venerdì 6 marzo 2020

GELO
Thomas Bernhard

PARTE TERZA

Diciannovesimo giorno 





 «Le caratteristiche della giovinezza e le caratteristiche della vecchiaia sono le stesse, – disse il pittore, – ma il loro effetto è completamente diverso. Vede: nessuno se la prende coi giovani per via delle loro caratteristiche, mentre ai vecchi vengono rinfacciate le loro particolarità. Un giovane può dire una bugia e non per questo gli si rompe l’osso del collo, ma a un vecchio che dica una bugia gli si rompe l’osso del collo. Un giovane non viene giudicato per l’eternità, un vecchio invece viene giudicato in eterno. Un giovane strabico può anche divertirci, un vecchio strabico ci ripugna soltanto. Nel caso del giovane, si dice, c’è ancora la speranza che un giorno lo strabismo scompaia. Nel caso del vecchio strabico che un giorno lo strabismo scompaia non lo si spera piú. No. Non c’è nessuna possibilità. Un giovane con un piede storto suscita la nostra pietà, non la nostra ripugnanza, un vecchio con un piede storto invece suscita soltanto la nostra ripugnanza. Un giovane con le orecchie a sventola ci fa sorridere, un vecchio con le orecchie a sventola ci mette in imbarazzo e pensiamo: quanto è brutto quest’uomo che per tutta la sua vita ha avuto queste brutte orecchie a sventola. Un giovane in una sedia a rotelle ci commuove. Un vecchio in una sedia a rotelle ci spinge alla disperazione. Un giovane sdentato può sembrarci piú o meno interessante. Ma un vecchio sdentato ci fa venir la nausea, ci fa venir voglia di vomitare». «La giovinezza, – dice lui, – rispetto alla vecchiaia ha tutti i vantaggi e può fare e disfare quel che vuole. La sua ottusità non ci ripugna, la sua spudoratezza è tollerabile. La vecchiaia invece non può permettersi l’ottusità senza prendersi una botta in testa, e la spudoratezza della vecchiaia, come sappiamo, è la cosa piú ripugnante che ci sia. Nel caso del giovane si dice: sí, certo, passerà! Nel caso del vecchio si dice: sí, certo, questo non potrà piú cambiare! Ma in realtà le caratteristiche della giovinezza e quelle della vecchiaia sono esattamente le stesse».  
 Quand’era maestro supplente, per sfuggire alla solitudine e all’isolamento, aveva sviluppato un metodo che s’era dimostrato molto efficace. «Prendevo dei sonniferi, – disse lui, – e gradualmente aumentavo la dose dei sonniferi che prendevo. Alla fine non mi facevano piú nessun effetto, avrei potuto ingerirne quanti ne volevo che tanto non mi sarei addormentato. Continuavo però sempre a prenderne in dose tale che avrei dovuto già essere morto. Ma li rivomitavo tutte le volte. E dopo per giorni interi sono stato incapace di afferrare il benché minimo pensiero ed è stato anche colpa di questa mancanza di pensieri se per lunghi spazi di tempo mi è toccato vivere una vita insopportabile. Bisogna stare attenti a non vivere piú a lungo di quanto si sia in grado di sopportare, – disse lui. – La vita è una causa che si perde sempre, qualunque cosa si faccia e chiunque si sia. Questo era già stabilito prima ancora che l’uomo venisse al mondo. Già al primo uomo era capitato quel che capita a noi. La ribellione conduce a una disperazione ancora piú profonda, – disse lui. – E niente distrazioni. Dai quattordici anni in poi niente piú distrazioni. Dopo la prima donna niente piú distrazioni. Capisce?» I temporali sono l’unico svago e «i lampi la sola poesia». Poiché si è rinchiusi, rinchiusi in una cella individuale, ci si rivolge sempre di piú a se stessi. I problemi che ci poniamo ci uccidono lentamente. «Ma tanto, sa, siamo già morti da sempre». Il fatto è che non esistono piú «condizioni di salvezza». Con le membra sfracellate da millenni di Storia si giace sul pavimento di questa cella. Non c’è piú la terra. «Macchinazioni menzognere», disse lui. E allora sí che l’applicazione del sapere c’inietta nel cervello il senso dell’insignificanza di ogni problema che affrontiamo! «Ogni problema è una sconfitta». Ogni problema è devastazione. Disgusto. Con i problemi passa il tempo e col tempo passano i problemi «in modo talmente insensato che tutto non è che rovina... Ecco, vede, – disse il pittore, – laggiú tutto è nero. Questa notte ho sognato che gli operai sono venuti su in montagna e hanno sommerso il villaggio e la locanda, hanno sommerso tutto. Sono venuti a migliaia e a decine di migliaia e tutto ciò che non apparteneva a loro lo calpestavano oppure affogava in quel loro nero colore. E ora quest’aria senza un filo di vento! Ascolti!» Il macellaio salutò e noi salutammo il macellaio. Le case di Weng sembravano incastrate l’una nell’altra e come spaccate dalla parete di roccia. «In passato, – disse il pittore, – io non avevo nessun genere di comprensione per la fragilità umana. Le sofferenze in genere, sa, mi parevano qualcosa di irregolare! Ma tutt’a un tratto sono stato messo a confronto con la fragilità». Disse: «Lei oggi giocherà a carte? Lo scuoiatore è un buon giocatore. Anche l’ingegnere è un buon giocatore. Tutti sono dei buoni giocatori. Non so perché ho sempre avuto un’avversione contro il gioco delle carte». Borbottò qualcosa sull’idiozia che regna nelle valli di montagna, in alta montagna. E poi: «Padre Nostro che sei all’Inferno, che non venga santificato nessun nome. Che non venga a noi nessun Regno. Che non sia fatta nessuna volontà. Come all’Inferno cosí in terra. Negaci il nostro pane quotidiano. Non rimetterci nessuno dei nostri debiti. Come noi non li rimettiamo ai nostri debitori. Inducici in tentazione e non liberarci dal male. Amen. È cosí che vanno le cose», disse lui.  
 Oggi dovetti andare a prendere il pittore in canonica dov’era andato a far visita al parroco. «Suoni semplicemente il campanello, – mi aveva raccomandato, – e resti ad aspettare; io scenderò subito». Non m’aveva detto di entrare in canonica. Di tanto in tanto lui va a trovare il parroco per parlare con lui «del suo gatto nero, dato che con lui è impossibile parlare d’altro. Ma il vino che beve è talmente buono che continuo sempre ad accettare i suoi inviti», aveva detto il pittore. Sono dunque passato per il cimitero e poi sono andato in canonica. Al cimitero ho letto i nomi scritti sulle tombe dei bambini: qua e là i genitori avevano fatto fotografare il loro bambino morto e fatto applicare questa fotografia sulla pietra tombale. Ma spesso trovavo anche delle tombe senza nome, del tutto sprovviste di qualsiasi indicazione che riguardasse il bambino che vi era sepolto. Mi meravigliai del fatto che la strada che passa tra le tombe dei bambini e conduce al grande letamaio, fosse totalmente priva di orme di passi. Nessuno, perlomeno da diverso tempo, era andato a visitare le tombe dei bambini. E cosí non vi trovai neppure una di quelle candele che nel nostro cimitero a L. si trovano sempre su tutte le tombe dei bambini, quasi sempre accese. Suonai il campanello della canonica e rimasi ad aspettare. Non passò molto tempo che si aprí una finestra al primo piano, feci un passo indietro e vidi lassú in alto il volto di una giovane donna magra apparire dietro a una finestra. La cuoca del parroco, pensai. E subito dopo dall’interno della canonica udii dei passi che s’avvicinavano scendendo le scale. Dietro alla porta il pittore si accomiatò dal parroco. Disse che sarebbe ritornato presto e ringraziò ancora una volta per la merenda. Poi si aprí la porta e ne uscí il pittore. Mi prese sotto braccio e, costeggiando il muro della canonica, mi spinse giú verso i vasti campi dove son piantati i frassini. Il parroco gli aveva parlato di grandi sovvertimenti che stavano avvenendo all’interno di quel «gigantesco apparato» che è la «Chiesa» e del grande slancio del nuovo Papa. «Ma naturalmente, – disse il pittore, – la Chiesa, cosí com’è, non ha nessun diritto di esistere. Perlomeno non in quanto Chiesa!» Poi si lamentò di un «terribile mal di testa che avevo già quando sono giunto alla canonica, ora il mal di testa incomincia sempre prima e perciò non fa che aumentare». La cuoca del parroco è l’amante dello spazzacamino, disse lui, ma è talmente devota a suo fratello, il parroco, che lui senza di lei non potrebbe nemmeno vivere. «Il parroco è figlio di contadini originari del Langau, – disse il pittore, – e non sa assolutamente cavarsela da solo». Disse che gli piaceva il suo candore, che era un «uomo dal cuore d’oro», anche se, come già detto, completamente sprovveduto nelle cose piú semplici. Per non parlare delle visite dell’arcivescovo durante le quali lui si dimostrava completamente inetto. Be’ certo, il parroco conosceva bene il suo atteggiamento verso la Chiesa. E nemmeno faceva alcun tentativo per cercar di convincere il pittore di qualcosa in cui non credeva nemmeno lui.  
 Improvvisamente ci si parò davanti un gruppo di operai della centrale che si dirigevano verso la locanda. Camminavano in silenzio e ci salutarono poiché loro ci conoscevano come noi conoscevamo loro. «Vede, – disse il pittore, dopo che essi si furono allontanati, – quelle persone sono sulla strada giusta, sono persone giuste». Li seguí con lo sguardo mentre passavano sotto agli arbusti di sambuco e poi scomparvero. «Vede, là sul pendio davanti a noi, sul versante nord della valle, verrà a trovarsi il secondo lago artificiale sotterraneo, – disse lui. – Si può benissimo riconoscere l’intero progetto nelle sue grandi linee. La strada che Lei vede là è opera del ministero dell’Energia, i contadini che abitano da quella parte hanno fatto degli enormi guadagni grazie a quella strada che passa accanto alle loro cascine. Gli è soltanto toccato sborsare un contributo davvero minimo a quei ricchi benestanti contadini. Un contributo ridicolo, una somma che per giunta è stata per metà pagata dal ministero dell’Agricoltura. Prima per raggiungere quelle cascine c’era soltanto una strada carreggiabile stretta e accidentata che iniziava dietro alla stazione. Lei lo vede bene: il fiume in quel punto viene fermato e sfruttato, la centrale, come vede, dev’essere in parte costruita dentro al fiume, in parte dentro alla montagna. In tre anni e mezzo di lavori qui sono rimasti uccisi diciotto uomini, uccisi dalla gru, dall’acqua, dai frammenti di roccia, dalle ruote posteriori dei camion. E a pensarci bene, questo non è neanche un prezzo tanto alto! Ci si rende conto delle enormi difficoltà dell’impresa: una regione del tutto inadatta alle costruzioni, vede! Lavorare laggiú vuol già praticamente dir crepare. In realtà tutto questo è ancora molto peggio. La gente è stanca vita natural durante ed è incapace di fare qualcosa di piú elevato. A dirla senza eufemismi, questo formicaio non è altro che un’enorme macchina 
trasportaimmondizie per un progetto di miliardi!»  
 «Ci si domanda se sono davvero uomini, – disse lui, – questi esseri che spesso arrivano claudicando a mezzogiorno meno cinque, entrano claudicando in una baracca o alla mensa oppure nella locanda. Gli operai hanno le proprie esalazioni, il cantiere e la fabbrica di cellulosa hanno le loro; ogni esalazione impregna di sé le altre. E nella fabbrica di cellulosa, Lei deve sapere, i metodi di lavoro sono rimasti gli stessi da decenni. Anche i locali dove si lavora non sono cambiati. Alte finestre dalle quali però non si riesce a guardar fuori perché sono coperte da centimetri di sporcizia. Ma in mezzo al cigolio lamentoso delle macchine non si ha proprio voglia di guardar fuori, e dove mai si guarderebbe? Nel cielo nero. Freddo e nero. Dapprincipio quelli della centrale hanno cercato di arruolare per i propri scopi gli operai della fabbrica di cellulosa. Hanno costruito una baracca per le assunzioni, promettendo anticipi. Ma sono stati pochissimi ad arruolarsi perché la costruzione di una centrale un giorno finisce, magari tra uno due o tre anni, mentre la fabbrica di cellulosa non finisce mai. Perlomeno non in tempo prevedibile. La fabbrica di cellulosa rappresenta per tutti una straordinaria sicurezza. E poi la costruzione della centrale alla fine diventerà una grossa fonte di lavoro per la fabbrica di cellulosa. Quasi tutti laggiú sono comunisti. Il comunismo qui trova un suolo fertile. Proprio qui, in alta montagna, dove non lo si crederebbe possibile. Questa regione sembra fatta apposta perché il comunismo si propaghi. Il comunismo, come Lei forse ignora, rappresenta il futuro provvisorio degli uomini. Il comunismo trionferà ovunque, anche nella valle piú sperduta del mondo. Persino nell’angolino piú segreto dell’ultimo cervello che gli si oppone. Il comunismo è qualcosa che prospera grazie al tanfo e allo sporco, grazie ai contrasti piú tremendi. Il comunismo verrà e allora tutti ne vedranno delle belle! E dietro c’è sempre Mosca che li sostiene e li sorveglia, dietro c’è Mosca che li sostiene e li sorveglia sempre e dappertutto». Disse: «E pensare che si tratta di una valle prettamente cristiana sin dalle origini. Ma dica un po’ la verità, dov’è che al giorno d’oggi può mettere radici il cattolicesimo, e il cristianesimo in generale? Dove mai?» In quel momento ci trovammo in mezzo alla piazza del paese.  
 «Lei è mai stato felice? Ha mai saputo che cos’è la felicità? E si è mai trovato in una situazione dalla quale credeva di non uscire mai piú?» Disse: «Ma io non voglio una risposta alla mia domanda». Dopo che avevamo incontrato lo scuoiatore intento a conversare col ciabattino sull’uscio di casa. Siamo andati sino in canonica e di lí, attraverso il giardino dell’ospizio siamo ritornati alla piazza del paese. «Lei lo sente quando di notte io apro la mia finestra? – domandò lui. – Io molto spesso mi alzo e apro la finestra. Passeggio in su e in giú, in qua e in là. Ma questo non mi tranquillizza. Credo di stare per soffocare: ma non appena il freddo entra a fiotti, mi sento ancora peggio dentro alla mia testa. L’aria fredda, credo io, mi rimetterà in sesto cosí come si rimette in moto un orologio ricaricandolo. E invece non è che un’illusione. Le fatiche e i trucchi per rimettermi in sesto ora diventano sempre piú difficili. Sí, è come per l’orologio. Anche se questo è un paragone semplicissimo, ma io nel parlare sono propenso ad adoperare soltanto paragoni semplicissimi, appigli semplicissimi cui aggrapparmi... Lei certo non sa che cosa sia l’insonnia. In ogni caso Lei non si lamenta di soffrire d’insonnia. Io ora sono tormentato da tutto, come un uomo tormentato da un fiume nel quale abbia fissato lo sguardo senza poterci saltar dentro. Odiosi cardini che ci legano a certe persone e al loro passato. Io in verità non vedo nulla di ben riuscito...» E poi, quando siamo di nuovo nel bosco di larici: «Forse che tutti sono in attesa? In attesa come lo sono io di qualcosa che cambi tutto, che laceri e concluda tutto? Su un piano diverso oppure laggiú in grande profondità?» In quel momento c’imbattiamo nel postino che sta arrivando dalla locanda e ci saluta toccandosi il berretto con la mano. Senza dire una parola. Appena si è allontanato abbastanza il pittore dice: «Anche lui, come quasi tutta la gente di qui ha quei movimenti canini, fa quelle mosse da zampa di cane. Lui odia sua moglie. Odia i figli. Beve. L’uomo è un inferno ideale per i suoi simili. E ogni cosa per gli uomini è un motivo eccezionale per essere cosí come sono!» Passiamo accanto al mucchio di fieno. E poi rapidamente ci avviamo verso la locanda.  
 Di notte incombevano su di lui, come nubi sopra una montagna, e venivano per torturarlo, immagini da lungo sopite: la guerra, la miseria, l’odio. Scacciare il lutto con la ragione, sterile tentativo. Quelle immagini scomparivano solo verso l’alba. L’assurdità di produrre qualcosa, un’immagine, un pensiero, penetra nel mondo delle cellule con il calar delle tenebre e al mattino si dilegua e resta in agguato. «Il giorno ha altri dolori... Io ho un fratello medico, – disse lui, – Lei lo sa, ma questo non mi serve a niente. Dove c’è un medico molte cose vanno a finir male». Accennò di nuovo al proprio mal di testa. «Nella mia prima infanzia una volta, un’unica volta, avevo avuto mal di testa», degli improvvisi «terribili dolori sotto alla calotta cranica», al limitare di un bosco. Poi mai piú, mai piú per decine d’anni, sino all’inizio di questa malattia. Eppure «molti della nostra famiglia sono morti di mal di testa, questo lo so. Questa pazzia che rompe gli argini, che senza una parola stritola le parole ininterrottamente, – disse lui. – Spesso il dolore è anche un impegno». E poi: «Anche contro la mia volontà può raggiungere il suo scopo. Lo raggiunge sempre». Bisogna accettare il dolore «come la visione di un ponte che non si sa dove conduca». Poi ricominciò a parlare della corsa in slitta che abbiamo fatto ieri. Fin giú alla stazione. Poiché lui non sapeva decidersi se star seduto davanti o dietro a me ritardammo la nostra discesa di un quarto d’ora. Questa gita in slitta rievocò scorci della mia infanzia lontana: paesaggi invernali. Ricordavo esattamente i solchi lasciati dalle slitte, il loro colore, la loro profondità e larghezza e la sensazione che provavo a guardarli. Avevo preso abilmente tutte le curve della strada. «Rallenti!» lo sentii gridare piú volte, incuneò la testa nella mia schiena e si avvinghiò a me in uno stretto abbraccio con tutte e due le braccia. Entrammo in diversi negozi, facemmo acquisti e conversammo con i commessi dietro ai banchi. Poi io andai in farmacia per il pittore. Lui mi aspettava alla stazione con le braccia cariche di giornali. Il sindaco ci fece salire sulla sua slitta tirata dai cavalli e ci riportò su fino a Weng. Alla stazione lo aveva preso una grande inquietudine, una sensazione improvvisa di ribrezzo, cosí m’era sembrato. «La gente non sa che farsene di se stessa», disse. Le stazioni sono «centri di pazzie incatenate l’una all’altra. Qui si può studiare a fondo la brutalità». Riferendosi ai sette otto giornali che aveva sulle braccia, disse: «M’interessano soprattutto le idee nuove. Molto meno gli avvenimenti che tengono il mondo col fiato sospeso e che domani saranno già dimenticati. M’interessa invece ciò che avverrà domani, il futuro». Mentre se ne stava lí solo nell’atrio della stazione davanti allo sportello dei biglietti, aveva l’aspetto di un uomo per il quale tutto è un breve gioco da bambini che finisce con la morte. Inganno. Lui oramai non era altro che brandelli di parole e uno squinternato fraseggio.  
 L’ingegnere dice che da domani in poi sarebbero stati costretti a lavorare tutta la notte per riuscire a finire la costruzione nel tempo prestabilito. Quasi tutti s’erano presentati per i turni di notte. Le ore notturne venivano pagate il triplo di quelle diurne e oggi avevano installato dei riflettori per illuminare il cantiere durante la notte. La direzione dei lavori naturalmente ha già previsto che la gente che abita in riva al fiume avrebbe protestato a causa del rumore che loro faranno. Ma «le loro proteste non verranno accolte, cosí è stato concordato con l’amministrazione comunale». Naturalmente la gru di notte fa molto piú rumore che di giorno. Tutto di notte si sente piú che di giorno. Ora che stanno conficcando in terra i pilastri del ponte di comando, il rumore è particolarmente forte. Ma se non lavorassero di notte impiegherebbero un anno di piú. E questa sarebbe una figuraccia per la direzione dei lavori e una perdita finanziaria incalcolabile per le imprese che partecipano alla costruzione della centrale. È sorprendente che i sindacati non abbiano nulla da obiettare contro i turni di notte. L’ingegnere ritiene che i sindacati tacciono soltanto perché loro stessi hanno degli interessi in una delle società che partecipano alla costruzione della centrale. Non obiettano nulla neanche contro i turni delle domeniche e dei giorni festivi, senza contare i sabati e i venerdí pomeriggio. «Adesso si lavorerà senza pausa, – disse l’ingegnere. – Da tempo non riesco piú a dormire. Nel migliore dei casi riesco a riposarmi, niente di piú». Continuano a sorgere delle liti tra i singoli reparti all’interno della direzione dei lavori. Vi è un grave disaccordo circa le ditte cui debbono venire affidati gli incarichi. Anche lí tutto va a seconda dei punti di vista politici. Spesso venivano ordinati pezzi di qualità piú scadente perché la ditta che doveva fornirli, per motivi politici, era piú gradita al gruppo piú forte della direzione che non un’altra ditta in grado di fornire pezzi di migliore qualità. «Era anche uno svantaggio, – disse l’ingegnere, – che non avessero pensato di costruire un numero maggiore di baracche per le mogli e per i figli degli operai. Cosí ogni sera gli tocca farsi sino a sessanta o settanta chilometri di treno per tornare a casa e rifarseli in direzione opposta il mattino dopo». Questo fatto si ripercuote anche sul rendimento del lavoro. Gli operai che non abitano sul terreno del cantiere sono effettivamente piú deboli degli altri. E vengono a costare di piú all’impresa poiché la direzione gli rimborsa le spese ferroviarie. E poi queste persone non si possono utilizzare per i turni di notte. E nemmeno per il lavoro domenicale e festivo. «Quando invece hanno le loro famiglie sul terreno del cantiere, allora lavorano anche di notte e la domenica». Lui, l’ingegnere, ancora oggi farebbe costruire delle baracche per le mogli e i figli. Ne varrebbe ancora la pena. Diminuirebbero anche le relazioni tra gli uomini sposati e le ragazze e le donne del luogo, diminuirebbero le grane. Poiché spesso avviene che gli uomini sposati che non sono del luogo vanno al ristorante della stazione solo per bersi un bicchiere di birra, ma poi i bicchieri diventano quattro o cinque e loro alla fine non si sognano piú di ritornare a casa, si prendono la ragazza di qualche ferroviere e spariscono con lei in un fienile oppure nella stanza di qualche sperduta locanda. Avviene che spesso non tornino a casa per tre o quattro notti finché non ne hanno abbastanza. Allora arrivano le mogli e si lamentano con la direzione dei lavori che però di tutto ciò non sa nulla. «Si potrebbe rimediare costruendo delle baracche per le famiglie, – disse l’ingegnere. – Le trasgressioni in ogni caso si ridurrebbero al minimo». Impedirle del tutto non si può, gli eccessi da ubriachezza esistono sempre ovunque le condizioni di vita sono primitive. «Dove ci sono molti operai si fanno anche molti bambini», dice l’ingegnere. Fanno fare un bambino a ogni ragazza o donna che sia di loro gusto. «A che cosa crede che pensino quando finisce il lavoro?» Lo scuoiatore sogghigna e con una sorsata vuota metà del suo bicchiere. «Nel mio ufficio sono avvenute certe scenate, certe scenate, – dice l’ingegnere, – che a raccontarle nessuno ci crederebbe». Le donne poi hanno un’idea completamente sbagliata dei loro uomini, l’uomo non è proprio fatto per essere sposato. La donna sí, l’uomo no. Il turno di notte dura dalle sei di sera fino alle cinque del mattino. Alle nove di sera e alle due di notte hanno tempo per mangiare. Lui, l’ingegnere, deve invece rimanere alzato di giorno e di notte almeno per un certo numero di ore. «Ho degli ottimi capotecnici e capomastri, degli ottimi muratori e cementisti, – disse, – ma bisogna sempre stargli dietro lo stesso». Lui non era un uomo gretto. Quando di recente la moglie di uno degli operai stava per partorire era andato a prenderla con la sua automobile e l’aveva accompagnata in ospedale. «È con simili piaceri che ci si conquista la simpatia della gente», dice lui. Lo scuoiatore domanda a che profondità si doveva scavare dentro al fiume. «A venti metri», dice l’ingegnere. Vuol sapere se avevano già finito con lo spostamento delle rotaie che si era reso necessario. «Sí», dice l’ingegnere. S’era dovuto far saltare ventimila metri cubi di roccia della montagna per poter spostare le rotaie. «Questo nel preventivo non c’era, – dice lui. – Soltanto questo è costato qualche milione». È cosí che nei lavori di costruzione, anche in quelli che non sono grandi come questo, c’è sempre qualche spesa imprevista. «Nelle imprese di costruzione il piú delle volte bisogna calcolare il doppio del previsto, – dice l’ingegnere. – Molti confidano troppo nelle proprie forze e vanno in rovina per questo. Molte costruzioni restano incompiute e cadono in pezzi». Un imprenditore privato deve avere una riserva almeno doppia del preventivo per non doversi ritirare. «Solo e unicamente lo Stato può permettersi di costruire ciò che vuole e come lo vuole e riuscirà a portare a termine il lavoro, poiché lo Stato ha e riesce a procurarsi il denaro necessario».  
 Tra me e il pittore c’è un rapporto di semi-torpore. Le sue parole sono come una pioggia lontana, come nuvole gonfie sopra un paesaggio sconosciuto che gettano le loro ombre su ogni luogo vicino. Dice: «La vicinanza di un uomo fa nascere in me il desiderio di conoscerlo fino al punto in cui quell’uomo non esiste piú. È cosí che succede tra gli uomini». Poi si mette a parlare della passeggiata di ieri durante la quale gli è venuto in mente che la Luna non dista dalla Terra quanto la ragione dal cuore dell’uomo. «Sempre si spazia nel proprio cuore, all’inizio è cosí bello ed è proprio per questo che dopo diventa intollerabile e che le ripercussioni su tutto sono cosí tremende». L’inizio è già la fine, con questa frase per lui si spiega tutto, e poi: «Un tavolo è anche una finestra e una finestra è anche la donna che sta alla finestra, il letto di un torrente equivale alla montagna che si riflette nel torrente, una città è anche l’aria che avvolge la città». Cosí avviluppato su se stesso «l’uomo è perduto... Vie di scampo? Non c’è risposta». Inspirare gli fa venire la nausea. Dice: «Lei certamente è tormentato da molte idee. Da molte concezioni». E poi: «Prima avevo pensato di portarLa su con me in camera mia e di restar lí a conversare. Ma sono troppo stanco. La giovinezza è aggressiva nei confronti della vecchiaia che finisce con lo stringersi nelle spalle. Che da un pezzo si stringe nelle spalle. Si è anche continuamente esposti a individui che odiano tutto ciò che è spirituale. Ho dovuto difendermi tutta la vita. Soprattutto dalle donne. Non faccio altro che porre fine a una poderosa messa in scena di pensieri: si guardi dalle donne, e piú che mai da quella parte della loro femminilità che mira ad annientarla. Gli uomini non fanno altro che seguire la via della comodità, il loro bisogno di calore, il gusto per l’ornamento, tutte qualità squisitamente femminili, nemiche dell’uomo. La femmina, l’elemento femminile in generale, schiaccia l’uomo riducendolo ai propri sentimenti antimaschili. Potrei elencarLe una serie di uomini di prim’ordine che son stati rovinati dalle loro mogli. Personalità dotate del massimo talento, uomini della massima levatura. L’elemento femminile per sua natura è traditore. Corrode e svilisce. È veleno per lo Spirito maschile, per lo Spirito in generale, per l’elemento maschile. Quando si tratta di scomporre l’uomo nelle sue componenti per non ricostruirlo mai piú... Considerata scientificamente la donna rappresenta lo sbeffeggiamento dell’uomo... I nemici secolari del pensiero... Ai loro uomini proibiscono persino di leggere il giornale... Sí, l’uomo che le mantiene non è assolutamente autorizzato a pensare... La donna non fa che demolire ed è incapace di amicizia... Fattrice di matrimoni e di bambini, solo al momento del parto non è bugiarda. Le donne sono fatte solo peril letto. La femmina non capisce nessun gioco. È uno strumento del diavolo ed è responsabile della tragedia del genere umano».  
 Durante la notte, poiché non riuscivo ad addormentarmi e finivo sempre col pensare a me stesso, poiché non vi era nulla con cui riuscissi a distrarmi da me stesso, mi alzai e andai alla finestra a guardar fuori. Ma non vidi nulla. Rimanere in camera mi parve intollerabile e cosí mi infilai i vestiti, richiusi la porta dietro di me e scesi giú. Nell’atrio era accesa la luce piccola. Avevo intenzione di andare davanti alla casa e forse di seguire un tratto di strada. Già in passato, quand’ero bambino, mi ero alzato nel cuore della notte e avevo percorso un tratto di strada, attraversato un ponticello, un tratto di bosco e avevo avuto paura; ma ero stato io stesso a mettermi in quella situazione, e volevo che anche questa volta andasse cosí. Forse vado nel bosco di larici, pensai. Ma quando stavo per aprire la porta m’accorsi che non era affatto sprangata, che il paletto non era stato infilato e allora scoprii anche un debole chiarore che veniva dalla sala da pranzo e si rifletteva sulla parete antistante; improvvisamente nella sala da pranzo s’era accesa la luce, forse perché mi avevano sentito, ma non riuscivo a immaginare chi a quell’ora potesse trovarsi in sala; io veramente non sapevo che ore fossero, ma era abbastanza tardi da presumere che tutti stessero dormendo. Sulle prime non volevo entrare, poi presi lo slancio e aprii la porta. Allora vidi, nell’angolo accanto al banco delle mescite, che è anche il mio posto preferito, lo scuoiatore assieme alla moglie dell’oste. Sembravano impegnati in una discussione, ma non riuscirono a darmela a intendere, in realtà avevano appena fatto l’amore, questo lo capii soprattutto da come erano vestiti tutti e due e dalle loro facce pallide e tirate. Sul tavolo erano posati i loro bicchieri di birra semivuoti. C’erano dei pezzi di pane un po’ dappertutto. Le scarpe dello scuoiatore si trovavano sul tavolo. Se le era tolte quando s’erano sdraiati sulla panca, pensai. La moglie dell’oste era spettinata. Tutto questo io lo notai con un solo sguardo. Volevo tornarmene fuori immediatamente, ma lo scuoiatore mi disse di sedermi con loro. Che avevano avuto da discutere su qualcosa, sulla situazione alla locanda, disse lui mentendo e levando dal tavolo le scarpe che poi si infilò sotto al tavolo, mentre la moglie dell’oste s’era tirata su a sedere bella dritta e aveva preso in mano uno dei bicchieri di birra e ne aveva bevuto un sorso. A volte si sente il bisogno di star svegli tutta la notte, disse lo scuoiatore, in quelle not-ti, se si sta seduti in compagnia, ci vengono delle idee meravigliose e poi anche le conversazioni di notte riescono meglio. Vuole un bicchiere di birra? domandò lui. Mi sedetti al loro tavolo. In sala faceva fresco e improvvisamente sentii freddo. Lo scuoiatore si alzò e mi riempí il bicchiere. Lo posò sul tavolo e si rimise a sedere. La moglie dell’oste aveva intenzione di vendere la locanda, disse lo scuoiatore, suo marito invece, il quale si trova in prigione come certamente avevo saputo dal pittore, era contrario. La moglie dell’oste voleva andarsene via per sempre da quella regione dove ora, soprattutto per via di suo marito, era mal vista. Anche le sue figlie non avevano di che stare allegre. Avrebbe preferito andarsene oggi stesso che aspettare un giorno di piú, meglio ancora se la locanda non l’avesse mai piú rivista in vita sua. Questo però, indipendentemente dal fatto che l’oste fosse contrario e che sarebbe sempre stato contrario, è «improbabile, – disse lo scuoiatore, – indipendentemente da tutto quanto, una locanda come questa è difficile da vendere. Una locanda priva di qualsiasi attrattiva e che non è nemmeno in buone condizioni di manutenzione». «Per non parlare della sua posizione, – disse lo scuoiatore. – La moglie dell’oste pensa soprattutto al futuro delle sue figlie che qui a Weng sembra piuttosto scarso di prospettive. E soprattutto ha paura che suo marito esca di prigione perché lui certamente continuerà a condurre la vita di prima riprendendo dal punto in cui l’aveva interrotta, in cui era stato costretto a interromperla». L’oste aveva scritto che contava di venir dimesso entro qualche mese «per buona condotta» e che allora sarebbe venuto «a rimettere ordine» nella locanda. In tutti i casi una grande disgrazia s’era abbattuta su quella famiglia, disse lo scuoiatore, una famiglia in cui non si capivano l’uno con l’altro. La moglie dell’oste poi non era il tipo di donna che facesse per l’oste. E quanto a lei stare con quell’uomo era la sua rovina. Lei ora gli mandava continuamente dei viveri, disse lo scuoiatore, e lui non la ringraziava nemmeno come avrebbe dovuto. «Ma un uomo che è isolato dagli altri e che da tutti vien considerato un criminale, secondo Lei, non va forse aiutato?» «Sí, – dissi io, – un uomo simile va aiutato, qualunque cosa abbia fatto, in qualunque modo venga considerato, qualunque cosa abbia sulla coscienza e qualunque cosa in certi casi ci abbia fatto o abbia fatto di noi. Bisogna sempre aiutare quelli che sono in prigione. Non segnarli a dito, ma aiutarli. In realtà si trova sempre il modo di aiutarli». Sua moglie gli aveva mandato anche un paio di calze di lana. Ma, «a sentir lei, che lo conosce, suo marito, non appena sarà ritornato, le farà qualcosa di orribile. La ucciderà, – disse lo scuoiatore, – tanto piú che lui sa che è stata lei a denunciarlo e a mandarlo in prigione e nel penitenziario». Inoltre, una volta terminata la costruzione della centrale e quando gli operai non verranno piú a mangiare e a bere, la locanda potrà chiudere i battenti, visto che gli abitanti del luogo la evitano. In passato alla locanda si facevano persino pranzi di nozze e banchetti funebri, come in tutte le altre locande del luogo, ma tutto questo è finito. Non c’era piú un solo contadino che venisse da loro, non ci venivano nemmeno i loro figli i quali, come si sa bene, si preoccupano meno di «simili faccende». «Quando sarà finita la centrale, sarà finita anche per noi», disse la moglie dell’oste. Ma l’oste non vuole andarsene. «In realtà questa è soltanto la sua patria», disse lei. Lei voleva abbandonare completamente il mestiere dell’albergatrice e forse andarsene ad abitare in città. Lei se la sarebbe saputa cavare. Un lavoro si trova sempre, basta cercarlo. In questo momento di lavoro ce n’è quanto se ne vuole. Lei poi in questa vallata era sempre stata un pesce fuori d’acqua. In realtà lei era venuta qui controvoglia solo perché aveva già il bambino nella pancia. Questo non era del tutto vero, ma il racconto era verosimile e io rimasi ad ascoltare attentamente per tutto il tempo. Lo scuoiatore disse: «In città una donna può trovare un lavoro leggero che non la stanchi per niente. In fabbrica per esempio. Qualcosa di simile al lavoro nella fabbrica di cellulosa laggiú nella valle dove le donne certo non si ammazzano di fatica e vengono pagate abbastanza bene. Con quei salari si possono anche mantenere dei bambini». Inoltre le figlie sono già cosí grandi che in realtà il peggio è passato e presto o tardi una delle due si sposerà. Tutto sarebbe semplicissimo senza suo marito. Fu allora che si giunse alla frase che, non appena lei l’ebbe pronunciata, gelò l’atmosfera di colpo, cioè la frase: «Se soltanto lui non ci fosse piú!» Lo scuoiatore allora tentò di distoglierci da quelle terribili parole dicendo: «Nella fabbrica di cellulosa hanno introdotto un sistema di incentivi», chissà se io ne avevo sentito parlare. Ma si accorse che non lo stavo seguendo. E alla fine disse: «Sí, è piuttosto difficile per una donna stare con un uomo che abbia il carattere dell’oste». «Sí, è difficile», dissi io. La moglie dell’oste allora si alzò, andò in cucina e ne riportò un enorme Schlögel fatto da lei e ancora caldo. «Voglio subito tagliarne una fetta, – disse lei, – questa è una buona occasione». Affondò il coltello nello Schlögel invitandoci a prenderne quanto ne volevamo. «Quello migliore è fatto con l’uvetta», disse lei. Quella sera lei s’era sentita piuttosto stanca, dopo aver rigovernato aveva sentito il bisogno di sedersi e s’era addormentata, ma solo per poco, per dieci o quindici minuti, poi le sue figlie l’avevano svegliata e lei aveva dovuto andare dietro alla casa a vedere l’uomo di neve che esse avevano costruito. L’uomo di neve l’aveva spaventata e lei era subito ritornata in casa. «Le bambine non riuscivano a capire perché mai mi fossi spaventata, – disse la moglie dell’oste, – ma si trattava di un uomo di neve orribile. Le bambine non si rendono conto di quel che hanno fatto». Poi tutt’a un tratto alla locanda c’era di nuovo stato del movimento, erano entrati alcuni operai già ubriachi e avevano tracannato tanta birra «quanta ne potevano contenere le loro pance», era apparso il gendarme e li aveva cacciati via, ma poi ne erano entrati degli altri, qualche sconosciuto era arrivato dopo mezzanotte, era ormai l’una «quando se ne fu andato anche l’ultimo ospite». Allora tutt’a un tratto lei si sentí fresca e riposata come non s’era sentita da tempo. Allora lei e lo scuoiatore decisero di non andare a letto per niente e di restare invece seduti in sala da pranzo fino al mattino. «Sí, – dissi io, – non dormire per una notte intera può essere una buona cosa». Mi alzai e loro dissero che sarebbero ancora rimasti lí a sedere – come già detto – fino al mattino. Io me ne tornai in camera mia e m’addormentai subito.  






















Ventesimo giorno 





 Mi alzo alle sei come d’abitudine e accendo la stufa. La legna me la preparo sempre la sera prima di andare a dormire. È ancora buio, ma la luce mi basta per lavarmi. L’acqua fredda mi tonifica molto e piú di tutto mi piacerebbe far subito una passeggiata, andare fino in paese e tornare oppure andare fino in chiesa e tornare o anche soltanto fino al bosco di larici della locanda. Ma sveglierei tutti gli ospiti della locanda. La moglie dell’oste me lo proibirebbe. Cosí resto seduto davanti alla finestra a guardar fuori e non vedo altro che un tronco d’albero e la neve e nella neve le orme dei caprioli, dei cani e delle galline, e leggo il mio libro, l’Henry James che è un’eccellente distrazione. Poi all’ora della prima colazione scendo in sala e aspetto il pittore perché non sia costretto a far colazione da solo. Io al mattino ho molto appetito. La moglie dell’oste corre di qua e di là e caccia via le figlie perché vadano a scuola. I primi a lasciare la locanda dopo le bambine sono l’ingegnere e lo scuoiatore che abitano al primo piano. Spesso già prima delle otto appaiono dei clienti che non avevo visto la sera prima, clienti arrivati di notte per ripartire il mattino dopo. Commercianti, vagabondi e chissà quali altre persone irrequiete che si son fatta una grande dormita alla locanda, perlopiú mal vestite, con addosso stoffe da poco, sprovviste di muffole, ai piedi spesso soltanto le scarpe basse, ma che poi pagano con grosse banconote e ordinano certe colazioni che io non oserei mai ordinare, con uova e carne affumicata, al mattino presto si bevono persino un bicchier di vino e tirano fuori dalle loro tasche i giornali, si appoggiano all’indietro e si dànno l’aria di essere informati su tutto. Talvolta vedo anche delle donne, come per esempio ieri, si tratta di parenti di gente del paese che non possono dormire a casa dei loro congiunti perché mancano i letti, non fanno nemmeno colazione alla locanda, ma di buon mattino escono a stomaco vuoto dalla locanda e vanno al villaggio dove li attende una colazione.  
 Dopo colazione vado in paese col pittore, facciamo delle spese, gironzoliamo per la piazza e decidiamo dove andare ancora la mattina stessa e dove nel pomeriggio. «E se andassimo su alla chiesa?» dico io e il pittore dice: «Alla chiesa? Ma se ci siamo andati ieri». Allora dico: «Andiamo nel bosco di larici!» «Nel bosco di larici? – dice lui. – Ma se nel bosco di larici ci siamo stati ieri». «Allora prendiamo il sentiero infossato nel bosco. Oppure andiamo subito giú alla stazione!» «Sí, andiamo giú alla stazione», dice allora il pittore. «La stazione è l’unico posto dove abbia un senso andare, perché ci sono i giornali. Ammesso che ci sia un posto che abbia un senso, che ci sia qualcosa che abbia un senso. Ma ce l’ha un senso?» Poi capitiamo davanti alla vetrina del ciabattino, ci guardiamo dentro e pensiamo: come sono a buon mercato le scarpe che vende! «Ma non valgono nemmeno un granché, – dice il pittore, – guardi, questo non è neanche cuoio!» Poi attraversiamo la piazza e andiamo all’ufficio del Comune dove tutti salutano gentilmente il pittore. «Qui tutti mi conoscono, – dice lui. – E sono cosí gentili con me perché da me continuano ad aspettarsi delle somme di denaro. E invece da me di denaro non ne avranno piú. Il Comune non riceverà piú denaro da me. Il parroco forse sí, il Comune no. Il Comune non ha nemmeno cambiato le panchine. Le panchine vecchie son tutte rotte, ma il Comune di nuove non ce ne dà». Poi ci troviamo fra le due costruzioni piú vecchie del paese, tra la scuola e la macelleria e guardiamo giú nella valle. «Vede, – dice il pittore, – qui Lei ha davanti agli occhi la grande bruttezza. Guardi le case d’affitto dei ferrovieri! Guardi la centrale! Guardi la fabbrica di cellulosa! Guardi la gente che laggiú corre in tutte le direzioni come topi o insetti spaventati! Guardi, quella è la casa del medico. La casa dell’architetto! La fabbrica di birra! La stazione, guardi!» È stanco. Mi domanda: «Lo sa Lei che cosa c’è oggi a pranzo? Non lo sa?» E poi: «Dieci anni fa Lei avrebbe dovuto vedere come andavo forte in montagna. Su di qua! Su di là! Vede: là dove si trova quel puntino bianco, lassú in cima in cima, quella è una cappella, un tempo io solevo oltrepassare quella cappella completamente solo e fare la traversata fino al Hochkönig, sino a quell’imponente massiccio che di qui non si riesce a vedere. Ma dalla casa del distillatore di grappa, nelle limpide giornate di sole si vedono tutte le dentellature di quell’enorme roccia calcarea».  
 A mezzogiorno mangiamo insieme. Poi il pittore va a coricarsi un momento mentre io continuo a leggere il mio Henry James. Spesso leggo intere pagine senza sapere che cosa ho letto. Allora ricomincio da capo e scopro com’era bello ciò che avevo letto. Tratta di gente che è infelice. Chiudo il libro, vado alla finestra e butto giú degli appunti, scrivo nel quaderno quello che mi passa per la mente, esattamente come mi passa per la mente, poi sento il pittore al piano di sotto che esce dalla sua camera e mi chiama. Scendo e siamo subito sul sentiero che conduce al bosco di larici, sul sentiero che conduce alla chiesa oppure già un bel pezzo avanti nel sentiero infossato nel bosco. Il pittore parla e io lo ascolto. Non capisco che una minima parte di ciò che dice, spesso perché lo dice a voce troppo bassa, come se parlasse tra sé e sé, altre volte non lo capisco anche perché mi sembra sconclusionato, altre volte ancora perché io sono troppo stupido. E come farei a capire una frase come questa: «La terra sarà anche chiara, ma io mi sento come stretto fra i suoi cardini, senza che mi venga usato alcun riguardo, capisce?» Spesso si ferma perché ciò che ha detto lo ha stancato. Di tanto in tanto mi fa qualche domanda. Per esempio: «Che cos’è per Lei la noia? Che cosa pensa dello Stato? Qual è la differenza tra me e Lei? È grandezza questa? Lei si tratterrà qui ancora a lungo? Ci sono delle differenze tra me e Lei? Crede nel miracolo della matematica? Che cosa fa quando va in camera sua? È grande il giardino dove si trova la casa dei suoi genitori? Quali piante vi crescono? Fa freddo nel luogo dove abita Lei? E che cosa fa la gente di sera? Suo padre legge? Come Le è potuto venire in mente di contraddirmi? Ma io tanto lo so che lei non voleva affatto contraddirmi! Lei per un bicchiere di latte paga quel che pago io? Non La sorprende che la moglie dell’oste non Le abbia domandato dove sono stato ieri? Quante volte Lei crede che io sia già venuto a Weng? È stato Suo padre ad aver detto questo? Le piacciono le grandi città? Questo libro? E Sua sorella, mi dica? Non va a teatro? E la Terra, Lei crede che resterà inesplorata? Non ha paura, Lei? No? Sí? Gli uomini! L’idea!»  

 La storia del boscaiolo morto.  

 Lui dice: «Che esperienza orribile, sa, ieri sera volevo raccontargliela, ma Lei se n’era già andato. La storia del morto. Cerchi dunque d’immaginare, io sto seguendo la scorciatoia. Faccio un pezzo di strada. E sono di umore piuttosto buono. Con una mano mi tengo allo steccato. Arrivo all’albero e vedo un gruppetto di persone che si voltano a guardarmi proprio mentre io mi volto a guardare loro, io vedo queste persone; forse mi sono voltato a guardarle proprio perché loro si sono voltate a guardare me. Ma trovo strano il fatto che non me li fossi visti passare accanto. Infatti dovevano essermi passati accanto, ché altrimenti non avrebbero potuto trovarsi nel luogo dove li avevo visti quando m’ero voltato. Capisce? Devo essere passato accanto a loro senza accorgermene oppure dovevo essere profondamente immerso nei miei pensieri. Erano degli sconosciuti. A quanto mi parve non molto bene equipaggiati per la campagna. Non per questa regione. Probabilmente erano soltanto dei gitanti venuti da chissà dove. Era anche possibile che venissero dalla città. Le loro giacche erano giacche cittadine. Si atteggiavano a persone colte, cosí mi parve. Ad ogni modo la presenza di quelle persone mi sorprese e mi domandai se dovessi prendere il sentiero infossato nel bosco o invece la strada, se non fosse meglio tornare indietro sulla strada. No, mi dissi, non torno indietro e prendo la prossima scorciatoia che conduce al fiume subito dietro al bosco di larici, allungo il passo e vado a sbucare dietro alla stazione. Avevo l’intenzione di andare al caffè. Prima però, penso, vado a comprare i giornali alla stazione. Scendeva la sera. Mi trovo sul ponte quando incontro quell’uomo, sa, quello con gli stivali di gomma, uno di quei boscaioli che in questa stagione s’incontrano dappertutto con i loro lucidi stivali, il berretto di cuoio nero ben calcato in testa, le muffole di lana e quell’ininterrotto spaventoso schioccare di frusta. Uno di quegli uomini dai pantaloni a sbuffo sopra una slitta tirata da cavalli su cui ha caricato dei tronchi di pino. Per una settimana li trascinavano giú lungo i torrenti, la settimana dopo li trasportano fino alla stazione oppure alla segheria o anche in casa di vicini. Mi volto a guardarlo proprio mentre sono immerso nei pensieri cui Le ho appena accennato, quand’ecco che lui mi domanda che ore sono: “Le quattro e mezzo”, dico io. Lo vedo ancora distintamente: un volto giovane ma già disfatto, pallido e illividito dal freddo, e gli domando da dove viene, dove abita e lui me lo dice. Che viene dal versante nord, dice. Continuo per la mia strada. E come di solito ci si dimentica di uno che s’in contra per la strada, mi sono dimenticato di lui. Ho fretta di attraversare il ponte per raggiungere la stazione. Quando a un tratto, ho appena passato il ponte, sento un rumore, un rumore che non saprei descrivere meglio, ad ogni modo un rumore tale che, appena lo sento, mi fa subito tornare indietro, ed ecco che vedo l’uomo col quale poco prima avevo ancora scambiato qualche parola, il giovane boscaiolo, lo vedo sotto la slitta: fa ancora qualche movimento con le mani, ma le gambe sono ormai rigide. È morto. Ora c’è della gente che accorre, dalle case dei ferrovieri, dalla stazione, c’è gente che vien su dal villaggio, ben presto attorno a lui c’è una gran folla. Io mi chino su di lui e constato che è proprio morto. Ha già quel colore in volto, quel giallo, quel giallo-nerastro, la rigidità della morte. In terra scopro una pozza di sangue: la gente vorrebbe portar via la slitta ma io glielo impedisco perché in una situazione simile nulla deve essere toccato: “Indietro!» grido io e li minaccio col bastone. I cavalli erano calmissimi. Vedo luccicare gli stivali di gomma poiché sul morto dondola una lanterna. Sa, con quell’uomo avevo parlato poco prima... “Le quattro e mezza...” Poi arrivò un medico. Trasportarono il morto per un tratto dentro al paese e lo deposero accanto al muro di una casa. Lo portarono in casa. Poi ritornarono alla slitta coi cavalli per trainarla verso il paese. Rimasero ancora lí per un bel po’ attorno alla pozza di sangue, mentre il freddo diventava sempre piú intenso. Sul fiume, sa, a metà del ponte... Quando tornai indietro con la mia roba da leggere sotto al braccio, c’era ancora della gente attorno alla pozza di sangue. Il boscaiolo era scivolato e la slitta gli era passata sopra schiacciandogli la cassa toracica. Non riuscivo a liberarmi da quell’odore, da quell’odore di morto. E poi, sa, quando arrivai lassú all’uscita dal bosco di larici forse erano già le otto o le otto e mezzo, in quella notte di luna, rividi le persone che avevo visto prima di essere sceso alla stazione. E le vidi nello stesso identico luogo di prima. Era come se mi avessero aspettato. Mentre io guardavo verso di loro, ridevano tra sé e sé come scossi da brividi di freddo. Ero sconcertato. Soprattutto dopo la faccenda del morto. Dovetti fare una gran deviazione per non incontrare quelle persone. Persone orribili, vestite da città, che continuavano a ridere in modo protervo».  
 Già alle tre incomincia a imbrunire. La luce scompare all’est e poi continua a dileguarsi finché non scompare anche qui. Il cielo è quasi nero. Nel sentiero infossato nel bosco il pittore spesso si mette a saltellare. In lui osservo delle caratteristiche canine. Per esempio: talvolta gira la testa come un grosso cane che sia stato abbandonato dal suo padrone. Per ben due volte ho trascorso un pomeriggio per conto mio. Son andato in paese, poi sono sceso alla stazione nel terreno della fabbrica di cellulosa. Al buio ho cercato di prendere la scorciatoia per risalire, ma non ci sono riuscito e son dovuto ritornare indietro e poi ho continuato per la strada. Sono stato contento di vedere le prime luci e poi di trovarmi in paese. Sul sentiero che conduce alla locanda ho avuto paura. Non so di che cosa, all’improvviso strada facendo incontravo delle persone che mi si paravano davanti, ma poi non mi rivolgevano la parola. Il pomeriggio prima, trascorso in solitudine anche quello, perché il pittore era rimasto in camera sua – «Voglio tentar di mettere qualcosa sulla carta!» – avevo incontrato la moglie dell’oste. Assieme a lei sono andato sino al mucchio di fieno. Del pittore lei disse che «in passato vestiva in modo piú elegante». Voleva sapere se «non avessi notato nulla di strano» nel pittore Strauch. «No, – dissi io, – a me non sembra strano. Perché mai?» Lei non disse nulla e si recò in un cascinale che si trovava nelle vicinanze. Era lí che andava a prendere il latte. La cena non durò a lungo, a cena bisogna far presto a ingoiare tutto prima che si freddi. Anche perché in cucina son lí che aspettano il piatto e le posate per poterle lavare. Durante i pasti mi ritorna in mente tutto ciò che mi è capitato durante la giornata. Penso anche a quel che dovrò scrivere all’assistente. Ma non vi è nulla di piú difficile. Ad ogni modo non riesco a esprimermi come vorrei, nella mia testa è come se tutto fosse morto. Mi precipito su in camera mia e scrivo questo e quello, ma è come se scrivendo assassinassi ogni cosa. E allora non resta piú niente di niente.  
 «Le malattie mortali inducono i malati ad abbandonarsi completamente a esse. Questo l’ho sempre osservato, – dice il pittore, – e la letteratura medico-scientifica lo dimostra. Chi ha una malattia mortale o meglio l’ammalato di morte, si rinchiude nella sua malattia mortale, prima con stupore poi con rassegnazione. La malattia mortale fa credere al malato di vivere in un mondo a sé. Quelli che hanno una malattia mortale, gli ammalati di morte, sono vittime di questo inganno e da quel giorno vivono in questo inganno, nella loro malattia mortale, nel mondo illusorio della loro malattia mortale, non piú nel mondo della realtà. Il mondo illusorio della malattia mortale e il mondo della realtà sono due concezioni opposte. Chi ha una malattia mortale non si fida del mondo reale, della sua realtà, ma si abbandona completamente alla propria malattia mortale. Le malattie mortali “sono delle seduzioni ritmico-religiose”. Le persone vi si addentrano come in un giardino ad esse sconosciuto. Di colpo (Lei lo sa, si tratta di malattie mortali con il loro lungo decorso e con quella sensazione che chiamano “di abitudine-alla-malattia-mortale”) improvvisa e fulminea, è la morte. Le malattie mortali sono un paesaggio esotico. Un avanzare dell’egoismo piú profondo che viene dal profondo». E dice: «Qui vi sono anche delle valli ostinate e in queste valli si trovano ville e castelli. Entrando in queste ville e castelli si vede subito: il mondo dal quale veniamo noi qui è lontanissimo. Lei deve immaginarsi un mondo del tutto irreale, simile alla realtà piú profonda. Si aprono porte dietro alle quali appaiono persone vestite di abiti preziosi, persone degne di sedere su un trono, come ritagliate da un dipinto immaginario, persone che prendono vita solo quando gli si avvicina e si prova a toccarle. Quando ci rivolgono la parola, ci si convince di non aver mai udito una voce prima d’allora, mai udita una lingua, di essere sempre stati inesperti nell’arte di ascoltare e di esprimersi, del tutto ignari di cosa siano le parole. E in realtà non parliamo affatto, ma restiamo stupiti in ascolto: fra tutte le cose intercorrono rapporti utili, non vi sono errori, il male e il caso ne sono esclusi. La semplicità è come una limpida volta celeste sopra i nostri pensieri. Nulla di fantastico, benché tutto scaturisca dalla fantasia. Un benessere che è semplice, un calore umano dove non v’è traccia di criminalità. Neanche l’ombra della discordia. Perpetuo divieto di caccia. La fredda stagione, le idee innate e il cuore. Volti buoni che sembrano forme eterne. Lucidi pensieri penetrano anche l’aria e “Dio mio!” esclama la virtú. Le frasi e i sentimenti raggiungono lentamente il loro culmine, l’arte di stupire. Qui vigono leggi prive di violenza, lo spirito e il carattere convivono armoniosamente nella natura umana. La logica viene messa in musica. La vecchiaia all’improvviso è di nuovo capace di bellezza, la giovinezza è sana e s’erge come un promontorio. La verità giace sul fondo come l’inesplorabile».  









Ventunesimo giorno 





 Le sue frasi sono colpi di remo con cui lui potrebbe procedere se non ci fosse quella forte corrente. Qualche volta si arresta, tace all’improvviso, come per accertarsi se alla situazione in cui si trova ne seguirà davvero una diversa. «Non si può dirigere niente». Futuro e passato remoto per lui sono appesi alla stessa fune e spesso si ritrovano anche dieci volte in un’unica frase. Lui è uno di quegli uomini che pensano continuamente in termini di gravi perdite, incapaci di distacco. Gli appare il mare e nel mare una pietra caduta sul fondo, un enorme macigno, le parti di una enorme città, la fine di una storia imprevedibile e antichissima. La morte tesse la sua rete... Colori che non sono altro che escrescenze carnose lo stordiscono anche filosoficamente... Andare a cercare e calarsi negli estremi per poterli poi di nuovo sputar fuori. Eccitazioni prodotte da inquietanti immagini subacquee. Spesso ricorre la parola «contrazione». La parola «vero» e poi le altre: «falso» e «irreale». La parola «spiga di grano» in certi casi acquista il significato di «intera storia del nostro benessere». Sono i suoi occhi che parlano, sono gli occhi in cui si materializza il suo pensiero, che alternano furore e calma davanti agli occhi altrui per creare dell’inquietudine negli altri. Il pittore, credo, è un tipo cosí particolare che nessuno mai potrà capire. Nessuno. È un essere inclassificabile. Con quel suo esser sempre concentrato su se stesso e quel suo allontanare tutto da sé, lui ha fatto uso di ogni sua possibilità fino alla nausea. Guardare lui è come guardare i millenni... «Le montagne, sa, spesso sono degli amplificatori che permettono di vedere molto lontano». Oppure «in modo disumanamente umano». È capace di irritare la gente anche dove la gente non c’è. Di frenare la collera anche dove non esiste collera. «Non sta forse parlando un animale? Non sono forse un orrendo insetto?» Tutto mira a far progredire il declino. Tutto fa pensare a un’infanzia in cui amasse esprimere giudizi, a un’infanzia ben presto ferita, tutto fa pensare alla «lesione di qualche centro nervoso», a una fertile e organica duplicità della follia.  
 Incontrai il pittore assieme al gendarme. Quando gli dissi che mi sarebbe piaciuto passare per il sentiero infossato nel bosco al pittore venne voglia di seguirmi, il gendarme si accomiatò. Camminava a fatica attraverso il campo di grano per andare al campo di bocce sul ghiaccio dove giocavano dei bambini. Il gendarme ha raccontato al pittore che durante la notte nella locanda Wagner c’era stata una zuffa tra la gente del luogo e i baracconisti. I baracconisti avevano gozzovigliato e non volendo pagare il conto avevano tentato di sparire dalla porta del retro, ma erano stati visti e infine catturati. Il gendarme che per caso si trovava nella locanda Wagner li aveva minacciati con la pistola e allora s’erano lasciati catturare. Uno dei baracconisti era scappato in direzione del bosco di larici. Un altro erano riusciti a riacciuffarlo vicino allo stagno. Nella zuffa qualcuno dei giovani contadini aveva riportato delle ferite alla testa, lo stesso gendarme s’è preso un calcio nel ventre e ora lamenta forti dolori. I baracconisti sono stati arrestati, rinchiusi nella prigione comunale e gli verrà fatto un processo. Saranno accusati di truffa e in molti casi di gravi lesioni personali. Stamattina durante il funerale avevano dovuto portare in ospedale il garzone del ciabattino. Era caduto in terra svenuto, colpito da un pugno. Il medico che è venuto in paese per curare il ferito ha riscontrato che il garzone del ciabattino aveva la commozione cerebrale. La frattura della base cranica. E una lesione alla spina dorsale. Ma non si è parlato di paralisi. Tutto era incominciato cantando e ballando, dice il pittore. Improvvisamente la sala s’era svuotata in modo sorprendente e ai giovani contadini era bastato scambiarsi uno sguardo per capire «a che gioco tutt’a un tratto si stesse giocando». Si sono messi a tutte le uscite per sbarrare il passo ai baracconisti. «I baracconisti tengono i loro carrozzoni alla stazione», disse il pittore. I gendarmi hanno sigillato e sequestrato i carrozzoni. Volevano tornare in Carinzia da dove erano venuti. Donne storpie e animali storpi sono i soggetti delle loro esposizioni. Mucche con sei gambe o due code, come ne nascono di tanto in tanto. «Questi spettacoli attirano sempre la gente, – disse il pittore. – Una donna con due nasi, se l’immagina Lei?» Adesso bisognava dar da mangiare agli animali e alle donne perché i baracconisti, dal momento che sono in prigione, non possono occuparsene. Bisogna anche accendere il fuoco davanti ai carrozzoni perché le donne e gli animali non muoiano di freddo. I carrozzoni sono strettamente sorvegliati perché si teme che il baracconista scappato riesca a muoverli e a portarseli via. I baracconisti erano già entrati nella locanda Wagner con l’intenzione di non pagare per le loro gozzoviglie. Sulle prime s’erano vantati parlando delle «enormi somme» che avevano in tasca. E ad alcuni dei giovani contadini era anche parso di vedere che i baracconisti erano in possesso di banconote. Al gendarme invece, come già detto, i baracconisti erano parsi sospetti sin dall’inizio, la sua era una diffidenza che superava di gran lunga la diffidenza che di solito si nutre per i baracconisti e in generale per gli artisti o per gente di quel tipo. Lui li aveva già tenuti d’occhio continuamente, anche mentre ballavano e cantavano, ma non aveva trovato alcuna ragione per intervenire. Intervenne soltanto quando lasciarono la sala. «È stata una fortuna, – disse il gendarme, – che i giovani contadini non abbiano tirato fuori i loro coltelli. Ci sarebbe stata una strage selvaggia». Cosí invece si sono limitati a picchiarsi. Le lotte al coltello di solito finiscono con qualche morto. «Ciascuno dei giovani contadini era già stato implicato una volta in qualche lotta al coltello. Questa volta invece quasi per un miracolo non avevano tirato fuori i coltelli. Forse perché avevano pensato che con i baracconisti se la sarebbero cavata anche senza coltelli». E ci sono effettivamente riusciti. «Il danno maggiore naturalmente l’ha subito l’oste della locanda Wagner, – disse il pittore. – I baracconisti non si sono certo moderati, hanno mangiato e bevuto a piú non posso e per giunta hanno anche invitato intere tavolate di commensali». L’oste della locanda Wagner vorrebbe impossessarsi dei carrozzoni e questa non sarebbe altro che «una magra consolazione» se si pensava al suo danno, ma in gendarmeria non credono che li otterrà. Lui pensa di rifarsi dei danni macellando gli animali. I carrozzoni potrebbe adoperarli soltanto per trasportare il fieno ma non la legna perché si tratta di carri poco robusti. Il gendarme è del parere che i carrozzoni diventeranno proprietà dello Stato. Non si sa ancora che cosa fare delle tre donne deformi, è probabile che domani le rimandino a casa loro, in Carinzia. Proprio ora, che ci sono tanti funerali, doveva capitare anche questa storia dei baracconisti! Il gendarme dice che è la nostra locanda che gli procura i viveri. Non fanno altro che urlare e schiamazzare e a quanto si dice li sentono in tutto il villaggio. Sono un gran divertimento per i bambini che nella piazza del paese fanno le boccacce ai baracconisti. «Ma domani stesso saranno trasportati nel carcere del tribunale provinciale», disse il pittore. A uno dei baracconisti il gendarme è riuscito a mettere le manette, gli altri hanno dovuto legarli con le corde che servono per stendere i panni. L’avvenimento in paese aveva suscitato un’enorme curiosità. Improvvisamente tutte le finestre s’erano illuminate a giorno e «la gente si affacciava con gli occhi spalancati». Un secondo gendarme era stato mandato su in paese dal posto di gendarmeria. «Per ora dormono tutti e due nell’anticamera della cella, – disse il pittore, – che riescano a dormire naturalmente non è neanche pensabile perché i baracconisti rinchiusi in cella continuano a picchiare contro la porta».  
 Eravamo già un bel pezzo avanti nel sentiero infossato nel bosco, quando decidemmo di tornare indietro. Aveva trascorso una notte di sofferenze, disse il pittore. «Ogni volta che tento di prendere qualche provvedimento per attenuare i miei dolori tutto diventa ancora peggio. In realtà non esiste l’intollerabile, – disse lui, – l’intollerabile dovrebbe essere la morte, la morte invece è tollerabile. Capisce?»  


 La storia del vagabondo.  

 Nel bosco di larici ho incontrato un vagabondo. Dapprima ho creduto che si trattasse del baracconista sfuggito ai gendarmi, ma il vagabondo non aveva nulla a che fare con costui. Assolutamente nulla. Il pittore s’era preso uno spavento perché non aveva assolutamente visto il vagabondo, ma era inciampato su di lui. «Come un morto che giace in mezzo alla strada», dice il pittore. Un assiderato, aveva pensato facendo qualche passo indietro per allontanarsi da lui. Da com’era vestito si capiva che non era uno del luogo. Chissà come era capitato lí. «I pantaloni a strisce, sa, come li porta la gente del circo, soprattutto il direttore di un circo». Poiché credeva che l’uomo fosse morto aveva tentato di girarlo per riuscire a vedere il suo volto, «poiché l’uomo giaceva bocconi. La prima cosa che si vuol vedere è sempre il volto», disse il pittore. Ma non appena lo aveva sfiorato col bastone il «morto» aveva emesso un grido ed era balzato in piedi. «Oh! – avrebbe esclamato il vagabondo, – facevo solo finta d’esser morto. Volevo soltanto scoprire come reagisce una persona che ne trova un’altra stesa in mezzo alla strada, in mezzo al bosco e in pieno inverno, lungo e disteso e per di piú bocconi come un morto». Con queste parole il vagabondo s’era alzato e s’era levato la polvere dai pantaloni. «Se crede che io sia il baracconista sfuggito ai gendarmi Lei si sbaglia, io con quel baracconista non ho nulla a che fare. Lei dunque non deve avere nessuna paura. EccoLe la mia mano!» Tese la mano al pittore e si presentò. «Pronunciò un nome talmente complicato che non riuscii a tenerlo a mente, – disse il pittore. – Poi si abbottonò la giacca che evidentemente si era aperta. Aveva un aspetto signorile ma completamente trasandato, – disse il pittore. – Avrebbe potuto essere una trappola, Dio solo sa chi avrebbe potuto essere». Simili scherzi non si fanno, aveva detto il pittore, non ci si finge morti, è davvero uno scherzo troppo a buon mercato, lo fanno solo gli adolescenti per spaventare i loro genitori. «S’immagini un po’ Lei, se per l’emozione mi fosse venuta una sincope!» «In quel caso sarei scappato a gambe levate!» avrebbe risposto il vagabondo. Una sincope può venire a chiunque in qualsiasi posto. «Sí, naturalmente». «Nessuno avrebbe potuto sospettare che c’era un colpevole», avrebbe detto il vagabondo. «Certamente no», aveva soggiunto il pittore. Perdipiú la strada è piena di impronte, certo non si sarebbero presa la briga di seguire tutte quelle impronte. «No, certamente no. Nel caso Lei si trovi in difficoltà finanziarie devo farLe notare che nemmeno io ho del denaro. Difatti io sono un poveruomo e mi trovo in miseria». «Oh! – avrebbe risposto il vagabondo, – io di denaro ne ho abbastanza». Era sorpreso del fatto che il pittore l’avesse scambiato per un rapinatore, forse dipendeva dai pantaloni da circo che aveva addosso. «Ah no, – avrebbe detto il pittore, – sono un artista anch’io». È incredibile quanto sia scarsa la conoscenza degli uomini che ha certa gente dalla quale ci si aspetterebbe una conoscenza degli uomini molto piú sviluppata», avrebbe detto il vagabondo. Del resto il pittore non gli era affatto antipatico. «Appena ho sentito che si stava avvicinando qualcuno mi sono sdraiato sulla strada. È stato solo un esperimento». «Un esperimento», avrebbe ripetuto il pittore. «Sí, un esperimento. Tra l’altro tutto è andato proprio come me l’aspettavo, come me l’ero immaginato. Ho seguito ogni Suo passo. Lei cammina come se avesse degli zoccoli da cervo, – ha detto il vagabondo. – Quando L’ho vista camminare ho visto un’immagine assolutamente fantastica!» La sua pronuncia era leggermente nordica, forse veniva da Holstein o da Amburgo. «Un cervo viene a farmi visita», aveva detto e: «Ma questo è solo un pensiero poetico e null’altro». E il pittore: «Capisco». Il pittore voleva sapere quale fosse la professione del vagabondo. «Sono il proprietario di un teatro mobile» avrebbe risposto lui. «A giudicare dai vestiti che porta, Lei sembra spuntato da una commedia piccante», avrebbe detto il pittore. «Non posso darLe torto, – disse il vagabondo. – Con addosso questo costume sono apparso in scena trecento volte a Francoforte sul Meno. Finché non ne ho potuto piú e sono scappato. E difatti provi un po’ Lei a recitare trecento volte la stessa parte in una commedia e per giunta in una commedia piuttosto noiosa, una delle cosiddette commedie alla Bernard Shaw, e vedrà se non si impazzisce!» Certo lui era uno di quegli uomini che possono guadagnarsi da vivere raccontando barzellette, disse il pittore. «Eh sí, è proprio questo che intendo. Io ho sempre vissuto raccontando barzellette». «E come pensa Lei di continuare a vivere? Visto che ora, come sono indotto a credere, Lei sta piuttosto appeso per aria e se ne va in giro facendo il vagabondo? Come continuerà a vivere?» «Questo problema non me lo sono mai posto», avrebbe risposto il vagabondo. Dato che lui, il vagabondo, il direttore di teatro, di un cosiddetto teatro mobile, non aveva figli, non era neanche tanto difficile vivere cosí «alla giornata». Ma questa era una vera e propria «esaltazione», commentò il pittore. «Uomini del suo tipo (del vagabondo) portano scritto in fronte: libertà, depravazione, arguzia!» «Da mio padre ho imparato alcuni numeri di magia, – avrebbe detto il vagabondo, – che piacciono sempre a tutti. Per esempio quello di far sparire la mia testa. È semplicissimo». Me ne avrebbe data una dimostrazione, «se la cosa interessa il Signore», disse. E visto che la cosa interessava il pittore, il vagabondo fece effettivamente sparire la sua testa. «Quell’uomo non arrivava piú in su della sua gola. Quel che Le racconto è vero. Tutto Le parrà inverosimile e invece è vero come è vero che io sono davanti a Lei». E poi il modo stesso in cui il vagabondo gli era apparso... «E poi, provi un po’ a immaginare tutta la scena in mezzo al bosco di larici, nel punto dove deviamo sempre per prendere il sentiero infossato nel bosco...» In un batter d’occhio la testa del vagabondo rispuntò fuori e si rimise al suo vecchio posto. «Far sparire la mia testa è un colpo di magia assai semplice, – disse il vagabondo, – difficile invece è giocare a palla con le proprie gambe». Il pittore naturalmente volle vedere anche quel numero di magia. «Effettivamente tutt’a un tratto le gambe del vagabondo apparvero dal nulla sopra di lui e lui, accoccolato per terra, si mise a giocarci come se fossero delle palle. Delle palle da gioco per bambini». E mentre giocava avrebbe detto: «Se Lei ha paura smetto subito». Difatti il pittore aveva i brividi, ma disse: «No, no, che non ho paura». Era, come si suol dire, esterrefatto per quel che aveva visto. «Io non avevo mai visto dei numeri di magia cosí perfetti», disse. «Ora sono stufo di continuare», avrebbe detto il vagabondo e aveva smesso. «Il colpo di magia con la testa a me sembra tanto incomprensibile quanto quello con le gambe, – disse il pittore, – Lei forse riesce a immaginarselo! Naturalmente anche lí, come in tutto, il trucco c’è ma non si vede!» Tutta Parigi era stata ai piedi del vagabondo e, se lui avesse voluto, l’avrebbe subito riavuta ai suoi piedi, solo che lui non voleva riavere Parigi ai suoi piedi. «M’annoia», diceva. A Londra aveva partecipato a un ricevimento dato in suo onore dalla Regina. Se il signore lo desiderava, lui poteva dargli l’indirizzo del suo teatro mobile. «È piccolo ma prezioso, – avrebbe detto, – e può entrare in azione ovunque lo si desideri». È piú prezioso di qualsiasi altro teatro. È il teatro piú prezioso del mondo. Un giorno però lui ne aveva avuto abbastanza di numeri di magia. «Dei numeri di magia ci si stufa subito» e s’era dedicato all’arte vera, all’arte pura, a quella che non si basa su alcun artificio. Ora il signore avrà certamente voglia di sapere se sia piú difficile fare numeri di magia come quelli di cui aveva dato una dimostrazione lui poc’anzi e che senza dubbio erano fra quanto di meglio ci fosse al mondo, oppure fare del teatro e quindi cimentarsi in un’arte pura come quella che si rappresenta in teatro, in un’arte appunto priva di artifici, diciamo: «Impersonare Re Lear». Entrambe le cose sono ugualmente difficili, l’una è sempre piú difficile dell’altra, ma effettivamente è piú bello recitare in teatro che fare numeri di magia, per lui personalmente il teatro era un divertimento molto piú grande, ed era stato proprio per questo che lui il suo teatro lo aveva «fatto apparire dal nulla», come diceva lui, come per incanto. «Anche quello naturalmente era stato un trucco, un numero di magia», disse il vagabondo. Inoltre recitare in teatro significava avvicinarsi alle vette dello Spirito, mentre facendo numeri di magia il mondo dello Spirito non lo si sfiorava neppure. In fondo non si trattava d’altro che di abilità. «Naturalmente dipende sempre e soltanto dagli spettatori». E a quanto pare disse: «Gli spettatori che assistono ai miei numeri di magia, a dir la verità, io li preferisco mille volte a quelli che vanno alle mie recite teatrali». Infatti gli spettatori che assistevano ai suoi numeri di magia sapevano subito che cosa li riempiva di stupore, mentre quelli che andavano alle sue recite teatrali non lo sapevano mai. «Gli spettatori di spettacoli teatrali deludono sempre. Gli spettatori di spettacoli di magia non deludono mai». Malgrado questo lui preferiva recitare in teatro, benché fosse piú portato per i numeri di magia. «Gli spettatori di spettacoli teatrali non ci rendono mai felici, né piú né meno degli spettatori di spettacoli di magia, – disse lui. – Ma gli spettatori di spettacoli di magia sono sempre quello che sono. Gli spettatori di spettacoli teatrali non sono mai quello che sono, anzi sono sempre come non dovrebbero essere, vorrebbero sempre essere quello che non sono...» Gli spettatori di spettacoli di magia non sono mai tanto stupidi da non accorgersi di quanto siano stupidi. Gli spettatori di spettacoli teatrali invece sono sempre molto piú stupidi. «Ma la maggior parte degli attori è gente cosí stupida che non si accorge di quanto sia stupido il pubblico. Difatti in genere gli attori sono ancora piú stupidi degli spettatori, ma il pubblico è sempre infinitamente stupido». E allora perché mai non continuava a fare i suoi numeri di magia, voleva sapere da lui il pittore. «I numeri di magia di per se stessi non dànno alcuna soddisfazione, – avrebbe detto il vagabondo, – mentre uno spettacolo teatrale può dar soddisfazione in sé e per sé». Del resto non lo sapeva neanche lui perché ora preferisse «recitare» piuttosto che «fare numeri di magia». Attualmente non faceva né l’una né l’altra cosa. «Ma riprenderò a fare i miei numeri di magia! – avrebbe detto, – e riavrò Parigi ai miei piedi!» Poi a quanto pare gli aveva domandato quale fosse la via piú breve per scendere alla stazione. «Prenda il sentiero infossato nel bosco», aveva detto il pittore. E poi: «Io però vorrei sapere a che età i numeri di magia smettono di dare soddisfazione in sé e per sé». Il vagabondo non ci stette a pensare a lungo e disse: «Questo dipende dalla persona che fa i numeri di magia. Spesso però smettono di dar soddisfazione ancor prima che uno abbia imparato a farli in modo perfetto», avrebbe detto lui. Il pittore si offrí di accompagnare il vagabondo per un pezzo lungo il sentiero infossato nel bosco. «Io sono pratico di questi posti, – avrebbe detto. – Si scivola in un fosso e ci si rompe una gamba. Su, venga!» Prima di accomiatarsi il pittore gli domandò ancora: «Che cosa L’ha spinta a farmi quel brutto scherzo?» «Brutto scherzo?» sarebbe stata la risposta del vagabondo. «Solo perché ho fattofinta di esser morto davanti a Lei? È una delle mie passionifar finta di esser morto. È solo una mia passione, nient’altro». Poi scomparve all’improvviso. Aveva la tipica agilità degli illusionisti, disse il pittore. «Un tipo simile, che vuol far credere d’essere il proprietario di un “teatro mobile” non m’era ancora capitato. Oppure Lei forse crede che io questa storia me la sia inventata?» Io invece credo che la storia sia proprio vera.  
  





















Ventiduesimo giorno 





 Durante la notte feci una orribile scoperta che confermò quella che sino allora era semplicemente stata una congettura del pittore. Dopo che per ore e ore la locanda era immersa nel silenzio, improvvisamente udii lo scuoiatore sotto alla mia finestra. Nella stanza accanto alla mia c’era un ospite che però è ripartito all’alba, e io pensai: l’ospite avrà sentito il rumore che lo scuoiatore aveva fatto alla finestra in camera da letto della moglie dell’oste, si sarà alzato dal letto, poiché io sentivo che si alzava dal letto, lo sentivo attraverso la parete. Ma poi nella stanza accanto ci fu di nuovo silenzio. Mi avvicinai alla finestra ed effettivamente vidi lo scuoiatore. La moglie dell’oste gli aveva aperto la sua finestra e lo aveva aiutato a entrare in camera sua. Dall’interno della camera lo scuoiatore ripescò con gesto vigoroso lo zaino che aveva lasciato fuori sopra un mucchio di neve. Ebbi la sensazione che nel suo zaino ci fosse un cadavere. Il pensiero che nello zaino ci potesse essere un cadavere non mi dava pace e decisi di andar giú e di origliare alla porta della camera della moglie dell’oste; forse, pensavo io, dalla sua conversazione con lo scuoiatore potrò desumere qualcosa che confermerà la mia ipotesi che dentro allo zaino c’è un cadavere oppure qualcosa che mi tranquillizzerà perché risulterà ovvio che dentro allo zaino non c’è nessun cadavere. Perché io volessi saperlo, questo proprio non lo so. Che lo scuoiatore se ne vada in giro con delle carogne di animali sulla schiena non è un fatto eccezionale poiché fa parte del suo mestiere. Mi infilai i pantaloni e la giacca e scesi al piano di sotto. Dovevo essere prudente. Il pittore dormiva. Dormiva anche l’ospite. Tutti dormivano. Effettivamente udii lo scuoiatore che conversava con la moglie dell’oste. Al crocicchio l’aveva fermato un uomo, disse lui, che sia lei che lui conoscevano bene da prima; quell’uomo gli aveva chiesto una somma di denaro per poter prendere il treno per tornare a casa da dove era venuto qui per fare una visita. Aveva speso tutto il suo denaro bevendo. Lo scuoiatore capitava giusto a proposito. «Cosí, nel cuore della notte», disse la moglie dell’oste. «Probabilmente era andato a trovare l’oste lassú», disse lo scuoiatore. Temevo che la porta si aprisse e che in tal modo potessero scoprirmi. La moglie dell’oste disse: «Allora è di nuovo in circolazione da queste parti!» E lo scuoiatore: «No, costui qui non ci torna piú! Il denaro che gli ho prestato lo rimanderà per posta». «Quello lí non rimanderà un bel niente! – disse la moglie dell’oste. – Lui no. Che cosa ci era venuto a fare in paese?» «Non si sa, – disse lo scuoiatore, – tutt’a un tratto a certi uomini nel mezzo della notte salta in mente di recarsi in luoghi a cui sono in qualche modo legati da un antico rapporto». «È sua la colpa di tutto, – disse la moglie dell’oste. – È lui che lo ha fatto diventare un delinquente». Si riferiva a suo marito. «Già ai tempi della scuola lo distoglieva dalla retta via. Purché non mi capiti davanti agli occhi!» Poi tutt’a un tratto domandò se lo scuoiatore le avesse portato quel che le aveva promesso. «Sí», disse lui e io udii distintamente il tonfo di un cadavere che cadeva a terra dietro alla porta. «Che bel cane», disse la moglie dell’oste. A quel punto mi spaventai. Lei disse che gli avrebbe subito tolto gli intestini. Poi li udii andare in cucina tutti e due. Tornai subito in camera mia. Ma non riuscivo ad addormentarmi. Ora so che lei cucina della carne di cane. Il pittore l’aveva detto. È vero. Al mattino non sapevo piú se la storia del cadavere non l’avessi soltanto sognata. E invece no, io tutte quelle osservazioni le avevo fatte davvero. Provavo ribrezzo quando ero costretto a pensarci, ma allo stesso tempo decisi di non far parola con nessuno di questa storia che nonostante tutto continuava a sembrarmi un sogno. Per il pittore sarebbe stato come soffiare sul fuoco se gliela avessi raccontata. E non gli dissi nemmeno che io, udendo il rumore che lo scuoiatore aveva fatto sotto alla mia finestra, m’ero alzato e avvicinato alla finestra, se gli avessi raccontato come s’era svolta tutta quella scena notturna e anche le sensazioni provate in quella occasione, per lui sarebbe stata una conferma di molte cose, non solo della sua supposizione che la moglie dell’oste avesse sempre cucinato carne di cane e di cavallo. Lo scuoiatore dunque di tanto in tanto le porta a casa delle carogne. E probabilmente anche dei maiali infetti. Ad ogni modo in futuro osserverò attentamente i piatti di carne cucinati dalla moglie dell’oste. Smetterò semplicemente di mangiare cibi farciti, eviterò anche gli insaccati e il polpettone, mentre le grandi fette di carne che uno trova nel proprio piatto basta guardarle per riconoscere subito se si tratta di carne di maiale, di manzo o di vitello. Sarebbe una catastrofe se informassi qualcuno di ciò che ho visto. Probabilmente la moglie dell’oste paga solo una somma irrisoria per la carne che lui le porta nello zaino o forse – anzi è piuttosto sicuro – lei non gli dà neppure un soldo. Lei dunque ha un amante che allo stesso tempo è il fornitore di carne meno caro che ci sia. Il pittore aveva sempre notato che la moglie dell’oste acquistava pochissima carne dal macellaio. Ecco dunque la soluzione dell’enigma. In nessun caso parlerò al pittore delle mie avventure notturne. Io stesso – a ripensarci – quella notte mi vidi completamente trasformato. M’era forse mai capitato prima d’allora di alzarmi durante la notte e di andare alla finestra per un rumore di cui avevo la certezza assoluta che era innocuo? E come se non bastasse m’ero anche vestito ed ero sceso al piano di sotto! Ed ero anche rimasto a origliare alla porta della moglie dell’oste! Avevo corso un rischio che di solito corrono solo i pazzi! Effettivamente avevo temuto di venir scoperto mentre origliavo alla porta della moglie dell’oste. Che simili cose possano capitare in sogno anche a persone psichicamente sane – in sogno tutto è possibile – questo lo so; ma non è stato un sogno. Sono stato nervoso l’intera mattina e il pittore se n’è accorto lungo tutta la strada dal paese al cimitero, non era stata la storia del vagabondo a sconvolgermi, «quei fatti di illimitata eccentricità che pur avevano sconcertato anche me», quelli erano solo una causa secondaria, tutto era riconducibile unicamente alla faccenda della carogna del cane. A pranzo non toccai cibo. Bevvi solo un bicchiere di birra e il pittore mi domandò se ero malato. «No, – dissi io, – non sono malato».  
 «Ci si butta a capofitto in mezzo alla gente ordinaria, – disse il pittore, – e si cade sempre piú in basso, molto piú in basso di loro. Ciò che dico è vero: il lato piú fine degli uomini io l’ho sempre detestato: devo sbarazzarmene, non devo entrare in contatto con esso. Di tanto in tanto nel corso di tutta la mia vita, mi sono buttato a capofitto nello sporco mondo ordinario. Ho sempre sentito che gli appartenevo. Difatti io sono sempre rimasto in basso. E poi, Lei deve sapere che il mondo ordinario non è ordinario, che lo sporco mondo non è sporco, che il mondo ordinario non è mai tanto ordinario quanto l’altro e che non è mai altrettanto sporco. Lei deve sapere che di lí viene anche la mia predilezione per la povertà, per l’essere emarginato. Difatti quand’ero povero mi pareva anche di essere un uomo che vale qualcosa, e anche quando mi trovavo in mezzo alla sporcizia, quand’ero sporco anch’io... Ma questo io lo dico soltanto a me stesso...» Disse: «Cerchi di pensare a un albero dal quale ci si aspetta che ancora una volta dia dei frutti e che ci delude perché di frutti non ne dà piú». Quasi tutte le vite sono una simile delusione. «Ovunque si guardi, alberi che non dànno frutti». La specie umana è la sterilità stessa, «l’unica cosa sterile che esista al mondo. Non serve a nulla. Non la si può elaborare. Non si può mangiarla. Non serve da materia prima per nessuna cosa, salvo che per se stessa». Lui era un pessimista, che è già di per sé qualcosa di ridicolo, ma lui era qualcosa di ancora molto piú terribile. E anche dietro a questa idea c’era qualcosa di ridicolo: «Il cervello e tutto il resto dell’organismo esprimono qualcosa, – dice lui, – mentre poi succede sempre qualcosa che né il cervello né il resto dell’organismo hanno voluto». Lui era uscito da se stesso e aveva attraversato il mondo e dopo avere attraversato tutto era ritornato a se stesso. «Questa è una mia caratteristica profonda, poiché, come so io, è piú profonda del mondo». Spesso tra il momento in cui apriva gli occhi e quello in cui li chiudeva, gli riusciva la difficile arte di disinserirsi completamente dal mondo. «Troppa venerazione all’inizio, troppo odio e avversione poi. Prima la smania di conoscere le città, poi la smania di riuscire a dimenticare tutte queste città. Uomini come ratti tagliati a pezzi dalle pale degli spazzini. L’essermi troppo occupato delle persone mi ha ucciso». Interessi fuori dal comune: «Ricerche, ideali di ricerche, ideali di amicizie e poi sbarazzarsi di questi ideali di ricerche e delle ricerche, di questi ideali di amicizie e delle amicizie. Per anni tutto quanto non è stato altro che scandagliare il dolore. Nel giro di pochi secondi delusioni per l’eternità. In una condizione di inganno permanente l’uomo non è piú altro che il teatro dove egli recita la parte di se stesso».  
 Lui in passato soleva raccogliere parole magiche come palle prese al volo, prima la parola «creazione», poi la parola «chimica», poi «sarcasmo», «istinto», «pittura» e infine «assassinio». La rovina dell’uomo è un sogno dell’infanzia. E in esso tutto è già stabilito. Padre e madre sono la prova dell’infelice, irresponsabile e irrimediabile azione dell’istinto, del sentimento, e del demonio. «D’inverno poi, Lei deve sapere, il dolore cade sotto forma di neve. Gli uccelli canori sono i messaggeri del dolore. Il debole non ha una legge che lo difende».  
 La moglie dell’oste si meravigliava del gran numero di persone che erano andate al funerale della contadina uccisa dal trave del tetto mentre in casa divampava l’incendio. Da tutte le parti, dalle valli piú sperdute, erano venuti parenti e conoscenti o anche solo dei curiosi. Il corteo funebre era talmente lungo che la piazza del cimitero non lo conteneva tutto. «Molti durante la benedizione della salma dovettero stare ad aspettare sugli scalini del cimitero e sulla piazza davanti alla chiesa». In vita sua non aveva mai visto tanti fiori e tante corone. La interessava soprattutto il vedovo, ma era riuscita a vederlo soltanto dopo che tutto era finito e a scambiare quattro parole con quell’uomo presso il quale un tempo lei era stata a servizio. «È diventato molto piú imponente di prima», aveva detto lei. Poiché c’erano tanti parenti attorno a lui, lei aveva dovuto ritirarsi. Ma era stata invitata al banchetto funebre che ebbe luogo contemporaneamente in tre locande, poiché in una sola locanda tutta quella gente non avrebbe trovato posto. Il pranzo funebre fu il migliore al quale le fosse mai capitato di partecipare. La banda che poco prima davanti alla tomba aveva suonato una marcia funebre, riattaccò subito con nuovi pezzi, con musichette allegre, sulla piazza che «per via della gente sembrava completamente nera». Mentre veniva calata la bara avevano fatto scoppiare dei mortaretti come la notte di San Silvestro. Il parroco e il sindaco avevano tenuto dei discorsi, ma lei non ne aveva capito una sola parola. Le sue figlie si erano fatte largo tra la gente vestita di nero fino alla tomba aperta e s’erano mescolate ai parenti della morta e questo, prima che lei lasciasse il cimitero, le aveva attirato delle occhiate furibonde. L’abbuffata durò fino alle cinque del mattino, finché non ci fu piú nulla da mangiare né da bere. Ma lei s’era già messa in cammino verso la locanda alle undici. «Anch’io ero ubriaca», disse lei. Lo scuoiatore l’aveva riportata a casa sulla sua slitta. Io li ho sentiti, lui che la scaricava e lei che cercava di trattenerlo mentre lui invece se n’è andato. Ieri sera lei era anche scesa alla stazione a procurarsi un mazzo di fiori di carta che aveva poi deposto sulla tomba della morta quando tutti se ne furono andati. Piú di tutto l’aveva interessata il pranzo che gli osti avevano cucinato quasi completamente secondo le sue ricette. Il parroco del luogo aveva preso parte alle danze e non s’era certo trattenuto dal fare osservazioni sboccate, lei s’era meravigliata che un parroco, «un religioso» potesse comportarsi in quel modo.  
 «Gli uomini vanno affrontati col bastone, – disse Strauch, – col randello del giustiziere». Mi consigliò di mettermi delle scarpe piú robuste, in fondo per lui era insopportabile vedermi con queste scarpe che porto ogni giorno, con questi «oggetti di lusso». Io però non posseggo scarpe piú robuste. Io in effetti posseggo solo due paia di scarpe, un paio di scarponcini da inverno, quelli che ho ai piedi, e un paio di scarpe estive che non mi arrivano nemmeno alle caviglie e che ho lasciato a casa. «Qui tutto capita all’improvviso senza avvisaglie, – disse il pittore. – Improvvisamente fa talmente freddo che a uno gli si potrebbe congelare il cervello dentro la testa. Qui le trasformazioni avvengono di colpo». Lui non crede che nell’immediato verrà la neve, ma un gelo polare. Da tutti gli oggetti, da tutte le piante, da tutto, lui riusciva a indovinare che si stava preparando una gelata. «Un gelo tremendo. Lo si vede dagli alberi, dalle rocce. Lo si ode, basta stare a sentire gli animali». E un giorno tutto congelerà e «sarà morto. S’irrigidirà anche l’aria e i fiocchi di neve nell’aria». Una volta, molti anni prima, mentre stava uscendo da una locanda in Tirolo, anche quella «una regione che a periodi lo attirava», in quel paese chiaro, come dice lui, tutt’a un tratto col suo bastone aveva infilzato un maiale congelato. Lui voleva spingerlo via, ma il bastone era rimasto infisso dentro il maiale, come se fosse stato un maiale fatto di neve. Quando estrasse il suo bastone il maiale si mise a scricchiolare e lui provò un forte ribrezzo. «Il gelo divora tutto, – disse il pittore, – alberi uomini animali e ciò che vi è dentro agli alberi alle persone e agli animali. Il sangue smette di circolare, anche quello piú impetuoso. Un uomo congelato lo si può rompere come un pezzo di pane secco». Disse: «Ha mai notato Lei che la gente in campagna non porta il cappotto nemmeno quando fa un freddo tremendo? Perlomeno non qui, in questa regione. In pianura sí, qui no. In mezza montagna sí, ma non qui in alta montagna. Gli uomini si tirano su il bavero, le donne scendono dai monti vestite in costume. Anche con trenta gradi sotto zero». Il freddo induce gli uomini a stringersi l’uno accanto all’altro come gli animali nella stalla, attorno a una scodella o attorno a un libro. «Il freddo è il piú penetrante fra gli stati della natura», disse il pittore. Gli scolari di solito non arrivavano oltre alla rupe a strapiombo, poi ritornavano indietro rapidamente per paura di morire assiderati. Spesso le scuole restavano chiuse a causa del freddo. La gente moriva lasciando a metà una frase incominciata, senza riuscire a finirla, la gente moriva a metà di un grido d’aiuto. E le stelle allora scintillavano come chiodi piantati lí per tenere inchiodato il cielo. «Una composizione dell’aria che fa battere il pestello della regione dentro al cervello come se fosse un mortaio».  
 Voleva sapere se mi si fosse mai congelato un arto. «Ci sono molti uomini segnati dal gelo». «No, – dissi io. – In guerra, deve sapere, il gelo staccava i piedi dalle gambe e le orecchie dalla testa degli uomini. Attraverso la concentrazione del pensiero su uno stesso punto, trasferendoci in uno stato lontano millenni dal presente o perlomeno rievocando un bel ricordo, si può creare del calore dentro di sé, persino un grande calore, ma sempre soltanto fino a un certo grado che in fin dei conti si rivela insufficiente. Ai soldati che durante la ritirata di Russia si sono consumati di nostalgia la loro nostalgia non è servita a niente». Disse: «Quando le giornate sono cosí fredde io me ne sto seduto nel mio letto e dai rami irti di spine che, come una serie di miracoli, si formano sui vetri della mia finestra attorno a forme fantastiche e le schiacciano (forme che appartengono al mondo dell’arte o, come mi sembra, a quello della natura e della disperazione universale che è dentro di noi), da questi rami cerco di ricavare delle verità che, come credo io, si celano a centinaia di migliaia e a milioni dietro alla nostra vita e non sono soltanto il vago riflesso di un mondo che sta dietro al nostro, ma di un universo dentro di noi che ci è sconosciuto». Poi davanti al ceppo che sporge nel mezzo dello stagno disse: «Tutti vivono una vita da maschera mortuaria. Tutti coloro che hanno veramente vissuto, un giorno se la sono tolta ma intanto la gente non vive, come già detto, la loro è solo una vita da maschera mortuaria». Oggi non esistono piú vere persone, solo maschere mortuarie di vere persone. Tutto questo è talmente orribile perché si tratta di una mostruosa «mutilazione operata dalla ragione» che si trasmette da noi ai nostri simili. «Una vita apparente ormai incapace di essere una vita vera. Città morte da tempo, anche montagne morte da tempo, animali, volatili, persino l’acqua e le creature nell’acqua. Riflessi delle nostre maschere da morti. Un ballo in maschera di morti», disse lui. Divenne tutto agitato quando gli dissi che io al «ballo in maschera dei morti» non ci credevo. «Già, la giovinezza non crede al “ballo in maschera dei morti”, – replicò. – Il mondo intero non è altro che un ballo in maschera di morti. È infatti conseguenza della sua evoluzione al di fuori del mondo. L’influsso delle stelle, i corpi celesti, son fuori discussione». Disse: «Ciò che Le dico è la spiritualità piú alta che si riflette sotto alla logica». E questo che cosa vuol dire? «Nulla di tangibile e nemmeno di pensabile, nulla di apparente e nemmeno una verità cosí come quelle che ci siamo tramandate, nulla con cui si possa “iniziare un processo”, nulla, nemmeno per Pascal, nulla, nemmeno per Cartesio. Nulla per gli uomini. Nulla per i porci. Se la mostruosità si potesse sviluppare dentro a una testa, dove andremmo a finire!» disse lui. «L’incomprensibile dopotutto è la vita stessa. Null’altro. E a volte prende sembianze umane come stormi di uccelli che si levano nell’aria per oscurare tutto. L’incomprensibile è il miracoloso. Ciò che vi è d’incomprensibile al mondo costituisce il mondo dei miracoli, ciò che è comprensibile tutt’al piú il mondo del meraviglioso». Avvicinarsi di un passo al sapere è allontanarsi di un passo dal meraviglioso. Ma gli studiosi affermano il contrario. Proprio come tutti gli studiosi che affermano sempre il contrario di tutti gli altri studiosi. «Ma tutto non è poi cosí semplice. Ma la scienza mente, è quello il suo principio, la scienza distrugge e rende possibile la megalomania, il meraviglioso. La scienza vuol superare il limite che le è stato destinato, vuole uscire da se stessa. Questo la sprona. E questo merita il nostro appoggio». L’uomo non ostacola mai la scienza quando essa progredisce uscendo da se stessa per ritornare all’uomo. Disse: «Solo quando la scienza avrà raggiunto la sua meta, le maschere mortuarie torneranno ad essere persone».  
 Nei giardini estivi delle locande spesso arriva gente cui si vede scritto in volto che si crede il centro del mondo. Subito attira su di sé l’attenzione. S’avvicina a un tavolo situato nell’angolo piú ombreggiato (ora diremmo nell’angolo dietro alla stufa!) e che guarda caso è stato riservato per loro. Che cosa accade dentro a un cervello che crede d’essere il centro del mondo? Milioni di centri che appaiono e poi si estinguo no! Questo è il mondo. Questo è tutto. L’uomo ordinario siede allo stesso tavolo assieme a quello straordinario, beve birra e di buon appetito mangia uova al burro. Gioca a scacchi o a carte. Ogni individuo ordinario e ogni individuo straordinario di cui si compone il mondo. Ma che cos’è l’ordinario? Che cos’è lo straordinario? Nella calura estiva (come nel gelo invernale) gli uomini conoscono meno barriere perché sono piú indifesi. Tirano le corde al cui altro estremo tira il mondo: il mio mondo. «Lí presumono che si trovi il mondo o invece là presumono di trovare se stessi. Cosí hanno la sensazione di poter essere a testa alta ciò che credono di essere, cioè il centro del mondo. “Se son morto io è morto il mondo”, ecco quel che credono». A lui, al pittore, gli uomini sembrano «escrescenze causali che confinano con l’insondabile senza però mai oltrepassare il confine». Il quadro che si offre ai nostri occhi nei giardini estivi delle locande ci permette di scoprire le astuzie piú stolte della gente. «Di scoprire il loro mondo. Di scoprire il mondo. Una tattica? Là dove l’uomo ordinario tiene alta la testa come se fosse un re! La brutalità si presenta come se fosse la quintessenza della dolcezza, come ciò che vi è di piú illustre, di piú puro e di piú inimitabile. Il pensiero di un bicchiere di birra conduce a enormi sopravalutazioni, a considerazioni esagerate: il mondo intanto è ciò che sono io! Incomincia là dove incomincio io! E là finisce. È tanto malvagio quanto lo sono io. È altrettanto buono. Non è migliore di me. È senza problemi come me. Gli piace bere. Gli piace mangiare. Non sa un bel niente di niente perché io non so un bel niente di niente. Essere famosi? Sí e no. Saper troppe cose, cioè saper piú cose di quelle che so io non gli conviene perché io mi ammalerei. Senza alcun gusto. Questo è il mondo: ridotto a una bistecca, a un roastbeef. L’uomo arriva sempre soltanto al punto al quale arriva il mondo. Il suo abisso è anche l’abisso del mondo. La sconfitta del mondo è anche la sconfitta dell’uomo. Nel giardino estivo di una locanda il mondo si riduce a essere la fame e la sete del mondo. La fame e la sete di ogni singolo uomo. “Una birra per favore” significa che il mondo vuole una birra. Se la beve e dopo un po’ la sete ritorna».  
 Le donne sono fiumi dalle sponde irraggiungibili, spesso la notte si dibatte gridando come chi sta per annegare. «La convivenza coniugale, sa, significa martirio ingiustificato sino alla fine del matrimonio. Questa situazione tra due persone è come un incastrarsi di strati rocciosi fino all’intollerabile. Quando all’improvviso il nero non è piú nero e un bambino non è piú un evento felice. E ogni cosa diventa il suo contrario. Quando la povertà, sa, acquista tutto un altro aspetto e la ricchezza si rivela un inganno che precede un nuovo spaventoso inganno». Presto diventerà uno stagno quello in cui i due coniugi fissano lo sguardo senza parlare. L’uno e l’altro sono distrutti da numeri e da cifre. Una mente piena d’ignominia e di squallore, ecco cos’è il matrimonio per l’uomo e per la donna. «Nel matrimonio si entra dalla porta della chiesa e si esce dalla porta del bordello. Effettivamente ci sono degli specchi nei quali si può veder tutto fino alla crudeltà estrema, fino all’istante mortale» . E tutto non fa che seguire un corso sotterraneo e prestabilito. Perché? Sogni ad occhi aperti improvvisamente trovano riscontro, supposizioni diventano realtà. Botte prese in sogno tutt’a un tratto fanno dolere la nuca. La memoria si occupa di viaggi, di ritorni a una solitudine che non era affatto solitudine. Nel mezzo di una grande città giunge improvviso un colpo di vento che da tempo si credeva perduto. Ma scuotere l’albero, questo non è piú possibile, far cadere in terra i frutti che sono troppo maturi. No. Un cane si avventa a una tibia e tu sobbalzi inferocito. Ecco un muratore che se ne sta seduto in ozio sopra una impalcatura, ecco un impiegato delle ferrovie che guarda l’orologio perché è già stanco, ecco lassú sul tetto uno che cammina con un vetro di finestra in mano... I manovali con le loro cinghie son bravi a trasportar tavoli e armadi, mentre noi stessi siamo i piú infelici tra gli uomini. E il mondo è lontano mille miglia dal proprio spettacolo che è stato abbandonato con la spietatezza di una madre crudele che fugge seguendo il suo amante. Strauch disse: «La verità è come un giardiniere pazzo che strappa i cavoli nell’orto e poi li lascia in terra. Quella è oltracotanza». L’uomo passeggia accanto a sua moglie in periferia, dove si trovano le fabbriche e le miniere di carbone che gli dànno il pane e tiene per mano il figlio nella sua infelicità sconfinata. E molto spesso gli viene in mente un detto, per esempio quello che migliaia di persone vengono adoperate e gettate via come fazzoletti usati. E gli vengono in mente parole come «sommato» e «sottratto», come «fatto precipitare» e «sconfitto». E la moglie ovunque rivolga lo sguardo non vede che facce stravolte e i graffi sul volto di sua figlia. Ciò che si desidera è ormai fuori discussione. Camminare insieme finché questo significa precipitare insieme, uccidersi vicendevolmente. «Se cosí dev’essere, allora insieme al bambino». E lui: ciò che conta è soltanto fare il tentativo di lasciarsi stritolare, sulla banchina. Bastano pochi passi. Eh già. Ma la brutalità s’infila ovunque, in ogni cosa. Quel tranquillo brillare sopra i tetti – sarà forse aria calda, ma una volta di piú non è altro che il principio della fine. E l’albero che geme nel vento: una presenza maligna, tanto è nero. Malgrado ciò tutto continua. Nessuno apre bocca. Questo peggiora ogni cosa. Il bambino viene messo a letto e allora si incomincia a provare orrore per ogni cosa. Chi giace nel letto accanto a un altro pensa che tutto ciò che vi è di cosí terribilmente malvagio – basta uno scintillio maligno negli occhi del vicino – potrebbe essere vero. E che se non è vero fa male ugualmente.  

 Il saliscendi.  

 Direi che oggi è stato tutto un saliscendi. Uscendo dal bosco di larici volevamo andare in paese e di lí passare dall’altra parte e andare nel bosco grande. Io lo precedevo. Il pittore mi seguiva e io per tutto il tempo ebbi la sensazione che lui stesse per avventarsi su di me per assalirmi alle spalle. Non so quale idea mi fossi fatta, ma non riuscivo piú a liberarmi della paura, anzi dei pensieri angosciosi che avevo dentro. Di tanto in tanto udivo qualche parola pronunciata da lui, assolutamente incomprensibile, non riuscivo a rispondere quando mi rivolgeva una domanda, poiché in realtà lui rivolgeva domande soltanto a se stesso. Mi urlava addosso: «Si fermi, quando Le rivolgo una domanda!» Mi fermai. «Venga qui!» ordinò. Tutt’a un tratto scoprii (nella cadenza della voce, me ne accorsi subito: soltanto io avevo la possibilità di scoprirlo) una somiglianza con suo fratello, l’assistente. Lui disse: «L’aria è l’unica vera coscienza, capisce?» Io risposi: «No, non La capisco». «L’aria, dico io, è l’unico vero sapere!» ripeté lui. 
Continuavo a non capire, ma annuii. Lui disse: «I gesti dell’aria, capisce, i grandi gesti dell’aria. Il gran sudore dei sogni angosciosi, ecco che cos’è l’aria». Gli dissi che quello era davvero un grande pensiero, che a mio avviso si trattava persino di poesia del pensiero, che io percepivo quel che lui stava dicendo come l’espressione piú alta della somma di tutte le memorie, come una di queste possibilità supreme. «La poesia non è nulla! – disse lui. – La poesia come la intende lei non è nulla. La poesia come la intende il mondo, come la intendono i lettori da strapazzo, non è nulla. No, quella poesia non è nulla! La poesia che intendo io è tutt’altra cosa. Se Lei si riferisse a quella poesia avrebbe ragione. Se fosse cosí io dovrei abbracciarLa! Dovrei, anzi mi si offrirebbe l’occasione di abbracciarLa!» Io domando: «Che cos’è la Sua poesia?»  
 «La mia poesia non è la mia poesia. Ma se Lei vuol parlare della mia poesia devo confessarLe che non sono in grado di spiegarla. Vede, la mia poesia che è l’unica poesia e di conseguenza è anche l’unica verità proprio com’è anche l’unico vero sapere che io riconosco all’aria, che io recepisco dall’aria, che è l’aria stessa, questa mia poesia viene creata soltanto nel centro del suo unico pensiero, un pensiero che appartiene interamente a lei. Questa poesia è istantanea. E quindi non esiste. È la mia poesia». «Già, – dico io, – è la Sua poesia». Non capivo nulla di quello che diceva. «Andiamo, – disse lui, – fa freddo. Il freddo avanza verso il centro del cervello per divorarlo. Se Lei sapesse fino a che punto il freddo ha già divorato il mio cervello! Il freddo vorace, il freddo che ha bisogno delle sostanze cellulari del sangue, che deve prendersi il cervello, tutto ciò che produce qualcosa, che può produrre qualcosa. Vede, – disse lui, – il cervello, la testa e il cervello dentro alla testa non sono altro che un’incredibile irresponsabilità, un dilettantismo certo, un dilettantismo mortale, ecco ciò che voglio dire. Le forze vengono corrose, il freddo conficca i suoi denti nelle forze, nelle forze umane, nella forza muscolare dell’intelletto che è quella suprema. A entrarmi nel cervello è quel turismo del freddo vecchio milioni di anni che s’approfitta stupidamente di tutto, è l’irruzione del gelo... Oggi, – disse lui, – non esiste piú la parola “segreto”, quella non esiste piú, tutto ormai non è altro che un grande malessere causato dal freddo. Io il freddo lo vedo, posso metterlo sulla carta, posso dettarlo, il freddo mi uccide...»  
 In paese diede un’occhiata all’interno del mattatoio. Disse: «Il freddo è una delle grandi verità primarie, la piú grande di tutte le verità primarie e di conseguenza esso è tutte le verità messe assieme. La verità, deve sapere, è sempre un processo di mortificazione. La verità è qualcosa che trascina sul fondo, che lo preannuncia, la verità è sempre un abisso. Il falso è sempre una salita, un lassú, solo il falso non è morte cosí come la verità è la morte, solo il falso non è un abisso, ma il falso, capisce, non è una verità primaria: i gravi malanni non giungono improvvisi, le grandi malattie c’erano già dentro di noi in modo sorprendente da milioni di anni...» E fissando lo sguardo nel mattatoio attraverso la porta spalancata disse: «Ecco là dentro Lei può vedere chiaramente le carni squartate, spaccate a colpi d’ascia. Naturalmente c’è ancora l’urlo, naturalmente! Tendendo l’orecchio Lei potrà ancora udire l’urlo! Lei continuerà a udire l’urlo, benché lo strumento che lo emetteva sia morto, da tempo spaccato, strappato, reciso. La corda vocale è già stata macellata ma l’urlo permane! È un fenomeno prodigioso constatare che la corda vocale è già stata strappata, spaccata, recisa, mentre l’urlo permane! Che continui ad esserci l’urlo. Anche quando tutte le corde vocali saranno state spaccate e recise, quando saranno morte tutte le corde vocali del mondo, tutte le corde vocali di tutti i mondi e tutte le possibilità di immaginarle, tutte le corde vocali di tutte le esistenze, ci sarà ancora l’urlo, continuerà ad esserci l’urlo, l’urlo non può venir squarciato, non può venir reciso, l’urlo è la sola cosa eterna, l’unico infinito,la sola cosa inestinguibile, la sola cosa sempiterna... È davanti ai mattatoi che dovrebbe incominciare l’insegnamento sugli uomini e sui mostri, sulle opinioni degli uomini e sui loro grandi silenzi, l’insegnamento dei grandi protocolli della megalomania da mandare a memoria! Gli scolari, invece di chiuderli dentro ad aule ben riscaldate, andrebbero portati nei mattatoi; solo nei mattatoi mi riprometto qualcosa di buono per la scienza del mondo e per la sua sanguinosa esistenza. I nostri maestri dovrebbero insegnare nei nostri mattatoi. Non dovrebbero leggerci dei libri, ma brandire cosciotti, far cadere accette, usare affilati coltelli... L’insegnamento della lettura dovrebbe esser fatto guardando i visceri e non le righe dei libri... La parola nettare dovrebbe venir sostituita quanto prima dalla parola sangue... Vede, – disse il pittore, – il mattatoio è l’unica aula scolastica profondamente filosofica. Il mattatoio è la vera aula scolastica, il vero uditorio. L’unica saggezza è la saggezza nel mattatoio! Gli unici scritti sono gli scritti del mattatoio! L’unica verità è la verità del mattatoio! Verità primaria, verità, non-verità, tutto questo assieme costituisce la straordinaria immatricolazione nel mattatoio che io vorrei fosse imposta agli uomini, agli uomini nuovi, agli uomini da indurre in tentazione. Il mattatoio permette una filosofia radicale dell’approfondimento». Eravamo entrati nel mattatoio. «Andiamo, – disse il pittore, – l’odore di sangue smuove dentro di me qualcosa di inaudito, l’odore di sangue è la sola identità. Andiamo, che altrimenti sarò costretto a estrarre dalla mia fisicità pensante una nuova evoluzione dello spirito per la quale mi mancano le forze». A quel punto si mise a fare grandi passi e disse. «L’animale sanguina per l’uomo e se ne rende conto. L’uomo invece non sanguina affatto per l’animale e nemmeno se ne rende conto. L’uomo è un animale incompleto, l’animale potrebbe essere un uomo completo. Capisce ciò che voglio dire? L’uno è incongruo nei confronti dell’altro, l’uno è terribilmente oscuro nei confronti dell’altro. Nessuno dei due appoggia l’altro. Nessuno dei due cancella l’altro».  







Ventitreesimo giorno 





 «La locanda, deve sapere, mi è insopportabile, – disse lui. – Eppure ho una voglia istintiva di mettermi in sua balia, di mettermi in balia di tutto ciò che mi si dimostra ostile. Dove c’è del marcio io non posso fare a meno di inspirare a pieni polmoni. Vorrei continuamente inspirare odore umano, capisce?» Aveva sempre cercato di stabilire un contatto col proprio ambiente, con ciò che «ispira disgusto fino in fondo». Il suo massimo sforzo sin dall’inizio era sempre stato quello di restar vicino a tutto ciò che odiava, «girare attorno alle gambe degli uomini come un cane affidandomi in modo del tutto insensato alle mie impressioni». E difatti lo avevano sempre preso a calci come un cane. «È cosí, – disse lui. – Affogare sempre in mezzo a tutta la gente senza però mai colare a picco. Dove ci sono delle persone c’è sempre quell’inevitabile essudazione di voluttà!» Si era sempre detto: «Per il momento con una rapida mossa riesco ancora a sfuggire al colpo mortale, all’assassinio, al suicidio. Questo mi fa impazzire». Lo sbattere dei cucchiai degli operai che mangiano la minestra è per lui «uno scampanellio sordo lontano e insensato». Quando entra nella locanda prova disgusto. Ma poi risolleva la testa, «molto piú in alto di se stesso», per poter salpare sopra il proprio corpo verso il deserto umano «come un transatlantico. Come uno sportivo mi sottopongo a durissime prove, – dice lui. – Mi abbandono come se fossi circondato da pareti di carne che mi riscaldano. Ciò che era insopportabile allora si trasforma in un senso di benessere per il corpo». Allora lui crede di riuscire ad essere come gli altri, ma non ci riesce. Crede di passare inosservato e per questo appare ancora di piú come un corpo estraneo in mezzo a loro. «Ha notato come sono grandi i pezzi di pane che nuotano nel Suo brodo? Non a caso questo evoca in me l’immagine della fine del mondo. Una grande visione può scaturire da una osservazione minima».  
 «Dappertutto si viene infastiditi, – disse il pittore, – possiamo fuggire dove vogliamo. E come se tutti non avessero altro scopo che quello di infastidirci. Un istinto che s’insinua dappertutto in un baleno. Contro qualcuno. Ci si sveglia e incominciano i fastidi. A dir la verità: è l’orrore. Si apre l’armadio: un altro fastidio. Lavarsi e vestirsi, che fastidio! Doversi vestire! Dover fare colazione! Quando usciamo per la strada allora sí che la probabilità di venire infastiditi diventa massima! Non ci si può difendere. Ci si dibatte, ma non serve a niente. I colpi che sferriamo ci vengono restituiti cento volte. E che cosa sono poi le strade? Un serpeggiare, un saliscendi di incontri fastidiosi. E le piazze? Un assembramento di gente che ci infastidisce. E tutto questo, sa, si trova dentro di noi, non altrove in qualche posto lontano da noi! E tutto questo per uno scopo assurdo! Né possiamo aggrapparci da nessuna parte. L’intera vita, sa, si compone di tante grida di soccorso, è un processo mentale che non vuole finire, che spesso incrocia persone felici, manovali, donne cretine con le loro sporte al braccio! Fare i bambini gli dà alla testa! La smania di concepire della donna! Si prova fastidio a tal punto che non si può far altro che proteggersi il capo con le mani. Ma non esiste protezione alcuna per l’uomo. Porsi delle domande rende tutto ancora piú difficile. All’occorrenza col porsi delle domande si può rimandare una punizione, ma evitarla non è possibile. Volti belli e schietti tutt’a un tratto si rivelano delle trappole, paesaggi primaverili diventano centri dove imperversa la peste. A quel punto si è respirato troppo veleno perché ci si possa salvare. Non esistono mezzi di salvezza, sa, non c’è piú nulla che si possa tentare né con “l’arte” né con “l’ossessione”, con nulla. L’insonnia sarebbe una circostanza attenuante se non fosse sempre accompagnata dall’obnubilamento dei sensi. Vede: mi capita di pensare d’essere stato il tale o il talaltro e questo pensiero è fastidioso. Anche la vista della locanda mi dà fastidio. Guardare me. Guardare Lei. Anche il fatto che qui io sia un personaggio importante mi dà fastidio. I calci che si prendono non sono soltanto un’invenzione del mondo esterno. E le tenebre spesso sono un lussureggiante cerimoniale con processioni di morbosa bellezza che lo attraversano, una alterigia che dà le vertigini... Io soffro semplicemente del fatto di essere al di sopra della media, Lei deve sapere. Soffro delle riserve che la natura ha nei miei confronti, dei diritti a me estranei ch’essa esercita su di me. Io sono quello che ha sempre la peggio».  
 «E poi questo alternarsi dell’assoluta pesantezza col dileguarsi della mia vicenda, alla fine, in una plaga dove baratri senza fondo si spalancano solo ai folli... Ciononostante devo dire che non mi sono mai lagnato, mai lagnato... Sono riuscito a far esplodere persino la situazione piú disperata col mio ostinato rifiuto. Talora uscendo da simili situazioni sono anche riuscito a ritrovare la salute. Ora però non credo piú a una simile soluzione: mi ucciderebbe semplicemente colpendomi alle spalle. La locanda è buia e la gente vi si aggira, in preda ai propri terribili deliri, cosí misteriosamente immersa in essi da non riuscire a morire, sa, mentre fuori regnano tenebre ancora piú profonde. Mentre alla locanda tutto dorme, aumenta l’ostilità che incombe da ogni parte. Sono convinto che non si tratta affatto di influssi extraterreni. È spaventoso per me sapere che forse io la contagio, sa, con la mia malattia, ed è altrettanto spaventoso sentire quanto io abbia bisogno di Lei... E poiché io, sa, sono un maestro dell’autocontrollo e mi son sempre saputo imporre i limiti piú severi... Lei mi faccia il favore di dirmi ciò che pensa di me, voglio dire, mi dica la verità e non mi lasci nel tormento di una situazione ridicola... Lei è libero di seguire altre strade, io non voglio mica impossessarmi di Lei, non vorrei proprio che Lei fosse irritato da me... Il dolore, deve sapere, il dolore nella mia testa mi afferra per i lobi delle orecchie e me li tira giú fino alle ginocchia».  
 «La tragedia non è sempre tragica, non viene sempre vissuta come tragedia, benché si tratti sempre di una tragedia... Nessuna tragedia sconvolge il mondo. Nulla è tragico. Il ridicolo è infinitamente piú potente di ogni altra cosa». Dentro al ridicolo vi sono «tragedie in cui ci si addentra senza essere muniti di una lampada come dentro a una buia miniera». Nel ridicolo c’è la disperazione. «È come se, – disse Strauch, – l’orrore fosse diventato realtà». Perse il suo bastone e io mi precipitai a raccoglierlo. «Tutto si manifesta sempre in modo diverso. Il gelo per esempio, – disse il pittore, – per uno significa il gelone che gli è venuto, per un altro significa una cittadina d’estate... Infine gelo può anche significare Tramonto di un impero, come sappiamo». Gli sembra pratico portare le ghette e dice: «Perché la gente ha smesso di portare le ghette? Le ghette non si trovano piú da nessuna parte. Farsele fare richiede molto tempo e denaro ed è un gran logorio per i nervi». Per lui inoltre ogni acquisto era un problema tale che alla fine non comprava piú nulla. 
 «È atroce che dentro alle tragedie si debbano cercare sempre nuove atroci tragedie». Dice: «Che cos’è l’ansia? Forse l’ansia significa che sta per capitarci qualcosa che si conosce oppure che non si conosce e che perciò si teme?» La parola «enorme» detta da lui ha un suono cavernoso. Talvolta adopera anche la parola «morboso» quando cammina dietro a me. «L’enorme miseria non è forse anche l’enorme felicità? L’enorme vulnerabilità degli intrecci dentro al cervello...?» L’uomo esiste «nella sua realtà di fatto», e poi: «Al mondo non vi sono che giustizieri e coloro che temono i giustizieri e che non vorrebbero essere altro che dei giustizieri...», e poi: «Al cielo verrebbe la pelle d’oca se sapesse qualcosa che noi non sappiamo. Qualcosa di sinistro? Di sera c’è sempre un’oscurità multidimensionale tra le pareti di roccia». Se per giunta lui si ferma per la strada e scoppia in una risata, tutto diventa sinistro. Quando, come oggi all’improvviso, mentre lui punta il suo bastone contro la mia schiena e mi dice: «Vada nella conca! Vada» E io tutt’a un tratto pieno di gratitudine vedo le luci della locanda a una decina di passi davanti a me.  
 Domani seppelliscono il boscaiolo che era finito sotto la slitta. La moglie dell’oste aveva ricevuto un annuncio mortuario dalla famiglia di lui. Qui le morti vengono sempre comunicate con degli annunci mortuari che son dei fogli di carta attaccati alle porte. Spesso, se il defunto era del luogo, simili annunci si vedono attaccati a tutte le porte, proprio come ora si trovano attaccati a ogni porta gli annunci mortuari della contadina infortunata e del boscaiolo schiacciato dalla slitta. Sono dei grandi fogli di carta con un bordo nero largo diversi centimetri. Sul biglietto sta scritto quando è nato e quando è morto il defunto. Di chi era figlio e chi sono i famigliari che lascia. Dove sarà sepolto e dove sarà detta una messa per lui. Ci sta scritta anche la sua professione. Tutti i parenti vi compaiono con nome e cognome. La salma del boscaiolo è già stata composta nella bara da diversi giorni in casa dei genitori sul versante a nord della valle. La moglie dell’oste s’era già preparata di buon’ora, aveva preso il sentiero infossato ed era passata al versante nord per far visita ai genitori del morto. L’infortunato era fidanzato e tre settimane dopo lui e la fidanzata avrebbero dovuto sposarsi. Tutto era già pronto. Salvo il funerale che ora li costringe ad agire in fretta e furia e in modo del tutto diverso. La sposa sta inginocchiata giorno e notte davanti al letto del suo fidanzato. Prega e non tocca cibo. La moglie dell’oste aveva parlato con i genitori. «Un giovane cosí sano», dice lei. I genitori del morto l’avevano invitata a trattenersi per il pranzo di mezzogiorno, ma lei doveva già essere di ritorno a cucinare per le dieci. Dagli angoli della bocca del morto colava molto sangue, racconta lei. «Era coagulato e molto scuro». Il dolore non sarebbe cosí grande «se non fosse stato l’unico figlio quello che ora è lí disteso morto nella sua stanza, coperto dalla veste funebre di sua madre che lei s’era preparata e ricamata per sé». «Quando muore l’unico figlio, son morti anche i genitori», avrebbe detto la madre dell’infortunato. Il giovane era piú allegro e piú «colto» di molti suoi coetanei. Leggeva persino dei libri e la fidanzata era piú bella di tutte le altre ragazze. Il padre gli aveva proibito di ripartire un’altra volta con la slitta, ma era stato impossibile trattenerlo. Ora il padre non fa che rimproverarsi. «Avrei dovuto proibirglielo ad ogni costo», erano le sue parole. Il boscaiolo è arrivato fino a ventidue anni. Quando muore uno che è piú giovane di noi, ci spaventiamo. Perché? Erano incerti se seppellirlo in una bara bianca o in una bara nera, si sono decisi per la bara nera. Di colpo. Sul tavolo c’erano ancora i piatti e le posate che lui avrebbe usato se fosse ritornato a casa vivo. La moglie dell’oste dice: «Domani al funerale non ci sarà tante gente come al funerale della contadina».  
































Ventiquattresimo giorno 





 Anche al funerale del giovane boscaiolo c’era molta gente. La moglie dell’oste era riuscita ad avere un buon posto, durante l’intera cerimonia era rimasta in piedi a piangere davanti alla tomba spalancata. «Mi vien sempre da piangere, – racconta lei, – quando vado a un funerale». La bara del boscaiolo venne portata a spalle da quattro dei suoi ex compagni di scuola. Il parroco disse qualcosa a proposito della vita «breve ma gradita al Signore» del boscaiolo. La fidanzata stava tra i genitori, velata come loro. Tutti passavano accanto alla tomba spalancata scuotendo l’acquasantiera, soltanto il pittore e io restavamo a rispettosa distanza addossati al muro. Prima che i parenti si avvicinassero a noi, lasciammo il cimitero passando per la scala anteriore e restammo in disparte nella piazza del paese. La banda musicale suonò una marcia e tutto andò come di solito va ai funerali in campagna, che non si svolgono mai nel completo silenzio. Anche durante il funerale dalla porta e dalle finestre della locanda si poteva udire l’acciottolio del vasellame che veniva tirato fuori per il pranzo funebre. Venivano spillate botti. Il prosciutto fumava mentre gli levavano gran parte della cotenna. Io pensavo che anche dalle nostre parti, a L., i funerali si fanno a questo modo. Forse là tutto è ancora molto piú pomposo perché là sono ancora molto piú ricchi. E allora mi viene in mente com’è quando muore un povero diavolo. Uno dell’ospizio o uno di quelli del cantiere che abitano laggiú in una delle case dei ferrovieri. Uno che «non è uno di loro». Ho visto anche questo e se non l’avessi visto sarei riuscito a immaginarlo. In questi casi – senza che nessuno lo venga a sapere e senza che si stampi l’annuncio mortuario, ché per l’annuncio mortuario non ci sono i soldi – vien verniciata in fretta e furia una bara di legno dolce e il morto viene tirato fuori dal suo letto e deposto nella bara di legno dolce. Non ci si pensa nemmeno a montare un catafalco. E dove montarlo? Nell’ospizio? In casa del ferroviere? O magari nella mensa della centrale? Nell’ufficio grande della fabbrica di cellulosa? No, lo si depone nella bara che viene inchiodata in gran fretta prima ancora che il parroco ne sia stato informato, visto che spesso al parroco non ci pensano nemmeno, e perché poi? E lo scuoiatore scava una fossa, anche quella profonda due metri e venti come prescrive la legge e alle sette del mattino – senza che vi partecipi nessun altro all’infuori di un paio di persone che in quel momento non hanno nulla di meglio da fare – la bara viene trasportata e calata nella fossa dal sagrestano e dallo scuoiatore e la fossa vien subito ricoperta di terra. Un operaio come quelli che lavorano laggiú può star certo che al suo funerale non verrà neanche un cane. A meno che non si tratti di un vero e proprio incidente sul lavoro, allora una parte delle maestranze viene al funerale e l’ingegnere dice qualcosa; ma se l’operaio è morto per cause proprie e non nell’esercizio della sua attività e lontano dal posto di lavoro, nessuno si occuperà di lui. E se ha moglie questa rimane a casa perché fa troppo freddo o perché i bambini sono troppo malati. E perché poi si dovrebbe seguire un funerale? «Un grosso funerale, – disse il pittore sulla via del ritorno. – Curioso, io sono stato l’ultimo ad aver parlato col boscaiolo. E nessuno lo sa».  
 Battevo i denti. 
 Durante il funerale mi tornò anche in mente l’uomo che aveva incontrato lo scuoiatore al crocicchio, proprio nel punto dove la strada dal bosco di larici devia scendendo verso il fiume. Io quell’uomo me lo immagino come una persona che si trovi nella stessa situazione dell’oste. Probabilmente anche lui è già stato in prigione diverse volte. Trascurato sin dall’infanzia, forse orfano, maltrattato dai compagni di scuola privilegiati, castigato dai maestri, sfruttato dai suoi padroni artigiani e infine preso per scemo dagli osti. Non è chiaro quale sia il rapporto fra lui e la moglie dell’oste. Senza dubbio lei lo conosceva piuttosto bene; a giudicare da come aveva reagito a tutto quel che lo scuoiatore diceva in proposito, doveva certo averlo «amato». Lo scuoiatore non aveva forse parlato di una «vendetta» che sarebbe stata fatale all’uomo apparso cosí all’improvviso? Lui il denaro glielo aveva imprestato soltanto perché costui aveva parlato in modo abbastanza credibile di un lavoro che stava per iniziare. Di un posto alla fonderia lassú vicino alla ferrovia, a trenta chilometri risalendo il fiume. Lo scuoiatore aveva notato che era vestito male. Da una sua osservazione ho potuto arguire che quell’uomo non era sposato. Che nella sua vita aveva cambiato cento volte lavoro. Che durante la guerra era stato costretto a rimanere a letto per anni a causa di una ferita da arma da fuoco. «Se ne va di nuovo in giro da queste parti!» aveva detto la moglie dell’oste e poi: «È stato lui a trasformarlo in un assassino». Queste sono accuse pesanti. Mentre il cimitero era un nero brulicare di uomini che schiacciavano contro il muro me e il pittore, vidi un uomo che «bussa a tutte le porte e da nessuna parte viene fatto entrare» finché non è ubriaco fradicio e allora lo spalano via dalla strada maestra come se fosse una talpa. Io potrei domandare al pittore se oltre all’oste e a sua moglie e allo scuoiatore anche una quarta persona facesse parte del gioco. Il pittore allora direbbe che è lui il personaggio principale di tutta la vicenda in cui queste quattro persone sono invischiate per la vita e per la morte. E forse il pittore non conosce nessuno che «abbia la colpa di tutto» e che «non dovrebbe piú farsi vedere». Il pittore mi spinse verso l’uscita puntandomi contro il bastone e mi fece scendere fino alla piazza del paese. «Stavo proprio riflettendo su una frase di Pascal, – disse, – sulla frase: “la nostra natura è in movimento, la calma assoluta è la morte”». Disse: «Ovunque io vada partendo da questa frase arrivo sempre sconvolto». E ora che il corteo funebre scendeva dal camposanto il pittore voleva ancora trattenersi nella piazza del paese. Aveva voglia di stare ad ascoltare «uno o due dei pezzi» annunciati dalla banda musicale. Quel giorno faceva molto freddo e ci toccava battere i piedi energicamente perché non si congelassero. «Dopotutto è una bella abitudine lasciarsi alle spalle il morto a suon di musica. Sbarazzarsene con un banchetto». La banda suonava e i colpi di mortaretti squarciavano l’aria.  
 Ecco che mi torna in mente: lo scuoiatore con il cadavere del cane nello zaino. Anche il mio comportamento di quella notte era stato piú che curioso. Per giorni e giorni cercai di spiegarmi il mio comportamento. M’ero trovato in uno stato di tremenda agitazione. E ora non riesco quasi piú a immaginarla. Tutto è scomparso, so soltanto che è stato cosí e m’è anche rimasta la ripugnanza per il cibo della locanda. Effettivamente di mattina c’era stato nell’aria un odore di pelle di cane. Poiché sapevo che la moglie dell’oste era sulla via del cimitero, andai in cucina e nel ripostiglio dei viveri che stranamente non era chiuso a chiave, ma non vi trovai nulla. Tutto era in ordine e pulito come non capitava da tempo. Quella carne e quella pelle le terrà in cantina, pensai. E la cantina lei l’ha chiusa a chiave. La chiave della cantina, come dice il pittore, lei se la porta sempre addosso. Nei giorni scorsi il pensiero di tutte le cose che si trovano sparse nella sua cantina m’aveva fatto venire il voltastomaco. Ma in quel momento mi chiamò il pittore e mi avviai, come sempre precedendolo di qualche passo, in direzione del villaggio, in direzione del cimitero. Da tutte le parti si vedeva gente che andava al cimitero. Tutti contadini. Di nuovo osservo che gli uomini non portano il cappotto, soltanto dei completi oppure giacca e pantaloni spezzati confezionati con stoffa simile alla lana grezza. Una slitta stracarica di gente ci superò. Pensai, chissà a quale gioco sta giocando la moglie dell’oste con lo scuoiatore e a quale gioco sta giocando lo scuoiatore con la moglie dell’oste. Domandai al pittore: «Quanti anni ha lo scuoiatore?» Non riuscirei ad attribuirgli nessuna età. «Quell’uomo è nel fiore degli anni», disse il pittore. «Nel fiore degli anni, – ripetei io e allo stesso tempo mi domandai che cosa volesse dire, – nel fiore degli anni». Quand’è che siamo nel fiore degli anni? Quand’è che ci capita? «Ha quarant’anni?» domandai. «Può darsi che abbia quarant’anni, – disse il pittore, – perché La interessa lo scuoiatore?» Mi era venuto in mente in quel momento di domandargli l’età dello scuoiatore, il perché non lo so. «Tutt’a un tratto ci viene in mente qualcosa», dissi io. «Com’è curioso che io sia stato l’ultimo ad aver parlato col boscaiolo, – disse il pittore. – Aveva una faccia comune. E quanta gente viene al suo funerale. I suoi stivali luccicano perché la lampada era appesa proprio sopra la sua testa. Era già buio da molte ore».  
 Durante il funerale pensai piú volte al rumore che aveva fatto la carogna del cane sbattendo sul pavimento della camera da letto. Stimolato da una mia stupida osservazione sulla via del ritorno, lui riattaccò con lo Stato e con il Governo e con la neutralità. Lo Stato dev’essere come lo aveva concepito Platone oppure non è uno Stato. «Non esiste uno Stato. Lo Stato non è possibile. Non è mai esistito uno Stato. Per quanto riguarda il nostro Stato, a parte il fatto che non è uno Stato che non è piú uno Stato!», si tratta di una cosa assolutamente ridicola come «tanti piccoli macachi che squittiscono in un giardino zoologico» nel quale – com’è naturale – i soli animali degni d’interesse sono alcuni esemplari belli e ben nutriti di leopardi tigri e leoni: gli animali ruggenti! Conta solo il ruggito, lo squittio è ridicolo! Conta solo «il grande ruggito! Lo squittio viene zittito dal ruggito! Il ridicolo squittio viene zittito dal grande ruggito!» Il Capo del nostro Stato è «il direttore di una cooperativa di beni di consumo», il nostro cancelliere è «il gestore di un negozio di gastronomia». Il popolo poteva scegliere tra maestri macellai, assistenti stagnini, portatori di tonache dal volto stupido e gonfio, soltanto tra profanatori di tombe e sostituti profanatori di tombe. La democrazia, «la nostra democrazia», non era che un’enorme truffa! Il nostro paese stava sullo stomaco all’Europa, era indigesto, come «un piede deforme trangugiato nell’incoscienza piú totale!» Persino «la nostra danza è morta, le nostre danze e i nostri canti sono morti! Tutto finto! Tutto nient’altro che scempiaggine! Tutto quanto, ridicola e deleteria scempiaggine! La vergogna nazionale della Nazione! Sa, quello squittio che non ha piú nulla da dichiarare contro il ruggito! Tutto è ridotto a squittio! Tutto non è altro che ridicolo volgare e delinquenziale squittio! La follia e la megalomania ora sono soci, soci dello squittio, sa, comunissimi soci dello squittio che mano nella mano sprofondano nel baratro danzando, sono atteggiamenti idioti, sa, gli atteggiamenti di questo ripugnante squittio!» «Tutto è un kitch barbarico. Già, – disse il pittore, – lo Stato stesso è demenziale e il popolo è miserabile. Il nostro Stato è ridicolo. Per giunta tutto l’insieme pretende anche di essere straordinariamente musicale. Vizi piccolo-borghesi... Per me questo è troppo ripugnante: lo strato di lardo della classe superiore e il rimbecillimento generale e dilagante della popolazione... Ci troviamo in uno stadio di assoluto abbrutimento. Il nostro Stato, – disse lui, – è l’albergo dell’ambiguità, il bordello d’Europa che gode di una eccellente fama oltreatlantico».  
 All’improvviso, disse lui, s’era completamente reso conto di quale fosse stata la sua disgrazia, «un certo giorno di cui, deve sapere, potrei dirLe la data cosí come potrei dirLe i nomi delle persone con cui ho avuto a che fare quel giorno; gente di città, gente di grandi città, tutti saldamente ancorati al mondo che s’erano costruiti, allo spazio vitale di una fabbrica oppure di una galleria d’arte che fa buoni affari nel centro della città, oppure all’ambiente che si crea attorno a un’invenzione che loro avevano fatto e che gli fruttava grosse somme di denaro, oppure gente che era semplicemente felice senza sapere perché e come né si preoccupava di scoprirlo, con cui avevo dei rapporti che via via mi facevano un effetto demoralizzante, mi annoiavano a morte e mi ripugnavano, dei rapporti che col tempo degeneravano; passavo intere notti in casa di quella gente; mi facevo mostrare montagne di fotografie, davanti a me loro rovesciavano interi cervelli pieni di barzellette sporche e io ero costretto a ridere e ridevo davvero e bevevo, ridevo e dormivo, spesso sul pavimento, poi ero di nuovo costretto a tirar fuori i grandi nomi dell’arte ed ero in uno stato cosí miserando che però sembrava attirarli, quella miseria che era dentro di me e che si esprimeva nella mia persona li attirava, mi portavano con sé in questo o in quel luogo e volevano unirmi una volta per tutte alle loro vite, finché non giunse il momento, quel certo giorno, in cui capii che dovevo farla finita, non tornare indietro, ché tornare indietro era ed è impossibile e la feci finita con loro, la feci semplicemente finita e, lontanissimo da quelle persone e dalle loro abitudini, lontano dai loro averi e dalle loro opinioni, lontanissimo dal loro mondo che non era adatto al mio mondo, proseguii, da solo, su un piano diverso, da un giorno all’altro quando mi resi esattamente conto che ormai non appartenevo piú ad alcun mondo, né a quello dal quale ero appena fuggito, fuggito definitivamente, né a quello dal quale ero venuto né a quello nel quale, senza conoscerlo esattamente, volevo andare, verso il quale mi stavo incamminando, come un evaso dal carcere fuggivo in tutte le direzioni per non cadere nelle mani dei miei inseguitori...» Era una disgrazia non appartenere piú ad alcun mondo, «non avere assolutamente piú nulla».  
 «Sa, – disse lui, – quando poi Lei si trova improvvisamente a vagare per le strade, a vagare da un’insensatezza all’altra, per strade che sono tutte nere, sono nere e sono neri gli uomini che Le fluttuano accanto cupi e veloci, indifesi come Lei... Lei si trova in una piazza e tutto è nero, improvvisamente dentro e fuori tutto è nero, da qualsiasi punto lo si osservi tutto è nero e sempre stravolto e non si sa per quale motivo tutto sia stravolto, tutto sia frantumato... Qua e là Lei riconosce qualche oggetto, ma tutto è frantumato lacerato e fracassato; per la prima volta Lei si appoggia al suo bastone che finora aveva adoperato soltanto come arma di difesa contro uomini e cani, ora Lei ci si appoggia ed è come nuotare nel piombo, e qua e là vede: altro nero... La gente non sa se è la primavera che s’avvicina oppure se è la fine... Quelle enormi insegne dei grandi magazzini che si levano contro di Lei, che da ogni parte si radunano contro di Lei, si radunano come per una rivoluzione e rovinano ogni cosa dentro di Lei mentre tutti gli esseri del creato si rivolgono a Lei in cerca di aiuto, a Lei che sta tentando di andare avanti in una situazione ancora molto piú disperata... Lei vede delle persone e le chiama, sfacciatamente Lei spaventa queste persone in quell’atmosfera costantemente eccitata dai quattro punti cardinali... Lei porta la sua giacca abbottonata e tutto in Lei è teso e la Sua testa teme di andare a sbattere dappertutto... Contro tutte quelle borsette e quei bastoni, contro tutte quelle centinaia di migliaia di borsette e di bastoni... Lei pensa di essere caduto in basso da un luogo altissimo, come gli altri sono arrivati in alto partendo da molto in basso e Lei nel suo disgusto non sa piú come venirne fuori... Queste masse di persone, tutte schiacciate da lancette di orologi che avanzano precise... Lei cerca rifugio su una panchina del parco, ma lí ci stanno sedute persone piú furbe di Lei che già di buon mattino si sono precipitate sulle panchine e stanno lí a leggere certi libroni e mangiano del cibo avvolto in grandi pezzi di carta... Allora Lei si rende conto di tutta la miseria degli impiegati statali, della condizione ignominiosa dei pensionati... E si stringe la testa tra le ginocchia e cerca di non soccombere... E sente come il mondo si contorce nelle sue emicranie, in spasmi atroci, vittima della terribile violenza dell’aria... In camera Sua La minacciano i brandelli dei Suoi ricordi, ecco gli uccelli, quel nero incredibile dalla potenza straordinaria, questa straordinaria situazione di eccezionalità, deve sapere, questa sintesi di abiezione e di follia del mondo nella quale Lei improvvisamente si è trovato immerso, senza la minima idea, in uno stato che Le fa pesare addosso tutte le vicende umane possibili e immaginabili... Poliziotti e carretti di verdura, tutto Le viene addosso, come se volesse distruggerLa... La voce del popolo... Sin da bambino io questo lo sentivo come un processo che mi distruggeva il cervello... Questo popolo che mi ottenebrava i condotti uditivi... Per ciascuna di queste impressioni, deve sapere, io ogni volta che tocco in terra col bastone è come se mi facessi un buco nella testa, tutto nei giorni di föhn pare sia condannato a un interminabile martirio da un estatico ritmo musicale...» Ora pronuncia spesso la parola suicidio. In ciascuna delle sue frasi. Col pollice in cui, quando lo allunga, è concentrata tutta l’energia del suo corpo, schiaccia se stesso e accanto a se stesso il mondo esterno, come quando si compie il gesto patetico di schiacciare un insetto che se ne sta acquattato sopra un mobile. «Io non trovo piú modo di utilizzare me stesso, – dice. – Non c’è altro che la mia banalità. La banalità del mondo. Il voltastomaco dovuto alla banalità». Il terreno gli era già sempre stato tolto da sotto ai piedi. «Il mio risveglio è uguale al mio addormentarmi, banale. Persino i miei sogni sono banali... E io avrei diritto a ben altro che a dei sogni banali. I miei sogni paurosi sono i sogni paurosi della mia infanzia. Una cosa orribile quando chi è costretto a sognarli è un vecchio. Nessun godimento. Si entra soltanto in uno stato di maggiore stupore e in una solitudine totale. Qui, alla mia sinistra c’è Lei e alla mia destra il mio bastone. Le due sole cose che ancora mi tengono insieme. Lei non ce l’ha con me, vero? Quali fossero originariamente le mie idee, deve sapere, io non lo so piú... E poi anche l’incapacità di giudizio di tutto il resto del mondo... L’impossibilità sin dall’inizio di convivere col proprio talento... Tutto l’uomo, null’altro che riserve contro se stesso. Non è cosí? Io mi sforzo di capirmi, sa, eppure so che sto scendendo la china: è sempre stato cosí. Il comune logorio delle forze muscolari del cervello. E tutto ciò che guardo, il sottofondo musicale di me stesso, talvolta attraversato da una forte corrente di pensieri altrui». Credo che sia piú facile ricucire un intestino ridotto a brandelli che fare queste osservazioni. Potrei rileggere tutto quanto e mi spaventerei lo stesso. Il modo in cui dice: «Tutto è nero!» Come se tutto non fosse destinato a nessun altro che a lui e come se premettesse sempre che tutti gli altri portano i paraocchi. Persino il suo modo di pulire le scarpe con l’apposito straccio che tiene sempre in tasca, i suoi tentativi di dimostrare tutto col suo Pascal pur sapendo che non vi è nulla da dimostrare. «Nulla è un vero vantaggio», dice lui. Ed ecco che in sala già ci accoglie l’odore del bollito che non ha ancora finito di cuocere.  
 Ci si può trovare sopra una zattera trasportata dalla corrente con persone che non si conoscono, i corpi stretti l’uno contro l’altro, per anni e anni, senza approfondire neanche di poco la loro conoscenza. «Le tenebre che ci circondano talvolta assomigliano alle tenebre che, quando tutto è finito, si pietrificano dentro di noi. Il nostro sangue pietrificato come le bizzarre venature del marmo». Il silenzio riempie gli spazi della sua peste e dappertutto, di giorno come di notte, ci sono schiere di «casi di morte dovuti al silenzio». Strauch dice che non rimarrebbe sorpreso se un giorno riconoscesse di essere stato una persona completamente diversa. «Constatare, – dice lui, – che un atteggiamento morboso della natura nei miei confronti non mi ha permesso di penetrare in me stesso. Non sarebbe forse pensabile?» Venne a parlare di un certo momento felice della sua giovinezza, ma subito lo offuscò con un’osservazione: «I ruscelli che ci rinfrescano non sono forse l’effetto dei temporali?» Prima di addormentarsi «gli uomini fissano lo sguardo nelle crestate spume del mare» senza alcun motivo, senza pensare a niente, non ancora in sogno.  
 La giovinezza è un messaggio in se stessa. Quel che vien dopo è senza importanza: nient’altro che un metodo di fabbricazione. «Ma lamentarsene è da miserabili. Essere miserabili rende vecchi. La vecchiaia è miseria. In ogni caso la vecchiaia non è un merito e tanto meno un trionfo». Può capitare che ci si svegli in una regione composta da tutte le regioni del passato, «da un numero sempre piú grande di regioni».  
 Nelle ultime settimane trascorse nella capitale lui continuava a recarsi in certi uffici amministrativi per dare un’occhiata a certi documenti. «Volevo che vi apportassero diverse modifiche, – disse lui, – ma loro si sono rifiutati, mi hanno addirittura buttato fuori, – disse. – Sono davvero tanti i numeri ai quali si vuole inchiodare la propria vita!» disse lui. E cosí si viene direttamente scaraventati fuori dalle nuvole e da queste nel mare, in modo inutile e insensato.  
 Mi venne in mente com’ero riuscito a fare la mia pratica d’ospedale a Schwarzach. Honsig me ne aveva parlato. Nella sala delle autopsie. Lí c’era un ospedale, non piccolissimo e nemmeno troppo grande, che offriva tutte le possibilità. C’era un primario, un assistente e altri medici, le infermiere erano suore. Il tutto vicino a un nodo ferroviario e all’incrocio di piú strade. Molti incidenti, famosissime operazioni ai polmoni. Un ospedale sempre strapieno, estate e inverno. Nei dintorni si poteva fare dello sport: pattinaggio sul ghiaccio, sci. Brava gente dal punto di vista medico, anche dal punto di vista puramente umano. Vitto e alloggio gratuiti, una camera tranquilla. Il villaggio era insignificante, chiuso come tutti i villaggi d’alta montagna. Era situato vicino alla sorgente del fiume che improvvisamente devia il suo corso verso nord, in un punto che non è ancora totalmente al buio. Penso a Schwarzach. Che cosa c’è da vedere? Case, case d’affitto, una chiesa. E l’ospedale. Ci sono due parrucchieri che si fanno concorrenza tra loro. Una cascata divide in due il paese. Come a Weng si vedono molte donne incinte. Meno operai perché là non c’è un’industria. Ma ferrovieri e altrettanti impiegati delle Poste. Tutti i momenti c’è un torneo di pugilato per ferrovieri, una gara di tiro a segno per ferrovieri, una gara di salto per ferrovieri, una gara di nuoto per ferrovieri. La corsa sulle pertiche; orribili maschere con corna e trecce, nasi e orecchie storte, bocche sdentate, lingue tagliuzzate vengono brandite contro gli spettatori da coloro che le portano, da garzoni, da boscaioli, da aiutanti macellai, da giovani mungitori che fanno cadere in terra i vecchi, picchiano e buttano in terra i bambini, ma poiché questa è un’usanza ormai secolare, non finiscono mai davanti a un giudice. Violenti temporali e conseguenti smottamenti del terreno trasformano continuamente il luogo. Nelle case la solita monotonia che regna in tutte le case. Tanti uomini in giacche nere abbottonate fino al collo, se ne vanno in giro e, seduti o in piedi, guardano la cascata, si lagnano della disobbedienza delle loro mogli. All’alba arrivano gli operai «selvaggi». Un brusio cosí assordante che si è costretti a chiudere le finestre... Arrivano anche delle compagnie teatrali. L’aria è umida e i bambini sono rachitici, tutti soffrono di debolezza pleurica. L’acqua, nessuno sa perché, è la causa di molte malattie del luogo. Il latte invece è fresco e grasso perché viene direttamente dalla fattoria lassú in alto sull’alpeggio.  








Venticinquesimo giorno 





La banda dei ladri di bestiame.  

 «Allora sí che ho fatto una scoperta incredibile, – disse il pittore, – una di quelle scoperte che sul momento ci fanno prendere un accidente. Provi a immaginare, il mio attuale stato di sfinimento già a quell’epoca aveva raggiunto il suo culmine, rischiavo continuamente di precipitare, mi aggrappavo nella certezza di stare per annegare, io allora feci una figura spaventosa da sprovveduto, mi misi persino a urlare, mi strappai le maniche. Guardi!» disse mostrandomi la sua manica e vidi che la manica era effettivamente strappata, che mancava addirittura un bel pezzo di manica; ora camminava in fretta e credeva che la moglie dell’oste gli avrebbe sostituito la parte mancante della manica con un altro pezzo di stoffa – «con una di quelle stoffe di lana grezza che si usano qui in campagna», disse lui – e improvvisamente mi afferrò, mi spinse dentro il fosso che io non avevo nemmeno visto, la neve era alta, stavo affondando nella neve fino alle ginocchia dentro a una fossa piena d’acqua come constatai immediatamente, una fossa in cui, perdendo l’equilibrio, avevo trascinato anche il pittore. «L’acqua fredda si è infiltrata subito all’interno delle mie scarpe, – disse il pittore quando tutti e due a fatica riuscimmo a liberarci da quell’imprigionamento fino al ventre, – e poi provi a immaginare, se una persona in un simile momento resta immobile congela istantaneamente, cioè congela dal basso verso l’alto, si tratta della spietata meticolosità del grande freddo, nemico dell’uomo, indescrivibile e spaventoso». Ma lui per via di quel ridicolo contrattempo, non voleva lasciarsi distogliere dalla sua incredibile scoperta, del resto anch’io cercavo di distrarlo (ora ci eravamo rovinati la passeggiata, dovevamo ritornare sui nostri passi per arrivare alla locanda «prima che il freddo ci facesse prendere un’altra malattia», come disse il pittore, alla locanda dove avevano certo già acceso le stufe, e il pittore disse: «In certi casi la moglie dell’oste mi imbroglia e non ha affatto acceso la mia stufa, mi imbroglia, accende la mia stufa solo un attimo prima che io ritorni alla locanda, questo va assolutamente contro l’accordo che io avevo preso con la moglie dell’oste, è un’azione diretta contro di me. Per via del fatto che lei accende la mia stufa soltanto nel preciso istante in cui s’aspetta che io ritorni, in camera mia non fa mai caldo, in camera mia non fa mai assolutamente caldo, la mia camera dovrebbe venir riscaldata continuamente, tutte le stanze della locanda sono fredde, stanze fredde, capisce, stanze terribilmente ostili alle persone»), ma lui mi riportò sull’argomento. «Stavo parlando di quell’incredibile scoperta, – disse lui, – improvvisamente, mentre uscivo dal sentiero infossato nel bosco vidi che il ruscello era rosso. Pensai: un fenomeno, un fenomeno naturale! Ma subito capii: era sangue. E pensai: questo è sangue, per Dio, questo è sangue! Non credevo ai miei occhi, ma l’intero ruscello era pieno di sangue! In quel momento avrei voluto immediatamente risalire di corsa il torrente, ne avevo l’impulso e la voglia, anzi sentivo persino il dovere di farlo, poiché ciò che vedevo era senza dubbio il flusso di un delitto, come mi era chiaro, di un delitto commesso dall’uomo, “il ritmo meravigliosamente incalzante del sangue” scorreva davanti ai miei occhi spezzandomi i nervi, io volevo risalire il torrente, ma Lei sa bene che questo è impossibile, in quel momento mi trovavo in una situazione tormentosa: sapevo con la massima chiarezza, vedevo, sí, lo vedevo persino che si stava commettendo un delitto chissà dove piú in alto, forse non piú in là di cento passi (la distanza dal delitto non poteva essere grande), il flusso di sangue, deve sapere, era enorme (uno spettacolo di prim’ordine), il torrente rosso-sangue sul candido manto di neve, graffiato da quei rami neri, da quell’orribile ramaglia nera... Tutto questo non era altro che un’impressione, questione di pochi secondi. Volevo urlare. Ma non urlai. Il mio tentativo di risalire carponi il ruscello era destinato a fallire, io combattevo contro un’idea cosí mostruosa di ineluttabilità da non poter che essere inesorabilmente condannato al ridicolo, credo io, anche Lei certamente conosce questa situazione: ci si vuole mettere in cammino e non si è in grado di fare un solo passo, il cervello dà un segnale, il cervello è come un colpo di frusta dato al corpo, il corpo invece è un immenso rifiuto a ogni ordine... Mi venne però un’idea: feci qualche passo indietro verso il sentiero infossato e strisciando, effettivamente strisciando, Lei deve sapere, che io strisciando pancia a terra mi arrampicai in prossimità del ruscello, può darsi a un centinaio di metri piú in su del luogo nel quale avevo fatto quella scoperta, mi voltai indietro a guardare il luogo dove mi ero arrampicato e vidi: un animale! Vidi: un animale mostruoso! Vidi: una aberrazione che aveva pinne e coda! Ero troppo indebolito per potermi alzare e raggiungere il ruscello attraverso i cespugli. Eppure per riuscire a fare ciò che Le sto raccontando ebbi un grosso slancio di energia. L’idea che piú in alto, nel luogo dal quale sgorgava questo povero sangue dai colori scintillanti si stesse commettendo un delitto, mi diede delle forze sovrumane alla cui esistenza avevo ormai smesso di credere. Allora, – disse il pittore, – tutt’a un tratto udii dei suoni, dei suoni che non erano naturali, come lo scatto di un coltello che si chiude, il vibrare di una lama, l’abbattersi di un’ascia, il tonfo di qualcosa che cade. Mi nascosi nella neve e cercai di scaldarmi le spalle strofinandole con quelle rotazioni della testa che Le ho già descritto una volta. Tutto senza rendermene conto. 
Improvvisamente il mio udito era l’unico senso vigile. Udii uno scalpiccio e come uno sbattere di pietre sull’acciottolato. Il lacerarsi di gigantesche foglie serpentarie. Mentre mi sentivo osservato i rumori s’andarono affievolendo. Infine udii che passavano il fiume a guado tre o quattro volte. Pensai subito che si trattasse di uomini, di bracconieri di fiume, pensai e strisciai fuori dal mio nascondiglio. Fui contento di avere la certezza che la mia scoperta aveva un fondamento di verità, che il mio senso dei colori non mi aveva ingannato, che quella corrente nel ruscello non era soltanto una corrente rosso- sangue prodotta dal mio cervello, che non si trattava soltanto del sopravvento totale di un gruppo di cospiratori fantastici all’interno della rivoluzione dei miei pensieri, che la vista di quel tratto di ruscello non poggiava su nessuna raffinata allucinazione, su nessuna sciagurata macchinazione della mente umana, ma che era realtà, una realtà simile a un fulmine profanato dai colpi del tuono: ciò che vidi ora dopo essermi avvicinato strisciando alla riva era cosí terribilmente ridicolo: teste, code, pezzi di costato di mucche. L’aria era ancora impregnata dell’odore caldo e molle della carne appena macellata, il contrasto tra il freddo e il nulla, tra il caldo e il nulla; la nausea dell’orrore sul bianco lenzuolo della neve, un quadro irripetibile: l’anatomia della disumanizzazione presa a morsi, fatta a pezzi e tagliuzzata dal Cielo e dall’Inferno. Come già detto, soltanto un’immagine e sullo sfondo, sull’altra riva e ormai non piú raggiungibili, i malfattori fuggitivi, i malfattori che fuggivano senza posa». «I ladri di mucche, – dissi io. – Si trattava di comuni ladri di bestiame, di uomini e donne, probabilmente di una comunità vicina. Tra i brandelli di carne, le macchie di sangue, tra ossa cartilagini e intestini s’insinuavano orme di passi che facevano pensare a uomini e donne. In terra c’era un foulard, me lo misi in tasca, un indizio», disse il pittore. Ci dirigemmo verso la locanda – io ero bagnato sino ai fianchi e tremavo di freddo –, verso la locanda che nessuno di noi riusciva piú a scorgere poiché all’improvviso la nebbia aveva avvolto tutto «cancellando anche i piú rudimentali contorni delle cose»; il pittore disse: «Questo quadro voglio chiamarlo “massacro”, dentro a quel quadro, nell’istante della contemplazione ch’esso ha richiesto da me, si celava ogni cosa. Si vedevano chiaramente le impronte dei massacratori in fuga. Si vedevano anche le impronte del bestiame condotto lí a forza. Si vedeva l’ottenebrarsi degli astri e allo stesso modo si vedeva la volgarità proletaria dell’assassinio. Si vedeva la parola “indifeso” là in terra, sulla neve, questa malvagia iscrizione segreta, deve sapere, si vedeva la parola “abiezione” scritta a chiare lettere nel cielo. Accadde qualcosa di strano, tutt’a un tratto, mentre le membra staccate palpitavano ancora, fui interessato al processo di irrigidimento dovuto alla morte che lí si compiva con milioni di varianti. Mi chinai, affondai la mano nel sangue e lo mescolai alla neve. Mi misi a tirare palle di neve rosse! Tirai rosse palle di neve! Lei deve sapere. All’inizio mi guardai bene dall’aprire uno di quei grandi occhi che erano tutti misteriosamente chiusi, volevo risparmiarmi la vista di uno di quei grandi pacifici occhi bovini. Me ne guardai bene fino al momento in cui non riuscii piú a resistere alla tentazione di abbandonarmi alla pietà che unisce l’uomo all’animale e aprir uno degli occhi di quelle mucche, uno di quegli immensi mondi immoti, congelati, esangui. I ladri, – disse il pittore, – avevano seguito un piano preciso. Tutto ciò era avvenuto in un luogo che quasi nessuno all’infuori di me aveva veduto, in uno dei luoghi piú inaccessibili, forse nel luogo piú inaccessibile di tutti. I ladri dovevano conoscere esattamente la regione. Io finora non ho ancora denunciato la mia scoperta. Naturalmente dovrei andare dal gendarme e informarlo. Probabilmente il fatto è già noto. Poiché, come notai piú tardi, anche il sentiero infossato era pieno di sangue. Il gendarme passa sempre per quel sentiero. Ci passano anche quelli che vanno in chiesa. Tutti costoro hanno certamente scoperto il sangue. A un certo punto, deve sapere, il sangue, la traccia di sangue devia poi verso il luogo del delitto. I ladri dovevano essere attrezzati con ogni possibile arnese da macellaio. E difatti io avevo udito lo scatto di un coltello che si chiudeva, i colpi di un martello, di uno scalpello, lo stridere di una sega che s’interruppe all’improvviso. Mi avevano sentito. Misero la carne dentro a dei sacchi. Si precipitarono nel ruscello. Lo attraversarono a guado e subito furono sull’altra sponda, al sicuro, nel bosco. In realtà io non avrei potuto fare assolutamente nulla. Nelle mie condizioni, un uomo nelle mie condizioni in simili casi non può far nulla. Un uomo come me scappa, prende la fuga, si allontana dal sangue e dai rumori che provengono dal crimine. Non si capisce perché il luogo del crimine esercitasse su di me una attrazione cosí forte, perché mi attirasse con il suo orrore naturale, perché riuscisse ad attirarmi. Io, come già detto, strisciavo carponi come una bestia. Capisce: io rimasi semplicemente soggiogato da quel posto, da quella immagine. L’odore di quelle membra sminuzzate e ancora calde, come sotto a una campana di vetro, – disse il pittore. – E poi quell’assenza totale di suoni in cui sarei annegato se non avessi cominciato a sfregarmi la neve sul volto. Si tratta di tre o quattro mucche, pensai, deve trattarsi di tre o quattro mucche, pensai, e difatti erano tre code quelle che avevo trovato, avevo trovato tre code. E avevo trovato le tre teste corrispondenti. Eppure deve trattarsi di quattro mucche, pensai. Era inspiegabile, ma continuavo a pensare a quattro mucche. La testa di un vitellino giaceva in terra tra i cespugli, già sott’acqua, si stava dissanguando. Si trattava dunque di tre mucche e di un vitellino, ma non c’erano che tre sole code». Alla locanda il pittore mi mostrò il foulard che aveva trovato nel luogo del massacro. Eravamo appena entrati dalla porta, nel buio che oggi c’era ancora a mezzogiorno, tirò fuori dalla tasca del cappotto qualcosa di insanguinato e me lo mostrò. Lo tenni sotto il raggio di luce che filtrava dalla porta attraverso la sottile fessura di vetro e vidi il foulard. «Questo è un indizio terribile, – disse il pittore, – non Le sembra che si potrebbe benissimo immaginare che si tratti di vittime umane. Ma credo che la cosa non sarebbe altrettanto orribile perché non si potrebbe riderci su, non si potrebbe scoppiare a ridere. E io alla vista di quegli animali fatti a pezzi in modo cosí orribile sono scoppiato a ridere, sono scoppiato in una risata mostruosa. Lo sa che cosa significa? L’orrore ha bisogno della sua risata!» Andammo in sala da pranzo e di lí in cucina dove ci togliemmo il cappotto e la giacca, ma soprattutto le scarpe. Ci togliemmo anche i pantaloni e poi, dato che la moglie dell’oste ci esortò a farlo e il pittore parve non avere nulla in contrario, anche le mutande. Che la moglie dell’oste doveva sostituire il pezzo di stoffa strappato dalla manica, ricucire tutto per bene, disse il pittore. Tutti e due ce ne restammo lí con la faccia al muro mentre lei andò nelle nostre camere a prenderci mutande calze e pantaloni asciutti, l’aria calda della stufa accesa dietro alle nostre schiene ci rimise in vita. «Lei (la moglie dell’oste) approfitta di quanto è successo per accendere rapidamente la stufa in camera mia, – disse il pittore, – poiché, come Le ho già detto, non l’aveva accesa. Si è spaventata perché siamo già arrivati. Lei mi ha semplicemente colto di sorpresa, – disse lui. – Come ho potuto essere cosí stupido da eseguire i suoi ordini e spogliarmi qui in cucina, rendendomi ridicolo qui davanti a lei. È una cosa ridicola star qui mezzi nudi contro il muro. Lei non se ne accorge che è ridicolo starcene qui con la testa contro il muro, che Lei si trova in una situazione indecorosa e completamente idiota, che si tratta di una fucilazione buffonesca! Questa è un’esecuzione!» esclamò il pittore. Ora s’era avvolto il ventre e le gambe col suo cappotto e diceva: «La faccenda delle mucche se la tenga per sé, cosí come anch’io non ne faccio parola. Una testimonianza pubblica resa in modo sconsiderato, particolarmente in un caso cosí odiosamente eccitante, può condurre a una severa inchiesta giudiziaria incredibilmente disgustosa. Io voglio restarne fuori. La prego di non farne piú parola. E con nessuno, non faccia la minima allusione». Poi disse: «Ora è la stagione delle trame assassine, i cascinali sono intontiti dall’ottusità della neve che cade. La canaglia svita i chiavistelli dalle porte delle stalle e imbavaglia il bestiame. L’aria notturna è squarciata dalle randellate sul coccige degli animali».  
 Dopo essersi cambiato si mise a sedere nell’atrio e incominciò a leggermi qualche pagina del suo Pascal. Si trattava sempre di «infelicità totale», disse, ma io non compresi che cosa volesse dire. Sempre di «un unico brutale atto di violenza». Disse: «Tener conto di ciò che uccide». E poi: «La morte rende tutto infame». Lui partiva in viaggio per fermarsi in qualche città del pensiero, interrompeva il suo viaggio, aveva una meta «che non tollera alcun arrivo, che non permette arrivo alcuno». Andai in camera mia dicendo a me stesso, ma con voce cosí forte da far rimbombare le pareti e ricadermi addosso: «Io questo non lo sopporto piú!» Mi distesi. Sfogliai il mio Henry James senza rivolgere un solo pensiero a questo scrittore. Mi alzai. Passeggiai in su e in giú. Mi distesi di nuovo. Provai avversione per l’impudenza di una frase che mi balzò agli occhi nel mezzo di una pagina del libro. Gettai in terra il libro. Tutto ha cattivo odore, pensai. Improvvisamente tutto non era altro che tanfo, anche la piú piccola idea, l’idea piú lontana, solo tanfo. Poi scesi giú e mi sedetti al tavolo speciale. Mangiavano con grande appetito, persino al pittore era venuto un tale appetito che mi fece ribrezzo. Io non riuscivo a mangiare assolutamente nulla e fui costretto a lasciare la minestra a metà. Mentre il pittore si era ritirato in camera sua, me ne andai in cucina e a un tratto partecipai a una discussione che già da parecchio tempo era sorta tra la moglie dell’oste e lo scuoiatore. Parlavano di gente ricca, della comitiva dei cacciatori i quali tre o quattro volte l’anno partivano per la caccia a sciami e aizzavano i cani, tiravano molti colpi a vuoto e spesso tra i sassi nel bosco si trovavano fibbie o cinture o paraorecchi o qualche ghetta spaiata. Talvolta all’improvviso quei signori (il pittore li chiamava «i principi») s’impossessavano di quello che era «il piú lurido angolo del mondo». Come sono i ricchi? si domandavano. Non sapevano rispondere alla domanda. Arrivavano al punto di dover per forza odiare la ricchezza per non esserne esclusi a priori. Ecco che mi viene in mente la frase che il pittore ieri ha cosí formulato: «La povertà non può che guardare alla ricchezza con occhi sbarrati, null’altro». Lo scuoiatore veniva spesso arruolato dalle comitive dei cacciatori. Diverse vecchie vecchissime famiglie «di tanto in tanto» si riunivano nella loro mania di grandezza per straziare la natura a colpi di fucile. Il pittore ieri sera ha definito la caccia «un giudizio di Dio con banali caratteristiche umane». Dissi allo scuoiatore: «Lei è mai andato nella valle stretta?» La valle stretta è una zona di caccia particolarmente ambita, disse lo scuoiatore, un tempo era famosa per gli ululati dei lupi. Mi ricordai di felici partite di caccia. Sin da bambino partecipavo spesso alla caccia alta e bassa. «La caccia è l’unica situazione in cui tra le potenze del mondo, tra l’animale e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, tra l’animale e l’animale, non ci si rallegra delle disgrazie altrui», aveva detto mio padre un giorno. Per sfuggire al pittore, cercai di entrare in camera mia nel modo piú silenzioso possibile. Ma lui ormai mi aveva sentito e m’aveva trascinato in camera sua con un «Venga!» che piuttosto che un’esclamazione era un severo comando. Era come se io fossi nelle piú fitte tenebre. «Tocchi questi muri, – disse il pittore, – dover congelare tra questi muri è una follia catastrofica. Si segga!» Mi costrinse ad accomodarmi in una poltrona. «Tutto in realtà è muto, – disse lui, – è tanto muto quanto è odioso, tanto scrupoloso quanto maledettamente scontato». Voleva che restassi con lui. Lo sentivo. Tutto ciò che emanava da lui mi dava la sensazione che lui volesse farmi entrare per forza dentro al suo mantello che poi avrebbe abbottonato stretto e per sempre. E invece proprio in quella situazione tormentosa mi disse: «Se ne vada! Se ne vada! Voglio che Lei se ne vada!» E mi spinse fuori dalla porta. «È un errore contare sugli uomini. È un grave errore contare su chicchessia. Ho sempre commesso questo errore. Ho sempre commesso questo terribile errore, ho sempre contato sugli uomini!» disse lui. Io non ce la feci piú a sopportarlo, corsi giú e fuori dalla locanda. Ma all’aria fresca ritrovai ben presto l’autocontrollo. Avevo la sensazione che il pittore, che Strauch, che quell’uomo mi avesse già in suo potere. «Sí, sí», dissi. E corsi al cimitero. E: «Sí, sí», e tornai indietro di corsa. Lungo tutta la strada non avevo pensato ad altro e non avevo visto nulla, avevo soltanto continuato a pensare che il pittore si era impossessato di me. Che mi aveva costretto a entrare nel mondo delle sue immagini. Aveva costretto me, il suo debole osservatore. Mi sentii improvvisamente in carcere. Ma anche questa immagine, pensai, è un’immagine del pittore. Non sono piú io. No, no, non sono piú io, pensai. Mi rendeva furioso, la violenza che subivo all’improvviso era come una dura roccia contro la quale io continuavo a battere la testa. Ma anche questo paragone, anche questo pensiero distorto del mio cervello, e tutto quanto ciò che viene da me pensato e osservato e da me detto e da me denigrato, non è forse di Strauch? Di pomeriggio tentai di addormentarmi, ma non ci riuscii. Mi sorpresi preda impotente delle frasi e delle opinioni di Strauch, della sua «morbosità» e «assurdità». Continuo a sorprendermi mentre dico parole smozzicate per bocca di quell’uomo. Soltanto verso il crepuscolo, quando fu quasi finita la marcia intrapresa insieme a Strauch, riuscii nuovamente ad allontanarmi da lui come da una sponda mortale. Non so, è tutto assurdo! Assurdo ciò che ora sto scrivendo, poiché io scrivo nel cuore della notte, nella «sconfinata ignoranza delle tenebre».  
 Nel frattempo naturalmente tutti avevano saputo dei ladri di mucche e del massacro delle mucche e lo scuoiatore dovette subito recarsi al ruscello, ficcar dentro a dei sacchi i resti delle mucche e portarli via. C’era andato con la slitta tirata dai cavalli del sindaco, io avrei potuto accompagnarlo ma alla fine non volli andarci, tanto non avrei piú visto gran che poiché da un bel po’ aveva ripreso a nevicare. Lo scuoiatore aveva staccato le corna dalle teste e se le era portate con sé insieme alle code. Raccontò tutto in maniera completamente diversa da quella di Strauch, tuttavia il suo racconto era una conferma di tutto ciò che entrambi avevano detto su quella faccenda.  
 La gente era piuttosto arrabbiata, negli ultimi tempi era accaduto spesso che rubassero delle mucche e le macellassero selvaggiamente in riva a qualche corso d’acqua. «Si trattava di tre mucche e di un vitello», disse il pittore giú in sala. Lo scuoiatore lo guardò e gli domandò come mai lo sapesse. All’infuori di lui, lo scuoiatore, non c’era nessuno che lo sapesse. «Era soltanto una congettura, – disse il pittore, – soltanto una congettura». E disse allo scuoiatore: «Già, Lei non ha forse trovato sei corna, tre code e quattro teste in quel luogo?» «Sí», disse lo scuoiatore, era questo che aveva trovato, ma non lo aveva raccontato a nessuno, non aveva mai parlato di numeri. «Eppure Lei deve averne parlato», disse il pittore. Lo scuoiatore si stupí.  
 Fino a tarda notte si parlò molto dei ladri di bestiame. Il pittore mi ripeté ancora una volta tutta la storia che però ora improvvisamente, sentendola raccontare per la seconda volta, mi ripugnò, anzi mi ripugnò profondamente. Mi faceva semplicemente ribrezzo, avevo la sensazione che il pittore si pascesse di questa storia, di questa storia che gli era straordinariamente gradita perché gli procurava delle sensazioni spaventose e indefinibili. La moglie dell’oste fece subito bollire le code, già a mezzogiorno tutti mangiavano quella minestra senza provare ribrezzo. Neanch’io provai ribrezzo a mangiare quella minestra. Tutte quelle ossa fresche lui le aveva gettate ai cani, disse lo scuoiatore. Risero di quella minestra «di cui dobbiamo ringraziare i ladri!» come dicevano loro. Per il gran ridere non riuscivano quasi a mangiare. Ma finirono tutto lo stesso. Mangiarono tutto. Il pittore mangiava e ora taceva. Sembrava uno che avesse serbato un gran segreto. E naturalmente di tutta quella storia lui ne sapeva piú degli altri. Ma restò fermo nella sua decisione. Non raccontò a nessuno di aver udito i ladri, anzi che forse li aveva anche visti sparire nel bosco. «Un correre qua e là nella piú buia confusione e un brutale trasportar sacchi di carne verso l’altra riva», aveva raccontato. Lui non è del tutto certo che questa impressione si basi sulla realtà e non sull’immaginazione. «Non era pura immaginazione», disse. Negli ultimi tempi si segnalavano molti simili furti di bestiame. Non s’era mai trovata la benché minima traccia della «banda dei ladri di bestiame». La benché minima traccia. «Neanche di questi non si sentirà piú parlare», dicevano. «Già, – aveva detto il pittore. – La neve cancella ogni traccia. I ladri confidano nella neve. La neve nasconde i loro crimini». L’ingegnere, anche lui ora s’era seduto al tavolo, disse che a mezzogiorno aveva fatto un’osservazione che forse sarebbe servita a far rintracciare i ladri. «Tracce», avrebbe detto. Ma poi, due ore dopo, le tracce erano scomparse. Già a mezzogiorno «non c’era piú il minimo appiglio».  









Ventiseiesimo giorno 





 «Ho passato tutta la notte in camera mia, sdraiato in terra, deve sapere. Un altro forse avrebbe chiamato, si sarebbe fatto sentire battendo dei colpi. Se soltanto il freddo che viene dal basso non fosse cosí intenso, – disse il pittore, – dal basso: un freddo terribile. Io gelo, poiché la mia testa risucchia ogni forza dal mio corpo. In realtà non fa freddo, ma io gelo. Posso coprirmi quanto voglio, ma continuo a gelare. Allora la mia testa ricomincia a diventar grossa, a gonfiarsi: tutto avveniva in una specie di dormiveglia: l’enorme testa respirava e quasi mi schiacciava il petto. Le mie cosce erano cosí fredde che quando le toccai con le mani ebbi la sensazione che fossero morte; e anche le gambe e i piedi cui io di solito, deve sapere, faccio fare delle rotazioni verso l’esterno per scaldarmi... Questa volta non ci riuscii, non esisteva ormai piú alcun metodo per potermi scaldare... Aspettare fino all’alba? mi domandai. Chiusi gli occhi. Ma anche solo chiudere gli occhi equivale a un taglio doloroso nella mia esistenza. E aprirli poi! Io nell’aprire gli occhi sono piú lento di chiunque altro e li chiudo con la stessa lentezza. I miei occhi, la mia bocca e le mie orecchie sono talmente sensibili; è perché sono cosí grandi che mi causano un dolore cosí grande. La mia tibia e la mia clavicola sono ricoperte di pelle sottilissima. I miei nervi non hanno nulla a cui attaccarsi. Le ore trascorrono sempre piú lentamente, diventa sempre piú difficile riuscire a passare la notte. Non riesco piú a leggere nemmeno il mio Pascal. Neanche una parola. Nulla. Ben presto non mi verrà piú in mente nulla che mi aiuti a sopportare le mie notti. Non esiste piú un solo punto nel mio corpo, per non parlare della mia testa, che a toccarlo non sia terribilmente sensibile al dolore. Cosí, qualunque cosa io faccia, al costante mal di testa si aggiungono anche i dolori che provo quando poso il piede da qualche parte, quando appoggio la mano da qualche parte: non importa dove o con che cosa io venga in contatto, provo dolore, mi fa male. A questo si aggiunge anche il fatto che pensieri sul nascere battono contro le pareti interne del mio cranio; ogni volta credo che la mia testa vada in frantumi quando passo da una immagine all’altra. Sarà il continuo battere dei pensieri a rendermi pazzo. Lei deve pensare che nessuno ha un autocontrollo cosí grande. Ogni oggetto che son costretto a guardare mi fa male. Ogni colore che son costretto a guardare. Ogni ricordo che viene a galla, tutto, tutto. Non posso piú guardare il fondo di nessuna cosa, perché questo immediatamente mi annienterebbe oppure mi renderebbe pazzo in maniera tale che tutto mi parrebbe cosí folle da ridurmi a essere soltanto una bestia dannata, capisce? Perché io sono già al di là del confine...»  
 «Ho la sensazione, – disse il pittore, – che la mia testa sia il mio corpo e viceversa. Determinati timidi colpi di remo con le gambe, sa, di notte... come se questa testa fosse riempita di gas tossici e come se mi desse una sensazione di enorme sollievo il fatto che qualcuno m’infila degli spilli nella testa... si dimostrerebbe che la mia testa è davvero fatta di un materiale solido, si spezzerebbe. Ho una tale paura di urtare contro un oggetto duro, contro un oggetto acuminato, è una cosa ridicola come se sopra il mio occhio sinistro pendesse un’enorme escrescenza. Come se le mie narici fossero enormi fessure, paragonabili alle fessure che servivano agli animali preistorici per incamerare l’aria. Ho questa sensazione: il mio naso consiste di innumerevoli ventose. Io posso penetrare, la mia natura di scienziato può penetrare dentro a ciascuna di queste ventose... il mio polmone, deve sapere, non funziona piú istintivamente, ho continuamente paura che possa lacerarsi. Eppure il polmone è l’unico organo che non mi causa alcun dolore. Questo mi fa paura, vede: uno dei suoi alveoli all’improvviso non sopporterà piú questa pressione: una reazione a catena... una tale conoscenza della costituzione interna del mio corpo... Io non posso sentire e interpretare ciascuno dei miei organi... ogni organo per me è un concetto ben definito, un dolore scontato da tempo... E l’orrore... fegato milza e reni, questi tre tormenti, capisce... e in piú quel tormento nella mia testa che le ho già descritto. Tormento della testa e tormento del corpo, deve sapere, inflessibili l’uno con l’altro: e in piú tutto il regno sotterraneo dei tormenti dell’anima che si manifesta da qualche parte... potrei scomporre la mia testa in milioni di componenti e studiarne le leggi: quest’opera di distruzione! Questa terra variopinta del mio dolore: senza orizzonti, deve sapere, assolutamente senza capacità di percepire, senza possibilità di perdere i sensi...» Dice: «Io mi aggrappo agli uomini che hanno degli scopi precisi, che hanno un tormento dello spirito».  
 E poi: «Le migliori predisposizioni, i migliori presupposti, tutto va a finir male, sa, tutto ciò che si oppone al silenzio assoluto. E in Lei io scopro dei tratti di carattere piuttosto notevoli... Lei sa anche ascoltare. Per quanto mi riguarda, io sono di una durezza incredibile. E non l’ho acquisita a forza di ridere o di piangere, come si crede. No. Certo, alla Sua età si corre il pericolo piú grande: la capacità di fare di sé qualsiasi cosa e poi di non farne niente... Perché Lei, come tutte le persone, non sa qual è il Suo momento. Non si sa mai riconoscere il proprio momento, ecco cos’è!... quando rapidamente si sale oppure si precipita, non se ne sa nulla... quando si sprofonda nell’abitudine del lasciarsi andare e del puro e semplice vegetare. La maggior parte delle persone verso i trent’anni si perde nella sessualità. Poi ci si riduce a consumatori di cibo. Io qualche volta scopro in Lei una sorprendente saggezza, nel modo di esprimersi, un senso di estrema chiarezza, un tratto filosofico che mette tutto in relazione con una dimensione superiore. Ed è proprio questa la cosa mortale».  
 «Può darsi che sia il suono della neve che cade oppure il tonfo di un uccello sul selciato, vi sono infinite possibilità di scoprire che cos’è... E spesso è soltanto l’odore dei millenni che si respira all’improvviso... Certamente anche a Lei sarà capitato di avere all’improvviso davanti agli occhi un’immagine dimenticata da decenni... Lei vede davanti a sé un albero o vede una finestra, ma in realtà non vede nessun albero e nessuna finestra, ma una città, un fiume e una persona che si sveglia, che muore, che Le porge la mano, Le dà uno schiaffo... Non è cosí? Questi sono problemi che mi hanno sempre interessato. Il rumore che fa il mio bastone, la voce del parroco oppure lo scuoiatore quando solleva da terra lo zaino. Si potrebbe continuare all’infinito a studiare questi problemi, svilupparli sino a un terribile grado di disumanità, di indecenza, deve sapere, arrivare in alto sino alla religione o al contrario di tutto ciò che è religione... religione, vede: il mio albero, il mio bastone, il mio polmone, il mio cuore, il mio silenzio, la mia attenzione, la mia deformità... Il progresso rende ancora piú megalomaniaca ogni cosa, il progresso nel mio cervello dove il progresso è possibile, soltanto là dove nulla progredisce, sa... Forse è stato questo a trattenermi dal gesto estremo! Una caratteristica marcata della mia natura è proprio la mortificazione della mia persona. Questo potrà sembrarLe strano, odioso, ma è cosí. Causa ed effetto hanno per me lo stesso significato. La scienza, sa, io non ho nulla a che spartire con essa, me ne sono difeso tutta la vita, sarebbe un abuso della mia natura... naturalmente mi trovo svantaggiato, nella mia predilezione sentimentale per certe immagini precise del mio passato. E un’altra cosa ancora: la gioia maligna che si prova pensando alle disgrazie altrui! Bisognerebbe riflettere sul fatto che il passato ormai si compone soltanto di questa gioia maligna, questo fatto meriterebbe uno studio generalizzato. Non ci si appoggia a nulla e si è inutili... Che sia questo?» Dice: «Improvvisamente la mia testa aveva schiacciato contro la parete le persone che si trovavano in sala, anche quelle sedute al tavolo speciale, tutti: lo scuoiatore, il gendarme, l’ingegnere, tutti, la moglie dell’oste e anche le sue figlie. In sogno, sa. La mia testa d’un sol colpo era diventata piú grande della sala da pranzo e schiacciava tutto. Un forte colpo mortale in tutte le direzioni, sin dentro alle piú piccole rientranze dei muri. Un effetto terribile. Tuttavia la mia testa non aveva la forza di far saltare in aria la locanda. Sul mio volto colava il succo degli uomini che la mia testa aveva ucciso, spappolato fulmineamente. Oggetti e persone ridotte a poltiglia. E anche i sentimenti degli oggetti e delle persone. Anche i sentimenti! I miei occhi s’incupivano. Le mie lacrime si mescolavano con quella poltiglia, difatti non riuscivo a muovermi. In un angolo della sala, tra le finestre e il tavolo delle mescite, il mio piccolo corpo aveva trovato rifugio, pur essendo anche lui spaventosamente compresso. Lí dentro non avevo piú la possibilità di respirare. Quel gusto dolciastro sulle labbra? Tentai di non permettere che quella poltiglia entrasse dentro di me, ma non ci riuscii. La mia lingua aveva sí la forza di respingere la poltiglia, ma il gusto penetrava lo stesso. Non riuscivo a respirare. Con le orecchie schiacciate contro il soffitto, sa, io non riuscivo a udir nulla. Poiché tutto era avvenuto in modo cosí fulmineo io non avevo avuto la possibilità di mettere in guardia nessuno, né Lei né l’ingegnere né la moglie dell’oste né lo scuoiatore. Per me significava la piú grande infelicità. Allora piansi perché avevo ucciso tutti. La mia testa cercò di far saltare in aria la locanda perché temeva di stare per soffocare. Riusciva a comprimere leggermente le pareti, ma di aria proprio non ne entrava. Non si formò nessuna crepa, le pareti cedevano come gomma. Cosí impazzii. Allora la mia testa tutt’a un tratto improvvisamente si contrasse ritornando alle dimensioni originarie e le persone e gli oggetti spappolati, quella poltiglia, deve sapere, precipitò a terra in grosse e dure lastre... Improvvisamente quelle lastre si erano ritrasformate in oggetti e in persone. Tutti stavano seduti ai loro posti, bevevano e mangiavano, ordinavano e pagavano, sa, e le figlie dell’oste saltavano sopra le panche come se nulla fosse stato. Mi svegliai sfinito e mi accorsi che avevo perduto la mia coperta di lana. Mi alzai e poi mi ricoricai coprendomi bene. Ma nel dormiveglia feci una nuova scoperta estremamente interessante e molto dolorosa: la moglie dell’oste si trovava nella mia stanza e scacciava un nero stormo di uccelli da un albero che s’ergeva nel centro della stanza. Batté le mani e lo stormo di uccelli si alzò e oscurò tutto... Allora mi alzai e tentai di fare un pediluvio in acqua fredda. Effettivamente quel pediluvio in acqua fredda mi procurò un certo sollievo. In ogni caso non ebbi altri sogni. Forse perché rimasi a sedere tranquillo sul mio letto sfogliando il mio Pascal. Forse».  

Osservazioni sull’alto e sul basso e sulle circostanze.  

 «Io devo farLe notare, – disse il pittore, – che appena a un passo piú in là si pensa in modo del tutto diverso, che a un passo piú in là si esiste in modo del tutto diverso, son sempre le stesse virtú, gli stessi problemi, le stesse omissioni, le stesse impressioni, le stesse cause, ma le conseguenze sono terribilmente diverse... solo a fatica riesco a spiegarmi con Lei, io potrei parlare a un albero, io in effetti sto parlando a una sagoma, sí, a una sagoma, a un concetto flessibile sino alla follia, ma Lei è una persona il cui atteggiamento è sempre quello dell’ascoltatore attento. Vorrei farLe notare che quando si ricorre al concetto di “paesaggi esangui”, quando vi si ricorre semplicemente e lo si gonfia come un pallone, come un gigantesco pallone, lo si gonfia con un fiato senza fine, col fiato di tutto l’immenso universo, allora diventa possibile muoversi anche fuori dalla zona del nostro mondo intellettuale che è relegata nell’ombra... Io mi confronto col grado piú audace della freddezza che il pensiero riconosce come vera e acuta, ma in senso piú ampio anche come penosamente ridicola... Ciò che ho detto è un modo di aggirar l’ostacolo molto piú fuorviante, un modo di aggirar l’ostacolo della forma piú maligna di distruzione umana, ma tuttavia mi ascolti: io qui sto vivendo un periodo di “raffreddamento della memoria” che mi prendo semplicemente la libertà di chiamare “straordinariamente profondo”, vorrei dire: mi distraggo da me stesso penetrando in me stesso, per essere lasciato in pace da me stesso! Vorrei dire: il mio cervello si distrae da me, dalla malvagità delle invenzioni che mi hanno messo nelle condizioni di estinguermi... Nelle piú fitte tenebre soltanto l’incomprensibilità è convincente, capisce, vorrei esporre a Lei un paragone affascinante, come si espone un cane all’oceano, un uccello alle profondità della terra, come si espone un uomo alla sua memoria: sta di fatto che ciò che conta non è l’alto né il basso, l’alto e il basso sono ridicolaggini in confronto alle circostanze, che la catastrofe è una cosa ridicola in confronto alla carità... Ma per via di queste mie concezioni sarò ben presto costretto a sparire per bruciar vivo a causa di queste mie concezioni: ho sempre immaginato che sarei bruciato vivo per colpa mia e mio malgrado, essere destinato a bruciar vivo è sempre stata la mia segreta costellazione di gloria personale... Se io la smettessi di voler morire, se io la smettessi, ho sempre pensato, di farmi scambiare per un altro... se io la smettessi con le mie idee... Capisce?... Io mi preparo per un viaggio e inganno il mondo... Salgo su mille treni e inganno il mondo... Lo distolgo dal mio luogo di destinazione... Poiché la fine non è niente di piú che la nausea causata da un uomo che è semplicemente in stato di putrefazione... Ebbene sí, anche se la fine è un naufragio bisogna che io subisca questo ultimo atto di sopraffazione sessuale, un atto stupido, imposto da una clausola beffarda e maligna, questa tortura la quale permette al destino dell’esistenza che mi lascio alle spalle di degenerare in una congiura diabolica e sicura dei propri fini. Io non penso affatto alla morte, – disse il pittore, – io non penso affatto alla gloria... non penso affatto alla lussuria, nemmeno alla voluttà della dissoluzione».  

Il burrone tra le rocce.  

 «Come il cervello all’improvviso si riduce a una macchina, come riesce a ripetere ancora una volta con precisione martellante tutto ciò con cui ore e giorni prima, anzi settimane prima era stato colpito e martellato! Come una sola parola mette in moto e fa precipitare un’intera slavina di parole che si susseguono secondo una logica rigorosa, interi quartieri di costruzioni verbali, e come non tollera la benché minima omissione, anzi come non riesce a tollerarla! Come se un dittatore nano invisibile o perlomeno inavvicinabile per l’uomo azionasse un gigantesco meccanismo che mette in moto tutto, ma proprio tutto, producendo un rumore spaventoso e devastante contro il quale non esiste nulla che si possa fare...» Il pittore soggiunse: «Lei deve immaginarsi un burrone dipinto dei colori piú belli dell’universo, soprattutto di colori ad acquerello, dei colori della carne ancora tenera, un burrone nel quale entra un uomo, vi entra perché ha ricevuto un ordine, Lei potrà a suo piacimento mettergli in mano una valigia, posargli in testa un cappello, potrà fargli indossare abiti attillati, a seconda dei Suoi desideri e dei Suoi gusti, a seconda del Suo concetto personale di virtú, poiché questa è anche la natura dei sogni, contrapponendolo all’immagine che io ora Le impongo: un uomo che porta sulle spalle un carico di fantasia, un carico di delusioni nei confronti della società la quale, allontanandolo da tutte le classi sociali, si prefigge di condurlo a una fine rovinosa, un uomo dotato di un’incredibile memoria, la memoria nella sua accezione semplicemente regale, che non può piú né venire accresciuta né venir diminuita... Quest’uomo Lei, insieme a me (che l’ho inventato per Lei e per me), lo costringe a entrare nel burrone, Lei lo strapazza, lo schiaffeggia, lo riduce ai minimi termini. Lei se lo immagina come uno stormire di fronde, come uno sgretolarsi di rocce, come un digrignare i denti dalla paura, per potersi accompagnare a lui; Lei si comporta come qualcosa di spaventoso e pian piano lo libera dall’ansia portandogli l’irripetibile testamento della morte... L’uomo capisce che è un addio, ma non oppone piú alcuna resistenza... si lascia cullare dall’impossibilità di provare un vero dolore, dalle Sue astuzie... Dunque noi ora abbiamo messo sulla via dell’inferno un uomo, in un’epoca che si potrebbe chiamare il settimo giorno della decreazione, l’ultimo, ultimissimo giorno della de-creazione. Cerchi di immaginare che oramai non esiste piú altro che l’aria, che ogni altra cosa in quell’uomo è soltanto ridicola stravaganza, una sensazione che si limita a zoppicare dietro al suo cervello ormai dissolto nel nulla... Quell’uomo potrà sí ancora avere dentro di sé qualche legame con un mondo che lo avvince, con la madre e col padre per esempio, con città e con esperimenti scientifici, con idee relative a qualche lavoro manuale, con tendenze cannibalesche del tutto primitive di un cervello animalesco sottosviluppato che immaginiamo sia lontanissimo da ogni scienza... Mi viene in mente un nome, un nome penoso, un nome completamente insulso, un nome come suol dirsi “da cimitero”, un nome che aleggia sopra la sua tomba, sopra la sua tomba di cemento... L’ha indovinato questo nome? L’ha indovinato questo supremo orrore tra gli orrori? Mi accorgo che grazie a questo insegnamento nel quale consiste un quarto della mia esistenza (un quarto della mia esistenza sta nel concetto di insegnamento, un quarto nel concetto di avversione, un quarto nel concetto di fragilità e un quarto nel concetto del nulla-piú-enulla- ancora), m’accorgo che Le ho procurato la voluttà del disaccordo, e anche questo va nella direzione del personaggio da me inventato, un personaggio che potremmo chiamare quello del maestro, io trovo che i maestri sono i personaggi meglio inventati che ci siano, il maestro è il personaggio inventato per eccellenza... Dunque questo maestro entra nel burrone e raggiunge la sua meta: la scuola. Ma che cos’è la scuola? È un edificio in cui s’insegna qualcosa che qualcuno ancora non sa, che qualcuno ancora non può sapere... non voglio andar oltre e dico: il maestro è consapevole del fatto che non vi è piú nulla che si possa imparare, che tutto è ignoranza, che tutto è alla fine, che tutto è all’inizio e cosí via: lui disfa la sua valigia, la svuota. Ha afferrato bene l’immagine?» Io dico: «Sí, ho afferrato bene l’immagine». «Allora se la tenga stretta: il maestro disfa la sua valigia: scopre che dentro alla scuola fa freddo. Accende la stufa. Mette in ordine i libri, trova la sua aula, all’improvviso sa come si chiamano i bambini ai quali farà lezione. Ci aveva pensato Lei ai bambini? Vede, lui sa come si chiamano i bambini ai quali farà lezione». Dice tra sé e sé: «Adesso vorrei avere in testa i miei libri! Aveva pensato Lei a una simile eventualità? Vede: il maestro pensa al passato, è soltanto capace di pensare al passato. Dopotutto gli uomini non hanno nulla di strano», disse il pittore. «Il cervello crede nei progressi che è convinto di fare mentre non è possibile che il cervello faccia dei progressi. La carne è diversa: la carne è fatta di progressi, che invece sono negati al cervello... Lei che cosa ne direbbe di quanto segue: al maestro è stato ordinato di scendere nel burrone per andare a morire... in una forma palese facilmente comprensibile, per nulla contorta, nella forma dell’affronto puro e semplice... Benché sappia dove l’ha condotto l’obbedienza all’ordine d’entrare nel burrone, lui continua a pensare all’insegnamento, alle possibilità d’insegnamento: è perché sono un maestro, penserà... Lei continua a vedere il maestro? Nella situazione in cui io l’ho messo grazie al mio artificio? Nella sua situazione senza via di scampo che io domino poiché io sono il contrario di quella situazione senza scampo: Lei dunque lo vede: la polarità che si trova sulla strada che passa dall’animalesco all’animalesco... Io non mi domando che cos’altro si potrebbe ancora fare col maestro, ma a partire da questo momento non me lo domando piú... Poiché è inverno ho la meravigliosa certezza di poter far cadere la neve, la sacra neve del sacro inverno, di riempire di neve il burrone, di coprire di neve la scuola, la voglia di procedere con raffinata perfidia e di far sí che dentro al maestro tutto sia impotente, tutto sia impossibile, d’impedirgli la circolazione sanguigna, di fargli congelare il cervello, di portarlo al punto di congelamento, sino all’orizzonte del congelamento assoluto... Se Lei si trova ancora lí nel luogo dove il maestro sta disfando la sua valigia... se Lei lo vede ancora davanti alla stufa... nel sentiero che conduce al casino di caccia, anzi, già prima dell’avvento del grande gelo ho osato immaginare una canonica con tutti gli ingredienti dell’autogratificazione terrena... Vede: ora il maestro è rinchiuso nella sua fantasia funesta, lentamente è costretto a rincantucciarsi in se stesso, nell’idea della “neve interminabile”... Bisogna guardarsi dal chiamare “storia” una simile vicenda, – disse il pittore. – Vede: ora mi trovo in mezzo alla neve che cade, che cade sempre eguale... il mondo circostante, il nostro concetto di mondo circostante diventa molle, molle fino al punto in cui è costretto ad assumere sembianze demoniache... un diabolico silenzio già dà il benservito alla concentrazione mentale nel momento stesso in cui la sprona alle massime prestazioni, la costringe a raggiungere le vette dell’irripetibilità di tutti i sentimenti... Ora io so anche troppo bene, – disse il pittore, – che pur attenendosi alle possibilità dello svolgimento dei fatti da me voluto riguardo al pittore, Lei avrebbe proceduto diversamente, Lei lo avrebbe inserito in un’esistenza idillica e pacifica, in una routine quotidiana, tra le oscillazioni del nervosismo giovanile, tra i vizi monchi, tra le monche tristezze, tra le monche idee sulla fine e sull’uscita di scena che sono quelle tipiche della giovinezza, quelle che la giovinezza permette, non tra i grandi vizi, non fra le grandi tristezze né le grandi idee sulla fine e sull’uscita di scena che son tipiche della vecchiaia... Lei avrebbe rinchiuso il maestro nella Sua volgare menzogna, Lei, diciamo, lo avrebbe semplicemente lasciato vivere! Io invece non lascio vivere il maestro, non posso lasciarlo vivere, il mio maestro non vivrà, non è mai vissuto, vivere non gli è concesso, per me la vita del maestro è divieto, rifiuto: devo ucciderlo, farlo morire di una morte terribile, farlo morire di una seconda morte, ché per me il maestro è già morto da sempre... Ora dunque sento cadere la neve, i tronchi schiantarsi... L’irrompere dell’era glaciale, lo sbriciolarsi dell’umana malinconia... ora ho davanti a me un immenso scenario di cristalli della morte nel quale il pittore deve entrare. Io vedo come la sua esistenza talvolta ancora si oppone al proprio annullarsi, come la sua mente si difende contro l’ordine di arresto spiccato dalla morte. Come tutt’a un tratto gli vengono meno i piedi, come tutto di quest’uomo viene meno, deve venir meno... come quest’uomo, questo maestro si spegne, come è morto... il maestro è morto... Ora, vede, – disse il pittore, – io mi ricreo di nuovo il mio mondo; io ora sono di nuovo nel primo giorno della creazione, nel secondo giorno della creazione, immagino tutti i giorni che sono necessari per la creazione... il maestro si è dissolto nell’aria della sua situazione esemplare, il maestro si è dissolto là dove non c’è risposta, là dove si è “senza volto”. Il maestro è caduto vittima di un sortilegio selvaggio di orrore intellettuale, di un intellettualismo bestiale che s’impenna... L’ha seguita Lei, – disse il pittore, – quella scenografia che ho cercato di illustrarLe chiaramente, ha potuto seguirla sin nei minimi dettagli?» Io non rispondo. «Vede, – disse il pittore, – il cervello, questo fulcro del pensiero, ormai riesce a nutrirsi soltanto delle grandi invenzioni, dell’orrore piccolo piccolissimo e infinitesimo... riesce ancora a strappare a se stesso un bramito... riesce a crearsi un mondo primordiale, un’era glaciale, una grandiosa età della pietra della subordinazione... Si prende l’avvio da un piccolissimo singolo caso da nulla, da un individuo piccolissimo che tutt’a un tratto ci va a genio. Dall’idea di una profanazione, dalla logica di una profanazione nella profanazione stessa... si abbandona la propria vittima, si lascia che la neve la copra, che vada in putrefazione, che si dissolva come si dissolve un animale col quale un tempo osavamo credere di poterci scambiare... capisce? La vita è disperazione pura, è la disperazione piú chiara, la piú oscura e la piú cristallina delle disperazioni. Lí dentro ci conduce soltanto un sentiero che attraversa la neve e il ghiaccio, lí dentro nella umana disperazione in cui si è costretti a entrare: al di là dell’adulterio commesso dalla ragione».  
 Per prevenire confusioni in questo «orrore», per non permettere semplicemente che si creino confusioni né per se stessi né per il lettore, per non permettere che questo avvenga una volta per tutte, vorrei rimandarvi alla frase iniziale di questo saggio, voglio dire: ancora una volta per prudenza inizio con la prima frase di questo racconto di una «infelicissima stravaganza» che, come ora mi sembra, io ho semplicemente rubato al pittore con la stessa mancanza di riguardo del suo stesso cervello, con la frase: «Come all’improvviso il cervello si riduce a essere una macchina...» Sono cosí esausto che devo immediatamente coricarmi, rinunciare a scrivere anche una sola parola di piú, a scrivere anche una sola parola di piú oggi, benché proprio oggi io avrei un valido motivo per continuare senza smettere mai con parole come «concetti» e «omissioni»... Sono cosí esausto, sono incredibilmente esausto...  
  




Le mie lettere all’assistente Strauch 





Prima lettera.  

Egregio Assistente,  
sono effettivamente riuscito a penetrare in modo sistematico nell’esistenza di Suo fratello non senza una certa mancanza di riguardi e di sincerità che spaventa anche me stesso: in questi primi giorni mi è stato piuttosto facile star dietro a Suo fratello, anzi, a dir la verità le cose sono andate in modo tale che è stato lui a cercar continuamente la mia compagnia; questo io posso considerarlo un vero colpo di fortuna perché era stato proprio Lei a temere che Suo fratello si fosse completamente isolato e vi era anche la possibilità che io non riuscissi ad avvicinarlo. A questo punto devo subito dire che nel suo complesso la situazione in cui qui a Weng ho trovato Suo fratello e l’ambiente del quale lui è completamente in balia e che è completamente in sua balia, come mi sembra, esercita su di me un fascino enorme che però sono in grado di controllare. Ritengo possibile e di conseguenza ovvio attenermi alla linea di chiara e calcolata razionalità a me prescritta nell’ambito da Lei indicatomi. (Io infatti mi sento vincolato all’ultima conversazione avuta con Lei a Schwarzach). A questo punto vorrei sottolineare che io mi attengo in tutto e per tutto al nostro comune accordo riguardo al mio modo di procedere qui e perciò non dovrebbe mai sorgerLe il dubbio che io abbia affrontato questo compito partendo da falsi presupposti. Sin dal primo momento ho cercato di mettere da parte completamente l’aspetto medico di questo caso limitandomi consapevolmente a restare sul piano puramente emotivo, considerando solo il «complesso comportamentale» naturale e strettamente personale di Suo fratello. Credo anche di aver trovato il mio metodo di ricerca scientifica – non medico-scientifica! – di aver trovato una delle vie per giungere alla scoperta di possibilità di osservazione parallele intersecanti intrecciate e reciprocamente corrispondenti, un metodo che, come spero, darà risultati utili. L’unica difficoltà sta in questo: Suo fratello assorbe tutto il mio tempo e mi resta soltanto la notte (che in nessun caso può bastarmi) per scrivere i miei appunti e mettere nero su bianco, come programmato, l’atmosfera del suo mondo interiore e di quello circostante, per metterlo a confronto con le mie impressioni su di lui sotto angolature diverse anche se insufficienti, angoli visuali «ottusi o acuti», per rendere giustizia in maniera almeno vagamente soddisfacente al carattere prospettico della mia visione sempre duplice di questo caso, per occuparmi di Suo fratello su una base per cosí dire documentaria – che a me pare incredibilmente labile e a momenti «inaffidabile». E nonostante questo fallimento incredibilmente fenomenologico e ripiegato su se stesso, mettere ordine in seno al suo ordine, creare un ordine contrapposto al suo. Io dunque scrivo di notte ciò che registro durante il giorno. Credo che nel caso di Suo fratello si tratti effettivamente dell’idea – che solo ora mi afferra – di uomo fantastico sospeso sull’abisso. – Il mio pensiero attraverso quest’idea va immediatamente al proprio «scopo». Il vero problema è fino a che punto sia possibile penetrare l’incommensurabilità di Suo fratello. Ne consegue che Lei da me non deve aspettarsi altro che un resoconto incompleto che descriva in modo piú o meno approssimativo la struttura superficiale di Suo fratello e che non oltrepasserà l’aspetto fosforescente – per quanto scrupolosamente descritto – di tale struttura superficiale e neppure le correnti (che probabilmente restano avvolte di tenebra) e le controcorrenti (trasformazioni) sottostanti, un resoconto insomma che si atterrà soprattutto a un’ottica lapidaria e che intendo poi consegnarle sulla base degli appunti che ho preso. Un resoconto incompleto di una condizione di deprivazione incredibilmente labile e tale da doversi definire come totalmente deviante e ormai, mi sembra, non piú correggibile. L’incarico che – qualunque ne sia stato il motivo – Lei ha affidato proprio a me, io lo devo intendere come un favore speciale, come un importante capitolo – già me ne rendo conto sin d’ora – della mia esistenza (che sta sempre piú diventando una vera esistenza da medico), anzi di tutta la mia evoluzione. Per quel che sono in grado di giudicare, questo incarico per me riveste un’importanza che – sotto certi aspetti – non è neanche prevedibile. Ma sarebbe un errore se davanti a Lei sin d’ora io recitassi la parte del praticante pieno di riconoscenza quando non è neanche stato fatto il primo passo in alcuna direzione... E questo incarico non è neppure ancora entrato nel primo stadio decisivo della realtà. Contrariamente alla mia promessa non si aspetti di ricevere regolarmente posta da Weng.  


Seconda lettera.  

Egregio Assistente,  
Lei mi ha insegnato che cos’è una terapia d’urto, che cos’è mettere a confronto follia e demenza fino a spostare il punto intermedio fra questi due concetti. Devo dire che ciò che qui sta subendo Suo fratello è quell’altro tipo possibile e non disarmonico di terapia d’urto cui Lei una volta ha brevemente accennato, una terapia che non ha nulla a che fare con la tecnica e non è altro che involontaria reazione anti-sofferenza della natura mentalmente disturbata, contro la quale si ribella il suo antagonista che è sempre infido e misantropo. «Quello, – ha detto Lei una volta, – potrebbe essere un uomo che si trova in tutto e per tutto ai margini dei millenni». Se questa frase non fosse Sua, la crederei un prodotto di Suo fratello il quale tira fuori simili frasi in continuazione. La terapia d’urto è Weng, una di quelle terapie diaboliche da Lei con tanta precisione descritte come oscure, come terapie che non mirano neppur lontanamente alla guarigione in quanto evoluzione della mente – o del corpo – oppure a una evoluzione della mente – e del corpo – in quanto guarigione, questa terapia è anche descritta nel libro di Kolz come «terapia della distruzione esplosiva rivolta verso l’interno». Weng è uno shock. Per Suo fratello naturalmente è un insieme di condizioni create da un supermetodo che distrugge spietatamente il cervello, quella che proprio Lei un giorno – in una delle nostre serate trascorse in camera Sua – aveva chiamato «disgregazione diluviale dell’individuo». Io credo che si tratti di una malattia straordinariamente crudele – crudele verso tutto – compensata e ricondotta al suo brutale germe patogeno (originata da un insieme di fattori ereditari riconducibili entro certi limiti l’uno all’altro), di una malattia che non sa piú uscire dalla propria patologia, dall’idea di se stessa, dalla propria esistenza. Potrei forse parlare di malattia psichica ereditaria? Mi rendo conto sempre piú di non prendere piú alcuna posizione poiché non voglio chiamare ogni cosa «energia della presa di posizione». Cerchi di ricordare la Sua affermazione durante la sola passeggiata che abbiamo fatto insieme quest’anno: «I legami del sangue improvvisamente diventano irreparabili». Suo fratello, credo io, si trova in uno stato simile, come se venisse da una direzione dimenticata proprio ora che sarebbe decisivo conoscerla (e all’improvviso da tutte le altre direzioni dimenticate). «La mia testa potrebbe trovarsi in un luogo al quale io non ho piú alcun accesso», ha detto oggi. Devo dire che tutt’al piú io posso arrivare sino a una impersonale precisione quando si tratta, come ora, di illustrare un insieme di situazioni di fatto scisse da lui, un insieme che a mio parere resta «fermo dov’era». Ora è giunto il momento in cui per me Suo fratello è diventato accessibile. Ma tutte queste possibili porte aperte già logorano le mie forze, improvvisamente, cosí mi pare, io non sono piú in grado di procedere con quel rigore che per Lei è un presupposto irrinunciabile, soprattutto non in una questione che riguarda il cervello che, a parer mio, in questo momento si ostina a rimanere in uno stato di «banalissima mancanza di opinioni». Questo La renderà diffidente: io di tanto in tanto mi muovo su un piano di misticismo identico a quello di Suo fratello, di quel «misticismo per nulla illuminante del pensiero prescientifico che sfugge alla chiarezza della ragione». È un’emozione per me constatare come mi si stia aprendo il regno fino a poco fa vergognosamente oscuro – cosí m’era sempre parso – dei Suoi concetti. Come se fosse solo questione di allungare il passo e di lasciar dietro di sé ciò che è di ostacolo all’audacia del pensiero; ma ora debbo dirlo: ciò che è di ostacolo al pensiero medico, poiché il Suo pensiero è un pensiero medico in contrapposizione al pensiero di Suo fratello che è – cosí lo definisce lui stesso – «un pensiero amorale che spazia in un regno intermedio e privo di qualsiasi funzione vera e propria». Del resto qui dopotutto il lato diabolico e quello semplice del pensiero di Suo fratello seguono la stessa strada, sono diretti allo stesso fine (il suo), tutto quanto «innalzato a un livello disumano e bestiale» – come dice Suo fratello –, effettivamente diretto verso la morte. Ma tutto è lontanissimo da quella sistematicità anzi da quella forza tranquilla della convinzione, da quella ostinata linearità intellettuale che sono le sole cose che contano, come dice sempre Lei. Nulla opprime maggiormente Suo fratello che la mancanza di contatti con Lei. Sarebbe semplicistico in questo caso parlare di un complesso del fratello diametralmente opposto al complesso del padre che oggi viene considerato come qualcosa di trasparente. Sin da oggi voglio metterLa a parte di una scoperta: è come se Suo fratello soffrisse di interruzioni, di «un’armata di interruzioni» che conducono ininterrottamente verso il disordine generale una sostanza cerebrale appassionata di rigore logico. I miei pensieri, anzi la mia sensazione che senz’altro si basa su dei pensieri, questa costellazione, credo io, da Lei auspicata, riesce sí a penetrare lo stato d’animo generale di Suo fratello, ma sarebbe completamente sbagliato parlare di una qualsiasi forma di conoscenza, e devo dire che anche ogni ipotesi viene subito respinta come insensatezza, ciò che è comprensibile dà la sensazione di essere un prodotto di decomposizione sconfinatamente autoconsapevole e antiumano. Tutto diventa subito particolare. Io faccio ogni sforzo per farmi capire, ma vedo che non domino nulla di questo pensiero, le cose stanno cosí: sono le mie ipotesi a dominare me. Tuttavia, proprio basandomi sulle mie espressioni credo che in seguito, al momento opportuno, potrò esserLe utile. Forse io sono già uno stenografo attento e forzatamente ubbidiente il quale basa tutto su menzogne e non-verità (nell’ambito del quotidiano: mi son fatto passare per uno studente in legge) e su un barbaro comportamento subalterno. Le cose stanno cosí: tutto mi dà da pensare e cosí avviene anche in questo caso particolare. Colori, odori, gradi di freddo – questo gelo che avanza, che avanza in tutto e in ogni cosa e dappertutto con la sua inaudita capacità di dilatare i concetti è la cosa piú importante, continua sempre ad essere la cosa piú importante di tutte. Io mi devo semplicemente proibire di soffermarmi sulle minuzie, di attirare la Sua attenzione sui prodotti dettagliati di questo complesso di cose climatologicamente interessanti (appunto, la disgregazione diluviale dell’individuo), climatologicamente e clinicamente interessanti; e mi proibisco di entrare per lettera nel merito delle diverse sconcertanti interpretazioni legali relative alla mia funzione di osservatore. Non credo di avere la possibilità di modificare il Suo punto di vista, cioè la Sua convinzione che Suo fratello sia perduto. Non credo nella sua normalizzazione (guarigione), constato che le sue condizioni si stanno visibilmente aggravando.  


Terza lettera.  

Egregio Assistente!  
Suo fratello vive effettivamente nella convinzione errata di essere simultaneamente padrone di piú esistenze, cosí come vive nell’errata convinzione, da lui stesso percepita come qualcosa di terrificante, di venir schiacciato da queste diverse esistenze simultanee che tendono verso uno stato di transizione non precalcolabile, esistenze che lui stesso considera come «l’impensabile materiale della propria vicenda», Lui parla di «flagello di un’autoumiliazione cromatica», cosí come parla della «filosofia esaltata della prospettiva a volo d’uccello del nostro pensiero». In tal modo si spiega – com’è naturale – il magnetismo della sua indole, della sua evoluzione, della sua sterilità. Ed è questa sterilità, da intendersi – secondo il significato che le dà lui – come scelta dei diritti fondamentali dell’indegnità umana, che gli consente di vivere – e allo stesso modo gli consente la morte.  
 Io osservo che Suo fratello fondamentalmente «è in continua formazione» a partire da due soli dominii cruciali della vita, ma «sempre sulla difensiva»: quello politico e quello che Lei chiama «il sogno relazionale». Queste due vite scorrono allo stato liquido puro attraverso l’intera geometria delle scelte stabilite e immutabili e con la stessa naturalezza attraverso quello spazio interno sempre in movimento, che Lei chiama «il Nulla concatenato col tutto». Io qui, nella persona di Suo fratello ho un grande esempio di quella teoria che considera l’uomo politico come un sogno e il sognatore schematizzato come un fatto politico, e questi due tipi d’uomo in perenne dialettica tra loro. Lei stesso un giorno ha detto d’essersi proposto di scrivere un saggio intitolato Il sognatore e il politico. Nella persona di Suo fratello Lei potrebbe studiare nel modo piú bello e piú assoluto la Sua concezione di una simile personalità; il Suo saggio diventerebbe il riflesso di una percezione che, essendo pensiero, sembra essere perfetta, anzi lo è. Mi sembra che un tale rapporto tra sogno e politica in un uomo come quello impersonato in maniera – secondo me – assolutamente esemplare da Suo fratello, rivela in modo semplice e meraviglioso la virilità, la virilità presente in tutte le manifestazioni della sessualità. Il sogno di un uomo simile non conosce né il giorno né la notte, non conosce nulla di ciò che è politico, cosí come il lato politico di un simile uomo non conosce né il giorno né la notte, non conosce nulla dell’intrigo in questione. E tutto questo senza confini, anzi, in questo caso a tracciare una linea di confine non ci si è mai pensato. Quando entrambi questi aspetti, sogno e politica, in una simile persona sono una cosa a sé ma rappresentano anche un tutto, si realizza nel modo piú misterioso il loro equilibrio e il perfetto equilibrio umano. Ora io direi che un uomo che sia nella stessa misura un politico e un sognatore possiamo considerarlo l’uomo piú vicino alla perfezione, l’uomo che per sua natura può sottrarsi a ogni classificazione, che anzi deve rifiutare ogni classificazione: quello sarebbe, anzi è l’uomo evidente! Tuttavia in un simile «divino due-in-uno» che può rappresentare il momento culminante dell’esistenza umana (anche se è senza principio e senza fine), la malattia della dissoluzione non solo ben presto diventa un avversario duro e chiarificatore, bensí un passo «verso la totalità dei declini» che questo soggetto di tutti i privilegi è sempre di nuovo costretto a fare. Suo fratello effettivamente è un soggetto che va «verso la totalità dei declini». Per ritornare ancora una volta a ciò che riconosco come le uniche possibilità per un uomo come Suo fratello, cioè al suo lato politico e al suo lato sognante (cioè al sogno): il suo lato politico – che potrebbe rappresentare per lui la quotidianità cosí come potrebbe rappresentarla il suo lato sognante (il suo sogno) – io lo chiamerei la notte della sua esistenza e il suo lato sognante lo chiamerei il suo giorno: giorno e notte della sua persona, masenza confini, di conseguenza la sua notte senza giorno e il suo giorno senza notte. Ma che cos’è una persona politica? Che cos’è una persona sognante, il sognatore? Ma in Suo fratello è sopraggiunta quella che io vorrei chiamare una tregua mortale della veemenza precipitante di uno smisurato crollo umano. Facciamo insieme lunghe passeggiate da un bosco all’altro, entriamo in una conca e usciamo da un’altra conca; il freddo non permette che ci si fermi restando a lungo immobili, cioè restando immobili all’aperto, oppure che si rallenti il passo per inseguire dei ragionamenti o dei pensieri, lui e io, in tali pensieri congeleremmo all’istante, moriremmo all’istante come muore la selvaggina quando per il terrore è tentata di fermarsi in questo spaventoso gelo. Qui il gelo «è una tentazione spaventosa». Io cito Suo fratello con il distacco di un cronista pagato da un superiore affinché «le righe della memoria del mondo si compongano tra loro in modo assolutamente torturante». Oggi Suo fratello ha detto: «Il mio cervello è in fase di composizione». Questa è una affermazione incredibile. Bisogna considerare che lui ha anche detto: «Tutto il mio cervello è in fase di impaginazione». Ha nominato Lei una volta sola, solo un’unica volta; in quell’occasione venne alla luce una delle zone piú buie delle sue tenebre in cui probabilmente talvolta scoppia in pianto o piange in silenzio come in un deliquio. Con sua sorella che vive in Messico ha un legame curioso che non è un vero rapporto. È uno di quegli uomini che si rifiutano di esprimere qualsiasi cosa ma che esprimono continuamente tutto. Che cercano di strozzare il corso dei loro pensieri, ma sempre in modo inutile e insensato; che poi degenera in un flusso verbale suicida, uomini che in realtà si odiano perché il loro mondo affettivo, inteso come un incesto involontario, li sconquassa ogni giorno nel modo piú brutale. Vorrei dirLe: dia ascolto a Suo fratello.  


Quarta lettera.  

Egregio Assistente,  
è un’angoscia comunissima, devo dire, quella che, sotto a un’angoscia piú grande, domina e spinge Suo fratello da una brutalità a un’altra brutalità ancora piú impietosa (piú impietosa verso se stesso). La gente lo evita. Anch’io ora lo evito, nel mio sfinimento, uno sfinimento tale che non sono neppure in grado di descriverGlielo, io lo evito, ma non riesco a evitarlo. Poiché sono in sua balia, Mi perdoni! Lui semplicemente infila dentro di me le sue debolezze sotto forma di frasi, come diapositive in un proiettore e poi ci mostra questi orrori sulle pareti antistanti sempre presenti della mia (e della sua) persona. Lei naturalmente vorrebbe sapere qualcosa di piú sul conto di Suo fratello e io voglio tentare di far sí che le mie forze non vengano meno. Sa qualcosa Lei delle lingue orientali in cui si esprime Suo fratello? Del «tratto asiatico della Sua personalità»? Del periodo in cui era supplente? Quelle sono zone oscure completamente staccate dalla sua esistenza che è stata quasi come un «delitto commesso contro di lui». Sin da bambino veniva aggredito. E precisamente da Lei. Lei ne sa qualcosa? Suo fratello si oppone a Lei in tutto, si oppone a Lei anche dall’interno della propria opposizione, Lei è Suo fratello, Lei non lo è... Lui vive in un mondo di concetti privo di concetti. Il bastone che tiene in mano ha effettivamente una grande importanza. Senza pretendere d’essere sistematico vorrei farLe notare che ancor’oggi lui prova la stessa paura che da bambino gli incutevano le porte che si chiudevano dietro di lui. Lui soffre anche «per intere generazioni di insonni»! Il suo mondo spirituale ha sempre avuto come sfondo dei cimiteri, «ha sempre preso la via dei cimiteri». Capisce? Altro fatto interessante: il suo rapporto con la musica, la sua avversione contro lo Stato, contro la polizia, contro l’ordine. Il piacere spaventoso con cui trasforma una domanda in una risposta monca. Quelle sue fissazioni per «gli orribili incidenti stradali», per «le oscure catastrofi familiari» avvenute in un lontano passato. Poi il suo amore per il circo, per il varietà, per tutto ciò che è insolito. Lui parla del «suo regno delle burle». Non ha mai provato ad avvicinarsi a Suo fratello? Con dei trucchi? Visto che Lei è medico, penso io, un Suo contatto con lui sarebbe stato della massima importanza. O forse, come temo, Lei non ha mai avuto un vero contatto con Suo fratello? Durante il giorno lui ricupera le forze che ha perdute di notte e viceversa. In tasca tiene sempre le Pensées. Io ho creduto di potermi sottrarre all’influenza di Suo fratello. Ora invece mi sento afferrato dalla sua malattia che procede secondo la propria logica. Che malattia è? Suo fratello s’incupisce nella misura in cui crede che s’incupisca il mondo, che s’incupisca tutto attorno a lui. «Il mondo è una graduale riduzione della luce», dice lui. E poi, questa sera: «In me tutto è prosciugato come il letto di un fiume, tutto dentro di me è come un fiotto di sangue raggrumato». Poiché il concetto di follia non mi è chiaro, mi è soltanto familiare, non so se Suo fratello sia pazzo. Non è pazzo! (È forse demente?) No, non è neanche demente. «Sarebbero gli accordi della morte» quei rumori che si producono nel suo cervello. Oggi l’ho visto seduto sul letto, completamente spogliato, intento a osservare il proprio corpo.  
 Lei crederà che io stia trascurando il mio dovere perché è da tanto che non Le scrivo. Lei potrà pensare che io stia usando il Suo denaro per farmi una vacanza! Invece io questo soggiorno ora all’improvviso lo vivo come un terribile castigo, un castigo in senso morale e materiale. Sta di fatto che io sono compenetrato dal pensiero di Suo fratello. Dalle sue rimostranze contro tutto. No, non sono ancora malato per causa sua, ma totalmente compenetrato di ridicolaggine. Lui mi mostra «le deformità della superficie terrestre prodotte dalle deformità dell’universo». Al momento anche ai miei occhi si è oscurato tutto. Deve perdonarmi, questa lettera è improntata a una sventatezza della quale io non ho colpa. È tardi. Tuttavia vorrei pregarLa di riflettere sulle «punizioni» che lei ha inflitto a Suo fratello durante l’infanzia. Sulle «bugie» che Lei ha messo in giro sul conto di Suo fratello durante l’intera infanzia e la giovinezza. Non so se il mio incarico possa venir interrotto dopo tredici, quattordici giorni appena.  
 Dato che Lei non ha risposto a nessuna delle mie lettere presumo che Lei, anche se è impossibile che sia soddisfatto di me, non desideri alcun cambiamento il tredicesimo giorno e non desideri nemmeno che io ritorni immediatamente. Sarebbe inutile e insensato. Naturalmente io penso anche a continuare in modo regolare la mia pratica d’ospedale a Schwarzach...  


Quinta lettera.  

Egregio Assistente,  
la medicina è oscura, tutte le sue vie sono oscure, in questo momento io attraverso con «mente disarmata» il labirinto di questa nostra scienza che io vorrei poter chiamare la piú gloriosa di tutte le scienze, la terribile sovrana di tutte le scienze le quali al contrario della nostra sono soltanto scienze apparenti benché anche la nostra sia una scienza puramente preliminare. Non sono in grado di immaginarne tutte le nozioni, partendo dal nostro pensiero possiamo soltanto intuirle con tutte le loro probabili variazioni. La medicina è una serie metodicamente concatenata di zone oscure forse strettamente imparentata con la superstizione, audaci tagli in una geometria del mondo forse da tempo sommersa. E intanto la materia cellulare, la carne, le possibilità di circolazione inferiore della parte reversibile di ciò che è organico, diventano sempre piú insignificanti di fronte all’unica cosa probabilmente naturale, che corrisponde alla natura, di fronte all’oscurità senza limiti. La nostra scienza è quella da cui prende origine tutto, da cui tutto deve prendere origine, e tutto, persino i gradi piú elevati della filosofia, trova tutto in essa e da essa prende origine. E per usare le parole di Suo fratello, al quale mi sento sempre piú legato da un’affinità che poggia sul lato fantastico di riflessioni ribaltabili: «La scienza delle malattie è la piú poetica di tutte le scienze».  
 Non vorrei tralasciare di annotare alcune frasi di Suo fratello che mi sembrano assolutamente degne di essere meditate. Naturalmente non procedo affatto in modo sistematico. Questo è impossibile. Si tratta di una fase che sto attraversando anch’io. Tra l’altro Suo fratello oggi ha detto: «Ogni tragedia è legata a tutte le tragedie». E poi: «Il valore è disvalore, il destino del disvalore è il disvalore del proprio mondo e del mondo che è separato dal proprio». Questa frase lui l’ha detta oggi dopo essersi svegliato da un lungo stato d’incoscienza, l’avevo trovato disteso in camera sua, dapprima con enorme spavento, pensai che lo avesse fulminato una sincope. Lui disse: «Tutto è quasi nero». Che stava attraversando l’azoto dello stato primordiale del demonio. Di sera ha detto: «La terra, il mondo, sono iniettati di sangue». Questo è insolito. Aveva sempre condotto un’esistenza che pur al di sotto o al di sopra di tutte le esistenze non aveva raggiunto il suo minimo esistenziale. Già, se di punto in bianco si riuscisse a scoprire che cosa sono gli organi. Ma forse Lei ha già in mente, ha in mente in bell’ordine ciò che a me sembra spaventosamente confuso: un’operazione forse? La nostra scienza lo sa, eppure non agisce mai di conseguenza, mai secondo il terribile principio fondamentale del «qui o altrove, tutto è apparenza!» Se soltanto riuscissi a dare un’occhiata ai «Quaderni di fantasticherie» di Suo fratello! È al corrente Lei dell’esistenza di questi quaderni di fantasticherie nei quali lui da molti anni, da decenni, scrive tutto ciò che lo interessa? Qui non posso che annotare qualche punto di riferimento, anche questa all’improvviso mi pare una pazzia. Oggi abbiamo fatto un gioco insieme, abbiamo giocato a chi di noi due riusciva a far piangere l’altro! (Questo gioco, come io ora so, Lei lo ha spesso giocato con Suo fratello). Suo fratello è perduto.  


Sesta lettera.  

Egregio Assistente,  
il suicidio è una faccenda che viene dal grembo materno, come un giorno ha affermato Lei; è un atto che si realizza nel momento stesso della nascita del suicida. Tutto ciò che Suo fratello ha passato finora non è stato altro che «sfrenatezza suicida» di questo tipo. Una caccia per riuscire a uccidere tutto ciò che conta dentro all’essere umano.  
 Dentro a questo elemento primordiale, in questa «condizione generale di assordamento», lui parla senza fermarsi mai di «applicazione del suicidio», del gesto che dopo la sua tormentosa evoluzione durata – come sappiamo – tutta la vita, lo condurrà alla fine. Non si può essere contrari all’audacia di questo pensiero, il suicidio di ogni singolo non è stato altro che la millenaria preparazione al suo suicidio. Suo fratello (che ora è quasi costantemente insonne!) chiama la maternità semplicemente suicidità. La procreazione di una persona (lui si riferisce a se stesso infliggendosi un castigo col proprio intelletto) è: la decisione da parte del padre (in primo luogo) e della madre (in secondo luogo) di generare, di mettere al mondo il proprio figlio come un suicidio permanente, l’improvvisa sensazione predominante di «aver già realizzato un nuovo suicidio».  
  






Ventisettesimo giorno 





 «Una paura infernale, deve sapere, mi ha sempre permesso di respingere il suicidio. Certe riflessioni emergevano dall’oscurità, insomma il rapporto con me stesso, una normalità che mi pervade tutto. Convinzioni della mia natura di essere umano, questa straordinaria condizione di sviluppo dello Spirito e del suo mondo interiore... Sí, sono sempre riuscito a respingere il suicidio, questi innumerevoli casi di sconfinata disillusione, di eccessi, di crimini, di tendenze ereditarie, queste difficoltà disumane... Io, deve sapere, come tutte le persone, per tutta la vita ho frequentato solo me stesso, in questo mondo complicato nel quale quasi non esistono leggi... nessuna possibilità di farsi delle idee... io sono stato troppo poco disinteressato, deve sapere, sempre l’uomo delle risoluzioni, delle contraddizioni, delle paure...»  
 Il materiale su Strauch (nella mia mente) è immenso. Gli appunti li butto giú come posso. Sí, certo, sono in grado di stendere un resoconto. Però è impossibile spiegare le condizioni di un uomo come si spiegano quelle di un animale. Il mio incarico è diventato materiale didattico. Certo non sarà di nessuna utilità al pittore Strauch. Perché? L’assistente potrà interrogarmi. Io potrò riferirgli delle frasi, potrò descrivergli un movimento delle gambe del pittore. Ora sono in grado di dire perché Strauch è venuto a Weng. Perché l’ha fatta finita con Vienna. Perché ha dato fuoco a tutti i suoi quadri. Perché odia. Perché corre a rifugiarsi nei boschi. Perché non dorme. Perché! Posso riferire quel che lui dice e come lo dice e perché si dibatte tra follia e repulsione. Posso raccontare quel che prova quando incontra la moglie dell’oste, quando incontra lo scuoiatore con il suo zaino. Perché e di quali cose s’infischia, io so che cosa avviene continuamente dentro di lui, chi è questo pittore Strauch, questo uomo costantemente perseguitato, che si crede una nullità, che sulla carta ha un fratello e una sorella e altre persone, ma che in verità è sempre stato solo, che è stato solo in modo ancor molto piú miserevole di quanto non si possa desumere dal mio resoconto, solo com’è sola una mosca che d’inverno si trovi nella stanza di uno che vive in una grande città, una mosca inseguita da costui e dai suoi figli e in fine schiacciata contro un muro quando quelle persone credono di sentirsi perseguitate da quella mosca, irritate, aggredite nel modo piú inaudito, si radunano nella loro abitazione e decidono di far fuori quella bestiaccia, come dicono nella loro esaltazione, di far fuori quel mostro! che gli appesta quella sera di festa – senza sapere che cosa sia una mosca e che cosa avvenga dentro di lei, specialmente in una mosca che d’inverno si trovi in una stanza d’una grande città. Ho osservato il pittore Strauch, l’ho spiato, e poiché questo incarico lo richiedeva, gli ho mentito e l’ho fatto diventar matto, l’ho reso ancora molto piú matto, spesso col mio silenzio gli ho anche assestato qualche colpo in testa, sulla nuca dove gli fa tanta paura. L’ho importunato con la mia giovinezza. Con i miei piani. Con i miei timori. Con la mia inettitudine. Con la mia volubilità. Io parlo della morte senza sapere che cosa sia la morte, che cosa sia la vita, che cosa sia tutto questo... tutto ciò che faccio senza saper nulla, già, io lo spingo verso la sua rovina e anche verso la mia rovina. Rovina? Dopotutto ancora oggi ho tentato di illustrargli le piú svariate possibilità di morire, e in tal modo l’ho fatto incupire del tutto. «Il suicidio è la mia natura, deve sapere», dice lui. Colpisce l’aria col bastone, come farebbe un mostro che non è piú un mostro, l’aria in cui non vi è piú un cielo e neanche piú un inferno. Colpisce soltanto l’aria e null’altro che l’aria che, come vedo, non è piú neppure uno degli elementi.  
 «Un giorno si ritorna a casa sapendo che d’ora in poi si dovrà pagare per tutto, e a partire da quell’istante si è vecchi e morti. Un giorno tutto è finito, la vita potrà continuare finché vuole. Si è morti una volta per sempre e la bellezza, ciò che è felicità o può esserlo, la ricchezza e tutto il resto s’è ritirato per sempre». Il pittore questo lo dice a se stesso e non a me. Sulla piazza del villaggio, dove siamo giunti all’improvviso senza averlo previsto perché avevamo girato in tondo, immersi nei nostri pensieri, lui disse: «Terribile quel latrato! L’ho odiato tutta la vita. E ho sempre avuto paura d’esser morso da un cane e poi di morire di rabbia. Già la strada che mi portava a scuola era un labirinto riecheggiante latrati! A me, sa, venivano degli spasmi al cuore. I cani ti saltano addosso e ti buttano in terra con delle terribili zampate. I proprietari dei cani sguinzagliano i loro cani contro persone che non hanno mai fatto nulla di male né a loro né ai loro cani. Ed ecco che lei si ritrova con una orribile ferita dovuta al morso di un cane. Come Le salta addosso quel rozzo ammasso di carne, potrebbe benissimo ammazzarla! Alani..., – disse il pittore, – gli alani del macellaio e i cani lupi! Il latrato a ogni passo! Odio i cani! A mia sorella, deve sapere, il cane di una locanda una volta ha portato via un pezzo di coscia con un morso. E l’oste non s’è nemmeno scusato. Se almeno fosse inorridito!... Una bestiaccia La morde e tutte le Sue fatiche vengono annientate! Spesso Le strappano le tasche dai cappotti! Aggrediscono alle spalle uomini anziani e sordi ai quali poi, solo dopo pochi giorni, gli prende una sincope. Appena arrivo qui i cani mi assalgono e devo brandire il bastone un paio di volte perché mi lascino finalmente in pace. Senza il mio bastone non potrei esistere!» Dopo ch’eravamo usciti dal cimitero lui disse: «I funerali contadini sono un rito. Il morto viene lavato e avvolto in un telo di lino, deposto nella bara e poi di nuovo gli si toglie il telo e gli si mette il vestito della domenica». Ai suoi piedi si recitano preghiere adatte alla circostanza in uso da secoli. A turno pregano i fratelli del morto e le sorelle, poi i genitori, i nonni, i figli e i nipoti. Oppure pregano altri parenti. Cantano canti medievali a loro tutti incomprensibili. E anche canzoni in latino. In tutta la casa si appendono i ritratti del morto. I beni che ha lasciato vengono messi in ordine e provvisti di un cartello col nome di colui che deve ereditarli. Lo pregano d’intercedere per loro in Cielo dove credono che si sia ritirato. Gli rivolgono domande e ottengono risposte. Lo cospargono d’acqua benedetta e 
«pronunciano il suo nome come se si trattasse di un canonizzato».  
 Tutto questo mi attraversò la mente: i baracconisti, il vagabondo eccentrico col suo teatro mobile, il cadavere del cane, i funerali, il comportamento della moglie dell’oste, suo marito lontanissimo in carcere, sorvegliato come un cane che fatica per un piatto di trippa e una minestra annacquata, che non si abituerà mai agli zoccoli e alla tela di iuta e per il quale forse il pagliericcio e le manette sono un rifugio, chissà. Il freddo mi penetrava nella testa e mi rendeva quasi pazzo. Era un mattino pazzo, lacerato dalla musica di strumenti a fiato, la birra, la carne affumicata e i vestiti della domenica mi stordivano con il loro curioso odore umano. La notte scorsa mi attraversò la mente. Mi venne in mente quanto siano distanti le cose l’una dall’altra e non possano esserlo, ma che esistono ugualmente e che sono comuni e poco importanti. Oggi è stato il giorno piú freddo e io ho scritto all’ospedale che mi mandino un cappotto d’inverno ché altrimenti rischio di congelare. E il libro di Kolz, perché a partire non ci penso nemmeno. Adesso non posso andarmene. Sempre le stesse strade, questo è come una corda che si restringe e mortifica i miei pensieri. Ecco lí sul tavolo la lettera incominciata per mio fratello e il mio Henry James che ho quasi terminato di leggere. Fuori deve fare ancora piú freddo. Da un’ora all’altra tutto è diventato ugualmente freddo e buio. Quando sento come il pittore sale ansimando in camera sua mi viene la nausea. Ora dovrei cominciare a occuparmi seriamente di lui. Io infatti dovrò stendere un resoconto. Non mi è chiaro quanti anni abbia. Il suo modo di camminare che cosa significa? Il suo modo di alzarsi, di mettersi seduto? Quel che dice e come lo dice! E io? Qual è ora il mio rapporto con lui? Innanzitutto io sono un bugiardo. Ieri mi ha guardato severamente. «Legge, aveva detto Lei, non è vero?» E io: «Sí, Legge!» E poi il silenzio. La valle era buia e l’aria quasi irrespirabile. Poi cadde la neve. Poi si udirono degli spari nel bosco che venivano dal versante nord della valle. Ma non poteva esser stato il bramito di un cervo a rompere il silenzio mentre tornavo da solo alla locanda. «Il mondo si contrae nel mio cuore», ha detto lui. Che sia questo? Scrivere ora questi crudi fatti è una cosa impietosa. Vi sono costretto. E riesco a scrivere solo perché vi sono costretto. Si possono forse chiamare conversazioni quelle che ho con il pittore? A malapena. Punti di riferimento? In tutto c’è quel tratto morboso di cui mi ha parlato suo fratello, «e tuttavia una distanza spaventosa». Di chi la colpa? Ora però conosco approssimativamente gli episodi piú importanti della sua vita. Ma non so che farmene. Tra lui e me cade sempre molta neve. Mi è venuto in mente come sta seduto sul letto e si osserva. Quel che sogna. La sua malattia; certo, gli crea continui conflitti. «È stato orribile ieri sentirlo parlare con il ferroviere. Come continuava a dar ragione a quell’altro che non capiva nulla, che non poteva capir nulla. E come adesso dia sempre ragione a tutti, tutto quel che dice è un dar ragione agli altri. E in realtà lui è continuamente in uno stato di impotenza».  
 Ogni età è sempre mille miglia lontana dal mondo il quale se ne approfitta sempre. Talvolta il pittore era sopraffatto da una situazione del lontano passato, veniva distratto da un odore che gli ricordava le ore del caffè pomeridiano in casa di sua nonna oppure lo starnazzare delle galline nella cascina del nonno. Poi era invece l’odore di una pasticceria di una grande città dove sedevano delle svagate signore. «Gli attimi vissuti dal bambino di tre anni si ripresentano al trentenne». Ora lui li vede sotto presupposti diversi di terrori diversi. Gli dànno frescura gli alberi del viale che gli ricordano i compiti in seconda elementare. E le sue visite in chiesa che – durante la sua infanzia – erano circoscritte in determinati intervalli di tempo esattamente come il doversi alzare al mattino e il dover andare a letto. Oppure fare i compiti di matematica. Quell’incanto che emanavano l’incenso e i Gloria e le madonne di legno che il parroco poteva ordinare dal tornitore suo vicino di casa. All’epoca in cui imparava a camminare e a contraddire. All’epoca delle sue devote preghiere serali. «Può succedere che alla locanda si pronunci una parola, – disse il pittore, – che mi trasforma nella persona che sono stata vent’anni fa». E poi: «Non si è sempre uguali alla persona che si è». Ripiegamenti, esperienze fondamentali dimenticate e riprese al punto in cui erano state interrotte: in un bosco, in una chiesa, nel cortile di una scuola. 
Città e campagna per lui si alternavano a seconda dell’umore dei suoi genitori e dei suoi nonni, a seconda degli umori della politica, lui, il suo pensiero girano per il mondo; in lungo e in largo, se lui si guarda indietro. «Tutto si è come infradiciato, – dice, – nel mangiare le mie maniere potevano far venire il voltastomaco persino negli ambienti dove il voltastomaco era di casa e sapevo far mostra di buone maniere che avrebbero lasciato di stucco persino una principessa». Lui sapeva impersonare i ruoli piú nobili e quelli piú vili. «Sono sempre stato un genio del travestimento». Lui piú di ogni altro era maestro nell’arte di non farsi notare. «Mi trovavo a mio agio sia a feste e banchetti che mangiando da un pezzo di carta da pacchi». Eppure non era mai soltanto un gioco: «Con tutto me stesso io ero quello che è costretto a mangiare dalla carta da pacchi e quello che mangia come un signore, anche se ero piú io quando ero quello costretto a mangiare dalla carta da pacchi. L’infanzia: scuole e ospedali. Colloqui per trovare un impiego che non facevano che concludersi nella disperazione dei genitori e dei nonni. I continui cambiamenti del tutore al quale era affidato. I pagamenti che venivano sospesi nel momento in cui aveva piú che mai bisogno di denaro. Accettava un lavoro, tutta una serie di lavori uno dopo l’altro. «Facevo i lavori piú sporchi». Tentativi per infilarsi in qualche corso di studi, tentativi ripetuti. Tutti falliti. Settimane e settimane di degenza a letto. Camminare lungo i muri di casa, incapace di prendere una decisione per la gran fame. Suo fratello e sua sorella che si erano ritirati nel loro «mondo segreto». La morte dei nonni, la morte dei genitori. I suoi ripiegamenti. La fabbrica che spegneva ogni pensiero.  
 «Spesso mi alzo nel cuore della notte, – disse il pittore, – Lei lo sa bene che io non dormo. Cerchi d’immaginare questa mia testa. Una volta che con grande fatica sono uscito dal letto, incomincio a palparmi le braccia e le gambe, a muoverle lentamente, cosa difficilissima perché non riesco mai a trovare subito l’equilibrio. A causa di questa mia testa, deve sapere, appena mi alzo in piedi, ho dei disturbi dell’equilibrio: devo stare attento a non alzarmi bruscamente. Sto lí in piedi completamente spogliato, resto in ascolto, sento che fuori nulla si muove, a quanto sembra, nulla si muove all’interno della locanda, come se l’umanità si fosse estinta. Certo vi sono degli uccelli appollaiati sui rami, quei neri uccelli invernali, ma non si muovono. Se ci si mette vicinissimi alla finestra e si guarda fuori, non si deve aver fretta, si possono vedere gli uccelli appollaiati: grosse pance che non sanno cantare. Non so di quale specie di uccelli si tratti, ma sono sempre gli stessi uccelli. Tento di camminare un paio di volte in su e in giú nella stanza senza che lo sforzo che faccio per camminare sia causa di dolori eccessivi alla mia testa. Lei lo sa che cosa significa essere una persona per la quale respirare e camminare simultaneamente sono causa di dolori tremendi? Con prudenza mi siedo a tavolino e incomincio a buttar giú qualche appunto, degli appunti su tutto ciò che mi interessa. Ma non riesco ad andare avanti, dopo tre o quattro parole devo smettere... Naturalmente, è anche vero che ci si spaventa quando si vuole buttar giú qualche appunto... ma proprio allora sparisce l’idea che si è appena avuta e di cui si è convinti che era una buona idea. Le notti sono il mio martirio, deve sapere, le abbrevio facendo delle osservazioni sul mio corpo; mi siedo davanti allo specchio e mi guardo. Non ci si può sempre sforzare la testa tormentandosi con problemi di altissimo livello. Cosí ora mi dedico a lunghe sedute di pura contemplazione. Questa è l’unica soddisfazione che ho: lenisce il dolore; la testa non si ribella, non aumentano calore e eccitazione. Riesco a superare la notte, a superare quella terribile disperazione, deve sapere, che diventa visibile sulle pareti che io riempio di graffi con le mie dita. Vede, – disse il pittore, – ho le unghie rotte. Il dolore che s’irradia dalla mia testa è qualcosa di talmente impensabile che io non riesco a esprimerlo in parole».  
 Ritornato a Schwarzach lessi sul «Demokratisches Volksblatt»: «Da giovedí della scorsa settimana tale G. Strauch, senza professione, risulta disperso. A causa delle intense nevicate ha dovuto essere sospesa la spedizione di soccorso che andava in cerca dello scomparso e alla quale partecipavano alcuni agenti della gendarmeria». La sera dello stesso giorno terminai la mia pratica di ospedale e ripartii per la capitale dove ripresi i miei studi.  

































Indice 





Contagio di Pier Aldo Rovatti 

Gelo 

Primo giorno 
Secondo giorno 
Terzo giorno  
Quarto giorno  Quinto giorno  
Sesto giorno  
Settimo giorno  
Ottavo giorno  
Nono giorno  
Decimo giorno  
-Nell’ospizio dei poveri  
Undicesimo giorno  
Dodicesimo giorno  
Tredicesimo giorno  
Quattordicesimo giorno  
-Il latrato  
Quindicesimo giorno 
Sedicesimo giorno  
Diciassettesimo giorno  
Diciottesimo giorno  
Diciannovesimo giorno  
Ventesimo giorno  
-La storia del boscaiolo morto  
Ventunesi8755mo giorno  
-La storia del vagabondo 
Ventiduesimo giorno 
-Il saliscendi  
Ventitreesimo giorno 
Ventiquattresimo giorno 
Venticinquesimo giorno 
-La banda dei ladri di bestiame  
Ventiseiesimo giorno 
-Osservazioni sull’alto e sul basso e sulle circostanze 
-Il burrone tra le rocce 
Le mie lettere all’assistente Strauch 
-Prima lettera 
-Seconda lettera 
-Terza lettera 
-Quarta lettera 
-Quinta lettera 
-Sesta lettera 
Ventisettesimo giorno