mercoledì 4 marzo 2020


L'ARTE  DI  COLLEZIONARE  LE MOSCHE 
Fredrik Sjöberg

PRESENTAZIONE
 Lo conosciamo all’inizio del libro impegnato a portare a passeggio un agnello, che di giorno in giorno si trasformerà in pecora. Il suo lavoro è quello di trovarobe al Teatro Reale di Stoccolma e il caso vuole che nel dramma Curse of the Starving Class di Sam Shepard debba apparire in scena un agnello vivo. Compito di Sjöberg sarà quello di accudire l’animale. Ma come si arriva, ad un certo punto della propria vita, bloccati in certe situazioni surreali?
A tutti succede di guardarsi attorno e domandarsi come abbiamo fatto a giungere a questo punto, travolti dal presente, volgiamo lo sguardo indietro e tentiamo di ricordare cosa avremmo voluto invece fare e a quale bivio del destino le cose hanno cominciato ad andare diversamente rispetto alle nostre ambizioni.
«Tutti quanti sentiamo il bisogno, di tanto in tanto, di lanciarci alla cieca in qualcosa per evitare di diventare una copia conforme alle aspettative del nostro ambiente, forse anche per trovare il coraggio di ricordare qualcuno di quei grandi pensieri arditi che spingono un bambino ad alzarsi in piena notte a scrivere con il batticuore una promessa segreta che riguarda la propria vita».
Così Sjöberg si ritrova su una piccola isola e inizia un altro tipo di avventura.
Qui, un po’ alla Sebald, un po’ alla Walser, diventa un poco flâneur (ma non tanto blasé, in quanto sempre semisommerso in qualche palude a cercare mosche) e ci porta a passeggio tra nomenclatura e letteratura, tra specie rare e aneddoti che riguardano la vita e le opere di scrittori come Thomas de Quincey, Bruce Chatwin, Milan Kundera, Tomas Tranströmer e altri.
Seguendo il principio secondo il quale non si può mai sapere a priori quali conoscenze, per quanto apparentemente insulse, possano un giorno rivelarsi utili. L’occupazione apparentemente futile di raccogliere e collezionare mosche, diventa lo spunto per sciorinare sotto i nostri occhi meravigliati un’intera specie e innumerevoli sottospecie di fatterelli singolari e aneddoti, spesso ilari e divertenti.
http://www.piegodilibri.it/recensioni/larte-di-collezionare-mosche-fredrik-sjoberg/



L'ARTE DI COLLEZIONARE LE MOSCHE 
1. La maledizione della classe affamata Erano i tempi in cui la sera giravo per le vie intorno a Nybroplan con un agnello in braccio. Me lo ricordo perfettamente. Era arrivata la primavera. L’aria era secca e come polverosa. La sera era fresca, ma conservava ancora il tiepido profumo del giorno: profumo di terra e delle foglie morte dell’autunno scaldate dal sole. L’agnello belava spaurito mentre attraversavo la Sybillegatan. Di giorno alloggiava con i viziatissimi cavalli del re alle Scuderie reali, in fondo alla Strandvägen, e capivamo bene che si sentisse fuori posto anche la sera, a teatro. Io di agnelli non me ne intendo, ma vecchio non lo era di certo. Avrà avuto qualche settimana. Fare la metafora vivente in scena doveva essere una prova dura, tanto più che il dramma – Curse of the Starving Class dell’americano Sam Shepard – era a tratti violento, stridente e difficile da digerire anche per un essere umano adulto. Si può sperare che la povera bestia stringesse i denti e pensasse ad altro. Quel che è sicuro, comunque, è che continuava inesorabilmente a crescere, più di quanto non ci si fosse aspettato. E il problema era solo ed esclusivamente mio. Una confusa miscela di ambizione e caso mi aveva procurato un lavoro al Kungliga Dramatiska Teatern, il Teatro Reale, dove da qualche anno facevo il trovarobe, cioè mi occupavo del materiale scenico, spesso piuttosto stravagante, dei vari spettacoli. Toccava quindi a me andare a prendere lo sventurato agnello, prima di ogni rappresentazione, alle Scuderie reali. Lo portavo in braccio. Dovevamo essere molto teneri da vedere così insieme, in quelle sere primaverili. Quando si alzava il sipario l’agnello (poi pecora) doveva entrare e uscire sul palco a più riprese, starsene zitto e cercare di non insudiciare le quinte, il tutto con la scrupolosa precisione che contraddistingue ogni cambio di scena. Nel buio più totale. Prima del debutto, durante le prove, avevamo pensato a un agnello meccanico, una specie di ispido automa impagliato, con la testa mobile e dotata di un altoparlante che avrebbe emesso graziosi belati esattamente al momento giusto, grazie al semplice uso di un pulsante da parte del direttore di scena. Quando però alla fine il regista vide il costoso robot, non ci mise più di quattro secondi a scartare la soluzione. Via quella roba. Se c’è scritto «agnello vivo» nelle didascalie di scena, vuol dire che ci vuole un agnello vivo, non un giocattolo. La faccenda era chiusa. L’agnello diventò affar mio. E così accadde che quella primavera cominciai a chiedermi cosa ci facessi lì, in realtà, e perché. Tanto per cominciare, ci si può domandare in generale cosa ci facesse un giovane entomologo in un teatro. In effetti è una questione imbarazzante che ritengo non sia ancora il momento di approfondire. E del resto è una storia vecchia. Supponiamo che volesse semplicemente far colpo sulle ragazze. Cosa che per gli entomologi non rientra nel pacchetto. Oppure diciamo che tutti quanti sentiamo il bisogno, di tanto in tanto, di lanciarci alla cieca in qualcosa per evitare di diventare una copia conforme alle aspettative del nostro ambiente, forse anche per trovare il coraggio di ricordare qualcuno di quei grandi pensieri arditi che spingono un bambino ad alzarsi in piena notte a scrivere con il batticuore una promessa segreta che riguarda la propria vita. Sia come sia, era un lavoro appassionante. Pieno di interesse e fascino, per chi non è del mestiere. Niente può inghiottire di colpo un timore quanto un grande teatro in una città sconosciuta, niente dà più ebbrezza dei sogni che abitano quei muri. Certo c’erano un mucchio di cose dei trucchi del mestiere del drammaturgo o dei sottotesti dei copioni che non sono mai arrivato a capire. O le sfumature, le note a piè di pagina in caratteri microscopici. Ma non mi importava, almeno non all’inizio. Bergman era tornato da Monaco e tutto era una festa. Si dava uno Shakespeare con gran fracasso nella sala grande e noi che ci aggiravamo silenziosi sul ballatoio o tra le quinte riuscivamo a trasformare ogni fugace apparizione del maestro in aneddoti sui suoi capricci e sulla sua leggendaria magia, semplici storielle che facendo il giro dei caffè della città diventavano man mano più divertenti e più audaci e potevano facilmente suscitare interesse e invidia nei confronti di chi le raccontava. Gogol entrava in scena come un incrociatore da guerra e Norén1 annientava ogni resistenza anche del pubblico più restio. Strindberg, Molière, Čechov. Il mio rapporto con tutto questo era probabilmente più libero rispetto agli altri giovani macchinisti, trovarobe, camerinisti, comparse e assistenti dai compiti più improbabili di cui il teatro brulica, più libero perché quasi tutti loro desideravano diventare attori famosi e stare sotto i riflettori, e il loro desiderio li faceva soffrire crudelmente per il successo degli altri e per l’aleatorio meccanismo dei provini. Il lavoro era raramente faticoso. Si seguiva una messa in scena dalle prime prove fino all’uscita dal cartellone. All’inizio si trattava di capire il regista e, soprattutto, lo scenografo, il che è già di per sé un’arte, poi bisognava provare i cambiamenti di scena insieme alla troupe e controllare gli accessori man mano che arrivavano dal magazzino e dai laboratori. La sera della prima, in genere, potevamo fare tutto a occhi chiusi. Ma il dramma in questione era particolare. Non c’era solo l’agnello sempre meno gestibile come costante fonte di preoccupazione: era anche un «dramma da cucina». Intendo dire che si preparava del cibo in scena, problema che naturalmente si può risolvere in diversi modi piuttosto semplici, ma che certi registi e scenografi sono subito pronti a complicare. Ovvero: se si deve cucinare, si cucina. Punto e basta. Naturalmente il cognac e la birra possono essere succo di mela, ma il cibo deve essere vero. Nel caso specifico bisognava friggere del rognone. L’odore di rognone fritto, infatti, ci mette un attimo a riempire la sala di un teatro, e questo veniva considerato un buon apporto per creare un senso di autenticità. Quando le luci si spegnevano per i cambiamenti di scena, noi trovarobe invadevamo di corsa il palco, come pesciolini d’argento sul pavimento di un bagno, per sostituire l’arredo, sparecchiare, riapparecchiare e, in generale, portare dentro e fuori ogni genere di cose, nel presente caso – tra l’altro – una carriola, una porta sfondata e una quantità indefinibile di carciofi. In uno di questi cambi di scena – nel buio più totale, dunque, con il solo aiuto della memoria e di sottilissime strisce di nastro adesivo fluorescente incollate sul tavolato – dovevamo mettere una padella di rognone crudo su uno di quei fornelli che si suppone si potessero trovare in una cucina di campagna americana negli anni Cinquanta. Il tempo a nostra disposizione per farlo era calcolato al secondo, e al limite dell’impossibile. E come se non bastasse, la Maledizione della classe affamata presentava un’altra bizzarra caratteristica, diciamo così tecnica, che credo sia unica nella storia del teatro svedese. Il fatto è che il figlio della famiglia, Wesley, impersonato da Peter Stormare, in una scena particolarmente memorabile doveva dimostrare il proprio disprezzo per la monotona vita della sorella minore pisciando su certi cartelloni che lei aveva preparato a una riunione di scout. Il laboratorio fu dunque incaricato di costruire un congegno per la simulazione, che arrivò giusto poco prima del debutto: un aggeggio geniale nella sua semplicità, composto soltanto di un tubicino e di una vescica di gomma. L’unico problema era che il regista, a questo punto così delicato, aveva collocato Stormare sulla ribalta, rivolto verso il pubblico, il che creava problemi di credibilità piuttosto seri. Quando poi ci si rese conto che l’aggeggio tra l’altro perdeva acqua, tanto da far sembrare che Wesley soffrisse di incontinenza, accadde quello che avevo cominciato a temere. «Ma che cazzo», esclamò Stormare, «vuol dire che piscerò io.» E così fu. Nonostante il mio senso artistico fosse ancora piuttosto poco sviluppato, rimasi comunque profondamente colpito da quel raro talento, in grado di soddisfare, sera dopo sera e per mesi di fila, le istanze dell’autore e il gusto per gli effetti speciali del regista, mettendosi senza alcun imbarazzo a urinare in scena, a pochi metri dal naso delle raffinate intellettuali della prima fila. Che maestria! Che arrivasse a Hollywood era senza dubbio solo questione di tempo. Molto più dubbio, invece, era dove sarei arrivato io, ma siccome era stato affidato a me, e a nessun altro, il compito di far sparire in fretta e al buio il risultato di quel notevole pezzo di bravura teatrale – in ginocchio, con uno straccio per pavimenti – mi diventò col tempo sempre più chiaro che forse il mio posto non era quello. Può essere che io esageri tutto quanto l’accaduto, che stia romantizzando le mie aspirazioni e le mie paure di allora, e che mi ricordi solo singole battute. È così, lo so, ma è anche vero che era primavera e che io ero confuso e innamorato. Inoltre c’erano battute che mi si erano radicate dentro come macchie congenite. Non perché fossero così significative, almeno allora, ma forse perché si accordavano con qualcos’altro nella mia vita. Quando Wesley se ne sta lì sulla ribalta coprendosi di vergogna e sua madre Ella lo rimprovera di rendere solo le cose ancora più difficili alla povera sorella, lui risponde: «Non è vero. Le sto solo mostrando che esistono altre possibilità. Adesso dovrà fare qualcosa di diverso. Questo può cambiare il corso della sua esistenza. Un giorno si guarderà indietro e si ricorderà di quando suo fratello ha pisciato sui suoi cartelloni e penserà che è stato il punto di svolta della sua vita.» Questo accadeva nel primo atto. Nel terzo, quando la sorella infine scappa, avverando così la profezia di Wesley, esclama: «Me ne vado. Me ne vado! Non tornerò mai più.» Queste stesse parole, nello stesso tono ribelle usato sulla scena, me le ripetevo tra me ogni sera mentre tornavo alla stalla con la mia ispida amica di campagna. Verso la fine della primavera non ce la facevo più a portare in braccio la pecora, così la tenevo al guinzaglio, più o meno come un cane di una razza sconosciuta perfino nell’elegante quartiere di Östermalm. Le passanti restavano a lungo a guardarci, ma noi non ci facevamo caso e continuavamo a elaborare i nostri piani in silenzio. L’anno dopo abitavo già sull’isola, insieme a una ragazza che era tra il pubblico una sera e aveva poi detto di aver trovato il dramma divertente e insieme commovente, e come avvolto in un particolare odore di lana, di urina e di rognone fritto. Era il 1985. Avevo ventisei anni. Quanto alle mosche, anche quello senza dubbio era solo questione di tempo. 1 Lars Norén (1944), drammaturgo svedese. (N.d.T) 2. L’entrée nella società delle mosche Il teatro era il mio secondo tentativo di fuga dall’entomologia. Il primo erano stati viaggi senza meta. E sono ovviamente, e tristemente, consapevole di quanto possa apparire povera una materia che si lascia abbordare solo dalla prospettiva della defezione. Ma così è. Non vedo alternativa. Nessuna persona sensata si interessa alle mosche, in ogni caso nessuna donna. Non ancora, continuo a ripetermi, anche se in fondo sono abbastanza contento che nessuno se ne interessi. Non si può dire che ci sia una concorrenza spietata. E a ben vedere, io volevo diventare il migliore in qualcosa, non nell’urinare in faccia al pubblico – per questo non ho i nervi abbastanza saldi – ma in qualcos’altro, qualsiasi cosa, in realtà, e alla fine è risultato chiaro che il mio talento andava nella direzione delle mosche. È un destino cui bisogna rassegnarsi, in un modo o nell’altro. I sirfidi, del resto, sono solo accessori di scena. No, non solo, ma entro certi limiti. Il racconto tratta anche di altro, qua e là. Esattamente di cosa non saprei. Certi giorni mi persuado che il mio scopo sia dire qualcosa sull’arte di limitarsi e sulla sua eventuale felicità. E anche sulla leggibilità del paesaggio. Altri giorni sono più cupi. Specchi dappertutto. Come se me ne stessi in coda sotto la pioggia fuori dal campo nudisti intellettuali della letteratura autobiografica. Livido di freddo. Ma siccome adesso vivo su un’isola e l’unica cosa di cui sono esperto sono i sirfidi, possiamo in tutta semplicità partire da qui. Chi lo desiderasse, o volesse anche solo mostrarsi gentile, potrà poi cercare di rimettere insieme tutto quanto nell’ambito del genere – pressoché ignoto nel panorama svedese – amorosamente coltivato dai coniugi Ken e Vera Smith nel magnifico libro A Bibliography of the Entomology of the Smaller British Offshore Islands. Sarà difficile, temo, ma in fondo è il pensiero quello che conta. Nella mia biblioteca, abbastanza fornita da poter sostenere un assedio russo, questo libro occupa un posto a parte. È piuttosto piccolo, poco più di cento pagine, di colore azzurro chiaro, e forse non mi ha insegnato molto di più del fatto che gli inglesi sono matti, ma ogni volta che lo guardo, lo tengo tra le mani e ne leggo il titolo, provo una sensazione di beatitudine, come se bastasse quel libro a giustificare in qualche modo la mia esistenza. La quarta di copertina spiega come gli scrittori si erano incontrati e innamorati nel 1954, quando erano entrambi studenti all’Università di Keele, e come avevano poi iniziato a studiare insieme le mosche e a raccogliere la bibliografia sugli insetti delle isole minori. C’è anche la foto di entrambi, e posso garantire che hanno un’aria molto simpatica. Ken, i capelli radi, abito intero con gilet e cravatta, sembra nascondere un sorriso ironico sotto la barba ben curata, mentre Vera, con quelle sue guance rosee, pare appena svegliata, o persa nei suoi pensieri. Si capisce che lui la ami. Il libro consiste unicamente in una lunga lista, nient’altro. Un elenco di tutti i libri e gli articoli conosciuti riguardanti gli insetti delle isole lungo le coste britanniche, da Jersey, a sud, alle Shetland, a nord. Più di mille titoli. Cos’hanno cercato di afferrare questi due esseri umani? Di certo non solo insetti. Insomma, il mio senso artistico rimase a uno stadio piuttosto embrionale e il passato, come sempre, mi riacciuffò. Se qualcuno mi faceva domande in proposito, mi limitavo a rispondere concisamente che i sirfidi sono bestiole miti, facili da collezionare e che si presentano sotto molti travestimenti. A volte non sembrano neanche mosche. Alcuni assomigliano alle vespe, altri alle api, ai terebranti, agli estridi o a quelle zanzare filiformi, dalle zampe delicate, tanto piccole che la gente normale nemmeno ci fa caso. Diverse specie hanno l’aspetto di grossi, ispidi bombi, con tanto di ronzio e di polline nella peluria. Solo l’esperto non si lascia ingannare: non siamo in molti, ma viviamo a lungo. Non è difficile da capire. Eppure le differenze sono grandi, in realtà ben maggiori delle somiglianze. Per esempio, le vespe e i bombi, come tutti gli imenotteri, hanno quattro ali, mentre le mosche ne hanno solo due. Elementare. Ma lo si nota di rado, soprattutto perché le mosche possono arrivare senza difficoltà a battere le ali centinaia di volte al secondo. Nella letteratura entomologica, che ben presto ha cominciato a riempire la casa sull’isola, si cita uno studioso finlandese, Olavi Sotavalta, il cui unico interesse al mondo era calcolare la frequenza di battito alare degli insetti. In particolare si è occupato dei ceratopogonidi, una specie di moscerini urticanti che, come si è scoperto, raggiungono la stupefacente frequenza di 1046 battiti d’ala al secondo. È stato possibile misurarla con inequivocabile precisione grazie a sofisticati strumenti di laboratorio, ma pare che i fattori determinanti per la ricerca di Sotavalta siano stati la sua musicalità e il suo orecchio assoluto. Gli bastava ascoltare il ronzio per determinare la frequenza, e il motivo per cui è diventato celebre è che durante un famoso esperimento è riuscito a truccare uno di questi moscerini per accrescere la velocità del battito oltre i limiti del possibile. Riscaldò il minuscolo corpicino del ceratopogonide portandolo a una temperatura di qualche grado superiore al normale, quindi ridusse le sue ali con un bisturi per minimizzare la resistenza aerodinamica, dopo di che la creaturina raggiunse i 2218 battiti al secondo. Era durante la guerra. Mi immagino Olavi Sotavalta sdraiato sulla schiena nel suo sacco a pelo grigioverde in una chiara notte d’estate, da qualche parte nell’estremo nord della Finlandia, magari sulle rive del lago Inari, che ascolta con un sorriso assorto le miriadi di suoni dello spazio, sottili come pulviscolo luminoso. Ma era dei travestimenti che volevo parlare, dell’arte di assomigliare a un bombo. Chiunque capisce il perché. Il vantaggio. Agli uccelli piace mangiare le mosche, mentre normalmente evitano gli imenotteri, che possono pungere. E così l’eterna corsa agli armamenti della natura ha prodotto quantità di mosche inermi che sono la fedele riproduzione di ogni genere di cose sgradevoli. Perché proprio i sirfidi siano diventati dei tali maestri dell’imbroglio non lo so, ma è un dato di fatto, come un dato di fatto è che il sole splendeva in un cielo azzurro d’estate quando, ancora all’inizio della mia carriera di esperto di mosche, me ne stavo in agguato in mezzo alla girardina silvestre in fiore. C’erano insetti dappertutto. Heliconiinae, scarabei, stenurelle, bombi, mosche di tutte le specie. E poi c’ero io, in pantaloncini corti e cappello da sole, armato della beata spensieratezza del cacciatore per diletto e di un retino di tulle pieghevole dal manico corto, di produzione ceca. All’improvviso si alzò un missile nero da destra salendo fino a due metri di altezza sopra l’ortica. Un bombo, feci in tempo a pensare. Nient’altro, ma in una frazione di secondo mi parve anche di cogliere una strana leggerezza nel movimento. Niente più di una sfumatura, appena percettibile, ma il solo sospetto bastò a far scattare automaticamente all’indietro il retino. Quella presa si trasformò nel mio biglietto di ingresso nella società dei sirfidi. Ma, prima, una più dettagliata descrizione della scena. Cominciamo dal principio. E cosa c’è di meglio che raccontare come avviene la caccia? Conosciamo tutti l’immagine stereotipata dell’entomologo: un povero pazzo che corre a perdifiato per campi e per prati inseguendo farfalle che fuggono. Anche a prescindere dal fatto che l’immagine non corrisponde del tutto al vero in generale, posso comunque assicurare che non corrisponde per niente al vero per quanto riguarda i collezionisti di sirfidi. Noi siamo gente tranquilla, con una tendenza alla contemplazione e un modo di muoverci sul terreno piuttosto aristocratico. Non che correre sia incompatibile con la nostra dignità, ma sarebbe comunque inutile, visto che le mosche sono troppo veloci. Perciò ce ne stiamo fermi, in agguato, e oltretutto esclusivamente in luoghi battuti dal sole, sottovento e pieni di fiori odorosi. Chi ci passa accanto può facilmente avere l’impressione che il cacciatore di mosche sia una specie di convalescente, al momento immerso in una qualche forma di meditazione. E non ha tutti i torti. L’attrezzatura non ha niente di spettacolare. In una mano il retino, nell’altra l’aspiratore. Questo è un aggeggio che consiste in un corto cilindro in fibra di vetro, trasparente, con due tappi alle estremità. Attraverso uno dei tappi passa un tubicino di plastica e attraverso l’altro una canna di gomma. Bisogna avvicinare con prudenza il tubicino di plastica alla mosca quando è ferma, mentre si tiene in bocca la canna di gomma. Se si riesce ad avvicinarsi abbastanza alla mosca senza spaventarla, è sufficiente una rapida aspirazione per trascinarla nel cilindro in fibra di vetro. Un filtro a maglie strette applicato al tappo posteriore impedisce all’animale di proseguire la sua strada giù per la gola. Comunque è inevitabile che l’utilizzatore di questo arnese sia costretto a rispondere in continuazione a domande impertinenti riguardo alla sua sanità mentale. Credetemi, ho sentito ogni possibile insinuazione e spiritosaggine in proposito. Per esperienza, quindi, so che l’unica cosa che riesce a raggelare chi se ne sta lì a ridacchiare è mostrargli all’improvviso il terzo componente dell’attrezzatura: la boccetta del veleno. Con la spensierata leggerezza dell’uomo di mondo la estraggo dalla tasca e dico, senza mentire affatto, che ho in mano una dose di cianuro sufficiente a far piombare l’intera popolazione dell’isola in un sonno eterno. I facili sorrisi si mutano immediatamente in rispettose domande su come diavolo si faccia a procurarsi quella roba. Cosa che io non rivelo mai. Ci sono esperti che usano l’acetato di etile, altri il cloroformio, ma io preferisco il cianuro. È più efficace. Gli abitanti dell’isola sono quasi trecento. La grossa mosca nera diede qualche battito d’ali e poi morì rapidamente tra i fumi del veleno. Siccome era la prima estate in cui mi dedicavo alla caccia alle mosche (vivevamo allora sull’isola da dieci anni) non capii subito che specie fosse quella che avevo appena catturato. Che si trattasse di un sirfide era chiaro, ci si mette pochi giorni a imparare a riconoscerli, ma che si trattasse della rara Criorhina ranunculi lo capii più tardi quando, quello stesso giorno, lo esaminai al microscopio, circondato da traballanti cataste di libri dai titoli quali British Hoverflies, Danmarks svirrefluer e Biologie der Schwebfliegen Deutschlands. Già il mattino dopo l’isola ricevette per la prima volta la visita del più grande esperto svedese vivente nel campo dei sirfidi. Esaminò incredulo il mio trofeo, ma ben presto il suo volto si illuminò, mi domandò dove esattamente l’avessi trovato, si congratulò e bevendo il caffè mi raccontò quanto segue. Di tutti i sirfidi della Svezia la Criorhina ranunculi non solo è il più grande e il più bello, ma è anche così raro che, all’inizio degli anni Novanta, si era deciso di classificarlo come estinto sul territorio nazionale. Non se ne avvistava uno da sessant’anni, e il totale degli avvistamenti ammontava a tre: due nell’Östergötland e uno nello Småland. Il mio nuovo amico fece una pausa d’effetto e si versò una goccia di latte nel caffè. I rondoni garrivano, la strolaga pescava davanti al pontile e in lontananza si sentivano i taxi motoscafo correre nello stretto di mare che separa l’isola dalla terraferma. Era una calda giornata di luglio. La prima volta che la specie fu individuata fu nel 1874, a Gusum. Chi teneva in mano il retino era niente di meno che Peter Wahlberg, l’uomo che nel movimentato anno 1848 era succeduto a Berzelius nell’incarico di segretario permanente all’Accademia Reale delle Scienze. Dopo una lunga vita al servizio della ricerca come botanico e come professore di materia medica al Karolinska Institutet era infine arrivato alle mosche, il che mi pare logico e ragionevole se si tiene conto del fatto che già nel 1833 era stato uno dei fondatori della Società per la Diffusione dei Saperi Utili, società in seguito abolita. Probabilmente era un uomo felice. Lo si direbbe, almeno, a giudicare dal ritratto sull’enciclopedia. Il fratello minore, invece, sembra piuttosto arrabbiato, come se soffrisse di mal di denti o di problemi pecuniari. Si chiamava Johan Wahlberg e, di indole più avventurosa, è passato ai posteri come esploratore in Africa, appassionato di caccia grossa e maniaco collezionista di reperti naturalistici, morto prematuramente nello scontro con un elefante.