giovedì 5 marzo 2020


L’ARTE DELLA FUGA

 Fredrik Sjöberg


L’OPINIONE DELL’EDITORE 
«Le esperienze artistiche possono essere travolgenti quasi quanto gli amori», pensa Fredrik Sjöberg quando in una casa d’aste di Stoccolma rimane folgorato dal dipinto di un pino. Spinto dalla sua proverbiale passione per tutto ciò che è insolito, scopre che l’artista è Gunnar Widforss (1879-1934), tanto sconosciuto in Europa quanto amato in Nord America, dove è considerato «il pittore dei parchi nazionali» e ha dato il proprio nome a una cima del Grand Canyon. Comincia così un’avventura sulle tracce di opere, lettere e fonti sperdute per ricostruire la vita, la vocazione e l’ossessione di questo inquieto acquerellista: un vagabondo squattrinato alla solitaria ricerca di bellezza, stretto tra il bisogno di creare e l’ansia di riuscire, che dopo aver girato mezzo mondo pianta la sua tenda nello Yosemite e dedica i suoi giorni a ritrarre i più suggestivi paesaggi d’oltreoceano. Un viaggio che conduce Sjöberg in Nevada, Arizona e Colorado, nella wilderness di Emerson e Thoreau, attraverso la storia delle riserve, naturali e indiane, con il dubbio se servano più a proteggere o a ghettizzare. Un racconto che si snoda tra curiosità storiche e aneddoti spassosi, dalla nascita dell’industria del chewing gum alla carovana di cammelli che aprì la Route 66, dalla luce dei dipinti di Turner al tacchino che Benjamin Franklin voleva al posto dell’aquila come simbolo degli Stati Uniti. Irresistibile affabulatore, Sjöberg ci fa appassionare a un altro dei suoi eccentrici outsider con un nuovo capitolo della sua riflessione sul rapporto tra uomo e natura. L’autore Scrittore, entomologo, collezionista e giornalista culturale, dopo gli studi di biologia a Lund ha passato due anni viaggiando intorno al mondo. Dal 1986 vive sull’isola di Runmarö, un paradiso naturale di quindici chilometri quadrati al largo di Stoccolma, dove studia le mosche, di cui è diventato uno dei maggiori esperti. La sua collezione di sirfidi è stata esposta alla Biennale d’Arte di Venezia del 2009. L’originalità della sua scrittura, che fonde letteratura, riflessione e divulgazione con umorismo e poesia, ha ottenuto successo e riconoscimenti a livello internazionale. Iperborea ha inoltre pubblicato L’arte di collezionare mosche, caso editoriale in tutta Europa e nominato dal The Times «Nature Book of the Year». Fuggire, come sai, significa vincere. Fuggendo si conserva l’amore e ci si crea un ricordo. Si sacrifica tutto per l’amore e tutto quel che si ha da sacrificare è l’amore stesso. Rimanendo si sacrifica la fuga e ci si crea un rimpianto. Ci vuole coraggio in entrambi i casi.  Stig Claesson Questa volta vi parlerò di un pittore. Si chiamava Gunnar Mauritz Widforss. Un acquerellista un po’ convenzionale specializzato in bei paesaggi. Montagne scoscese e grandi alberi. è nato a Stoccolma nel 1879 e morto a cinquantacinque anni il 30 novembre del 1934 nel Grand Canyon, in Arizona. Letteralmente sull’orlo dell’abisso, solo. È ormai dimenticato. E io sono il suo migliore amico. Inoltre ho una paura terribile. A volte di quasi tutto, ma oggi di tradire una fiducia che non mi è neanche mai stata data, ma che mi sono preso di mia iniziativa. Paura di dire troppo, o forse troppo poco. Quasi tutto quello che so di Gunnar l’ho ricavato dalle lettere e da altre fonti nascoste, alcune delle quali molto private. Segreti. Dubbi. Chi sono io per ficcarci il naso? 


1. Vita nei boschi sul lago Nammavarejauratjah 

Le storie, semplicemente, cominciano. Raramente si sa dove, e quasi mai perché. Non ha nessuna importanza. Non c’è più niente di sicuro, ormai. Mi limiterò a chiudere gli occhi, puntare il dito a caso e dire – così, tanto per provare – che una volta, quando avevo sedici anni, ho passato una notte intera a cantare canzoni romantiche in cima a un pino. Potrebbe essere stato quello l’inizio. Era un albero antico, si ergeva su un monte vicino a un lago minuscolo che si chiamava Nammavarejauratjah, a un paio di giorni di cammino in zone non battute del Parco Nazionale del Muddus, nel cuore delle terre selvagge tra Jokkmokk e Gällivare. Boschi e acquitrini a perdita d’occhio, era d’estate, ovviamente, quando in Lapponia le notti sono più chiare di qualsiasi giorno in pieno inverno. D’inverno, in linea di massima, uno non va nel Muddus e se per caso ci va, non se ne sta certo seduto in cima a un pino a cantare canzoni su ghirlande di viburno tra i capelli delle ragazze. Non per ore di fila, almeno. Questo ricordo, che mi è tornato in mente tutt’a un tratto un pomeriggio davanti all’hotel La Posada a Winslow, in Arizona, è importante per molte ragioni, ma per il momento concentriamoci sull’albero. Il pino. Se c’è qualcosa a questo mondo di cui mi intendo davvero sono i pini. Normali pini con le loro pigne e i loro aghi e tutto quanto il corredo di sfumature: i colori, i profumi, il sussurrare al vento con qualsiasi tempo e i richiami degli stormi di regoli nel bosco, in autunno. Pini. So tutto su come si comporta la luce del sole su un pino e sulle ombre sottostanti, a prescindere dall’età dell’albero, e dove cresce e come. Rugiada e nebbia, neve, pioggia e tutto il resto, basta che abbia a che fare con un pino. Sia ben chiaro, qui non stiamo parlando di scienza. Non sono gli aspetti puramente prosaici della storia naturale del pino quelli che conosco bene, e del resto neanche mi interessano. Non sono mai stato uno scienziato. No, diciamo piuttosto che qui si tratta dell’intera immagine del pino, della sua personalità, per quanto oscuro possa apparire un tale sapere. Questa è la mia materia, con una certa specializzazione su come i pini si presentano nella pittura accademica di inizio Novecento. Per anni ho girato intorno a questo argomento, maturando a poco a poco l’idea di raccontare la storia di Gottfrid Kallstenius (1861-1943), artista oggi poco considerato, ma che è stato il maestro indiscusso della pittura di pini in Svezia. Siamo cresciuti nella stessa città, Gottfrid e io, e lo stesso paesaggio ci ha segnati per sempre. Quando andavo a scuola c’era appeso in aula magna uno dei suoi quadri più grandi, datato 1934: un pino solitario in riva al mare, al tramonto. Quella era arte. Solo molto tempo dopo ho imparato che, parlando di arte, la cosa più stupida che si potesse fare era confessarsi ammiratore di Kallstenius in generale, e dei suoi tramonti fiammeggianti del periodo tra le due guerre in particolare. Chi non voleva essere tagliato fuori faceva bene a non nominarlo nemmeno, tranne forse come esempio di quel vecchiume stantio che il vento modernista avrebbe spazzato via una volta per tutte. Così mi adattai al decorativismo alla Matisse, come tutti gli altri. Povero Gottfrid, visse un po’ troppo a lungo, credo. Se solo si fosse ammazzato a furia di bere all’inizio del secolo, o almeno avesse trascorso metà della sua esistenza in un manicomio, liberandosi l’anima con scarabocchi su carta della peggior qualità come un bambino, sarebbe stato celebrato, a tempo debito, come uno dei più grandi. E invece no. All’apice della sua carriera, quando era alla pari di Zorn e Liljefors e fu accolto nell’Accademia di Belle Arti, si comprò una casa sul mare a Kallvik e si mise a dipingere pini nella luce della sera. Andò avanti per quarant’anni. Per lo più sono brutti quadri, ma certi sono buoni. E qualcuno è davvero magico. Così alla fine decisi di osare avventurarmi in una spedizione. Uno studio sulla morfologia del fallimento era il progetto e l’idea era di riprendere a viaggiare, dopo tutti quegli anni trascorsi sulla mia isola, che lascio solo in rarissime occasioni: Helsinki, Monaco, Budapest, Boston, Indianapolis, Buenos Aires e tutti gli altri posti del mondo dove ci siano grandi musei che conservano quadri di Gottfrid Kallstenius nei loro più oscuri sotterranei. Ma diavolo, pensai. Non era gran che come pensiero, lo ammetto, ma è il sentimento quello che conta. Si trattava di Gottfrid e di me, e di un migliaio di pini. Tanto più grande fu la mia sconfitta. Dovetti lasciar perdere, deluso e con la coda tra le gambe. La Svezia è un piccolo paese e non mi ci volle molto a capire che il territorio era già marcato da un esperto d’arte con conoscenze ben maggiori delle mie e buoni contatti con gli eredi del pittore, con tutto ciò che questo implica riguardo all’accesso a diari, lettere e altri tesori su cui si preferisce meditare indisturbati. La perdita del compagno di viaggio di cui ero alla ricerca fu un duro colpo e non posso negare di aver lanciato, così di sfuggita, qualche ingiusto commento sopra le spalle – a proposito di quelle vecchie e sterili aquile marine degli anni Ottanta che, pur inguaribilmente danneggiate dal DDT, continuavano a occupare i migliori territori dell’Arcipelago impedendo così di nidificare agli esemplari più giovani, cresciuti con meno veleno in corpo. Non essendo quindi disponibili gli alberi più adatti alla nidificazione, i giovani uccelli covavano alla bell’e meglio su qualche pino smilzo e isolato, battuto dal vento in un’area disboscata. Alla fine di maggio, quando venivamo a inanellare i piccoli, capitava di trovare il nido a terra, un mucchietto di ramoscelli senza tracce di vita. Non sono abili costruttori, le aquile, all’inizio, la cosa migliore per loro è usare nidi ereditati. Capita, ogni tanto. Ti trovi un pittore, prendi il controllo del territorio, ti assicuri la documentazione unica… e aspetti il momento giusto. Devo però riconoscere, in tutta onestà, che nel caso di Kallstenius l’errore è stato mio. Non ho avuto abbastanza coraggio. Per anni e anni il campo è rimasto libero, e mentre nessuno se ne interessava io mi limitavo a chiacchiere in giro e a pensieri semi abbozzati. E quando finalmente mi sono deciso, era troppo tardi. Una fortuna per Gottfrid, forse. Comunque, dico tutto questo solo per spiegare perché io sia partito con tanta precipitazione con Widforss e perché abbia preso di punto in bianco una decisione che, se ci avessi pensato un po’ di più, forse mi sarei guardato bene dal prendere. È andata così: Sabato 29 gennaio 2005 mi trovavo con tutta la famiglia sulla terraferma. Avevamo prenotato un tavolo vicino alla finestra al ristorante del Moderna Museet. Ad attirarci lì era stato il famoso quadro di Malevič Composizione suprematista – nero con rettangolo bianco, del 1915. Era proprietà del museo già da quasi un anno, ma la tela era rimasta a lungo arrotolata ed era in cattive condizioni, per cui c’era voluto parecchio tempo per il restauro e solo in gennaio era stata esposta ai visitatori. Un mistero. Una ferita infetta. Non il quadro in sé – avanguardia russa, niente più di questo – ma la sua storia, le leggende, le dicerie a mezza bocca, le liti tra gli storici dell’arte. Quel poco che sapevo sembrava la trama di un romanzo. Era stato davvero rubato? In segreto lo speravo. Ci eravamo dati appuntamento con i ragazzi al museo. Dovevamo vederci nel tardo pomeriggio, guardare il quadro e poi andare a mangiare. Avevamo dunque tutto il tempo, Johanna e io, e decidemmo di fermarci sulla strada per Skeppsholmen, alla casa d’aste Bukowski al Berzelii Park, per vedere e magari fare un’offerta per un dipinto giovanile di Mollie Faustman (1883-1966), che oltre a essere stata, molto più avanti negli anni, la madrina di mia moglie, fu tra i primi allievi svedesi di Matisse a Parigi. Era già là nel 1909 dopo una bizzarra giovinezza trascorsa con un padre infelice nato da una relazione extraconiugale tra Lars Johan Hierta e Vendela Hebbe,* anche questa una storia che supera molte tragedie di invenzione. Hierta, ricordato oggi soprattutto come fondatore dell’Aftonbladet, era un uomo per bene con moglie e figli e una casa nel centro di Stoccolma. Quando la sua amante Vendela Hebbe, la prima donna giornalista in Svezia, rimase incinta, venne quindi inviata a Berlino con un compito non precisato; lì il bambino nacque e fu subito adottato da una famiglia di nome Faustman. All’epoca si faceva così. Si metteva a tacere. Dopo qualche anno, però, la Hebbe, che sorprendentemente affittava una stanza in casa Hierta, si pentì e rivolle indietro il figlio. Il che è del tutto comprensibile. Strano è quel che accadde in seguito: Hierta adottò il proprio figlio, il piccolo Faustman, senza però rivelargli chi fosse il suo vero padre e nemmeno che la signora gentile al piano di sopra era sua madre. Perché poi il futuro padre di Mollie fosse un animo inquieto non sembra precisamente un mistero. C’era qualcosa di selvaggio in quel grande quadro – Modella coricata con libro azzurro – ma a noi piaceva comunque, o forse ci piaceva Mollie Faustman, non lo so. Qualcosa c’era. E già che eravamo lì ne approfittammo per guardare cos’altro c’era in vendita. Rimasi a osservare a lungo e con attenzione un gigantesco tramonto – o, per essere più esatti, un sorgere della luna – di Kallstenius, datato 1930, che con il dolce tepore della gioia maligna in petto, giudicai privo di qualsiasi valore. La nostra relazione era finita da poco, c’era quindi ancora tra noi una bella carica di emotività. Era dunque questo il mio stato d’animo quando all’improvviso scorsi un pino. Un pino piccolo, contorto e antico in riva al mare, dipinto da un artista a me sconosciuto. In pieno giorno, al sole di piena estate: era lì e basta, niente giochi d’ombre, niente simbolismi. E quel che vidi lo vidi all’istante, in una frazione di secondo. Una scoperta! Il catalogo diceva: «Gunnar Widforss, Svezia/USA, 1879-1934, Pino a Roskär. Firmato Widforss e datato 1917. Acquerello 45 x 63 cm.» Valore stimato tremila corone. Tremila! Le esperienze artistiche possono essere travolgenti quasi quanto gli amori, anche nel senso sgradevole e in genere molesto che l’ansia di possesso si nasconde nell’ombra dietro la gioia. Triste, naturalmente, ma se ci si aggira per le sale di una casa d’aste si può dare la colpa solo a se stessi. Anche se non fu per niente a quello che pensai al momento. In realtà non pensai affatto, feci appena in tempo a vedere il quadro e senza un attimo di tregua corsi subito alla ricerca di Johanna, che si era bloccata davanti a un modernista ai miei occhi insignificante. So benissimo che a lei non piacciono per principio le opere d’arte che rappresentano conifere, ma ci sono cose che si ha bisogno di condividere, così mi arrischiai. «Vuoi comprare quella roba lì?» fu la sua immediata reazione. *** Noi che ci accampavamo vicino al Nammavarejauratjah nelle chiare notti estive del Muddus non eravamo esattamente un branco di babbuini, ma neanche troppo lontani: una banda di adolescenti dediti al birdwatching che per qualche settimana andavano alla scoperta dei boschi, degli sconfinati acquitrini e, forse soprattutto, gli uni degli altri. Si parla e si canta molto dove non ci sono sentieri. Ed era solo dall’interno del calore del gruppo che il paesaggio diventava realmente vivo e visibile. Senza quella sicurezza non mi sarebbe mai venuto in mente di isolarmi di tanto in tanto e, quella sera, di arrampicarmi in cima a un pino. Non lo dimenticherò mai. La natura. I profumi. Le canzoni! Anche quelle del tordo sassello e dello zigolo boschereccio. Potrebbe essere stato quello l’inizio.