venerdì 13 marzo 2020


LA GLORIA
Vladimir Nabokov


[...]La carezza elastica e delicata di una morbida gamba di ragazza che si ritrae e contemporaneamente continua a premere contro la vostra, i capelli fragranti vicino alla vostra bocca, una guancia che lascia un velo di cipria sul bavero di seta della giacca… tutte quelle banalità immemorabili e dolci lo eccitavano profondamente. Gli piaceva ballare con una bionda sconosciuta, gli piaceva la conversazione vacua e casta attraverso la quale si presta ascolto da vicino a quel fenomeno vago e ammaliante che si verifica dentro di noi e dentro di lei, che durerà ancora un paio di battute musicali e poi, in mancanza di una conclusione, svanirà per sempre e finirà del tutto dimenticato. Ma fintanto che il legame fra i corpi permane, cominciando a prendere forma i contorni di una potenziale relazione amorosa, e l’abbozzo schematico comprende già tutto: l’improvviso silenzio fra due persone in una stanza illuminata fiocamente; l’uomo che con dita tremanti appoggia con cautela sul bordo di un posacenere la sigaretta appena accesa ma d’intralcio; gli occhi della donna che si chiudono lentamente come nella scena di un film; l’oscurità estatica, in cui vi è un punto luminoso, e una scintillante limousine che corre spedita nella notte piovosa e, a un tratto, una spianata bianca e l’increspatura abbacinante del mare, mentre Martin sussurra alla ragazza che ha portato con sé: «Come ti chiami… dimmi come ti chiami».[...]

                                1

Per buffo che possa sembrare, il nonno di Martin, Edelweiss, era svizzero, uno svizzero robusto con baffoni vaporosi, il quale negli anni Sessanta dell’Ottocento era stato precettore dei figli di un proprietario terriero di San Pietroburgo, di nome Indrikov, e ne aveva sposato la figlia minore. Nei primi tempi Martin credette che il fiore alpino bianco e vellutato, prediletto degli erbari, fosse stato così chiamato in onore del nonno. E neppure in seguito rinunciò del tutto all’idea. Ricordava chiaramente il nonno, ma soltanto abbigliato in una certa foggia e sempre nella stessa posizione: un vecchio corpulento, vestito di bianco dalla testa ai piedi, con basette chiare, panama e panciotto di piqué carico di ciondoli (il più divertente dei quali era uno stiletto grande quanto un’unghia), seduto su una panchina davanti alla casa sotto l’ombra mobile di un tiglio. Proprio su quella panchina era morto, stringendo nel palmo della mano l’amatissimo orologio d’oro il cui coperchio sembrava un minuscolo specchio dorato. Tempestiva, l’apoplessia lo aveva colto di sorpresa in quel gesto e, secondo la leggenda di famiglia, le lancette si erano fermate contemporaneamente al suo cuore.

Per parecchi anni a seguire, nonno Edelweiss fu conservato in un grosso album di pelle; ai suoi tempi le fotografie venivano fatte badando al buongusto e all’eleganza, dopo attenta e minuziosa riflessione. L’operazione non era uno scherzo: il paziente doveva rimanere immobile a lungo, e il permesso di sorridere era ancora di là da venire – sarebbe apparso con l’avvento dell’istantanea. La complessità dell’eliografia spiegava la gravità e la solida immobilità delle pose virili del nonno in quelle immagini un po’ sbiadite ma di ottima qualità: il nonno da giovane con una beccaccia appena uccisa ai suoi piedi; il nonno in groppa alla giumenta Daisy; il nonno su una poltroncina da veranda a strisce, con un bassotto tedesco che si era rifiutato di starsene seduto e fermo, e nella fotografia aveva tre code. Il nonno scomparve definitivamente solo nel 1918, quando l’album fu distrutto dalle fiamme insieme al tavolo sul quale era appoggiato, anzi, con l’intera casa di campagna che i bifolchi del villaggio vicino stupidamente bruciarono fino alle fondamenta così com’era, invece di ricavare dei soldi vendendo la mobilia. Il padre di Martin era un dermatologo, e anche famoso. Come il nonno, era di carnagione bianchissima, e robusto, nel tempo libero gli piaceva andare a pesca di ghiozzi, e possedeva una magnifica collezione di pugnali e sciabole, nonché di pistole lunghe e strane, a motivo delle quali ci mancò poco che fruitori di armi più moderne lo mandassero davanti al plotone di esecuzione. All’inizio del 1918 si gonfiò tutto e cominciò a respirare a fatica, e all’incirca il 10 marzo morì in circostanze poco chiare. In quel periodo la moglie Sof’ja e il figlio vivevano nei pressi di Jalta: la città continuava a provare ora un regime, ora un altro, senza riuscire a decidersi, schizzinosa com’era.
Sof’ja era una donna giovanile con le gote rosee punteggiate di efelidi, i capelli biondi raccolti in una grossa crocchia, sopracciglia alte, piuttosto folte verso la radice del naso e quasi impercettibili verso le tempie, e piccole incisioni (fatte un tempo per orecchini ora assenti) nei lobi allungati delle orecchie delicate. Fino a poco prima, nella loro residenza di campagna situata nel Nord del paese, giocava ancora a tennis con forza e agilità – il campo era stato predisposto nel giardino fin dagli anni Ottanta. In autunno passava molto tempo in sella a una bicicletta Enfield nera, pedalando lungo i viali del loro parco sopra tappeti di foglie secche che crepitavano rumorosamente. Oppure usciva a piedi e lungo il bordo elastico della strada principale percorreva il lungo tratto, prediletto fin dalla fanciullezza, da Ol’chovo a Voskresensk, alzando e abbassando la punta del costoso bastone dal pomo di corallo come un camminatore esperto. A San Pietroburgo aveva fama di anglomane, e se ne compiaceva: disquisiva con eloquenza su argomenti quali i boy-scout o Kipling, e provava una gioia particolare nel recarsi spesso al Drew’s English Shop dove, fin dalle scale, davanti a un grande manifesto (una donna che insaponava con abbondanza di schiuma la testa di un ragazzo) si era accolti da un meraviglioso profumo di sapone e lavanda a cui si mescolava qualche altra cosa, qualcosa che richiamava alla mente vasche da bagno di gomma gonfiabili, palloni da calcio e budini natalizi rotondi, pesanti, ben avvolti nella tela. Di conseguenza, i primi libri di Martin furono in inglese: la madre aborriva la rivista russa per bambini «Zaduševnoe slovo» (La parola sincera) e gli trasmise una tale avversione per le giovani eroine di Madame Čarskij, dalla carnagione scura e dal nome aristocratico, che anche molti anni dopo Martin continuava a diffidare dei libri scritti da donne, avvertendo finanche nei migliori il forte desiderio inconscio di una signora di mezz’età, probabilmente paffuta, di agghindarsi con un nome grazioso e raggomitolarsi sul divano come una gattina. Sof’ja detestava i diminutivi, si controllava attentamente per evitare di usarli, ed era infastidita se il marito diceva: «Il piccino ha di nuovo la tossetta, meglio misurargli la temperaturka»: la letteratura russa per l’infanzia pullulava di vezzose paroline balbettanti, quando non commetteva addirittura il peccato di impartire lezioni moralistiche.
Se il nome del nonno di Martin fioriva in montagna, l’origine magica del cognome da nubile della nonna era tutt’altra cosa dai vari Volkov (Lupo), Kunicyn (Martora) o Belkin (Scoiattolo) e apparteneva alla fauna della favolistica russa. In tempi lontani nel nostro paese si aggiravano bestie meravigliose. Ma Sof’ja trovava rozze, crudeli e squallide le favole russe, insensati i canti popolari russi, e idioti gli indovinelli russi. Dubitava alquanto dell’esistenza della famosa bambinaia di Puškin, e sosteneva che era stato il poeta a inventarla di sana pianta insieme con le sue favole, i suoi ferri da calza, e la sua afflizione. Fu così che nella prima infanzia Martin non familiarizzò con cose che in seguito, attraverso l’onda prismatica del ricordo, avrebbero potuto aggiungere un ulteriore incanto alla sua vita. Gli incanti, tuttavia, non gli mancarono, e non ebbe motivo di rammaricarsi che a destare la sua fantasia infantile non fosse stato il cavaliere errante Ruslan, bensì il fratello occidentale di quest’ultimo. Ma poi, che importa da dove proviene la piccola spinta garbata che scuote l’anima e la mette in moto, dando l’avvio a un movimento destinato a non fermarsi più?

2

Sulla parete luminosa sopra lo stretto lettino con le reti laterali di corda bianca e la piccola icona in capo alla testiera (volto bruno, laccato, di santo, rivestito di foglia metallico, parte inferiore di panno lenci cremisi smangiucchiato dalle tarme o forse dallo stesso Martin), era appeso l’acquerello di un fitto bosco con un sentiero serpeggiante che si perdeva nelle sue profondità. Ora, in uno dei libri inglesi che la madre gli leggeva (con quale lentezza e con che tono misterioso lei pronunciava le parole, e come spalancava gli occhi quando arrivava in fondo a una pagina, e coprendola con la piccola mano spruzzata di efelidi gli chiedeva: «Secondo te, che cosa succede adesso?») c’era la storia di un dipinto proprio come quello con il sentiero tra gli alberi, appeso sopra il letto di un bambino il quale, una bella notte, così com’era, in camicia, andò dal letto fin dentro il quadro, avventurandosi sul viottolo che si perdeva nelle profondità del bosco. La madre, pensò Martin inquieto, avrebbe forse notato la somiglianza fra l’acquerello sulla parete e l’illustrazione nel libro; allora si sarebbe allarmata e, secondo i suoi calcoli, avrebbe tolto il quadro per evitare il viaggio notturno. Perciò, ogni volta che nel letto pregava prima di addormentarsi (iniziava con una breve preghiera in inglese: «O Gesù buono e divino, ascolta la preghiera di un bambino» e continuava poi con il Padre nostro nella versione slava, sibilante e sibillina), ripetendo le orazioni meccanicamente, in fretta, e cercando di sollevare le ginocchia fin sul guanciale – cosa che, per motivi ascetici, la madre trovava inammissibile – Martin pregava Dio che lei non si accorgesse del sentiero allettante proprio sopra la sua testa. Quando, adolescente, ripensava al passato, si chiedeva se una notte non fosse davvero saltato dal letto dentro il quadro, e se quello non fosse stato l’inizio del viaggio, colmo di gioia e di angoscia, che era diventata la sua vita. Gli sembrava di ricordare il gelido contatto con il terreno, la verde penombra del bosco, le svolte del sentiero (attraversato qua e là dalle protuberanze di una grossa radice), i tronchi che gli balenavano accanto mentre lui correva a piedi nudi, e la strana atmosfera fosca, brulicante di favolose possibilità.
In gioventù la nonna Edelweiss, née Indrikov, si era applicata diligentemente alla pittura ad acquerello, e mentre mescolava il blu con il giallo sulla tavolozza di porcellana non poteva certo prevedere che un giorno il nipote avrebbe vagato nella verzura che andava prendendo forma. Il fremito che Martin avvertì e che, in varie manifestazioni e amalgame, da quel momento in poi lo avrebbe accompagnato per tutta la vita risultò essere proprio la sensazione che la madre aveva sperato di sviluppare nel figlio, nonostante lei stessa avrebbe avuto difficoltà a definirla; sapeva solo che ogni sera doveva nutrirlo con ciò con cui lei era stata nutrita a suo tempo dalla propria defunta governante, la vecchia e saggia signora Brook, il cui figlio aveva raccolto orchidee nel Borneo, aveva sorvolato il Sahara in mongolfiera, ed era morto in un bagno turco per lo scoppio della caldaia. Lei leggeva e Martin ascoltava, in ginocchio sopra una sedia, con i gomiti appoggiati sul tavolo rotondo illuminato dalla lampada, ed era assai difficile interrompere la lettura e farlo andare a letto perché immancabilmente lui la supplicava di continuare a leggere ancora un poco. A volte lo portava nella cameretta al piano di sopra caricandoselo sulla schiena – lo chiamavano «trasportare il tronco». All’ora di andare a letto Martin riceveva un biscotto inglese prelevato da una scatola di metallo rivestita di carta azzurra. Quelli dello strato superiore erano meravigliosi, ricoperti di zucchero; più sotto c’erano quelli allo zenzero e al cocco; e la triste sera in cui si arrivava all’ultimo strato, doveva rassegnarsi a un tipo di terza categoria, biscotti semplici e insapori.
Martin apprezzava tutto – i croccanti biscotti inglesi come le avventure dei cavalieri della Tavola Rotonda. Che momento esaltante fu quello in cui un giovane – forse un nipote di Tristano? –, indossata per la prima volta, un pezzo dopo l’altro, la lucente corazza di metallo a piastre convesse, partì a cavallo per la sua prima singolar tenzone! E poi vi erano quelle lontane isole circolari che una damigella fissava dalla spiaggia, e gli abiti di lei, fluttuanti nel vento, e un falcone incappucciato che le stava appollaiato sul braccio. E Sinbad, con il fazzoletto rosso in testa e l’orecchino d’oro; e il serpente di mare, con le spire verdi a forma di pneumatico che affioravano dall’acqua fino alla linea dell’orizzonte. E il bambino che trovava il punto in cui l’estremità dell’arcobaleno incontrava la terra. E, come un’eco di tutto ciò – un’immagine in qualche modo a questo collegata –, c’era lo stupendo modellino di un vagone letto rivestito di pannelli marrone nella vetrina della Société des Wagons-Lits et des Grands Express Européens sulla Prospettiva Nevskij, dove qualcuno fu condotto a passeggiare in un giorno gelido e uggioso, con la neve che scendeva in vortici lievi, dopo aver dovuto indossare pantaloni di maglia di lana neri sopra le calze e i calzoni corti.

3

La madre amava Martin in modo così possessivo, così impetuoso, così intenso che quel sentimento sembrava le arrochisse il cuore. Quando il matrimonio si sfasciò e cominciò a vivere da sola con Martin, ogni domenica il bambino andava a trovare il padre nel loro vecchio appartamento, e lì passava molto tempo a giocherellare con pistole e pugnali mentre il padre leggeva imperturbabile il giornale e di quando in quando rispondeva, senza sollevare lo sguardo, «Sì, carica» o «Sì, avvelenato». In quelle occasioni Sof’ja sopportava a fatica di rimanere a casa, tormentata dal pensiero assurdo che l’indolente marito potesse escogitare qualcosa per tenere il figlio con sé. Da parte sua, Martin era molto affettuoso ed educato con il padre per mitigare il più possibile la punizione, convinto com’era che il genitore fosse stato mandato via per essersi comportato male una sera d’estate nella dimora di campagna, quando aveva fatto qualcosa al pianoforte che aveva emesso un suono decisamente sconcertante, quasi gli avessero pestato la coda, e il giorno dopo era partito per San Pietroburgo senza fare più ritorno. Questo era accaduto l’anno in cui il granduca d’Austria fu assassinato in un harem. Martin immaginava molto chiaramente l’harem e il divano e il granduca dal cappello piumato che si difendeva con la spada da una mezza dozzina di congiurati avvolti in neri mantelli, e rimase deluso venendo a sapere che si era sbagliato. Martin non si trovava lì quando era stato inferto il colpo al pianoforte: nella stanza attigua, si stava lavando i denti con una pasta dentifricia molto densa, spumosa, dolce, resa particolarmente attraente dalla scritta in inglese: «Non potendo migliorare la pasta dentifricia, abbiamo migliorato il tubo». Infatti, all’estremità del tubetto c’era una fessura trasversale, di modo che, spremendolo, sullo spazzolino si depositava non un verme, bensì un nastro.
Il giorno in cui, a Jalta, ricevette la notizia della morte del marito, Sof’ja ricordò quella loro ultima discussione dalla prima all’ultima sillaba, in ogni particolare e in ogni sfumatura. Il marito, seduto accanto a un tavolino di vimini, si studiava le mani, la punta delle dita corte e divaricate, e lei gli diceva che non potevano più continuare in quel modo, che da molto tempo erano diventati estranei, e che voleva andarsene via con il figlio, anche l’indomani stesso. Il marito sorridendo pigramente aveva risposto con voce sommessa, appena un po’ rauca, che lei aveva ragione, ahimè, aggiungendo che se ne sarebbe andato lui, e avrebbe cercato un appartamento in città. Il suo tono sommesso, la sua placida obesità e, soprattutto, la limetta con cui continuò a straziare le unghie morbide la fecero andare fuori di sé, e la calma con cui parlavano della separazione le sembrò mostruosa, anche se un linguaggio violento e le lacrime sarebbero stati, naturalmente, ancora più orribili. Poi lui si alzò, e continuando ad armeggiare con la limetta prese a camminare su e giù per la stanza parlando, con un cortese sorriso sulle labbra, di dettagli domestici di second’ordine riguardanti la loro imminente vita da separati (e a questo punto la carrozza di famiglia assunse un ruolo ridicolo). Quindi, all’improvviso e senza ragione alcuna, passando accanto al pianoforte aperto calò a tutta forza il pugno chiuso sulla tastiera, e fu come se un urlo lamentoso e dissonante irrompesse nella stanza da una porta momentaneamente aperta. Dopo di che riprese il discorso interrotto con la stessa voce sommessa, e nel passare di nuovo accanto al pianoforte abbassò il coperchio con delicatezza.
La morte del padre, al quale non voleva molto bene, sconvolse Martin proprio perché non gli aveva voluto bene come avrebbe dovuto; e inoltre, non riusciva a liberarsi del pensiero che egli fosse morto sotto il peso di una colpa. Comprese allora per la prima volta che la vita umana scorre a zigzag, che ora aveva superato la prima curva, e che la sua vita era mutata nel momento in cui la madre lo aveva richiamato dal viale di cipressi perché la raggiungesse sulla terrazza e gli aveva detto con voce strana: «Ho ricevuto una lettera da Zilanov», continuando poi in inglese: «Devi essere forte, molto forte... si tratta di tuo padre... non c’è più». Martin era impallidito e aveva sorriso, un sorriso disorientato. Poi aveva girovagato a lungo nel parco Voroncov ripetendo ogni tanto il soprannome infantile che un tempo aveva dato al padre, sforzandosi di immaginare – e immaginando davvero con convinzione affettuosa, sognante – di avere il padre accanto a sé, davanti a sé, dietro di sé, sotto quel cedro laggiù in fondo, su quel prato digradante, vicino, lontano, ovunque.
Faceva molto caldo, nonostante il temporale che aveva infuriato fino a poco prima. Mosche carnarie ronzavano attorno ai lucidi arboscelli dei nespoli. Nello stagno un cigno nero stizzoso muoveva di qua e di là il becco di un cremisi così intenso da sembrare dipinto. Dal mandorlo erano caduti i petali che ora spiccavano pallidi sulla terra scura del sentiero bagnato come le mandorle nel pan di zenzero. Non lontano da alcuni enormi cedri del Libano sorgeva isolata una betulla, con il fogliame inclinato in quel modo particolare tipico delle betulle (sembrava una ragazza che avesse fatto ricadere i capelli da un lato per pettinarli e fosse rimasta lì immobile). Un macaone zebrato scivolò via, le code delle ali distese e unite. L’aria scintillante, le ombre dei cipressi (alberi vecchi, color ruggine, con le piccole pigne seminascoste sotto il manto); lo specchio nero dello stagno, ove cerchi concentrici si allargavano attorno al cigno; il turchino fulgido in cui svettava dentellato il monte Ai-Petri cinto dalla larga cintura di pini simili a cappelli di caracul: tutto era permeato di una beatitudine straziante, e a Martin sembrò che in qualche modo il padre avesse avuto un ruolo nella distribuzione di ombra e luce.
«Se tu avessi vent’anni invece di quindici,» gli disse la madre quella sera «se avessi già finito le scuole superiori e io non ci fossi più, allora, naturalmente, potresti... suppongo che sarebbe tuo dovere...». Si interruppe a metà della frase, pensando all’Armata Bianca e vedendo con l’occhio della mente la prateria della Russia meridionale e i cavalieri con il copricapo cosacco, tra i quali, da lontano, cercava di distinguere Martin. Invece, grazie a Dio, lui era lì in piedi accanto a lei, con una camicia aperta sul collo, i capelli tagliati corti, la pelle abbronzata, e minutissime rughe chiare che s’irradiavano dagli angoli degli occhi. «Mentre, d’altra parte, se torniamo a San Pietroburgo...» continuò con tono interrogativo, e in una stazione anonima scoppiò una granata, e la locomotiva si impennò. «Probabilmente, un giorno tutto questo finirà» soggiunse dopo una pausa. «Nel frattempo, dobbiamo decidere che cosa fare».
«Io vado a fare una nuotata» intervenne Martin con tono conciliante. «C’è tutta la banda... Nicky, Lida».
«Sì, certo, vai» disse Sof’ja. «Dopotutto la rivoluzione un giorno finirà, e ci sembrerà strano ricordarla. Il nostro soggiorno in Crimea ha fatto miracoli per la tua salute. E in qualche modo finirai gli studi al liceo di Jalta. Guarda, non è bella la scogliera così illuminata?».
Quella notte né la madre né il figlio riuscirono a dormire ed entrambi pensarono alla morte. Sof’ja cercò di pensarci sottotono, ossia senza singhiozzi né sospiri (la porta di comunicazione con la camera del figlio era socchiusa). Ricordò di nuovo, meticolosamente e in dettaglio, tutto quello che aveva portato alla separazione da Edelweiss. Riesaminando a fondo ogni singolo istante, capì senza ombra di dubbio che in alcune circostanze non avrebbe potuto comportarsi in modo diverso. Ciò nonostante, da qualche parte doveva celarsi uno sbaglio; ciò nonostante, se non si fossero separati, lui non sarebbe morto in quel modo, solo in una stanza vuota, soffocando, inerme, forse ricordando il loro ultimo anno di felicità (una felicità molto relativa, per giunta), e il loro ultimo viaggio all’estero, a Biarritz, l’escursione alla Croix de Mouguerre, e le piccole gallerie di Bayonne. Credeva fermamente in una sorta di potere che somigliava a Dio come la casa di un individuo che non si è mai visto, le sue cose, le sue serre e le sue arnie, la sua voce lontana, udita per caso in un campo aperto, assomigliano al proprietario. L’avrebbe messa a disagio chiamare «Dio» quel potere, proprio come vi sono dei Peter e degli Ivan che non riescono a pronunciare «Pete» o «Vanja» senza avvertire una nota falsa, mentre vi sono altri che, nel riferirti una lunga conversazione, pronunceranno almeno una ventina di volte e con entusiasmo il proprio nome o, peggio ancora, il proprio nomignolo. Quel potere non era in alcun modo collegato alla Chiesa, e non assolveva né puniva i peccati. Era solo che lei a volte se ne vergognava davanti a un albero, a una nuvola, a un cane, o perfino all’aria che trasportava coscienziosamente tanto una parola cattiva quanto una parola gentile. E adesso Sof’ja, nel pensare al marito sgradevole, non amato, e alla sua morte, pur ripetendo le parole delle preghiere che le venivano naturali fin dall’infanzia, in effetti si sforzava con tutta se stessa – confortata da due o tre ricordi felici, attraverso le brume, attraverso le vastità dello spazio, attraverso tutto ciò che sarebbe rimasto per sempre incomprensibile – di riuscire a dare un bacio in fronte al marito.
Con Martin non parlò mai apertamente di questo genere di cose, ma ebbe sempre la sensazione, qualunque altro argomento affrontassero, di poter trasmettere al figlio, con la sua voce e il suo amore, lo stesso senso del divino che viveva dentro di lei. Disteso sul letto nella stanza attigua e fingendo di russare affinché la madre non capisse che era sveglio, anche Martin ricordò cose strazianti, anche lui cercò di rendersi davvero conto che il padre era morto e di cogliere un soffio di tenerezza postuma nel buio della camera. Pensò al padre con tutta la forza dell’anima, e arrivò perfino a fare certi esperimenti: se, in questo preciso momento, un’asse del pavimento scricchiola o si ode un colpo di qualunque genere, significa che mi sente e mi risponde. E aspettava il colpo in preda alla paura. La compattezza dell’aria notturna l’opprimeva; udiva il rombo cupo dei frangenti; le zanzare emettevano il loro sibilo acuto. O ancora, vedeva d’un tratto, con assoluta chiarezza, il viso rotondo del padre, il suo pince-nez, i biondi capelli a spazzola, il bottone carnoso di una verruca vicino alla narice, e l’anello lucente formato da due serpentelli d’oro attorno al nodo della cravatta. Poi, quando finalmente si addormentò, si ritrovò seduto in un’aula scolastica senza avere fatto il compito a casa, mentre Lida continuava a grattarsi pigramente lo stinco e gli diceva che i georgiani non mangiavano il gelato: «Gruziny ne edjat moroženogo».

4

Non avvisò né Lida né il di lei fratello della morte del padre perché non era sicuro di riuscire a comunicare la notizia con naturalezza, e sarebbe stato indecoroso farlo con commozione. Fin dalla prima infanzia la madre gli aveva insegnato che parlare in pubblico di una profonda esperienza emotiva – all’aria aperta questa subito sbiadisce e svanisce, e, fatto assai curioso, diventa simile a un’esperienza analoga del proprio interlocutore – era non solo plebeo, ma anche un peccato contro il sentimento. Lei detestava i nastri delle corone funebri con le scritte argentee del tipo «A un giovane eroe», o «Alla nostra adorata e indimenticabile figlia», e disapprovava le persone composte ma stucchevoli le quali, quando perdono un loro caro, trovano ammissibile spargere lacrime in pubblico, mentre in altri momenti, in giorni particolarmente fausti, pur scoppiando di gioia non si permetterebbero mai di ridere di gusto in faccia a un passante sconosciuto. Una volta Martin, aveva circa otto anni, volle provare a tosare un cagnolino dal pelo lungo e gli tagliò inavvertitamente un orecchio. Inspiegabilmente, si sentì imbarazzato a spiegare che voleva solo eliminare i ciuffi in eccesso prima di dipingere il soggetto in modo da farlo sembrare una tigre, e aveva subìto l’indignazione della madre stoicamente, senza proferire parola. Lei gli ordinò di abbassare i pantaloni e di mettersi bocconi. Lui obbedì in assoluto silenzio, e in assoluto silenzio lei lo fustigò con un frustino da equitazione di colore rossiccio, fatto con budello di toro. Poi lui si tirò su i pantaloni e lei lo aiutò ad abbottonarli alla camiciola, dato che Martin aveva cominciato ad allacciarli sghembi. Poi lui uscì, e solamente lì, nel parco, cedette, e pianse gemendo disperatamente, e le lacrime si mescolavano con i mirtilli. Anche la madre piangeva nella propria camera da letto, e la sera riuscì a stento a trattenere le lacrime mentre un allegro e paffuto Martin se ne stava seduto nella vasca da bagno spingendo via piano piano con il gomito un cigno di celluloide, e quando si alzò per farsi insaponare la schiena lei vide le striature rosso vivo sulle tenere natiche. Quella fu l’unica volta che gli inflisse una punizione del genere, né mai Sof’ja alzò la mano minacciando di schiaffeggiarlo per qualche mancanza di poco conto, come fanno le mamme francesi e tedesche.
Avendo imparato fin da piccolo a trattenere le lacrime e a controllare le emozioni, Martin sbalordiva gli insegnanti per via dell’apparente insensibilità. Ben presto scoprì dentro di sé una caratteristica che volle nascondere con particolare tenacia, e che a sedici anni, in Crimea, gli causò un bel po’ di sofferenza. Si era accorto che a volte era tale il timore di apparire poco virile, di essere considerato codardo, che senza volerlo reagiva proprio come tale: impallidiva, le gambe gli tremavano, e il cuore gli batteva tumultuosamente nel petto. Riconoscendo di non possedere un autentico e innato sang-froid, decise fermamente di comportarsi sempre come avrebbe fatto al suo posto un individuo impavido. Contemporaneamente, grandi erano in lui la vanità e l’autostima. Il fratello di Lida, Kolja, pur avendo la stessa età di Martin, era magro e basso di statura. Martin riteneva di poterlo immobilizzare senza molta fatica; e tuttavia la possibilità di una sia pure improbabile sconfitta lo rendeva talmente nervoso, ed egli se la raffigurava con tanta odiosa chiarezza, che non osò mai iniziare a battersi con lui, mentre invece accettava di buon grado le sfide di Ivanov, un ufficiale di cavalleria ventenne con muscoli come sassi rotondi (ucciso sei mesi dopo nella battaglia di Melitopol’), che lo malmenava senza pietà e, dopo una lotta spossante, rosso e con un ghigno sul viso, lo schiacciava sull’erba. E poi ci fu quella notte, quella calda notte di Crimea, con il nero-blu dei cipressi messo in risalto dal bianco gessoso delle spettrali mura tartare illuminate dalla luna, quando, ritornando a casa da Adreiz, dove viveva la famiglia di Lida, una figura umana comparve improvvisamente a una curva del viottolo sassoso che conduceva alla strada principale, e una voce profonda intimò: «Chi va là?». Martin notò con disappunto che per un attimo il suo cuore aveva cessato di battere. «Ah, dev’essere Dedman il Tartaro» proseguì la voce, e un viso maschile avanzò minaccioso lacerando la buia ragnatela delle ombre.
«No» disse Martin. «Mi lasci passare, per favore».
«E io dico che sei Dedman-Achmet» insistette l’altro con tono calmo ma ancor più minaccioso e, in uno sprazzo di chiarore lunare, Martin vide che l’uomo stringeva in mano un grosso revolver. «Va bene. Mettiti contro il muro» disse quello con un tono non più aggressivo, ma conciliante e pratico. L’ombra inghiottì di nuovo la mano pallida e l’arma scura, ma un corpuscolo luccicante rimase nel punto in cui c’erano un attimo prima. Martin poteva scegliere fra due alternative: la prima era esigere una spiegazione; la seconda, ritrarsi nell’oscurità e mettersi a correre. «Temo che mi abbia scambiato per qualcun altro» replicò goffamente, e disse come si chiamava.
«Contro il muro, contro il muro» urlò l’altro con voce acuta di soprano.
«Qui non c’è nessun muro» disse Martin.
«Aspetterò finché ci sarà» replicò l’altro enigmaticamente, e con uno scricchiolio di ghiaia si accovacciò o si sedette, impossibile dirlo con quel buio. Martin rimase in piedi dov’era, sentendo una specie di lieve pizzicore in tutta la parte sinistra del torace, dove la canna ora invisibile del revolver doveva essere puntata.
«Una mossa e ti ammazzo» mormorò l’uomo, aggiungendo qualcosa di inintelligibile. Martin rimase fermo per un po’, poi ancora per un altro po’, sforzandosi tormentosamente di pensare che cosa avrebbe fatto al suo posto un uomo temerario e disarmato; ma non gli venne in mente niente e tutt’a un tratto disse:
«Le andrebbe una sigaretta? Ne ho».
Chissà come gli era sfuggita quella frase, e subito se ne vergognò, specialmente perché l’offerta rimase senza risposta. Decise allora che l’unico modo di riscattare le parole ignominiose fosse affrontare l’altro, se necessario atterrarlo, ma comunque passare. Pensò al picnic organizzato per l’indomani, alle gambe di Lida, con quell’abbronzatura uniforme color oro rosso levigata coma lacca per le unghie, e immaginò che quella sera forse il padre lo stesse aspettando, forse stesse preparandosi all’incontro... e a quel punto si rese conto di provare una inspiegabile ostilità nei confronti del genitore, della quale si rimproverò a lungo. Si udiva il fruscio del mare e a intervalli regolari il rombo dei frangenti; grilli chiassosi impegnati in monotone gare a chi strideva più forte; e lì, nell’oscurità, c’era quell’imbecille. Tutt’a un tratto Martin si accorse che stava proteggendo il cuore con la mano; dandosi ancora una volta del codardo, avanzò repentinamente di un passo. Non accadde nulla. Inciampò nella gamba dell’uomo, ma quello non la mosse: sedeva inarcato in avanti, con la testa piegata, e russava sommessamente, emanando un tanfo denso e forte di vino.
Dopo essere arrivato sano e salvo a casa e avere fatto un bel sonno ristoratore, la mattina seguente Martin, in piedi sul balcone intrecciato di glicini, si rammaricò di non avere disarmato l’ubriacone inerte: sarebbe stato un bel colpo esibire con aria enigmatica il revolver confiscato. Rimase in collera con se stesso ritenendo di non essersi dimostrato all’altezza della situazione nel momento in cui aveva finalmente incontrato il pericolo tanto a lungo atteso. Quante volte, sulla strada maestra dei sogni, indossando una maschera a mezzo viso e stivali alla scudiera, aveva fermato una diligenza, o una grossa berlina, o un uomo a cavallo, e distribuito poi i ducati dei mercanti ai poveri! E nel periodo in cui aveva comandato una corvetta di pirati, in piedi con la schiena contro l’albero di maestra e combattendo con una sola mano aveva respinto l’assalto dell’equipaggio ammutinato. Era stato inviato nell’Africa profonda, alla ricerca di un esploratore scomparso, e quando alfine l’aveva trovato – nella foresta impenetrabile di una regione sconosciuta – gli era andato incontro salutandolo con un inchino cortese, ostentando il proprio autocontrollo. Era evaso da campi di lavoro forzato attraversando paludose zone tropicali; aveva marciato verso il Polo, passando accanto a pinguini eretti e sbalorditi; cavalcando un destriero schiumante, con la sciabola sguainata, era stato il primo a irrompere nella Mosca insorta. E adesso Martin si sorprese ad abbellire retrospettivamente l’episodio notturno goffo e piuttosto insulso, il quale non aveva somiglianza con la vita reale come egli la viveva nella propria immaginazione più di quanto ne abbia un sogno sconclusionato con la piena, effettiva realtà. E come a volte, nel raccontare un sogno, lo smussiamo, lo levighiamo, lo abbelliamo qua e là, in modo da portarlo almeno al livello di un’assurdità plausibile, realistica, esattamente nello stesso modo Martin, ripassando tra sé e sé il racconto dell’incontro notturno (pur senza l’intenzione di divulgarlo), rese lo sconosciuto più sobrio, il revolver più efficiente, e le proprie parole più argute.

5

Il giorno dopo, mentre giocava con Kolja calciando un pallone avanti e indietro, o insieme a Lida cercava sulla spiaggia ghiaiosa oggetti marini curiosi (un sasso rotondo con una banda colorata, un minuscolo ferro di cavallo granuloso e bruno-rossastro di ruggine; frammenti verde pallido di cocci di bottiglia levigati dal mare che gli rammentavano la fanciullezza e Biarritz), Martin ripensò all’avventura notturna, incerto se fosse davvero reale, e la sospinse sempre più decisamente nel regno in cui tutto ciò che egli selezionava dal mondo a giovamento della propria anima metteva radici e cominciava a vivere un’esistenza indipendente e stupenda. Un’onda si gonfiava, ribollente di spuma, ruzzolava rotonda e dilagava avanzando veloce sulla battigia ghiaiosa. Poi, incapace di fermarsi, scivolava indietro accompagnata dal brontolio dei ciottoli ridestati; e a malapena si era ritirata che, con lo stesso tonfo rotondo e gioioso, ne arrivava ruzzolando un’altra e si distendeva in uno strato trasparente fino al massimo limite consentito. Kolja gettò in acqua un pezzo di legno che aveva raccolto perché Lady, il fox terrier, lo andasse a riprendere, e la cagnetta sollevò assieme le zampe anteriori e si slanciò nell’acqua prima di cominciare a nuotare con forza. Un’ondata successiva la sollevò e la sospinse con vigore all’indietro, depositandola sana e salva a riva. Lady depose sui ciottoli davanti a sé il pezzo di legno strappato al mare e si scrollò energicamente. Mentre i due ragazzi facevano il bagno nudi, Lida, che lo faceva molto prima, la mattina, con la madre e Sof’ja, si allontanò in direzione di alcuni scogli che aveva chiamato Ajvazovskian, in omaggio ai paesaggi marini di quel pittore. Kolja nuotava con movenze disordinate, alla tartara, mentre Martin era fiero del proprio crawl rapido e corretto, appreso da un precettore inglese durante l’ultima estate che aveva trascorso al Nord. Tuttavia, nessuno dei due si spingeva molto al largo; a questo proposito una delle fantasticherie più deliziose e più terrorizzanti di Martin era un mare deserto in tempesta, dopo un naufragio, e lui, solo nel buio, che reggeva sopra il pelo dell’acqua una ragazza creola con la quale la sera precedente aveva ballato il tango sul ponte della nave. Dopo una nuotata, era meravigliosamente piacevole distendersi nudi sulla sabbia calda e, piegando la testa all’indietro, guardare i cipressi conficcati nelle profondità del cielo come pugnali neri. Per Kolja, che era figlio di un medico di Jalta e aveva sempre vissuto in Crimea, i cipressi, e il cielo estatico, e lo stupendo mare azzurro con le sue abbaglianti scaglie metalliche erano cose normali, consuete, ed era difficile trascinarlo nei giochi prediletti di Martin, trasformandolo nel marito della creola, anche lui finito per caso sulla stessa isola disabitata.
La sera salivano ad Adreiz fra stretti corridoi di cipressi. Già si intravedeva la grande villa stravagante, con le numerose scalinate, gli anditi, i ballatoi (progettata in modo tanto divertente che a volte non si sapeva a quale piano si fosse finiti o, dopo avere salito alcuni gradini ripidi, si scopriva all’improvviso che invece di essere arrivati al mezzanino, come era presumibile, ci si trovava sulla terrazza del giardino): scintillava illuminata dalla luce gialla delle lampade a cherosene, e dalla veranda principale giungeva il suono delle voci e il tintinnio delle stoviglie. Lida si univa al gruppo degli adulti. Kolja si rimpinzava e subito dopo andava a letto. Martin rimaneva seduto al buio sui gradini in fondo alla scala e mangiando le ciliegie che teneva in mano prestava ascolto alle voci gaie e squillanti, alle risate sguaiate di Ivanov, al conversare intimo di Lida, e a una discussione fra il padre di lei e il pittore Danilevskij, garrulo balbuziente. Di solito gli ospiti erano numerosi: ragazze ridanciane dai foulard a colori vivaci, ufficiali di Jalta, e anziani vicini spaventati che l’inverno precedente erano fuggiti in massa sulle colline durante un’incursione dei Rossi. Non era mai chiaro chi avesse portato chi e chi fosse amico di chi, ma l’ospitalità della madre di Lida, una donna poco appariscente con il collarino e gli occhiali, non aveva limiti. Così, un giorno compariva Arkadij Zarjanskij, un individuo allampanato e mortalmente pallido che aveva qualcosa a che fare con il teatro, uno di quegli strani tipi che vanno in tournée da un fronte di guerra all’altro recitando poesie con accompagnamento musicale, organizzano spettacoli il giorno prima che una città sia devastata, corrono là dove è possibile acquistare le spalline militari, un luogo che però non è mai abbastanza lontano, e ritornano invece, ansimando felici, con un cappello a cilindro che sono riusciti miracolosamente a ottenere per l’ultimo atto di Un sogno d’amore. Aveva una calvizie incipiente e un bel profilo dinamico, ma visto en face risultava meno bello: borse sotto gli occhi color fango e un incisivo mancante. Quanto all’indole, era garbato, gentile, sensibile, e se la sera tardi uscivano tutti assieme per una passeggiata, cantava con vellutata voce baritonale la romanza che cominciava così:
Ricordi quando sedevamo in riva al mare,
il cielo striato dal bagliore scarlatto del tramonto
oppure nel buio raccontava una barzelletta armena, e nel buio qualcuno rideva. Incontrandolo per la prima volta, Martin, stupito e anche piuttosto inorridito, riconobbe in lui l’ubriaco che gli aveva ordinato di mettersi in piedi contro il muro per farsi sparare, ma a quanto parve Zarjanskij non ricordava nulla, e pertanto l’identità di Dedman rimase avvolta nel mistero. Zarjanskij era un bevitore notevole e quando alzava il gomito diventava violento, ma il revolver, che un giorno ricomparve – durante un picnic sull’altopiano sopra Jalta, in una notte immersa nel chiarore lunare, tra stridere di grilli e bevute di moscato –, risultò scarico: Zarjanskij continuò a lungo a gridare, minacciare e borbottare di un certo suo amore fatale; lo coprirono con un pastrano militare, e si addormentò. Lida era seduta accanto al fuoco, il mento appoggiato sulle mani e gli occhi lucenti, animati, che le fiamme facevano sembrare bruno-rossastri – guardava le scintille sprigionate dal falò. Martin si alzò, sgranchì le gambe, salì un buio pendio erboso e si fermò sull’orlo del precipizio. Proprio sotto i suoi piedi vide un vasto abisso nero, e più oltre il mare, che sembrava essersi sollevato facendosi più vicino, con la scia di luce del plenilunio, la «Pista turca», che si allargava al centro per poi restringersi man mano che si avvicinava all’orizzonte. Sulla sinistra, nella lontananza misteriosa delle tenebre, scintillavano le luci adamantine di Jalta. E quando Martin si girò, vide poco lontano il nido fiammeggiante e irrequieto del fuoco, e attorno le sagome delle persone, e una mano che aggiungeva al falò un ramo. I grilli continuavano a stridere e di quando in quando giungeva una dolce folata di ginepro che bruciava; e sopra la scura steppa subalpina, sopra il mare di seta, il cielo immenso, che inghiottiva tutto e che le stelle sfumavano di grigio tortora, dava le vertigini, e d’un tratto Martin provò di nuovo una sensazione che aveva già conosciuto in più occasioni da bambino: un acuirsi insopportabile di tutti i sensi, un impulso magico e perentorio, la presenza di qualcosa per la quale soltanto valeva la pena di vivere.

5

Il giorno dopo, mentre giocava con Kolja calciando un pallone avanti e indietro, o insieme a Lida cercava sulla spiaggia ghiaiosa oggetti marini curiosi (un sasso rotondo con una banda colorata, un minuscolo ferro di cavallo granuloso e bruno-rossastro di ruggine; frammenti verde pallido di cocci di bottiglia levigati dal mare che gli rammentavano la fanciullezza e Biarritz), Martin ripensò all’avventura notturna, incerto se fosse davvero reale, e la sospinse sempre più decisamente nel regno in cui tutto ciò che egli selezionava dal mondo a giovamento della propria anima metteva radici e cominciava a vivere un’esistenza indipendente e stupenda. Un’onda si gonfiava, ribollente di spuma, ruzzolava rotonda e dilagava avanzando veloce sulla battigia ghiaiosa. Poi, incapace di fermarsi, scivolava indietro accompagnata dal brontolio dei ciottoli ridestati; e a malapena si era ritirata che, con lo stesso tonfo rotondo e gioioso, ne arrivava ruzzolando un’altra e si distendeva in uno strato trasparente fino al massimo limite consentito. Kolja gettò in acqua un pezzo di legno che aveva raccolto perché Lady, il fox terrier, lo andasse a riprendere, e la cagnetta sollevò assieme le zampe anteriori e si slanciò nell’acqua prima di cominciare a nuotare con forza. Un’ondata successiva la sollevò e la sospinse con vigore all’indietro, depositandola sana e salva a riva. Lady depose sui ciottoli davanti a sé il pezzo di legno strappato al mare e si scrollò energicamente. Mentre i due ragazzi facevano il bagno nudi, Lida, che lo faceva molto prima, la mattina, con la madre e Sof’ja, si allontanò in direzione di alcuni scogli che aveva chiamato Ajvazovskian, in omaggio ai paesaggi marini di quel pittore. Kolja nuotava con movenze disordinate, alla tartara, mentre Martin era fiero del proprio crawl rapido e corretto, appreso da un precettore inglese durante l’ultima estate che aveva trascorso al Nord. Tuttavia, nessuno dei due si spingeva molto al largo; a questo proposito una delle fantasticherie più deliziose e più terrorizzanti di Martin era un mare deserto in tempesta, dopo un naufragio, e lui, solo nel buio, che reggeva sopra il pelo dell’acqua una ragazza creola con la quale la sera precedente aveva ballato il tango sul ponte della nave. Dopo una nuotata, era meravigliosamente piacevole distendersi nudi sulla sabbia calda e, piegando la testa all’indietro, guardare i cipressi conficcati nelle profondità del cielo come pugnali neri. Per Kolja, che era figlio di un medico di Jalta e aveva sempre vissuto in Crimea, i cipressi, e il cielo estatico, e lo stupendo mare azzurro con le sue abbaglianti scaglie metalliche erano cose normali, consuete, ed era difficile trascinarlo nei giochi prediletti di Martin, trasformandolo nel marito della creola, anche lui finito per caso sulla stessa isola disabitata.
La sera salivano ad Adreiz fra stretti corridoi di cipressi. Già si intravedeva la grande villa stravagante, con le numerose scalinate, gli anditi, i ballatoi (progettata in modo tanto divertente che a volte non si sapeva a quale piano si fosse finiti o, dopo avere salito alcuni gradini ripidi, si scopriva all’improvviso che invece di essere arrivati al mezzanino, come era presumibile, ci si trovava sulla terrazza del giardino): scintillava illuminata dalla luce gialla delle lampade a cherosene, e dalla veranda principale giungeva il suono delle voci e il tintinnio delle stoviglie. Lida si univa al gruppo degli adulti. Kolja si rimpinzava e subito dopo andava a letto. Martin rimaneva seduto al buio sui gradini in fondo alla scala e mangiando le ciliegie che teneva in mano prestava ascolto alle voci gaie e squillanti, alle risate sguaiate di Ivanov, al conversare intimo di Lida, e a una discussione fra il padre di lei e il pittore Danilevskij, garrulo balbuziente. Di solito gli ospiti erano numerosi: ragazze ridanciane dai foulard a colori vivaci, ufficiali di Jalta, e anziani vicini spaventati che l’inverno precedente erano fuggiti in massa sulle colline durante un’incursione dei Rossi. Non era mai chiaro chi avesse portato chi e chi fosse amico di chi, ma l’ospitalità della madre di Lida, una donna poco appariscente con il collarino e gli occhiali, non aveva limiti. Così, un giorno compariva Arkadij Zarjanskij, un individuo allampanato e mortalmente pallido che aveva qualcosa a che fare con il teatro, uno di quegli strani tipi che vanno in tournée da un fronte di guerra all’altro recitando poesie con accompagnamento musicale, organizzano spettacoli il giorno prima che una città sia devastata, corrono là dove è possibile acquistare le spalline militari, un luogo che però non è mai abbastanza lontano, e ritornano invece, ansimando felici, con un cappello a cilindro che sono riusciti miracolosamente a ottenere per l’ultimo atto di Un sogno d’amore. Aveva una calvizie incipiente e un bel profilo dinamico, ma visto en face risultava meno bello: borse sotto gli occhi color fango e un incisivo mancante. Quanto all’indole, era garbato, gentile, sensibile, e se la sera tardi uscivano tutti assieme per una passeggiata, cantava con vellutata voce baritonale la romanza che cominciava così:
Ricordi quando sedevamo in riva al mare,
il cielo striato dal bagliore scarlatto del tramonto
oppure nel buio raccontava una barzelletta armena, e nel buio qualcuno rideva. Incontrandolo per la prima volta, Martin, stupito e anche piuttosto inorridito, riconobbe in lui l’ubriaco che gli aveva ordinato di mettersi in piedi contro il muro per farsi sparare, ma a quanto parve Zarjanskij non ricordava nulla, e pertanto l’identità di Dedman rimase avvolta nel mistero. Zarjanskij era un bevitore notevole e quando alzava il gomito diventava violento, ma il revolver, che un giorno ricomparve – durante un picnic sull’altopiano sopra Jalta, in una notte immersa nel chiarore lunare, tra stridere di grilli e bevute di moscato –, risultò scarico: Zarjanskij continuò a lungo a gridare, minacciare e borbottare di un certo suo amore fatale; lo coprirono con un pastrano militare, e si addormentò. Lida era seduta accanto al fuoco, il mento appoggiato sulle mani e gli occhi lucenti, animati, che le fiamme facevano sembrare bruno-rossastri – guardava le scintille sprigionate dal falò. Martin si alzò, sgranchì le gambe, salì un buio pendio erboso e si fermò sull’orlo del precipizio. Proprio sotto i suoi piedi vide un vasto abisso nero, e più oltre il mare, che sembrava essersi sollevato facendosi più vicino, con la scia di luce del plenilunio, la «Pista turca», che si allargava al centro per poi restringersi man mano che si avvicinava all’orizzonte. Sulla sinistra, nella lontananza misteriosa delle tenebre, scintillavano le luci adamantine di Jalta. E quando Martin si girò, vide poco lontano il nido fiammeggiante e irrequieto del fuoco, e attorno le sagome delle persone, e una mano che aggiungeva al falò un ramo. I grilli continuavano a stridere e di quando in quando giungeva una dolce folata di ginepro che bruciava; e sopra la scura steppa subalpina, sopra il mare di seta, il cielo immenso, che inghiottiva tutto e che le stelle sfumavano di grigio tortora, dava le vertigini, e d’un tratto Martin provò di nuovo una sensazione che aveva già conosciuto in più occasioni da bambino: un acuirsi insopportabile di tutti i sensi, un impulso magico e perentorio, la presenza di qualcosa per la quale soltanto valeva la pena di vivere.

7

A partire da quell’anno Martin cominciò a nutrire una grande passione per i treni, i viaggi, le luci lontane, i gemiti strazianti delle locomotive nel buio della notte, e la vivacità da museo delle cere di stazioncine che gli sfrecciavano davanti agli occhi, con persone che non avrebbe mai più rivisto. Il beccheggio lento, il cigolio della catena del timone, il rollio del mercantile canadese sul quale lui e la madre lasciarono la Crimea nell’aprile del 1919, il mare in burrasca e la pioggia battente non comunicavano l’eccitazione del viaggio quanto un treno espresso, e solo molto gradualmente Martin scoprì quel nuovo incanto. Una giovane donna scarmigliata, con l’impermeabile e un foulard bianco e nero attorno al collo, passeggiava sul ponte soffiando via i capelli che le solleticavano il viso, in compagnia del pallido marito finché il mare non ebbe la meglio su di lui, e sul foulard svolazzante di lei, e Martin ritrovò completamente la stessa eccitazione del viaggio che lo aveva ammaliato alla vista del berretto a scacchi e dei guanti di camoscio sempre indossati dal padre negli scompartimenti ferroviari, o dello zainetto di coccodrillo portato con la cinghia sulla spalla dalla ragazzina francese con la quale si era divertito un mondo a scorrazzare per il lungo corridoio del treno espresso che si addentrava nel paesaggio fuggevole. La giovane donna era l’unica ad avere l’aspetto di un vero marinaio, a differenza degli altri passeggeri che il comandante di quella nave noleggiata precipitosamente, non avendo trovato un carico nella Crimea impazzita, aveva accettato di prendere a bordo pur di non fare il viaggio di ritorno a vuoto. Nonostante il bagaglio abbondante – bitorzoluto, preparato in fretta, legato con corde al posto delle cinghie –, tutte quelle persone davano l’impressione di viaggiare leggeri, di essersi imbarcati come per caso; nelle convenzioni dei lunghi viaggi non c’era posto per lo smarrimento e la malinconia. Fuggivano da un pericolo mortale, eppure Martin per qualche ragione non era molto turbato dal fatto che le cose stessero così, dal fatto che se quell’affarista laggiù, quell’uomo dal volto livido con un mucchio di pietre preziose nascoste nella cintura che portava a contatto della pelle, fosse rimasto a terra, sarebbe stato ucciso su due piedi dal primo soldato dell’Armata Rossa allettato dai suoi visceri preziosi. E Martin seguì con sguardo quasi indifferente la costa russa che si allontanava nella foschia piovosa, lo fece con totale imperturbabilità, con totale naturalezza, senza neppure un segno che potesse vagamente far pensare alla durata soprannaturale della separazione. Solo quando tutto svanì nella nebbia, ricordò con bramosia, in un lampo, Adreiz e i cipressi, e la casa gioiosa i cui abitanti rispondevano alle domande stupite dei vicini inquieti: «Fuggire? Ma dove potremmo vivere se non in Crimea?». E il ricordo di Lida aveva sfumature diverse da quelle del loro precedente, reale rapporto: ricordò la volta in cui lei si era lamentata di essere stata punta da una zanzara e si grattava il polpaccio là dove era comparso il rossore sotto l’abbronzatura, e lui voleva mostrarle come fare con l’unghia un’incisione a croce sul gonfiore, e lei l’aveva schiaffeggiato sulla mano senza alcuna ragione. Ricordò anche la visita per congedarsi prima della partenza, e nessuno dei due sapeva cosa dire, e avevano continuato a parlare di Kolja che era a Jalta per degli acquisti, e il sollievo quando lui finalmente era ritornato. Il viso delicato di Lida, quell’ovale che aveva qualcosa della cerbiatta, ora lo tormentava ossessivamente. Mentre se ne stava disteso su un divano, sotto un orologio ticchettante nella cabina del comandante, di cui era diventato grande amico, oppure mentre, in riverente silenzio, condivideva il turno di guardia con il primo ufficiale, un canadese butterato che parlava di rado – e quando lo faceva, pronunciava l’inglese come se lo masticasse – ma che una volta aveva suscitato un brivido arcano nel cuore di Martin quando gli aveva detto che i vecchi lupi di mare non si siedono mai, neppure quando sono in pensione, che i nipotini stanno seduti ma i loro nonni camminano («il mare rimane nelle gambe»); mentre si abituava a tutte le novità nautiche, all’odore penetrante della nafta e al rollio della nave, ai diversi e strani tipi di pane, uno dei quali aveva il sapore della prosfora eucaristica russa, Martin cercava di convincersi che si era messo in viaggio per una sua pena, che stava piangendo un amore sfortunato, ma che nessuno, vedendo il suo viso tranquillo, già bruciato dal vento, avrebbe potuto sospettare quel tormento. Saltavano fuori continuamente persone misteriose e meravigliose: l’uomo che aveva noleggiato la nave, un puritano arcigno della Nuova Scozia, il cui impermeabile stava appeso nella toilette del comandante (che era in uno stato disastroso, ormai irrimediabile) e penzolava proprio sopra il sedile. C’era il secondo ufficiale, che si chiamava Patkin, un ebreo originario di Odessa nella cui parlata americana si percepivano ancora vaghi abbozzi di parole russe. Tra i marinai c’era un certo Silvio, ispano-americano, che andava sempre scalzo e armato di un pugnale. Un giorno il comandante comparve con una ferita alla mano; sulle prime disse di essere stato graffiato dal gatto, ma poi, in via d’amicizia, confessò a Martin che il taglio si doveva ai denti di Silvio, quando lui gli aveva dato un cazzotto perché si era ubriacato a bordo. In tal modo Martin fu iniziato alla vita del marinaio. La complessa struttura architettonica della nave, tutti quei gradini, il dedalo di corridoi, le porte a battente ben presto non ebbero più segreti per lui, ed era difficile trovare un angolo che ancora non conoscesse. Nel frattempo la signora con il foulard a righe pareva condividere le stesse curiosità di Martin, e la si vedeva comparire di sfuggita nei luoghi più inaspettati, sempre con i capelli scompigliati dal vento, sempre con lo sguardo fisso in lontananza; già dal secondo giorno il marito era stato costretto a rimanere disteso, prostrato e senza colletto, sulla panca ricoperta di tela cerata nella sala di prima classe, mentre su un’altra panca giaceva Sof’ja, con una fetta di limone fra le labbra. Ogni tanto anche Martin sentiva un vuoto che lo risucchiava alla bocca dello stomaco e una specie di instabilità generale, mentre invece la signora era di fibra forte, e Martin aveva già deciso che doveva essere lei la persona da salvare in caso di naufragio. Comunque, nonostante il mare agitato, la nave giunse sana e salva nel porto di Costantinopoli in un’alba fredda, velata da una foschia lattiginosa, e inaspettatamente comparve sul ponte un turco tutto bagnato, e Patkin, il quale riteneva che la quarantena dovesse essere reciproca, gridò: «Ti affogo!» (ja tebja utonu), arrivando addirittura a minacciarlo con la pistola. Il giorno dopo entrarono nel Mar di Marmara, e il Bosforo non lasciò alcuna traccia nella memoria di Martin salvo l’immagine di tre o quattro minareti che nella foschia somigliavano a ciminiere, e la voce della signora con l’impermeabile che parlava tra sé ad alta voce guardando la costa tetra; a Martin, che tendeva le orecchie per origliare, parve di udire l’aggettivo «ametista» (ametistovyj), ma concluse di essersi sbagliato.

8

Dopo Costantinopoli il cielo si schiarì, benché il mare rimanesse «očen’ (molto) increspato», come lo definì Patkin. Sof’ja si avventurò in coperta, ma ritornò subito nel salone dicendo che niente al mondo era più odioso di quell’abietto sollevarsi e abbassarsi dell’intestino all’unisono con il sollevarsi e l’abbassarsi della prua della nave. Il marito della signora gemeva, chiedeva al Signore quando sarebbe finito quel supplizio e con mani tremanti afferrò in tutta fretta la bacinella. Martin, che stringeva la mano della madre sdraiata, capì di dover uscire subito, altrimenti avrebbe vomitato anche lui. In quel momento la signora entrò con il suo foulard svolazzante e si rivolse al marito in tono compassionevole. Il marito, senza parlare o aprire gli occhi, fece un tipico gesto russo passandosi la mano di taglio sul pomo d’Adamo (come a dire: sono massacrato), dopo di che lei fece la stessa domanda a Sof’ja, che rispose con un sorriso da martire. «Mi pare che neppure lei se la stia spassando» disse la signora a Martin con uno sguardo di disapprovazione. Poi barcollò e gettandosi un lembo del foulard sopra la spalla uscì. Martin la seguì, e il vento fresco sul viso con la vista del mare blu elettrico, coperto di bianche pecorelle, lo fece sentire meglio. Lei si era seduta sopra un rotolo di cime e scriveva su un taccuino rilegato in cuoio. Due giorni prima un passeggero aveva detto di lei: «Niente male, quella donna», e Martin si era girato con rabbia, ma non era riuscito a identificare il mascalzone fra i tanti uomini di mezz’età, avviliti, che tenevano il bavero alzato. Ora, nel guardarle le labbra rosse su cui lei continuava a passare la lingua mentre la matita scorreva rapida sulla pagina, era imbarazzato, non sapeva di che cosa parlare, e avvertiva un sapore salino sulle labbra. Lei continuava a scrivere e sembrava non essersi accorta di lui. Eppure il bel viso tondo di Martin, i suoi diciassette anni, una certa elegante solidità del fisico e dei movimenti – spesso presente nei russi, ma chissà perché etichettata come «un che di inglese» –, insomma, l’aspetto generale di Martin nel suo cappotto blu con cintura aveva fatto un certo colpo sulla signora.
Aveva venticinque anni, si chiamava Alla, e scriveva poesie: tre cose che, è lecito pensare, rendevano affascinante una donna. I suoi poeti preferiti erano due mediocrità alla moda, Paul Géraldy e Viktor Gofman; e le sue poesie, così altisonanti, così seducenti, versi in cui all’uomo ci si rivolgeva sempre in modo formale, con il «voi» e non con il «tu», scintillavano di rubini rossi come il sangue. Una aveva riscosso da non molto un enorme successo nell’alta società di San Pietroburgo. Cominciava così:
Su sete porporine, sotto un drappo funebre imperiale,
voi mi vampirizzaste e tutta mi accarezzaste,
e domani morremo, fino in fondo bruciati;
i nostri bei corpi con la sabbia saranno amalgamati.
Le signore se la passavano per copiarla, la imparavano a memoria e la recitavano, e un cadetto della Marina arrivò addirittura a musicarla. Si era sposata a diciotto anni ed era rimasta fedele al marito per oltre due anni, ma il mondo che la circondava era impregnato dei vapori color rubino del peccato; maschi ben rasati e tenaci programmavano di suicidarsi sotto le sue finestre, chi alle diciannove di giovedì, chi a mezzanotte della vigilia di Natale, chi alle tre di mattina; gli appuntamenti si sovrapposero e divenne difficile andare a tutti quei convegni amorosi. Un granduca languiva per causa sua; per un mese Rasputin l’assillò di telefonate. E a volte lei diceva che la sua vita altro non era che il fumo evanescente di una sigaretta Régie profumata d’ambra.
Martin non capiva nulla di tutto questo. Le poesie di Alla lo lasciavano alquanto perplesso. Quando le disse che Costantinopoli non era affatto color ametista, lei replicò che mancava di immaginazione e all’arrivo ad Atene gli regalò Les Chansons de Bilitis di Pierre Louÿs nella dozzinale edizione illustrata con figure di adolescenti nude, e gliene leggeva dei brani con un’eloquente pronuncia francese, al calar della sera sull’Acropoli, il luogo più adatto, si potrebbe dire. La cosa che più affascinava Martin della lettura era il modo in cui lei pronunciava la «r», una sorta di increspatura, come se di lettere non ce ne fosse una sola bensì una sfilza intera, accompagnata, ove ciò non bastasse, dal suo riflesso nell’acqua. Ma invece di quelle notti bianche pietroburghesi declinate alla francese, notti coribantiche pervase dal suono di chitarre, o animate dai sonetti libertini di cinque stanze dattiliche, lui riuscì a scovare qualcosa di molto, molto diverso in questa ragazza con il nome difficile da assimilare. La conoscenza cominciata in modo inavvertito sulla nave continuò in Grecia, sulla spiaggia, in uno dei bianchi alberghi di Falero. A Sof’ja e al figlio capitò una sudicia stanzetta la cui unica finestra dava su un cortile polveroso dove, all’alba, dopo vari e tribolati preparativi, un preliminare battito d’ali e suoni analoghi, un galletto dava il via a una serie di chicchirichì rochi e gioiosi. Martin dormiva su un rigido divano azzurro e il letto di Sof’ja era stretto e traballante, con un materasso bitorzoluto. Nella stanza l’unico rappresentante del regno degli insetti era una pulce solitaria ma in compenso scaltrissima, vorace, e assolutamente inafferrabile. Alla, che aveva avuto la fortuna di capitare in un’ottima camera con due letti gemelli, propose che Sof’ja andasse a dormire da lei, mandando in cambio il marito nella stanza di Martin. Dopo avere risposto a più riprese: «Ma no, nemmeno a pensarci, nemmeno a pensarci», Sof’ja accettò volentieri, e il giorno stesso ebbe luogo il trasferimento. Černosvitov, grosso, allampanato e tetro, con la sua presenza riempì la stanzetta. A quanto parve, il suo sangue avvelenò immediatamente la pulce, che sparì una volta per tutte. I suoi oggetti da toletta – uno specchietto bisecato da un’incrinatura, acqua di colonia, un pennello da barba che dimenticava sempre di risciacquare e che rimaneva tutto il giorno, con le setole incollate dalla schiuma gelida, sul davanzale della finestra, sul tavolo, su una sedia – deprimevano Martin, e l’invasione era ancor più difficile da sopportare al momento di andare a dormire, quando il ragazzo era costretto a sgombrare il divano dalle varie cravatte e canottiere a rete dell’altro. Mentre si spogliava, Černosvitov si grattava svogliatamente tra uno sbadiglio e l’altro a bocca spalancata, poi appoggiava un piede nudo ed enorme sul bordo della sedia e, infilate le mani fra i capelli, si immobilizzava in quella posizione scomoda, quindi ricominciava lentamente a muoversi, caricava l’orologio, si infilava nel letto e con abbondanza di grugniti e gemiti cercava di dare una sistemata al materasso rigirandosi di qua e di là. Dopo un po’, nel buio, la sua voce pronunciava sempre la stessa frase: «Una richiesta particolare, ragazzo mio: non appestare l’aria». La mattina, mentre si radeva diceva invariabilmente: «Crema per il viso contro i foruncoli. Indispensabile alla tua età». Nel vestirsi, scegliendo quando possibile dei calzini che assicuravano il decoro avendo il buco sull’alluce e non sul calcagno, esclamava sempre (citando un famoso bardo): «Eh, già, un tempo anche noi fummo giovani corsieri» e fischiettava piano fra i denti. Era tutto assai monotono e poco divertente. Martin sorrideva con educazione.
Tuttavia, lo consolava la consapevolezza di correre un certo rischio. Poteva succedere che in una notte qualsiasi, durante un sogno traditore, pronunciasse un nome pieno di vocali; che in una notte qualsiasi il marito esasperato gli si avvicinasse furtivo con un rasoio affilato. Ovviamente, Černosvitov usava solo un rasoio di sicurezza; trattava quel piccolo strumento con la stessa trascuratezza del pennello da barba, e nel posacenere c’era sempre una lametta rugginosa con una frangia di schiuma pietrificata e cosparsa di peli neri. Per Martin quella tetraggine e quelle frasi insulse altro non erano se non la dimostrazione di una gelosia profonda ma ben controllata. L’uomo passava l’intera giornata ad Atene per affari ed era inevitabile che sospettasse della moglie, sola tutto il tempo con quel giovane amabile, tranquillo, eppure navigato, quale Martin credeva di essere.

9

Faceva molto caldo e c’era molta polvere. I bar servivano in una minuscola tazzina una sciacquatura nera, dolce e appiccicosa, insieme a un grande bicchiere di acqua gelata. Sulle recinzioni della spiaggia i manifesti con il nome di un soprano russo pendevano a brandelli. Il treno elettrico che andava ad Atene riempiva la giornata serena e pigra con un rombo sommesso, dopo di che ritornava il silenzio. Le casette sonnolente di Atene richiamavano alla mente una cittadina bavarese. In lontananza, i monti bruno-fulvi erano splendidi. Sull’Acropoli, papaveri smorti tremolavano al vento tra frammenti di marmo. Proprio dal centro della strada, come messi lì a casaccio, partivano i binari sui quali erano in sosta le carrozze dei treni diretti ai luoghi di villeggiatura. Nei giardini maturavano le arance. In un terreno privo di costruzioni si ergeva una fitta serie di colonne, una delle quali era caduta spezzandosi in tre punti. Tutto quel marmo giallo in rovina veniva gradualmente affidato alle cure della natura. L’albergo di Martin, destinato a restare nuovo per il breve arco di tempo concesso, avrebbe subìto il medesimo destino.
Mentre stava in piedi sulla spiaggia insieme ad Alla, Martin, con un brivido estasiato, si disse che stava vivendo in un incantevole paese remoto; e che sapore quel pensiero dava all’essere innamorato, che beatitudine starsene nel vento accanto a una donna ridente con i capelli scompigliati, la gonna a colori vivaci ora sollevata ora premuta contro le ginocchia dalla stessa brezza che un tempo aveva gonfiato le vele di Ulisse. Un giorno, mentre passeggiavano sulla sabbia ineguale, lei inciampò, Martin la sorresse, lei da sopra la spalla guardò la suola della scarpa sollevata in alto, con il tacco rivolto all’insù, poi inciampò di nuovo; ciò fu decisivo, e lui premette le labbra su quelle dischiuse di lei. Durante il lungo abbraccio, piuttosto goffo, poco mancò che perdessero l’equilibrio. Alla si liberò e, ridendo, gli disse che il suo bacio era troppo umido e avrebbe dovuto prendere qualche lezione. Martin si rendeva conto del tremito umiliante alle gambe e del battito precipitoso del cuore. Era furibondo con se stesso per quell’agitazione che gli riportava alla mente un momento preciso dopo una zuffa a scuola, quando i compagni di classe avevano esclamato: «Guarda com’è pallido!». Tuttavia, quel primo bacio della sua vita – a occhi chiusi e profondo, accompagnato da un fremito in un punto indefinito dentro di sé, di cui non capì subito l’origine precisa – fu così meraviglioso e appagò tanto generosamente le sue aspettative da dissipare ben presto il malumore. La giornata ventosa e convulsa passò fra ripetizioni e miglioramenti appassionati, e la sera Martin era stanco come se avesse trasportato dei tronchi. E quando Alla, insieme con il marito, entrò in sala da pranzo dove lui e la madre stavano già sbucciando le arance e si sedette al tavolo accanto al loro (aprendo con agili dita il tovagliolo ripiegato, lasciandolo cadere in grembo con un movimento rapido e lieve delle mani verso l’alto, e accostandosi poi al tavolo con la sedia), un lento rossore si diffuse sul volto di Martin, e a lungo gli mancò il coraggio di incrociare lo sguardo di Alla, ma quando infine lo fece, non colse alcun imbarazzo in quello di lei.
L’immaginazione avida e sfrenata di Martin sarebbe stata inconciliabile con la castità. Da due o tre anni era tormentato da fantasie «impure», che non si sforzava neanche troppo di respingere. All’inizio non erano collegate alle infatuazioni reali della prima adolescenza. In una memorabile notte d’inverno a San Pietroburgo, dopo avere preso parte a una recita casalinga, ancora truccato, con le sopracciglia ripassate a carbone e con indosso un camiciotto bianco alla russa, si era chiuso in uno sgabuzzino in compagnia di una cuginetta sua coetanea, anche lei truccata e con un foulard in testa che le scendeva fino alle sopracciglia; stringendole le manine umide aveva percepito intensamente la natura romantica del suo comportamento, ma non aveva provato alcuna eccitazione. Maurice Gerald, l’eroe di Mayne Reid, aveva fermato il proprio destriero accanto a quello di Louise Poindexter e aveva cinto con il braccio la vita flessuosa della bionda creola, e a questo punto l’autore aveva inserito un «a parte» personale: «Cosa può paragonarsi a un simile bacio?». Episodi analoghi gli procuravano brividi erotici molto più forti. Di solito, gli metteva il fuoco nelle vene ciò che era lontano, proibito, vago – qualsiasi cosa tanto indistinta da stimolare la sua fantasia a definirne i particolari –, sia che si trattasse di un ritratto di Lady Hamilton, sia di un compagno di classe che con gli occhi spalancati accennasse in un sussurro a «case di malaffare». Ora la nebbia si era diradata, la visibilità era migliore. Era troppo preso da quelle sensazioni per prestare la dovuta attenzione alle parole di Alla: «Per te, io rimarrò un sogno affascinante», «Sono follemente voluttuosa», «Non mi dimenticherai mai, come si dimentica “un vecchio romanzo letto molto tempo fa” (conosci questa canzone?)», «E non dovrai mai, mai parlare di me alle tue amanti future».
Quanto a Sof’ja, provava piacere e dispiacere allo stesso tempo. Se qualche conoscente le diceva, affettando un certo imbarazzo: «Oggi stavamo facendo una passeggiata quando lo abbiamo visto, già, proprio così, con quella poetessa sottobraccio... Ha perso completamente la testa, il suo figliolo», Sof’ja rispondeva che era perfettamente naturale alla sua età. Quella prima rivelazione delle passioni virili del figlio la riempiva d’orgoglio, ma non poteva fingere di ignorare il fatto che Alla, pur essendo una donna dolce e affabile, appariva forse un po’ troppo «leggera», se così si può dire; e mentre giustificava la follia del figlio, non faceva altrettanto con l’affascinante volgarità di Alla. Per fortuna il soggiorno in Grecia era ormai prossimo alla fine: nel giro di pochi giorni si aspettava di ricevere dalla Svizzera una lettera da Henry Edelweiss (cugino del marito) in risposta a una missiva molto franca, scritta con enorme difficoltà, circa la morte del marito e l’esaurimento dei loro mezzi finanziari. Henry andava spesso a trovarli in Russia, era buon amico sia suo sia del marito, voleva molto bene al nipote, e aveva sempre goduto fama di persona onesta e generosa. «Martin, ti ricordi quando è stata l’ultima volta che zio Henry è venuto a trovarci? Comunque, è stato prima, vero?». Quel «prima», che mancava sempre dell’oggetto, si riferiva a prima del litigio, prima della separazione dal marito, e anche Martin diceva sempre «prima» o «dopo» senza specificare ulteriormente. «Credo che sia stato dopo» rispose, ricordando che lo zio Henry era arrivato alla dacia e aveva avuto un lunghissimo colloquio privato con la madre dal quale era uscito con gli occhi arrossati perché era uno con le lacrime sempre in tasca, capace di piangere perfino se guardava un film. «Certo, è vero, che sciocca sono» confermò prontamente Sof’ja, ricostruendo subito la visita, la discussione a proposito del marito, le esortazioni di Henry affinché si riconciliassero. «E tu te lo ricordi bene, vero? Ogni volta che veniva, ti portava qualcosa».
«L’ultima volta era un interfono» disse Martin con una smorfia: installarlo era un lavoro noioso e, quando finalmente qualcuno lo fece, collegando la sua camera con quella della madre, l’apparecchio non funzionò mai a dovere, poi si ruppe definitivamente e fu dimenticato, insieme ad altri doni precedenti di zio Henry quali, per esempio, The Swiss Family Robinson, tediosissimo dopo avere letto il vero Robinson Crusoe, o i minuscoli vagoni merci di latta che avevano provocato lacrime segrete di delusione, perché a Martin piacevano solo i treni passeggeri.
«Perché fai quella smorfia?» chiese Sof’ja.
Lui glielo spiegò e lei disse ridendo: «È vero, sì, proprio così», e per un attimo smise di pensare alla fanciullezza di Martin, a cose ineffabili e definitivamente perdute, e quel fantasticare aveva un fascino struggente: come tutto passa in fretta!... Pensa un po’... ha cominciato a farsi la barba, ha le unghie pulite, quella cravatta lilla così chic, quella donna. «Quella donna è molto amabile, questo è certo,» disse Sof’ja «ma non credi che sia un pochino troppo vivace? Non dovresti lasciarti trasportare così. Dimmi... no, preferisco non chiederti niente. Solo che... dicono che a San Pietroburgo facesse terribilmente la civetta. E non raccontarmi che ti piacciono davvero le sue poesie! Quel demonismo femminile! È talmente affettata quando recita i versi. È vero che siete arrivati al punto di... non so, di tenervi per mano o qualcosa del genere?».
Martin sorrise enigmaticamente.
«Sono sicura che tra voi non c’è niente» disse Sof’ja, sorniona, studiando amorevolmente gli occhi scintillanti e parimenti sornioni del figlio. «Sono sicura che non c’è niente. Non sei ancora abbastanza grande».
Martin rise, lei lo strinse a sé e gli stampò un grosso bacio avido sulla guancia. Questo avveniva di primo mattino a un tavolo da giardino sulla terrazza davanti all’albergo. La giornata si preannunciava deliziosa; il cielo sgombro di nubi aveva ancora un aspetto caliginoso, faceva pensare al foglio di carta velina che talvolta protegge il frontespizio a colori vivaci dell’edizione di lusso di un libro di favole. Con attenzione, Martin sollevò quel foglio semitrasparente, ed ecco che scendendo i bianchi gradini e facendo oscillare quasi impercettibilmente le anche, con indosso una gonna bluette di crespo che ondeggiava avanti e indietro quando con calma calcolata protendeva la punta delle scarpe lustre, prima un piede e poi l’altro, mentre bilanciava ritmicamente la borsetta di broccato, e già sorridendo, i capelli con la scriminatura di lato, veniva verso di lui una donna dagli occhi luminosi, il collo snello e grandi orecchini neri che oscillavano, anch’essi, al ritmo della discesa. Martin le andò incontro, le baciò la mano, arretrò di un passo e lei, ridendo e arrotando la erre, salutò Sof’ja che, seduta in una poltrona di vimini, fumava una grossa sigaretta inglese, la prima dopo il caffè del mattino.
«Dormiva così bene, Alla, che non ho voluto svegliarla» disse Sof’ja, reggendo a una certa distanza il lungo bocchino smaltato e osservando con la coda dell’occhio Martin, che ora sedeva sulla balaustrata e faceva oscillare le gambe. Traboccante d’eccitazione, Alla cominciò a raccontare i sogni della notte precedente, meravigliosi sogni marmorei con sacerdoti dell’antica Grecia, sulla cui capacità di apparire in sogno Sof’ja era profondamente scettica. E la ghiaia innaffiata da poco luccicava umida.
La curiosità di Martin aumentò. Le lunghe passeggiate sulla spiaggia, e i baci che chiunque poteva spiare cominciarono a sembrargli una prefazione troppo lunga; contemporaneamente il desiderio del testo vero e proprio si mescolava con l’ansia: non riusciva a immaginare certi particolari e la sua inesperienza lo metteva in apprensione. Il giorno indimenticabile in cui Alla aveva detto che non era fatta di legno, che non doveva accarezzarla in quel modo, e che dopo il pranzo, al riparo da rischi perché il marito sarebbe stato in città e Sof’ja a godersi il sonnellino pomeridiano, lei sarebbe scivolata in camera di Martin per mostrargli le poesie di qualcuno – quel giorno fu proprio lo stesso iniziato con la conversazione sullo zio Henry e l’interfono. Quando, qualche tempo dopo, in Svizzera, lo zio Henry gli regalò per il suo compleanno una statuetta nera (un calciatore che palleggiava), Martin non seppe spiegarsi perché, nel momento stesso in cui lo zio depose l’oggetto inutile sul tavolo, affiorò il ricordo sorprendentemente chiaro di una lontana e dolce mattina in Grecia con Alla che scendeva la scalinata bianca. Subito dopo pranzo ritornò in camera sua, in attesa. Nascose il pennello da barba di Černosvitov dietro lo specchio: chissà perché, quell’oggetto lo imbarazzava. Dal cortile giungeva il rumore metallico dei secchi, dello sciabordare dell’acqua e il suono di una parlata gutturale. La tenda gialla della finestra si gonfiò e una chiazza di sole sul pavimento cambiò forma. Le mosche, anziché volare in tondo, tracciavano parallelogrammi e trapezoidi attorno all’asta del lampadario, posandosi di quando in quando sull’ottone. Si tolse la giacca e il colletto, si distese supino sul divano e si mise in sintonia con il battito sordo del cuore. Quando udì i passi leggeri di lei e poi bussare alla porta, fu come se gli si chiudesse la bocca dello stomaco. «Guarda, ne ho portato un bel mucchio» disse Alla con un sussurro di complicità, ma in quel momento a Martin non importava assolutamente niente delle poesie. «Ma che ragazzo selvaggio, buon Dio, che ragazzo selvaggio» lei continuava a mormorare mentre lo aiutava con discrezione. Martin accelerò, rincorse l’estasi, la raggiunse, e lei gli coprì la bocca con la mano bisbigliando: «Ssst... quelli della camera accanto...».
«Questo, perlomeno, è un oggetto piccolo che potrai tenere sempre con te» disse lo zio Henry con tono compiaciuto inclinandosi all’indietro in manifesta ammirazione della statuetta. «A diciotto anni bisogna già pensare a come abbellire il proprio studio futuro, e dato che ti piacciono gli sport inglesi...».
«È bellissima» disse Martin, che non desiderava offenderlo, facendo scorrere le dita sulla palla immobile davanti alla punta della scarpa del calciatore.
Lo chalet di legno era circondato da un fitto bosco di abeti; la nebbia nascondeva le montagne. La Grecia, calda e bronzea, apparteneva ormai al lontano passato. Ma com’era stata vibrante l’emozione di quel giorno di fierezza e gaudio: ho un’amante! Che aria complice aveva avuto il divano blu quella sera! Al momento di andare a letto, come al solito Černosvitov si grattò le scapole, si mostrò stanco, poi, nell’oscurità, si sistemò con i soliti cigolii, chiese di trattenere i venti, e infine cominciò a russare fischiando dal naso, mentre Martin pensava: «Ah, se solo sapesse...». E poi, un giorno, quando a rigor di logica il marito avrebbe dovuto trovarsi in città, mentre Alla si stava rivestendo nella camera di lui e di Martin (dopo «una sbirciatina in paradiso», come lei definiva i loro incontri), e quest’ultimo, sudato e scarmigliato, cercava un gemello della camicia caduto nello stesso paradiso, all’improvviso, spalancando la porta con una gomitata poderosa, Černosvitov entrò e disse: «Oh, ecco dove sei, mia cara. Ho dimenticato di prendere la lettera di Spiridonov, naturalmente. Sarebbe stato un bel pasticcio».
Alla lisciò con la mano la gonna stropicciata e chiese aggrottando le sopracciglia: «L’ha già firmata?».
«Quel vecchio bastardo di Bernstein continua a rimandare, perdendo tempo» rispose Černosvitov mentre frugava in una valigia. «Se vogliono ritardare il pagamento, allora che si tirino fuori dall’impiccio da soli, quei porci».
«Non dimenticare la proroga, che è la cosa più importante» disse Alla. «Allora, l’hai trovata?».
«Che sua madre marcisca all’inferno» borbottò Černosvitov, rovistando fra alcune buste. «Dev’essere qui. Non può essersi perduta».
«Se l’hai perduta, allora l’affare è andato a monte» disse lei con disappunto.
«Rimandare, rimandare» mormorò Černosvitov. «Non è il modo di comportarsi in affari. C’è da diventare matti. Avrò proprio piacere se Spiridonov rifiuterà».
«Adesso non agitarti così, salterà fuori» disse Alla, ma anche lei era chiaramente turbata.
«Eccola qui, grazie al cielo» esclamò Černosvitov, scorrendo in fretta il foglio che aveva trovato, la mascella pendula per la concentrazione.
«Non dimenticarti di parlare della proroga» gli ricordò Alla.
«Sta’ sicura» rispose Černosvitov uscendo in fretta dalla camera.
Quella conversazione d’affari lasciò Martin alquanto perplesso. Né il marito né la moglie avevano finto: si erano davvero dimenticati della sua presenza, tutti presi dai loro problemi. Ma Alla ritornò subito dell’umore precedente, fece battute sull’inefficienza delle serrature delle porte greche che si aprivano da sole, e non diede alcun peso alla domanda allarmata di Martin: «Oh, non ti preoccupare, non si è accorto di niente». Quella sera Martin tardò parecchio ad addormentarsi e, sempre con la stessa perplessità, continuò ad ascoltare il russare indifferente. Quando tre giorni dopo si imbarcò con la madre per Marsiglia, i due Černosvitov andarono a salutarli al Pireo; erano in piedi sulla banchina, sottobraccio, e Alla sventolava un ramoscello di mimosa. Ma il giorno prima aveva versato un paio di lacrime.

10

Su di lei, sull’illustrazione del frontespizio che, una volta sollevato il foglio di carta velina, si era rivelata un po’ dozzinale, un po’ troppo pacchiana, Martin sistemò di nuovo il velo della foschia e i colori riacquistarono il loro fascino misterioso.
Poi, sul grande transatlantico, dove tutto era pulito, lucido e spazioso, e c’erano un negozio che vendeva articoli da toletta, una galleria di dipinti e una bottega di barbiere, e di notte i passeggeri ballavano il two-step e il fox-trot sul ponte, ripensò con rapita nostalgia a quella donna amabile, con il torace incavato in modo commovente e gli occhi luminosi, e al modo in cui la sua fragile ossatura scricchiolava quando lui la stringeva fra le braccia, tanto da farle sussurrare: «Ahi, mi rompi». Intanto l’Africa si avvicinò, la striscia purpurea della Sicilia passò sull’orizzonte a nord, poi il bastimento scivolò fra la Corsica e la Sardegna, e tutti quei profili di terre torride che esistevano in qualche punto lì attorno, in qualche punto lì vicino, ma venivano superate senza che le si vedesse, ammaliarono Martin con la loro presenza incorporea. Durante il viaggio notturno da Marsiglia alla Svizzera gli parve di riconoscere fra le colline le amate luci e, nonostante non fosse più un train de luxe bensì un semplice rapido traballante, buio, sudicio di polvere di carbone, l’incanto era intenso come sempre: quelle luci, quei gemiti nella notte. Da Losanna andarono in auto allo chalet situato in montagna, circa mille metri più in alto, e Martin, seduto accanto all’autista, di quando in quando si voltava indietro e sorrideva alla madre e allo zio che indossavano entrambi occhialoni da motociclista e tenevano entrambi le mani in grembo, intrecciate nello stesso modo. Henry Edelweiss era rimasto scapolo, aveva baffi folti, e certe inflessioni della voce, come pure il vezzo di giocherellare con uno stuzzicadenti o con una limetta per unghie, gli rammentavano il padre. Nell’accogliere Sof’ja alla stazione di Losanna, lo zio Henry era scoppiato in pianto, coprendosi il viso con le mani, ma poi, al ristorante, si era calmato e in un francese alquanto ampolloso si era messo a parlare della Russia e dei viaggi che aveva fatto in passato in quel paese. «Che fortuna,» disse a Sof’ja «che grande fortuna che i tuoi genitori non siano vissuti tanto da vedere questa terribile rivoluzione. Ricordo benissimo la vecchia principessa, i suoi capelli candidi. Quanto era affezionata al povero, povero Serge» e, al ricordo del cugino, gli occhi gli si gonfiarono nuovamente di azzurre lacrime.
«Sì, è vero, mia madre gli era affezionata,» disse Sof’ja «però è anche vero che si affezionava a tutto e a tutti. Ma dimmi, come trovi Martin?» si affrettò ad aggiungere, nel tentativo di distogliere la mente di Henry da argomenti malinconici, i quali, nella sua bocca incorniciata dai morbidi baffi, assumevano un’insopportabile sfumatura patetica.
«Sì, sì, gli somiglia» disse Henry confermando con un cenno del capo. «La stessa fronte, la stessa bella...».
«Ma non lo trovi cresciuto?» lo interruppe prontamente Sof’ja. «E, pensa un po’, è già stato innamorato, una vera passione...».
Lo zio Henry passò a parlare di politica. «Questa rivoluzione» chiese in modo retorico «quanto può durare? Nessuno lo sa. La nostra bella, povera Russia sta morendo. Forse la mano risoluta di un dittatore potrebbe porre fine agli eccessi. Ma a tante cose bellissime... alle tue terre, alle tue terre devastate, alla tua dimora di campagna, bruciata da quella plebaglia di furfanti... a tutto quello, puoi dire addio».
«Quanto costa qui un paio di sci?» chiese Martin.
«Non lo so» rispose sospirando lo zio Henry. «Non mi sono mai dedicato a questo sport inglese. A proposito, parli francese con accento britannico. Non va bene. Dovremo porvi rimedio».
«Ha dimenticato molte cose» fece Sof’ja intercedendo per il figlio. «In questi ultimi anni Mademoiselle Planche non gli dava più lezioni».
«Deceduta» disse lo zio Henry con tono commosso. «Un’altra morte».
«No, no» corresse Sof’ja sorridendo. «Che cosa mai te lo ha fatto pensare? Ha sposato un finlandese e vive tranquilla a Vyborg».
«Comunque, è tutto molto triste» disse lo zio Henry. «Avevo tanto desiderato che un giorno Serge venisse qui con te. Ma i desideri non vengono mai esauditi, e solo Dio sa che cosa ci prepara il futuro. Se avete placato la fame e siete sicuri di non desiderare altro, possiamo metterci in marcia».
La strada era vivamente illuminata dal sole e tutta curve; sulla destra si innalzava una parete rocciosa con cespugli spinosi che crescevano fra gli interstizi, mentre sulla sinistra c’era un precipizio e una vallata in cui l’acqua scorreva giù lungo le cenge formando mezzelune di spuma; poi era la volta di conifere scure che in gruppi serrati comparivano ora su un lato della strada ora sull’altro; tutt’attorno si profilavano le montagne, che cambiavano posizione impercettibilmente; erano verdastre con strisce di neve; altre montagne, più grigie, si affacciavano alle loro spalle, e ancor più lontano si ergevano giganti di un candore violetto e opaco, e quelli rimanevano immobili, e il cielo che li sovrastava appariva sbiadito a confronto delle chiazze bluette tra le cime degli abeti neri sotto i quali correva l’auto. All’improvviso, con una sensazione per lui ancora nuova, Martin ricordò la fitta cortina di abeti che delimitava il loro parco in Russia, così come la vedeva attraverso una losanga di vetro celeste in veranda. E quando scese dall’auto distendendo le gambe un po’ tremanti e avvertendo un ronzio trasparente nella testa, lo colpì l’odore fresco e acre di terra e di neve che si scioglieva, e la rustica bellezza della casa dello zio. Sorgeva isolata, a mezzo chilometro di distanza dalla borgata più vicina, e dal balcone dell’ultimo piano si godeva una di quelle viste stupende la cui aerea perfezione incute addirittura timore. Lo stesso cielo azzurro delle primavere russe guardava dentro la finestra della toilette piccola e linda, odorosa di resina e legno. Tutt’attorno, nel giardino, con i bordi delle aiuole ancora nudi e neri e la fioritura candida dei meli, e nel bosco di abeti dietro il frutteto, e sulla strada sterrata che conduceva al paesino, c’era un silenzio fresco, gioioso, un silenzio che sapeva qualcosa, e Martin ebbe un capogiro, forse causato dal silenzio, forse dagli odori, o forse dalla ritrovata deliziosa immobilità dopo tre ore di viaggio.
Martin visse nello chalet fin quasi alla fine dell’autunno. Era già previsto che quell’inverno si iscrivesse all’Università di Ginevra ma, dopo un concitato scambio di lettere con amici inglesi, Sof’ja lo mandò a Cambridge. Lo zio Henry non si rassegnò subito a quella decisione: non gli piaceva l’Inghilterra, che reputava un paese insensibile e perfido. D’altra parte, però, il pensiero di quanto sarebbe costata la famosa università, anziché preoccuparlo, lo allettava. Infatti, pur amando economizzare sulle cose di poco conto, mentre teneva stretto un centesimo nella mano sinistra, firmava grossi assegni con la destra, specialmente quando la spesa era motivo d’onore. A volte, in modo alquanto commovente, fingeva una stravagante cocciutaggine, batteva il pugno sul tavolo, sbuffava tra i baffi e gridava: «Se lo faccio, è perché mi fa piacere!». Al che, sospirando, Sof’ja si rimetteva al polso l’orologio a braccialetto acquistato a Ginevra, mentre Henry, con gli occhi umidi, affondava la mano nella tasca per estrarne un fazzoletto voluminoso, strombazzava un paio di volte e poi si lisciava i baffi a destra e a sinistra.
All’inizio dell’estate i greggi di pecore marchiati con una croce erano condotti più in alto sulle montagne. Da un punto lontano, imprecisato, giungeva un mormorio indefinibile, metallico e tintinnante, che diventava via via più distinto. Si avvicinava fluttuando nell’aria fino ad avvolgere l’ascoltatore provocandogli una strana sensazione di solletico nella bocca. Poi, in una nuvola di polvere, cominciava a scorrere una massa grigia, ricciuta e compatta di pecore che si sfregavano l’una contro l’altra, e il tintinnio lamentoso e sordo delle campanelle, che deliziava tutti i sensi, aumentava e si gonfiava misteriosamente, tanto che la polvere stessa sembrava squillare mentre si levava in grandi volute sopra le groppe delle pecore in movimento. Di quando in quando una si separava dalle altre e le superava trotterellando, al che un cane dal pelo lungo la riconduceva nel gregge; e dietro, camminando adagio, veniva il pastore. Poi lo scampanellio cambiava timbro, ritornando più sordo e debole, ma rimaneva sospeso nell’aria a lungo, insieme con la polvere. «Bello, bello!» mormorò Martin fra sé, ascoltandolo finché non scomparve del tutto, e continuò la passeggiata preferita che iniziava da un viottolo di campagna e proseguiva su sentieri fra i boschi. Tutt’a un tratto la foresta di abeti si diradò e apparvero verdi prati lussureggianti, e il sentiero sassoso scese fra siepi di biancospino. Ogni tanto una mucca con il naso umido e rosa che procedeva in senso contrario gli si fermava davanti, muoveva a scatti la coda e con uno scarto improvviso del capo riprendeva il cammino. La seguiva una vecchina energica con un bastone, che gettò un’occhiata malevola a Martin. Un po’ più in basso, circondato da pioppi e aceri, c’era un grande albergo bianco, che apparteneva a un lontano cugino di Henry Edelweiss.
Nel corso dell’estate Martin si irrobustì, le spalle gli si allargarono e la voce acquistò un tono uniforme e profondo. Ma contemporaneamente il ragazzo si sentiva confuso e provava sensazioni che non capiva molto bene, evocate da cose diverse, come la frescura agreste delle stanze che si percepiva così intensamente dopo la calura fuori; un grosso bombo che cozzava contro il soffitto con un ronzio di disappunto; gli artigli degli abeti contro l’azzurro del cielo; o il boleto bruno e sodo trovato sul limitare del bosco. L’imminente trasferimento in Inghilterra lo eccitava e lo rallegrava. Il ricordo di Alla Černosvitov aveva raggiunto il livello ultimo di perfezione, e Martin si diceva di non avere apprezzato quanto meritavano i giorni felici in Grecia. La sete che lei aveva placato, solo per renderla ancor più intensa, in quell’estate alpina lo tormentava al punto che di notte rimaneva sveglio a lungo immaginando, fra numerose avventure, tutte le ragazze che aspettavano solo lui nelle città a venire, e a volte pronunciava a voce alta un nome femminile – Isabella, Nina, Margarita –, un nome ancora freddo e disabitato, una casa vuota e rimbombante, la cui padrona tardava a insediarvisi; ed egli cercava di indovinare quale di quei nomi si sarebbe incarnato all’improvviso, diventando vivo e familiare al punto che non avrebbe mai più potuto pronunciarlo avvolto nel mistero come faceva ora.
La mattina Marie, nipote della vecchia cameriera dell’albergo, andava a dare una mano per sbrigare le faccende di casa. Aveva diciassette anni, era silenziosa e aggraziata, con le gote soffuse di un rosa intenso e trecce bionde strettamente attorcigliate attorno al capo. A volte, mentre Martin era in giardino, lei spalancava una finestra del piano di sopra, scuoteva lo straccio della polvere e rimaneva immobile a guardare, forse, le nuvole luminose, le loro ombre ovali che scivolavano lungo i pendii montani, poi si passava il dorso della mano sulla tempia e lentamente rientrava. Martin saliva alle camere da letto, dalle correnti d’aria capiva dove si stavano facendo le pulizie e trovava Marie inginocchiata in meditazione tra il luccichio del parquet bagnato; la vedeva di schiena, con le calze di lana nera e il vestito a pois verdi. Lei non lo guardò mai, salvo una volta – e che avvenimento fu! – quando, passando con un secchio vuoto, sorrise incerta, con tenerezza... non a lui, però, ma ai pulcini. Martin si ripromise fermamente di parlarle e di stringerla in un abbraccio furtivo. Ma una volta, dopo che Marie se n’era andata, Sof’ja annusò l’aria, fece una smorfia e si affrettò a spalancare tutte le finestre, e Martin fu preso da sgomento e da ripugnanza nei confronti di Marie; solo molto gradualmente, a forza di vederla comparire in lontananza – incorniciata nell’intelaiatura di una finestra o tra il fogliame vicino al pozzo –, ricominciò a soccombere all’incantesimo: ma adesso aveva paura ad avvicinarsi a lei. Accadeva così che molte cose gioiose e languide lo allettassero da lontano, ma non erano destinate a lui. Una volta, dopo essersi arrampicato in alto sulla montagna, si accovacciò sul bordo rotondo di un grosso masso; più in basso lungo il sentiero serpeggiante un gregge procedeva con un tintinnio melodioso e malinconico; lo seguivano un pastore allegro e cencioso e una ragazza sorridente che nel camminare faceva la calza. Passarono senza gettare neppure un’occhiata a Martin, come se fosse stato incorporeo, e lui li seguì a lungo con lo sguardo. Senza interrompere il passo, l’uomo cinse con un braccio le spalle della compagna, e dall’inclinazione della nuca della giovane si capì che lei continuava a sferruzzare, finché non scomparvero in un’altra vallata. Oppure, capitava che signorine sbracciate in abito bianco, gridando e scacciando i tafani con le racchette, comparissero vicino al campo da tennis davanti all’albergo, ma non appena cominciavano a giocare diventavano goffe e inette, anche perché Martin era un tennista eccellente che sbaragliava tutti i giovani argentini dell’albergo: fin da giovanissimo aveva assimilato l’armonia indispensabile per trarre il massimo piacere dalle qualità peculiari della sfera, la coordinazione di tutti gli elementi che concorrevano al colpo inferto alla palla bianca, affinché lo slancio che iniziava con un movimento ad arco del braccio continuasse dopo la vibrazione sonora delle corde tese, percorrendo i muscoli del braccio su fino alla spalla, come a chiudere il cerchio fluido dal quale, altrettanto fluidamente, nasce il colpo successivo. Un caldo giorno d’agosto sul campo da tennis comparve Bob Kitson, un professionista di Nizza, e invitò Martin a giocare. Martin sentì il noto, stupido tremito, la vendetta di un’immaginazione troppo fervida. Ciò nonostante, cominciò bene, ora con una volée da vicino alla rete, ora con battute vigorose dalla linea di fondo fino all’angolo più lontano. Attorno al campo si erano radunati degli spettatori, e ciò gli fece piacere. Aveva il viso in fiamme e una sete da impazzire. Nel servire, calando con forza la racchetta sulla palla e trasformando immediatamente l’inclinazione del corpo in una corsa veloce verso la rete, Martin stava per vincere il set. Ma il professionista, un giovanotto con gli occhiali, allampanato e imperturbabile, il cui gioco fino a quel momento era sembrato una specie di pigra passeggiata, si svegliò di colpo e con cinque risposte fulminee pareggiò. Martin cominciò a sentire la stanchezza e una certa inquietudine. Aveva il sole negli occhi. La camicia continuava a venire fuori da sotto la cintura. Se l’avversario si fosse aggiudicato il punto successivo, non ci sarebbe stato più niente da fare. Kitson fece un pallonetto da una posizione d’angolo scomoda, e Martin, indietreggiando in una specie di cake-walk, si preparò a schiacciare la palla. Nell’abbassare la racchetta ebbe la fuggevole visione della sconfitta e della gioia maligna dei suoi avversari abituali. Ahimè, la palla finì mollemente contro la rete. «Sfortuna» disse Kitson con tono brioso, e Martin rispose con un sorriso tirato, controllando eroicamente il disappunto.

11

Ritornando a casa ripassò mentalmente ogni colpo, trasformando la sconfitta in vittoria, e poi scosse il capo: com’era difficile, davvero difficile, conquistare la felicità! Ruscelli gorgogliavano, nascosti tra il fogliame; farfalle turchine si alzavano svolazzando da pozze umide sulla strada; uccelli si affaccendavano nei cespugli: tutto era radioso e spensierato in modo deprimente. La sera, dopo cena, come al solito si sedettero in salotto; la porta che dava sull’esterno era spalancata e, dal momento che era mancata la corrente, nei lampadari ardevano le candele. Ogni tanto la fiamma s’inclinava e ombre nere uscivano strisciando da sotto le poltrone. Martin si metteva le dita nel naso mentre leggeva un volumetto di Maupassant dalle illustrazioni antiquate: un baffuto Bel Ami che portava un colletto duro svestiva, con la perizia di una cameriera per signora, una donna dai fianchi larghi fintamente ritrosa. Lo zio Henry aveva posato il quotidiano e, le mani sui fianchi, studiava le carte che Sof’ja disponeva su un tavolo ricoperto di un tappeto verde. La notte calda e buia premeva alla finestra e alla porta per entrare. A un tratto Martin sollevò la testa e rimase in ascolto come se un vago invito provenisse da quell’armonia tra la notte e la fiamma delle candele. «L’ultima volte che il solitario mi è riuscito è stato in Russia» disse Sof’ja. «Di solito esce molto raramente». Allargando le dita, raccolse le carte sparse sul tavolo e ricominciò a mescolarle. Lo zio Henry sospirò.
Stanco di leggere, Martin si stiracchiò e uscì sullo spiazzo antistante la casa. Fuori era molto buio e l’aria odorava di umidità e di fiori notturni. Cadde una stella: come succede spesso – e la cosa è irritante –, la stella non cadde proprio nel suo campo visivo, ma un po’ di lato, cosicché l’occhio colse solo la sensazione di un cambiamento silente nel cielo. Il profilo delle montagne era indistinto, e qua e là, nei recessi dell’oscurità, a gruppi di due o tre scintillavano punti luminosi. «Travel» disse Martin sottovoce, e ripeté la parola a lungo, fino a svuotarla di ogni significato, dopo di che rimosse la pelle lunga e setosa di cui la parola si era liberata, e subito quella riprese vita. «Star. Mist. Velvet. Travelvet» pronunciava distintamente, meticolosamente, meravigliandosi ogni volta di quanto poco il significato permanga nel suono. In quale luogo remoto era arrivato il nostro giovane, quali terre lontane aveva già visto, e che cosa ci faceva lì, di notte, tra le montagne, e perché nel mondo era tutto così strano, così elettrizzante? «Elettrizzante» ripeté Martin ad alta voce, e la parola gli piacque. Un’altra stella rotolò via. Concentrò lo sguardo sul cielo come, molto tempo prima, mentre a bordo di una Vittoria ritornavano a casa dalla tenuta di un vicino lungo una buia strada nel bosco, un Martin piccolissimo, cullato dal dondolio della vettura, gettava indietro la testa per guardare, tra il folto degli alberi, il fiume celeste lungo il quale egli stava fluttuando. Dove, si chiese, nel corso della vita avrebbe ancora contemplato – come allora, come adesso – il cielo notturno? Su quale banchina, in quale stazione, in quale piazza? Una sensazione di ridondante solitudine che spesso aveva provato in mezzo alla folla – il piacere che provava nel dirsi: Non una di queste persone che badano ai fatti propri sa chi sono, da dove vengo, che cosa penso in questo momento – era una sensazione indispensabile perché la felicità fosse completa, e Martin, in una specie di estasi che lasciava senza fiato, immaginò di trovarsi completamente solo in una città straniera – Londra, per esempio – e vagare di notte per strade sconosciute. Vedeva le nere carrozzelle a due ruote con il cocchiere a tergo che passavano sollevando schizzi nella nebbia, un poliziotto con la lucida mantellina nera, le luci sul Tamigi, e altre immagini tratte da romanzi inglesi. Aveva lasciato il bagaglio alla stazione e ora passava davanti a innumerevoli negozi illuminati, cercando eccitato Isabel, Nina, Margaret... qualcuna che avrebbe dato un nome a quella notte. E lei... lei chi avrebbe pensato che lui fosse? Un artista, un marinaio, un ladro gentiluomo? Lei non avrebbe accettato il suo denaro, sarebbe stata amorevole, e la mattina non avrebbe voluto lasciarlo andare via. Ma com’erano nebbiose le strade e com’erano affollate, e com’era difficile la ricerca! E nonostante vi fossero tante cose diverse da come le aveva immaginate, e di carrozzelle a due ruote non ne restassero più molte, riconobbe ugualmente qualcosa quando, una sera d’autunno, uscì senza bagaglio dalla Victoria Station; riconobbe l’aria buia, viscida, la mantellina di tela cerata del bobby luccicante di pioggia, i riverberi di luce, lo sciabordio dell’acqua. Alla stazione aveva fatto un’ottima doccia in un cubicolo simpatico e pulito, si era asciugato con un asciugamano caldo e soffice che gli aveva portato un inserviente dalle guance rubiconde, aveva indossato biancheria pulita e l’abito migliore, depositato le due valigie, e adesso era fiero di essersi comportato tanto assennatamente. Non sentiva la fatica del viaggio; provava solo un’eccitazione euforica. Grossi autobus nel passare sollevavano violenti, poderosi schizzi d’acqua dalle pozzanghere disseminate sull’asfalto. Insegne luminose scalavano rapide le facciate rosso scuro delle case per poi dissolversi. Incrociava delle ragazze, si girava a guardarle, ma più erano graziose, più era difficile buttarsi. Lì non esistevano bar invitanti come ad Atene o Losanna, e nel pub dove bevve un bicchiere di birra vide solo uomini dai volti accesi, cupi, con un reticolo di venuzze rosse nel bianco degli occhi sporgenti. A poco a poco fu sopraffatto da un vago senso di irritazione: la famiglia russa presso la quale, secondo gli accordi epistolari, si sarebbe fermato per una settimana in quel momento lo stava aspettando e cominciava a preoccuparsi. Doveva prendere tranquillamente un taxi e mettere una pietra sopra la notte vagheggiata? Tale mancanza di fiducia gli parve vergognosa. Quanto intensamente aveva desiderato quella notte fin dalla mattina all’alba, guardando dal finestrino del treno le pianure, il freddo cielo rosato, la nera sagoma di un mulino a vento. «Codardia e tradimento» disse sottovoce. Si accorse di stare percorrendo la stessa strada per la seconda volta, la riconobbe da una vetrina piena di collane di perle. Si fermò ed ebbe immediata conferma della sua avversione di lunga data per le perle: emorroidi di ostrica con una lucentezza malsana. Una ragazza sotto un ombrello gli si fermò accanto. Martin la guardò con la coda dell’occhio: corpo snello, tailleur nero, luccicante spilla sul cappello. Lei girò il viso verso di lui, sorrise e, increspando le labbra, emise un lieve «ooh!». Nei suoi occhi Martin vide le luci scintillanti, il gioco dei colori riflessi, il luccichio della pioggia, e con voce rauca mormorò: «Buonasera».
Non appena furono nell’oscurità del taxi lui l’abbracciò, eccitato fino al parossismo dall’arrendevole esilità di quel corpo. Lei si coprì il volto con le mani, ridacchiando. Poi, nella camera d’albergo, quando lui estrasse goffamente il portafoglio, lei disse: «No, no. Piuttosto, portami domani in un ristorante di lusso». Gli chiese da dove venisse, se era francese, e su richiesta di Martin cercò di indovinare: belga? danese? olandese? Non gli credette quando le disse di essere russo. Dopo un po’, lui buttò là che si manteneva giocando d’azzardo sui transatlantici, le raccontò dei suoi viaggi, abbellendoli qui, aggiungendo qualcosa là, e mentre le descriveva una Napoli che non aveva mai visto, rimirava teneramente le sue spalle nude e infantili e il caschetto biondo sentendosi perfettamente felice. La mattina seguente, di buon’ora, mentre lui dormiva, lei si vestì in fretta e se ne andò rubandogli dieci sterline dal portafoglio. «La mattina dopo l’orgia» pensò Martin con un sorriso, chiudendo bruscamente il portafoglio che aveva raccolto da terra. Si versò addosso l’acqua della brocca spargendola dappertutto, e continuò a sorridere mentre ripensava alla notte di beatitudine. Era un po’ un peccato che se ne fosse andata via in modo tanto sciocco, che non l’avrebbe più rivista. Si chiamava Bess. Quando uscì dall’albergo e s’incamminò per le spaziose strade mattutine, aveva voglia di saltare e cantare di gioia, e per sfogare tutta quella euforia si arrampicò su una scala appoggiata a un lampione, con il risultato di iniziare una discussione lunga e comica con un anziano passante il quale, da sotto, lo minacciava agitando il bastone.

12

La seconda reprimenda gliela fece Ol’ga Zilanov. Il giorno prima la signora l’aveva atteso fino a tarda notte e dato che, chissà come, lo credeva più giovane e più sprovveduto di quanto Martin non risultò essere in realtà, aveva finito con il preoccuparsi seriamente. Lui le spiegò che il giorno precedente aveva riposto l’indirizzo nel posto sbagliato e quando lo aveva trovato in una tasca che usava raramente era ormai troppo tardi, così si era risolto a passare la notte in un albergo vicino alla stazione. La signora Zilanov gli chiese perché non avesse telefonato e di quale albergo si trattasse. Martin inventò lì per lì un nome insolito che gli parve adatto, Albergo della Buonanotte, e spiegò di avere cercato il numero sull’elenco telefonico e di non averlo trovato. «Vergogna!» disse irritata la signora Zilanov e poi all’improvviso sorrise: un sorriso stupendo, bellissimo che trasformò completamente il suo volto flaccido e malinconico. Martin ricordava quel sorriso dai giorni di San Pietroburgo e, poiché allora era un bambino e le donne di solito sorridono ai bambini che non conoscono, la memoria aveva conservato l’espressione radiosa della signora Zilanov, e sulle prime egli era rimasto sconcertato nel trovarsela davanti così vecchia e triste.
Il marito, a suo tempo un personaggio pubblico molto noto in Russia, era fuori città e Martin fu sistemato nel suo studio; questo e la sala da pranzo si trovavano al pianterreno, il salotto al primo piano, e le camere da letto al secondo. In quella strada residenziale e tranquilla le case erano tutte strette, indistinguibili l’una dall’altra, con la stessa identica distribuzione degli ambienti all’interno. Una cassetta postale rossa e tondeggiante situata all’angolo della via conferiva un tocco di colore. Dietro la fila di case sul lato destro della strada c’erano giardini in cui d’estate fiorivano i rododendri, e dietro quella sul lato sinistro vi era un piccolo parco con grandi olmi e un campo da tennis erboso che stava ingiallendo.
La figlia maggiore di Zilanov, Nelly, aveva da poco sposato un ufficiale dell’esercito russo giunto in Inghilterra dopo un periodo di prigionia in Germania. Sonja, la figlia minore, stava per terminare gli studi presso una scuola media privata di Londra, dove si era trasferita dal Ginnasio Stojunin di San Pietroburgo. C’era anche la sorella della signora Zilanov, Elena, con la figlia Irina, una povera creatura stupida e ripugnante.
La settimana che Martin trascorse in quella casa abituandosi all’Inghilterra gli sembrò piuttosto noiosa. Trascorreva tutto il santo giorno tra persone sconosciute e non poteva fare neppure un passo da solo. Sonja lo stuzzicava deridendo il suo vestiario: le camicie con i polsini inamidati e sparato piuttosto rigido, i calzini viola che erano i suoi preferiti, le scarpe giallo-arancio con una impuntura in rilievo sulla tomaia, acquistate ad Atene. «Sono americane» disse Martin con studiata calma.
«Gli americani le fanno appositamente per venderle ai negri e ai russi» rispose la lingua svelta di Sonja. E inoltre, dato che Martin non aveva portato la vestaglia e la mattina si recava in bagno orgogliosamente avvolto nella biancheria da letto, Sonja diceva che ciò le ricordava i cugini e i loro compagni del liceo i quali, ospiti degli Zilanov nella dimora di campagna, dormivano nudi e la mattina giravano avvolti nelle lenzuola e orinavano in giardino. Fu così che Martin dovette fare acquisti a Londra tali da richiedere ben più di dieci sterline e fu costretto a scrivere allo zio, il che risultò particolarmente sgradevole per via delle confuse spiegazioni con cui dovette giustificare la scomparsa delle altre dieci sterline. Sì, fu una settimana difficile e spiacevole. Perfino il suo accento inglese, di cui andava segretamente orgoglioso, fornì a Sonja l’occasione di correggerlo con toni derisori. Così Martin, del tutto inaspettatamente, si trovò classificato come ignorante, adolescente, e cocco di mamma. Lo trovò ingiusto, lui che aveva avuto infinitamente più esperienze e avventure di una donzella sedicenne. Fu quindi con una certa gioia maligna che stracciò al tennis alcuni giovanotti amici di Sonja e che l’ultima sera ebbe l’occasione di dimostrare come sapeva ballare un impeccabile two-step (appreso durante i suoi giorni mediterranei) al suono dei gemiti hawaiani emessi dal fonografo.
Ancor più estraneo si sentì a Cambridge. Parlando con i compagni di studi inglesi fu sorpreso nel rendersi conto della propria natura russa, inconfondibile. Dell’infanzia semi-inglese gli erano rimaste soltanto quelle cose che i suoi coetanei inglesi, pur avendo letto da bambini gli stessi suoi libri, avevano relegato nella vaghezza del passato, che giustamente destiniamo ad accogliere cose infantili, mentre invece a un certo punto la vita di Martin aveva subìto una brusca svolta prendendo un corso diverso, e per tale ragione l’ambiente e le abitudini dell’infanzia avevano assunto un certo sapore di fiaba, e un libro che a quel tempo gli era stato molto caro ora appariva più incantevole e vivido nel suo ricordo che in quello dei coetanei inglesi. Ricordava alcuni modi di dire che dieci anni prima erano di uso corrente fra gli scolari inglesi, ma che adesso erano considerati rozzi o ridicolmente antiquati. A San Pietroburgo il budino di prugne avvolto in una fiamma blu non si serviva solo a Natale, come in Inghilterra, ma in qualunque giorno dell’anno, e molti sostenevano che il budino del cuoco degli Edelweiss fosse migliore di quelli venduti nei negozi. I pietroburghesi giocavano al calcio sulla dura terra, non su prati erbosi, e il calcio di rigore si chiamava pendel’, termine sconosciuto in Inghilterra. Adesso Martin non avrebbe più osato indossare i colori della maglia a righe acquistata molto tempo prima da Drew, il negozio inglese sul Nevskij, perché corrispondevano alla divisa sportiva di una scuola secondaria privata che non aveva mai frequentato. Infatti, tutta quella anglicità, a dire il vero alquanto sui generis, era passata per il filtro della quiddità della madrepatria acquistando sfumature tipicamente russe.

13

Lo splendido autunno di cui Martin aveva goduto poco prima in Svizzera continuava inspiegabilmente a indugiare sullo sfondo delle sue prime impressioni di Cambridge. La mattina, le Alpi erano avvolte da una sottile foschia. Un ramo spezzato con un grappolo di sorbe selvatiche giaceva in mezzo alla strada, i cui solchi erano velati da una patina di ghiaccio simile a mica. Nonostante l’assenza di vento, il fogliame giallo vivo delle betulle si diradava di giorno in giorno e il cielo turchese occhieggiava tra le foglie con pensosa allegria. Le felci lussureggianti si tingevano di sfumature rossastre; lacere ragnatele iridescenti, che lo zio Henry chiamava «capelli della Madonna», fluttuavano qua e là. Martin sollevava lo sguardo verso l’alto, credendo di udire in lontananza il chiasso di gru migratrici, ma nessuna gru era in vista. Girovagava parecchio, come se cercasse qualcosa; sulla bicicletta decrepita di un domestico percorreva i sentieri fruscianti mentre la madre, seduta su una panchina sotto un acero, con la punta del bastone da passeggio forava pensosa le umide foglie cremisi sparse sul terreno bruno. Una bellezza così selvaggia e varia non esisteva in Inghilterra, dove la natura sembrava coltivata in serra, e nei giardini geometrici un autunno prosaico andava lentamente svanendo sotto un cielo piovigginoso. Ciò nonostante, i muri grigio-rosati, i prati rettangolari coperti di pallida brina argentea nelle rare mattine di sole, il fiume stretto, il ponte di pietra il cui arco formava un cerchio completo con la sua immagine riflessa possedevano tutti una loro intrinseca bellezza.
Né il brutto tempo né il freddo gelido della camera da letto, che per tradizione non era consentito riscaldare, riuscivano ad alterare la riflessiva joie de vivre così tipica di Martin. Si affezionò sinceramente al piccolo soggiorno, al caminetto confortevole, alla pianola impolverata, alle innocue litografie sulle pareti, alle basse poltroncine di vimini e alle dozzinali cianfrusaglie di porcellana sui ripiani. Quando, la sera tardi, la sacra fiamma del caminetto minacciava di estinguersi, radunava le braci, vi ammucchiava sopra dei pezzetti di legno, poi un monticello di carbone, faceva vento sul fuoco con il soffietto asmatico e favoriva il tiraggio allargando un’ampia pagina del «Times» davanti al focolare. Il foglio teso diventava caldo e trasparente, e le righe di stampa, mescolandosi a quelle che comparivano dal retro del foglio, sembravano i caratteri bizzarri di un linguaggio astruso. Poi, via via che cresceva il borbottio sordo e il fuoco cominciava a divampare, sul giornale diventava visibile una macchia rossiccia come pelo di volpe che andava scurendosi finché improvvisamente si squarciava lasciando irrompere la lingua di fuoco. Il foglio intero, ora in fiamme, veniva subito risucchiato all’interno e volava verso l’alto. E un passante ritardatario, un docente in toga, vedeva, nelle tenebre della notte gotica, una strega con i capelli rosso fiamma emergere dal camino nella notte stellata. Il giorno dopo Martin pagava un’ammenda.
Essendo di temperamento vivace e socievole, Martin non rimase solo a lungo. Ben presto fece amicizia con il vicino del piano di sotto, Darwin, come pure con vari individui conosciuti sul campo da calcio, al club e alla mensa. Notò che tutti si sentivano in dovere di parlare con lui della Russia e di chiedergli che cosa ne pensasse della rivoluzione, dell’intervento, di Lenin e di Trockij; mentre alcuni, che avevano visitato la Russia, ne elogiavano l’ospitalità e gli domandavano se conosceva un certo signor Ivanov di Mosca. Quei discorsi lo indisponevano e con fare indifferente prendeva un volume di Puškin dalla scrivania e cominciava a leggere ad alta voce Autunno nella traduzione di Archibald Moon:
Oh, malinconica stagione! Visivo incanto!
Dolce mi è la tua grazia del commiato!
Amo della natura lo sfarzoso appassire
e i boschi abbigliati di porpora e d’oro.
Questo suscitava un certo stupore, e soltanto Darwin, un inglese grande e grosso dall’aria assonnata, in pullover giallo canarino, che se ne stava stravaccato in una poltrona succhiando rumorosamente la pipa, gli occhi rivolti al soffitto, mostrava di approvare cenni del capo.
Questo Darwin, che spesso faceva una capatina dopo cena, illustrò a beneficio di Martin alcune regole ferree e primordiali: lo studente non doveva uscire con cappello e cappotto, per quanto freddo facesse; nell’incontrare un conoscente, quand’anche si fosse trattato di Atom Thompson in persona, non doveva stringergli la mano, né augurargli buongiorno, ma limitarsi a un largo sorriso e a un’esclamazione briosa. Era considerato sconveniente andare sul fiume in una normale barca a remi: c’erano barchini con la pertica e canoe adatti allo scopo. Doveva evitare accuratamente di ripetere alcune vetuste battute di spirito tipiche del college, di cui le matricole si appropriavano subito. «Ricorda, però,» aggiunse saggiamente Darwin «che non devi neppure esagerare nell’osservare queste usanze: a volte, per scioccare gli snob, non è male uscirsene in bombetta e con l’ombrello sotto il braccio». Martin ebbe l’impressione che Darwin fosse all’università già da parecchi anni e se ne dolse per lui, come gli dispiaceva per chiunque facesse una vita da pantofolaio. Di Darwin lo stupivano la sonnolenza, i movimenti indolenti, una cert’aria di benessere che emanava da tutta la sua persona. Cercando di suscitarne l’invidia, gli raccontò con irruenza le sue peregrinazioni, integrando inconsciamente qua e là il racconto con alcune cose che aveva inventato per fare colpo su Bess, e notando a malapena come le menzogne avessero finito col prendere consistenza veritiera. Certo, erano esagerazioni innocenti: i due o tre picnic sull’altopiano della Crimea si erano trasformati in vagabondaggi abituali nelle steppe con bastone e zaino in spalla; Alla Černosvitov era diventata una misteriosa compagna di crociere su panfili, le loro passeggiate un lungo soggiorno su un’isola greca, e la sagoma violacea della Sicilia veri e propri giardini e ville. Darwin continuava ad approvare con cenni del capo senza distogliere lo sguardo dal soffitto. Gli occhi cerulei erano vuoti e inespressivi; le suole delle scarpe, che metteva sempre in mostra in quanto gli piaceva stare semisdraiato con i piedi comodamente sollevati, erano provviste di un sistema complicato di strisce di gomma. In lui tutto, dai piedi calzati solidamente al naso ossuto, era di ottima qualità, grande, e imperturbabile.

14

Circa tre volte al mese Martin veniva convocato dal suo «tutor», il professore incaricato di controllare la frequenza alle lezioni, di visitare gli studenti ammalati, di concedere permessi per viaggi a Londra, e di somministrare reprimende a chi era stato multato (per un rientro dopo mezzanotte o per non avere indossato la toga accademica di sera). Era un vecchietto raggrinzito, dal piede varo e dagli occhi penetranti, latinista, traduttore di Orazio, e ghiotto di ostriche. «Il suo inglese sta migliorando» disse una volta a Martin. «Ottima cosa. Ha conosciuto molte persone?».
«Oh, sì» rispose Martin.
«Ha fatto amicizia con Darwin, per esempio?».
«Oh, sì» ripeté Martin.
«Ne sono lieto. È un tipo splendido. Tre anni in trincea, in Francia e Mesopotamia, la Victoria Cross, e non un graffio, né fisico né morale. Il successo letterario avrebbe potuto dargli alla testa, ma non è accaduto neppure questo».
Oltre al fatto che Darwin aveva interrotto il college a diciotto anni per arruolarsi e aveva da poco pubblicato una raccolta di racconti che mandava in visibilio gli esperti del settore, Martin venne a sapere che era stato campione universitario di pugilato, che aveva trascorso l’infanzia a Madera e alle Hawaii, e che il padre era un noto ammiraglio. Al confronto, la misera esperienza di Martin appariva insignificante e patetica, e si vergognò di certe frottole che aveva raccontato. Quella sera, quando Darwin entrò in camera sua con il consueto passo dinoccolato, a Martin la situazione parve tanto divertente quanto imbarazzante. Cautamente, cominciò a cercare di cavargli informazioni sulla Mesopotamia e sui racconti, ma Darwin continuò a dare risposte facete, affermando che il libro migliore che avesse mai scritto era un manualetto per studenti intitolato «Descrizione completa dei sessantasette modi di entrare nel Trinity College dopo la chiusura dei cancelli, con la pianta particolareggiata dei muri di cinta e delle recinzioni, prima e ultima edizione, provata e accertata numerose volte dall’autore, senza essere mai scoperto». Ma Martin insistette sull’argomento per lui così interessante e importante: la raccolta di racconti che mandava in visibilio gli esperti. Finalmente Darwin disse: «E va bene, te ne darò una copia. Andiamo nel mio alloggio».
L’aveva ammobiliato da sé, secondo i propri gusti: vi erano poltrone in pelle di una comodità sublime, con le quali il corpo si fondeva mentre sprofondava in un abisso cedevole, e sulla mensola del caminetto c’era in bella mostra la grande fotografia di una cagna sdraiata sul fianco, in totale abbandono, e la sequenza dei paffuti sederini di sei cuccioli intenti a poppare. Martin aveva già visto le stanze di molti altri studenti: ve ne erano di simili alla propria, piacevoli, ma non troppo amorevolmente curate da chi vi abitava, con oggetti estranei di proprietà dell’affittacamere; c’era la camera dell’atleta con trofei d’argento su uno scaffale e un remo rotto contro la parete; c’era la tana ingombra di libri e cosparsa di cenere di sigaretta; infine, c’era una delle più disgustose camere che mai capiti di vedere: praticamente vuota, con le pareti ricoperte di carta da parati giallo squillante, un unico quadro, che però era un Cézanne (uno scarabocchio a carboncino che somigliava vagamente a un corpo femminile), e un vescovo trecentesco di legno dipinto che protendeva il moncherino dell’avambraccio. L’alloggio più accogliente era quello di Darwin, soprattutto se lo si guardava con attenzione e curiosando un poco qua e là: che gioiello, per esempio, la raccolta di giornali che Darwin aveva diretto mentre era in trincea! Allegri, briosi, pieni di buffe filastrocche e poesiole inglesi; Dio solo sapeva come e dove erano stati composti, e usando cliché di fortuna per abbellire gli spazi vuoti: pubblicità di corsetti trovate fra le macerie di qualche tipografia.
«Ecco,» disse Darwin mostrando un libro «prendi».
Il libro si rivelò notevole. I brani non erano veri e propri racconti, no, erano piuttosto simili a trattati, venti trattati di uguale lunghezza. Il primo s’intitolava «Cavaturaccioli» e conteneva un migliaio di cose interessanti sui cavatappi, la loro storia, la loro bellezza, i loro pregi. Un altro verteva sui pappagalli, un altro ancora sulle carte da gioco, un quarto sulle macchine infernali, un quinto sui riflessi nell’acqua. E ce n’era uno sui treni, nel quale Martin trovò tutto ciò che gli piaceva oltre ogni dire: i pali telegrafici che interrompevano l’ampia curva ascensionale dei fili, la carrozza ristorante con le bottiglie di acqua di Vichy o di Evian che sembravano scrutare attraverso il finestrino la fuga veloce degli alberi; e i camerieri con gli occhi stralunati, e la cucina minuscola nella quale si vedeva un cuoco col cappellone bianco che, oscillando e sudando, impanava un pesce.
Se Martin avesse mai pensato di darsi alla scrittura e fosse stato tormentato dal fuoco sacro dello scrittore (tanto simile alla paura della morte), quell’ansia costante che obbliga a fissare in modo indelebile inezie evanescenti, allora, forse, quelle disquisizioni su minuscoli dettagli che gli erano tanto familiari avrebbero potuto suscitare in lui una fitta d’invidia e il desiderio di scrivere ancora meglio sugli stessi argomenti. Invece lo travolse un tale sentimento di caldo affetto per Darwin che gli occhi cominciarono addirittura a pizzicargli. E la mattina dopo, quando nell’andare a lezione raggiunse l’amico all’angolo, con grande compostezza e senza guardarlo in viso gli disse che il libro gli era piaciuto, e in silenzio gli si mise a fianco, adeguando il passo a quello indolente ma ritmico dell’altro.
Le aule erano sparse per tutta la città: se a una lezione ne seguiva immediatamente un’altra in un’aula diversa, si doveva saltare in sella alla bicicletta oppure tagliare di corsa per una serie di vicoletti e attraversare i sonori selciati in pietra dei cortili. Rintocchi squillanti di campane si richiamavano da una torre all’altra, il frastuono dei motori, il crepitio di ruote e lo scampanellio delle biciclette riempivano le strade anguste. Durante le lezioni lo sciame luccicante delle biciclette si ammucchiava davanti ai cancelli in attesa dei proprietari. Il docente in toga nera saliva sulla pedana e con un tonfo appoggiava sul leggio il tocco accademico.

15

Quando si iscrisse all’università impiegò un bel po’ di tempo a decidere il corso di studi: ce n’erano tanti, e tutti lo affascinavano. Indugiò ai margini di ciascuno, trovando ovunque la stessa magica fonte di elisir vitale. Lo emozionava il viadotto sospeso sopra uno strapiombo alpino, l’acciaio che prendeva vita, l’esattezza divina del calcolo. Comprendeva quell’archeologo sensibile che, dopo essersi aperto un sentiero che conduceva a tombe e tesori ancora ignoti, bussò alla porta prima di entrare e, varcata la soglia, svenne dall’emozione. Nella luce e nella calma dei laboratori dimora la bellezza: come un tuffatore esperto che scivola nell’acqua con gli occhi aperti, il biologo scruta con palpebre rilassate le profondità del microscopio mentre collo e fronte lentamente si arrossano, poi, staccandosi dalla lente, dice: «Adesso è tutto chiaro». Il pensiero umano, volando sui trapezi dell’universo stellato, con la matematica ben tesa sotto, era come un acrobata che lavorasse con la rete di protezione ma a un tratto si rendesse conto che in realtà non vi è alcuna rete, e Martin invidiava coloro che sperimentavano quella vertigine e, con un nuovo calcolo, superavano la paura. Identificare un nuovo elemento chimico o creare una teoria, scoprire una catena montuosa o dare il nome a un nuovo animale erano obiettivi tutti ugualmente seducenti. Negli studi storici a Martin piaceva ciò che poteva immaginare con chiarezza, e pertanto prediligeva Carlyle. Non avendo grande memoria per le date e disprezzando le generalizzazioni, cercava avidamente ciò che era vivo e umano, ciò che apparteneva a quella categoria di stupefacenti dettagli in grado di appagare la curiosità delle generazioni future intente a guardare le vecchie pellicole flou dei nostri giorni. Si raffigurava con chiarezza una giornata di tremula calura, l’essenzialità della nera ghigliottina, e la goffa lotta sul patibolo dove i boia maltrattano un grassone con le spalle nude mentre, tra la folla, un citoyen di buon cuore solleva, reggendola per i gomiti, una citoyenne la cui curiosità è superiore alla sua statura.
Vi erano anche settori di studio più indeterminati, quali per esempio le brume della giurisprudenza, dell’amministrazione pubblica, dell’economia. Tuttavia lo scoraggiava il fatto che la scintilla, da lui ricercata in ogni cosa, lì era sepolta troppo in profondità. Indeciso sulla strada da prendere, sulla scelta da fare, Martin a poco a poco rifiutò tutto ciò che avrebbe richiesto un impegno troppo esclusivo. Non aveva ancora preso in considerazione la letteratura. Anche qui trovò indizi di beatitudine: com’era eccitante il banale conversare sul tempo atmosferico e sullo sport tra Orazio e Mecenate, o l’afflizione del vecchio Lear nel pronunciare i nomi leziosi dei cani delle figlie che gli latravano contro! Proprio come nella versione russa del Vecchio Testamento godeva nell’imbattersi in «erba verde» o in «chitone indaco», così nella letteratura non cercava il senso generale, bensì le radure inaspettate, in pieno sole, ove distendersi fino a far scricchiolare le giunture e sostare estasiato come in trance. Leggeva moltissimo, ma il più delle volte si trattava di riletture; e di quando in quando, conversando di letteratura, gli capitò qualche incidente: per esempio, di confondere Plutarco con Petrarca, o di definire Calderón un poeta scozzese.
Non tutti gli autori lo stimolavano. Rimase indifferente quando, su consiglio dello zio, lesse Lamartine, o quando lo zio in persona gli declamò Le Lac con voce strappalacrime, scuotendo la testa e soggiungendo con commozione incontenibile: «Comme c’est beau». Non lo attraeva la prospettiva di studiare opere verbose e insulse e l’influenza che queste avevano avuto su altre opere verbose e insulse. È probabile che di questo passo non sarebbe mai arrivato a fare una scelta se una voce arcana non avesse continuato a sussurrargli che non era libero di scegliere, che c’era una sola cosa che doveva studiare. Durante il fastoso autunno svizzero per la prima volta capì chiaramente di essere, alla fin fine, un esule, condannato a vivere lontano dalla patria. Quella parola, «esule», aveva un suono delizioso: Martin ponderò l’oscurità della notte popolata di conifere, percepì un pallore byroniano sulle guance, e si vide avvolto in un mantello. E quel mantello indossò a Cambridge, benché non fosse che una leggera toga accademica di stoffa bluastra, semitrasparente in controluce, con tante pieghe sulle spalle e mezze maniche ad ala che andavano gettate all’indietro. La felicità della solitudine spirituale e l’eccitazione del viaggio assunsero nuovo significato. Fu come se avesse trovato la chiave per comprendere tutte le vaghe, delicate e intense sensazioni che lo assediavano.
A quel tempo reggeva la cattedra di Storia e Letteratura russe l’insigne studioso Archibald Moon. Aveva vissuto in Russia piuttosto a lungo ed era stato ovunque, aveva conosciuto tutti, visto tutto. Adesso, pallido, capelli scuri, pince-nez sul naso sottile, se ne andava in giro su una bicicletta con il manubrio alto, perfettamente eretto; oppure, a pranzo nella famosa sala con i tavoli di quercia e le enormi vetrate istoriate, lo si vedeva girare di scatto la testa da una parte all’altra come un uccello, sbriciolando velocissimo del pane fra le lunghe dita. Si diceva che la Russia fosse l’unica cosa al mondo che quell’inglese amasse. Molti non capivano perché non vi fosse rimasto. La risposta che Moon invariabilmente dava a domande del genere era: «Chiedete a Robertson» (l’orientalista) «perché non è rimasto a Babilonia». A chi obiettava, con assoluta ragionevolezza, che Babilonia non esisteva più, lui replicava annuendo con un muto sorriso sornione. Riteneva che l’insurrezione bolscevica rappresentasse un taglio netto. Pur essendo disposto a concedere che, un po’ alla volta, dopo le fasi iniziali di barbarie, nell’«Unione Sovietica» si sarebbe potuta sviluppare una forma di civiltà, sosteneva tuttavia che la «Russia» era conclusa e irripetibile, che la si poteva sollevare fra le braccia come una splendida anfora per metterla sotto vetro. La pignatta di terracotta che adesso si stava cuocendo là non aveva niente a che fare con la Russia. Trovava assurda la guerra civile: una parte combatteva per lo spettro del passato, e l’altra per quello del futuro; e intanto, senza strepito, quietamente, Archibald Moon aveva trafugato la Russia e l’aveva chiusa a chiave nel proprio studio. Amava quella conclusione. Era colorata dall’azzurro delle acque e dal porfido trasparente dei versi di Puškin. Da due anni lavorava a una storia della Russia in inglese e sperava di riuscire a comprimerla tutta in un corposo volume. Un motto ovvio («Una cosa bella è una gioia per sempre»), carta ultrasottile, rilegatura di morbido marocchino. Il compito era arduo: trovare un’armonia tra erudizione e prosa stringata ma espressiva, per offrire il ritratto perfetto di un millennio orbicolare.