e alla mano: tra loro si coglieva un certo affiatamento ed era stato piacevole notare 
come il cameratismo e il reciproco rispetto avevano generato il successo di quella sera.
La compagnia era composta per la massima parte da artisti locali; e si prestava a riempitivo 
dei “buchi” che la stagione a volte subiva, per malattie o infortuni di protagonisti affermati: 
una volta avevano allestito La Traviata in una settimana, per l'annullamento di un Lago dei 
cigni a seguito della distorsione alla caviglia della prima ballerina. Stavolta però, pensava don 
Pierino, avevano davvero superato se stessi.
Mentre si godeva la seconda chiamata di tutti gli interpreti che, tenendosi per mano, si 
inchinavano al pubblico, sentì alle sue spalle, proveniente dai camerini, un alto urlo di donna.
Il prete era abituato a dare ascolto alle emozioni, nella fresca oscurità del confessionale, e la 
lunga appassionata frequentazione della lirica gli aveva educato l'orecchio ai toni dei diversi 
stati d'animo. Non ebbe dubbi nel riconoscere l'orrore, lo sgomento. Si girò e si lanciò verso 
l'urlo, col cuore in gola. Davanti al camerino di Vezzi si stava già raccogliendo una piccola folla.
Ricciardi si guardò attorno e parlò senza rivolgersi a nessuno in particolare.
«Adesso, io vado in quell'ufficio», indicando la piccola stanza del direttore di scena, «e uno 
alla volta il brigadiere Maione farà entrare chi gli dirò. Nessuno può andare a casa, nessuno 
può lasciare il teatro. Nessuno può entrare in questo camerino, se non convocato. Non potete 
rimanere qui, dovrete ritirarvi da qualche parte... sul palcoscenico: sarete riuniti tutti sul 
palcoscenico, finché non avremo finito. Per il resto, che il teatro venga sgombrato da tutti 
quelli che non potevano avere accesso a questa zona: il pubblico, il personale all'ingresso. Le 
guardie, comunque, prenderanno le generalità di tutti».
Il sovrintendente era paonazzo dalla rabbia e balbettando si alzò sulla punta dei piedi.
«Questo affronto... è inconcepibile. A questa zona del teatro l'accesso è altamente ristretto e 
selezionato. E poi... ma voi lo sapete chi c'era in platea, stasera? E si dovrebbero prendere le 
generalità del signor Prefetto, dei principi, dei gerarchi... Io esigo, pretendo il rispetto dei 
ruoli».
«Il mio ruolo è scoprire un assassino. Il vostro, signore, in questa circostanza, è favorire il 
mio operato. Un diverso atteggiamento costituirebbe un reato, e verrebbe perseguito. 
Regolatevi».
La voce di Ricciardi era un sibilo, gli occhi verdi piantati in faccia al sovrintendente senza 
un battito di ciglia. L'ometto sembrò sgonfiarsi, i tacchi atterrarono sul pavimento in silenzio. 
Abbassò lo sguardo e farfugliò: «Me ne occuperò subito. Ma mi farò sentire nelle sedi 
adeguate».
«Fate come credete. Ora andate».
Impettito, alla ricerca di qualche traccia della dignità perduta, il sovrintendente si girò e si 
avviò verso il palcoscenico seguito dai presenti e dal mormorio dei loro commenti.
L'ufficio del direttore di scena era minuscolo, quasi interamente occupato da una scrivania 
su cui poggiavano in disordine disegni, appunti, pagine di copioni annotate a mano. Ai muri 
locandine di spettacoli. Due sedie davanti alla scrivania, una dietro. Luce e aria da una piccola 
finestra in alto. Ricciardi sentì per primo lo stesso direttore di scena, Giuseppe Lasio, l'uomo 
arruffato che aveva sfondato la porta del camerino di Vezzi.
«Qual è esattamente il vostro ruolo?»
«Sono il responsabile della scena. In pratica, tutto quel che riguarda il palcoscenico è sotto 
la mia direzione. I tecnici,  l'entrata e l'uscita degli attori, gli impianti. Tutto ciò che non è
      artistico; l'organizzazione, insomma».
«Cosa è successo, stasera? Vi prego, riferitemi tutto: anche i particolari che vi sembrano 
insignificanti».
Lasio corrugò la fronte sotto la massa dei capelli rossi.
«Eravamo dopo l'intermezzo di Cavalleria, stavamo curando l'uscita dopo il brindisi. È una 
scena corale, tutta la compagnia è in palcoscenico: gli arredi erano pronti, il fondale era a 
posto. È venuta la signora Lilla a chiamarmi all'ingresso del palcoscenico».
«La signora Lilla?»
«Letteria Galante, ma noi la chiamiamo `signora Lilla'. Dirige la sartoria del teatro, per i 
primi attori si occupa direttamente della consegna del costume di scena. L'avete vista, è quella 
donna... grande. Siciliana, d'origine. Molto, molto brava. Comunque, è venuta e mi ha detto: 
`Direttore, Vezzi non apre la porta. Abbiamo bussato, abbiamo chiamato, ma non risponde'».
«Abbiamo?«
«Sì, era con una ragazza della sartoria. Sono in trenta, non le conosco tutte. Portavano il 
costume di Canio, quello da pagliaccio che poi voi stesso avete visto in mano alla ragazza. Io 
sono sceso, in fretta, i tempi non sono lunghi tra la fine di Cavalleria e l'inizio di Pagliacci, e 
Vezzi è... era... non sempre, come dire, preciso e puntuale. A volte spariva e bisognava cercarlo 
in giro per il teatro o addirittura fuori. Era un grande, sapete: il più grande di tutti, in scena. 
Ma fuori, a volte, difficilmente governabile. Di quelli che vanno per i fatti loro, e tutti si devono 
adattare. Privilegi del talento».
«E stasera era uscito? L'avete visto uscire?»
«No, io no. Ma devo muovermi molto, quindi potrebbe essermi sfuggito.. In ogni caso sono 
sceso al camerino e mi sono reso conto che la porta era chiusa a chiave. Non succede mai. I 
cantanti, e Vezzi soprattutto, non si alzano durante il trucco per aprire la porta. Mi sono 
preoccupato».
«E che avete fatto?»
«Dopo aver chiamato anch'io, ho pensato che Vezzi potesse essersi sentito male e con un 
calcio ho sfondato la porta. Ho fatto la guerra, a certe scene sono abituato. Ma tanto sangue 
tutto insieme, non lo avevo mai visto. Dietro di me è entrata la signora Lilla e ha urlato. Poi, 
tutti correvano avanti e indietro. Io ho preso un operaio e vi ho fatto chiamare. Ho fatto 
bene?»
«Certo. Dopo di voi nel camerino è entrato qualcun altro?»
«No. Certamente no. Ho aspettato io stesso vicino alla porta che voi arrivaste. Ho fatto la 
guerra, vi ho detto. Lo so come si deve fare».
«Un'ultima cosa. Il camerino era chiuso a chiave, abbiamo detto. Io però la chiave non l'ho 
vista, né all'interno né all'esterno. L'avete rimossa voi?»
Lasio si passò le mani tra i capelli rossi, arruffandoli ancora di più, nel tentativo di 
ricordare.
«No, commissario. La chiave non c'era, né all'esterno né all'interno, ora che mi ci fate 
pensare».
«Grazie. Potete uscire, ma non andatevene; potrebbero servirmi altre informazioni. Maione, 
fai passare le due sarte».
La signora Lilla entrò come un veliero e riempì l'ufficio. Era bionda, gli occhi azzurri 
penetranti. Dietro di lei la ragazza, che per contrasto sembrava ancora più piccola e magra, 
con addosso un camice di almeno una taglia più grande. Il donnone incrociò le braccia e 
guardò Ricciardi, bellicosa.
«Che significa, `nessuno può lasciare il teatro'? Che pensate, che siamo stati noi? Guardate 
che noi qua ci lavoriamo, non veniamo a fare schifezze. Siamo gente onesta».
«Nessuno dice niente. Sedetevi e rispondete alle domande. Ditemi quello che è successo».
La donna si sedette pesantemente, con un sospiro, come se, con quella premessa, si fosse 
tolta un peso dallo stomaco e ora potesse parlare in maniera più urbana. O forse perché la  
personalità determinata del commissario, che proveniva a ondate dagli occhi verdi, non si
poteva contrastare.
«Noi li portiamo prima, i costumi. Assai prima. I cantanti normali se li provano, chiedono gli
aggiusti se servono, poi basta. Questo invece, venti prove vuole. Una volta è corto, una volta è
lungo. Largo, stretto. Il bottone sopra il colletto non chiude. Una croce. Noi stiamo al quarto
piano, commissa'. Se ci fate l'onore, lo vedrete voi stesso come stiamo combinate, trenta di noi.
D'estate non si respira dal calore: col carbone dei ferri per stirare, a pedalare vicino a quelle
macchine. Nemmeno il fresco degli alberi dei giardini arriva là sopra. D'inverno invece
dobbiamo cucire coi mezzi guanti e, con tutte le stufe, stiamo piene di geloni. Però non ci
lamentiamo, è vero Maddale'?», rivolgendosi alla ragazza, «perché il lavoro è lavoro e il lavoro
nostro noi lo facciamo bene. Il San Carlo è famoso in tutto il mondo, pure per i costumi; e i
costumi siamo noi. Comunque, quando c'è Vezzi si sale e si scende in continuazione. Quattro
piani, cariche di pezze di stoffa. Ma, come Dio vuole, finalmente il vestito del pagliaccio era
pronto, pure l'ultimo aggiusto, stasera stessa era stato fatto. Ho voluto scendere io, con
Maddalena qua, per vedere se stavolta gli andava bene. E abbiamo trovato la porta chiusa».
Ricciardi stava pensando che non avrebbe voluto trovarsi al posto del tenore, nel caso il
costume avesse avuto ancora bisogno di modifiche. Poi, ripensando alle attuali condizioni di
Vezzi, si rese conto che la sua preoccupazione era inutile.
«Che avete fatto, quando avete capito che la porta era chiusa?»
«Abbiamo chiamato il direttore Lasio per vedere che dovevamo fare. Se no la colpa poi era
nostra, se lo spettacolo cominciava con ritardo. Lui è venuto e abbiamo aspettato dietro la
porta».
«E lui?»
«Lui ha bussato, ha chiamato e poi ha sfondato la porta con un calcio. Quello è un uomo!»,
disse, all'improvviso civettuola: Ricciardi rimase sbalordito dal cambiamento. «Poi mi sono
affacciata e ho visto... sembrava la mattanza dei tonni, al paese mio... sono scappata fuori. E
basta».
«E voi, signorina..».
«Maddalena Esposito a servirvi, commissa'».
In ulteriore contrasto con la signora Lilla, la giovane parlava in tono sommesso e
guardando a terra. Pulita e ordinata nel suo camice blu, teneva le mani in grembo ed era ferma
sulle gambe, anche se molto pallida.
«Confermate tutto?»
«Signorsì, commissa'. Il maestro non era mai contento, noi abbiamo aggiustato il costume
tante volte. Poi sono scesa con la signora Lilla e la porta era chiusa. Non so dirvi nient'altro».
«Va bene, andate pure. Maione, il fotografo è arrivato?»
      8
I rilievi della polizia consistevano nelle fotografie del cadavere da diverse angolazioni. Solo
dopo era possibile rimuovere i reperti, che venivano conservati per le future indagini.
Ricciardi pretendeva di essere presente, sia per fissare un'ultima volta la scena del delitto sia
per evitare che, nel trambusto delle rilevazioni, fosse alterato un particolare, un elemento
necessario al suo lavoro. Quindi, uscendo dall'ufficio del direttore di scena, trovò il fotografo, il
tecnico della polizia e il medico legale che sudavano nei cappotti in attesa di poter accedere al
camerino. Salutandoli con un cenno del capo, entrò di nuovo al cospetto dei frammenti di
specchio, del morto e della sua immagine.
Il freddo del camerino era ancora più pungente, man mano che la serata si faceva più umida
e l'aria entrava dal finestrone socchiuso.
Ricciardi si affacciò, rilevando che in basso, a non più di due metri, c'era un'aiuola dei
giardini di Palazzo Reale. Incredibile, come a salire e scendere le scale di quel teatro si
perdesse il senso dell'altezza dal suolo. Rientrando, rimase abbagliato dal lampo al magnesio
della macchina fotografica: si stropicciò gli occhi, vedendo distintamente solo l'immagine del
tenore che ripeteva la sua strofa. Sapeva bene che non erano gli occhi che gli consentivano
quella percezione. Una volta rimesso lo sguardo a fuoco notò un particolare che prima gli era
sfuggito: sul divano basso, di fianco alla porta scardinata, c'era un cappotto nero con un
cappello a larga tesa. A terra, tra il divano e i piedi del cadavere, una sciarpa bianca di lana.
C'era qualcosa che non andava; che cosa? Ricciardi ci mise una frazione di secondo per
capirlo: tra tanto sangue, proprio in mezzo a una pozzanghera rappresa, la sciarpa era
immacolata. Muovendosi rapido, il commissario alzò il cappotto e il cappello dal divano,
rilevando che i cuscini al di sotto erano impregnati del sangue del tenore. Tutti, tranne uno, a
righe blu e bianche, pulitissimo.
Il medico legale si aggirava attorno al cadavere, osservando e prendendo rapidi appunti su
un taccuino con la copertina nera. Quando i lampi fotografici ebbero termine, con l'aiuto del
tecnico spostò il corpo trasferendolo sullo spesso tappeto imbrattato di sangue; la maglia di
lana che Vezzi indossava al momento della morte ne era completamente impregnata. Ma
quanto sangue c'è nel corpo umano? E quanta anima, pensava Ricciardi ascoltando il canto del
pagliaccio, in piedi nell'angolo con la mano alzata. Farà prima questa macchia a sparire dal
tappeto o l'eco di questa romanza a uscire dalla mia testa?
Il medico era un professionista serio e coscienzioso che Ricciardi aveva apprezzato in altre
occasioni. Cinquantenne, aveva maturato una solida esperienza in guerra, in Veneto: era sul
Carso, tra il '16 e il '18, ed era stato anche decorato. Si chiamava Bruno Modo, ed era uno dei
pochissimi cui Ricciardi dava del tu.
«Allora, Bruno? Che mi dici?»
«Dunque: ferita da punta, squarcio della carotide. Morte per dissanguamento, e su questo
nessun dubbio. D'altra parte...», e indicò attorno, con un gesto ampio. «Piccola ecchimosi sotto
l'occhio sinistro, sullo zigomo. Un colpo, forse un pugno. A prima vista, nient'altro: non vedo
altri traumi, niente pelle sotto le unghie... le nocche delle mani, a posto... non ci sono strappi
nel cuoio capelluto...». Mentre parlava si aggirava attorno al cadavere steso a terra e lo
osservava attraverso gli occhiali che teneva sulla punta del naso, alzandogli di tanto in tanto
una mano o spostandogli i capelli. Con delicatezza, però, con rispetto. Perciò a Ricciardi
quell'uomo piaceva.
«Quando, secondo te?»
«Ah, non molto. Un paio d'ore, direi, forse anche meno. Ma ti saprò dire dopo, in ospedale».
Dopo, in ospedale. Quando di te, pensò Ricciardi guardando il morto, saranno rimasti dei
poveri pezzi ricuciti alla meglio e un verso di romanza d'opera cantata nel buio. Hai finito di
lamentarti per il costume. Il prossimo, l'ultimo, te lo cuciranno addosso senza rispetto.
«Senti,  Bruno.  Il  modo...  scusa,  l'arma»,  si  corresse,  con  un  sorriso  sghembo,  per
      l'involontaria confusione col cognome del medico, «può essere una scheggia dello specchio?»
«Non parlerei di arma: mi sembra impossibile manovrare un pezzo di vetro così tagliente
senza ferirsi e non vedo tracce di sangue sulla possibile impugnatura. Sono più del parere che
ci sia caduto sopra, di peso. Guarda quanto è spesso e appuntito. Ci sta, può essere: prende il
pugno e va a finire nello specchio. È un omaccione, guarda com'è pesante, alto e grosso».
Maione, rispettoso, interloquì.
«Dotto', si capisce come ha sbattuto? Cioè, vedete per caso come è andato a finire nello
specchio?»
«No, brigadie', non vedo altre ecchimosi. Ma non significa, può aver dato una gomitata, una
spallata. Ha la maglia di lana pesante, può aver attutito il colpo. E poi è caduto sulla sedia ed è
morto. Non ci vuole molto con questa ferita: questione di secondi. Guardate qua, ha inondato
una stanza».
Ricciardi lanciò di sfuggita uno sguardo all'immagine del tenore, lievemente piegata sulle
ginocchia e con la mano alzata. E con quella mano che hai rotto lo specchio? E perché piangi,
poi? Non sei un pagliaccio?
«Vabbè, se avete finito qua, andiamo in palcoscenico».
L'ingresso di Ricciardi e Maione fu salutato da un coro e, in fondo, il posto era quello giusto;
ma il coro era di veementi proteste. Chi voleva sapere se era in arresto, chi lamentava che la
famiglia  aspettava,  chi  aveva  fame,  chi  freddo;  ognuno  chiedeva  perché  fosse  ancora
trattenuto. Ricciardi alzò piano una mano e ci fu silenzio.
«Calma. Adesso vi mando a casa. Prima vi devo vedere, devo capire chi siete. Tutti quelli
che vanno in scena, spostatevi a destra. Il personale, i tecnici e l'orchestra, a sinistra».
Ci fu un attimo di disordine: era una coreografia non preparata. Qualche urto, un po' di
mugugni irritati e si crearono due gruppi nutriti. Tre, per la verità: in mezzo era rimasto un
uomo in costume da prete.
«E voi? Decidetevi: non siete in costume di scena?»
«Ecco, commissario, non è un costume... Io sono don Pietro Fava, viceparroco di San
Ferdinando».
«E che ci fate qua? La vittima era già morta quando l'hanno trovata. Chi vi ha chiamato?»
«No, commissario, io... ecco, a dire il vero, mi sono intrufolato».
Ci fu una risata generale, un po' nervosa. Si fece avanti il direttore di scena, passandosi la
mano nei folti capelli rossi.
«Commissario, posso spiegare io, se mi permettete».
«Dite pure».
«Don Pierino, qui, è un vecchio amico, si può dire. È un amante dell'opera, un appassionato.
Lui pensa che nessuno lo sappia, ma da due anni, col mio permesso, Patrisso, il custode del
lato dei giardini, lo fa passare. Non dà nessun fastidio, si mette sul ballatoio della scala stretta
e guarda. Ci siamo abituati a vederlo, senza di lui ci sembra che manchi qualcosa. I cantanti, i
professori dell'orchestra lo tengono come portafortuna».
Un brusio di assenso e molti sorrisi confermarono le parole del direttore di scena. Don
Pierino, solo al centro del  palcoscenico tanto amato, era rosso di orgoglio, sorpresa e
imbarazzo.
«Allora», disse Ricciardi, «voi conoscete l'opera, eh? E anche il teatro. Però non siete né un
cantante, né un orchestrale, e neppure lavorate qua. Conoscete tutti, ma non conoscete
nessuno. Bene».
Poi si rivolse a tutti.
«Dunque, le guardie hanno preso le vostre generalità: non dovete allontanarvi dalla città,
per qualche giorno. Se qualcuno ha necessità di partire, viene in questura e ce lo dice. Se
qualcuno si sposta da una casa all'altra, viene in questura e ce lo dice. Se qualcuno ha qualcosa
da dire, se si è ricordato qualcosa, viene in questura e ce lo dice. Per ora, potete andare. Voi no,
padre. Con voi devo parlare un momento».
      Con un corale sospiro di sollievo, la gente si accalcò verso l'uscita: solo don Pierino era
rimasto al suo posto, con un'aria ora afflitta e preoccupata. Non che avesse qualcosa da
temere, ma, pensava, quelli erano tempi in cui avere a che fare con la polizia era sempre
brutto. Poi, si sentiva sinceramente addolorato per la morte di Vezzi. Pensava con rimpianto
alla sua voce, quella delicata prova dell'amore di Dio per gli uomini, quel regalo agli
innamorati dell'opera che non avrebbe sentito mai più, se non attraverso il gracchiante
grammofono che teneva nella sua stanzetta.
      9
Il commissario gli si avvicinò, sempre seguito, due passi indietro, dal brigadiere più
anziano. Don Pierino si era accorto che in pratica il corpulento militare non perdeva d'occhio
un attimo il suo superiore, guardandosi però attorno in continuazione, come a volersi
assicurare che non incombesse alcun pericolo. Doveva essergli molto affezionato.
Ricciardi invece gli dava un'emozione particolare. A vederlo da lontano era un uomo senza
caratteristiche evidenti: statura media, corporatura media, abbigliamento di medio valore. Ma
don Pierino ne aveva incrociato lo sguardo, quando era arrivato sulla scena del delitto. E
quegli occhi, quegli occhi avevano raccontato tanto. Don Pierino, abituato a cercare e trovare
la verità dietro l'espressione, aveva avuto l'impressione di affacciarsi su un panorama
multiforme.
C'era dolore: un dolore vecchio ma sempre vivo. Un dolore che era un antico compagno.
Solitudine. Intelligenza e una vena di ironia, di sarcasmo, col sovrintendente che gli balbettava
vicino. Era stato solo un attimo, ma il prete aveva intuito una personalità complessa e
travagliata.
Ora se lo trovava di fronte: senza cappello, una ciocca dei capelli neri che gli cadeva sul
naso affilato. Le mani nelle tasche del soprabito, che nonostante il caldo non aveva tolto. E poi
gli occhi: verdi, quasi trasparenti. Non sbatteva mai le palpebre, la fronte lievemente
corrugata. Solitudine e dolore, ma anche ironia.
«Allora, padre: fuori territorio, stasera?»
«Perché, un prete va per territori? Non l'ho mai visto, io, un territorio in cui non servisse un
prete. No, stasera non esercitavo, se è questo che volete sapere. Ma ero comunque in divisa,
come vedete».
Ricciardi fece una smorfia che voleva essere un sorriso e abbassò un attimo lo sguardo.
Quando lo sollevò di nuovo la fronte era spianata, ma l'espressione non era cambiata.
«Certe divise, le indossi o non le indossi, è la stessa cosa: ce le hai sempre. Voi, io. Sempre
con la divisa addosso».
«L'importante è non fare paura, con la divisa. Ci si deve sentire rassicurati, a vederla. E per
non fare paura bisogna non avere paura».
Il  commissario  ebbe  un  lieve  sussulto,  come  se  all'improvviso  il  prete  lo  avesse
schiaffeggiato. Piegò lievemente la testa di lato e lo fissò con nuova considerazione. Dietro di
lui, due passi indietro, Maione spostò il peso da un piede all'altro. Il teatro, ormai vuoto,
ascoltava in silenzio.
«E voi, padre? Non avete mai paura?»
«Sì, quasi sempre. Però chiedo aiuto. Al Padreterno, alle persone. E ne vengo fuori».
«Bravo, padre. Bravo. Buon per voi. Ora, veniamo alle... dolenti note, si dice così? Questo è il
posto giusto. Così, voi conoscete l'opera e questo ambiente. Mi potete aiutare: io non conosco
né l'una, né l'altro. Fareste un accordo, con un poliziotto?»
Ancora sarcasmo. Senza un sorriso, un ammiccamento. Sempre con quei pezzi di vetro
verde fissi negli occhi.
«Un prete non fa accordi, commissario. Non è proprietario della propria sincerità. Ma non
fa delazioni. Non porta spia a nessun povero disgraziato».
«Ah, capisco. Meglio che, magari per omissione, vada in galera, il povero disgraziato. E che il
colpevole vero rimanga per strada, per farne un altro, di delitto. Avete ragione, padre. Vuoi
dire che mi cercherò altri aiuti».
Maione era sorpreso: raramente aveva sentito Ricciardi parlare così a lungo. Non aveva
capito bene il dialogo, ma sentiva che il commissario si era ulteriormente incupito: lo capiva
dall'irrigidimento  della  schiena,  dalla  posizione  del  capo.  Quel  piccolo  prete,  dall'aria
tranquilla e pacata, che si dondolava sulla punta dei piedi con le mani intrecciate sulla pancia,
lo stava mettendo in difficoltà. Come un cane da caccia ansioso di partire sulle piste della
      preda, il brigadiere sentiva che stavano solo perdendo tempo. Comunque, a casa c'era il
cognato e non era ansioso di tornare.
«No, commissario», disse don Pierino, «non volevo dire questo. Sì, vi darò qualsiasi
informazione vi serva; ma non chiedetemi, ora o dopo, di aiutarvi ad accusare qualcuno. La
vostra è la giustizia degli uomini. Io mi occupo di un'altra giustizia: quella che sa anche
perdonare».
«Non invaderò il vostro campo, padre. Non vi lascerei invadere il mio. Vi aspetto domattina
nel mio ufficio, in questura, alle otto. Vi prego, non tardate».
Senza aspettare la risposta, si girò e uscì. Maione guardò assorto il prete per un attimo, poi
seguì Ricciardi fuori dal teatro.
Nonostante fossero ormai le undici e fosse uscito dalla porta laterale, Ricciardi trovò ad
attenderlo uno stuolo di curiosi e giornalisti, incuranti del vento furioso che soffiava sotto il
portico. Maione passò avanti e, con fermezza, rimosse chi si parava di fronte al commissario
cercando di strappargli un commento per i giornali del pomeriggio. Lui non alzò nemmeno lo
sguardo, abituato com'era a ignorare i vivi e i morti che lo chiamavano, pur ascoltandoli
sempre.
Lungo il breve tragitto fino alla questura, si scambiarono poche parole: Maione aveva ben
chiaro il processo che le indagini avrebbero assunto a partire dall'indomani, con la definizione
delle ultime ore della vittima e gli interrogatori di eventuali testimoni. Il brigadiere conosceva
il modo di operare del commissario, che cercava con cura maniacale i possibili moventi, le
situazioni, le parole che potevano metterli sulla strada giusta. Sarebbero stati giorni faticosi:
sperava che almeno il cognato, a quell'ora, fosse andato via.
Arrivati al palazzo della questura, Ricciardi salutò Maione con un cenno del capo e
cominciò a risalire via Toledo. Il passo era veloce, la testa incassata, il vento alle spalle. La
città, che a quell'ora in altre stagioni aveva ancora canzoni e voci, quella sera era già
silenziosa. Carte e fogli di giornale turbinavano nella strada, nei fasci di luce ondeggianti dei
lampioni sospesi ai fili dell'elettricità. I suoi passi risuonavano sulle pietre del marciapiede,
facendo da contrappunto al saltuario ululato del vento nell'andito di qualche bottega o nei
portoni degli antichi palazzi. Il morto di piazza Carità gli notificò nuovamente che non avrebbe
lasciato al ladro la sua roba, continuando a perdere sangue e materia cerebrale. Ricciardi non
lo degnò di uno sguardo.
Rifletteva: la finestra aperta, con quel freddo e nel camerino di un uomo che doveva stare
attento alla propria voce e ai colpi d'aria. Non aveva senso. Il cappotto pulito sopra il divano
sporco di sangue. Non aveva senso. La sciarpa bianca a terra, immacolata. Non aveva senso. Il
cuscino a righe, l'unico senza una macchia di sangue. Non aveva senso. La porta chiusa. Non
aveva senso. E se l'insieme di tutto questo avesse avuto un senso? Il bambino all'angolo di via
Salvator Rosa gli chiese se poteva scendere a giocare, col suo povero scheletro straziato.
L'immagine cominciava a sbiadire, forse sarebbe scomparsa e avrebbe dormito in pace.
Ricciardi si augurò che fosse presto.
Era arrivato a casa.
      10
Rosa Vaglio aveva settant'anni. Era nata assieme all'Italia, ma non se n'era accorta, né allora
né dopo: per lei la patria era sempre stata la Famiglia, di cui era custode forte e decisa. Era
entrata a casa Ricciardi di Malomonte che ne aveva quattordici, di anni: era la decima di dodici
figli e la baronessa l'aveva scelta senza esitazioni.
Ricordava quel giorno come se fosse ieri: la donna alta e bionda, sorridente, che contrattava
col padre il suo prezzo. Era stata amica del figlio, di poco più grande, finché questi era andato
a studiare a Napoli, dove era rimasto per molti anni. Rosa aveva un'intelligenza viva e presto
era diventata un punto di riferimento per tutti, nella grande casa padronale di Fortino: alla
morte del vecchio barone prima e della baronessa poi, aveva mandato avanti le cose come se
da un momento all'altro dovessero ritornare da un viaggio.
Invece era tornato il figlio, ormai quarantenne, con la sua sposa bambina. Affaccendata in
cucina, la sera di quel venticinque marzo del '31, sospirando per l'ennesimo ritardo con cui la
cena sarebbe stata consumata, dedicò un rapido sorriso a quel pensiero: la sua bambina. In
realtà aveva già vent'anni, la piccola signora Marta. Ma sembrava proprio un'adolescente,
minuta, sottile, bruna, gli occhi tanto verdi da scavarti nell'anima. E tutto quel dolore.
Si era chiesta tante volte, Rosa, da dove venisse quel dolore negli occhi della giovane
baronessa: aveva tutto quello che voleva, agio, benessere, un marito innamorato. Ma nelle
lunghe passeggiate in cui l'accompagnava attraverso la campagna di Fortino, tra i contadini
che smettevano di lavorare e si toglievano il cappello e l'odore pungente delle capre, lei
sentiva il dolore camminare con loro, un passo indietro. Forse ricordi, o rimpianti. Parlava
poco, la baronessa Marta. Ma le sorrideva, con tenerezza, e le accarezzava il viso, qualche
volta: come se li avesse lei, vent'anni in più.
Rosa ricordava la mattina di ottobre dell'ultimo anno del secolo, quando seduta sulla
panchina in terrazza a ricamare, aveva alzato lo sguardo verde su di lei e le aveva detto:
«Rosa, da domani dobbiamo cucire lenzuola da culla». Così, semplicemente. Da allora, era
diventata tata Rosa e lo sarebbe stata per tutta la vita.
«Lo sai che non voglio che mi aspetti alzata. È tardi per te, dovresti già dormire».
Ricciardi sentiva il caldo della casa fluire un po' alla volta nelle ossa scosse dal vento.
L'odore della legna nella stufa e quello della cucina, aglio, fagioli, olio. La luce dell'abat-jour,
vicino alla sua poltrona, il giornale sul bracciolo. In camera, la vestaglia di flanella, le pantofole
di cuoio morbido, la retina per i capelli. La mia tata, pensò.
«E già: io me ne vado a dormire e vi lascio digiuno. Che, non lo so che ve ne andreste a letto
senza mangiare? Che vi  mettereste sempre lo stesso vestito e la stessa camicia, se non ve li
preparo io sul letto? Non è una cosa normale, a trent'anni senza una femmina vicino. Di questi
tempi, poi, che un altro poco e gli scapoli li arrestano proprio. Con tante belle ragazze, là fuori.
E a voi che vi manca? Siete bello, ricco, giovane, di prestigio. Così, a me mi mettete in un
ospizio e cominciate a campare, una volta buona».
Ecco: l'aveva detto. Nel sedersi a tavola, stette molto attento a non sospirare: avrebbe dato
luogo a un'interminabile tirata e lui aveva un appuntamento per il quale era già molto in
ritardo.
Rosa lo guardava mangiare, come un lupo, al solito. Chino sul piatto, a bocconi rapidi,
silenziosi. Pensava che anche quello si negava, il gusto di assaporare. Non assaporava mai
niente, né il cibo né altro. In lui diventava evidente il dolore che nella mamma era nascosto. Gli
stessi occhi verdi. Lo stesso dolore. Lo aveva accudito tutta la vita, le notti di febbre, la
solitudine. Negli anni del collegio lo aveva atteso per le vacanze, per le feste, per le domeniche,
facendogli trovare le cose che gli piacevano senza che lui le chiedesse. Sentiva il rumore dei
suoi pensieri, anche se non sapeva quali fossero. Era stata la sua famiglia e lui era diventato la
sua ragione di vita: avrebbe dato un braccio per vederlo ridere, almeno una volta. Avrebbe
      voluto saperlo sereno, senza quella distanza dagli altri e dal mondo che girava veloce, e lui che
lo guardava da lontano con le mani in tasca e una ciocca di capelli sul viso. Senza sorridere,
senza dire niente. Eppure, che gli mancava?
Si intenerì, materna: le sembrava tornato bambino, mentre mangiava assorto. Gli erano
sempre piaciuti, i fagioli.
A Ricciardi i fagioli non erano mai piaciuti, ma non avrebbe deluso la tata, e poi stasera
aveva fame, forse per il freddo che sentiva nelle ossa. Ripensò alla scena del delitto. Se il
cappotto e la sciarpa erano stati portati nel camerino dopo la morte di Vezzi, chi li aveva
portati? E perché? Gli unici che avevano ammesso di aver visto il camerino dopo il delitto
erano stati Lasio, il direttore di scena, la sarta Lilla e la sartina. Raccogliendo il sugo col pane,
Ricciardi ricordò l'espressione affascinata del donnone nei confronti del direttore di scena:
possibile che fossero d'accordo? E la sartina, quella Esposito, era d'accordo anche lei? No,
troppa gente. E troppo sangue: l'omicidio non era stato preparato, di questo era certo. E la
finestra aperta? E il cuscino piccolo, a righe? Tante domande e il Fatto non lo aiutava.
Succedeva spesso: quello che sentiva dalla vittima poteva anche essere fuorviante, indurre
all'errore. Era un'emozione, un sentimento, non un messaggio elaborato razionalmente. Una
sofferenza, rabbia, odio, anche amore.
Un bicchiere di vino rosso, un altro: dopo ogni nuova morte aveva difficoltà a dormire. Gli
rimaneva come una vibrazione in petto, un'aspettativa. Forse passava a lui la paura di morire,
del momento estremo. Paura di che? Pensò lui. Finché sei vivo la morte non c'è, se c'è lei tu
non ci sei più. Ma la incontri, però, aveva detto diciassettenne al gesuita in collegio. Ma dopo
c'è Dio, aveva risposto quello.
C'è Dio? Sorseggiando il vino, Ricciardi pensò allo strano prete che aveva incontrato al
teatro; risposte sagaci, occhi brillanti. Gli sembrava un brav'uomo. Un altro che pensava che
c'era Dio. E dov'era Dio per lui, quando vedeva l'immagine del dolore e ne sentiva l'eco?
Toccava a lui solo dare pace a quel dolore?
Ricciardi si alzò da tavola, altrimenti la tata sarebbe rimasta lì in piedi a guardarlo bere per
tutta la notte, senza cominciare a sparecchiare. La baciò con tenerezza sulla fronte e andò in
camera da letto, incontro al suo appuntamento.
      11
La donna bionda camminava lungo i muri di piazza Carolina, salendo verso via Gennaro
Serra. Il vento freddo che veniva dal mare la spingeva, ma il suo passo non era svelto;
contrariamente ai rari passanti che si affrettavano per raggiungere il calore di casa, lei non
aveva nessuna voglia di trovarsi di fronte a quello sguardo che le scavava dentro, alla ricerca
dei suoi sentimenti nascosti.
Era diventata brava a dissimulare. A nascondersi. Doveva evitare che si sapesse, che
diventasse noto a tutti quello che era successo. Nelle luci incerte dei lampioni, camminando
sempre più lentamente, sentiva le mani del suo amante sul corpo; ne ricordava il volto, il tono,
il fiato corto. Ripensava alle parole che si erano detti, alle promesse, ai progetti. Come era
potuto accadere?, si chiedeva. E ora, come avrebbe nascosto agli occhi del suo uomo che aveva
amato un altro, e che con lui aveva sognato di partire?
Si passò la mano sul volto, sotto il cappello che le nascondeva i bellissimi occhi. Lacrime.
Stava piangendo. Doveva controllarsi, non era lontana da casa: intravedeva la mole scura della
chiesa di Santa Maria degli Angeli, in cima alla salita di Pizzofalcone. Tra poco si sarebbe
trovata di fronte all'uomo che l'amava così tanto da conoscere i suoi pensieri. Era pentita.
Soffriva per lui, per il tradimento. Doveva fare in modo che nessuno sapesse, doveva
difenderlo dallo scandalo. Allungando il passo, si chiese di nuovo cosa sarebbe successo.
Come ogni sera, Ricciardi chiuse la porta della sua stanza dietro di sé; prima di coricarsi
l'avrebbe socchiusa, per sentire il respiro pesante di tata Rosa ed essere rassicurato dalla sua
regolarità. Indossò la veste da camera, mise la retina sui capelli. Si avvicinò alla finestra, le luci
spente: scostò le tende. Lo spicchio di cielo, reso terso e limpido dal forte vento del nord,
mostrava quattro stelle luminose; ma non era dalle stelle che Ricciardi voleva essere
illuminato.
La luce che gli premeva era quella di una fioca lampada su un tavolino, dietro la finestra
corrispondente alla sua nel palazzo di fronte. Il tavolino era di fianco a una poltrona su cui
sedeva una giovane donna intenta a ricamare: un angolo intimo nel vasto locale della cucina.
Ricciardi sapeva che si chiamava Enrica ed era la prima di cinque figli di un commerciante di
cappelli; una famiglia numerosa: una delle sorelle di Enrica, sposata e madre di un bambino
piccolo, abitava con il marito nel medesimo appartamento. La giovane ricamava con la mano
sinistra, assorta; portava gli occhiali cerchiati di tartaruga. Di lei Ricciardi sapeva anche che
piegava un po' la testa quando era concentrata; aveva i gesti fluidi e aggraziati, anche se
quando discuteva non sapeva dove mettere le mani; era mancina; inoltre all'improvviso
rideva, quando giocava coi fratellini o il nipotino; e qualche volta piangeva, quando era da sola
e pensava che nessuno la vedesse.
Non c'era sera che lui non passasse un po' di tempo alla finestra, a vivere di riflesso la vita
di Enrica: l'unica vacanza che concedeva al suo animo straziato. La vedeva a cena, serena e
amabile con la sua famiglia, sedere alla sinistra della madre. Ascoltare la radio, con
espressione attenta e raccolta, o un disco al monumentale grammofono, rapita e con un
accenno di sorriso. Leggere con il capo piegato, umettando il dito per girare la pagina.
Discutere, quieta e testarda a sostenere le proprie ragioni. Non le aveva mai parlato, ma non
c'era nessuno, di sicuro, che potesse conoscerla meglio di lui.
Non le aveva mai parlato. Né pensava che sarebbe mai accaduto. Una domenica, non
potendolo fare la tata, era andato ad acquistare la verdura dall'ambulante che scendeva da
Capodimonte: aveva pagato, si era girato col fascio di broccoli sotto il braccio e se l'era trovata
di fronte, faccia a faccia. Ancora rabbrividiva al ricordo dello straordinario miscuglio di
piacere, imbarazzo, gioia e terrore che aveva provato: in seguito avrebbe rivisto centinaia di
volte, nel dormiveglia prima di addormentarsi o appena sveglio, il nero profondo di quegli
occhi. Era fuggito, col cuore che saltava in petto, un forte battito nelle orecchie. Senza voltarsi,
      perdendo broccoli lungo la via, gli occhi semichiusi per trattenere l'immagine di quelle gambe
lunghe e di quell'accenno di sorriso che aveva forse intravisto. E come potrei parlarti? Che
cosa ti potrei dare io, tranne la pena di vedermi eternamente esausto?
Nel piccolo cono di luce, Enrica continuava a ricamare inconsapevole.
Prima di abbandonarsi al sonno, Ricciardi ripensò al pagliaccio e al suo disperato ultimo
canto.
Io sangue voglio, all'ira m'abbandono,
in odio tutto l'amor mio finì...
Cosa induce un uomo in punto di morte a cantare? Stava preparandosi a entrare in scena?
Ripassando la parte? Perché piangeva? Ricordava bene il solco della lacrima sul cerone.
O forse il pianto aveva espresso un'emozione legata all'opera? E in questo caso, quale? Cosa
c'era, in questa rappresentazione, di particolare? Perché, mentre in scena si cantava da oltre
un'ora, il protagonista era ancora in camerino a truccarsi? Doveva capirne di più. Entrare nella
vita di Vezzi e nel suo curioso mestiere fatto di finzione. Avrebbe chiesto aiuto a quel prete.
E mentre il vento scuoteva le imposte, Ricciardi andò incontro a un confuso sogno, nel
quale una mano mancina ricamava davanti a un pagliaccio in lacrime.
      12
La mattina dopo il vento freddo non era calato d'intensità: nuvoloni neri e pesanti
correvano in cielo, lasciando che i raggi del sole illuminassero a tratti pezzi di città; come
fossero riflettori, puntati a caso per far risaltare particolari anche senza importanza. Lungo la
via per la questura, Ricciardi aveva visto uomini inseguire cappelli, bambini scalzi giocare a
barca a vela con i cenci con cui si coprivano, incuranti del freddo, e mendicanti infagottati
negli stracci cercare requie nei portoni dei palazzi per venirne scacciati da custodi intolleranti.
Ricciardi pensò a quanto potesse cambiare, la città, col cambiare del tempo. Nel vento
freddo e nella luce incerta, i vecchi palazzi brulicanti di vita diventavano grotte scure e i
cantieri delle nuove costruzioni sembravano monumenti alla solitudine e all'abbandono.
Giunto in ufficio, trovò all'ingresso l'usciere del vicequestore Garzo, il suo superiore.
L'ometto, un po' per il freddo, un po' per un evidente stato di ansia, batteva lievemente i piedi
per terra e si strofinava le mani.
«Ah, dottor Ricciardi; finalmente, mi stavo congelando, tira un vento... Il dottor Garzo vi
richiede nel suo ufficio, subito».
L'usciere si chiamava Ponte: era uno di quelli che del commissario aveva molta soggezione
e un po' di superstizioso timore. Evitava sempre di incrociarne lo sguardo e di trovarsi sul suo
cammino. Anche in quest'occasione guardava un po' a terra, un po' in cielo, un po' di lato,
gettando di tanto in tanto rapide occhiate al suo interlocutore. Ricciardi ne era infastidito, sia
perché sospettava la ragione di tanta agitazione, sia per la difficoltà di capire dalla sua
espressione di che cosa si trattasse.
«A quest'ora? Di solito ci sono solo io fino alle dieci, su questo piano. Va bene. Mi tolgo il
cappotto e vengo».
«No, dottore, per favore: il vicequestore ha detto: `Lo voglio immediatamente nel mio
ufficio'. Sta qua dalle sette e mezzo! Vi prego, dotto': quello se la piglia con me!»
«Ho detto che voglio togliermi prima il cappotto. Dovete aspettare, voi e il vicequestore.
Spostatevi, per piacere».
Di fronte al tono brusco e a quello sguardo tagliente, Ponte si spostò di fianco, con un
saltello. Ma si capiva che era profondamente a disagio. Ricciardi entrò con tutta calma
nell'ufficio, ripose il soprabito nell'armadio di legno scuro, si ravviò i capelli e seguì il
concitato usciere lungo il corridoio.
Angelo Garzo era un arrivista. Tutta la sua vita, non solo la carriera, era improntata a
questa pulsione; alle soglie dei quarant'anni mordeva il freno per avere in assegnazione una
questura, anche minore.
Pensava di possedere tutti i requisiti: bella presenza, ottime relazioni, una famiglia perfetta,
dedizione al lavoro, iscrizione al Partito e partecipazione a ogni iniziativa politica, attitudine a
compiacere i superiori e polso fermo coi sottoposti. Si considerava dotato di capacità
organizzative, era un presenzialista coscienzioso e costante, moderatamente mondano e, a
proprio giudizio, simpatico a sufficienza. Ma in realtà si trattava di un inetto.
Il cammino compiuto fino all'attuale posizione era stato di volta in volta segnato dalla
delazione, l'astuzia, il servilismo nei confronti dei superiori: e anche e soprattutto dall'abile
sfruttamento delle capacità dei sottoposti.
Fu quindi con questo spirito che accolse Ricciardi quando questi si affacciò alla porta,
accompagnato dall'usciere.
«Caro, carissimo Ricciardi! Vi attendevo con ansia! Prego, entrate». Aveva fatto il giro della
scrivania, perfettamente pulita da qualsiasi ingombro se non per un foglio, posto proprio al
centro. Fulminò con lo sguardo Ponte, sibilando: «E sì che avevo detto subito! Togliti di
torno».
Ricciardi entrò, gettandosi un rapido sguardo intorno. Pur essendo di dimensioni simili alla
sua, la stanza di Garzo si presentava ben diversamente. Molto ordinata, senza pile di rapporti
      e di vecchi faldoni, la grande libreria alle spalle della scrivania colma di austeri volumi sulle
leggi e il diritto, evidentemente mai sfogliati. Sull'ampio schienale della poltrona in pelle
marrone spiccava, in corrispondenza della testa, un morbido panno verde. Davanti alla
scrivania, due sedie in pelle rosso scuro con un piccolo cuscino. Un grande portafiori
sormontava un mobile basso aperto, nel quale si vedevano una bottiglia di cristallo e quattro
bicchierini da rosolio. Alle pareti, oltre ai due ritratti d'ordinanza, una lettera di encomio
ordinario conferito alla questura di Avellino, di cui Garzo si era indebitamente appropriato.
Sulla scrivania, a completamento del sottomano e del tagliacarte in pelle verde, la fotografia di
una donna non bella ma sorridente, con due bambini seri in vestito da marinaretto.
Di tutto quello sfarzo, Ricciardi invidiava solo la fotografia.
Nei corridoi si diceva che la moglie di Garzo fosse nipote del prefetto di Salerno e che da
quel matrimonio dipendesse gran parte della sua carriera. Comunque, pensò Ricciardi, nella
tua vita c'è un sorriso. Nella mia, solo una mano che ricama, osservata da troppo lontano.
Garzo, con la sua voce suadente e impostata, accompagnava con gesti fluidi il proprio
pensiero.
«Accomodatevi, prego. Sedete pure. Vedete, Ricciardi, io so bene quello che potete pensare:
che vi manca l'apprezzamento esplicito del superiore, che il vostro lavoro non sempre è ben
valutato, che non vi sono destinate le menzioni che vorreste. So bene anche che, in occasione
della splendida e rapida soluzione del delitto Carosino, vi sareste aspettato un encomio del
signor questore, che invece nell'occasione preferì rivolgere il proprio plauso all'intera squadra
mobile, attraverso la mia modesta persona. Ma, e questo vi deve essere sempre saldo nella
mente, la mia stima e la mia considerazione non vi vengono mai meno. E se dovesse crearsi
una  situazione  positiva,  vi  saprei  dimostrare  coi  fatti  quanto  io  apprezzi  la  vostra
collaborazione».
Ricciardi ascoltava, cupo, le mani in perenne movimento. Era consapevole di quanto
fossero false le parole di Garzo, che lo considerava una minaccia alla propria posizione. Il
vicequestore avrebbe fatto volentieri a meno di quello strano uomo silenzioso, gli occhi come
coltelli, senza un amico, mai una confidenza, che a quanto si diceva non aveva affetti né
particolari inclinazioni sessuali che lo rendessero più vulnerabile. Purtroppo era assai capace:
casi apparentemente intricatissimi, che lui non avrebbe saputo nemmeno leggere nella
propria interezza, venivano risolti da quell'individuo con abilità quasi soprannaturale. Come
se fosse vero quello di cui si mormorava in giro: che avesse un dialogo col diavolo in persona
che gli raccontava le proprie malefatte. Garzo pensava che, per riuscire a capire così bene il
crimine, bisognava essere un po' criminali. Per questo lui, una brava persona, non ne capiva
niente.
«Perché mi avete cercato?», tagliò corto Ricciardi.
Garzo sembrò quasi risentito dal fare brusco del commissario; ma fu un attimo. Riprese
subito a blandirlo, con tono conciliante.
«Giusto, giusto: non abbiamo tempo da perdere. Siamo uomini d'azione. Dunque, ieri sera
al San Carlo. Io non c'ero, situazioni di lavoro, indifferibili; non ho mai tempo per divertirmi
anch'io. Ho saputo del vostro tempestivo intervento, mi complimento, anche voi al lavoro a
quell'ora tarda. Col vostro milite, il brigadiere, come si chiama... Maione, sì. Com'è andata? So
che siete stato un po'... brusco, come dire. A volte, io lo so bene, non che non sia necessario.
Ma, diamine, c'erano il signor prefetto, il principe d'Avalos, i Colonna, i Santa Severina... non
c'era modo di evitare di prendere le generalità? Voi, Ricciardi, a volte siete troppo... diretto. Io
lo dico per voi: siete tanto bravo, dovreste essere più diplomatico, almeno con quelli che
contano. Ci sono state lamentele. Anche il sovrintendente, Spinelli. Un frocetto, ma con
amicizie importanti».
Ricciardi non aveva mosso un muscolo: aveva ascoltato in silenzio, senza un battito di
ciglia.
«Liberissimo di conferire l'incarico ad altri, dottore. Io lavoro così. Secondo le procedure,
      mi sembra».
«Ah, ma certamente! E io non mi sogno minimamente di assegnare ad altri l'incarico. Non
c'è nessuno che potrebbe risolvere meglio questo caso. È per questo, appunto, che vi ho
cercato così presto. A che punto siamo?»
«Cominciamo  stamattina.  Faremo  un  nuovo  sopralluogo,  sentiremo  i  testimoni.  Ci
lavoreremo, senza sosta».
«Ecco, bravo: senza sosta. Sarò franco con voi, Ricciardi. Si tratta di una cosa grossa, più
grossa di quanto noi possiamo immaginare. Questo cantante... Vezzi... nel suo campo era il
massimo, pare. Gli appassionati lo adoravano, un vero e proprio orgoglio nazionale. E in tempi
come questi, in cui l'orgoglio nazionale è un valore assoluto... Pare che lo stesso Duce lo
ammirasse e lo andasse ad ascoltare, quando cantava a Roma. Dicono che valesse quanto e più
dello stesso Caruso. E il fatto che la cosa sia successa qui, nella nostra città, ha gettato le
autorità nello sgomento. Ma, parliamoci chiaro, è anche un'opportunità. Se dovessimo trovare
il colpevole con la solita rapidità e con completezza, come sapete fare voi, insomma, questo
mi... ci porterebbe direttamente all'attenzione delle massime cariche dello Stato, Ricciardi. Lo
capite questo?»
«Capisco che c'è un morto, dottore. Un morto ammazzato; e un assassino che cammina
libero per la città. Ci vorrà il tempo che ci vorrà, come sempre, faremo tutto quello che si deve
fare, come sempre. Senza perdere tempo. Se non perdiamo tempo».
Stavolta Garzo non poté fare a meno di rilevare il freddo sarcasmo nelle parole del
commissario.
«Sentite, Ricciardi», disse aggrottando la fronte, «non ho intenzione di starmene qui a farmi
mancare di rispetto. Vi ho chiamato per dirvi quanto è importante quest'indagine, anzitutto
per il vostro bene. Non esiterò, lo sapete, ad ascrivervi il fallimento, se doveste fallire. Io non
metto in gioco la mia carriera per i vostri errori. Fate bene e andrà bene per tutti. Fate male e
pagherete. Vedete questo?», disse, mostrando il foglio che aveva sulla scrivania. «Questo
fonogramma arriva dal ministero dell'Interno. Ci incarica di rendere noto ogni minimo
progresso nelle indagini. Ogni minimo progresso, m'intendete, Ricciardi? Rendetemi conto,
passo per passo. Il signor questore a sua volta renderà conto a Roma. Ogni altra cosa di cui vi
state occupando è sospesa».
Finalmente Ricciardi riconosceva il vero Garzo.
«Come al solito, dottore. Seguirò la cosa come al solito. Con tutta la necessaria attenzione».
«Non dubito, Ricciardi. Non dubito. Potete andare». Fuori dalla porta, l'usciere Ponte evitò
accuratamente di guardarlo.
      13
Don Pierino aveva detto messa alle sette: gli piaceva. Gli occhi delle persone che cercavano
Dio prima di cominciare la guerra di un'altra giornata. A quell'ora non c'era distanza sociale
fra i banchi, uomini e donne diversamente abbigliati ma con lo stesso impulso.
Quella mattina, poi, il tempo era strano e bellissimo: il vento ululava forte nella stretta
navata centrale e dalle alte finestre la luce era intermittente, come a far capire che non era
dovuta, ma da ottenere con fatica, come i frutti della terra e il pane della giornata.
Finita la messa, don Pierino aveva indossato il consunto soprabito e, tenendosi il cappello
con una mano, si era avviato verso la vicina questura per l'appuntamento con il commissario.
Dalla sera prima, aveva pensato molto a quello sguardo intenso e a quello che ci aveva visto
dentro.
Alla naturale attenzione verso il prossimo, la pratica sacerdotale aveva aggiunto l'attitudine
a riconoscere i sentimenti celati dietro alle espressioni, al di là delle parole dettate dalle
circostanze; per cui il piccolo prete aveva imparato a tenere due dialoghi contemporanei, uno
con la bocca e l'altro con gli occhi. Offrendo aiuto a chi ne aveva bisogno e non trovava la forza
di chiederlo.
Gli occhi del commissario, quei formidabili occhi verdi: una finestra sulla tempesta.
Don Pierino ricordava che, appena presi i voti, aveva prestato assistenza in un vecchio
ospedale  irpino,  dove  in  una  stanza  venivano  rinchiusi  i  bambini  affetti  da  malattie
contagiose; la porta di questa camerata aveva un vetro, al quale stava sempre incollato un
bimbo malato di colera. Negli occhi di quel bambino, che guardava i giochi dei coetanei meno
sfortunati che potevano stare insieme, aveva letto una simile disperazione. Nel piccolo segno
del vapore del respiro, il senso dell'esclusione, dell'immensa solitudine, la condanna a stare ai
margini della vita degli altri, senza condividerla mai.
Camminando controvento, il prete scoprì che in fondo non gli dispiaceva incontrare il
poliziotto, incuriosito da  quell'intelligenza disperata.
Ricciardi andò ad accogliere don Pierino sulla porta del suo ufficio: gli strinse la mano, una
stretta breve e forte, senza neppure un accenno a baciarla. Lo fece accomodare davanti alla
scrivania sulla quale, notò il viceparroco, non c'erano fotografie e neppure oggetti che
potessero dire qualcosa della vita di chi ci lavorava. Solo uno strano fermacarte, un pezzo di
ferro annerito e semifuso, dal quale spuntava una penna di metallo stilizzata, come a
ingentilire l'arnese.
«Che strano», disse il prete, accarezzando brevemente l'oggetto.
«Un pezzo di granata, risale alla guerra».
«Avete fatto la guerra?»
«No, ero troppo giovane. Sono nato nel 1900. Me l'ha portata un vecchio amico: la granata
lo ha quasi ucciso e lui ne voleva conservare il ricordo. Si dice, no? Quello che non uccide,
fortifica».
«Si dice, sì. Ma fortifica anche l'aiuto. Degli altri, di Dio».
«Quando c'è, padre. Quando c'è. Allora, cosa mi dite di ieri? Ci avete pensato un po'? Vi siete
fatto un'idea di quello che può essere accaduto? Magari, di chi potrebbe essere stato?»
«No, commissario: io un'idea del genere non me la potrei mai fare, neanche volendo
immedesimarmi e, credetemi, non voglio. E poi, una voce come quella! Come si può anche solo
immaginare di spegnerla per sempre? Un dono per noi tutti, direttamente dal Padreterno».
«Perché, padre? Era così bravo, questo Vezzi?»
«Non bravo: celestiale. Mi piace pensare che gli angeli abbiano voci come quella di Vezzi,
per cantare le lodi del Signore in paradiso. Se fosse così, nessuno avrebbe paura di morire. Io
l'ho sentito due volte, nel Trovatore di Verdi e nella Lucia di Lammermoor di Donizetti; lui
naturalmente era Manrico nella prima ed Edgardo nella seconda. Avreste dovuto sentirlo,
commissario. Ti strappava il cuore dal petto, lo portava in cielo a bagnarlo nella luna e nelle
      stelle e te lo restituiva luccicante, rinnovato. Quando finiva di cantare io scoprivo di avere il
volto bagnato dalle lacrime; e non mi ero accorto di avere pianto. Vederlo da vicino, ieri, mi ha
fatto tremare il cuore».
Ricciardi ascoltava il prete, fissandolo al di sopra delle mani unite davanti alla bocca.
Sentiva il fanciullesco entusiasmo e si chiedeva come l'opera, una finzione, potesse procurare
una simile emozione. E provava anche un poco d'invidia, perché un benevolo stato d'animo,
così profondo, lui non l'aveva mai conosciuto.
«E stavolta, come aveva cantato?»
«No, commissario, stavolta non aveva ancora cantato. Era la prima, ieri: la sera della prima
rappresentazione. E lui non era ancora in scena».
«E come mai era già in corso la rappresentazione? Chi stava cantando, allora?»
«Ah,  capisco  la  vostra  perplessità:  vi  devo  spiegare,  prima.  Dunque,  in  genere  si
rappresenta un'opera sola, in tre o più atti. In questo caso, invece, trattandosi di opere brevi,
se ne rappresentano due: Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo. Sono
due opere che risalgono allo stesso periodo, la prima è del '90 e la seconda del '92, mi pare».
«E Vezzi cantava solo in una delle due?»
«Sì, in Pagliacci. Lui è... lui sarebbe stato Canio, il protagonista. Un ruolo difficile, ho letto
che in questa parte era ancora più grande del solito».
«Era la seconda opera, allora».
«Sì, bravo, la seconda. Si rappresentano così, in genere: prima Cavalleria e poi Pagliacci, che
è più trascinante e colorata, quindi l'attenzione degli spettatori è catturata più facilmente.
Personalmente, dal punto di vista musicale io preferisco Cavalleria, che ha un intermezzo
straordinario. Ma in Pagliacci ci sono alcune arie bellissime, proprio nella parte di Canio. Vezzi
non avrebbe mai fatto, per esempio, Turiddu in Cavalleria».
Ricciardi ascoltava con la massima attenzione. Recepiva le informazioni in maniera
famelica, riflettendo sulle situazioni che si potevano essere create durante la sera del delitto.
«Ma, a parte i ruoli principali, la compagnia è la stessa?»
«Può esserlo, ma in genere non lo è. Nella fattispecie, Vezzi aveva una compagnia messa
insieme espressamente per lui; mentre Cavalleria è stata interpretata da una compagnia che si
esibisce frequentemente al San Carlo. Normalmente vanno così, senza infamia e senza lode:
ma stavolta sono andati veramente benissimo, è stata una splendida sorpresa. Anche se poi,
purtroppo, questo aspetto è passato in second'ordine: certo la serata non verrà ricordata per
l'esibizione».
«Quindi, le prove sono separate? Le compagnie non entrano mai in contatto?»
«No, a parte qualche prova dell'orchestra, in cui vengono studiati e ripetuti i singoli attacchi
e qualche scena, è difficile che le due compagnie arrivino a sovrapporsi. Anche nelle recite,
come ieri sera, tra le due rappresentazioni c'è un tempo sufficiente all'avvicendamento senza
contatto. Naturalmente molti si conoscono. L'ambiente è pur sempre lo stesso».
«Ah, l'orchestra. L'orchestra è comune, no?»
«Certo, l'orchestra è comune. È quella del teatro, col suo direttore. Un gentiluomo, oltre che
un professionista: Pelosi, il maestro Mariano Pelosi. A suo tempo sembrava dover avere una
carriera luminosissima, un Toscanini insomma. Poi si è fermato. Ma è un direttore più che
decoroso e il San Carlo è uno dei massimi teatri del mondo».
«E le due opere? Ditemi qualcosa sulle trame».
«Eh, le due opere. Hanno argomenti simili, anche se trattati diversamente.  Cavalleria
rusticana è tratta da Verga, ambientata in Sicilia la mattina di Pasqua. Ha un solo atto, con
quell'intermezzo che vi ho detto. C'è quest'uomo, Turiddu, un tenore, che è fidanzato con
Santuzza ma ama ancora Lola, la sua vecchia compagna, che però è sposata con Alfio, un
baritono, che fa il carrettiere. Insomma, due coppie, un amore vecchio e due nuovi. Santuzza,
presa dallo sconforto e dalla gelosia, dice ad Alfio dei due e, in un duello finale, Alfio uccide
Turiddu. Sono più belle le parti femminili in quest'opera, secondo me: Lola, Santuzza e Lucia,
      la mamma di Turiddu.
«Pagliacci invece si svolge in Calabria. Dura quanto Cavalleria, più o meno. Una compagnia
di attori arriva in questo paesino: il capo di tutti è Canio, il tenore, che Vezzi avrebbe
interpretato. È un uomo tutt'altro che allegro, nonostante abbia il ruolo di un pagliaccio; in
realtà è avvelenato dalla gelosia per la moglie Nedda, che fa Colombina, quando recitano.
Questa lo tradisce, in effetti, con Silvio, un giovane ricco, che abita in paese. Alla fine, in una
scena drammatica e bellissima, si passa dalla finzione alla realtà e Canio uccide sia Nedda che
il suo amante, strappandosi di dosso il costume. Il bello dell'opera, a parte la musica, è questo
mischiarsi della verità e della recita: la gente non capisce se fingono, o fanno sul serio, finché
non scorre il sangue.
«Come vedete, commissario, la tematica è la stessa: gelosia, amore e morte. Come spesso,
purtroppo, anche nella vita di tutti i giorni, no?»
«Forse, padre. Ma, forse, la vita di tutti i giorni ha anche altre complicazioni. C'è la fame, ad
esempio. Nelle vostre opere liriche c'è mai la fame? Sapeste quanta fame, nei delitti, padre. Ma
torniamo a Vezzi. Che voi sappiate, com'era Vezzi nella vita? Benvoluto?»
«Non saprei. In genere, quando posso e grazie alla cortesia di Patrisso, il mio parrocchiano
che fa il custode dell'ingresso dei giardini, mi piace assistere alle prove, soprattutto a quelle
generali che sono in costume. Ma stavolta la prova l'hanno fatta a porte rigidamente chiuse,
per  Pagliacci. Attorno a Vezzi c'è grande attenzione: si dice che sia addirittura il tenore
preferito di Mussolini».
«Sì, ho sentito. Va bene, padre. Vi ringrazio molto. Se dovesse servirmi qualche altra
informazione, posso disturbarvi? Sapete, come vi ho già detto, non ne so molto di queste
cose».
«Certamente, commissario. Però lasciatemi dire una cosa: non sarebbe sbagliato, forse, se
ascoltaste un po' di lirica. Vi farebbe bene vedere come può essere bello un sentimento, la sua
espressione».
Sorprendentemente, don Pierino vide passare negli occhi verdi di Ricciardi un'ombra di
dolore immenso. Non un ricordo; piuttosto una condizione. Come se, solo per un attimo, il
poliziotto gli avesse aperto una finestra su un territorio misterioso della sua anima.
«I sentimenti li conosco, padre. E se ne può anche avere abbastanza. Grazie. Potete andare».
Sulla porta don Pierino incrociò Maione che stava entrando.
«Buongiorno, padre. Avete già tenuto la vostra lezione sull'opera?»
«Buongiorno  a  voi,  brigadiere.  Qualche  notizia  l'ho  data,  sì:  ma  non  credo  che  il
commissario sarà mai uno spettatore assiduo del San Carlo. Se avete bisogno, io sono in
parrocchia».
Maione, dopo aver rivolto a Ricciardi un mezzo saluto militare, si sedette.
«Allora, commissa': abbiamo rilevato le deposizioni di ieri sera, questa è la lista di quelli
che erano in scena per la Cavalleria rusticana e dei professori d'orchestra. II dottor Modo, che
stamattina ci aspetta all'ospedale ma non prima di mezzogiorno, ha già detto che Vezzi non
può essere morto prima di un'ora da quando è stato trovato, quindi la prima opera era già in
corso. Questo dovrebbe escludere sia i cantanti della Cavalleria sia gli orchestrali, no? Quali
erano i loro movimenti durante l'opera? Questa invece è la lista di quelli dei Pagliacci, che
secondo me dobbiamo controllare bene».
«Tutto, dobbiamo controllare bene. Il personale?»
«Abbiamo visto, non è che poi fossero molti, quelli che potevano accedere ai camerini. È
un'area già ristretta in genere, poi quando viene Vezzi, mi diceva il portiere, diventa come un
albergo di lusso. Pare che quando qualcuno si presentava alla portineria, Vezzi pretendesse
che fosse chiesto a lui personalmente se la persona poteva passare. Quindi, possiamo non
considerare il personale addetto al pubblico, i camerieri, questi qua insomma».
Ricciardi sapeva bene che Maione aveva verificato a fondo le informazioni, prima di
presentarsi a lui. E che poteva fidarsi di queste notizie.

«Chi troviamo, stamattina al San Carlo?»
«II sovrintendente, sicuro: quello sta come un pazzo, ieri saltava a destra e a sinistra, 
piagnucolava, dava un fastidio enorme. Ce l'aveva con voi, diceva che vi faceva togliere 
l'indagine. Poi, l'orchestra: mi hanno detto che devono provare ogni giorno, è un fatto di 
contratto. Noi abbiamo chiuso solo l'area dei camerini, i giardini di Palazzo Reale sotto le 
finestre e l'ingresso laterale, quindi possono lavorare tra palcoscenico e sala. Poi, hanno 
chiamato quelli di Vezzi, l'impresario, un tal Marelli, uno del Nord Italia, anche a nome della 
moglie, una ex cantante di Pesaro, Lucani Livia. Volevano sapere quando avrebbero potuto 
ritirare il cadavere per i funerali. Ho detto di richiamare più tardi. Comunque stanno venendo 
a Napoli, sono in viaggio da stanotte, arriveranno in serata alla stazione».
«Appena arrivano ci voglio parlare. Ora andiamo a teatro».
      14
Nel corridoio degli uffici, al solito infreddolito, c'era Ponte, l'usciere di Garzo. Appena vide 
Ricciardi e Maione si fece avanti.
«Dottore, il vicequestore voleva... se potevate passare un momento..».
«No, non posso. Al ritorno, forse. Sto seguendo le indagini, senza perdere tempo: secondo i 
suoi ordini. Presentate i miei saluti».
E andarono via per le scale, lasciando l'ometto raggelato in tutti i sensi e col problema di 
dover affrontare da solo l'ira del vicequestore.
Ricciardi non intendeva sprecare ore preziose; sapeva fin troppo bene come le soluzioni 
delle indagini fossero un gioco a tempo, in cui le probabilità di successo si assottigliavano col 
passare anche solo dei minuti. Un vecchio commissario con cui aveva lavorato sosteneva che a 
quarantott'ore dal delitto l'assassino non si scopre più, a meno che non sia lui a consegnarsi. E 
questo succedeva le rare volte in cui la voce della coscienza diventava assordante e 
precipitava l'anima degli assassini dritto all'inferno. Più spesso, assai più spesso, prevaleva la 
voglia di evitare l'inferno in terra, cioè la punizione degli uomini.
Ricordava che un paio d'anni prima un pregiudicato arrestato per furto, proprio lì nel 
cortile della questura, dopo essersi sottomesso al fermo ed essere rimasto fino a quel 
momento in silenzio, aveva sfilato la pistola a una delle due guardie che lo accompagnavano e, 
senza esitare, si era sparato un colpo alla tempia ammazzando con lo stesso proiettile anche la 
guardia che aveva al fianco opposto.
Per  mesi  Ricciardi  aveva  visto  i  due  nell'angolo  del  cortile:  l'arrestato  urlava  che 
nell'inferno del carcere non ci tornava, la guardia chiamava la moglie e il figlio, tutti e due con 
un bel buco nella tempia destra e il cervello che misto a sangue nero colava dal foro d'uscita 
del proiettile.
Fuori, la città turbinava nel vento. Le violente raffiche non permettevano ai passanti di 
attraversare lo spazio aperto delle strade o delle piazze, per cui tutti camminavano lungo i 
muri. I pesanti tram sulle rotaie sembravano oscillare sotto le forti sferzate: i cocchieri delle 
rare carrozze erano curvi sulla seduta, la frusta stretta tra le mani. Nell'aria, l'odore della 
legna bruciata dalle stufe e del letame di cavallo si rinnovava a ogni folata. Gli alberi che 
fiancheggiavano le vie scuotevano la chioma, rami spezzati e larghe foglie verdi si sollevavano 
e ricadevano, nell'imitazione fuori stagione di un autunno ancora lontano.
Ricciardi e Maione arrivarono al San Carlo in un vortice di pagine di giornale e cappelli 
strappati ai loro proprietari. Come sempre, il brigadiere procedeva caparbio a un passo dal 
commissario, che camminava a capo scoperto e con lo sguardo fisso a terra. Stava pensando a 
quello che aveva saputo dal prete sulla trama delle opere. Ti piacciono tanto i tuoi sentimenti 
in maschera, padre? Ma che cosa c'è di tanto bello in gente che si ammazza a coltellate 
cantando? Ti farei vedere io, se potessi. Sai quanto dura l'eco di una coltellata? Non c'è niente 
di bello in un uomo che urla il suo odio ogni giorno per mesi, con le budella che gli escono 
incessantemente da uno squarcio nella pancia.
Nel teatro il clima era ben diverso dalla sera precedente. Le luci spente, le pulizie 
completate. Lo sfarzoso ingresso era freddo e silenzioso. Un giovane cronista, incassato in una 
poltroncina e avvolto in un pesante cappotto, si alzò come spinto da una molla.
«Salve, voi siete il commissario Ricciardi? Sono Luise del Mattino. Posso farvi qualche 
domanda?»
«No. Però potete andare in questura, dove il vicequestore Garzo sarà lieto di rispondervi».
«Veramente il mio caporedattore, il dottor Capece, mi ha detto che dovevo parlare con voi, 
che seguite direttamente le indagini».
«Giovanotto, vi prego: non mi fate perdere tempo. Ho da fare, perciò non risponderò a 
nessuna domanda; abbiate la compiacenza di togliere il disturbo».
Il camerino di Vezzi, a parte il cadavere rimosso, era uguale alla sera precedente. Il sangue
      ormai era rappreso e macchiava di scuro il tappeto, il divano, le pareti. Nell'angolo, Ricciardi 
guardava l'immagine del tenore che ripeteva il suo canto, con le lacrime che gli rigavano il 
volto e la mano protesa.
Le braccia conserte, lo sguardo verde cupo, la ciocca di capelli sul naso affilato, il 
commissario si stava chiedendo cosa poteva voler fermare, con quella mano, il tenore. E 
perché poi era finito seduto, con la faccia in mezzo al vetro e una lunga scheggia in un'arteria. 
Si avvicinò al divano, guardò il cappotto. Posto che sia stato messo qui dopo la morte del 
tenore, pensò, chi e perché lo ha riportato indietro? Un assassino che riesce ad allontanarsi dal 
luogo del delitto non ci torna subito, se non è costretto a farlo. E con tutta quella gente, chi 
poteva muoversi liberamente attorno ai camerini? Con un sospiro, Ricciardi chiamò Maione: 
era ora di cominciare a conoscere un po' più da vicino l'uomo che cantava nell'angolo, 
perdendo sangue a fiotti dalla gola.
Il segretario di Vezzi era un uomo visibilmente sconvolto. Stefano Bassi, questo era il suo 
nome, non sapeva pensare alla propria vita senza il maestro.
«Non avete idea, commissario. Non avete idea, di quello che il maestro è stato per me. Non 
posso credere che tutto ciò sia vero. E poi in questo modo atroce».
Parlava con voce tremante e in modo sconnesso, torcendosi le mani. Persona ordinata e di 
aspetto piacevole, lo stile azzimato, il fisico sottile, Bassi era sempre stato l'immagine 
dell'efficienza; ma ora, rimasto privo del suo punto di riferimento, non sapeva da che parte 
incominciare. Si aggiustò gli occhiali cerchiati d'oro sul naso.
«Non c'è stato attimo in cui mi sono separato da lui. Ma questa maledetta abitudine di 
truccarsi e vestirsi da solo. Era una specie di scaramanzia, una fissazione. Il vezzo di Vezzi, 
diceva sempre. Non lo sentirò più ridere; e nemmeno cantare, con quella voce d'angelo. Non 
posso crederci».
«Dove eravate ieri, durante la rappresentazione di Cavalleria rusticana? Quando lo avete 
visto, l'ultima volta?«
«Ero in sala col sovrintendente, potete facilmente verificare. Non mi sono mosso, tutto il 
tempo. Bravini, peraltro: soprattutto il baritono, quello che faceva Alfio. Il maestro Io avevamo 
salutato prima, quando era andato in camerino: diceva sempre che nessuno fuori dalla scena 
lo doveva vedere in costume, che portava male. Aveva un carattere, come dire, volitivo, ecco. 
Non bisognava contraddirlo. Una di quelle persone che vanno dritte per la loro strada, senza 
deviazioni. Sapeva essere... duro. Ma se lo si accontentava, sparendo al momento giusto, allora 
era il capo ideale».
«Sparire? Al momento giusto? In che senso?»
«Nel senso che spesso chiedeva di essere lasciato libero. Libero di fare quello che voleva. 
Era un artista, sapete? Un grande artista; il più grande, nel suo campo. Lo stesso Duce…».
«...lo riteneva il migliore di tutti, un orgoglio nazionale, lo so. E ieri? Avete notato se era, che 
so, di cattivo umore, o diverso dal solito?»
Bassi fece una risatina nervosa.
«Cattivo umore? Si vede che non lo avete conosciuto. Il maestro era sempre di cattivo 
umore. Riteneva il mondo intero inferiore a lui e indegno di frapporsi tra lui e il posto che 
voleva raggiungere. Spazzava via con un gesto della mano, come con una mosca, chiunque si 
trovasse sul suo passaggio. Così ha fatto ieri sera, al momento di ritirarsi in camerino un'ora 
prima dell'inizio di  Cavalleria. Amava truccarsi da solo, non saprei dire perché: forse lo 
distendeva. Secondo me, non considerava nessun truccatore degno di mettergli le mani sulla 
faccia».
«Un bel tipo. Voi lavoravate da molto per lui?»
«Da un anno e mezzo. Credo di essere quello che ha resistito di più. Chi mi ha preceduto, è 
finito in ospedale col naso rotto. Io andavo meglio perché, un po' per carattere, un po' per 
bisogno, sono uno che sopporta. Poi, il maestro era uno che pagava benissimo. Come farò, 
adesso?»
      «Che voi sappiate, aveva dei nemici? Qualcuno che poteva avere interesse a volerlo morto, 
intendo. Soldi, donne. Qualunque cosa».
«Volete sapere se c'era qualcuno che aveva subito un torto o che il maestro aveva 
maltrattato in qualche modo? Be', ci passeremmo l'intera giornata. Ma volerlo morto... vedete, 
commissario, il mondo della lirica è particolare: sulle spalle degli artisti ci campa un sacco di 
gente. Impresari, discografici, proprietari di teatri, gente come me. Quando poi capita un 
grandissimo artista, uno che muove folle immense di persone, che fa ogni volta il tutto 
esaurito, allora credetemi, commissario, nessuno lo vuole morto, né tanto meno invecchiato, 
malato o pazzo. Tutti ce lo coccoliamo e sopportiamo volentieri qualche mattana; o un ceffone, 
di tanto in tanto».
«E fuori dall'ambiente?»
Bassi si aggiustò nuovamente gli occhiali sul naso. «Nulla nella vita del maestro era fuori 
dall'ambiente. Quando uno è così grande ed è anche abituato a essere considerato tale, non 
può frequentare nessuno, fuori dall'ambiente. In un anno e mezzo, credo di non averlo mai 
visto parlare con nessuno che non avesse a che fare con la lirica».
«Da quanto tempo eravate in città?»
«Questa volta? Da tre giorni. Il tempo di preparare la rappresentazione, il maestro fa solo la 
prova generale e senza costume, lui solo in abiti normali e gli altri con quelli di scena: gli 
piaceva così. Venivamo da Roma, dove abbiamo concluso accordi per una tournée in America 
che si sarebbe dovuta fare in autunno. Come faremo, adesso, proprio non lo so. Dovrò parlare 
col signor Marelli, l'impresario agente del maestro. Arriverà in serata, col treno».
«Sì, lo so. Ci dovrò parlare anch'io. Potete andare, ora: ma non vi allontanate dall'albergo, 
potrei avere ancora bisogno di voi».
      15
«Certo, commissa'» , disse Maione, quando Bassi fu uscito, «doveva essere proprio un bel 
tipo di bastardo, questo maestro Vezzi. Sarà stato pure bravo, bravissimo, ma era un bastardo. 
Ho sentito dire ieri, sul palcoscenico dove abbiamo riunito tutti, che alla prova generale si è 
presentato con due ore di ritardo e, siccome aveva detto che voleva provare per prima la sua 
opera, lo hanno dovuto aspettare tutti. E quando il direttore d'orchestra si è permesso di 
lamentarsi, lo ha insultato a voce alta per dieci minuti, lo ha mortificato assai. Ci volete 
parlare, col direttore?»
Ricciardi annuì, distratto; sia Bassi che don Pierino avevano detto qualcosa che gli aveva 
solleticato l'istinto, ma non riusciva bene a mettere quel dettaglio a fuoco. Che cosa? Gli 
sarebbe tornato in mente.
Il direttore d'orchestra, il maestro Mariano Pelosi, beveva. Ricciardi se ne accorse subito, 
appena lo guardò in faccia, prima ancora che si sedesse davanti alla scrivania nel piccolo 
ufficio del direttore di scena.
Lo capì dal reticolo di venuzze sul naso, dagli occhi vacui e acquosi, dalla lieve esitazione 
della parola, dal tremito leggero delle mani. Ne aveva visti tanti, così, nella sua perenne ricerca 
delle ragioni del dolore: il vino, un rifugio per le debolezze e anche uno stimolo per le 
soluzioni forti. Nel vino era facile trovare la forza di compiere un delitto, abbattere le barriere 
della coscienza, reagire alle proprie frustrazioni.
«Siamo tutti sconvolti, commissario. Il teatro è un posto di gioia e di sentimento, a teatro la 
gente trova, e deve trovare, requie dalla follia della vita quotidiana. E di questi tempi di follia 
ce n'è tanta, non trovate? Allora non te lo aspetti, che la follia arrivi a un passo dalla scena. 
Sembra proprio Pagliacci, con Canio che uccide Nedda e Silvio in scena, e la gente non capisce 
subito se è realtà o finzione. Non si capisce mai subito, se è realtà o finzione».
«Il vostro rapporto con Vezzi, maestro. Mi dicono che durante la prova generale avete 
avuto una, diciamo così, discussione».
«Con Vezzi, Dio si è divertito, commissario. Si è divertito a dare un talento immenso a un 
uomo da poco. Davvero da poco. In scena era fantastico, in quarant'anni di carriera una voce, 
una presenza così, io non l'avevo mai vista. E credetemi, ne ho viste. Caruso stesso, il grande 
Caruso, non ha l'estensione, la convinzione della voce di Vezzi. E poi, la capacità di stare in 
scena, la recitazione. Sembrava impossibile che stesse fingendo: la differenza con gli altri 
cantanti a volte era così stridente da portare l'orchestra a sbagliare. Ecco: la sua bravura 
toglieva la convinzione agli altri, li rendeva incerti. Compagni, professori d'orchestra. Il 
direttore stesso. Anche me».
«E quindi? La sera della prova?»
«La sera della prova, giusto. Eravamo pronti da due ore, quasi. Avremmo potuto e dovuto 
provare Cavalleria rusticana, perché è questo l'ordine giusto, ma Vezzi aveva preteso che si 
cominciasse con la sua opera, perché non voleva aspettare. La prova generale, non so se lo 
sapete, commissario, è in tutto e per tutto identica a una rappresentazione: si recita coi 
costumi di scena. Vezzi non vuole indossare il costume prima di andare in scena col pubblico; 
è, anzi era, una sua fissazione. Già questo confonde quelli che devono recitare con lui, sembra 
un intruso. Nella stessa occasione, ha ripreso con violenza sia Bartino, il baritono che recitava 
Tonio, sia la Siloty, il soprano ungherese che fa Nedda. Poi, questo ritardo... Io devo prendere 
certe mie medicine, a un'ora fissa: sono rimasto invece chiuso nella buca coi miei orchestrali, 
ero molto, molto nervoso. Quindi, quando è arrivato senza chiedere scusa né niente, tranquillo 
come se fosse in anticipo, non ci ho visto più. Ma anche allora, senza trascendere: poteva 
essere mio figlio, per età. E lui... lui... ha cominciato a urlare. Che io ero un vecchio demente, un 
fallito..».
Pelosi, raccontando, aveva cominciato a commuoversi. Le labbra tremavano e il muscolo 
della mascella guizzava nel tentativo di trattenere le lacrime. Tentativo inutile, perché gocce
      pesanti scendevano lungo le guance ispide del direttore d'orchestra. Maione tossicchiò, a 
disagio. Ricciardi lo fissava invece inespressivo, come se non si fosse accorto dell'emozione 
del vecchio.
«E voi? Voi come vi siete sentito, a essere aggredito di fronte a tutti, avendo anche 
ragione?»
«Nella vita di tutti, commissario, ci sono dei bivi. La strada si biforca, ce n'è una giusta e una 
sbagliata; il guaio è che uno al momento non lo sa. Crede sempre di poter tornare indietro, 
quando vuole. Invece, indietro non si torna, mai. Io la mia strada sbagliata l'ho presa tanti, 
troppi anni fa, per non capirlo ogni giorno. Io lo so, gli altri lo sanno. Ma la musica è la mia vita, 
l'unica cosa che so fare. Allora cerco di farla il meglio possibile, e di non coinvolgere altri nei 
miei errori. Vezzi era un grande e dalla sua presenza tutti abbiamo, avevamo da guadagnare. I 
suoi insulti mi hanno ferito, sì: penso che sia stato un genio e un uomo profondamente egoista 
e cattivo, come spesso sono i geni. Ma, lo avrete già verificato, io non mi sono mosso tutta la 
sera dalla buca dell'orchestra. Non sono io il vostro assassino».
Quando Pelosi fu uscito, Maione disse: «Più sento le persone, più mi convinco che questo 
Vezzi era un bastardo. Io mi chiedo, commissa', come dev'essere lavorare per uno che ti fa 
schifo. Pure voi, ad esempio, non è che siete assai comunicativo, per la verità. Ma noi lo 
sappiamo, però, come sono i vostri pensieri. Quasi tutti, almeno. Comunque, è escluso che chi 
era in scena, orchestra inclusa, possa averlo ammazzato».
Ricciardi sembrava seguire un suo pensiero.
«Ricapitolando», disse, «Vezzi muore sgozzato, o almeno con una scheggia nella carotide. 
Lo troviamo seduto nel camerino, la faccia sulla mensola. Sangue dovunque, tranne che sul 
cappotto, sulla sciarpa, sul cappello e pure su uno dei cuscini del divano. La finestra aperta, la 
porta chiusa. E sappiamo che per un cantante la prima preoccupazione sono i colpi d'aria, 
soprattutto prima di entrare in scena. Nei camerini non entra nessuno che non sia conosciuto. 
Tutti quelli legati nel bene e nel male a Vezzi erano in sala, sotto gli occhi di tutti, e nessuno si 
è mosso. Tutti lo odiavano, ma nessuno aveva convenienza a fargli del male. Un bel rebus».
«Questo fatto del cappotto, della sciarpa e del cappello mi sembra importante. Quindi, 
qualcuno è entrato coperto e poi è scappato dalla finestra, secondo voi? Dopo aver ammazzato 
Vezzi?»
«No. Gli indumenti  sarebbero sporchi. Poi, c'è un armadietto nel camerino, con la 
cappelliera. Vezzi era uno ordinato, lo si capisce da come teneva le cose sue, il fatto che si 
truccava da solo, gli oggetti da toeletta nella stanza da bagno. Qualcuno li ha tirati fuori e li ha 
lasciati poi a terra e sul divano. Ma perché? E come mai tutto il divano è sporco di sangue, 
tranne un piccolo cuscino? No, non quadra. Manca ancora qualcosa che dobbiamo trovare».
Non disse, Ricciardi, che un altro elemento erano le lacrime sulla guancia del pagliaccio che 
cantava, le parole che diceva, la mano protesa.
«Fai una cosa, Maione: vai all'albergo dove era sceso Vezzi, chiedi qual è al segretario, quel 
Bassi. Chiedi se qualcuno si ricorda com'era vestito ieri quando è uscito, se c'era qualcosa di 
diverso dal solito; se è andato da qualche parte, prima. E anche a che ora è uscito la sera della 
prova generale. Voglio sapere perché ha fatto tardi. Io mi fermo ancora qua dentro».
Fuori dall'ufficio del direttore di scena e insieme a questi, c'era il sovrintendente, duca 
Spinelli. Al di là della concitazione e dei saltelli, che erano rimasti gli stessi della sera prima, 
c'era una nuova deferenza; un atteggiamento più dimesso. Evidentemente aveva dovuto 
prendere coscienza dell'insufficienza delle sue relazioni a far rimuovere quel maleducato e 
irriverente commissario dalla direzione del-l'indagine. Il tono era comunque pomposo.
«Buongiorno, commissario. Non ho voluto disturbarvi, finché eravate impegnato negli 
interrogatori. Volevo dirvi che sono a vostra completa disposizione e con me tutto il personale 
del teatro. Siamo stati informati dell'importanza che viene conferita alla scoperta del vile 
assassino, ed è nostra intenzione fornire un'assoluta collaborazione».
Ricciardi lo fissò con freddezza. Gli pareva di vederlo, mentre impettito e offeso faceva
      buon viso a cattivo gioco, di fronte a superiori istruzioni.
«Non dubito, duca. Non dubito. Vorrei un calendario completo delle rappresentazioni in 
scena nell'ultimo periodo, diciamo da quando è cominciato l'allestimento delle opere a oggi. 
Voglio anche conoscere le date delle presenze di Vezzi presso la struttura. Direttore, ditemi: 
da quale ingresso l'accesso ai camerini è più rapido?»
Lasio si passò la mano nei capelli rossi; era uno di quegli uomini che sembrano stazzonati 
senza esserlo, forse per la carnagione chiara e lentigginosa o per la chioma ribelle. Portava 
una camicia dal colletto rigido con le punte arrotondate e la cravatta allentata. Non indossava 
la giacca e il panciotto era sbottonato.
«Sicuramente quello secondario, che dà sulla strada vicino al cancello dei giardini. Da lì 
basta fare una rampa di scale e ci si trova vicino ai camerini. La scala è stretta e seminascosta 
e bisogna conoscerla, ma è la via diretta. Il personale di scena se ne serve, se ha bisogno di 
uscire momentaneamente dal teatro durante la rappresentazione».
«E alla porta c'è qualcuno?»
«Non durante la rappresentazione. Spegniamo la luce dell'androne, per concentrare il 
personale sull'ingresso centrale, e chiudiamo il portone. Ma di fianco c'è una porta».
Ricciardi rifletteva.
«Quale  personale  può  accedere  ai  camerini,  a  parte  quello  di  scena,  durante  la 
rappresentazione?»
«In condizioni normali, nessuno. A parte eventuale personale medico, naturalmente, e 
quello di sartoria, per portare gli abiti di scena che hanno bisogno di ultimi aggiusti. Ma io 
pretendo che sia ridotto al minimo, questo viavai: rumori, distrazioni, disordine. Più ce n'è, più 
sono le occasioni di errore anche nelle entrate. Non c'è niente di peggio di un'entrata ritardata 
o anticipata, credetemi».
«Capisco. E la sartoria dov'è?»
Intervenne il sovrintendente.
«Al quarto piano, commissario. C'è un montacarichi, che serve per portare velocemente gli 
abiti del cambio nei camerini. In certe opere sono decine gli abiti che vanno cambiati, tra un 
atto e l'altro. Ricordo il verificarsi di una circostanza..».
«Sì, immagino», tagliò corto Ricciardi, «ora però vorrei vedere la sartoria. Lavorano?»
«Certamente. Lavorano sempre». Il sovrintendente aveva di nuovo quell'aria offesa, come 
se fosse stato schiaffeggiato, ma era più cauto della sera prima. Proseguì: «Tuttavia sarà un 
piacere, per il personale, poter collaborare».
      16
Alla sartoria, al quarto piano, si accedeva attraverso una stretta scala o col montacarichi. 
Ricciardi volle verificare entrambe le vie, salendo con la cabina sbuffante, retta da corde 
cigolanti, e scendendo dalla ripida scala. Dal ballatoio si godeva una spettacolare vista del 
palcoscenico, dall'alto, e della buca dell'orchestra. La prospettiva sulla sala era inibita da un 
pesante tendaggio. Alla fine di un lungo corridoio si accedeva a una porta, che dava su un altro 
universo.
Sembrava la fabbrica dei sogni. Sete e broccati, tessuti d'oro e d'argento: tutti i colori, dal 
rosso al viola, dal giallo al blu al verde. Copricapi di epoche diverse, uno vicino all'altro sulle 
ampie cappelliere: cilindri, elmi romani e vichinghi, complicate acconciature egizie; tulle, veli, 
delicatissime scarpette da ballo e pesanti calzature da soldato. Tra tutto quel materiale, 
numerose donne vestite in modo uniforme, come la signora Lilla: camice blu con una pesante 
forbice appesa al collo con un nastro, capelli raccolti e in parte coperti da una cuffia bianca. Si 
muovevano con perizia in quell'apparente disordine, tagliando, cucendo e stirando. Fuori il 
vento ululava, mentre dalle finestre alte entrava la luce intermittente del sole attraversata 
dalle nuvole che si susseguivano nel cielo.
Ricciardi era una macchia scura in quella festa di colori. Il cappotto grigio, il colorito bruno, 
con lo sguardo esplorava senza sosta la grande stanza. Il sovrintendente saltellava al suo 
fianco.
La signora Lilla andò loro incontro, l'aria infastidita e sbrigativa. Quello era il suo regno e 
non ammetteva intromissioni. L'atteggiamento bellicoso la faceva sembrare ancora più 
mastodontica.
«Buongiorno. Avete bisogno? Siamo indietro col lavoro, dobbiamo adattare tutti i costumi 
del povero Vezzi per il sostituto».
Il sovrintendente fece un passo avanti.
«Buongiorno. Signora, vi prego, in uno con le vostre collaboratrici, di mettervi alla completa 
disposizione del commissario, che ha bisogno di voi al fine di compiere la sua indagine. Sia 
questo il vostro compito primario».
La signora Lilla si strinse nelle spalle.
«Purché lo teniate presente, quando i costumi per la rappresentazione di stasera non 
saranno pronti. Che cosa volete sapere?»
Ricciardi le rivolse la parola senza salutarla e senza togliere le mani dalle tasche del 
soprabito.
«Come vi dividete il lavoro? C'è qualcuno che segue alcuni cantanti, per esempio?»
«No. Ognuno ha la sua specializzazione: chi cuce, chi taglia di preferenza. Tutte sanno fare 
tutto, la sartoria è l'orgoglio di questo teatro. Ma ognuna sa fare qualcosa meglio delle altre e 
io la utilizzo così».
«Quindi, Vezzi non aveva una sarta che lo seguiva in particolare?»
«Non sia mai! Vezzi faceva diventare pazze le ragazze, se lo avesse seguito una sola, allora 
ve lo dicevo io, chi lo aveva ammazzato. No, no: la prova l'hanno fatta Maria e Addolorata, 
l'altro giorno. Il costume da pagliaccio, dico: i vestiti di Canio erano già pronti dall'altra volta. 
Poi il lavoro l'hanno completato Lucia, che è la migliore nelle finiture, e Maddalena che avete 
conosciuto; era scesa con me a consegnare. Lei ha fatto l'ultimo aggiusto, è giovane ma sta 
diventando brava».
«Dove sono queste quattro? Si possono vedere?»
«Sì, con la preghiera di non farci perdere troppo tempo. Stanno là in fondo».
Ricciardi si avvicinò a un largo tavolo, al quale stavano sedute le quattro giovani donne; sul 
piano c'era il costume del pagliaccio, al quale lavoravano tutte a occhi bassi. Viste così, in 
divisa e con le forbici e gli aghi in mano, sembravano tutte uguali. Il commissario riconobbe a 
stento la ragazza pallida che aveva visto la sera prima, quasi barcollante sotto il peso del
      costume.
«Buongiorno a tutte. Come procede il lavoro?»
Un mormorio di assenso, ma fu la signora Lilla a rispondere.
«È un lavoraccio. Vezzi era un uomo grande e grosso, con la pancia. Il sostituto è magro e 
basso, non capisco da dove la tiri fuori, la voce. Dobbiamo tagliare i costumi daccapo».
Ricciardi si rivolse nuovamente alle ragazze.
«Qualcuna ricorda di aver visto o sentito qualcosa di strano, nel camerino di Vezzi? Una 
parola, un oggetto. Un cambiamento d'umore».
Una delle quattro, bruna, con gli occhi vivaci, alzò lo sguardo sul commissario e fece un 
mezzo sorriso.
«L'umore di Vezzi non cambiava mai, commissario: era sempre nero, come questo bottone. 
Al massimo, ti poteva dare una pacca sul culo. AI minimo, era come se una fosse trasparente».
«Maria! Attenta a come parli, qua dentro!», disse la signora Lilla. Ma si capiva che si 
divertiva. Ricciardi comprese che non si arrivava a niente, così.
«Se vi dovesse venire in mente qualcosa, fatemelo sapere: o venite in questura, o lo dite alla 
signora Lilla».
Nel frattempo era entrato il direttore di scena; il suo ingresso aveva provocato uno 
spettacolare cambiamento nella signora Lilla, che era arrossita, aveva abbassato lo sguardo e 
si ravviava nervosamente l'ispida chioma bionda con entrambe le mani. Lasio si rivolse a 
Ricciardi: «Commissario, all'ingresso principale c'è un uomo che chiede di voi, dice che è il 
dottor Modo, il medico legale. Buongiorno, signora Lilla».
La donna rispose con una voce gentile e vellutata, distante miglia e miglia dal brusco 
vocione usato sino ad allora.
«Buongiorno, caro direttore. Signori, siamo a vostra disposizione: tornate pure quando 
volete».
      17
All'ingresso principale c'era il dottor Modo, che fumava cercando riparo dal vento freddo 
all'interno del portone. Appena vide Ricciardi, sorrise.
«Al teatro di mattina, eh? Schiavo del vizio».
Il commissario fece una smorfia.
«Ciao, dottore. Come mai qui? Non potevi più resistere, vero, senza di me?»
«Che dici, mi offri il pranzo?»
«Esagerato. Io avrei mangiato solo una pizza, al solito carretto. Dai, una sfogliatella e un 
caffè al Gambrinus: mi sembra un giusto compromesso».
«Sprecone. Eppure dicono che sei ricchissimo. Va bene, mi accontento: pur di non prendere 
altra aria».
Camminarono in silenzio, percorrendo controvento i duecento metri che li separavano dal 
Caffè: il dottore tenendo saldo il cappello e stringendo il bavero del cappotto, Ricciardi con le 
mani in tasca e i capelli scompigliati. Rifletteva sugli elementi raccolti nella mattinata: aveva la 
sensazione di avere in mano i pezzi di un burattino di legno e di non sapere come montarli; e 
aveva anche la spiacevole impressione di non aver dato il giusto peso a qualcosa. Ma a cosa?
Entrarono, strofinandosi le mani, e sedettero al solito tavolino di Ricciardi, quello vicino 
alla vetrata che dava su via Ghiaia. Il dottore sbuffo, togliendo cappello e soprabito e sfilandosi 
i guanti.
«Ma quando mai si è visto, un tempo così a fine marzo? Tu sei paesano e montanaro, ma io 
che sono di mare ti dico che da ragazzino già mi tuffavo dallo scoglio di Marechiaro, di questi 
tempi. Manco sulle Alpi, in guerra, a marzo faceva 'sto freddo».
«Non ti lamentare, che così ti conservi meglio. Come i tuoi cadaveri».
«Aspetta, aspetta: forse sento le voci, come Giovanna d'Arco. Mi pare di aver sentito una 
battuta: ma tu non sei il commissario Ricciardi? Il cupo commissario Ricciardi, l'uomo che non 
sorride?»
«E infatti non sorrido. Allora, che mi dici? Mi hai anticipato, sarei venuto da te nel 
pomeriggio».
Modo sorrise mesto.
«Guarda, non ho mai avuto tanta pressione per fare presto: perfino da Roma, dal ministero. 
Ma chi hanno ammazzato, il Papa? Il tuo amico Garzo, sempre simpatico, mi ha mandato quel 
suo usciere, Ponte, due volte nella mattinata. Se c'erano novità dalle analisi e dall'autopsia, in 
questura volevano saperlo subito».
«E ci sono novità?«
«Guarda, non lo so. Non sono sicuro: ti direi che rimangono valide le considerazioni che ti 
ho fatto ieri sera. Però qualcosa di strano c'è; più una sensazione, che altro. Ma la sensazione 
c'è».
Era arrivato il cameriere. Ricciardi ordinò due sfogliatelle e due caffè.
«Quale sensazione? Ci sono sensazioni, nel tuo mestiere? Non c'è solo rigore scientifico?»
«Ah, ecco, adesso ti riconosco: il sarcastico commissario Ricciardi, pronto a mettere la 
scienza in subordine. Ma la scienza può aiutare le tue sensazioni. Le può confermare, le può 
smentire».
Il cameriere tornò, portando l'ordinazione: il dottore si abbatté sulla sfogliatella, famelico. I 
baffi brizzolati divennero bianchi per lo zucchero cosparso sulla soffice pasta; accompagnava i 
bocconi con mugolii di piacere.
«Mmh... chiedimi che cosa mi piace di questa città, e io ti dirò: la sfogliatella! Non il mare, 
non il sole; la sfogliatella».
Ricciardi, che di sfogliatella e pizza si nutriva a giorni alterni, cercò di richiamare 
l'attenzione del dottore su Vezzi.
«E si può sapere quale sensazione hai avuto? Capisco che sei anziano, ma ultimamente hai
      problemi a mantenere la concentrazione».
«Senti, sono più presente io a cinquantacinque anni che due medici di ventisette a consulto, 
lo sai. Dunque: ricorderai che ti dissi, già sul momento, dell'ecchimosi sotto l'occhio sinistro. 
Parlammo di un pugno, un colpo».
Ricciardi fece un cenno col capo.
«Il colpo c'è stato e anche forte. Lo zigomo era addirittura fratturato, non una cosa grossa, 
ma comunque fratturato».
«E allora?»
«E allora è impossibile che l'ematoma sia così circoscritto. Hai idea in quanto poco tempo si 
formi un ematoma? Per un colpo del genere? Doveva avere un pallone, sotto l'occhio. Invece, 
appena una piccola ecchimosi».
«Il che significa?»
«Il che significa, e lo so che già hai capito perché te lo vedo negli occhi, che il nostro grande 
tenore, amico dei ministri del fascio, accidenti a lui, quando ha preso il colpo o era già morto o 
aveva ancora pochi secondi di respiro. Il cuore nero non gli pompava quasi più niente».
«Guarda, Bruno, che a forza di commenti antifascisti uno di questi giorni tu prendi un sacco 
di botte, te lo dico io».
Con la bocca piena di crema e caffè, che non aveva smesso di trangugiare mentre parlava, 
Modo fece un largo sorriso.
«Ma io ho amici nella polizia!»
«Sì, vabbè. Quindi, era già morto o stava morendo. E perché avrebbero dovuto colpirlo, se 
era già morto?»
Ricciardi fissò lo sguardo sul dottore, che dava le spalle alla vetrata. Dietro di lui, la 
bambina senza il braccio sinistro e coi segni delle ruote della carrozza sul piccolo torace 
martoriato, tendeva il fagottino di stracci verso di loro: “La figlia mia, è questa. Io la faccio 
mangiare, e la lavo”. Il commissario sospirò.
«Qualcosa non va?», chiese Modo, cogliendo l'espressione improvvisamente addolorata di 
Ricciardi.
«Un accenno di emicrania. Solo un poco di mal di testa».
E un mare di disperazione, quell'attaccamento alla vita che non ti vuole più, quell'attimo in 
cui le mani si aggrappano al sostegno prima di precipitare nel vuoto. “La figlia mia, è questa. Io 
la faccio mangiare, e la lavo”. Morire, forse per raccogliere un fagotto di stracci che è andato 
chi sa come a finire in strada, sotto una carrozza. Il dolore. Tutto quel dolore.
«Sei un tipo strano tu, Ricciardi. Il più strano che c'è, lo dicono tutti. Lo sai, la gente ha 
paura dei tuoi silenzi, della tua determinazione. È come se tu ti volessi vendicare. Ma di che?»
«Senti, dottore, io parlo volentieri con te. Sei bravo, onesto; e sei uno che se ha qualcosa in 
più da dare, la dà, e non è poco di questi tempi. Ma non mi chiedere altro, ti prego, se vuoi che 
continui a parlare con te».
«Come vuoi, scusami. Ma, a forza di lavorare insieme, uno si affeziona; fai la faccia del 
dolore, a volte. E io lo conosco, il dolore, credimi».
No, non lo conosci, pensava Ricciardi. Conosci le piaghe e i lamenti. Ma il dolore no: quello 
viene dopo e ammorba l'aria che respiri. Lascia come un tanfo dolciastro che ti rimane nel 
naso. La putrefazione dell'anima.
«Grazie, dottore. Senza di te, mi sarei già suicidato. Ti faccio sapere, se ci sono sviluppi 
nell'indagine. Una sola curiosità», aggiunse Ricciardi, alzandosi, «perché lo hai detto a me e 
non a Ponte, l'usciere?»
«Perché il tuo amico Garzo ha il vestito nero, ecco perché: e tu solo l'umore. Paga il conto, 
uscendo: un patto è un patto».
Fuori dal suo ufficio Ricciardi trovò sia Maione che Ponte. Fece un cenno del capo al primo, 
ignorando il secondo. Entrò nella stanza seguito dal brigadiere, che si sfilò il cappotto. II
      militare fece per chiudere la porta, ma l'usciere infilò la testa.
«Dotto', scusatemi, ma io non posso passare un guaio. Quello, il dottore Garzo ha detto che 
nello stesso momento che rientravate dovevate andare da lui. Non è nemmeno andato a 
mangiare!»
«Ma se è così necessario parlare col commissario, perché non viene lui?», domandò Maione 
sarcastico.
«Ma siete pazzo, brigadie'? Quello esce dall'ufficio solo per andare dal signor questore! Vi 
prego, dotto', vi prego: non me lo fate passare, 'sto guaio».
«Ponte, in questo momento ho da fare: sto seguendo un'indagine, come il vicequestore sa o 
dovrebbe sapere. Se ha delle comunicazioni che mi possono aiutare, me le invii. Se no, mi 
metta per iscritto che devo andare da lui invece di lavorare. Me l'ha detto lui, che non dovevo 
fare altro».
Ponte sospirò a lungo.
«Va bene, dottore, ho capito. Riferirò, e che Dio me la mandi buona. Fate il comodo vostro».
Quando l'usciere se ne andò, Maione sedette e tirò fuori un taccuino.
«Allora: Vezzi è sceso al Vesuvio, sul lungomare, dove scende sempre, ogni volta che viene a 
Napoli. Sono arrivati il ventuno sera, in treno, lui e Bassi, il segretario. Il personale 
dell'albergo, tanto per cambiare, lo schifava: dice che faceva cazziatoni a chiunque gli capitava 
a tiro, non gli andava mai bene niente eccetera. Però non è successo niente di particolare, non 
è che ha avuto discussioni tali da far pensare che qualcuno poteva fare questa cosa. La prova 
generale era fissata per le sei di lunedì ventitré: Vezzi è uscito alle quattro ed è rientrato 
direttamente la sera tardi, dopo la prova. Il portiere se lo ricorda bene, perché gli ha chiesto se 
aveva bisogno di una carrozza e lui gli ha risposto di farsi i fatti suoi. Ieri invece è uscito alle 
sei, per andare a teatro, e aveva il cappotto nero lungo, quello che sappiamo, un cappello a 
tesa larga pure nero, una sciarpa bianca di lana con cui si riparava tutta la faccia dal vento. Il 
portiere gli ha fatto gli auguri, lui ha fatto le corna e lo ha guardato storto. Questo è tutto. Ah, a 
proposito: il mare arriva fin sotto l'albergo, tanto è agitato».
Ricciardi aveva ascoltato attentamente, tenendo le mani intrecciate davanti alla bocca e gli 
occhi fissi su Maione.
«A che ora arrivano, l'impresario e la moglie di Vezzi?»
«Tra due ore alla stazione di Mergellina», disse Maione, controllando l'orologio da polso.
«Allora, fammi venire Bassi: voglio capire una cosa».
      18
Il segretario di Vezzi si presentò come sempre azzimato ed elegante; i capelli pettinati con 
la scriminatura al centro, sbarbato di fresco, gli occhiali cerchiati d'oro che sistemava sul naso 
con un gesto ripetuto e nervoso.
«Mi devo preoccupare, commissario? Non è che sono sospettato? Vi ricordo che ho passato 
la serata seduto vicino al signor sovrintendente, in prima fila».
Ricciardi ebbe un gesto di lieve fastidio, come a scacciare un insetto.
«No, Bassi. Direi di no. C'è una cosa che però vorrei capire: voi avete detto che, per 
compiacere Vezzi, un collaboratore doveva `saper sparire al momento giusto, lasciandolo 
libero'. Spiegatemi meglio: che significa questa cosa, in concreto?»
Bassi parve colto in contropiede. Si sistemò gli occhiali sul naso con l'indice della mano 
destra.
«In concreto? Beh, in concreto significa che il maestro pretendeva... discrezione, ecco. Lo si 
doveva capire ancora prima che parlasse, come per tutti i personaggi dotati di grande 
personalità».
«Sentite, Bassi: io vi ho fatto una domanda precisa. Credetemi, non siamo in un convento; 
qua sentiamo di tutto. Io so che voi intendevate qualcosa e pretendo che mi spieghiate che 
cosa».
Bassi perse istantaneamente la sicumera. Poi riprese a parlare in tono sommesso.
«Il maestro aveva le sue debolezze. Chi non le ha? Era un uomo che cercava la sua 
gratificazione, ovunque, in ogni circostanza. E gli piacevano le donne: soprattutto quelle degli 
altri. Io ho pensato spesso che non sopportasse l'idea che una donna gli preferisse un altro. 
Chiunque altro. Allora, se la prendeva. O provava a prendersela: ma normalmente ci riusciva».
«Ma non era sposato? Non è la moglie, quella che sta arrivando in treno?»
«Mah, sposato per modo di dire. La moglie è, insomma, un tipo di donna... era una cantante, 
sapete: voce di contralto. Smise, quando si sposarono, dieci anni fa. Poi, dopo la morte del 
bambino, difterite, cinque anni fa, non si sono più parlati, in pratica. Ognuno faceva la sua vita. 
Però, voi capite, commissario, il maestro era amico personale del Duce. La famiglia non si può 
distruggere. Allora, formalmente, sono rimasti insieme. Ma solo formalmente».
«Capisco. Quindi, Vezzi si dava da fare. E qui, a Napoli? Com'è stato, in questi giorni? Ha 
fatto qualcosa, è andato da qualche parte?»
«Non lo so, commissario. Quando... aveva da fare, il maestro semplicemente mi congedava. 
Diceva: `Non ho più bisogno, ci vediamo alle sette, o alle otto, alle nove', eccetera. Io capivo, e 
mi tenevo alla larga. Comunque, c'era sempre qualcosa da fare, quindi..».
«E negli ultimi giorni vi ha congedato?»
«Sì, lunedì; il giorno della prova generale».
«E vi ha detto qualcosa?»
«Sì, una cosa strana: mi ha chiesto dove si prendeva il tram numero sette».
Appena Bassi fu uscito, Ricciardi chiese a Maione qual era il tragitto del tram numero sette; 
il brigadiere si allontanò per qualche minuto. Quando tornò, era la solita miniera di 
informazioni.
«Allora, commissa': di tram numero sette ce ne sono due. Il sette rosso, che parte da piazza 
Plebiscito e arriva a piazza Vanvitelli, in collina sopra al Vomero; e il sette nero, che parte da 
piazza Dante e arriva sempre al Vomero, ma al piazzale di San Martino. Me lo ha detto 
Antonelli, che conosce tutti i trasporti della città, a dimostrazione che quelli che stanno 
all'archivio non fanno niente dalla mattina alla sera. Ora, il sette nero lo chiamano `la carrozza 
degli innamorati poveri', perché porta dove c'è questo boschetto col panorama sulla città, 
dove dice che si riuniscono le coppie. Il sette rosso, invece, lo pigliano quelli che lavorano al 
centro e abitano nelle case nuove. Quale avrà preso Vezzi?»
«Il sette nero. Certamente».
      Così Ricciardi decise di riempire il tempo che mancava all'arrivo della moglie di Vezzi e del 
suo impresario facendo un veloce sopralluogo sulla linea del sette nero. In realtà, doveva 
ammettere con se stesso, era anche un pretesto per evitare di presentare a Garzo un ormai 
indifferibile rapporto. Non gli andava a genio di esporre teorie abbozzate o incomplete, ma 
non poteva nemmeno inventare di sana pianta che era sulle tracce di un assassino già 
individuato. Disse perciò a Maione di restare a presidiare la posizione, nel caso qualcuno fosse 
venuto a rendere una spontanea dichiarazione, e si avviò a piedi verso piazza Dante.
Il vento era andato un po' calando, si stavano addensando le nuvole: forse avrebbe piovuto. 
La strada nel primo pomeriggio era ingombra di gente e di ambulanti. Si chiamava via Roma, 
ormai da sessant'anni; ma per i napoletani era e sarebbe rimasta via Toledo, come quando era 
nata sotto gli spagnoli. E sarebbe rimasta il limite, il confine pulsante tra le due anime della 
città, alternativamente posseduta e invasa dall'una o dall'altra. Le urla di richiamo dei 
venditori squarciavano l'aria, sui marciapiedi gli scugnizzi correvano scalzi, inseguendosi. I 
mendicanti sedevano a ridosso delle mura dei palazzi, vicino all'entrata delle chiese. Sul lato 
sinistro, i numerosi vicoli che intersecavano la via mostravano il panorama desolato e mobile 
degli antichi Quartieri Spagnoli.
Camminando, Ricciardi continuava a riflettere: perché il tram? Una carrozza, o uno dei 
cinquanta taxi della città, sarebbero stati la soluzione più logica. O anche la funicolare, la bella 
e moderna funicolare centrale aperta da tre anni; la vera ragione del progressivo popolarsi del 
nuovo quartiere, cui la borghesia si rivolgeva con sempre maggiore attenzione. Ma per il resto, 
il Vomero era ancora campagna coltivata, con greggi di pecore e capre e masserie. E qualche 
bella villa nobiliare, per la villeggiatura all'aria buona.
L'unico motivo per il quale Vezzi poteva aver preferito il tram era l'anonimato. Non farsi 
riconoscere. E perché? Perché non era una semplice passeggiata di salute, l'intento del tenore. 
Ma un altro tipo di passeggiata; quindi, anche una visita di cortesia a qualche nobile amico era 
da escludersi.
Lo stazionamento del tram, a piazza Dante, era proprio ai piedi della lunga salita che 
portava al Vomero. Ricciardi prese il biglietto e sedette, vicino al finestrino. In strada, verso 
Port'Alba, intravedeva l'immagine di un camorrista accoltellato nel corso di un regolamento di 
conti per il quale avevano subito arrestato il responsabile: un giovane che ambiva a farsi 
strada in società e che invece sarebbe marcito per trent'anni in galera. Il morto, grande e 
grosso e con le mani sui fianchi, rideva a squarciagola: nel vero senso del termine, perché 
aveva il collo squarciato da un orecchio all'altro e si vedeva attraverso la ferita il gorgoglio del 
sangue e dell'aria dell'ultimo respiro. Irrideva il proprio assassino e la sua mancanza di 
coraggio: un fatale errore di valutazione. Con uno scossone, il tram si mise in viaggio.
Lungo la salita gli edifici andarono diradandosi: Ricciardi osservò numerosi cantieri, 
tuttavia. Una città in costruzione, che si impadroniva un po' alla volta della campagna. Il 
terremoto  dell'anno  precedente  aveva  dato  luogo  a  consolidamenti  e  ristrutturazioni 
necessari, c'erano stati alcuni crolli e dei morti, anche se a essere devastata era stata la 
lontana Irpinia. Ma c'erano anche palazzi nuovi, nuove strade. Altri quartieri da tenere 
d'occhio, altra ricchezza; e nuovi crimini e delitti, pensò il commissario con un sospiro.
Il vento freddo si faceva più forte, man mano che il tram arrancando si arrampicava in 
collina: Ricciardi lo vedeva chiaramente dall'ondeggiare della vegetazione, ora più fitta. Alberi, 
cespugli; appezzamenti coltivati, sentieri in terra battuta che si inoltravano nella campagna, 
qua e là ville circondate da palme. Ai lati della strada, in mezzo alla quale correvano le rotaie, 
qualche baracca con donne che facevano il bucato e bambini che giocavano all'aperto.
Un ragazzo, con un cane e due capre legate a una corda, vendeva ricotta e pane a un 
gruppetto di muratori in pausa, nei pressi di un cantiere. Uno di loro, un po' in disparte, aveva 
la testa piegata in modo innaturale. Il commissario distolse lo sguardo: un altro dei mille 
incidenti sul lavoro, di cui non si sapeva mai niente.
Il tram giunse al capolinea, nel piazzale nuovo davanti al carcere militare. Ricciardi si
      avvicinò al responsabile della biglietteria e chiese se, nelle immediate vicinanze, ci fosse una 
pensione. Ricevuta l'indicazione si avviò verso una bassa palazzina non lontana, dove una 
targa in metallo verniciato di verde recava una scritta gialla: Pensione Belvedere.
La proprietaria manifestò un'iniziale diffidenza: poi, quando lui si qualificò, ammise di 
ricordare il corpulento signore che «parlava forestiero, settentrionale» e che era venuto 
lunedì ventitré. Si era trattenuto tre ore nella sua camera, dove era stato raggiunto dalla 
signora. La signora era arrivata per conto suo, non erano giunti insieme. Sì, aveva detto «la sua 
camera»: il signore l'aveva affittata per tre mesi, pagando in anticipo. Il signor commissario la 
voleva vedere?
Ricciardi si ritrovò in una camera pulita, con un sontuoso panorama alla finestra. Nessun 
oggetto personale, eccetto un pennello da barba, del sapone e un rasoio vicino all'acquaio, in 
un angolo. Nessuna traccia di presenze femminili, nulla nel cassettone, nulla nell'armadio se 
non una veste da camera nuova, apparentemente mai indossata. La prese, come a volerne 
soppesare la consistenza. Sulla spalla, un lungo capello biondo.
Uscendo, il commissario disse alla signora che poteva ritenere libera la camera, perché 
l'affittuario non sarebbe tornato: l'albergatrice non nascose il proprio disappunto.
«Io speravo che avrebbe rinnovato. Anche se non aveva risposto quando gliel'ho chiesto. È 
andato via di fretta».
«Come, rinnovato? Non aveva fissato per tre mesi, da lunedì ventitré?»
«No, commissa'. Tre mesi, a partire dal venti dicembre scorso. È allora, che sono venuti la 
prima volta. Stavano ancora facendo i lavori nel piazzale».
«E la signora che lo ha raggiunto? Era sempre la stessa?» 
«Sì, commissario. Sempre la stessa. Si capiva che era giovane, arrivava per conto suo, 
separatamente».
«Sapreste descriverla?«
«No, veramente no. Portava il cappello, la sciarpa, un cappotto pesante; non l'ho mai vista 
in faccia; non rispondeva neanche al saluto, non ho mai sentito la voce. Peccato, però; lui mi 
sembrava contento. E che belle mance, mi lasciava!»
La notizia gettava una luce nuova sugli eventi, pensava Ricciardi percorrendo la discesa che 
portava al piazzale panoramico e al belvedere. Vezzi era venuto a Napoli a dicembre, dunque: 
era quella l'altra volta che aveva sottinteso Bassi. Quello, l'elemento che gli solleticava l'istinto 
e che non aveva rilevato subito. Ma c'era qualche altra cosa nelle parole di don Pierino, che 
non gli era ancora chiara. Che cosa?
Il tram non sarebbe partito prima di un quarto d'ora. Decise di affacciarsi al nuovo 
belvedere. La città si stendeva ai suoi piedi, sotto un cielo sempre più carico di pioggia: a 
vederla così, mentre si accendevano le prime luci, non sembrava ribollire di passioni o 
emozioni. Ma Ricciardi sapeva bene quanti strati c'erano, sotto quell'apparente tranquillità. 
Nessun delitto, solo sicurezza e benessere di regime: così era sancito, per decreto. Ma i morti 
vegliavano nelle strade, nelle case, a chiedere pace e giustizia.
Si accostò al muretto: sotto di lui, la tortuosa scalinata di via Pedamentina che da San 
Martino portava al corso Vittorio Emanuele. Un cammino lungo e dolce, che fiancheggiava un 
declivio di vegetazione fitta. Le luci sospese, a illuminare la scalinata, ondeggiavano nel vento. 
Ma il tardo pomeriggio ancora rischiarava un piccolo parco con le panchine, il ritrovo degli 
innamorati che non potevano pagarsi una stanza per tre mesi e neanche per tre ore.
Ricciardi vide due coppie, sulle panchine: un marinaio cercava di abbracciare una ragazza 
che lo respingeva ridendo; un giovane elegante, magro, forse uno studente, teneva per mano 
una donna che lo fissava trasognata. Ricciardi spostò lo sguardo: a pochi passi di distanza dal 
marinaio vide un uomo seduto a terra che teneva entrambe le braccia strette sull'addome 
come ad abbracciare se stesso. Dalla bocca usciva una schiuma giallastra che ribolliva d'aria. 
Gli occhi erano vitrei. Anche così, da lontano, il commissario percepiva le sue parole: “Senza te 
non c'è vita. Senza te non c'è vita. Senza te non c'è vita...”. Si è avvelenato, pensò lui.
      Barbiturici, acido, varechina. Che cosa cambia?
Poco più indietro la sagoma di una giovane donna  dondolava da un ramo, impiccata a un 
pezzo di stoffa; forse una sciarpa. Sembrava un frutto tardivo dell'inverno, come un grappolo 
d'uva sfuggito alla vendemmia e non ancora rinsecchito. Gli occhi fuori dalle orbite, il viso 
paonazzo, la lingua orrendamente gonfia e bluastra che pendeva dalle labbra tumefatte. Il 
collo allungato dalla trazione, gambe e braccia distese e composte. Continuava a ripetere: 
“Amore mio, perché? Amore mio, perché?”. Un posto da innamorati, pensò Ricciardi. Ne aveva 
visti altri, così “abitati”: le persone andavano a cercare la pace dove erano state felici, non 
sapendo che non c'era pace, nemmeno nella morte.
Mentre osservava vivi e morti, gli venne in mente la réclame di un ricostituente, che vedeva 
spesso sul giornale. Prima e dopo la cura, pensò.
Prima e dopo l'amore.
La tromba del tram risuonò nell'aria; senza cambiare espressione, Ricciardi si girò e 
cominciò lentamente la salita.
      19
La chiesa di Santa Maria degli Angeli era gelida. Lungo la navata e all'interno della cupola, 
dalla quale filtrava la luce di un sole che non riscaldava, si sentiva sibilare il vento, senza sosta. 
Sulle panche davanti all'altare alcune vecchie recitavano una nenia senza fine, con parole 
storpiate di una lingua dimenticata, implorando la clemenza di Dio e dei santi.
In fondo, nella penombra, una donna si nascondeva. Un largo scialle nero sui capelli biondi 
e sul volto, la testa china. Nascondeva la sua bellezza, il suo corpo, gli occhi azzurri. Avrebbe 
voluto pregare, ma le mancava il coraggio.
Alzò lo sguardo sull'affresco della cupola, chiazzato di umidità, che rappresentava il 
Paradiso.
La donna sorrise, tristemente. Un Paradiso rovinato, cadente. Un Paradiso sognato, dipinto 
a colori vivaci e poi perduto. Le sembrava la sua storia. Aveva immaginato una vita nuova, un 
nuovo amore. Si guardò attorno e vide le belle figure della vita di Maria. La purezza, 
l'innocenza. Lei... invece. Non era entrata per chiedere perdono: non era pentita per il 
tradimento. Era andata lì per pensare a come avrebbe potuto, dopo essere stata così vicina al 
paradiso, non precipitare all'inferno.
Esattamente ventiquattr'ore dopo l'assassinio di Vezzi, Ricciardi rientrò in questura. Come 
prevedeva, fuori dal suo ufficio trovò sia Maione che Ponte. L'aria era elettrica, c'era stata di 
certo più di una discussione tra i due: il brigadiere aveva gli occhi iniettati di sangue, l'usciere 
le labbra tremanti.
«Finalmente, dotto': io non so più che gli devo dire, al vicequestore. Il brigadiere, qua, se la 
piglia con me; io vi copro, per quanto posso, ma..».
«Ma che copri, tu, che sei il leccapiedi di un leccapiedi. Ci devi fare lavorare, hai capito o no? 
Se dobbiamo fare rapporto ogni cinque minuti, come andiamo avanti?»
Ricciardi pensò bene di intervenire.
«Lascia, Maione. Ci penso io. Tu vai a prendere l'impresario e la moglie, che staranno per 
arrivare. Ponte, accompagnami da Garzo».
Il vicequestore stavolta non si alzò per ricevere Ricciardi. Non gli disse nemmeno di sedere.
«Allora, Ricciardi: ve lo chiedo una volta sola. A che punto siete?»
Siete. Non siamo.
«Sto indagando. Se avessi avuto notizie ve le avrei riferite, naturalmente. Non eravamo 
d'accordo così?»
«Non siete voi a fare le domande a me!», scattò Garzo.  «Avete idea delle pressioni cui siamo 
sottoposti? Riceviamo fonogrammi da Roma ogni ora. I giornali non parlano d'altro. Il Mattino 
ha chiamato protestando vivacemente per come avete trattato un cronista, un tale Luise, 
stamattina a teatro. Quelli si vendicano, Ricciardi: lo sapete, o no? Si fa presto a diventare da 
`brillante investigatore' uno che 'brancola nel buio'. Che devo dire al questore? E lui che deve 
dire a Roma? L'ufficio del Duce è in contatto con l'Alto Commissario della città, più per la 
morte di Vezzi che per il terremoto dello scorso anno. Voi dovete, dico dovete, darmi qualche 
elemento».
«Io non parlo a vanvera, dottor Garzo. Mai. Se do qualche elemento significa che ce l'ho».
La sicurezza di Garzo si andava sgretolando.
«Ma io non so che cosa dire! Vi prego, capitemi. Non posso far vedere che non so niente!»
«Dite che si tratta probabilmente di un delitto a sfondo passionale. Non c'è sempre una 
passione, dietro a un delitto? Dite così: qualsiasi sarà la soluzione, avrete avuto ragione».
Garzo si illuminò.
«Avete ragione, Ricciardi. Bravo, bravissimo! Questo li placherà, per un poco. Ma mi 
raccomando: non lasciatemi all'oscuro. Se doveste rinvenire qualche altro elemento, vi prego, 
ditemelo subito».
«D'accordo, avete la mia parola. Ma tenetemi la stampa e Ponte alla larga».
«Sarà fatto. Buon lavoro, Ricciardi».
Rientrando nel suo ufficio, Ricciardi cercava di riordinare le idee. Vezzi era venuto a Napoli 
con Bassi, in forma ufficiale, subito prima di Natale; si era trattenuto qualche giorno, aveva 
fissato la stanza alla Pensione Belvedere.
Anche il giorno della prova generale era stato lì, quello fu il motivo del ritardo. Il capello 
biondo, lungo, sulla giacca da camera. Quindi, una donna: e una donna da nascondere con 
attenzione.
Sembravano esserci diverse persone con buoni motivi per vederlo morto, o almeno per 
vendicarsi: il direttore d'orchestra, ad esempio. O lo stesso Bassi, mortificato in continuazione. 
O anche baritoni, soprani e camerieri.
Ma Ricciardi si era fatto l'idea che la gente del teatro difficilmente avrebbe dato quel tipo di 
sfogo all'amor proprio: la convenienza, anzitutto. E poi l'abitudine alla recitazione, alla 
finzione. No, non ce lo vedeva un cantante o un professore d'orchestra meditare per 
risentimento un delitto così feroce e metterlo in pratica. E poi, le caratteristiche dell'omicidio 
erano quelle dell'impulso: la colluttazione, lo specchio rotto, tutto quel sangue. Comunque 
fosse andata, non era certo un delitto premeditato. E il tenore era solo, nel camerino, prima di 
essere ucciso, a truccarsi e prepararsi. Il vezzo di Vezzi. E allora, chi poteva essere stato? 
Ricciardi sapeva di dover cercare i due vecchi nemici: la fame e l'amore. Uno dei due, o 
entrambi: alla base della morte, la fame e l'amore.
Maione si affacciò alla porta.
«Dotto', l'impresario e la signora sono nel salottino. Chi faccio passare prima?»
Mario Marelli era un uomo d'affari; si capiva dall'abbigliamento, dal modo di parlare, dai 
gesti. Perfino dai tratti del volto, la mascella quadrata, volitiva, il naso imponente e lo sguardo 
azzurro, limpido, sotto le folte sopracciglia. I capelli avevano un ottimo taglio, lucidi di 
brillantina, appena ingrigiti  alle tempie; sulla camicia bianca, impeccabile, dal colletto 
arrotondato, spiccava una cravatta scura, ben annodata. Sotto la giacca a doppio petto, di 
gessato marrone, spuntavano i bottoni del gilè e dal taschino sporgeva la catena dell'orologio 
d'oro.
«Commissario, non sprecherò il vostro e il mio tempo a fingere di essere addolorato. Vezzi 
era un pessimo individuo, ve ne sarete fatto un'idea; e se non ve la siete fatta, ve lo dico io. 
Non ho conosciuto una sola persona cui piacesse, nei dieci anni in cui ho reso la mia 
prestazione in suo favore. A parte i potenti di Roma, beninteso. In questo era bravissimo, a 
leccare i piedi dei potenti».
«Come mai non eravate con lui, a Napoli?»
«C'ero stato per l'allestimento, prima di Natale: è in questa circostanza che si concordano i 
termini  del  contratto,  i  pagamenti  e  tutte  le  altre  clausole.  Poi,  al  momento  della 
rappresentazione, non è necessario che l'impresario sia presente. Nella fattispecie, meno era il 
tempo che passavo con quel degenerato, meglio era per me. Quindi mi guardavo bene dal 
seguirlo».
«Quando siete venuti, prima di Natale, che voi ricordiate Vezzi si allontanò per qualche 
tempo?»
«Vezzi? Per tutto il tempo. Forse non mi sono spiegato: lasciava a me la parte contrattuale, 
parlare con la sovrintendenza, con l'orchestra, con il regista dello spettacolo. Lui pensava solo 
a quello che riguardava la sua persona. La sartoria per i costumi, il camerino, il trucco. Gli 
interessava solo vestirsi, truccarsi e cantare. Tutto il resto del mondo gli doveva girare 
attorno. Siamo stati in città quattro giorni, io l'ho visto forse tre volte, per qualche minuto. Ah, 
una volta mi pare che abbiamo pranzato insieme, in quel ristorante a Piedigrotta, quello 
famoso. Me lo ricordo perché mandò indietro il pesce due volte, non gli andava bene la 
cottura. Rivedo lo sguardo del proprietario. Che mascalzone».
      «Quali sono i motivi del vostro risentimento? Mi pare chiaro che i rapporti tra voi fossero 
particolarmente critici e, quindi, non solo professionali».
«Era impossibile avere rapporti buoni con Arnaldo Vezzi. Anzi, l'unico modo di avere 
rapporti con lui era mettersi sotto i suoi piedi e assecondarlo in tutto. Questo va anche bene, 
mi è capitato altre volte, ma non in certe circostanze particolari, nelle quali la posizione 
diventa indifendibile».
Ricciardi si chinò lievemente in avanti.
«Per esempio?», disse.
«Per esempio, quando a Berlino si ubriacò e si presentò al Cancelliere con un'ora di ritardo. 
O quando fu trovato in albergo con una ragazzina di tredici anni, figlia dell'albergatore. O 
ancora quando, preso dall'ira per quello che a suo dire era un attacco ritardato, spaccò un 
violino da cinquantamila lire sul pavimento, dopo averlo strappato al professore d'orchestra, 
a Vienna. Devo continuare?»
«Ma allora come mantenevate il rapporto professionale? Su quali basi?»
«Semplice: sulla base del fatto che era un genio. Un genio assoluto. A parte la voce, 
straordinaria, il senso della scena: la capacità di interpretare con perfezione qualsiasi ruolo, 
calandosi all'interno del personaggio. E intendo all'interno: si vestiva dell'anima di chi 
interpretava, ne raggiungeva la perfetta identità. Io ho una teoria: secondo me gli riusciva 
perché non aveva un'anima sua. Quindi, scriveva su una lavagna pulita, non aveva emozioni 
sue da nascondere. Un serpente».
«E quindi?»
«Quindi non esisteva un tenore migliore. Rappresentarlo significava solo dirigere il traffico. 
Avremmo avuto dieci anni di ruoli prenotati, se avesse voluto».
Ricciardi aggrottò la fronte, perplesso.
«Ma allora è un danno serio, per voi, la sua morte, no? Avete perso un lavoro importante. Se 
non altro per questo, dovreste essere abbastanza addolorato».
«No, commissario. Se non lo avete già saputo da quell'imbecille del suo segretario, ve lo 
dico io: Vezzi aveva deciso di non avvalersi più della mia collaborazione. Aveva detto, molto 
nobilmente com'era suo costume, che poteva spuntare gli stessi compensi e risparmiare 
inoltre il dieci per cento. E, devo purtroppo ammetterlo, aveva ragione».
«Quindi, in pratica vi aveva licenziato».
«In pratica; ma dalla prossima stagione. Per questa, e fino al termine, lo avrei ancora 
rappresentato. Quindi tutte le lamentele, le penali richieste, le multe arrivavano ancora al mio 
ufficio, purtroppo».
Ricciardi non ci vedeva del tutto chiaro.
«Ma le scelte artistiche, le opere da cantare, le date, le concordava con voi?»
«Chi, Vezzi? Si vede che non lo conoscevate», disse Marelli, con un sorriso amaro. «Certo, 
così dovrebbe essere e così è, con tutti gli altri artisti che rappresento. Ma non con Arnaldo. 
Lui faceva il comodo suo, nel momento in cui gli veniva in mente. Salvo poi cambiare idea e 
decidere il contrario lasciando in sospeso decine di persone e il loro lavoro. Guardate, 
commissario: il mio vero rammarico, in questa storia, è essermi perso la prossima stagione di 
Vezzi, quella che avrebbe gestito direttamente. Sono sicuro, credetemi sulla parola, che 
avrebbe pagato tra multe e penali il doppio, almeno, dei guadagni. So solo io il lavoro che mi 
costava cercare di riparare ai guai che faceva».
«E come mai avevate accettato di rappresentarlo, se era un personaggio così difficile?»
«Voi seguite l'opera, commissario? No? Allora, lasciate che vi spieghi qualcosa. La mia 
generazione, diciamo quelli che ora hanno più di quarant'anni, rimarrà legata all'opera lirica 
per sempre. Come i nostri genitori e i nostri nonni. Legati alla passione, alla gioia e al dolore 
che trovavamo sul palcoscenico, dal loggione prima, dalla platea poi e per i più fortunati dal 
palco.  Era  ed  è  un'occasione  di  incontro,  un  modo  per  riconoscere  melodie  note, 
appassionanti.
      «Ma le cose stanno cambiando: basta guardarsi intorno. La radio, i ballabili. Il jazz, la 
musica dei negri americani. E il cinema soprattutto. Vi è già capitato di vedere un film col 
sonoro? A Napoli avete due sale, mi risulta. A Milano sono già quattro, a Roma addirittura sei. 
Ed è in Italia da un anno, più o meno. La gente oggi vuole fare, non ascoltare. Non basta più 
sedersi  e  guardare,  al  massimo  applaudire  o  fischiare:  si  vuole  ballare,  canticchiare, 
fischiettare. Essere in mezzo alla scena, guardare i due protagonisti che si baciano con 
passione, da vicino. O andare allo stadio e vedere venti scalmanati in pantaloncini. Che spazio 
avremo, in futuro, per l'opera? Sempre di meno, ve lo dico io. Sempre di meno.
«Ecco perché i Vezzi, quando esistono, vanno tutelati e salvaguardati. Perché ne nasce uno 
ogni cent'anni. Riempie il teatro, uno come Vezzi: ogni volta che canta. Anche se canta la stessa 
cosa cento volte, cento volte la gente lo va a sentire. E perché? Perché ogni volta la gente sente 
qualcosa di nuovo, di diverso. Un diverso incanto. Allora, meglio Vezzi con tutte le sue 
mattane, i difetti, le cattiverie e le mortificazioni che infligge, che mille validi e coscienziosi 
professionisti, lavoratori e rispettosi del lavoro altrui, ma senza talento. Quelli avranno 
sempre la sala mezza vuota, ve lo dice il Marelli; e il Marelli ha la sua esperienza, signor 
commissario».
Ricciardi assenti, con una smorfia. Lo aveva già sentito, quel discorso.
«Ma allora, secondo voi, chi è che potrebbe averlo ucciso».
Marelli fece una breve risata, senza allegria.
«Ah, ma chiunque. Chiunque abbia avuto modo di vedere, anche solo per un attimo, la sua 
animaccia nera. Io stesso ho provato la tentazione di strangolarlo almeno mille volte. Ma chi 
strangolerebbe la gallina dalle uova d'oro? Non un,uomo d'affari».
«E, a proposito, voi il venticinque...»
«...ero alla Scala, dove davano La Traviata: c'erano due artisti miei. Bravissimi ragazzi, seri 
professionisti. Non riempiranno mai il teatro da soli, ma l'anno prossimo saranno ancora con 
me, loro».
      20
Quindi, eccone un'altro. Anche Marelli, pensava Ricciardi quando si ritrovò da solo in 
ufficio, aveva ottimi motivi di risentimento nei confronti di Vezzi. E ottimi motivi per tenerlo 
vivo e in salute fino alla fine della stagione, almeno. Chissà come dev'essere la vita, pensò, se 
sei circondato da gente che ti odia ma che dipende da te. Forse pensi di essere una divinità 
maligna, alla quale i fedeli offrono sacrifici per paura dei fulmini o della siccità. O forse ti senti 
solo; ancora più solo.
Comunque, anche Marelli aveva un alibi facilmente verificabile: il teatro. Prese un appunto 
e chiamò Maione.
«Verifica la presenza di Marelli alla Scala, il venticinque. Fai un fonogramma alla questura 
di Milano. La signora Vezzi è di là?»
«Sì, commissa'. Non si è alzata il velo per un momento, non ha detto una parola. Se ne sta 
seduta, diritta diritta, senza manco guardarsi attorno. Mette un poco a disagio, per la verità. La 
faccio passare?»
«Sì, falla passare. Tu se vuoi puoi anche andartene a casa, mi sa che per oggi abbiamo 
finito».
«Va bene, commissa'. Caso mai aspetto solo finché non avete finito con la signora, se vi 
serve qualche cosa».
Ricciardi, noblesse oblige, aspettò la signora Vezzi sulla soglia dell'ufficio. Ebbe quindi 
modo di vederla arrivare sin dall'inizio del corridoio, dov'era il salottino in cui aveva atteso. 
Alta, vestita di nero, un soprabito col collo di pelliccia, un cappellino col velo che le copriva il 
volto. Si intuiva una figura piena e florida, ma il passo era elastico e sicuro, non pesante. 
Un'andatura morbida, ma nervosa. Come se da un momento all'altro la donna potesse correre 
via, senza sforzo.
Si fermò davanti a lui, per un attimo: piegò lievemente la testa di lato. Il commissario ne 
intuì lo sguardo sotto il velo che ne nascondeva i lineamenti. Si fece da parte, per lasciarla 
passare; le porse la sedia e, dopo che lei si fu seduta, fece il giro della scrivania e si sedette a 
sua volta. Un profumo selvatico, come di spezie, pervase la stanza.
La donna rimase ferma per un attimo. Con un gesto lento e deciso, portò le mani al cappello 
e se lo tolse. Il viso dai lineamenti regolari, la carnagione chiara: un trucco leggero 
sottolineava le labbra piene, gli occhi grandi e neri, il naso diritto appena lungo; l'ovale era 
proporzionato, con una lieve fossetta sul mento. La signora Livia Lucani, ormai vedova Vezzi, 
era bellissima e ne era consapevole. Guardava incuriosita il commissario, tanto diverso da 
come si aspettava.
Di fronte a lei, seduto con le mani intrecciate davanti a sé, Ricciardi la guardava fisso in 
volto, gli occhi inespressivi. Si chiedeva cosa ci fosse nello sguardo altero di lei.
Orgoglio, forse: l'eco di un dolore. Ma non un dolore recente, non la morte del marito. 
Piuttosto qualcosa di più antico. A volte Ricciardi preferiva i morti: dicevano sempre la stessa 
cosa, ma almeno parlavano. I vivi invece ti guardavano e tu non sapevi che cosa stessero 
pensando. Soprattutto le donne.
Dopo qualche attimo, ma gli sembrò che fosse passato più tempo, Ricciardi parlò.
«Signora, vi porgo anzitutto i sensi del mio personale cordoglio, con quello della questura. 
Voglio che sappiate che faremo tutto quanto è in nostro potere affinché sia punito il 
responsabile del delitto».
«Grazie, commissario. Vi ringrazio molto. Ne sono sicura».
Livia aveva una voce profonda, modulata. Ricciardi pensò che era naturale, gli avevano 
detto che era stata una cantante. Tuttavia ne fu ugualmente sorpreso: un suono basso, spesso. 
Ma anche dolce, estremamente femminile.
«Dovrete scusarmi, signora, se vi farò certe domande. Sono finalizzate allo scopo che vi ho 
detto. Ma se dovesse essere troppo doloroso per voi rispondermi, se doveste essere affaticata
      dal viaggio o semplicemente se il vostro dolore... insomma, non voglio essere invadente. Vi 
basterà dirmelo, e rimanderemo».
«No, commissario. Il mio viaggio è stato tutt'altro che faticoso; e il momento è questo e non 
c'è più niente da fare. Dovrò... vederlo? Vedere mio marito?»
Il modo di riferirsi a lui: c'era un po' di paura, nel tono della donna. Sicuramente non 
amore, né rimpianto.
«Temo di si, per il riconoscimento. Siete la parente più stretta, è la legge. Non è qui, 
comunque: è in ospedale, vi accompagneremo domattina».
«Com'è successo? Cioè... non mi hanno detto. Com'è stato ferito? Lo hanno... sfigurato?»
L'orrore. La paura di non farcela a guardare in faccia lo scempio. Ricciardi conosceva 
questo sentimento, lo incontrava spesso. Come se a colpire non fosse stato un altro essere 
umano. Cosa ti dovrei raccontare, signora? Dell'ultimo canto d'amore che si tramuta in odio? O 
del sangue che vedo uscire a fiotti dall'arteria bucata?
«No,  signora.  Un'unica  ferita,  mortale,  non  sul  viso.  Forse  casuale,  non  procurata 
volontariamente. Una colluttazione. Non sappiamo ancora. Ma nessuno scempio, no».
Livia si portò al viso una mano tremante e inguantata. Non voleva piangere e non avrebbe 
pianto. Aveva esaurito le lacrime anni prima. Ma temeva che vedere il cadavere dell'uomo che 
un tempo aveva amato fosse troppo, per lei. E inoltre non poteva impedirsi di provare 
curiosità per l'uomo che aveva davanti; quegli occhi verdi, fissi, così strani in quel viso bruno. 
Il naso affilato, con qualche tremito delle narici. La linea delle sopracciglia, lievemente 
incurvate al centro, quasi un broncio naturale. Le labbra sottili, un po' strette, l'istintivo guizzo 
della mascella. La ciocca di capelli sul viso, come un ragazzo, a ingentilire l'impressione di 
durezza generale. Le ricordava uno smeraldo non incastonato, freddo e indifferente, ma 
attraente e incantevole. Non riusciva a distoglierne lo sguardo.
All'apparenza  Ricciardi  non  si  accorgeva  dell'insistenza  con  cui  la  donna  lo  stava 
osservando e a sua volta la scrutava, cercando di cogliere le sue emozioni. Se alla base dei 
delitti c'erano la fame e l'amore e le alterazioni di questi bisogni, allora una donna, una donna 
bella, poteva essere l'origine di un movente. Anche se lontana, una moglie poteva provocare 
delusione, gelosia, invidia e scatenare qualsiasi reazione. Ne aveva viste tante, Ricciardi, e 
tante, lo sapeva, ne avrebbe ancora incontrate.
Quella, poi, era una donna che avrebbe fatto impazzire chiunque. Negli occhi neri, profondi 
ed espressivi, Ricciardi leggeva una grande energia insieme a una profonda intelligenza e alla 
consapevolezza della propria bellezza: una miscela più potente di qualsiasi esplosivo.
«Da quanto tempo non vedevate vostro marito, signora?»
«Tre mesi, credo. Da Natale, più o meno».
Ricciardi la fissava.
«Non vi sembra normale, vero? Lo so. Ma la mia non è mai stata una famiglia normale. Con 
Arnaldo non era possibile avere una famiglia. Lui... avrebbe dovuto rimanere da solo, ecco. In 
realtà, tutto il nostro matrimonio è stato funzionale a lui. Alla sua carriera. Di questi tempi, 
poi: non si può avere una carriera, una visibilità pubblica, senza una bella famiglia. E allora, 
serve un matrimonio. Un bel matrimonio pubblico».
«E voi, signora? Che convenienza avete avuto?»
Livia non sembrò riconoscere il sarcasmo, nella voce di Ricciardi. Guardava avanti a sé, 
senza vedere, seguendo il filo dei ricordi.
«Convenienza? La convenienza di sposare un genio, il più grande di tutti i tempi. E l'uomo 
che si ama. Che si crede di amare. O che si è amato, forse. Voi siete sposato, commissario?»
«No. Io no. Com'è essere sposati? Spiegatemelo, signora».
«Non lo so. In questi anni, tutti questi anni, non ricordo mai di averlo sentito mio. Certo, la 
casa: i mobili, le feste. Le persone importanti, il partito, le autorità. Quadri, statue. Premi. I 
viaggi, i sorrisi per la stampa, i lampi del magnesio. Gli aeroplani, perfino. I vagoni-letto. 
Ancora sorrisi. Ma solo fuori dalle mura. In casa, sola ad aspettare. Ma ad aspettare che cosa?»
      «E lui? Lui, nel frattempo?»
Sempre guardando nel vuoto, Livia inseguiva il ricordo della solitudine.
«Lui, in giro. Protestavo quando tornava, gli chiedevo spiegazioni. `Come osi? Stai al tuo 
posto. lo vivo, io sono il grande Vezzi. Lasciami vivere, lasciami andare.' E l'amore..».
«E l'amore?»
«L:amore finisce. Le braccia che ti stringevano diventano sbarre che ti respingono. Il viso 
che accarezzavi con lo sguardo, nel sonno, diventa il segno della tua fine. Anche la fine delle 
aspirazioni, della carriera. Ero brava, sapete, commissario? Veramente brava. Ho cantato a 
New York, a Londra. Anche qui al San Carlo, nel Ventidue, ho interpretato L'italiana in Algeri. 
Ma poi ho sacrificato tutto sull'altare del dio Vezzi. Non so perché abbia sposato me, perché 
abbia voluto proprio me. Me lo sono chiesta cento, mille volte in questi anni. Poteva avere chi 
voleva, nobildonne, eredi di enormi ricchezze, ma ha voluto me. Ero fidanzata con un conte 
fiorentino quando ci hanno presentati, ma lui non se n'è nemmeno accorto. Ha cominciato a 
corteggiarmi inondandomi di rose, lettere, messaggi; sembrava impazzito. L'ho visto così altre 
volte, dopo: era fatto così. Quando voleva una cosa, qualsiasi cosa, non dormiva, non viveva 
finché non l'aveva. Così è stato con me».
Ricciardi ascoltava, assorto. Cercava il germe della vendetta nelle parole di Livia, ma non lo 
trovava.
«Ma non provate rancore, o rabbia, per la vostra vita? Non vi sentite derubata di qualcosa 
che vi apparteneva?»
La donna sollevò lo sguardo e si ritrovò a fissare quegli occhi verdi. Ci affondò dentro, per 
un lungo attimo che si dilatò a dismisura. Ci vide la consapevolezza della sofferenza, vi 
riconobbe il senso del dolore.
«Voi avete perso qualcuno, commissario? Vi è mai mancata una persona molto amata?»
Ricciardi tacque per un momento e rivide l'uomo di San Martino, con la bava giallastra alla 
bocca e le mani strette sull'addome, ripetere “senza te non c'è vita”, mentre la donna 
impiccata chiedeva perché.
«Diciamo che conosco questo tipo di mancanza, ho visto tanti casi con il mio lavoro, e 
conosco l'assenza».
«Allora, se conoscete l'assenza, saprete che diventa una condizione. Ci si abitua, se si 
sopravvive. Io mi sono abituata. Sei anni fa ho avuto un figlio da Arnaldo. Ho creduto di 
ritrovare i segni della gioia e dell'amore perduto. Ma non era scritto così. Lo stesso Dio che mi 
aveva condannato al carcere a vita mi ha tolto la gioia che mi aveva dato. È meglio essere 
ciechi dalla nascita o diventarlo? Non conoscere i colori o almeno poterli ricordare? Me lo 
sono chiesta mille volte, anche questo. Tutti questi anni, a farsi sempre le stesse domande».
«Cos'è successo al bambino?»
«Morto di difterite, a un anno. Arnaldo non me lo ha perdonato, come se l'avessi ucciso io. 
`Nemmeno a essere madre, sei stata capace', mi ha detto. Gli serviva un figlio: quanto una 
moglie, ancora di più. La continuità, il seguito. Poi, la prova della virilità, della bontà del seme, 
da offrire al partito, alla patria. Che sciocchezze. Non pensate che siano sciocchezze, 
commissario? O siete di quelli che ci credono, a queste cose».
«No, non sono di quelli. E poi? Cos'è successo, dopo? Non vi siete più avvicinati?»
Livia sospirò, passandosi una mano sui capelli raccolti.
«No. Ma non siamo mai stati vicini. E comunque, se un figlio unisce, perderlo può separare 
definitivamente. Ammesso che sia mai esistito, il nostro matrimonio».
Si fermò a seguire un suo pensiero. Poi guardò Ricciardi dritto negli occhi.
«Voi avete mai visto un fantasma, commissario?» 
«Chi lo sa. Forse, a volte. Ma forse li vediamo tutti». 
«Io vivo col fantasma del mio bambino. Mi fa compagnia, ci parlo. Credo di vederlo, a volte: 
lo sento in braccio, sento il suo peso».
«E vostro marito? Cos'è successo, dopo?»
      «È andato per la sua strada, definitivamente. Non tentava nemmeno più di salvare le 
apparenze. Ci rivedevamo in occasione delle manifestazioni ufficiali, sono stata a sentirlo 
cantare, un paio di volte. Lui le sue storie, io le mie. Senza rimpianti, non più».
Ricciardi inarcò un sopracciglio.
«Le vostre storie?»
Livia alzò il mento, orgogliosa.
«Sono una donna: ferita a morte, ma ancora viva. Ho avuto bisogno di sentirmi apprezzata, 
sì. Di vedere se ero ancora capace di stimolare uno sguardo, un sorriso. Se potevo ancora 
ricevere un mazzo di rose, una lettera d'amore. E poi, avrei dovuto rimanere fedele? E a chi? A 
un uomo che non tornava a casa per mesi? E che non esitava a umiliarmi, mostrandosi in 
pubblico con altre donne? Avreste dovuto vederle, le facce di commiserazione dei nostri amici, 
delle nostre conoscenze importanti. Forse speravo di fargli un po' di male anch'io».
«Vi chiedo scusa, signora. Non volevo offendervi, sono questioni che non mi riguardano. 
Era per sapere se poteva esserci qualcuno che in qualche modo voleva liberarsi di vostro 
marito. Per arrivare a voi, magari».
«No, commissario. Non frequento più nessuno da mesi. Potrete verificarlo facilmente. Ho 
passato tutta la settimana a Pesaro, dai miei genitori. Da sola. Come sempre».
Nel salutare Ricciardi, prima di calare il velo sul viso, Livia si girò e, inaspettatamente, gli 
sorrise. Un sorriso luminoso, dolcissimo. Chinò il capo di lato e gli rivolse un lungo sguardo 
profondo.
«Sono scesa all'Excelsior, commissario. Se avete bisogno di me, di altre notizie, mandatemi 
a chiamare. In ogni caso, domani mattina sarò qui per il riconoscimento in ospedale».
      21
Ricciardi scoprì che Maione non era ancora andato via; quindi, lo incaricò di accompagnare 
Livia in albergo. Ma gli chiese anche di verificare presso la questura di Pesaro la presenza 
continua della donna nel periodo e che fosse davvero da sola.
Poi decise di tornare a casa. Aveva freddo.
Lungo la strada cercava di mettere ordine tra gli elementi acquisiti durante la lunga 
giornata di interrogatori. Provava una familiare sensazione di disagio: come quando si è 
omesso di fare qualcosa, o si è perso un oggetto, o comunque non si è valutato un aspetto. 
Qualcuno aveva detto qualcosa di importante, di necessario, e lui non riusciva a portare 
questo qualcosa a livello cosciente, per servirsene. Ma chi? E che cosa?
Il vento aveva ripreso a soffiare sostenuto; per la strada deserta gli unici suoni erano 
un'imposta che sbatteva, gli zoccoli di un cavallo sulle larghe pietre e l'ululato nei portoni. La 
tata aveva preparato la cena e aspettava, cucendo qualcosa per qualche parente remoto di 
Fortino: quando lo vide cominciò a manifestare le solite preoccupazioni.
«Una cosa nuova, eh? Qualche altro ammazzamento. Subito si capisce, cambiate faccia. 
Diventa una fissazione. Quando si lavora, si lavora. Ma, quando uno sta a casa sua, deve 
pensare ai fatti suoi, invece voi niente, sempre a pensare a morti ammazzati, sangue e coltelli. 
Invece, perché non pensate a farvi una famiglia? Qua mettono una tassa, la devono pagare 
quelli che non sono sposati. Allora che fate, pagate una tassa? Ma che vi manca, a voi? Vi 
potete pigliare la meglio femmina di Napoli, per quanto siete bello e ricco. E siete ancora 
giovane. Credete di rimanere giovane per sempre? Io a me mi pare ieri, che ero una guagliona 
bella e mo' sono una vecchia cadente. E tutta una vita passata vicino a chi? A uno che non 
vuole  nemmeno  avere  figli!  Nemmeno  un  poco  di  soddisfazione  per  questa  povera 
vecchierella. Certo che ci vuole un coraggio!»
Ricciardi, conciliato dal rumore di fondo delle lamentele di tata Rosa, continuava a 
mangiare riflettendo. Aveva definito la personalità di Vezzi, su questo non c'era dubbio. Un 
uomo losco, terribile, un vero e proprio concentrato di quanto di peggio poteva esserci in una 
persona. Dotato di un inarrivabile talento e del fascino che ne derivava. Ma su chi esercitava il 
suo fascino? Su chi faceva parte del suo ambiente, dal quale infatti non usciva. Eppure aveva 
una moglie bella e, all'inizio, innamorata. Possibile che non avesse capito il dramma che la 
donna aveva vissuto perdendo il suo bambino? Bella era bella, Livia: su questo non c'era 
dubbio. Anche lui, di solito poco attento a queste cose, se n'era accorto. Affascinante, con 
qualcosa di felino. Non certo rassicurante.
«Una donna tranquilla, serena. Una che quando muoio io, che secondo me è tra poco per il 
male che mi fanno queste ossa vecchie, ci può pensare lei, a voi. Lo so solo io, la fatica che ci 
vuole a mantenere questa casa. E poi lava, stira, stendi, cuci i bottoni che perdete sempre. E 
prepara la cena, che rimane fredda perché non tornate mai, la sera. Ma che vita è?»
Si può arrivare a uccidere per una donna? Aveva visto farlo per molto meno degli occhi di 
Livia,  del  suo  profumo.  Ma  chi  poteva  entrare  nell'area  dei  camerini  durante  la 
rappresentazione?  Un  esterno  avrebbe  attirato  l'attenzione  di  tutti,  ma  qualcuno 
dell'ambiente, del teatro, sarebbe passato inosservato. Entrare, uscire dal camerino? E come? 
Ricciardi sorrise distratto a Rosa, la baciò sulla fronte e si avviò in camera sua.
Il mare urlava sugli scogli, sospinto dal vento. Dalla finestra del terzo piano dell'hotel 
Excelsior si vedevano alti sbuffi di schiuma grigia nella notte e le barche dei pescatori 
ormeggiate lontano dalla riva che ballavano scomposte nelle onde. Nel buio della sua camera, 
Livia fumava guardando il paesaggio reso mobile dalla tempesta.
Avrebbe potuto uscire. Marelli, l'impresario di Arnaldo, l'aveva invitata a cena. Le aveva 
accennato che, ormai, avrebbe anche potuto riprendere a cantare; che il nome di Vezzi non 
sarebbe  stato  più  un  ostacolo  ma,  anzi,  un'ottima  pubblicità.  Che  non  c'era,  ormai,
      l'impedimento derivante dall'ombra del grande tenore. Ormai. La parola d'ordine era «ormai». 
Ormai era libera.
Ma si sentiva libera, Livia? O avrebbe visto un altro fantasma, adesso? Il respiro, le mani. La 
voce di Arnaldo. L'uomo che era all'inizio, l'uomo che era diventato alla fine. Forse non poteva 
che andare così, per un uomo come lui. Aveva paura di vederne il cadavere: paura che potesse, 
alla fine, non essere lui.
Non sapeva perché ne aveva parlato, oggi, col commissario. Era tanto, pensò respirando 
fumo, che non ne parlava con nessuno. Perfino i genitori, sempre solleciti e presenti, che la 
chiamavano “la povera Livia” dalla morte di Carletto, non l'avevano sentita parlare di Arnaldo 
da anni. Né chiedevano di lui, avendo di certo intuito la situazione. Invece, oggi, di fronte a un 
estraneo e in un momento così grave, aveva confessato le proprie emozioni, quelle più segrete.
Livia ripensò a quello che aveva intuito in Ricciardi: l'abitudine alla sofferenza. La 
sofferenza altrui, fatta propria e diventata una condizione di vita. Non faceva fatica ad 
ammetterlo, era attratta da quell'uomo, dal suo sguardo freddo e inespressivo. L'invito a cena 
di Marelli l'aveva rifiutato, sarebbe stato per un'altra volta. La sua carriera aveva aspettato 
tanto, avrebbe aspettato un'altra sera.
Sorrise con amarezza, nel buio, ripensando a quegli occhi verdi. Fuori, il lamento del vento 
e del mare.
Nella cucina calda e illuminata, Enrica rigovernava dopo aver cenato con la sua famiglia. 
Regnava l'abituale disordine, come se fosse passato un battaglione di lanzichenecchi affamati.
Dalle altre stanze arrivavano gli schiamazzi dei fratelli, il pianto del nipotino, la discussione 
del padre con la madre, la sorella e il cognato. A Enrica non dispiaceva, dopo cena, mettere 
ogni cosa a posto, con pazienza e determinazione. Il suo carattere dolce e testardo trovava 
nell'ordine la principale espressione. Non voleva aiuto e respingeva con un sorriso le offerte 
della madre che aveva l'artrite, e della sorella minore che aveva l'impegno del bambino 
piccolo; le bastava che nessuno le facesse fretta e che non si entrasse più in cucina. Era il suo 
piccolo regno. Era così, Enrica. Calma, sorridente, silenziosa. Senza voltarsi, gettò un'occhiata 
verso la finestra. Ancora niente.
Quella sera le voci degli adulti erano piuttosto concitate. Politica, pensò. Sempre politica. 
Man mano che passavano gli anni e il regime si consolidava, le opinioni delle persone si 
distanziavano sempre di più. Il padre di Enrica, un liberale, si era convinto che la libertà 
andava progressivamente perdendosi; che era difficile, per chi la pensava in maniera diversa 
dalla maggioranza, esprimere la propria opinione senza incorrere in qualche atto di violenza. 
Che l'economia ristagnava e la prova era data dal fatto che la figlia e il genero erano costretti, 
col bambino, ad abitare ancora con loro invece che per conto proprio.
Ma il cognato, commesso nel negozio del suocero, iscritto con entusiasmo al Fascio, 
ribatteva che questo era disfattismo; bisognava aver fiducia nelle scelte del Duce e dei 
gerarchi che avrebbero fatto il bene della patria; c'erano sacrifici da fare ora per poter in 
futuro essere i primi nel mondo. Perché quello era il destino dell'Italia, fin dai tempi di Roma: 
dominare, per il bene dell'umanità. Dovevano sentirsi orgogliosi di essere italiani, e accettare 
fiduciosi quelle rinunce: quando il fato si sarebbe realizzato, ci sarebbero stati prosperità e 
benessere.
A Enrica spiaceva sentirli in disaccordo. Ma sapeva che si volevano bene e che anche questa 
discussione sarebbe terminata con un bicchierino di cognac, davanti alla radio. Dal canto suo, 
non sapeva che pensare di quest'argomento: le sembrava che il padre avesse ragione, ma 
aveva la sensazione che questo non lo rendesse felice. Guardò di sfuggita la finestra. Ancora 
niente.
Lei stessa, lo sapeva, costituiva un motivo di preoccupazione per i genitori. Lo intuiva 
sempre più spesso dalle carezze della madre, dai sospiri del padre quando la guardava; la 
sorella minore era sposata da oltre un anno dopo un fidanzamento di cinque anni. Da tempo
      lei rifiutava gli inviti delle amiche, che il sabato pomeriggio volevano portarla alle feste da 
ballo. Non era bella, Enrica, alta, con gli occhiali da miope, non particolarmente aggraziata nei 
movimenti, le gambe troppo lunghe. Ma aveva uno straordinario modo di sorridere, piegando 
la testa di lato e abbassando gli occhi, e qualche giovane aveva chiesto di lei alle sorelle e alle 
amiche. Con gentilezza e a bassa voce, ma senza ammettere repliche, lei rifiutava l'invito, 
senza offendere nessuno. Le piaceva leggere, ricamare. Ascoltare la musica alla radio, quella 
romantica, che faceva sognare. A volte andava al cinematografo e aveva anche visto un film 
sonoro, qualche mese prima: ne era rimasta incantata, aveva pianto. Il padre l'aveva presa un 
po' in giro, intenerito. Ripose un piatto nella credenza, vicino alla finestra. Guardò fuori.
Niente ancora.
La verità la teneva per lei. Non voleva raccontare a nessuno di come, dentro di sé, non si 
sentiva libera di accettare i corteggiamenti dei giovanotti. Ah, sapeva che avrebbero riso: le 
avrebbero detto che era la solita ingenua sognatrice, che la realtà era un'altra cosa. La realtà 
era che ormai aveva ventiquattro anni ed era ancora sola. Che era inutile ricamare un corredo 
che non sarebbe mai stato usato, con ogni probabilità. Che se voleva una famiglia con dei figli 
e una casa, avrebbe fatto meglio ad avere una vita sociale, senza perdere tempo.
Ma avrebbe anche dovuto raccontare altro, per completezza: della finestra di fronte e delle 
tende che si aprivano ogni sera, anche se non sempre alla stessa ora; di quella volta dal 
fruttivendolo ambulante, quando si era trovata a guardare gli occhi più disperati che avesse 
visto in vita sua. Di come ogni sera si sentisse quegli stessi occhi febbrili addosso, per ore, di là 
da un vetro d'inverno e senza barriere d'estate, quando il profumo del mare arrivava fino a 
Santa Teresa portato dal vento caldo del sud. E di come quello sguardo era tutto, una 
promessa, un sogno, perfino un ardente abbraccio. Pensandoci, si rivolse d'impulso alla 
finestra. La tenda di fronte era aperta. Abbassando lo sguardo e arrossendo, Enrica nascose un 
breve sorriso: buona serata, amore mio.
Ricciardi osservava Enrica. Si godeva i suoi gesti lenti, metodici, precisi.
Qualcosa mancava: un dettaglio, un particolare. Era sicuro di non essere lontano dalla 
soluzione, o almeno dalla via che avrebbe portato alla soluzione. Una frase: una frase che 
aveva sentito, che aveva conservato in un angolo della memoria e non ricordava più.
Enrica disponeva i piatti nell'acquaio, dal più piccolo al più grande, con attenzione.
Le informazioni, proviamo, dalla più piccola alla più grande. Quelle importanti le ricordava 
bene, inutile concentrarsi. Pensiamo a quelle apparentemente non importanti.
Enrica passava uno strofinaccio sul tavolo.
Ripuliamo bene le cose che hanno detto: chi ho sentito per primo?
Enrica disponeva le sedie attorno al tavolo della cucina. Don Pierino, che mi ha raccontato 
della trama delle opere.
Enrica ripiegava la tovaglia, dopo averla scossa.
Il prete gli aveva anche parlato di Vezzi, di quanto era grande. Addirittura gli tremava la 
voce.
Enrica stava spazzando le briciole della cena da terra, adesso.
Ricordava l'emozione di don Pierino, eppure il viceparroco non aveva assistito alle prove: 
era stato preciso, in questo.
Enrica aveva finito di rigovernare e si guardava attorno soddisfatta.
Don Pierino aveva detto che ne aveva sentito la voce nei dischi e in altre rappresentazioni. 
Non stavolta, però.
Enrica stava prendendo la scatola del ricamo: avrebbe spostato la sedia vicino alla finestra 
e acceso l'abat-jour. Era il momento più bello della giornata di Ricciardi: vederla seduta 
mentre cominciava a ricamare con la mano sinistra, la testa lievemente ripiegata di lato. Gli 
faceva tremare il cuore.
Don Pierino che gli diceva: «Vederlo da vicino, ieri, mi ha fatto tremare il cuore».
Nel buio della stanza da letto accadde una cosa straordinaria: il cupo commissario
      Ricciardi, in veste da camera e con la retina sui capelli, sorrise e disse, a bassa voce: «Grazie. 
Buonanotte, amore mio».
      22
Don Pierino sollevò l'ostia sopra il capo, nella consacrazione. Era il gesto che più di ogni 
altro lo faceva sentire vicino a Dio, il tramite tra Lui e il mondo degli uomini, colui che avrebbe 
preso un pezzetto del Paradiso per darlo alla comunità. Era diventato prete per questo.
S'inchinò davanti all'altare, poggiando la fronte sul telo di lino bianco che copriva il marmo. 
Fuori il vento gridava il suo lamento, ed era la voce di un'altra creatura.
Nell'alzare lo sguardo, don Pierino vide, nella penombra delle sette del mattino, una figura 
nota in piedi in fondo alla chiesa.
L'uomo era a capo scoperto, ma non aveva in mano nessun cappello. Teneva le mani nelle 
tasche del soprabito, le gambe lievemente divaricate e un ciuffo di capelli sulla faccia. 
All'uscita dalla sacrestia, svestiti i paramenti sacri, don Pierino se lo ritrovò davanti.
«Commissario! Qual buon vento, è il caso di dire?» 
Ricciardi fece una smorfia.
«Già così allegro di prima mattina, padre? Una buona colazione o l'aiuto della fede?»
«La fede, evidentemente: la colazione non l'ho ancora fatta. Volete favorire, commissario? 
Latte e caffè in sacrestia?»
«Caffè e biscotti, ma al Gambrinus qui di fronte. Offro io».
«Ma certo che offrite voi. Voto di povertà, ricordate?»
Fuori, la città era sveglia. Una squadra di operai, in abiti da lavoro, stava aspettando la 
partenza del filobus per l'acciaieria di Bagnoli. Alcune studentesse, in grembiule nero e 
mantellina, si incamminavano verso il semiconvitto in piazza Dante. Le carrozze e i taxi 
cominciavano a confluire in piazza del Plebiscito, in attesa degli uomini d'affari che avrebbero 
invaso le strade da lì a poco. Muratori, in gruppi di tre o quattro, si avviavano verso il 
lungomare dove era in corso la posa dell'asfalto sulla strada.
«Padre, vi ho disturbato per chiedervi una cosa. Ieri mattina voi mi avete detto di non aver 
sentito cantare Vezzi, stavolta; è così?»
«Certamente, commissario. Le porte, quando c'era lui, erano rigorosamente chiuse, durante 
le prove. Del resto, faceva solo la prova generale. Poi, l'altra sera, come voi ben sapete, non ha 
fatto in tempo a cantare».
Ricciardi si sporse sul tavolino.
«Eppure, io ricordo che voi avete detto che vederlo da vicino, l'altro ieri, vi ha molto 
emozionato. Ho capito male?»
Don Pierino sorrise, tristemente.
«No, commissario, avete capito bene. Anzi, ripensandoci sono stato forse tra gli ultimi a 
vederlo vivo, a parte chi lo ha ucciso, è ovvio».
«E in quale circostanza? Vi prego, padre: è molto importante che mi diciate tutti i 
particolari».
«Oh, è molto semplice. Io ero nella famosa intercapedine, in cima alla scala che porta 
dall'ingresso dei giardini ai camerini. Devo essere involontariamente arretrato, non è un posto 
molto ampio, credetemi, e ho invaso un poco il passaggio. Allora mi sento urtare con una certa 
violenza e traballo un po'. Mi giro e vedo quest'uomo enorme, alto e grosso, che mi dice 
`scusatemi'; io dico `scusatemi voi', o qualcosa del genere: come sapete non avrei dovuto stare 
là. E poi, lo vedo entrare nel camerino di Vezzi, sotto la rampa».
Ricciardi teneva gli occhi piantati in faccia al sacerdote senza battere le ciglia, al colmo della 
concentrazione.
«Ma com'era, padre? Com'era vestito, come lo avete riconosciuto?»
Don Pierino si sforzava di ricordare con precisione i particolari.
«Aveva il cappotto, un cappotto nero, lungo. E una sciarpa bianca di lana, che gli copriva 
quasi tutta la faccia. In testa un cappello nero, a tesa larga, calato fin quasi sugli occhi. No, la 
faccia non l'ho quasi vista. Ma era Vezzi, sicuro: altrimenti, perché sarebbe entrato nel suo
      camerino?»
Già, pensò Ricciardi. Perché?
Arrivò prima il suo profumo. Ricciardi alzò il capo dal rapporto che stava compilando, 
colpito dall'acuto, particolare odore selvatico, di spezie. Un attimo prima che collegasse il 
profumo alla persona, Maione si affacciò alla porta dell'ufficio.
«Commissa', c'è la signora Vezzi».
Ricciardi disse di farla passare e Livia entrò. Era vestita con un sobrio tailleur nero, la 
gonna a metà gamba che le fasciava i fianchi dalle linee morbide. La giacca, abbottonata fino al 
collo, conteneva un seno ampio ma non pesante. Portava sul braccio il cappotto col collo di 
pelliccia, la borsa con la tracolla alla spalla. Il cappello, lievemente spostato di lato, aveva il 
velo nero alzato. Il volto non portava i segni della notte, che pure, Ricciardi immaginava, non 
doveva essere stata riposante. I grandi occhi neri erano vivaci e attenti, il trucco leggero 
ammorbidiva l'espressione. Le labbra piene erano atteggiate a un lieve sorriso.
«Così vi ho lasciato e così vi ritrovo, commissario. Non lasciate l'ufficio, per la notte?»
Maione, che era rimasto sulla porta, inarcò un sopracciglio.
«Fisicamente sì, signora. Ma solo fisicamente. Come state? Ve la sentite?»
«Certo, commissario. Sono venuta per questo; per difficile che sia».
Ricciardi diede indicazioni a Maione di preparare una delle tre automobili della questura e 
di avvertire il dottor Modo che stavano recandosi in ospedale per il riconoscimento.
Il breve viaggio si svolse in silenzio. Maione era alla guida, cosa che non gli veniva molto 
naturale: le sue imprecazioni contro gli ostacoli improvvisi erano le uniche parole che furono 
pronunciate nella vettura.
Livia aveva abbassato il velo e respirava piano; sentiva al suo fianco la presenza di 
Ricciardi, la cui tensione era palpabile. Il commissario rifletteva sull'informazione avuta poco 
prima da don Pierino: era chiaro che l'uomo che aveva urtato il prete non era Vezzi. Sia perché 
a quel punto il tenore doveva essere già morto, sia perché si era sicuramente truccato e quindi 
avrebbe sporcato di cerone la sciarpa, che invece era pulitissima. Ma allora, perché rientrare? 
Una volta fuggito dalla finestra, perché non dileguarsi nel buio e rischiare invece di farsi 
vedere? E infine, come essere sicuro che, nel frattempo, il cadavere non fosse stato scoperto? 
Ancora troppi lati oscuri. Ma Ricciardi era convinto di aver segnato un punto importante nella 
partita contro l'assassino.
All'ospedale, nella sala mortuaria, trovarono il dottor Modo in camice bianco. Il medico 
rimase visibilmente colpito dalla statuaria bellezza di Livia, alla quale presentò le proprie 
condoglianze.
«Grazie, dottore. Vorrei potervi dire che provo un inconsolabile dolore. Invece, sento un 
sordo dispiacere; una malinconia. Nostalgia di un tempo passato, forse. Ma nessun dolore».
«Mi dispiace, signora. Mi dispiace tanto. Non c'è niente di più triste che morire senza 
lasciare alcun dolore».
Ricciardi li ascoltava in disparte. Pensava alle lacrime che solcavano il viso del pagliaccio, 
tracciando due righe scure nel cerone. Vedeva i suoi occhi semichiusi, le gambe un po' piegate, 
sentiva le parole del suo ultimo canto. Il dolore c'era stato, come no: il dolore della perdita, il 
dolore di chi viene derubato di anni e anni ancora da vivere.
Un inserviente spinse la barella col corpo coperto da un lenzuolo bianco. Si disposero, Livia 
e Ricciardi da un lato, Modo dall'altro. Il medico sollevò il lembo di tessuto che copriva il viso 
del fantoccio che era stato un uomo: tutti e tre rimasero in silenzio a guardare la faccia di cera. 
Lo sguardo corse alla piccola tumefazione sullo zigomo, grande quanto una monetina; al taglio 
circoscritto sul lato destro del collo. Gli occhi e la bocca erano socchiusi, come se il cadavere 
stesse provando un sottile piacere, come se sentisse una musica nota solo a lui. Al centro della 
gola il taglio dell'autopsia, chiuso da punti trasversali.
«È lui», disse Livia in un soffio, le mani strette l'una all'altra, bianche per lo sforzo. Ricciardi
      tolse una mano dalla tasca del soprabito e la passò sotto il braccio della donna, che vi si 
appoggiò per non cadere.
«Scusatemi», disse, «credevo di essere preparata. Ci ho pensato tanto. Ma forse non è 
possibile prepararsi, vero?»
Il dottore sospirò, al cospetto di una situazione a lui familiare. Coprì nuovamente il 
cadavere e fece un cenno all'inserviente che aspettava in disparte. L'uomo portò via la barella 
e nessuno vide mai più Arnaldo Vezzi in carne e ossa.
Nella saletta antistante la sala mortuaria, il dottore offrì una sigaretta a Livia, che l'accese 
con mani tremanti.
«Che assurdità. Tanta grandezza, tanti sogni. La magia di una voce inarrivabile. La 
protervia, l'onnipotenza. Poi, tutto questo silenzio».
Il dottor Modo sospirò.
«È sempre così, signora. A prescindere da chi sia stata la persona. La stessa dignità, lo 
stesso silenzio. Sia in guerra, sia per malattia. Per quanta gente ci sia qui ad aspettare, là 
dentro sono sempre soli, in silenzio».
Ricciardi ascoltava e pensava. Silenzio, dici, dottore? Non immagini quanto ancora abbiano 
da dire. Cantano, ridono. Parlano. Urlano. Solo che voi non li sentite. È una questione di 
orecchio: emettono un suono che voi non sentite. Io invece lo sento. E quanto.
Livia ringraziò il dottore, lui le disse di considerarlo a sua disposizione. Il ritiro del corpo, 
per le esequie. Se ne sarebbe occupato Marelli, l'impresario. Eccetera, eccetera. La retorica 
esatta della morte.
Il viaggio di ritorno fu diverso. Livia era sensibilmente sollevata, per vari motivi. Andava 
rendendosi conto che un importante capitolo della sua vita era comunque chiuso. In quella 
città non sua, scossa da quello strano vento freddo fuori stagione, aveva forse ritrovato la 
propria libertà senza averla più cercata da anni. Anche il viso di Arnaldo, straziato dalla morte, 
non era più malevolo; pensava che forse col tempo avrebbe potuto ricordarne le poche cose 
positive, i momenti belli di quando si erano conosciuti e i primi anni del matrimonio.
«Voi credete al destino, commissario?»
«No, signora. Non ci credo. Credo agli uomini e alle loro emozioni. All'amore, all'odio. Alla 
fame. Al dolore, soprattutto».
Parlava guardando fisso davanti a sé, la testa incassata nelle spalle e nel bavero rialzato del 
soprabito. Livia ne osservava il profilo affilato, i capelli ribelli sul viso. Ne percepiva la 
distanza, come se parlasse da un altro mondo o da un altro tempo.
Maione  guidava  in  silenzio,  senza  neanche  imprecare  contro  gli  scugnizzi  che 
attraversavano scalzi la strada, inseguendo una palla di stracci e carta di giornale sospinta dal 
vento. Scrutava nello specchietto retrovisore il commissario, sorpreso dalle sue parole: non 
aveva sentito mai quel tono, così assorto.
La donna parlò ancora.
«E allora? Secondo voi una persona quante possibilità ha, nella vita, di costruirsi un po' di 
felicità?»
«Quante ne vuole, signora. Forse nessuna. Ma illusioni, sì. Anche ogni giorno, ogni 
momento. Illusioni, però. Solo illusioni».
Livia capì che la mente di Ricciardi non era con loro, che vagava altrove. Perciò tacque, fino 
alla questura.
All'arrivo Maione chiese alla signora se aveva bisogno di un passaggio in albergo. La donna 
disse che avrebbe preferito fare due passi, anche nel vento; sentiva bisogno di aria. Si avvicinò 
a Ricciardi.
«Commissario, per ora mi tratterrò in città. Non mi sento di tornare a casa, adesso. 
Aspetterò il completamento  dell'indagine, se non ci dovesse volere troppo tempo. Conoscete 
il nome del mio albergo. Se doveste avere bisogno di me, saprete dove cercarmi».
«Certo, signora. Terrò presente, vi assicuro».
      Di nuovo un sottinteso caduto nel vuoto. Livia pensò alle tante volte che un sorriso o una 
parola erano stati sufficienti a dare inizio a un corteggiamento. Non sapeva perché quegli 
occhi, quella voce la turbassero tanto; e non sapeva come far capire a Ricciardi che avrebbe 
voluto incontrarlo, per parlare di qualcosa che non fosse l'assassinio del marito.
Decise di essere più esplicita.
«Cosa c'è che non va, commissario? Tra noi ci sono sempre due dialoghi: uno a parole, 
l'altro fatto di sguardi. Perché con voi non funziona allo stesso modo che con gli altri? Forse 
non provate emozioni?»
Maione, qualche metro più in là, ebbe un accesso di tosse. Ricciardi fece una smorfia.
«Magari, signora. Vivrei più sereno. Ma voi avete il vostro dolore e dovete cercare un altro 
porto che vi ripari dalla tempesta».
Livia rimase a guardarlo. Il vento muoveva leggermente il velo, sopra l'elegante cappello. 
Gli occhi neri e profondi si riempirono delle lacrime che la vista del marito morto non aveva 
suscitato. Si girò e se ne andò.
      23
Giunti in ufficio, Ricciardi disse a Maione che aveva bisogno di parlare ancora a don Pierino, 
al sovrintendente del teatro e a Bassi. Arrivò prima il segretario, ormai decisamente 
preoccupato.
«Buongiorno, commissario. Perdonatemi, ma comincio a essere francamente disorientato 
da queste vostre continue convocazioni. Vi ho detto tutto quello che so: di che cos'altro avete 
bisogno?»
«Avete qualcosa da nascondere, signor Bassi? Se sì, allora vi consiglio di parlare; altrimenti, 
vi basterà solo rispondere con sincerità alle nostre domande adesso e ogni volta che ce ne 
sarà bisogno, e non avrete nulla da temere».
L'uomo sospirò, le spalle incurvate, l'espressione rassegnata.
«D'accordo, d'accordo. Non ho nulla da nascondere, ci mancherebbe. Cosa volete sapere?»
«Parliamo di Natale. Del viaggio a Napoli, attorno al venti dicembre. Voglio conoscere gli 
spostamenti di Vezzi in quei giorni, o perlomeno quelli a vostra conoscenza».
«Allora: siamo partiti la mattina del venti, siamo arrivati la sera tardi. Venivamo da Milano, 
con noi c'era il signor Marelli, l'impresario. Saremmo ripartiti la sera del ventuno: si dovevano 
solo concordare i termini del contratto, dare un'occhiata ai disegni della scena, prendere le 
misure dei costumi, cose così. Invece poi siamo ripartiti il ventitré sera, per poco non 
facevamo Natale a Napoli. Ricordo che cambiai le prenotazioni dei biglietti due volte».
Ricciardi ascoltava, attento.
«E come mai, questi cambiamenti?»
«Ah, non ne ho la più pallida idea. Il maestro volle così. Non diceva il perché, come al solito: 
noi potevamo solo prenderne atto e regolarci di conseguenza».
«Ma era per il teatro? Cioè, per cose riguardanti, che so, la scena, l'orchestra...».
Bassi fece una risatina nervosa e si sistemò gli occhiali sul naso.
«Ma che teatro! Ci venne solo la mattina del ventuno. Un'occhiata distratta ai disegni, 
quattro parole col sovrintendente, la misura per i costumi con la sarta e poi sparì per tre 
giorni. No, commissario, credetemi: il teatro non c'entra niente. La questione era diversa. 
Affari di cuore, secondo me. Non che abbia le prove, beninteso».
«E dove andava?»
«Non lo so. La sera tornava in albergo tardissimo e andava a dormire, senza neanche 
salutare, come era sua abitudine. Il signor Marelli e io passammo due giorni a giocare a carte 
nella sala del Vesuvio».
Bassi non seppe dire altro e fu congedato. Ricciardi rifletteva, Maione ruppe il silenzio.
«Alla stazione ferroviaria posso verificare il cambio delle prenotazioni e i viaggi effettivi di 
tutti e tre. Il sovrintendente non c'è ancora: forse si vuole fare aspettare per dimostrare che è 
importante. Vi avverto, appena arriva?»
«Certo. Vai pure».
Il brigadiere esitò, con la mano sulla maniglia della porta dell'ufficio.
«Commissa', se mi permettete... vi vorrei dire una parola».
«Dimmi. Che c'è?»
«Io sono tre anni che lavoro affianco a voi. Voi lo sapete: da quando Luca... mio figlio... 
Insomma, in questo tempo mi sono affezionato. È vero che nessuno ci vuole lavorare con voi: 
dicono che non siete umano, addirittura. Perché parlate poco, siete silenzioso, e lavorate assai, 
non vi fermate mai fino a quando non avete trovato chi è stato. Però a me mi piace, questo 
modo di lavorare. Per questo il nostro non è un lavoro come gli altri».
«Allora?»
Maione esitava, ma era determinato a finire il discorso che si era preparato.
«Allora, nessuno più di me vi stima e sa che nel lavoro ci mettete tutto il cuore e le forze. 
Però... voi tenete più di trent'anni, ma potreste essere mio figlio. Io mio figlio l'ho perso e viguardo certe volte e penso che siete bravo e, dentro, buono come il pane, lo sento, lo so. Ma 
siete solo, commissa'. E soli si muore. Io se non avessi tenuto mia moglie e i ragazzi, in questi 
anni, sarei morto cento volte. Il nostro mestiere si allarga piano piano, come una cantina 
quando si allaga, e riempie tutta la vita. È sbagliato».
Ricciardi  ascoltava,  in  silenzio.  Avrebbe  forse  dovuto  rimproverare  Maione  per  la 
confidenza che si stava prendendo, ma l'enorme imbarazzo del brigadiere lo inteneriva. Era 
rosso in viso, strofinava il piede a terra, si guardava le mani intrecciate. Decise di lasciarlo 
continuare.
«Io ne parlo qualche volta con mia moglie. Quella vi conosce, si ricorda, sapete, al funerale. 
L'avete salutata. E diciamo che un uomo come voi, a stare da solo, è un peccato. Sempre il 
lavoro. E io mi credevo, alle volte, sapete, ci sono uomini che non ci piacciono le femmine, non 
hanno interesse. Pensavo che voi, senza offesa, commissa', potevate essere così. Però oggi, con 
questa signora. Madonna, quant'è bella! E con tutto che il marito è appena morto, però quello 
era un bastardo, l'abbiamo sentito da tutti. Allora, come un padre con un figlio: voi mi potete 
pure dire: `Maione, ma come ti permetti: fatti i fatti tuoi'. Però mo' se io non ci parlavo, con 
voi, me lo portavo sulla coscienza. Prendetevi una mezza giornata, commissa', e portatela a 
mangiare fuori, la signora!»
Tirò un forte sospiro liberatorio, come di chi si è levato un peso dallo stomaco. Ricciardi si 
alzò dalla poltrona e si avvicinò, mettendo la mano sul braccio del brigadiere come quel 
giorno in cui gli disse che il figlio era morto col suo nome sulle labbra.
«Invece ti ringrazio. Lo so che mi sei affezionato e, a modo mio, lo sono anche io a te. 
Scusami, se qualche volta sono brusco: ho uno strano carattere. Ma, credimi: io sto bene così. E 
salutami tua moglie».
Maione lo guardò per un attimo negli occhi, sorrise e uscì.
Il sovrintendente Spinelli era agitatissimo, come sempre. Entrò come una furia nell'ufficio, 
si fermò di botto, si guardò attorno.
«Eccomi, sono intervenuto con immediatezza. Buongiorno, commissario. Abbiamo novità? 
Mi si deve una spiegazione sullo stato delle indagini. D'altronde, ritengo che la mia posizione 
mi dia dei diritti in tal senso».
Ricciardi come al solito fu più brusco del necessario. Pensava fosse l'atteggiamento giusto 
per tenere a bada uno così.
«Quando avremo notizie le conoscerete, signore. Per ora, limitatevi a rispondere alle 
domande che vi farò».
Ancora una volta la durezza di Ricciardi ebbe il potere di tacitare il sovrintendente, che 
assunse la solita aria oltraggiata.
«Sono a vostra disposizione, commissario».
«Nello scorso dicembre, Vezzi con Bassi e Marelli venne in città per fissare i dettagli del 
contratto per lo spettacolo dei Pagliacci. È così?»
«Certo, è tutto annotato. Io tengo un'agenda aggiornata, se dovessi rendere conto della mia 
opera per il Real Teatro. Ricordo perfettamente. Arrivarono il venti sera, li aspettavamo dalla 
mattina ma non è una novità con Vezzi. A teatro sono venuti il ventuno e si sono trattenuti per 
la mattinata».
«Hanno parlato con voi?»
«Ho salutato tutti e tre, secondo il mio dovere: poi, io mi sono intrattenuto con Marelli per 
regolare le questioni, diciamo così, amministrative. Vezzi e Bassi, invece, sono stati col 
direttore di scena, le costumiste e il regista a visionare i bozzetti, prendere le misure dei 
costumi e cose del genere. All'ora di pranzo sono andati via».
«Ricordate qualche episodio, qualcosa di diverso dal soli-to?»
«No. Ricordo solo che, avendo saputo della sua venuta, si era radunata una piccola folla di 
addetti, cantanti, professori d'orchestra: Vezzi nell'ambiente era una vera e propria leggenda.
      Volevano vederlo, farsi fare un autografo. Lui si irritò e volle essere lasciato da solo. Incontrò 
soltanto le persone che vi ho detto prima».
«E poi?»
Il sovrintendente lo guardò, inarcando con sufficienza un sopracciglio.
«Non mi avete sentito? Andarono via, prima dell'una. Rifiutarono perfino l'invito a 
pranzare insieme. Non so nemmeno quando sono ripartiti».
      24
Nella mente di Ricciardi si andava delineando una dinamica plausibile degli eventi. Non 
tanto nei fatti, ancora troppi particolari gli sfuggivano; quanto nelle emozioni che si erano 
generate. Lui lavorava così: creava uno schema, una geografia delle emozioni che incontrava. 
Quello che coglieva mediante il Fatto, i sentimenti di chi interrogava, la meraviglia, l'orrore dei 
presenti. Poi cercava di riconoscere l'anima della vittima: i lati chiari e i lati oscuri; dalle 
parole, dagli sguardi di quelli che l'avevano conosciuta.
Non elaborava le parole dei testimoni: c'era il rischio di ricordarle male e, comunque, fuori 
dal contesto in cui erano pronunciate perdevano di senso, di importanza. Ma fissava nella 
memoria l'atteggiamento, l'espressione, la passione di chi parlava: l'emozione che emergeva e 
soprattutto quella che rimaneva sotto la superficie. Sentiva, insomma, più che ascoltare.
Nell'omicidio di Vezzi, nel suo essere sorpreso dalla morte, sentiva un unico impulso 
violento, non reiterato. Una solitaria ondata di odio fermo e limpido, con la distruzione che, 
ritirandosi, aveva lasciato sulla riva. E sentiva il pagliaccio preso alla sprovvista, col suo ultimo 
canto dolente. Ma sentiva anche, Ricciardi, che le parole e il tono del canto erano dissonanti: 
che cantava la vittima, non l'autore del sentimento di vendetta.
Aveva imparato col tempo come il Fatto potesse anche allontanarlo dalla soluzione dei 
delitti: una volta le ultime parole di una ragazzina assassinata riguardavano il padre e in 
quella direzione erano andate le indagini. Ma il padre cui si riferiva era un prete e l'assassino 
non era quello finito in galera. Da allora cercava di dare alle parole il peso che potevano avere, 
senza escludere nulla.
Era per questa dissonanza, per la stonatura che percepiva tra parole ed emozione che 
aveva convocato di nuovo don Pierino. Non sapeva se voleva incontrare l'esperto di opera 
lirica o il confessore, capace di capire lo spirito delle persone se pur con parametri molto 
lontani dai suoi.
Quando Maione introdusse il sacerdote, Ricciardi si alzò in piedi per accoglierlo.
«Grazie di essere venuto subito, padre. Ho proprio bisogno di parlare un po' con voi».
Il sacerdote, come sempre, sorrise.
«Mio caro commissario. Vi ho già detto che per me è un piacere potervi essere d'aiuto. 
Come vanno le cose?»
«Non particolarmente bene, temo. Qualcosa credo di averla capita, ma ci sono ancora dei 
punti per me oscuri. Parlatemi, padre. Parlatemi di  Pagliacci e di questo personaggio che 
interpretava Vezzi. Canio, vero?»
Don Pierino si accomodò meglio sulla sedia e intrecciò le dita sulla pancia, sollevando gli 
occhi verso la finestra scossa dal vento.
«Canio, certo. Il pagliaccio furente. Dunque, l'autentico dramma della gelosia, voi lo saprete, 
è l' Otello. La musica di Verdi, il libretto di Boito dalla tragedia di Shakespeare. Il Moro di 
Venezia, ricorderete. Là è un crescendo di emozioni, che culmina con l'uccisione per 
soffocamento di Desdemona e il suicidio di Otello. In realtà, Desdemona è innocente. Tutto è 
stato ordito da Iago, il traditore.
In Pagliacci, come anche in Cavalleria rusticana, le cose sono diverse: la donna è colpevole, 
il tradimento c'è effettivamente stato. È un tradimento tra uomini e donne, è reale, appartiene 
alla vita quotidiana e, come dice Tonio nel prologo, può toccare chiunque. Non c'è niente di 
strano, niente di esotico. Non ci sono ricchezza, soldati, gondole o dogi».
Ricciardi ascoltava con la massima attenzione, guardando fisso il prete.
«Quindi, Canio, anche se è un pagliaccio, non è certo un personaggio allegro».
«Infatti, commissario. Anzi, se dovessi dire la mia, penso che il personaggio di Canio sia tra i 
più tristi di tutta l'opera lirica. Un uomo condannato a far ridere, che vive invece l'ossessione 
di non rendersi ridicolo. E il sentirsi richiamato da Peppe, l'Arlecchino, a recitare mentre 
soffre per la gelosia, che lo fa impazzire definitivamente».
      «E, in scena, ammazza la moglie e l'amante».
«Proprio così. Anche qui c'è un delatore, proprio Tonio, il pagliaccio gobbo. La sua 
deformità rappresenta la cattiveria, la malignità. Ma in realtà, anche se per egoismo, perché ha 
delle mire sulla moglie di Canio, lui dice la verità: Nedda, Colombina, ha un amante. E, qua sta 
la bellezza del libretto, proprio in scena, dove c'è la finzione, si consuma il vero dramma: quasi 
a voler dire che la vita trova sempre se stessa, nella strada, nelle case e anche sul 
palcoscenico».
«Allora Canio ammazza Tonio e Nedda?«
Don Pierino rise.
«No, no! Non è Tonio, l'amante di Nedda. È Silvio, ricordate? Ve lo dissi già. Un giovanotto 
del paese, non uno della compagnia. Canio ammazza Nedda e poi Silvio perché questi sale sul 
palcoscenico per aiutare la donna».
«Quindi l'amante non recita con Canio. E così?»
«Sì, esattamente. È un personaggio non rilevante in modo particolare, un baritono».
«E Canio, quando capisce che Nedda ha effettivamente un amante, impazzisce di gelosia».
Don Pierino assentì, assorto.
«Sì; la finzione e la realtà si confondono. Canio interpreta il marito tradito e, quando scopre 
la verità, si strappa di dosso il costume cantando `No, pagliaccio non son!' e poi pugnala la 
moglie».
Ricciardi rivedeva l'immagine del pagliaccio in lacrime, col sangue che schizzava tutto 
attorno dal buco nella carotide, la mano protesa in avanti, che cantava...
«io sangue voglio, all'ira m'abbandono..».
«...in odio tutto l'amor mio finì!», concluse per lui don Pierino, battendo le mani e ridendo 
divertito.  «Bravo,  commissario!  Allora  state  studiando!  Molto  bella  la  citazione  e 
particolarmente ad hoc, dato che le due opere si rappresentano insieme. In realtà, raccontano 
la stessa storia e i personaggi sono più vicini di quanto si possa immaginare». 
Ricciardi guardava il prete, senza capire.
«Quali personaggi, padre?»
«Ma Canio e Alfio! La frase che avete appena recitato, no?»
«Ma non è Canio, che la canta nei Pagliacci?»
«Mi prendete in giro? No, no: la canta Alfio in Cavalleria rusticana. Anche lui un marito 
tradito. È la sua ultima battuta quando esce di scena, prima dell'intermezzo. La dice alla fine 
del duetto con Santuzza, che gli rivela che la moglie lo tradisce con Compare Turiddu, che alla 
fine dell'opera ucciderà in duello. Ma, se voi non sapevate... dove l'avete sentita?»
Ricciardi adesso guardava nel vuoto, lievemente inclinato in avanti sulla sedia. Gli si era 
aperta una prospettiva del tutto nuova, che metteva a posto molte caselle del rompicapo.
«Come avete detto, prima? Il baritono..».
«Alfio è un baritono, sì. Deve avere una voce profonda, a testimoniare il travaglio..».
«No, no, padre», lo interruppe Ricciardi alzando la mano, «la frase che avete detto a 
proposito dell'altro baritono, Silvio: avete detto `un personaggio non rilevante in modo 
particolare'. È così?»
Don Pierino era confuso.
«Sì, l'ho detto. Ma non la pronuncia lui, la frase che avete citato. State bene, commissario? 
Siete pallido». 
«E chi io decide, nella vita, chi è `rilevante in modo particolare'? Ognuno per se stesso è 
rilevante in modo particolare, no, padre?»
Ricciardi pareva parlare con se stesso, anche se si rivolgeva al prete.
«Quante volte vi sarà capitato, in confessione, di sentire sentimenti ed emozioni di gente 
`non rilevante in modo particolare'? Io dalla mattina alla sera, ogni giorno, vedo Io scempio e il
      delirio delle emozioni di gente così».
Don Pierino protestò vivacemente.
«Ma io non mi riferisco alla gente vera! Si tratta di scena. Proprio a me, questo non lo 
dovete dire. Il Signore è stato il primo ad affermare che tutti gli uomini hanno la stessa 
rilevanza. I vostri signori, invece»  e indicò le due fotografie alla parete, «siete sicuro che 
diano, per esempio, all'omicidio di Vezzi la stessa rilevanza che a quello di un qualsiasi 
carrettiere dei Quartieri Spagnoli?»
Ricciardi, sorpreso dalla veemenza della reazione di don Pierino, sorrise tristemente.
«Avete ragione, padre. Avete ragione. Non volevo dire questo, ma vi devo comunque delle 
scuse. Capisco che possiate pensarlo, ma non volevo dire così. Il punto è che sono testimone, 
giorno per giorno, del dolore che volontariamente le persone infliggono ad altre persone. Mi è 
difficile pensare all'amore se non come al principale movente dei delitti; credetemi, padre: se 
non è l'amore è la fame e in quel caso è più semplice. La fame è comprensibile, vi si risale 
facilmente. È diretta, immediata. L'amore no, l'amore ha altre vie».
«Non posso credere che lo pensiate davvero, commissario. L'amore non c'entra niente con 
questo scempio. L'amore muove la terra, è quello dei padri di famiglia, delle madri, di Dio 
soprattutto. L'amore è volere il bene di chi si ama. Non certo il sangue, il dolore: quello è 
dannazione».
Ricciardi fissava il prete con occhi brucianti: sembrava quasi tremare per un fuoco 
immenso, dentro.
«La dannazione. Credetemi, padre, se vi dico che la dannazione per voi è solo una parola. 
Credetemi se vi dico che la dannazione è la percezione quotidiana del dolore. Il dolore degli 
altri che diventa tuo, che ti brucia sulla pelle come una frustata, che ti lascia una ferita che non 
guarisce, che continua a sanguinare, che ti infetta il sangue».
Il commissario adesso bisbigliava, muovendo appena le labbra. Il suo era un sibilo e don 
Pierino istintivamente arretrò sulla sedia, quasi inorridito.
«Io lo vedo, capite, padre? Lo vedo. Lo sento, il dolore dei morti che rimangono attaccati 
alla vita che non hanno più. Io lo so, lo sento il rumore del sangue che scorre. Il pensiero che 
abbandona, la mente attaccata con le unghie all'ultimo lembo di esistenza che sfugge. L'amore, 
dite? Sapeste quanta morte c'è nel vostro amore, padre. Quanto odio. L'uomo è imperfetto, 
padre, lasciatevelo dire. Io lo so bene».
Don Pierino guardava il commissario a occhi spalancati. In qualche modo capiva che 
Ricciardi parlava sul serio, non per metafora. Cosa c'era nell'animo di quell'uomo? Che cosa 
nascondevano quegli occhi, trasparenti e disperati? Il viceparroco provava un'immensa pena, 
e un'umana repulsione.
«Io... io credo in Dio, commissario. E credo che, se a qualcuno dà una sofferenza maggiore 
che ad altri, ha le Sue finalità. Se questo qualcuno può dare al prossimo un maggiore aiuto, se 
può aiutare tanta gente, allora forse la sua sofferenza è giustificata; forse ha un senso, tutto 
questo dolore».
Ricciardi lentamente riprese il controllo; si appoggiò allo schienale della sedia, sospirò 
lievemente, chiuse gli occhi e li riaprì. Tornò a mostrare quel viso inespressivo che era la sua 
caratteristica. Don Pierino se ne senti sollevato, come se per un attimo, solo un attimo, si fosse 
affacciato sull'inferno.
«Dovete sapere, don Pierino, che mi siete stato di grande aiuto. Vi prometto che le 
informazioni che mi avete dato, secondo il nostro iniziale accordo, non verranno utilizzate per 
mandare un innocente in galera. Ma saranno verificate tutte con la massima attenzione».
«Sono contento di esservi stato utile, commissario. In cambio, però, vi chiedo una cosa: 
promettetemi che, una volta finita questa brutta storia, mi verrete a trovare. E che, a vostre 
spese, naturalmente, andremo insieme all'opera».
Ricciardi fece la sua solita smorfia, don Pierino aveva imparato a riconoscerla come un 
sorriso.
      «È un prezzo alto, per me, padre. Ma una promessa posso farvela».
      25
Quando Maione sentì la voce di Ricciardi che lo chiamava, intuì dal tono che le indagini 
avevano cambiato marcia. L'esperienza glielo aveva insegnato, senza possibilità di errore: 
c'era un momento preciso, l'occasione di un interrogatorio, di un confronto, di una parola che 
portava il commissario alla verità, a vedere la soluzione. E in quel momento, l'esclamazione 
immancabile era: «Maione!». E lui ne era contento, per se stesso e per il commissario che, 
conclusa l'operazione, avrebbe avuto un momento di transitoria e illusoria pace.
Fregandosi le mani, come un vecchio cane da caccia che comincia a scodinzolare quando 
sente staccare il fucile dalla rastrelliera, si affacciò alla porta: «Dite, commissa'!».
Michele Nespoli aveva venticinque anni ed era calabrese. La sua famiglia era povera, 
nonostante possedesse un piccolo appezzamento di terra e un gregge non lontano da 
Mormanno, in Sila. Nove tra fratelli e sorelle, lui il terzo, il primo maschio. Fin da piccolo, 
insieme al carattere impulsivo e allegro oltre che forte, aveva manifestato una gran passione 
per il canto e rivelato una bellissima voce. Non c'era festa di paese, riunione fra contadini o 
pastori nella quale non si chiedesse a Michele di cantare: e tutti, quando lui cominciava a far 
sentire la sua voce d'angelo, sorridevano e smettevano di litigare o anche solo di parlare. Né il 
vino né le carte da gioco costituivano una sufficiente distrazione: la sua voce fermava i cuori.
Fu quindi naturale che la famiglia, e buona parte del villaggio, contribuisse con le proprie 
limitate risorse a mandare Michele a studiare canto al conservatorio di San Pietro a Majella, a 
Napoli, la maggiore struttura del Meridione e fra le migliori d'Italia.
Crescendo, Michele approfondì il timbro della voce, coltivando la fine intonazione e l'ottima 
espressività; ma, come in tutti i settori della vita in cui c'è anche da guadagnare soldi, sarebbe 
stata utile un po' di diplomazia e di attitudine all'adulazione.
Entrambe le cose, però, erano completamente aliene da Michele, che anzi tendeva a essere 
collerico e orgoglioso oltre misura: lo dimostrò quando reagì alle proposte di un anziano 
insegnante di solfeggio, propenso a concedere buoni voti in cambio di atteggiamenti cordiali, 
tirandogli uno schiaffone in pubblico. Per alcune terribili settimane fu sospeso dagli studi e 
temette di aver vanificato impulsivamente anni di sacrifici suoi e dei compaesani: come 
sarebbe tornato al villaggio? Con quali spiegazioni? Fortunatamente, l'indubbio talento salvò il 
suo diploma. Ma ormai aveva la fama di persona litigiosa e inaffidabile e faticò molto a trovare 
scritture con cui almeno mantenersi in città.
Cominciò un periodo di ristrettezze; di giorno faceva il cameriere nei bar, la sera cantava 
sul lungomare o nei ristoranti, con l'accompagnamento di ubriachi che battevano le mani 
scomposti. Ma era un calabrese: non si sarebbe dato per vinto. Era venuto ragazzino a Napoli 
per diventare un cantante e, perdio, sarebbe diventato un cantante.
Con il passare del tempo, tuttavia, cominciò a bere; pensava ironicamente che fosse per 
andare a tempo con quelli che lo applaudivano nelle taverne. In realtà la notte non era 
abbastanza stanco da addormentarsi subito, e il fantasma del suo fallimento gli danzava 
attorno festante. Per stordirsi ricorreva allora al vino scadente che rimediava senza pagare, 
cantando  un  po'  più  del  pattuito.  Doveva  solo  stare  attento  a  non  esagerare  finché 
interpretava, per mantenere la dizione: altrimenti la gente avrebbe riso di lui, cosa che 
detestava. Aveva iniziato a cadere e sarebbe andato sempre più a fondo, se non fosse stato per 
quello che accadde la sera del venti luglio 1930.
Ricciardi aveva ben chiaro quel che c'era da fare, ora. Dopo il dialogo con don Pierino si era 
reso conto della vera valenza del messaggio del Fatto, per quel che riguardava Vezzi. 
Naturalmente sapeva che si trattava di un'indicazione, un semplice indizio; ma ormai gli era 
chiaro che l'assassino non avrebbe avuto la necessità di rientrare, una volta scappato dalla 
finestra, se non fosse stato coinvolto nella rappresentazione. Quindi, dovevano cercare tra
      quelli ammessi alle quinte durante l'opera, cantanti, comparse, addetti e tecnici.
E doveva trattarsi di un uomo, per indossare il cappotto di Vezzi, che era di corporatura 
imponente, e per saltare dalla finestra: un metro e mezzo, d'accordo, ma pur sempre un bel 
salto. E rientrare nel camerino di Vezzi col rischio di essere scoperto: per poi uscire di nuovo e 
senza alcun travestimento.
Bisognava cercare qualcosa: anzitutto un paio di scarpe, sporche dell'erba dei giardini reali, 
forse anche di un po' di fango; il sopralluogo della sera del delitto aveva mostrato i segni 
dell'atterraggio sull'aiuola, abbastanza profondi da far pensare a un soggetto di un certo peso. 
Forse un indumento, o più d'uno, sporco di sangue: sembrava impossibile, dato lo stato del 
camerino, che l'assassino non si fosse sporcato.
Ricciardi ottenne da Maione conferma che il teatro era rimasto presidiato dalla sera del 
delitto  e  che  nessuno,  di  conseguenza,  avrebbe  potuto  portare  fuori  alcun  oggetto  o 
indumento. Poi gli diede alcune indicazioni operative.
«Nel magazzino del teatro e nella sartoria, senza allarmare o mettere sul chi va là, 
dobbiamo capire se qualcuno dei cantanti, delle comparse o anche solo dei lavoranti si è 
cambiato le scarpe o un vestito. Se lo ha fatto, e non ha potuto portare via in qualche modo le 
cose sporche, queste devono essere ancora là. E le dobbiamo trovare».
«In particolare, commissa'? Chi dobbiamo cercare?» 
«I maschi. I maschi di peso e statura».
Il venti luglio 1930, alle undici di sera, Michele Nespoli stava cantando Santa Lucia luntana, 
nella Trattoria della Mattonella, nei Quartieri Spagnoli. Quella sera aveva cominciato a bere in 
anticipo: il caldo feroce dell'estate gli faceva venire in mente, per contrasto, le sue montagne, il 
buio e silenzioso Pollino al quale cantava dalla finestra della casa in Sila. E la madre, le sue 
ruvide carezze.
L'intera sala andava riempiendosi della struggente malinconia della canzone: tutti i 
presenti avevano persone care che avevano preso i bastimenti pe' tterre assaje luntane, e che 
non avrebbero mai più rivisto. Alcuni, anche per il vino che era scorso a fiumi, avevano 
reclinato la testa sui tavoli e piangevano senza ritegno. Fu allora che un uomo, che si seppe poi 
appena uscito di galera, si rivolse bruscamente a Michele, intimandogli di cambiare subito 
canzone. Michele, a metà dell'ultima strofa, con gli occhi pieni della sua commozione, non se 
ne diede per inteso e volle finirla. L'uomo, gettando a terra la sedia, malfermo sulle gambe, 
prese un coltello dalla tavola e, urlando, gli ripeté di smettere immediatamente di cantare. 
Guardandolo fisso negli occhi, con uno sguardo assieme fiero e irridente, il cantante finì con 
un meraviglioso acuto la canzone; l'uomo, con un grido da belva, si lanciò su di lui brandendo 
il coltello.
Ci fu una breve colluttazione; nessuno dei presenti, forse per i sensi ottusi dal cibo e dal 
vino, più probabilmente per non trovarsi nei guai, ritenne di intervenire. Durò tutto forse 
trenta, quaranta secondi: alla fine Michele sedeva sul pavimento, rantolante, il braccio sinistro 
con un terribile squarcio. Ma l'uomo che lo aveva assalito non si muoveva più e il coltello che 
prima aveva in mano adesso gli spuntava dal cuore. Attorno si era fatto un terribile silenzio. 
La proprietaria della trattoria si avvicinò al cantante e gli disse: «Guaglio', mo' te ne devi 
andare».
E gli aprì la porta. Con fatica, barcollando, Michele uscì e si inoltrò nel dedalo notturno dei 
Quartieri Spagnoli.
Il magazzino era annesso alla sartoria, al quarto piano del teatro: Ricciardi l'aveva già visto, 
nella sua prima visita al regno della signora Lilla. La gestione del materiale di scena, inteso 
come armi, cappelli, scarpe, non era tuttavia di competenza della sartoria, ma di un arzillo e 
vivace vecchietto di nome Costanzo Campieri. Maione lo trovò al lavoro e apprese che 
praticamente non andava mai a casa.
      «Brigadie', io non tengo famiglia; l'unica cosa che ho è questo mestiere. Poi, io sono 
responsabile della roba e non è cosa da poco: in questi tempi di fame e di disperazione, c'è 
gente che per un paio di scarpe si farebbe uccidere».
«Parliamo della sera di mercoledì: c'è stato qualche movimento strano? Le cose di scena 
vengono cambiate, in genere?»
Campieri si grattò la testa calva.
«Qualche volta succede, si può rompere qualcosa durante la recita e la si cambia, se 
possibile, tra una scena e l'altra. O la si aggiusta, se ci si riesce. Io una volta ho messo a posto il 
cappello del faraone di Aida, che si era scassato dietro, senza che il cantante uscisse dalla 
scena. Sono un artista, io. Un'altra volta..».
«Sì, un'altra volta me lo raccontate. Torniamo a mercoledì: qualcuno si è cambiato 
qualcosa?»
«No, venire non è venuto nessuno; però una cosa strana è successa. Io me ne sono accorto 
ieri, quando ho fatto la rassegna».
Maione si fece attento.
«Che cosa?»
«Ho trovato un paio di scarpe al posto di un altro. Scarpe semplici, da uomo, grandi, 
quarantacinque di misura. Nere, normali. Uguali in tutto e per tutto alle altre».
«E se erano uguali, voi da che cosa ve ne siete accorto?»
«Dal fatto che io le scarpe le mantengo pulite pulite. E queste le ho trovate con la suola 
sporca di erba e fango».
Michele non ricordava quasi niente, dal momento in cui era uscito dalla trattoria a quando 
si era risvegliato nel portone sconosciuto. Ricordava vagamente di aver sentito i fischietti dei 
poliziotti che arrivavano, ma poteva esserselo immaginato. Aveva sicuramente perso molto 
sangue e il braccio gli faceva male.
A risvegliarlo era stata la sensazione di fresco dello straccio bagnato che gli era stato 
appoggiato sulla fronte e il morbido della stoffa che gli avevano messo sotto la testa. Aveva 
aperto gli occhi e aveva visto qualcosa di assai strano: una donna che lo scrutava da vicino. Un 
viso dall'ovale dolce, gli occhi azzurri e preoccupati, la bocca dalla linea appena imbronciata; i 
capelli lunghi fino alle spalle, la camicia da notte semplice, bianca. Michele ne era rimasto 
incantato, come quando lo sguardo viene catturato da un'immagine che non lo abbandona più.
«Statti quieto, non ti muovere: hai perso sangue assai. Appena ce la fai, ti alzi e vieni con 
me, che io non ce la faccio a portarti sopra».
La voce era un bisbiglio, ma se ne capiva il tono sollecito e imperioso. Con fatica ma con 
decisione, Michele si era tirato a sedere.
«Ce la faccio, adesso. Meglio che me ne vado, non ti voglio mettere nei guai».
Lei gli aveva appoggiato la mano sul braccio non ferito, per trattenerlo.
«Non te ne puoi andare, è pieno di sbirri qua fuori. Stanno facendo avanti e indietro, sarà 
successo qualcosa di brutto, io non lo voglio sapere; mo', però, te l'ho detto, non ti puoi 
nemmeno muovere, se no col sangue che hai perso puoi pure morire. Poi se quando ti riprendi 
vuoi andare dalla polizia con i piedi tuoi, sono fatti che non mi riguardano e ci puoi andare. Ma 
per adesso, per carità cristiana io ti devo aiutare».
Il ragionamento non faceva una piega e Michele, d'altronde, non aveva nessuna voglia di 
andarsene nella notte incontro a un destino di dannazione, senza aver fatto altro che 
difendersi. Perciò, appoggiandosi al braccio di lei, sorprendentemente forte per essere una 
giovane così minuta, si era fatto condurre lungo la scalinata del palazzo.
La donna abitava da sola, in un minuscolo appartamento ricavato dalla soffitta dell'antica 
costruzione. La ritirata di cui si servivano era al piano inferiore. Nei mesi in cui Michele era 
rimasto lì, aveva incrociato alcune persone, donne e uomini, che gli sorridevano senza 
rivolgergli la parola. Aveva scoperto che esisteva una silenziosa solidarietà tra quelli che
      abitano certi quartieri, fatta di omertà assoluta verso l'esterno. Non sapeva cosa la ragazza 
avesse detto di lui, come avesse giustificato la sua presenza o se l'avesse fatto; ma, in uno 
strano modo, era certo di essere al sicuro.
Uno dei primi giorni, dalla finestra aperta, aveva sentito una discussione tra due guardie e 
la portinaia, in cortile. Chiedevano di lui, chiaramente, con tanto di descrizione; la donna, che 
lui aveva visto più di una volta, negò di conoscerlo con tali decisione e fermezza che lui stesso, 
sorridendo, ebbe il dubbio di trovarsi effettivamente lì.
Fatalmente, aveva cantato. Era accaduto dopo circa una settimana, mentre si radeva la 
barba nell'acquaio della cucina, con un coltello più affilato degli altri. Non se ne era neppure 
accorto, era sabato e c'era il sole. La ragazza era uscita per procurare un poco di pane e frutta, 
lui si sentiva meglio ed era sereno. Quindi, aveva cantato, secondo la sua natura: una canzone 
recente e di successo, Dicitencello vuje. A un certo punto si era accorto che, dalla finestra 
aperta, non arrivavano più i suoni della mattina: nemmeno le voci dei bambini che giocavano. 
Si era affacciato, preoccupato di essersi tradito; magari era in corso un'irruzione della polizia.
Nel cortile, tre piani più sotto, si era radunata una piccola folla: vedeva una decina di 
persone e qualche bambino che guardavano in su, a bocca aperta. Una donna anziana 
ascoltava rapita. La ragazza era entrata, con in mano un involto di carta di giornale, e si era 
guardata attorno, disorientata. Dal gruppo si era staccata la portinaia, l'aveva abbracciata e 
baciata. Era partito perfino, da un balcone del secondo piano, l'applauso di un uomo in 
canottiera; a sua memoria, Michele non aveva mai riscosso un successo così esteso. Da allora, 
per la gente dei quartieri era diventato 'o Cantante e lei 'a `nnammurata d'o Cantante
      26
Ricciardi accolse l'informazione di Maione, circa le scarpe sporche del magazzino del San 
Carlo, senza sorpresa. Sapeva che il conto alla rovescia era già scattato e che il cerchio intorno 
all'assassino si andava stringendo. Sapeva che gli indizi prima e le prove poi sarebbero andati 
tutti nella stessa direzione, confluendo nell'incontrovertibile verità. Com'è giusto, come 
sempre.
Perciò, secondo il solito, diede a Maione il nome e il cognome su cui cominciare a 
raccogliere le informazioni necessarie per le indagini. Maione partì, ventre a terra.
Dal canto suo, si avviò verso la parrocchia di San Ferdinando: andava a invitare don 
Pierino. Voleva vedere l'opera, quella sera.
Quando si baciarono per la prima volta stava iniziando l'autunno. C'erano stati sorrisi e poi 
carezze, e poi quell'abbraccio disperato. Avevano la stessa rabbia, l'identica voglia di 
sopravvivere alla fame, alla gente, a tutto. E ora non erano più soli. Essendo ormai chiaro che 
più nessuno lo stava cercando, Michele si pose il problema di trovare un lavoro.
L'orgoglio gli impediva di pesare oltre sugli scarsi mezzi della sua donna, che aveva un 
mestiere, ma non certo lauti guadagni. E gli sembrava chiaro che non avrebbe potuto 
riprendere a cantare nelle trattorie, nel cui circuito di certo doveva essersi saputo quanto era 
successo alla Mattonella. Per cui cominciò a girare qua e là, nei numerosi cantieri aperti in 
città,  proponendosi  come  manovale  semplice.  Trovò  un  incarico  a  giornata,  nella 
ristrutturazione di un palazzo al Monte di Dio, non lontano dalla sua attuale abitazione.
La sera, quando rientrava, era a pezzi: fiaccato nel fisico da un pesante lavoro, sentiva la 
mancanza  della  musica  che  gli  aveva  sempre  nutrito  l'anima.  E  di  nuovo,  prima  di 
addormentarsi, lo spettro della sua gente che tanto si era sacrificata per lui gli chiedeva conto 
di quello che stava facendo e ancora di più di quello che non faceva. Poi, nella luce della luna 
che entrava dalla finestra, guardava il viso sereno della sua donna e trovava la giustificazione 
di tutto: e si addormentava anche lui.
Ma era lei che aveva la consapevolezza di quanto Michele fosse frustrato dalla situazione: 
un giorno, quando lui rientrò sotto la pioggia, lo accolse con un ampio sorriso e gli disse che, 
tramite  un'amica,  aveva  ottenuto  per  lui  un'audizione  nientemeno  che  dal  direttore 
d'orchestra del San Carlo, il maestro Mariano Pelosi. Era il dieci novembre.
Quando don Pierino si ritrovò davanti Ricciardi, si preoccupò. Il commissario aveva negli 
occhi una luce fredda, i muscoli della mascella guizzavano e le labbra strette sembravano 
ancora più sottili. I capelli, scompigliati dal vento, ricadevano sul viso, dando un'aria ancora 
più determinata all'espressione.
«Commissario,  così  presto!  Non  mi  aspettavo  di  rivedervi  oggi.  Prego,  entrate; 
accomodatevi in sacrestia».
«Grazie, padre. Scusatemi se vi disturbo ancora. Ma sono qui per mantenere una recente 
promessa».
«Quale?»
«Volete accompagnarmi, stasera, ad assistere alla rappresentazione? Mi è necessario».
Don Pierino prese un'espressione triste.
«Allora è per lavoro, che volete andare a teatro. Non era quello che avevo in mente, quando 
vi ho fatto promettere che sareste andato all'opera».
Ricciardi abbassò per un attimo lo sguardo. Quando tornò a guardare il prete, gli occhi 
avevano perso l'espressione febbrile.
«Avete ragione, padre. È per lavoro e non assolve alla mia promessa. Rimango obbligato nei 
vostri confronti e vi rinnovo la promessa di andare, alla prima occasione, a vedere l'opera che 
preferirete. Ma stasera vorrei lo stesso chiedervi di accompagnarmi, se vi fosse possibile. Mi
      sentirei, in qualche modo, più sereno, forse».
Il viceparroco sorrise e appoggiò la mano sul braccio di Ricciardi.
«Va bene, commissario. Vi accompagnerò, come volete. E vi aiuterò ancora: vorrei solo che 
foste indulgente con voi stesso, qualche volta. E che cercaste in fondo all'anima i buoni 
sentimenti che, io lo so, provate».
Ricciardi assentì, serio.
«A stasera, padre. E grazie ancora».
Per Michele fu enorme l'emozione di trovarsi sul palcoscenico del San Carlo. Naturalmente, 
negli anni di studio al Conservatorio aveva ascoltato numerose opere, aggrappato alla 
ringhiera del loggione, tenendo il respiro sospeso, e cantando in silenzio a fior di labbra le 
parti dei baritoni. Sapeva bene quanto la sua voce fosse adatta ai ruoli forti, quelli di grande 
impatto emotivo, e quanto il fatto di avere comunque tenuto in allenamento le corde vocali 
cantando nelle taverne lo aiutasse a presentarsi all'audizione in una condizione accettabile.
Con lui c'erano una decina di aspiranti: il ruolo offerto era per alcune opere che si 
sarebbero tenute nel corso della stagione, con una compagnia di supporto che faceva capo al 
teatro. La paga era buona, ma la possibilità di ritrovare il suo sogno era al di là di ogni 
guadagno: se avesse ottenuto l'ingaggio, il fantasma del fallimento che lo accompagnava 
costantemente si sarebbe finalmente dileguato.
Cantò con tutto il cuore, con tutta l'anima: Rigoletto, il suo ruolo preferito, vibrava redivivo 
nella sua voce possente. Nessuno si esibì con la sua rabbia, la sua passione. Negli occhi di 
Pelosi, che pure ne aveva sentiti tanti e tanti nei decenni della sua carriera, brillavano 
l'ammirazione e la sorpresa. Risultò il migliore ed ebbe la parte.
Tornando a casa, gli sembrava di non toccare terra, tanta era la felicità. Abbracciando la 
propria donna, credette di essere in paradiso.
Poiché sarebbe dovuto andare all'opera, Ricciardi passò prima per casa: non voleva che la 
tata si preoccupasse oltre il dovuto e ne temeva la successiva reazione. Il che non gli risparmiò 
una veemente protesta: la tata gli confermò che il mancato rispetto degli orari lo avrebbe fatto 
ammalare di stomaco, che non avvertendola la metteva in difficoltà, che non aveva niente da 
fargli mangiare.
Non era vero: carne fredda e verdura bollita furono subito in tavola e Ricciardi pensò che 
gli conveniva tornare a casa prima ogni sera. Per allontanarsi dal mal di stomaco.
Una volta finito di mangiare, andò a cambiarsi d'abito indossando un vestito scuro. Poi, aprì 
le tende della finestra della sua camera: anche solo per un attimo, non volle mancare al suo 
tacito appuntamento. Non pensava minimamente che Enrica sapesse che lui la guardava, per 
cui gli sfuggì il moto di sorpresa di lei, che stava apparecchiando la tavola per la cena. Si 
godette i gesti lenti, aggraziati, l'incantevole danza domestica della ragazza, la sapienza della 
mano sinistra, la femminilità del capo lievemente piegato nel valutare la distanza di un piatto 
dalle posate e di queste dai bicchieri.
Dovette farsi molta forza per distogliersi dalla vista di Enrica. Ma l'incontro che avrebbe 
avuto tra poco lo chiamava: non poteva mancare alla serata a teatro.
Maione, secondo gli accordi, aspettava all'ingresso della questura. Ricciardi lo interrogò 
con lo sguardo. Il brigadiere fece un cenno di diniego col capo.
«Non molto. Vive da solo, un appartamentino dalle parti del Conservatorio. Ma ci abita da 
pochi mesi, nessuno sa dove stava prima. Ci lavora da poco, è il primo anno, ma dicono che è 
bravo; bravo assai. Per il resto, domani. Ho messo due persone, Alinei e Zanini».
«Va bene. Tienimi aggiornato, momento per momento. Andiamo, adesso, don Pierino ci 
starà già aspettando là fuori».
Il San Carlo aveva ripreso la propria vecchia veste: rispetto alla sera della prima, meno
      eleganza e mondanità, ma più passione vera e preparazione in platea. Don Pierino, aspettando 
Ricciardi, osservava i volti degli spettatori che man mano confluivano all'ingresso principale 
del teatro e si divertiva a prevedere, dall'abbigliamento, dall'età e dall'espressione dei volti, 
l'ordine di posto di ognuno. Gli piaceva di più il teatro, in quelle serate; sentiva l'amore per la 
lirica, la conoscenza delle partiture e non lo disturbava neppure se, talvolta, l'errore di uno dei 
cantanti veniva punito con sonori fischi, anche se lui era più indulgente: come criticare chi 
stava cercando di regalarti un'emozione così bella?
Quando il commissario arrivò, accompagnato dal brigadiere Maione, il prete gli andò 
incontro allegro.
«Caro commissario, buonasera! Anche se siete qui per lavoro, non mancherete di restare 
incantato dall'atmosfera del teatro!»
Ricciardi, lanciando un rapido sguardo attorno, lo prese per il braccio.
«Zitto, padre! Stasera non c'è nessun commissario e nessun lavoro. Non si deve sapere che 
io sono qui. Fatemi vedere da che parte entrate, di solito».
Disorientato, don Pierino si scusò con gli occhi e indicò la fine del portico, dove in una 
rientranza c'era il portoncino dell'ingresso laterale. I tre si incamminarono in quella direzione 
ed entrarono; gli si fece incontro Patrisso, il custode, che dapprima non li riconobbe.
«Scusate, signori, questo è un ingresso di servizio, non si può... ah, don Pierino, siete voi? E... 
brigadiere, commissario, buonasera! In che vi posso servire?»
Fu Maione a rivolgersi al custode.
«Salve, Patrisso. Com è che siete ancora aperti, da questo lato?»
«Questo ingresso serve per il personale di scena, i materiali e queste cose qua, che si 
portano fino a un quarto d'ora prima dell'inizio. Poi da questo lato chiudiamo; se qualcuno 
deve uscire, c'è la porticina nell'androne che dà sui giardini reali. Per un'emergenza, magari. 
Io stavo chiudendo proprio adesso».
Ricciardi si domandava se l'entrata di un assassino potesse considerarsi un'emergenza. 
Positiva o negativa che fosse la risposta, a questo era servita la porticina dei giardini, la sera 
della prima.
«Sentite, Patrisso: capita mai che qualcuno, che so, dei cantanti esca o entri, durante la 
rappresentazione?» 
Patrisso allargò le braccia.
«Commissa', e io che ne posso sapere? Ve l'ho detto, noi chiudiamo e andiamo a rinforzare 
il personale all'ingresso principale. Certo, penso che qualcuno esca per fumare, dietro le 
quinte non si può perché è pericoloso. Non si crederebbe quanto fumano i cantanti. E ci 
campano con la voce. Oppure per pigliare un poco d'aria, due passi per distendersi. Non con 
questo vento, però. Il colpo d'aria è il peggior nemico per il cantante».
I tre ascoltavano con attenzione. Ricciardi ricostruiva nella mente i possibili eventi della 
sera della prima; era ormai sicuro di aver capito com'era andata e anche chi potesse essere 
l'assassino, con un certo margine di approssimazione, almeno. Ogni ulteriore informazione 
avrebbe potuto confermare la sua ipotesi. Questo non comportava per il commissario alcuna 
soddisfazione: solo un avvicinamento alla verità.
Ripensò all'immagine di Vezzi che ancora infestava il camerino chiuso, lievemente piegata 
sulle ginocchia, la mano protesa e il canto disperato di una romanza che non era sua. E le 
lacrime, le lacrime che gli rigavano il volto incipriato: un dolore immenso, definitivo, che non 
ammetteva perdono. Lui era l'esecutore dell'estrema vendetta, la sua stessa condanna. Si 
avviò, con Maione e don Pierino, sulla stretta scalinata che portava alle quinte e ai camerini. 
Ricciardi pensava alla morte.
      27
Michele Nespoli era pronto, anche se sarebbe entrato in scena più tardi: introduzione, coro, 
duetto di soprani, poi lui. Non pensava all'opera. Pensava alla morte.
Sentiva che gli avrebbero di nuovo impedito di cantare. Era quello, il peso maggiore. E 
stavolta non avrebbe nemmeno avuto il conforto del volto addormentato al suo fianco, da 
guardare alla luce della luna. Non che fosse pentito, no: aveva fatto quello che doveva fare. Si 
era comportato, ancora una volta, secondo il codice del suo onore: secondo quanto aveva 
imparato dai racconti dei vecchi attorno al fuoco, nelle terribili notti dell'inverno silano, con 
gli ululati dei lupi vicino alle porte delle case e i latrati dei cani impauriti. Il codice impresso 
nella sua natura, che però lo costringeva sempre alla lotta, al conflitto col mondo degli uomini. 
Con questa città, in cui era lecito ai forti approfittarsi dei deboli.
Michele Nespoli amava e questa era una colpa che non gli si perdonava mai. Amava la 
musica, amava cantare. E amava una donna, il cui sorriso gli aveva fatto desiderare ancora la 
vita.
Quando aveva preso la scrittura aveva dovuto cercare casa per conto suo: la bigotta 
direzione del teatro non consentiva il concubinaggio, potevano cacciarlo. Lui aveva aspettato 
il giorno di Natale per chiederle di sposarlo. Aveva pregustato il viso sorpreso e felice, il 
sussulto dei capelli biondi, l'abbraccio. Invece, il volto di lei si era fatto triste, il sorriso 
addolorato. No, gli aveva risposto: non ancora, almeno. Aveva delle cose da risolvere, gliene 
avrebbe parlato. Doveva avere fiducia in lei, aspettare e avere pazienza.
Michele ricordava l'acuta sorpresa, il dolore che aveva provato, l'ira, anche, e la prima 
violenta coltellata della gelosia. Ma non aveva alternative: l'amava, come sapeva amare lui, 
senza riserve. Avrebbe aspettato. Nel frattempo, gli bastava vederla; anche da lontano.
La donna bionda ascoltava la musica. In un primo momento aveva pensato di non andare, 
per prudenza. Poi però, riflettendo, aveva deciso di essere presente: avrebbe suscitato troppi 
dubbi altrimenti; troppe chiacchiere.
Doveva evitarlo, assolutamente. Evitare che occhi indiscreti si appuntassero su di lei e sul 
suo uomo, che si parlasse, che si insinuasse. Doveva esserci, per sorvegliare, per intuire, per 
prevenire.
I sensi all'erta, l'attenzione all'estremo, gli occhi vigili, seguiva la rappresentazione. 
Conosceva ogni nota, ogni figura. Sapeva che posizione avrebbero assunto i cantanti, quali 
musiche avrebbe suonato l'orchestra. Aveva salutato le amiche che aveva incontrato, non 
tradendo emozioni, non muovendo un passo diverso dal solito.
Aveva sorriso al suo uomo, ne aveva cercato lo sguardo, per rassicurarlo: lei era lì, e ci 
sarebbe stata sempre.
Don Pierino non capiva: anche se in forma non ufficiale, perché non sedersi in platea? O, 
magari, in uno dei palchetti laterali, da cui avrebbero avuto una migliore visuale della scena.
Invece il commissario lo aveva portato quasi sul palcoscenico, tra il cordame e gli argani 
che servivano a cambiare gli sfondi. Il brigadiere, poi, a un cenno di Ricciardi si era allontanato 
scendendo di nuovo verso l'ingresso secondario. Don Pierino sospirò, rassegnato: avrebbe 
mai potuto godersi un'opera comodamente seduto in poltrona?
Ricciardi si avvicinò a lui.
«Chi entra in scena, adesso?»
«Nessuno, commissario. Prima solo musica, dolcissima. Poi, canta Turiddu. Una serenata, a 
Lola».
«La moglie di Alfio, vero?«
«Sì, la moglie di Alfio».
Dopo una breve introduzione, a sipario calato, una bella voce maschile cominciò a cantare.
      Don Pierino si accorse che Ricciardi controllava l'orologio in continuazione, trascrivendo i 
tempi con una matita su un foglietto.
«Che dice, padre? Non capisco».
«È una serenata in dialetto siciliano, commissario. Le dice quanto è bella e come la sua 
bellezza valga la dannazione; le dice anche, ma è solo poesia, sia chiaro, che potrebbe morire 
ucciso per lei e che se in paradiso lei non c'è, non vale la pena di andarci. È una profezia, 
perché alla fine Alfio lo ucciderà».
I due colloquiavano sussurrando. Alla fine del canto, mentre l'orchestra riprendeva da sola, 
il sipario si alzò: terminata una parte soltanto musicale, entrarono donne e uomini che, dopo 
essersi disposti sul palcoscenico, presero a dialogare tra loro in coro. Ricciardi si distese e don 
Pierino sperò che percepisse la bellezza della musica: purtroppo, però, sentiva che i pensieri 
del commissario erano rivolti altrove.
Tornò Maione, il pesante cappotto che copriva la divisa. Aveva il respiro lievemente 
affannato, come se avesse sottoposto il proprio pesante fisico a uno sforzo insolito. Don 
Pierino si accorse che il brigadiere aveva le scarpe appena infangate, con qualche filo d'erba. 
Era uscito? E per andare dove?
II brigadiere si rivolse a Ricciardi.
«Tutto fatto, commissa'».
«Allora, controlliamo: sei partito quando ti ho detto?»
Il brigadiere controllò l'orologio da polso, tenendolo lontano dagli occhi presbiti.
«Sì, penso di sì. L'orologio mio faceva le otto e sette minuti. Dalla scena al camerino, meno 
di un minuto. Dalla finestra al camerino, due minuti, compreso il tempo per aprire la porta dei 
giardini, che non conoscevo. Ma è facile, una normale serratura. Dal camerino alla scena, un 
altro minuto, pure meno».
Ricciardi teneva il conto, sulle punte della dita nervose. «Quattro minuti scarsi per gli 
spostamenti. Vediamo, allora». E si rivolse a don Pierino.
«Padre, che succede quando un cantante esce di scena e deve rientrare poi».
«Beh, dipende. Se deve rientrare subito o quasi, aspetta dietro le quinte. Se invece ha un 
intervallo più lungo, allora rientra in camerino: ritocca il trucco, sistema gli abiti. Non si 
intrattiene all'esterno, anche per evitare colpi d'aria che, tra un ambiente e l'altro, sono 
sempre possibili».
Il piccolo prete continuava a sussurrare, agitando le mani nella sua maniera caratteristica.
«Ma l'ingresso dei camerini dalla scena è lo stesso per tutti?»
«Sì, vengono prima i camerini del direttore d'orchestra e dei cantanti principali; poi quelli 
comuni, per gli altri cantanti e anche le comparse in costume».
Gli occhi di cristallo verde di Ricciardi si distinguevano nel buio, mentre Santuzza e Lucia 
duettavano  in  scena.  Dietro  il  commissario,  l'imponente  sagoma  di  Maione  vegliava 
nell'ombra.
«E ditemi, padre: per andare in questi camerini comuni si passa davanti a quelli principali? 
Siete sicuro?»
«Sì, commissario: ve l'ho già detto».
In scena, uscite le due donne, era entrato un nuovo personaggio vestito da campagnolo, che 
stava cantando con voce profonda: un giovane dalle ampie spalle, alto di statura. Ricciardi 
rivolse un rapido sguardo a Maione, che assentì lentamente col capo. Il commissario si rivolse 
di nuovo al prete, indicando col capo il cantante.
«E lui?»
«Lui è compare Alfio, il baritono che canta, più avanti, la frase che mi avete detto 
stamattina. È il marito di Lola, quello che alla fine ammazza compare Turiddu».
«E il cantante? Chi è, lo conoscete?»
«Sì, l'ho sentito un paio di volte nella stagione. È un giovane molto bravo, secondo me. Ha 
una carriera, davanti. Nespoli, si chiama. Michele Nespoli».
      In scena, Michele, seduto a un tavolo col bicchiere in mano, tuonava: «M'aspetta a casa Lola, 
che m'ama e mi consola, ch'è tutta fedeltà».
L'opera andava avanti; la compagnia era affiatata, i cantanti calati perfettamente nei 
rispettivi ruoli. La platea, sembrava a Ricciardi, gradiva molto e a più riprese ci furono 
applausi spontanei e sentiti. Nespoli, oltre che per la voce, si distingueva per presenza scenica: 
il fisico atletico e imponente lo aiutava a risaltare, e cantava con la foga e l'impegno di chi vive 
e respira proprio per cantare. Il commissario, con le mani in tasca e lo sguardo attento, 
registrava tutto senza perdersi una sola parola.
Si mosse solo quando, alla fine di un drammatico duetto con Santuzza, sentì la frase che 
aveva imparato a conoscere: 
Io sangue voglio, all'ira m'abbandono, 
in odio tutto l'amor mio finì. 
Ripetuta più volte, con forza e rabbia, da Nespoli. A Ricciardi sembrò diversissima da 
quando l'aveva sentita dalle labbra morte di Vezzi, più di quanto sarebbe stato lecito 
aspettarsi.
II tenore, con voce sottile e modulata, esprimeva il rimpianto di un racconto: l'immagine 
voleva manifestare, ora Ricciardi finalmente lo capiva, l'emozione che aveva guidato la mano 
dell'assassino. Il secondo, col timbro profondo della voce baritonale e gli occhi che mandavano 
lampi di rabbia, raccontava il proprio sentimento. Il commissario non aveva dubbi che 
Nespoli, a distanza di due giorni, ancora sentisse intatta la vibrazione della sua vendetta. Si 
chiedeva anzi come gli spettatori, gli altri cantanti, lo stesso don Pierino che a fior di labbra, 
come sempre, ripeteva le battute, non se ne avvedessero e ne rimanessero atterriti.
Con un ultimo, terribile «Vendetta avrò!», Nespoli uscì correndo dalla scena, passando 
inconsapevolmente proprio davanti ai tre spettatori nascosti. Il pubblico si alzò in piedi, in un 
furioso applauso che sovrastò la musica dell'orchestra. Dalla sua posizione Ricciardi, che 
aveva dato una fugace occhiata all'orologio come aveva fatto anche Maione, ne vedeva 
l'espressione degli occhi: erano vacui, come se pensasse ad altro.
Il baritono non si fermò a sentire gli applausi, che non accennavano a diminuire; scese 
velocemente i gradini che lo separavano dai camerini e Ricciardi, che lo seguì per qualche 
passo, vide che passava davanti alla porta di Vezzi senza guardare, con la testa alta e lo 
sguardo fisso davanti a sé. Il commissario guardò di nuovo l'orologio e tornò al proprio posto, 
mentre l'orchestra riprendeva a suonare.
Quando Nespoli rientrò in scena, con uno squillante «A voi tutti salute!»,  erano passati 
esattamente nove minuti e cinquantasei secondi. Ricciardi pensò che il tempo era più che 
sufficiente. Fu spettatore cupo e silenzioso dell'epilogo della vicenda e del fragoroso successo 
che l'opera riscosse anche quella sera. Don Pierino e Maione lo guardavano, inconsapevole 
l'uno e consapevole l'altro dei pensieri che attraversavano la mente del commissario. Non 
sfuggì a nessuno di loro la differenza di espressione di Nespoli dagli altri componenti della 
compagnia, quando furono richiamati in scena singolarmente per raccogliere l'ovazione del 
pubblico: il baritono sorrideva con la bocca, non con gli occhi. Ricciardi guardava le scarpe di 
Alfio e i leggeri segni che avevano lasciato quelle di Maione sull'impiantito che aveva percorso. 
Fango e un po' d'erba. Il quadro era completo.
Ricciardi salutò don Pierino mentre ancora il pubblico, in piedi, stava applaudendo.
«Grazie, padre. Di nuovo, grazie tante. Il vostro aiuto è stato importantissimo. Adesso la 
parte brutta del mio lavoro; e devo farla io. Resta in piedi la mia promessa, vi verrò a trovare».
Il viceparroco lo guardò fisso, i suoi vivaci e mobili occhi neri negli occhi verdi dell'altro, 
fermi e inespressivi.
«Vi saluto, commissario. Che Dio vi aiuti a non sbagliare: i vostri errori li pagano gli altri. Se 
avrete bisogno di me, per il mio lavoro, mi troverete pronto. Giorno e notte».Con un ultimo sguardo profondo, Ricciardi si voltò e, seguito da Maione, si avviò verso i 
camerini.
      28
Scendendo dal palcoscenico, Michele Nespoli capì subito che tutto era finito: appena vide i 
due uomini fermi, con le mani in tasca, davanti alla porta, a quella porta, se ne rese 
immediatamente conto.
Fu sorpreso di provare sollievo; più ancora di quanto immaginasse, non riusciva a vivere 
sentendo sul capo una minaccia costante. Maione fece un passo avanti e gli toccò il braccio.
«Nespoli Michele, siete voi? Dobbiamo farvi qualche domanda. Vi volete accomodare?», 
indicando il camerino di Vezzi, la cui porta era stata riparata.
Attorno si fece un silenzio attonito. Si sentiva il respiro ancora affannoso di chi era appena 
uscito dalla scena; istintivamente quelli che stavano vicino al baritono si spostarono e lo 
lasciarono da solo, al centro di un immaginario piccolo palcoscenico.
I tre entrarono nel camerino. All'interno, tutto era stato ripulito. Non c'era più traccia del 
sangue del tenore, se non qualche alone di umidità sul tappeto. Lo specchio era stato 
sostituito.  Se  non  fosse  stato  per  l'immagine  di  Vezzi,  che  ancora  percepiva,  ormai 
evanescente, nell'angolo della stanza, Ricciardi avrebbe faticato a riconoscere la scena del 
delitto che si era presentata ai suoi occhi solo due giorni prima. Nespoli, che non aveva 
abbassato  lo  sguardo  nemmeno  per  un  attimo,  rivolse  i  profondi  occhi  neri  attorno, 
fugacemente, soffermandosi sul finestrone, che come allora era socchiuso.
Maione aveva terminato di declinare le generalità di Nespoli e i riferimenti all'evento 
dell'assassinio. Nel camerino adesso c'era silenzio. Ricciardi guardava fisso il baritono, che 
fieramente rispondeva allo sguardo. Fu il commissario a parlare.
«Chi è la donna?»
Nespoli sospirò, lentamente.
«Non capisco di che cosa parlate».
Ricciardi assentì lievemente col capo, come se in qualche modo si fosse aspettato la 
risposta.
Fu Maione, senza alterare il tono, a intervenire.
«Ci volete parlare di quello che è successo la sera del venticinque marzo, l'altroieri?»
Nespoli sbuffo, infastidito.
«Secondo voi, che cosa è successo?»
Ricciardi fece due passi e si voltò nuovamente verso il baritono, con le spalle all'angolo 
dove l'immagine di Vezzi continuava a schizzare sangue attorno.
«Abbiamo ragione di ritenere che, per cause imprecisate, abbiate ucciso, volontariamente o 
non volontariamente, Vezzi Arnaldo; che lo abbiate ucciso la sera del venticinque marzo 
scorso, tra le diciannove e le ventuno».
Nespoli sorrise, di nuovo solo stirando le labbra. Gli occhi erano quelli di un animale in 
gabbia.
«E per quale motivo, avete ragione di ritenere una cosa del genere?»
Continuavano a fissarsi negli occhi. Maione manteneva la posizione, al centro fra i due. 
Fuori dalla porta si sentiva un mormorio costante.
Il brigadiere, calmo, disse: «Siamo noi a fare le domande».
Il cantante non sembrava particolarmente scosso dall'accusa.
«Domandate, allora», disse con tono sprezzante.
«Avete avuto un incontro con Vezzi, nel giorno e nell'ora del delitto?»
«Sì, l'ho visto. L'ho incontrato».
«E dove?»
Nespoli emise un lieve sospiro, guardandosi fugacemente attorno.
«Proprio qui. Anzi, qui fuori; sulla porta, insomma». 
«Sulla porta?»
«Sì, sulla porta. Stavo rientrando in camerino dalla scena».
      «E gli avete parlato?»
«Lui, ha parlato con me».
Fino a quel momento, Ricciardi non era intervenuto nella conversazione; aveva fissato 
Nespoli per tutto il tempo, studiandone l'atteggiamento. Ora parlò, a voce bassa.
«Sentite, Nespoli: la vostra non è una posizione facile. Abbiamo le nostre informazioni e le 
prove che ci servono: un atteggiamento di chiusura potrà solo farci perdere un po' più di 
tempo, ma non vi salverà certo. È meglio per voi se non fate finta di non capire quello che vi 
chiediamo».
Nespoli si volse verso il commissario e sorrise.
«E se avete queste prove, perché lo perdete voi questo tempo?»
«Perché dobbiamo ricostruire tutto quello che è successo, ecco perché. E anche perché», e 
qui Ricciardi abbassò ancora il tono, «dobbiamo capire se ci sono dei complici».
Calò il silenzio. Nespoli e Ricciardi si fissavano. Maione guardava di volta in volta entrambi, 
le palpebre semichiuse come se stesse per addormentarsi: il suo modo di essere concentrato.
Alla fine Nespoli disse, e la sua potente voce trattenuta pareva un tuono lontano: «Prove, 
dite? E quali prove avreste?».
«Abbiamo trovato le scarpe che vi siete cambiato per non lasciare sul palcoscenico i segni 
del fango dei giardini. Siete l'unico che in quel momento aveva in carico scarpe di scena di 
quella misura. Avete i piedi grandi. Siete nel ristretto numero di quelli che potevano accedere 
ai camerini, l'unico che poteva indossare gli indumenti di Vezzi. E infine, vi hanno visto 
rientrare dalle scale e vi hanno riconosciuto».
Maione non diede alcun segno di essere sorpreso dalla piccola trappola che Ricciardi aveva 
teso al baritono: sapevano entrambi che si trattava solo di indizi e che don Pierino non 
avrebbe mai potuto essere certo che quello incontrato per le scale era Nespoli piuttosto che 
Vezzi o qualsiasi altro di quella taglia. Ma il brigadiere sapeva che quel lavoro alle volte 
assomigliava alla pesca del cefalo, che la domenica andava a fare vicino al porto; e il cefalo, 
anche stavolta, abboccò.
E  abboccò  con  un  sospiro  e  un  sorriso,  scuotendo  lieve-mente  la testa:  «Il  prete. 
Maledizione».
Sembrava più divertito che avvilito, come se avesse perso una mano di tressette. Ricciardi 
disse, a voce ancora bassa: «Che cosa avevate contro Vezzi? Che vi aveva fatto?».
«Era un vigliacco. Un uomo vile e meschino. Insidiava le donne. Si prendeva delle libertà, 
pensava di essere Dio; e non era Dio, era un uomo da niente».
«E così, l'avete ammazzato».
«Non lo volevo certo ammazzare. Abbiamo discusso, litigato. Io gli ho dato un pugno, lui è 
andato a finire nello specchio: alto quanto me, più grosso di me, e appena l'ho toccato è andato 
a finire nello specchio. Pure in questo, non valeva niente».
Silenzio. Ricciardi si girò e vide le lacrime che rigavano il volto del pagliaccio. Guardò 
nuovamente Nespoli.
«Non meritava di campare, quindi, Nespoli? E avete pensato che Dio eravate voi e siete 
venuto qua ad ammazzarlo».
Il baritono trasalì.
«No, io non sono Dio. Ma per me il buono è buono, il cattivo è cattivo. E Vezzi era cattivo. 
Non ci provava nemmeno a sembrare buono. Con quel povero Pelosi, alla prova, per esempio. 
Io ero andato a guardare, non potete immaginare come l'ha trattato: quello è buono, beve ma 
è una persona perbene, che non fa male a nessuno. L'ha chiamato vecchio ubriacone incapace, 
l'ha chiamato. Senza pietà».
«Le donne? Avete parlato di donne».
«Sì, le donne. Si prendeva tutte le confidenze, allungava le mani, pretendeva le attenzioni 
con la forza e col potere che aveva, perché era importante, perché era il famoso Vezzi. E 
adesso non è più niente».
      Parlava calmo, con un tono normale, discorsivo. Nella voce non c'era alcun segno di 
emozione. Ma gli occhi, gli occhi mandavano lampi di furia da belva. Ricciardi pensò 
curiosamente che sarebbe stato uno splendido attore per il cinema, non quello nuovo, quello 
senza sonoro: le sue espressioni non avrebbero avuto bisogno di didascalia, sarebbe bastata la 
musica.
«Diteci com'è successo, con precisione».
Nespoli si strinse brevemente nelle spalle.
«Cosa volete che vi dica: stavo rientrando nel camerino, avevo finito la mia prima parte, 
avevo più o meno dieci minuti. Lui aveva la porta aperta, mi ha guardato e ha fatto un 
commento ironico: `E bravo, il dilettante! Sembravi un cantante, quasi!'. Non ci ho visto più. Gli 
ho dato una spinta, lui è caduto all'indietro. Si è alzato, mi ha detto: `Ti sei rovinato, ora non 
canti mai più'. Io sono entrato, mi sono chiuso la porta alle spalle. Ho cercato di scusarmi, ma 
lui ha ripetuto: `Ora non canti mai più'. Allora ho smesso di pensare e gli ho dato un pugno».
«Come, gli avete dato un pugno? Dove?»
Nespoli mimò un gancio destro.
«Così. Alla faccia, l'ho preso credo sotto l'occhio». Corrispondeva col segno del colpo sul 
cadavere. 
«E poi?»
«Poi lui è caduto all'indietro, nello specchio che si è rotto. Ha cominciato a perdere sangue 
dalla gola, a fiotti, un sacco di sangue. Rantolava, si è seduto sulla sedia, il sangue continuava a 
uscire, a fiotti. Vigliacco, aveva finito lui di cantare. Con quella voce finta che gli serviva per 
prendere in giro l'umanità. Con quell'anima nera».
Ricciardi, con la coda dell'occhio, lanciò uno sguardo all'anima nera che, piangendo, ancora 
cantava e schizzava sangue. Ma aveva il diritto di vivere, pensò. Per nera che fosse.
«E voi che avete fatto?»
«Ho pensato in fretta. Non potevo uscire dalla porta del camerino, potevano vedermi. Ma se 
uscivo dalla finestra e rientravo, vestito da scena, durante la nostra rappresentazione, sarebbe 
stato strano. In pratica, era come confessare. Allora ho preso dall'armadietto il cappotto, il 
cappello e la sciarpa del vigliacco e mi sono calato dal finestrone».
Indicò col mento da dove era uscito.
«E da dove siete rientrato?»
«Dalla porticina, vicino all'ingresso dei giardini. È sempre aperta, andiamo a fumare 
quando ci sono le prove». 
«E avete incontrato qualcuno, ritornando?»
«Solo  il  prete,  stava  alla  fine  della  scalinata.  Ma  era  concentrato,  stava  sentendo 
l'intermezzo. Non pensavo che mi avesse riconosciuto. Avevo un po' di tempo ancora, ho 
pensato».
«Che avete fatto, allora? Siete rientrato nel vostro camerino?»
«No. E come facevo? Col cappotto e il cappello di Vezzi? Poi, anche se dopo l'intermezzo c'è 
il coro e quasi tutti stanno in scena, nel camerino c'è sempre qualcuno. Mi sono guardato 
attorno con attenzione, ho visto che non c'era nessuno, ho aperto la porta e ho buttato dentro 
cappotto, cappello e sciarpa. Stavano ancora suonando la fine dell'intermezzo».
Ricciardi guardò Maione, che annuì. I tempi corrispondevano con quanto cronometrato 
quella sera.
«Allora ho chiuso la porta del camerino a chiave e sono andato col montacarichi in 
magazzino per cambiare le scarpe».
«La chiave?»
Nespoli sembrò per un attimo disorientato.
«La chiave? Me la sono messa in tasca e, poi, quando sono uscito sono andato vicino al mare 
e l'ho buttata».
Ricciardi lo guardò fisso, occhi negli occhi. Nespoli sostenne lo sguardo. ,
      «Come avete spiegato al magazziniere che le scarpe erano sporche?»
«Campieri? Non era al suo posto, forse era stato chiamato altrove o si era allontanato. Se ci 
fosse stato, le avrei pulite alla meglio e sarei andato in scena, correndo il rischio di lasciare le 
tracce. A quel punto non avevo scelta. E comunque non avevo più tempo, dovevo rientrare».
Ci fu un attimo di silenzio. Il mormorio fuori dalla porta faceva da sottofondo al lungo 
sguardo che si scambiarono il cantante e il poliziotto. Maione respirava, pesantemente. 
L'anima di Vezzi piangeva e cantava e chiedeva giustizia: ma la sentiva solo Ricciardi.
Nespoli disse: «Non sono pentito. Non me ne pentirò mai».
Ricciardi uscì per primo, mentre Maione metteva le catene ai polsi di Nespoli. La folla che si 
era  radunata  fuori  dal  camerino  diventò  all'improvviso  silenziosa.  Si  fece  strada  il 
sovrintendente, accompagnato dal direttore di scena: era talmente agitato che sembrava 
cianotico.
«Questo è troppo, decisamente troppo! Entrare durante la rappresentazione da un ingresso 
laterale, introdursi sul palcoscenico, addirittura! E poi, in un camerino! Ma lo volete capire, 
una volta per tutte, che questo è un teatro? Uno dei principali della nazione?»
Mentre il duca gli piroettava attorno, incapace di fermarsi anche solo per respirare, 
Ricciardi si accorse che il mormorio della variegata folla di pagliacci, colombine, arlecchini e 
carrettieri si era nuovamente spento. Si girò verso il camerino e vide uscire Nespoli seguito da 
Maione. L'uomo manteneva il proprio sguardo fiero, sicuro e di sfida; le persone più vicine 
arretrarono, istintivamente. Nespoli si guardò attorno, una volta sola: e fu allora che accadde.
Il commissario si avvide che per un attimo, un breve, unico attimo, lo sguardo di Nespoli 
cambiò. Fu un evento tanto repentino e passeggero da fargli dubitare di averlo realmente 
visto; ma non poteva essersi sbagliato, abituato com'era a valutare le emozioni dagli occhi.
In quell'istante il volto di Nespoli era diventato dolcissimo e triste, sottomesso e disperato. 
L'uomo forte e disincantato era scomparso, per lasciare il posto a un ragazzo infelice, disposto 
tuttavia, per amore, a offrire la propria vita: era l'espressione dell'estremo sacrificio.
Ricciardi ricordò che, qualche anno prima, si era occupato dell'omicidio di una donna per 
mano del marito che lei voleva lasciare per un amante: l'uomo si era ammazzato, dopo averla 
uccisa, con due colpi della propria pistola di ufficiale dell'esercito. Il commissario aveva ben 
presente l'immagine dell'assassino, il cui cranio era stato per nietà spazzato via dal colpo. 
L'unico  occhio  rimasto,  però,  nel  versare  lacrime  disperate  aveva  proprio  la  stessa 
espressione: il dono della vita, per amore. L'immagine ripeteva “per te, amore mio, per te”, 
mentre il cervello sfrigolava ancora per il calore della polvere da sparo.
Subito Ricciardi guardò la piccola folla, per capire chi avesse cercato con gli occhi il 
cantante. Sapeva che la chiave di tutto era lì, in quello sguardo: la motivazione vera 
dell'assassinio di Vezzi, la stessa dannazione di Nespoli. Guardò e, in un primo momento, 
mentre il sovrintendente continuava a protestare ansimando, non vide nessun possibile 
destinatario di uno sguardo come quello: poi, inaspettata, riconobbe l'immagine speculare 
degli occhi del baritono. Come quelli erano sottomessi, adoranti e vibranti di sacrificio, gli altri 
erano  quasi  minacciosi:  dicevano  di  fare  attenzione  a  non  tradirsi,  di  mantenere 
quell'atteggiamento.
L'attimo passò, lasciando il commissario confuso: il nuovo elemento, che non intendeva 
sottovalutare, cambiava di nuovo la prospettiva e in modo radicale. Ma disponevano di una 
confessione, una confessione completa, non poteva ignorarlo.
L'uscita di Nespoli aveva sortito l'effetto secondario, ma non trascurabile, di far tacere per 
un attimo il sovrintendente. Ma fu solo un attimo.
«Ma... ma è come sembra? Avete arrestato il colpevole? Oh, ma allora devo ritirare tutto! 
Congratulazioni! Non che abbia mai dubitato nemmeno per un attimo del trionfo della 
giustizia, tuttavia questa ultima vostra... irruzione mi aveva indotto a tornare nuovamente in 
argomento coi vostri superiori o, se fosse stato necessario, con Roma per risolvere la 
questione. Ma ora, certo, se dovesse dimostrarsi che avete davvero colto nel segno..».
      Ricciardi, a voce sufficientemente alta per farsi sentire in tutto l'ambiente disse: «Sì, signor 
duca. Proprio così. Abbiamo arrestato il colpevole, sembrerebbe».
Tutti commentarono l'annuncio di Ricciardi e per un momento ci fu un vociare confuso: 
una sola persona, che il commissario stava osservando, non alzò lo sguardo da terra.
      29
Raggiunto Maione fuori dal teatro, Ricciardi si avviò verso la vicina questura. La procedura 
era irregolare, perché per sicurezza avrebbero dovuto essere accompagnati da almeno due 
guardie. Tuttavia l'arrestato aveva un atteggiamento tanto sottomesso e tranquillo da non far 
temere colpi di testa. Qualche centinaio di metri dopo incrociarono trafelato Luise, il giovane 
cronista del Mattino.
«Commissario, salve... sono stato avvertito al telefono... chi è l'arrestato? Potete dirmelo, 
stavolta?»
Ricciardi ebbe compassione del giovanotto che aveva maltrattato in occasione del loro 
primo incontro, e non volle mandarlo via a mani vuote.
«Si tratta di un cantante della  Cavalleria rusticana, di nome Nespoli Michele. È un 
sospettato».
Nespoli alzò lo sguardo, che aveva tenuto basso fino ad allora, e dichiarò sprezzante: «Che 
bravi questi sbirri! Lo prendono sempre il colpevole. Specialmente quando qualcuno fa la 
spia».
Maione gli mise una mano sulla spalla.
«Parlate solo se siete interrogato».
Luise cercò di domandare qualcosa sulle circostanze dell'arresto, ma i tre si allontanarono 
camminando svelti.
Completate le procedure del fermo di polizia e condotto Nespoli nella cella provvisoria 
della questura, Ricciardi salutò Maione.
«Non disporre ancora la traduzione a Poggioreale. Domani lo voglio sentire un'altra volta».
«Qualcosa non vi è chiaro, eh, commissa'? Me ne sono accorto dalle domande che avete 
fatto e da come lo guardavate. Però ha confessato».
«Sì, ha confessato. Ma domani lo voglio risentire. Buonanotte».
Lungo la via per tornare a casa, il commissario ripensò alla successione degli accadimenti.
Lo sguardo, anzitutto: con le catene ai polsi Nespoli aveva guardato una persona che mai 
Ricciardi si sarebbe aspettato. La casualità dell'evento: possibile che un individuo, seppure di 
carattere tanto infiammabile come quello del baritono, reagisse in un modo così spropositato, 
per un semplice commento? I tempi: possibile che in soli dieci minuti, senza aver preparato 
niente, uno che sta cantando in un'opera lirica esca di scena, ammazzi un uomo, scappi dalla 
finestra, rientri, salga al quarto piano, si cambi le scarpe, scenda e torni in scena a cantare? Il 
modo: possibile che un solo pugno, che peraltro aveva destato i dubbi del dottore per i limitati 
effetti, riesca ad abbattere con tanta violenza un individuo, da spaccare uno specchio pesante 
e farlo morire dissanguato? Possibile, certo; aveva visto circostanze ancora più strane. Ma 
difficile, molto difficile.
Infine, il Fatto: le lacrime che solcavano il viso di Vezzi. Non si piange, durante una lite per 
motivi tanto futili.
Allora, pensava Ricciardi, Nespoli stava coprendo qualcuno: ma chi e perché? La persona 
che aveva guardato? Era forse a conoscenza degli eventi, oppure complice? E come avrebbe 
potuto, ora, far emergere la verità? Vedeva chiaro, Nespoli, a che cosa andava incontro? Oltre 
la carriera, rovinata irrimediabilmente, il cantante avrebbe perso la libertà e per molti anni. 
Anche se non intenzionale, l'omicidio di Vezzi era stato efferato e al centro dell'attenzione 
della stampa e del potere di Roma: i giudici, Ricciardi lo sapeva bene, erano sempre ansiosi di 
compiacere il regime, di cui il tenore era un figlio prediletto. La condanna, il commissario ci 
avrebbe scommesso, sarebbe stata esemplare.
Erano circa le undici, ormai. Con la coscienza tacitata dallo spuntino serale, la tata Rosa se 
n'era andata a dormire: il profondo russare che proveniva dalla sua stanza ne era la prova. 
Ricciardi si ritirò a sua volta e si cambiò. Per puro scrupolo, andò alla finestra e aprì le tende, 
guardando di fronte.
      Alla luce tenue dell'abat-jour, Enrica stava cucendo: messo da parte il corredo, voleva finire 
una veste estiva per il nipotino che compiva un anno a fine agosto; sarebbe stato il suo regalo. 
Amava molto il figlio di sua sorella: si chiese se avrebbe amato così un figlio suo, se mai ne 
avesse avuto uno, o anche di più. Sospirò e istintivamente guardò fuori: sussultò in modo 
impercettibile, vedendo che le tende della finestra di fronte si erano aperte, così fuori orario.
Osservando il ricamo che aveva finito sulla pettorina sorrise tra sé, pensando che avevano 
ragione i suoi che glielo dicevano sin da piccola: era una terribile testarda. Allungò la mano 
verso le forbici, sul tavolino.
Di là dalla strada, attraversata dal vento forte, nel buio della sua stanza Ricciardi guardava 
Enrica cucire. Come sempre, immaginava che prima o poi le avrebbe parlato e le avrebbe 
detto della pace che gli dava vederla ricamare. Le avrebbe chiesto di ricamare davanti a lui e si 
sarebbe seduto a guardarla; lei avrebbe sorriso, piegato la testa di lato e gli avrebbe detto di 
sì, con quella voce che lui non aveva mai sentito.
Intanto, dall'altra parte della strada il lavoro fu completato; Enrica poggiò il ricamo e per 
tagliare il filo residuo sollevò le forbici dal tavolino con la mano destra, passandole alla 
sinistra.
E Ricciardi capì tutto.
Il nastro con le forbici, che mancava; qualcuno che lavorava con la mano sinistra; il senso di 
quello che aveva detto il dottore, due giorni prima; il camice troppo grande. E, soprattutto, 
capì quello sguardo, durato un attimo.
Pensò anche, guardando al di là della strada, che lo sguardo di un attimo può significare 
tanto: può significare tutto.
Aveva appena appeso il soprabito, in ufficio, che entrò il vicequestore Garzo, come una 
furia; dietro di lui, agitatissimo, Ponte, l'usciere.
«Ricciardi, ma è vero quello che ho saputo stamattina? Che avete fermato un sospettato 
dell'omicidio Vezzi? È vero?»
Ricciardi richiuse l'armadietto, sospirò e si girò verso il suo superiore.
«Sì, è vero. Ieri sera».
Garzo era fuori di sé: sul suo volto, di solito sorridente e controllato, erano comparse delle 
chiazze rosse, la cravatta era allentata e i capelli si presentavano scarmigliati.
«E perché non sono stato avvertito? Avevo detto chiaramente, e più di una volta, che tutti 
gli sviluppi, anche minimi, avrebbero dovuto essermi riferiti. E voi arrestate il colpevole e non 
me lo dite? Se non fosse stato per il mio amico caporedattore del Mattino, che mi ha telefonato 
stamattina per congratularsi, non avrei saputo niente! Ma chi sono, io? Nessuno?»
Ricciardi lo guardava freddamente, le mani nelle tasche dei pantaloni.
«Voi  state urlando  nel  mio  ufficio  e  non  mi  sembra  il  modo  giusto  di  chiedermi 
informazioni. Non avrei potuto avvertirvi ieri, perché erano le undici di sera e voi eravate 
andato via da oltre due ore. Inoltre si tratta di un sospetto, non di un colpevole. Io comunico 
con voi come devo comunicare, cioè in via ufficiale. Quello che vi dicono i vostri amici, non mi 
interessa più di tanto».
Aveva parlato a voce bassa, quasi mormorando: l'effetto di contrasto con le urla di Garzo 
era stato enorme. Sulla porta, appena fuori, Ponte abbassò la testa come se avesse preso un 
pugno. Maione, che era sopraggiunto di corsa, fece un gran sorriso che coprì con una mano; 
con l'altra teneva il giornale.
Garzo rimase come imbalsamato. Batté le palpebre, due o tre volte, e alla fine tirò un 
respiro profondo. Si guardò attorno e parve sorpreso di trovarsi nell'ufficio di Ricciardi. 
Quando riprese a parlare, aveva un tono che sembrava dimesso; ma c'era una vibrazione 
feroce nella sua voce.
«Certo... certo. Scusatemi. Scusatemi tanto, Ricciardi. Allora... potete dirmi, per cortesia, 
qualcosa di questo arresto che avete fatto ieri, così posso riferirne al questore? Sapete, per
      non farlo trovare impreparato quando chiameranno da Roma».
Quasi sillabava, trattenendo l'ira. Ricciardi arrivò a provarne compassione.
«Sì, certo. Dunque: alcuni elementi emersi dalle indagini ci hanno fatto rivolgere i nostri 
sospetti su Nespoli Michele, di professione cantante baritono presso il Real Teatro di San 
Carlo. Interrogato in loco da me e dal brigadiere Maione, cui va gran parte del merito 
dell'arresto, ha confessato il delitto. Ma alcuni altri elementi devono essere sottoposti a 
verifica, per valutare l'ipotesi di eventuali complici o di moventi attualmente non noti. Per cui, 
allo stato, non emetterei comunicati ufficiali».
Garzo apriva e chiudeva la bocca: a Ricciardi venne in mente un grosso merluzzo in giacca e 
cravatta. Quando ritrovò la parola, disse: «Non sono sicuro di aver capito: non mi avete detto 
che questo Nespoli ha confessato l'assassinio di Vezzi?».
«Sì, ma..».
Garzo alzò la mano.
«No! Non c'è nessun ma! Se abbiamo la confessione, e ce l'abbiamo, non vedo margini 
d'incertezza. Vi chiedo di capire, una volta per tutte: una cosa è trovare l'assassino due giorni 
dopo l'omicidio, altra è continuare a indagare dopo una confessione. Se si continua a indagare 
nonostante una confessione, vuoi dire che la soluzione ci è caduta addosso senza che noi 
l'abbiamo cercata e, quindi, non c'è merito. Ora, io credo di interpretare l'opinione del signor 
questore nello scegliere decisamente la prima ipotesi. Per cui, caro Ricciardi, da un lato»,  e 
indicò il numero uno prendendo il pollice della sinistra tra indice e pollice della destra,  «vi 
faccio le mie più sentite congratulazioni per la brillantissima soluzione del caso; dall'altro»,  e 
con le stesse dita prese l'indice della sinistra,  «vi invito ad astenervi sia dal continuare le 
indagini che dal comunicare alcunché di queste vostre perplessità a chicchessia. Siamo 
d'accordo?»
Ricciardi non aveva mosso un muscolo.
«No. Non sono affatto d'accordo. Si corre il rischio di lasciare uno o più colpevoli a piede 
libero, lo sapete benissimo. E di rimanere all'oscuro di alcuni lati di questo caso che 
attualmente non si spiegano».
Ci fu un attimo di silenzio. Maione e Ponte, sulla soglia della porta, sembravano due statue. 
Garzo si riscosse.
«Non ho intenzione di ritornare sull'argomento, Ricciardi. Il mio è un ordine. E un'altra 
cosa: sappiamo bene tutti e due quante volte siete intervenuto presso di me, per sostenere le 
posizioni dei vostri collaboratori più stretti, e quanto essi vi stiano a cuore. Mi preme perciò 
ricordarvi che eventuali disobbedienze saranno attribuite,oltre che a voi, anche a loro; per cui 
il brigadiere Maione, qui, per esempio, passerebbe da un encomio e da una più che probabile 
gratifica in denaro a un severo provvedimento disciplinare. Regolatevi».
Si voltò e uscì, con passo marziale: Ponte si fece di lato per farlo passare e lo seguì, con 
sguardo fintamente afflitto.
Maione entrò nell'ufficio di Ricciardi, rosso in viso.
«Ma che fetente è chisto!», e si richiuse la porta alle spalle.
      30
Ricciardi si lasciò cadere sulla sedia dietro la scrivania. Guardò sconsolato Maione seduto 
davanti a lui.
«Hai sentito? Quindi, o sei un eroe o sei un criminale anche tu. Nessuna via di mezzo».
Maione lo guardava, in silenzio. Ricciardi sospirò.
«Ti devo sollevare dall'indagine, brigadiere. Da questo momento in poi, non te ne occupi 
più. Ti spetta una bella gratifica, per il lavoro che hai fatto».
Maione continuava a guardarlo.
«Quindi buona giornata, Maione. Puoi andare».
«Commissa', io non vado in nessun posto. A parte il fatto che non prendo ordini da quello 
là», e indicò la porta con un cenno del capo, «ma dal mio diretto superiore che siete voi, vi 
conosco bene ormai: e lo so quando un lavoro è finito e quando non lo è. E qua secondo me 
non abbiamo finito ancora, già me n'ero accorto ieri sera e ne sono stato sicuro stamattina, 
quando vi ho guardato in faccia. Poi, lo sfizio di dimostrare a quel signore e al suo cagnolino 
Ponte che ha torto è troppo forte per perderselo. E poi a me della gratifica non me ne fotte 
proprio: non sono abituati, i figli miei, a tenere troppi soldi. Vengono maleducati, i guaglioni 
con troppi soldi. Infine», concluse, scimmiottando il vicequestore e prendendosi la punta del 
mignolo sinistro con le due dita della mano destra, «a me una sola cosa mi dà più fastidio di un 
colpevole libero: un innocente in galera».
Ricciardi scosse il capo e sospirò ancora.
«Lo sapevo che sei un vecchio testardo. Un giorno di questi ricordami che ti devo mandare 
in pensione. Hai ragione, comunque: qua non abbiamo finito ancora. Ci sono cose che non mi 
sono chiare e che si devono portare alla luce, e poi possiamo dormire».
Maione mise sulla scrivania il quotidiano.
«Tanto sul giornale già siamo eroi. Guardate: `La polizia, dopo soli due giorni di infaticabili 
indagini, scopre e assicura alla giustizia l'efferato assassino del tenore Vezzi. Tutti i particolari 
in cronaca'. Se siamo infaticabili, dobbiamo continuare a faticare. Lo dice la parola, no?»
«Infatti. Però dobbiamo fare attenzione a Garzo e ai suoi, quindi tu ti prendi un bel 
permesso di un giorno, che ti do io, ufficialmente per portare tuo figlio dal dottore. Invece, ti 
dai da fare. Conosci sempre quel tipo che abita sopra ai quartieri, come si fa chiamare... 
Bambinella? Quello che sta sempre in mezzo, che sa i fatti di tutti».
«Il femminiello? Certo, che lo conosco. Quello, ogni volta che mettiamo un poco di puttane 
dentro, ci sta sempre pure lui, vestito da donna che pare meglio lui, scusate commissa', delle 
femmine vere. Però è simpatico, fa fare un sacco di risate».
«Ecco, quello. Lo devi rintracciare, stamattina stesso. E gli devi chiedere notizie su questo 
nominativo, che ti scrivo qua».
Prese un foglio di carta e, intinta la penna nel calamaio, scrisse un nome e passò l'appunto 
al brigadiere.
«Tutto quello che si riesce a sapere. Tutto. Poi vieni da me e mi riferisci».
Maione lesse il nome, annuì e sorrise.
«Allora è questa, eh? Io me n'ero accorto che lui l'ha guardata strano. Ero sicuro che non vi 
era sfuggito manco a voi. Va bene, commissa'. State senza pensiero».
«Un'ultima cosa, poi vai. Fammi portare Nespoli».
Com'era ovvio, Nespoli non aveva chiuso occhio. Si presentò con occhiaie profonde e un 
velo nero di barba sul viso, la folta capigliatura in disordine. Lo spettro del fallimento della sua 
vita aveva ricominciato a danzargli attorno e, lo sapeva, non avrebbe più smesso. Nella cella 
erano passati davanti ai suoi occhi il padre e la madre, i fratelli, i compaesani: tutti quelli che 
avevano rinunciato a poco o a molto per farlo studiare, per la gioia di vederlo cantare al San 
Carlo. E ora che ci era arrivato, aveva buttato tutto via.
Ma, sapeva bene anche questo, non avrebbe potuto fare altrimenti. Si era comportato come
      doveva, com'era giusto. Perciò si sentiva sereno mentre fissava lo sguardo in quello verde e 
limpido del commissario, sbattendo le palpebre per la luce forte del mattino che entrava dalla 
finestra. Pensava che lo sbirro, nonostante il lavoro infame che faceva e la situazione in cui si 
trovava lui, fosse una persona onesta, da rispettare: anzitutto ti guardava in faccia, negli occhi, 
e non era frequente incontrare persone che lo facessero. Poi, gli pareva che avesse sofferto, 
come lui. Infine lo aveva richiamato: invece di accontentarsi della confessione, voleva andare a 
fondo, capire. E questo significava che era intelligente. Uno sbirro intelligente e onesto: cosa 
rara e pericolosa.
Ricciardi lo guardava, in silenzio. Con un cenno aveva fatto uscire la guardia che lo aveva 
accompagnato ed era rimasto seduto con le mani intrecciate davanti alla bocca, i gomiti 
appoggiati sulla scrivania. Nespoli sosteneva lo sguardo, in piedi con le mani incatenate 
davanti. Dopo un lungo minuto, Ricciardi parlò.
«Nespoli, io so tutto. Ho capito. E l'ho capito ieri sera. Io non lo so se voi vi rendete conto di 
quello che state facendo, di quello a cui andate incontro. Andrete in galera per trent'anni, 
uscirete vecchio, se pure uscirete. Uno come voi non può passare trent'anni in mezzo ai 
delinquenti».
Nespoli lo guardava fisso, senza emettere un sospiro.
«Non l'avete ucciso voi. Io lo so. E so anche chi l'ha ucciso».
Il cantante sbatté le palpebre, ma non disse una parola.
«Pensate a chi vi vuole bene: avrete una mamma, dei fratelli. Non posso credere che non 
abbiate un motivo, uno solo per voler vivere, per essere libero. Fosse anche soltanto per 
cantare. Siete bravo, vi ho sentito ieri».
Nespoli non mosse un muscolo. Una lacrima uscì dall'occhio destro e cominciò a scendere 
lungo la guancia. Sembrò non accorgersene.
«Così forte è la vostra relazione con questa donna? Che cosa ha fatto lei per voi, da meritare 
questo sacrificio, perché voi le regaliate la vostra vita?»
L'uomo in catene continuava a guardare fieramente negli occhi Ricciardi che si era piegato 
in avanti nella foga del discorso.
«Se non mi aiutate, come posso aiutarvi? Non posso più lavorare al caso, se non ritrattate la 
confessione. Lasciatemi almeno tentare. Non permettete che sia stato io a mandare un 
innocente in galera! Vi prego. Ritrattate».
Nespoli abbozzò un sorriso triste e non disse niente. Dopo un altro lungo minuto, Ricciardi 
sospirò profondamente.
«Come volete. Immaginavo che vi sareste comportato così». Chiamò la guardia e disse: 
«Portatelo via».
Nell'uscire, Nespoli si fermò sulla soglia, si girò e disse piano: «Vi ringrazio, commissario. 
Se avete amato mai, mi capirete».
Ti capisco, pensò Ricciardi.
Dopo qualche minuto, Ponte bussò alla porta. «Commissario, scusatemi. Il vicequestore vi 
vorrebbe parlare nel suo ufficio».
Sospirando stancamente, Ricciardi si alzò e andò nell'ampia stanza in fondo al corridoio. 
Già prima di arrivare alla porta socchiusa percepì un acuto profumo selvatico di spezie, ormai 
gli era noto. Garzo era in compagnia.
«Ah, caro Ricciardi! Entrate, prego. Accomodatevi pure. Conoscete già la signora Vezzi, 
vero?»
Seduta di fronte al vicequestore c'era Livia: le gambe accavallate, come sempre fasciata da 
un sobrio e tuttavia sensuale abito nero. La veletta era alzata sul cappellino; stava fumando. 
Gli splendidi occhi neri guardavano fissi Ricciardi e la bocca accennava a un sorriso. Sembrava 
una pantera, pronta ad addormentarsi o ad assalire la preda, indifferentemente.
«La signora Vezzi ha appreso dal giornale la bella notizia dell'arresto dell'assassino», disse 
Garzo, «ed è venuta a congratularsi. Ha detto che esprimerà la sua soddisfazione negli
      ambienti delle più alte autorità di Roma, cui lei ha accesso. Perfino alla persona del nostro 
amato Duce, del quale e della moglie lei stessa è amica. Ha voluto vedervi, per congratularsi 
con voi».
Ricciardi era rimasto in piedi e guardava Livia negli occhi. Continuando a fissarla si rivolse 
a Garzo.
«La signora Vezzi attribuisce al nostro operato eccessiva importanza. Avremmo dovuto 
indagare ancora più a fondo, in verità. Forse siamo stati solo... fortunati, imbattendoci in una 
confessione».
Garzo assunse un tono preoccupato, lanciando un'occhiataccia a Ricciardi che tuttavia andò 
perduta, poiché il commissario guardava ancora la vedova.
«Ma che dite? Il nostro Ricciardi è come al solito troppo modesto. In realtà il nostro arresto 
è stato frutto di indagini accuratissime e, come dice il giornale, infaticabili. Io stesso, e la 
signora avrà la bontà di tenerlo bene a mente per poterlo riferire, ho dato frequenti 
indicazioni operative al commissario e, sulla base di queste indicazioni, siamo arrivati a 
incastrare il colpevole; il quale ha confessato solo quando si è visto mettere spalle al muro 
dalle prove inconfutabili che abbiamo raccolto. Non è così, Ricciardi?»
Il tono di Garzo ora era decisamente minaccioso. Livia continuava a sorridere, fumando e 
guardando Ricciardi.
«Non ho dubbi che il vostro lavoro... di squadra, si dice così, abbia prodotto il risultato. Ma 
io stessa  ho avuto  modo  di osservare  direttamente  il  commissario  Ricciardi  e posso 
testimoniare che nulla lo distrae dal suo lavoro. È un uomo di prim'ordine».
Garzo non era disposto a essere accantonato e cercò come sempre di cavalcare l'onda.
«Infatti, è uno dei nostri uomini migliori. Questo successo, come notavate voi, signora, un 
successo di squadra, è dovuto soprattutto all'abilità di scegliere le persone giuste da inserire 
nei posti giusti. Non è così, Ricciardi?»
Il commissario non aveva smesso di guardare Livia, che a sua volta non aveva smesso di 
guardarlo e di sorridere. Chiamato ancora una volta in causa non poté fare a meno di 
rispondere.
«Il dottor Garzo dice bene. Qualsiasi cosa abbia detto, dica o dirà. Per quanto mi riguarda, la 
signora sa che io faccio quello che devo fare. Almeno, ci provo. Ora posso andare?»
Livia annuì, senza smettere di sorridere. Garzo ringhiò: «Sì, Ricciardi, andate. E ricordate 
quello che ci siamo detti prima».
Ricciardi chinò brevemente il capo in segno di saluto e uscì.
      31
Dopo due ore circa bussò alla porta di Ricciardi il figlio di Maione, un ragazzo di sedici anni 
che il commissario aveva visto col padre alcune volte.
«Buongiorno, commissario. Ha detto papà se lo potete raggiungere al Caffè Gambrinus, a 
piazza Plebiscito. Dice che vi deve parlare».
«Ti ringrazio. Ci vado subito».
Maione in borghese aveva l'aspetto di un poliziotto più ancora di quand'era in divisa. 
Ricciardi non avrebbe saputo dire perché: forse il modo di portare il cappello, o l'andatura 
rigida. Fatto sta che non si poteva sbagliare: era un poliziotto. Lo aspettava al solito tavolino, 
quello al quale Ricciardi si sedeva per mangiare una sfogliatella a ora di pranzo. Quando il 
commissario arrivò, fece per alzarsi; quello lo fermò con un gesto e si sedette a sua volta.
«Vi ho ordinato un caffè e una sfogliatella».
«Grazie. Guarda che offro io, la gratifica non l'hai presa ancora. È cresciuto, tuo figlio: 
complimenti. Assomiglia a... alla mamma».
«A Luca assomiglia, commissa'. Lo potete dire, secondo voi non lo vedo con gli occhi miei? È 
tale e quale. L'altro giorno ha detto che vuole fare pure lui il poliziotto. La mamma è scappata 
in camera, piangendo. Io gli ho dovuto dare uno schiaffone. Gli ho strillato: `Non lo dire mai 
più!'. Questo è un mestiere infame. Meglio il delinquente».
«Non dire sciocchezze: non le pensi queste cose. Il ragazzo deve fare quello che vuole. Poi, 
con l'esempio di questo mulo di padre che ha, è naturale che vuole fare il poliziotto«.
«E magari il commissario, senza offesa».
«Senza offesa. Allora, che hai combinato?«
«Ho visto Bambinella, sono andato fin dove abita, a San Nicola da Tolentino. Lo dovevate 
vedere, teneva una vestaglia da donna, i capelli tirati su con una molletta. Abituato a vederlo 
truccato,  non  lo  avevo  neanche  riconosciuto.  `Brigadie',  che  piacere!  Vi  siete  deciso, 
finalmente?', un altro poco lo pigliavo a calci! Proprio a me! Comunque, mi ha fatto 
accomodare nel basso dove abita e mi ha pure offerto un surrogato. Io gli ho spiegato quello 
che ci serviva e lui già sapeva tutto. Pare che l'amica nostra sia abbastanza famosa nei 
quartieri. Per la verità, Bambinella mi ha chiesto subito a che mi serviva l'informazione; io gli 
ho detto che mi serviva innanzi tutto a non mandarlo in galera per offesa al pudore e lui ha 
detto: `Va bene, ho capito, a vostra disposizione brigadie'. E ha parlato».
Ricciardi sorrise brevemente, mangiando un pezzo di sfogliatella.
«E perché la signorina è abbastanza famosa?»
«Perché è bella, innanzi tutto. Poi, perché sa leggere e scrivere e insegna ai bambini che non 
vanno a scuola, cioè la maggior parte. Poi, e qua la cosa si fa interessante, perché per qualche 
mese ha abitato insieme a uno, Bambinella non sa il nome, che chiamavano 'o Cantante. Infatti 
lei è anche nota come 'a 'nnammurata d'o Cantante, anche se non vivono più insieme».
«E da quando, non vivono più insieme?»
Maione consultò gli appunti su un foglietto che aveva tirato fuori dal cappotto.
«Più o meno da Natale, dice».
«Più o meno da Natale, certo. È naturale».
«Perché, naturale?»
«Perché a Natale è cominciato tutto. A Natale è cominciato Vezzi. E la signorina ha buttato 
'o Cantante fuori di casa, con qualche scusa. E indovina chi è, 'o Cantante?»
«Commissa', 'o Cantante è Nespoli. E chi, se no?»
Ricciardi si passò due dita sulle labbra, per togliere lo zucchero, e annuì.
«Bravo, Nespoli. Ed ecco ricostruito il passato misterioso, dov'era prima di occupare 
l'appartamentino attuale. Continua».
«Vive sola, adesso. Fa vita un poco ritirata, non dà tutta questa confidenza. Però la notizia ci 
sta ed è una notiziona: la signorina aspetta, commissa', è in stato interessante. Lo ha confidato
      alla sua portiera, perché qualche notte fa è stata male, ha vomitato e le solite cose. Ci 
credereste, commissa'? Bambinella quando me l'ha detto era verde dall'invidia!»
Ricciardi si era chinato in avanti, come faceva sempre quando la sua massima attenzione 
era catturata.
«Incinta, eh? Ecco qua: l'animale mansueto che diventa una belva. E l'hai chiesta quell'altra 
cosa che ti ho detto di chiedere?»
«Certo, commissa': avevate ragione come al solito». Maione fece un sorriso ammirato, 
scuotendo la testa. «La signorina scrive con la mano storta».
Il pomeriggio passò lento, col vento che continuava a scuotere la città.
Ricciardi  rimase  chiuso  nel  proprio  ufficio,  cercando  di  mandare  avanti  il  lavoro 
burocratico  trascurato  negli  ultimi  giorni;  ma  gli  riusciva  difficile  concentrarsi.  La 
concatenazione degli eventi era ormai completa, nella sua mente: ma il Fatto non era del tutto 
organico col quadro che si era andato costruendo. Vezzi cantava la romanza di Nespoli: 
perché, se il baritono, come Ricciardi credeva, non era stato l'esecutore dell'assassinio? E 
perché  piangeva?  Non era frequente, nell'esperienza  di Ricciardi:  la morte  violenta  e 
improvvisa non lasciava il tempo per la commozione. Le lacrime dovevano essere precedenti. 
E allora, perché Vezzi stava piangendo, quando era stato ucciso? Il commissario guardava 
l'orologio frequentemente: aveva un appuntamento con una persona che non sapeva di avere 
un appuntamento con lui e non poteva tardare.
Il vento soffiava ancora forte e muggiva sotto il portico del San Carlo. Fermo dietro l'angolo, 
col bavero rialzato e i capelli scompigliati, Ricciardi pensava a come doveva essere quel posto 
senza il sibilo insistente. In pratica, tutte le volte che c'era stato e cioè negli ultimi tre giorni, il 
vento non era mai calato. Lontano si sentiva addirittura il fragore del mare, quando non 
passavano le rare automobili e i tram sferraglianti.
Non aspettava da molto, quando dal portone dei giardini uscì la persona che attendeva, 
insieme ad altre due donne che Ricciardi riconobbe: Maria e Addolorata. Guardò la minuta 
sagoma della giovane donna con cui voleva parlare. Che errore di valutazione, quando l'aveva 
vista per la prima volta: insignificante, in difficoltà sotto il peso della gruccia col costume da 
pagliaccio. Lo sguardo a terra, le spalle piegate. La donna che aveva fermato il cuore di Vezzi e 
rubato quello di Nespoli; un cui capello biondo, lungo, era sulla veste da camera della 
pensione del Vomero; che aveva vissuto col povero baritono cacciandolo di casa a Natale, 
quando aveva iniziato la relazione col ricco tenore: Maddalena Esposito a servirvi, commissa'.
La donna lo vide e si fermò. Forse, per un attimo, pensò anche di fuggire. Poi salutò in fretta 
le colleghe e gli andò incontro. Giunta davanti a lui lo fissò negli occhi: quelli della donna 
erano azzurri, forti e limpidi. Era molto bella, Ricciardi se ne accorse solo in quel momento; e 
non poteva essere altrimenti, giacché, pensò, non si mostrava sempre. Solo quando e se le 
conveniva.
«Buonasera, commissa'. Che sorpresa, trovarvi qua». 
«Buonasera a voi, signorina. Facciamo due passi?»
La donna sembrava incuriosita.
«Siete qua in forma ufficiale, o no?»
«Dipende: dipende da voi. Direi di no».
Maddalena annuì, poi girandosi verso la piazza cominciò a camminare.
Percorsero in silenzio un centinaio di metri. Ricciardi sapeva che sarebbe toccato a lui 
scoprire per primo le carte: altrimenti la donna si sarebbe nascosta dietro la confessione di 
Nespoli. Né aveva intenzione di sottovalutare l'intelligenza di Maddalena; era riuscita a 
dissimulare il ruolo che, fin dall'inizio, aveva avuto nella vicenda.
«Posso offrirvi un caffè? Con questo vento è difficile par-lare».
Maddalena gli lanciò un rapido sguardo e assentì. Portava un fazzoletto scuro sopra i 
capelli e una sciarpa ruvida a coprirle il collo e la bocca; addosso, un soprabito nero liso,
      rivoltato con le sue abili mani da sarta. Trovarono all'interno della Galleria Umberto un caffè 
aperto e sedettero a un tavolino in disparte.
La donna tolse il soprabito e il fazzoletto e li piegò ordinatamente sulle proprie gambe. 
Ricciardi la guardò, a lungo. Aveva mani sottili e delicate, come i tratti del viso; i capelli, tirati 
su e legati, avevano un naturale color oro come le sopracciglia e la pelle era bruna, con un 
insolito e piacevole contrasto. Quello che sorprendeva tuttavia erano gli occhi: di un profondo 
azzurro, con pagliuzze gialle, ricordavano quelli di un gatto. Vedendoli, il commissario 
comprese perché la donna li tenesse sempre bassi ed evitasse accuratamente di fissarli in viso 
a chi la guardava: non avrebbe mai potuto passare inosservata.
«Potrei fingere e dirvi che Nespoli ha fatto il vostro nome. O potrei interrogarvi tanto da 
indurvi a confessare: non penso che possiate permettervi un avvocato tanto bravo da 
difendervi contro le accuse del tribunale. Ma io ho guardato negli occhi del vostro uomo e 
voglio rispettare la sua volontà. So quello che è successo, mi è chiaro; non posso permettere 
che per questa menzogna quel ragazzo vada in galera e ci resti trent'anni, per qualcosa che 
non ha fatto, o che non ha fatto da solo. Allora, voglio capire. Mi dovete spiegare».
Fissava i propri occhi verdi, vitrei, in quelli azzurri e limpidi della ragazza: due coscienze, 
due intelligenze a confronto. Senza finzioni, senza coperture.
La donna si posò una mano sul ventre, lieve.
«Voi sapete..».
Un'affermazione, non una domanda. Lui assentì.
«Mi chiamo Esposito perché mi hanno abbandonata quando sono nata. Lo sapete che quasi 
tutti i bambini abbandonati muoiono? Campano solo quelli forti, commissa'. Quelli forti assai. 
Io ho avuto malattie, fame: mi hanno dato per morta forse dieci volte: e nessuno se ne sarebbe 
dispiaciuto più di tanto. E invece ho campato: con le unghie e coi denti. Faceva meraviglia a 
tutti, questo ragnetto di bambina così attaccata alla vita. Poi, siccome volevo campare, 
imparavo. A leggere e scrivere: mi mettevo vicino alla monaca che faceva i conti, non mi 
parlava  neanche,  ma  io  guardavo.  A  cucire,  vicino  all'altra  monaca  che  aggiustava  e 
riaggiustava sempre le stesse vestine; e poi l'aiutavo, mentre le altre giocavano o morivano di 
malattie. E la fame: io non ve lo voglio neanche dire, quello che mi sono mangiata quando ero 
piccola per campare. Le cose più terribili».
Ricciardi la guardava e rifletteva. La vecchia nemica, eccola qua: la fame.
«Ma le altre morivano, pure quelle che sembravano forti. Il vaiolo, il colera. Il tifo, la 
difterite. Quante ne volete di malattie, commissa'? Meglio di un dottore, ve le posso 
raccontare. E poi una mattina mi sono sentita pronta e me ne sono andata. Senza ringraziare, 
senza portarmi via niente. E che mi sarei dovuta portare? Niente, tenevo. E per che cosa avrei 
dovuto ringraziare? Niente, mi avevano dato. Ho dormito per strada, ho mangiato coi cani, mi 
sono difesa. Nemmeno al bordello mi hanno voluta: ero troppo secca, tenevo la faccia della 
fame. Però qualcosa la sapevo fare: sapevo tagliare e cucire. Con la mano storta».
Alzò la sinistra davanti alla faccia, guardandola come se fosse un trofeo, una medaglia. 
Ricciardi sentì un lontano tremito al cuore, pensando a una piccola mano che ricamava.
«Ho lavorato da un sarto, un vecchio caprone che si approfittava di me. Io lo lasciavo fare, 
dovevo mangiare. Aspettavo che finisse. Dormivo nel portone del negozio. Poi, un giorno, nella 
bottega è entrata la signora Lilla: le serviva un taglio di un colore che aveva visto in vetrina. Le 
è bastato un momento, uno sguardo. Tiene la vista lunga, la signora Lilla. Ha capito che ero 
brava, che lavoravo tanto e che quello era un porco. Mi ha chiamato di lato. Il giorno dopo 
lavoravo al San Carlo».
Lo aveva detto come se fosse andata in Paradiso. Suo malgrado, Ricciardi vedeva le 
immagini della vita della donna e ne provava pena. Ma nella sua mente la figura di Vezzi 
cantava e piangeva sugli anni che ancora aveva da vivere e che non avrebbe vissuto.
«C'era la luce, il calore, anche la musica. Io la musica non l'avevo sentita mai, commissa'. 
Qualche pianino, la radio dai balconi aperti d'estate. Ma quella musica là, mai. Ti piglia l'anima,
      ti fa sentire viva. Poi ridevano, ballavano. E mi pagavano pure, per vivere in mezzo a quella 
festa! A me, che fino al giorno prima mi litigavo la spazzatura coi topi e i cani! Non me ne sarei 
andata mai, lavoravo fino a tardi, ero la prima ad arrivare la mattina. La signora Lilla parlò con 
un amico suo che porta la carrozza, questo teneva una stanza sfitta sopra i quartieri, ricavata 
da una soffitta. Una casa! Mi sentivo una contessa».
La donna aveva gli occhi sognanti, come se stesse raccontando una favola. Davanti a lei la 
tazza di caffè fumava; non ne aveva bevuto neppure un sorso.
«Così è andata avanti la vita per due anni. Sono diventata brava, commissa': la più brava. 
Ma non volevo rovinare tutto mettendomi in mostra, andava bene così. Aiuto le altre, quando 
non sanno fare qualcosa; i lavori più complicati me li piglio io e così mi vogliono tutti bene. 
Faccio in modo che nessuno si accorga di me, perché io lo so, l'ho imparato bene in tutta la vita 
mia, che se si accorgono di te qualcosa di brutto prima o poi te la fanno. E infatti».
Nei meravigliosi occhi azzurri incantati passò un'ombra, come un nuvolone improvviso nel 
cielo. Maddalena sospirò e andò avanti.
«Trovai Michele una sera che tornavo dal lavoro tardissimo: l'indomani c'era La Traviata, i 
costumi della festa sono difficili. Era a terra, dentro il portone, un altro poco ci camminavo 
sopra. Pareva morto. Che dovevo fare? Ci stavo morendo pure io, di fame, stesa in tanti 
portoni. Me ne potevo fottere, lo lasciavo morire per non passare un guaio? No. E chi avrebbe 
dormito più? Allora l'ho aiutato. Me lo sono portato sopra. In altri quartieri, in altre case non 
me lo avrebbero fatto fare. Ma qua, in questa città, senza offesa commissa', i malamente sono 
spesso meglio degli sbirri. La gente povera, che scappa, che ha fame, si aiuta: campiamo così, 
stretti uno vicino all'altro. Perché lo sappiamo, commissa', che se non ci aiutiamo tra di noi 
non ci aiuta nessuno. E allora, se Michele è vivo, è vivo per me. E per i vicini del palazzo, per 
quelli del vicolo. Per il quartiere. E lui lo sa, lo sa bene. È quello, che gli avete visto negli occhi».
Ricciardi conosceva sin troppo bene gli equilibri della città. Era dolorosamente consapevole 
di quello che la donna stava dicendo e dell'impossibilità di cambiare lo stato delle cose.
«Tutto è stato naturale. Michele è bello, dolce e buono. Ha sofferto pure lui assai e soffre 
ancora. Si è ripreso, è rimasto con me. Gli voglio bene, lui vuole bene a me e per tutti e due è la 
prima volta. Io ho parlato con la signora Lilla, che ha parlato con Lasio, il direttore di scena, 
che ha parlato col direttore dell'orchestra, il maestro Pelosi. Nessuno sapeva di noi due, io ho 
detto che una mia amica lo aveva sentito cantare in una trattoria. L'hanno preso subito, 
appena l'hanno sentito: una voce d'angelo».
Si sentiva l'orgoglio, nel tono di Maddalena: Ricciardi cercava di capire il sentimento che la 
donna provava per Nespoli. Gli era legata, certo: ma non vibrava.
«Non lo avrebbero preso, se sapevano che viveva con una senza essere sposato. L'ambiente 
è un po' così, commissa'. Quindi, si è trovato un posto per conto suo».
«E se l'è trovato, guarda caso, proprio quando voi avete incontrato per la prima volta 
Vezzi».
La donna accusò il colpo; abbassò per un attimo gli occhi, poi li rialzò e fissò il commissario 
con sguardo di sfida.
«Sì: quando ho incontrato Arnaldo Vezzi. Il padre di mio figlio».
Una folata di vento attraversò la Galleria, scuotendo la vetrata del caffè: come a voler 
sottolineare, in modo drammatico, le parole della donna.
«E ne siete sicura?»
Maddalena fece un sorriso triste.
«A una come me si deve chiedere, eh? Una come me, il figlio può averlo da chiunque. Dal 
primo che capita. La vostra fidanzata, no, vero? Alla vostra fidanzata, una domanda come 
questa voi non la fareste».
Adesso il sorriso triste lo fece Ricciardi.
«No, non la farei. Né questa, né altre domande. Perdonatemi. Andate avanti».
«La signora Lilla quel giorno aveva mal di schiena. In realtà non era vero, con Vezzi non civoleva avere a che fare. Nessuno ci voleva avere a che fare. La volta che era venuto a Napoli, 
due anni fa mi pare, aveva fatto cacciare due persone, diceva che erano incapaci. Lui era così. 
Esisteva solo lui. Andavano prese le misure per i costumi dei Pagliacci, si dovevano preparare 
per adesso. Facciamo sempre così, due o tre mesi prima: a Natale Vezzi, poi a gennaio sono 
venuti gli altri della compagnia. Comunque lui era assai pignolo, voleva vedere tutto, 
allestimento, mobili, tutto. E soprattutto i costumi suoi.
«Io stavo parlando con Michele, quando arrivò. Fuori l'ingresso del teatro, me lo ricordo 
come fosse adesso. Non lo avevo mai visto, scese dalla macchina con altri due, alto, grande, col 
cappello e la sciarpa. Non era bello, ma era ricco. Si vedeva, commissa': uno ricco, non di soldi, 
non solo, ma di potere. Uno che poteva fare tutto quello che voleva. Tutto. In ogni momento. Ci 
guardò, entrando; a me e a Michele. A me. E sorrise, un sorriso di animale feroce. Io lo 
conosco, quel sorriso, commissa': prima di mettermi le mani addosso, gli uomini fanno quel 
sorriso. Quando capiscono che una non può scappare più da nessuna parte».
«E Nespoli, non vi guardava così?»
«No. Michele, no. Michele mi tratta come se fossi una principessa. Per lui sono una 
principessa. Lo sono sempre stata. E fu Michele che mi disse che quello era Vezzi. Gli tremava 
la voce per l'emozione. Mi disse: `Ma lo sai chi è quello? Quello è Vezzi, il dio dei tenori'. 
Proprio così: il dio dei tenori. E da dio si comportava, commissa'. Se voleva una cosa, se la 
pigliava e poi, quando non la voleva più, la buttava. E se una cosa non la doveva togliere a 
qualcun altro, non gli interessava».
«E a voi, vi aveva vista con Nespoli».
«Sì, mi aveva vista con Michele. E me lo disse poi, che aveva visto come ci guardavamo, 
come lui guardava me, precisamente. Mi disse che `il ragazzo aveva lo sguardo bruciante: 
pareva che ti voleva mangiare'. E lui, il dio, non poteva ammettere che in sua presenza un 
uomo guardasse così una donna, perché lui doveva essere l'unico. Così fanno i cani randagi, io 
ci ho avuto a che fare per strada. Lui così era. Peggio di un cane. I cani non ridono».
«E poi, che successe?»
«Successe che la signora Lilla mandò me a prendere la misura di Vezzi in camerino. `Vacci 
tu, Maddalena', disse, `io, come sto oggi, mi faccio cacciare dal teatro, con questo pazzo 
maleducato.' E invece, con me fu gentilissimo. Non si prese libertà, non allungò le mani. Parlò, 
parlò assai. Mi disse che era solo e triste. Che con la moglie non ci parlava nemmeno più, da 
anni. Che, con tutta la gente che teneva intorno, non c'era una sola persona che gli volesse 
bene davvero. Che, se aveva ancora la fortuna di avere una donna vera vicino, non la lasciava 
più. Che voleva un figlio».
Inaspettatamente, Maddalena fece una risata. Una risata cupa, col pianto dentro. Ricciardi 
guardò fuori dalla vetrata.
«Voleva un figlio: il suo, disse, lo aveva perso perché la moglie non se ne curava, non si era 
accorta in tempo della febbre alta. Era bravo, commissa'. Quanto era bravo a recitare. Magari, 
a forza di cantare in teatro, pensava che la vita era tutta una recita. Come un gioco. E io, la 
furba Maddalena, quella che era sopravvissuta alla fame, alla sete e alle malattie, che aveva 
lottato coi cani, coi topi e con gli uomini, ci sono cascata. Il giorno dopo ho mandato a dire che 
non stavo bene, ho detto a Michele che facevo visita a una vecchia monaca che stava male e ho 
passato la giornata al Vomero, con lui. E pure il giorno dopo. Ci eravamo dimenticati del 
mondo, in quella stanza del Vomero».
«La Pensione Belvedere».
Maddalena gli fece un sorriso stanco.
«Sapete pure questo. Siete entrato nella stanza, l'avete vista? Allora avete visto pure dove 
sono stata felice, l'unico posto della mia vita dove sono stata veramente felice. Mi chiamava la 
sua fata bionda, mi accarezzava gli occhi e i capelli. Mi diceva che avevo finito di soffrire, che 
avrebbe lasciato la moglie e tutto il mondo per stare con me. Che me lo regalava, il mondo».
«E voi ci avete creduto».
      «E io ci ho creduto. Perché ci volevo credere. Perché queste cose succedono, anche nella 
vita. Una compagna mia si è sposata con un commerciante di ferramenta; stava sopra un 
bordello alla Sanità e adesso fa la signora e se ci vede per strada fa finta di non conoscerci. 
Non poteva capitare pure a me».
«E a Nespoli, non ci avete pensato?»
Maddalena ebbe un'espressione di dolore, come se avesse avuto una fitta.
«Michele... due poveri cristi, io e Michele. Che futuro potevamo avere? Se pure lui avesse 
avuto successo, dove andava con una come me appresso? Che futuro c'era per noi? E 
comunque io non ero sua. Ero diventata di Arnaldo, nel momento stesso che mi aveva 
guardata. Quando partì, mi disse che metteva a posto i fatti suoi e mi tornava a prendere. Di 
non dire niente a nessuno, nel frattempo, che altrimenti la moglie, che conosceva gente 
importante, si sarebbe mossa per impedirci di andare a stare insieme. Di stare attenta e di 
pazientare. E io ho pazientato. Gli ho creduto. Ho pensato che era un uomo duro perché era 
solo e che con me sarebbe diventato l'uomo più dolce del mondo. E l'ho visto partire e sono 
tornata alla mia vita di sempre. Che non mi bastava più, però».
«Nespoli compreso».
«Compreso Michele, sì. Mi sembrava tutto... poco, tutto vuoto. Anche le cose che mi 
sembravano il paradiso, prima. Pensavo a gioielli, a pellicce. Ma più di tutto, pensavo ad 
Arnaldo, un principe che mi faceva sentire regina. E Michele, Michele mi voleva sposare. Io 
non mi sentivo di dire che non era possibile, mi faceva paura. Michele è uno pericoloso: ha un 
carattere particolare, diventa violento. Gli ho detto che era meglio aspettare che lui avesse 
successo».
«E poi, avete scoperto..».
«Sì, un mese dopo. Sono stata felice, commissa'! Ho pensato che avrei ridato ad Arnaldo il 
figlio che aveva perso, che gli avrei regalato una famiglia e la felicità. Non l'ho cercato, non gli 
ho scritto. Sapevo che doveva venire, che la rappresentazione era per questi giorni, e ho 
aspettato. Ho aspettato per dirglielo io, volevo vedere l'espressione della sua faccia. Per niente 
al mondo, me la sarei persa».
«Lo avete cercato subito, quando è venuto?»
«Sì, certo. Gli sono andata vicino appena è arrivato al teatro, il secondo giorno che era qua, 
per preparare la prova generale. Mi ha detto che dovevamo stare attenti, che il segretario lo 
sorvegliava e portava spia alla moglie, che ci saremmo visti l'indomani, il giorno della prova, 
alla Pensione Belvedere. Io gli ho detto quale tram doveva prendere, se arrivava con la 
carrozzella o col tassì se ne accorgevano tutti. E ci siamo visti là».
«Glielo avete detto allora?»
«No. Era stanco, nervoso. Mi dispiaceva di dirglielo quando stava così. Era una cosa così 
bella, così importante che non la volevo buttare via. Si addormentò e quando si svegliò era 
così tardi che un altro po' perdeva la prova generale. Lo salutai e gli dissi che lo amavo. Poi, 
separatamente, andammo a teatro».
Ricciardi si piegò in avanti, consapevole del fatto che erano arrivati al punto.
«E così, arriviamo alla sera del venticinque».
Maddalena  rabbrividì  visibilmente  e  si  guardò  attorno.  Poi,  guardò  fisso  Ricciardi, 
toccandosi di nuovo il ventre.
«Devo sapere che volete fare, commissario: io non devo pensare solo per me. Non lo faccio 
nascere in galera, mio figlio: lo sapete, come succede. Lo danno all'istituto e se campa, campa 
come ho campato io. Io, a mio figlio, la vita mia non gliela faccio fare. Allora?»
Ricciardi sapeva che Maddalena aveva ragione e sapeva anche che suo figlio era innocente. 
Però pensava a Nespoli e alla lacrima che gli aveva solcato la guancia, quella mattina. E alle 
lacrime di Vezzi. Poteva, lui, concedere il perdono per loro conto?
«Anch'io non voglio far nascere un bambino in galera. Questo ve lo posso dire. Ma non 
voglio lasciare in galera per trent'anni un innocente, che ha la sola colpa di amare una donna.
      Che si è servita di lui».
Maddalena arrossì.
«Io volevo solo proteggere mio figlio. Gli volevo, gli voglio dare una vita migliore».
Ricciardi non aveva distolto un attimo i suoi occhi da quelli della donna.
«Continuate».
Ci fu un attimo di silenzio. La donna sapeva che il commissario non avrebbe mollato la 
presa, finché non avesse saputo la verità. Poteva solo dirgli com'era andata e sperare nel 
barlume di umanità che scorgeva in fondo a quegli occhi verdi, che sembravano di vetro. 
Ritornò con la mente a tre giorni prima, rivisse per la centesima volta il suo dolore.
«Sono andata direttamente nel suo camerino. Lui si era già truccato: com'era strano con la 
faccia del pagliaccio. Non che non mi piacesse. Mi piaceva sempre.
«Mi ha sorriso, nervoso. Sembrava distante. Ho pensato che fosse per l'opera. Il grande 
cantante è grande perché è sempre teso, prima di misurarsi di nuovo col proprio talento. L'ho 
guardato, gli ho sorriso. Gliel'ho detto. Così, semplicemente: avremmo avuto un bambino. Mi 
ha guardato, col piumino della cipria in mano: sembrava non aver capito. Poi ha corrugato la 
fronte e mi ha chiesto perché non ero stata attenta. Io non capivo: non era la cosa più bella del 
mondo? Non era felice anche lui, come ero felice io? Lui disse che non c'era niente di cui 
preoccuparsi, mi avrebbe dato i soldi. Non capivo, di che stava parlando? Di ammazzare il 
nostro bambino? Non aveva già perduto il suo?
«Mi artigliò il braccio, mi fece male. Gridò che non dovevo permettermi di parlare di suo 
figlio. Io gli ricordai le sue promesse, era stato lui a dirmi che saremmo stati insieme, per 
sempre.
«Lui allora mi ha lasciato il braccio, ha fatto un passo indietro e ha cominciato a ridere. 
Prima, piano. Una risatina, come quando si pensa a qualcosa di comico. Poi sempre più forte: 
una risata sguaiata, volgare. Ansimava, dicendo `Io e te, insieme... uno come me, con una come 
te... vi presento la mia nuova moglie, Madama Filo e Cotone... mio figlio, il figlio della sarta...' e 
rideva, rideva; si era piegato in due..».
...piegato in due, sulle ginocchia...
«...sembrava impazzito; teneva la mano avanti, come se mi volesse allontanare perché lo 
stavo facendo ridere..»
 ...la mano in avanti, come ad allontanare...
«...e intanto rideva, rideva: talmente, rideva, che cominciarono a lacrimargli gli occhi. 
Piangeva, dal ridere!..». 
...le lacrime, che rigavano il volto...
«...non smetteva! E io sentivo cambiare quello che provavo per lui. Sentivo la sua falsità. 
Sentivo, fuori, sul palcoscenico, Michele che cantava: sentivo il suo amore e la risata del 
Pagliaccio, davanti a me. Sentivo il mio odio, che correva per le vene e mi infettava».
lo sangue voglio, all'ira m'abbandono, 
in odio tutto I 'amor mio finì...
«...e allora la mia mano ha stretto le forbici che portavo appese al collo, le mie forbici da 
sarta, ho dato un unico colpo, forte, alla gola. Non lo so, se lo volevo uccidere. Forse volevo 
solo che smettesse di ridere».
Un colpo con le forbici. Ecco cosa mancava, quando ti ho vista. E con la sinistra, perché sei 
mancina come la mia Enrica: quindi a destra, sul collo del Pagliaccio che ti stava di fronte. 
Nella carotide...
«Non rise più, infatti. Gorgogliava, con la mano alla gola, quella gola tanto preziosa. Io mi 
sono seduta sul divanetto, sotto il fiotto del sangue. Volevo vedere come muore un Pagliaccio».
II cuscino pulito, l'unico. Ci eri seduta sopra tu. A guardare il Pagliaccio che moriva.  Io 
sangue voglio...
«...poi, come in sogno, ho aperto la porta per andarmene. In quel momento, dal palcoscenico
      scendeva Michele. Io non lo so se Dio esiste, commissario. Ma certo è strano che proprio in 
quel momento, col viavai che c'è dai camerini durante la rappresentazione, proprio Michele, il 
mio Michele, fosse l'unico che mi poteva vedere. E mi ha visto, col camice inondato del sangue 
di Vezzi, le forbici in pugno col nastro strappato, gli occhi sbarrati. E mi ha spinto di nuovo 
dentro il camerino.
«Ha guardato, ha capito. Vezzi ormai non aveva più sangue, ma ancora rantolava. Allora 
Michele gli ha dato un pugno in faccia..».
Ematoma troppo piccolo per una frattura, aveva detto il dottore; la vittima non aveva più 
sangue...
«...e mi ha detto di togliere il camice imbrattato. Poi ha avvolto le forbici nel camice, ha 
rotto lo specchio e ha sistemato Vezzi sulla sedia. Ha preso la scheggia più appuntita e l'ha 
infilata nella ferita sul collo, fino in fondo, tenendola col camice sporco. Io lo guardavo, come 
se fossi a una finestra. Poi mi ha detto di aspettare lì, chiudendo a chiave la porta.
«Ha preso dall'armadietto il cappotto, la sciarpa e il cappello di Vezzi e se li è messi. E ha 
preso il camice e le forbici, le ha messe sotto il cappotto. Ed è saltato giù dalla finestra».
Per far sparire ogni tua traccia dalla scena del delitto. Perché nessuno pensasse che potevi 
essere stata tu...
«Io ho aspettato col morto. Mi sembrava di sognare. Dopo un minuto, o forse un anno, ho 
sentito la voce bassa di Michele fuori la porta. Gli ho aperto, per farlo entrare».
Dopo che aveva incontrato don Pierino sulle scale, che lo aveva scambiato per Vezzi...
«Lui mi ha detto che aveva bisogno di cambiarsi le scarpe, che erano sporche di fango; 
altrimenti avrebbe lasciato le tracce sulla scena, dove tra poco doveva rientrare. Allora io mi 
sono svegliata: ho capito che dovevo fare presto, che potevo salvare mio figlio dalla rovina. 
Stavolta lui mi ha aspettato in camerino e io sono andata al quarto piano. Ho detto che ero 
venuta direttamente dal convento della suora malata e ho chiesto a Maria di prestarmi il suo 
camice».
Di una misura troppo grande, me lo ricordo...
«Ho preso le scarpe e le ho portate giù. A noi sarte, nessuno ci nota quando andiamo avanti 
e indietro. Le tenevo sotto il camice, che era grande per me. Michele si è messo quelle pulite e 
mi ha dato le sporche e io sono tornata su a metterle a posto. Ci ha pensato lui, alle chiavi».
La porta chiusa, forzata da Lasio a calci...
«Poi, ho preso il costume e ho detto alla signora Lilla che era pronto. Avevo finito. Avevo 
fatto l'ultimo aggiusto, l'ultimo taglio».
L'ultimo taglio.
      32
II vento correva per la Galleria, incessante. Adesso che Maddalena taceva, sembrava ancora 
più forte. Il tempo pareva essersi fermato. La donna guardava nel vuoto e vedeva i suoi 
fantasmi; a mantenerla legata al presente, la mano posata sul ventre.
Ricciardi si mosse sulla sedia e attirò la sua attenzione.
«Signorina, ascoltatemi bene. Il vostro destino, quello di Nespoli e soprattutto quello di 
vostro figlio sono legati per sempre. Non potete pensare di costruire la vita del bambino sulla 
menzogna e sulla punizione di un innocente».
Maddalena continuava a guardare nel vuoto.
«Conosco un avvocato, che mi deve un favore. Penserà lui a difendere Nespoli. Che se 
mantiene l'attuale versione, non ha speranze. Se invece la cambiasse, una speranza ci 
sarebbe».
La donna si riscosse e guardò il commissario.
«Una speranza? Per Michele? E quale?»
«L'omicidio per fatto d'onore è punito col carcere, fino a un massimo di tre anni. Dovrete 
dire, ed è la mia condizione per lasciarvi libera, che Nespoli è intervenuto perché Vezzi ha 
tentato di usarvi violenza e voi avete chiamato aiuto».
«E io? Mio figlio?»
«A voi non succederà proprio nulla. Siete una vittima. L'occultamento di prove ricadrà su 
Nespoli e sulla sua stessa condanna. Dovrete dire che stavate per sposarvi e che lo avevate 
detto a Vezzi quando vi aveva fatto le prime proposte che voi avevate fermamente rifiutato. 
Che non avete detto tutto subito per paura, perché siete in stato interessante, e il figlio è di 
Michele».
Maddalena sussultò.
«Ma non è vero, io lo so!»
«Credetemi, il bambino avrà solo da guadagnarci. Del resto, non avete scelta. L'alternativa è 
il carcere».
La donna calò il capo, sotto il peso della situazione. Non aveva scelta.
«Capisco, commissa'. È giusto, così dev'essere. Aspetterò Michele. Ma crederanno, i giudici, 
a queste cose? Vezzi era uno importante e noi siamo povera gente. Che speranze abbiamo?»
Guardava Ricciardi. E all'improvviso dagli occhi azzurri e limpidi cominciarono a scendere 
grosse lacrime.
Mentre costeggiava Palazzo Reale, lottando contro il forte vento che gli ostacolava il 
cammino, Ricciardi pensava alla fame e all'amore. Stavolta i due vecchi nemici si erano uniti, 
per perpetrare il loro delitto. Aveva lasciato Maddalena, fragile e sola, col fazzoletto a coprire i 
capelli biondi e l'assicurazione che l'indomani si sarebbe presentata, alla fine del lavoro, allo 
studio dell'avvocato: ci avrebbe pensato lui a informarlo degli eventi. E non le sarebbe costato 
nulla. Poi aveva deciso che la lunga giornata non era ancora finita.
Il cielo spazzato dal vento era limpido: luna e stelle illuminavano la via deserta, mentre le 
luci sospese al centro della strada ondeggiavano impetuose. L'amore. Una malattia talvolta 
mortale, ma necessaria. Forse non si può vivere senza, pensava Ricciardi camminando 
controvento, con le mani nelle tasche del soprabito. Da vicoli oscuri occhi lo guardavano, lo 
riconoscevano e decidevano che non era la preda opportuna per l'ultimo borseggio della 
giornata. Adesso era all'angolo di via Partenope, a sinistra le alte ondate del mare che si 
infrangevano sulla scogliera. E a destra i grandi alberghi.
Nella cucina della sua abitazione, Enrica aveva finito di rigovernare con la solita meticolosa 
attenzione. Aveva controllato già diverse volte la finestra di fronte, con le tende chiuse. 
Stasera provava un'angoscia che le stringeva il cuore: non sapeva perché. Si sentiva sola,
      abbandonata. Dove sei, stasera, amore mio?
Livia osservava l'ira del mare dalla finestra del terzo piano dell'hotel Excelsior. Fumava e 
pensava. L'indomani avrebbe lasciato la città e avrebbe tentato di riprendere la propria vita; 
un'altra volta. Avrebbe trovato la forza? Guardò di sfuggita la valigia, già pronta. Cosa mi porto 
via, da qui? E cosa lascio in questa città, col mare che urla nel vento?
Il pensiero non andò ad Arnaldo, le sembrava di non averlo mai conosciuto. Rivide nel fumo 
due occhi verdi, febbrili. La fierezza, il disincanto di quegli occhi. La solitudine e il bisogno 
d'amore in fondo all'anima. E il dolore: quell'immenso dolore. Perché non mi hai consentito di 
mettere riparo a quel dolore? Aspirando l'ultima boccata di fumo, guardò di nuovo il mare 
impazzito. Nella spuma delle onde che arrivava sulla strada, vide una figura che camminava 
controvento. La riconobbe. E il cuore le saltò in gola.
All'accettazione dell'albergo il portiere non voleva avvertire la signora Vezzi. Quell'uomo 
spettinato e bagnato, con gli occhi verdi brucianti di febbre, gli faceva paura. Stava pensando 
di chiamare due fattorini per farsi aiutare a cacciarlo via, quando dall'ascensore uscì, trafelata, 
la signora. Livia aveva gli occhi illuminati, brillanti. Aveva gettato sulla veste da camera il 
soprabito, si era ravviata la folta, morbida chioma nera, aveva infilato le scarpe ed era scesa. Il 
cuore le martellava nelle orecchie, la bocca era asciutta. Era venuto da lei.
Enrica si era seduta in poltrona e aveva preso la scatola del ricamo. Un altro sguardo alla 
finestra. Niente. L'angoscia non le dava tregua. Aveva voglia di piangere.
Ricciardi guardava Livia, non era mai stata così bella. Lo sguardo luminoso, le labbra piene 
distese in un sorriso. Le disse che le doveva parlare. Era importante. Gli chiese dove voleva 
che parlassero; lui le rispose: «Camminiamo».
Fuori si ritrovarono in compagnia del vento e del mare. Le luci sospese al centro della 
strada dondolavano, illuminandone a tratti un lato o l'altro. Livia rabbrividì e si strinse al 
braccio di Ricciardi. Lui cominciò a parlare.
La verità non è quella che sembra, a volte. Anzi, non lo è quasi mai. È un po' come la strana 
luce di questi lampioni, vedi, Livia: illumina una volta qua, una volta là. Mai, tutto insieme. 
Allora ci si deve immaginare quello che non si vede. Lo si deve intuire da una parola detta o 
non detta, un'orma, un'impronta. Una nota, a volte.
Quelli che fanno il mio mestiere hanno un altro occhio: sono capaci di vedere qualcosa che 
gli altri non vedono. E così è andata stavolta, Livia. Non andava bene che uno come tuo marito 
fosse morto per un insulto, per una battuta. E infatti, non è morto per questo. Vuoi sapere, 
perché è morto tuo marito? È morto per la fame e per l'amore. Ecco, perché è morto. Adesso ti 
racconto.
Livia sentiva la voce di Ricciardi, in mezzo a quella del vento e quella del mare. Non sentiva 
più freddo. Percorreva strade oscure, mangiava immondizia nei portoni, in mezzo ai cani 
randagi e ai topi. Imparava a cucire da una suora vecchia. Voleva cantare, in un paese in 
montagna, in Calabria. Picchiava un vecchio professore di Conservatorio. Sentiva le mani di un 
maledetto caprone di sarto addosso. Si faceva incantare, un'altra volta, da un tenore famoso e 
ricco. Portava di nuovo un suo figlio in grembo, che era ancora vivo, e non ancora nato. E di 
nuovo, tutto quel sangue.
La voce di Ricciardi cullava Livia, che non si accorgeva nemmeno delle proprie lacrime, le 
scorrevano sul viso insieme agli spruzzi del mare portati dal vento. Camminava, aggrappata al 
braccio forte e addolorato, e dal bavero rialzato del cappotto le arrivava tutto l'amore della 
sofferenza altrui.
«Capisci, Livia? Se non ci sarà qualcuno, in tribunale, che dica chi era davvero Arnaldo 
Vezzi, sbatteranno questo ragazzo a Poggioreale e non lo faranno uscire più. E la ragazza
      rimarrà sola, perché in questa città una donna povera e disonorata non se la piglia più 
nessuno. E il bambino, sarà carne per la malavita, nella migliore delle ipotesi: se non sarà 
morto prima, sotto una carrozza o ammazzato dalle malattie».
Livia camminò ancora per qualche metro, poi disse al vento e al bavero del cappotto: «E io, 
che cosa dovrei fare? Lo capisci che io ora sono l'onorata vedova di un grande uomo? 
Diventerei una vile ingrata che sputa su uno che non può più difendersi».
«Pensa al bambino, Livia. Pensa alla possibilità che hai di dare una famiglia a questo 
bambino e una speranza di futuro. Se vuoi, se credi, pensa anche al tuo bambino, a quello che 
ti chiederebbe di fare, se fosse vivo».
La donna strinse forte il braccio cui era aggrappata. Sospirò nel vento che le scompigliava i 
capelli.
«E tu? Cosa c'è per te? Non ce l'hai tu una speranza di futuro? Perché non mi dai la tua 
speranza, la fai diventare anche mia?»
Camminarono  ancora,  in  silenzio.  Si  ritrovarono  davanti  all'ingresso  dell'albergo.  Il 
portiere, dietro la porta a vetri, li guardava perplesso.
Ricciardi si fermò e fissò Livia nel vento e nel mare.
«Non è il mio tempo, Livia. Non il mio spazio. Hai diritto a essere felice, hai diritto alla 
fortuna che non hai avuto. Sei bella, Livia, e giovane. Hai diritto; io non ancora».
Livia lo guardava, attraverso le gocce di mare e di pianto, e gli sorrise.
«D'accordo. Ci sarò anch'io, in tribunale. Lo farò, per il mio Carletto. E per te».
E rimase a guardarlo, nel vento e nel mare.
La donna che ricamava sentì allentarsi in petto la morsa dell'ansia. Prima ancora di alzare 
un fuggevole sguardo dal disegno del ricamo, sapeva che le tende della finestra di fronte si 
erano aperte.
Continuando a ricamare, Enrica sorrise.
    
  Ringraziamenti
Per il fatto di essere qui, Ricciardi deve ringraziare alcune persone.
Anzitutto Francesco Pinto e Domenico Procacci, la loro lucida, temeraria intelligenza.
Rosaria Carpinelli, la cui mano attenta è presente dalla prima all'ultima parola del testo; 
e Aldo Putignano, uno che sa volare tenendo i piedi per terra.
Deve ringraziare Michele per il suo costante aiuto, e Giovanni e Roberto che danno un 
senso a tutto.
Per quanto mi riguarda, e non solo per Ricciardi, l'unico immenso grazie è per la mia 
dolcissima Paola.