CAMBIARE L'ACQUA AI FIORI
Valérie Perrin
“Questo romanzo ha vinto, nel 2018, il Prix Maison de la Presse, presieduto da Michel Bussi, con la seguente motivazione: “Un romanzo sensibile, un libro che vi porta dalle lacrime alle risate con personaggi divertenti e commoventi”.
Cambiare l’Acqua ai Fiori è il secondo sorprendente romanzo dell’attrice, fotografa e sceneggiatrice (lavora al fianco del marito Claude Lelouch) Valérie Perrin. Dopo il folgorante esordio con Il Quaderno dell’Amore perduto (2015), l’autrice regala ai suoi lettori un romanzo originale, un giallo inaspettato, una storia emozionante.
Valérie Perrin alterna passato e presente nel ricostruire la vita non solo della protagonista Violette Toussaint, ma anche di altre persone, come quella del marito Philippe. La ventata d’aria fresca di questo romanzo, oltre all’ambientazione particolare, è il saper cogliere, o penetrare senza invadenza, nelle sfumature dell’animo umano, nel descrivere con rispetto e trasporto due punti di vista, spesso riguardanti una stessa azione. La Perrin non lascia mai il lettore a bocca asciutta, lo conduce per mano dove vuole lei, fornendo le risposte a tempo debito.
Violette Toussaint è una donna gentile, la conosciamo all’età di cinquant’anni, fa la guardiana di un cimitero in un villaggio francese. Abita nel villino all’ingresso del cimitero, ha un piccolo orto che cura amorevolmente, con la stessa armonia e dedizione che dedica alle tombe, quelle per cui è richiesto il suo lavoro dai parenti dei defunti sia, soprattutto, quelle abbandonate. I suoi unici amici sono il prete, i titolari dell’agenzia delle pompe funebri e gli addetti alle sepolture. Vive una vita tranquilla, indossa sempre soprabiti scuri, mentre sotto sceglie appositi colori, spesso sgargianti.
Ha vissuto tante vite Violette, bimba abbandonata dalla mamma, poi in orfanotrofio, passata di famiglia affidataria in famiglia affidataria, ha svolto molti lavori, ha conosciuto un grande amore, ha imparato a leggere e scrivere bene per assaporare meglio il romanzo della sua vita, Le regole della casa del sidro, è stata assunta come guardiana di un passaggio a livello. Quando è arrivata la tecnologia, le è stato offerto questo lavoro particolare, guardiana del cimitero di Brancion a Chalon (Borgogna).
Nel frattempo sono successi episodi spiacevoli, dolorosi, drammatici e incontri che l’hanno aiutata a sopportare la mancanza di speranza, a mettere insieme in pezzi della sua vita in frantumi e a tornare a emergere, a respirare.
Non possiamo dire altro per non guastare il gusto di assaporare una trama fitta e profonda che con gentilezza e sensibilità mostra un grande temperamento nel parlare di emozioni: amore, dolore, lutto, felicità.
Attraverso una scrittura che non stanca mai, Valérie Perrin seduce nelle descrizioni della vita quotidiana. C’è tutta una deliziosa carrellata di anime, personalità che sfilano al cimitero, descritte con cura arguta e tenera senza melodrammi o forzature.
Felicità e infelicità, vita e morte, tutto qui è collegato con un filo di sensibilità brillante e commovente.
CAMBIARE L'ACQUA AI FIORI
1 Un solo essere ci manca, e tutto è spopolato Imiei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità. Non leggono, non pagano tasse, non fanno diete, non hanno preferenze, non cambiano idea, non si rifanno il letto, non fumano, non stilano liste, non contano fino a dieci prima di parlare, non si fanno sostituire. Non sono leccaculo né ambiziosi, rancorosi, carini, meschini, generosi, gelosi, trascurati, puliti, sublimi, divertenti, drogati, spilorci, sorridenti, furbi, violenti, innamorati, brontoloni, ipocriti, dolci, duri, molli, cattivi, bugiardi, ladri, giocatori d’azzardo, coraggiosi, fannulloni, credenti, viziosi, ottimisti. I miei vicini sono morti. L’unica differenza che c’è fra loro è il legno della bara: quercia, pino o mogano. 2 Cosa sarà di me se non sento più i tuoi passi? È la tua vita o la mia che se ne va? Non lo so Mi chiamo Violette Toussaint. Facevo la guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo la vita, la bevo a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele. E la sera, quando il cancello del cimitero è chiuso e la chiave appesa alla porta del bagno, sono in paradiso. Non il paradiso dei miei vicini, no. Il paradiso dei vivi: un sorso del porto annata 1983 che José-Luis Fernandez mi regala ogni primo settembre, un rimasuglio di vacanze in un bicchierino di cristallo, una specie di estate indiana che stappo verso le sette di sera sia che piova, nevichi o tiri vento. Due gocce di liquido color rubino, il sangue delle vigne di Porto. Chiudo gli occhi e lo gusto. Basta un sorso per allietarmi la serata. Due gocce, perché mi piace l’ubriachezza ma non l’alcol. José-Luis Fernandez viene a curare i fiori sulla tomba di Maria Pinto coniugata Fernandez (1956-2007) una volta alla settimana tranne che nel mese di luglio, durante il quale lo sostituisco io. Donde la bottiglia di porto per ringraziarmi. Il mio presente è un dono del cielo. Me lo dico ogni mattina appena apro gli occhi. Sono stata molto infelice, addirittura annientata, inesistente, svuotata. Sono stata come i miei vicini, ma in peggio. Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza me dentro, senza la mia anima, che a quanto pare, a prescindere da che uno sia grasso o magro, alto o basso, giovane o vecchio, pesa ventuno grammi. Ma siccome l’infelicità non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata. La sfortuna deve pur finire, prima o poi. Ho cominciato malissimo. Sono nata con un parto in anonimato nelle Ardenne, nel nord del dipartimento, in quell’angolo di territorio che si insinua nel Belgio, là dove il clima è definito “semicontinentale” (forti precipitazioni in autunno e frequenti gelate in inverno), là dove immagino che si sia impiccato il canale cantato da Jacques Brel. Il giorno in cui sono venuta al mondo non ho pianto, così mi hanno appoggiato in un angolo come un pacco da 2,670 kg senza francobollo e senza destinatario in attesa di riempire i documenti in cui venivo dichiarata partita prima di essere arrivata. Nata morta. Bambina senza vita e senza cognome. L’ostetrica doveva trovarmi in fretta un nome da scrivere sul modulo, e ha scelto Violette. Immagino che fossi viola dalla testa ai piedi. Quando ho cambiato colore, quando sono passata dal viola al rosa e si è trovata a dover compilare un atto di nascita, ha mantenuto lo stesso nome. Il fatto è che mi avevano posato su un termosifone, e la mia pelle si era riscaldata. A congelarmi doveva essere stata la pancia di una madre che non mi voleva. Il caldo mi ha riportato alla vita; sarà per questo che adoro l’estate, che non perdo mai occasione di espormi ai primi raggi, come un girasole. Il mio cognome da nubile è Trenet, come il cantautore. A darmelo dev’essere stata la stessa ostetrica che mi ha chiamato Violette. Evidentemente le piaceva Charles Trenet, come in seguito è piaciuto a me. A lungo l’ho considerato un lontano cugino, una specie di zio d’America che non avevo mai conosciuto. Se ti piace un cantante, a forza di cantarne le canzoni acquisisci quasi un legame di parentela. Toussaint è venuto dopo, quando mi sono sposata con Philippe Toussaint. Con un cognome simile avrei dovuto diffidare1. Ma è anche vero che c’è chi di cognome fa Printemps, primavera, e poi picchia la moglie. Un cognome grazioso non impedisce a nessuno di essere uno stronzo. Mia madre non mi è mai mancata, tranne quando avevo la febbre. Quando stavo bene crescevo, venivo su dritta come se l’assenza di genitori mi avesse applicato un tutore lungo la spina dorsale. Mi tengo dritta, è una mia peculiarità. Non mi sono mai piegata, neanche nei periodi di maggior dolore. Spesso mi chiedono se abbia fatto danza classica. Rispondo di no, che è stata la quotidianità a darmi una disciplina, a farmi allenare ogni giorno alla sbarra e sulle punte. 1 Toussaint significa Ognissanti, tuttavia in Francia è il giorno in cui tradizionalmente si vanno a onorare i defunti. Nel linguaggio corrente, quindi, Toussaint equivale a “giorno dei morti”. [Tutte le note sono del Traduttore.] 3 Che mi prendano, che prendano i miei, poiché tutti i cimiteri un giorno diventano giardini Nel 1997, quando il passaggio a livello è stato automatizzato, io e mio marito abbiamo perso il lavoro. Siamo pure finiti sul giornale in quanto vittime collaterali del progresso, i dipendenti che azionavano l’ultimo passaggio a livello manuale di Francia. Per illustrare l’articolo il giornalista ci ha fatto una foto. Philippe Toussaint si è messo in posa passandomi un braccio intorno alla vita. Malgrado il sorriso, Dio che aria triste hanno i miei occhi su quella foto! Il giorno in cui è stato pubblicato l’articolo Philippe Toussaint era tornato dall’ex ANPE, l’ufficio di collocamento, con la morte nel cuore: aveva capito che avrebbe dovuto lavorare. Era abituato che facessi tutto io. Con lui, quanto a fannulloneria avevo vinto primo premio, jackpot e premi aggiuntivi. Per tirargli su il morale gli ho fatto vedere un annuncio: Guardiano di cimitero, un mestiere con un futuro. Mi ha guardato come se fossi diventata matta. Nel 1997 mi guardava ogni giorno come se fossi diventata matta. Forse che un uomo, quando smette di amare la donna che ha amato, la guarda come se avesse perso la ragione? Gli ho spiegato che avevo trovato l’annuncio per caso, che il comune di Brancion-en-Chalon stava cercando una coppia di guardiani che si occupassero del cimitero, che i morti avevano orari fissi e facevano meno rumore dei treni, che avevo già parlato col sindaco ed era pronto ad assumerci subito. Mio marito non l’ha bevuta, ha detto che non credeva al caso e che preferiva morire piuttosto che andare «in quel posto» a fare il becchino. Ha acceso il televisore e si è messo a giocare a Super Mario 64. Lo scopo del gioco era acchiappare tutte le stelle di ogni mondo. Io, ce n’era solo una che avrei voluto acchiappare: la buona stella. È quel che ho pensato vedendo Mario correre dappertutto per liberare la principessa Peach rapita da Bowser. Ho insistito, ho detto che diventando guardiani di cimitero avremmo avuto uno stipendio ciascuno, molto migliore di quello che prendevamo al passaggio a livello, che i morti rendono più dei treni, che avremmo avuto anche la casa e niente spese, che sarebbe stato un cambiamento in meglio rispetto alla casa in cui abitavamo da anni, una bicocca che d’inverno faceva acqua come una bagnarola e d’estate era calda quanto il polo Nord, che sarebbe stato un nuovo inizio e ne avevamo bisogno, che avremmo messo tende alle finestre per non vedere i vicini, cioè croci, vedove e tutto il resto, e che quelle tende sarebbero state il confine tra la nostra vita e la tristezza degli altri. Avrei potuto dirgli la verità, dirgli che le tende sarebbero state la frontiera tra la mia tristezza e quella degli altri, ma era l’ultima cosa da fare, non dovevo neppure accennare a una cosa del genere, dovevo fingere e illuderlo puntando a farlo cedere. Alla fine per convincerlo gli ho promesso che non avrebbe avuto niente da fare, che tre necrofori si occupavano già della manutenzione, delle fosse e della sistemazione del cimitero, che il lavoro consisteva semplicemente nell’aprire e chiudere il cancello, che era solo un fatto di presenza, con orari comodi, vacanze e weekend lunghi come il viadotto della Valserine, e che avrei fatto io tutto il resto. Super Mario ha smesso di correre. La principessa è ruzzolata giù. Prima di andare a dormire Philippe Toussaint ha riletto l’annuncio: Guardiano di cimitero, un mestiere con un futuro. Il passaggio a livello si trovava a Malgrange-sur-Nancy. In quel periodo della mia vita non vivevo, anche se sarebbe più giusto dire “in quel periodo della mia morte”. Mi alzavo, mi vestivo, lavoravo, facevo la spesa e dormivo. Con un sonnifero, se non due o più. E guardavo mio marito guardarmi come se avessi perso la ragione. I miei orari erano tremendamente scomodi. Durante la settimana abbassavo e rialzavo le sbarre circa quindici volte al giorno. Il primo treno passava alle 4.50, l’ultimo alle 23.04. Avevo in testa gli automatismi del segnale sonoro del passaggio a livello, lo sentivo ancora prima che suonasse. Una cadenza infernale che avremmo dovuto spartirci, fare a rotazione, ma le uniche cose che Philippe Toussaint faceva ruotare erano la motocicletta e il corpo delle sue amanti. Oh, quanto mi hanno fatto sognare i viaggiatori che ho visto passare! Eppure erano solo trenini regionali che collegavano Nancy a Épinal e lungo la tratta si fermavano una decina di volte in borghi sperduti per assicurare il servizio agli autoctoni. Invidiavo quegli uomini e quelle donne. Immaginavo che andassero a un appuntamento, appuntamenti che anch’io avrei voluto avere come i passeggeri che vedevo sfilare. * * * Abbiamo fatto rotta verso la Borgogna tre settimane dopo la pubblicazione dell’annuncio. Siamo passati dal grigio al verde, dall’asfalto ai prati, dall’odore di catrame della strada ferrata all’odore di campagna. Siamo arrivati al cimitero di Brancion-en-Chalon il 15 agosto 1997. La Francia era in vacanza. Gli abitanti se n’erano andati, gli uccelli che volano di tomba in tomba avevano smesso di volare, i gatti che si stiracchiano tra i vasi di fiori erano scomparsi. Faceva troppo caldo perfino per le formiche e le lucertole, i marmi erano bollenti. I necrofori erano in ferie, i nuovi morti pure. Mi aggiravo da sola per i vialetti leggendo i nomi di gente che non avrei mai conosciuto, eppure mi ci sono subito trovata bene, al mio posto.
4 L’essere è eterno, l’esistenza un passaggio, la memoria eterna ne sarà il messaggio Quando i monelli non mettono gomma americana nel buco della serratura sono io ad aprire e chiudere il pesante cancello del cimitero. Gli orari variano a seconda delle stagioni. Dal primo marzo al 31 ottobre è aperto dalle otto di mattina alle sette di sera. Dal 2 novembre al 28 febbraio è aperto dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio. Sul 29 febbraio nessuno ha deliberato. Il primo novembre, invece, apertura dalle sette di mattina alle otto di sera. Da quando mio marito è partito, o più esattamente da quando è scomparso, ho rilevato le sue funzioni. Nello schedario nazionale della gendarmeria Philippe Toussaint figura tra le persone scomparse. Nel mio orizzonte restano vari uomini: i tre necrofori, che rispondono ai nomi di Nono, Gaston ed Elvis, gli addetti alle pompe funebri, tre fratelli che si chiamano Pierre, Paul e Jacques Lucchini, e padre Cédric Duras. Tutti quanti passano più volte al giorno da casa mia, vengono a bere o a mangiare una cosa, e mi danno una mano nell’orto se ho sacchi di terriccio da trasportare o perdite d’acqua da riparare. Li considero amici, più che colleghi di lavoro. Anche quando non ci sono, possono entrare in cucina, farsi un caffè, sciacquare la tazza e andarsene. I necrofori fanno un mestiere che ispira repulsione e disgusto, eppure quelli del mio cimitero sono le persone più dolci e piacevoli che conosca. Nono è quello in cui ho più fiducia. È un uomo retto con la gioia di vivere nel sangue, tutto lo diverte e non dice mai di no, a parte quando si tratta di procedere alla sepoltura di un bambino. Lo lascia fare agli altri, «a quelli che ne hanno il coraggio» dice. Nono somiglia a Georges Brassens, e la cosa lo fa ridere perché sono l’unica al mondo a dirgli che somiglia a Georges Brassens. Gaston è l’incarnazione della goffaggine. Ha i movimenti scomposti, e benché beva solo acqua sembra sempre ubriaco. Durante le sepolture si piazza tra Nono ed Elvis, casomai dovesse perdere l’equilibrio. Sotto i suoi piedi c’è il terremoto perenne. Cade, fa cadere, rovescia, schiaccia. Quando viene a casa mia ho sempre paura che rompa qualcosa o si ferisca e, siccome la paura non scongiura il pericolo, ogni volta rompe un bicchiere o si ferisce. Elvis lo chiamano così per via di Elvis Presley. Non sa leggere né scrivere, ma conosce a memoria tutte le canzoni del suo idolo. Pronuncia malissimo le parole, non si capisce mai se canti in inglese o in francese, ma il cuore c’è: «Lov mi tender, lov mi tru...». I fratelli Lucchini hanno solo un anno di differenza l’uno dall’altro: trentotto, trentanove e quaranta. Si occupano di pompe funebri da generazioni, di padre in figlio. Sono anche i fortunati proprietari dell’obitorio di Brancion, attiguo alla loro agenzia. Nono mi ha detto che solo una saracinesca separa l’agenzia dall’obitorio. A ricevere le famiglie in lutto è Pierre, il maggiore. Paul prepara i cadaveri, lavora nel seminterrato. Jacques guida i carri funebri, l’ultimo viaggio tocca a lui. Nono li chiama gli “apostoli”. E poi c’è il nostro parroco, Cédric Duras. Pur non essendo sempre giusto, Dio dimostra un certo gusto. Da quando nella zona è arrivato padre Cédric pare che molte donne siano state colpite dalla rivelazione divina e che la domenica mattina, sulle panche della chiesa, le fedeli siano in aumento. Io non vado mai in chiesa, sarebbe come andare a letto con una collega di lavoro, ma credo di ricevere più confidenze da parte della gente di passaggio di quante ne riceva padre Cédric nel confessionale. La gente rovescia fiumi di parole a casa mia e nei vialetti, sia arrivando che andandosene, spesso tutte e due le volte. Un po’ come i morti, che tramite i silenzi, le targhe funerarie, le visite, i fiori, le fotografie e il modo in cui si comportano i visitatori davanti alla tomba mi raccontano cose della vecchia vita, di quand’erano ancora vivi e dinamici. Il mio mestiere consiste nell’essere discreta, amare il contatto umano e non avere compassione, ma per una donna come me non avere compassione sarebbe come essere astronauta, chirurga, vulcanologa o genetista, non fa parte del mio pianeta né delle mie competenze. Però non piango mai davanti a un visitatore, può succedermi prima o dopo una sepoltura, ma non durante. Il cimitero ha tre secoli. Il primo defunto che ha accolto è una defunta, Diane de Vigneron (1756-1773), morta di parto a diciassette anni. Passando le dita sulla tomba si riesce ancora a leggerne il nome inciso sulla pietra grezza. Sebbene al cimitero manchi spazio non è mai stata esumata, nessuno dei sindaci che si sono susseguiti ha osato prendere la decisione di disturbare la prima inumata, tanto più che gira una leggenda su di lei. Stando agli abitanti di Brancion sarebbe apparsa a più riprese nel suo “abito di luce” davanti alle vetrine dei negozi del centro e nel cimitero. Certe volte, girando per i mercatini dell’usato della zona, trovo Diane raffigurata come un fantasma su piccole stampe del Settecento o vecchie cartoline, una messinscena, una finta Diane mascherata come il più trito dei fantasmi. Girano molte storie intorno alle tombe. I vivi reinventano spesso la vita dei morti. C’è una seconda leggenda a Brancion, molto più recente di quella di Diane de Vigneron. Riguarda Reine Ducha (1961-1982), sepolta nel settore dei Cedri, vialetto 15. La fotografia fissata alla lapide mostra una giovane donna bruna e sorridente. Reine è morta in macchina all’uscita della città. In seguito alcuni giovani l’avrebbero vista sul ciglio della strada, nel punto dell’incidente, tutta vestita di bianco. Il mito delle “dame bianche” ha fatto il giro del mondo. Gli spettri delle donne morte di morte violenta infesterebbero il mondo dei vivi trascinando la propria anima in pena nei castelli e nei cimiteri. Tanto per incrementare la leggenda, la sua tomba si è mossa. Secondo Nono e i fratelli Lucchini dipende da uno smottamento del terreno, succede spesso quando in una tomba si accumula troppa acqua. In vent’anni credo di aver visto molte cose nel mio cimitero, certe notti ho perfino sorpreso ombre che facevano l’amore fra le tombe o direttamente su una pietra tombale, ma non erano fantasmi. A parte le leggende niente è eterno, neanche le concessioni perpetue. Le concessioni possono essere acquistate per quindici, trenta, cinquanta anni o l’eternità, ma dell’eternità è meglio non fidarsi: se dopo trent’anni una concessione perpetua ha smesso di essere tenuta bene (aspetto indecente o cadente) e nessuna inumazione ha avuto luogo per parecchio tempo, il comune ha la facoltà di rientrarne in possesso, e i resti verranno allora trasferiti in un ossario in fondo al cimitero. Da quando sono qui ho visto numerose concessioni scadute essere smantellate e pulite spostando le spoglie dei defunti nell’ossario, e nessuno ha detto niente, perché quei morti erano considerati come oggetti smarriti che nessuno aveva reclamato. Succede sempre così con la morte: più è antica e meno presa ha sui vivi. Il tempo distrugge la vita. Il tempo distrugge la morte. Io e i tre necrofori facciamo di tutto per non lasciare le tombe in stato di abbandono. Non ci va giù di veder apposto sulla lapide l’avviso municipale La presente tomba è oggetto di una procedura di recupero, si prega di contattare con urgenza il comune quando vi appare ancora il nome del defunto. Forse i cimiteri sono pieni di epitaffi proprio per questo, per scongiurare il destino del passare del tempo, per aggrapparsi ai ricordi. Quello che preferisco è: La morte comincia quando nessuno può più sognare di te. È sulla tomba di Marie Deschamps, una giovane infermiera deceduta nel 1917. Pare che sia stato un soldato a deporre la targa nel 1919. Ogni volta che ci passo davanti mi chiedo quanto a lungo l’abbia sognata. Qualunque cosa io faccia, ovunque tu sia, niente ti cancella, penso a te di Jean-Jacques Goldman e Le stelle fra loro parlano solo di te di Francis Cabrel sono le parole di canzoni più citate sulle targhe funerarie. Il mio cimitero è molto bello. I vialetti sono fiancheggiati da tigli centenari. Buona parte delle tombe è piena di fiori. Davanti alla mia casetta vendo qualche vaso di fiori, e quando non sono più vendibili li regalo alle tombe abbandonate. Inoltre ho piantato dei pini. L’ho fatto per il profumo che emanano d’estate, è il mio odore preferito. Li ho piantati nel 1997, l’anno in cui siamo arrivati. Sono cresciuti molto, e conferiscono al cimitero un aspetto maestoso. Prendersi cura del cimitero vuol dire prendersi cura dei morti che vi riposano e rispettarli. Nel caso non siano stati rispettati da vivi, che almeno lo siano dopo morti. Sono sicura che vi sono sepolti anche molti stronzi, ma la morte non fa distinzione fra buoni e cattivi. E poi, chi non è stato un po’ stronzo almeno una volta nella vita? Al contrario di me, Philippe Toussaint ha subito odiato il cimitero, il paese di Brancion, la Borgogna, la campagna, le vecchie pietre, le mucche bianche, la gente del luogo. Non avevo ancora finito di aprire le scatole del trasloco che già andava a farsi giri in moto dalla mattina alla sera. Col passare dei mesi gli capitava di rimanere fuori intere settimane, fino al giorno in cui non è più tornato. I gendarmi non hanno capito perché non avessi denunciato prima la sua scomparsa. Non ho detto loro che era già scomparso da anni, anche quando ancora si sedeva a tavola con me. Eppure, quando dopo un mese ho capito che non sarebbe tornato, mi sono sentita abbandonata come le tombe che pulisco regolarmente, altrettanto grigia, smorta e traballante, pronta per essere smantellata e vedere i miei resti gettati in un ossario. 5 Il libro della vita è il libro supremo che non possiamo chiudere e riaprire a piacimento, vorremmo tornare alla pagina in cui si ama, ma abbiamo già sotto le dita la pagina in cui si muore Ho conosciuto Philippe Toussaint nel 1985 al Tibourin, una discoteca di Charleville-Mézières. Era appoggiato al bancone del bar, io ero la barista. All’epoca inanellavo lavoretti precari mentendo sulla mia età. Un amico della casa famiglia in cui vivevo mi aveva falsificato i documenti per farmi diventare maggiorenne. Ero senza età, avrei potuto avere quattordici come venticinque anni. Mi vestivo solo in jeans e maglietta, avevo i capelli corti e orecchini dappertutto, pure nel naso. Ero esile, e mi truccavo gli occhi di nero per darmi un look alla Nina Hagen. Avevo smesso di andare a scuola, sapevo leggere e scrivere male, ma ero capace di fare i conti. Avevo già vissuto parecchie vite, e il mio unico obiettivo era lavorare per pagarmi un affitto e andarmene al più presto dalla casa famiglia. Poi avrei visto il da farsi. Nel 1985 l’unica cosa regolare che avevo erano i denti. Avere bei denti bianchi come le modelle delle riviste era stata la mia ossessione fin da piccola. Quando le educatrici venivano alla casa famiglia e mi domandavano se avessi bisogno di qualcosa chiedevo regolarmente una visita dal dentista, come se la mia vita e il mio futuro dipendessero dal sorriso che avrei avuto. Non avevo amiche, sembravo troppo un maschio. Mi ero affezionata ad alcune pseudosorelle, ma le ripetute separazioni e i cambi di famiglia mi avevano massacrato. Mai affezionarsi! Pensavo che portare i capelli rasati a zero mi avrebbe protetto, mi avrebbe dato il cuore e la grinta di un ragazzo, ma l’unico risultato era che le ragazze mi evitavano. Ero già stata a letto con qualche ragazzo per fare come tutti, ma niente di trascendente, era stata una delusione, non ci trovavo niente di allettante. Lo facevo tanto per darla a bere agli altri, o per ottenere in cambio un vestito, una stecca di fumo, un ingresso da qualche parte, una mano che stringesse la mia. Mi piaceva molto di più l’amore delle fiabe, quelle che nessuno mi aveva mai raccontato: “Si sposarono ed ebbero molti, molti, molti...”. Appoggiato al bar con in mano un bicchiere di whisky e cola senza ghiaccio, Philippe Toussaint osservava gli amici che ballavano sulla pista. Aveva una faccia d’angelo, una specie di Michel Berger a colori: lunghi riccioli biondi, occhi azzurri, pelle chiara, naso aquilino e una bocca di fragola... pronta per essere mangiata, una fragola di luglio ben matura. Indossava jeans, maglietta bianca e giubbotto nero. Era alto, ben piantato, perfetto. Appena l’ho visto il mio cuore ha fatto bum, come canta il mio immaginario zio acquisito Charles Trenet. Con me Philippe Toussaint avrebbe avuto tutto gratis, anche i bicchieri di whisky e cola. Non doveva fare niente per baciare le belle bionde che gli ronzavano intorno come mosche intorno a un pezzo di carne putrida. Aveva l’aria di fregarsene di tutto, lasciava che fossero gli altri a darsi da fare. Non alzava mai un dito per ottenere quello che voleva, ma soloper portarsi il bicchiere alle labbra tra un bacio fluorescente e l’altro. Mi dava le spalle. Di lui vedevo solo i boccoli biondi che con le luci da discoteca passavano dal verde al rosso al blu. Era più di un’ora che i miei occhi si gingillavano con i suoi capelli. Ogni tanto, chinandosi verso la bocca di una ragazza che gli sussurrava qualcosa all’orecchio, mi dava modo di osservarne il profilo perfetto. Poi si è girato verso il bar e il suo sguardo si è posato su di me per non staccarsene più. A partire da quel momento sono diventata il suo giocattolo preferito. Da principio ho pensato che si mostrasse interessato a me per le massicce quantità di alcol che gli mettevo gratis nel bicchiere. Servendolo facevo in modo che non mi vedesse le unghie mangiate, ma solo i denti bianchi perfettamente allineati. Aveva l’aria di un ragazzo di buona famiglia, ma per me, a parte i colleghi delle case famiglia, tutti sembravano ragazzi o ragazze di buona famiglia. Dietro di lui si era formato un ingorgo di squinzie come al casello dell’autostrada del Sole nei giorni di grande esodo, ma lui continuava a guardare me con occhi pieni di desiderio. Mi sono appoggiata al bancone, di fronte a lui, per essere sicura che stesse guardando proprio me. Gli ho messo una cannuccia nel bicchiere, poi ho alzato gli occhi. Sì, stava guardando me. «Vuole qualcos’altro?» gli ho chiesto. Non ho sentito la risposta. «Come?» ho gridato. Lui mi si è accostato all’orecchio e ha detto: «Te». Mi sono riempita un bicchiere di bourbon alle spalle del principale. Al primo sorso ho smesso di arrossire, al secondo mi sono sentita bene, al terzo ho trovato il coraggio di allungarmi verso il suo orecchio e rispondere: «Potremmo bere una cosa insieme, quando stacco». Ha sorriso. I suoi denti erano come i miei, bianchi e allineati. Quando Philippe Toussaint ha allungato il braccio al disopra del bancone per sfiorare il mio ho pensato che la mia vita sarebbe cambiata. Ho sentito la mia pelle indurirsi, come se avesse avuto un presentimento. Philippe Toussaint aveva dieci anni più di me, una differenza d’età che lo poneva in alto dandomi la sensazione di essere la farfalla che guarda la stella. 6 Poiché verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno Bussano delicatamente alla porta. Non sto aspettando nessuno, del resto è un pezzo che non aspetto più nessuno. Ci sono due porte d’ingresso a casa mia, una dalla parte del cimitero e l’altra dalla parte della strada. Éliane si mette ad abbaiare verso la porta sul lato strada. La sua padrona, Marianne Ferry (1953-2007), è sepolta nel settore delle Fusaggini. Éliane è arrivata qui il giorno del suo funerale e non se n’è più andata. Per le prime settimane le ho dato da mangiare sulla tomba della padrona, poi poco a poco mi ha seguito in casa. Nono l’ha battezzata Éliane come Isabelle Adjani in L’estate assassina, perché ha due begli occhi azzurri e la sua padrona è morta in agosto. In vent’anni ho avuto tre cani che sono arrivati qui insieme ai padroni e sono diventati miei per forza di cose, ma Éliane è l’unica che mi rimane. Bussano di nuovo. Non so se aprire. Sono appena le sette, sto prendendo il tè e spalmando le fette biscottate di burro salato e marmellata di fragole gentilmente offerta da Suzanne Clerc, il cui marito (1933-2007) riposa nel settore dei Cedri. Sto ascoltando musica. Ascolto sempre musica, tranne che nelle ore di apertura del cimitero. Mi alzo e spengo la radio. «Chi è?». Mi risponde una voce maschile un po’ titubante. «Mi scusi, signora, ho visto la luce accesa». Lo sento strofinare i piedi sullo zerbino. «Dovrei farle qualche domanda a proposito di una persona che è sepolta qui». Potrei dirgli di tornare alle otto, quando apro. «Mi dia dieci minuti e arrivo!». Salgo in camera e apro l’armadio inverno per prendere una vestaglia. Ho due guardaroba, uno lo chiamo “inverno” e l’altro “estate”, ma non c’entrano le stagioni, c’entrano le circostanze. L’armadio inverno contiene solo vestiti classici e scuri destinati agli altri, l’armadio estate solo vestiti chiari e colorati destinati a me stessa. Indosso l’estate sotto l’inverno, e quando sono sola mi tolgo l’inverno. Così mi infilo una vestaglia grigia imbottita sopra l’elegante vestaglietta di seta rosa e scendo ad aprire. Sulla porta c’è un uomo di una quarantina d’anni. Da principio ne vedo solo gli occhi neri che mi fissano. «Buongiorno, mi scusi se la disturbo a quest’ora». È ancora buio, fa freddo. Dietro di lui vedo che la notte ha depositato uno strato di brina. Dalla bocca gli escono nuvolette di vapore come se stesse fumando il giorno nascente. Odora di tabacco, cannella e vaniglia. Sono incapace di dire una parola. È come se ritrovassi una persona persa di vista da tempo. Penso che si è presentato troppo tardi, che se fosse arrivato vent’anni fa tutto sarebbe stato diverso. Forse lo penso perché sono anni che nessuno bussa a casa mia dal lato strada, a parte gli ubriachi. Tutti quelli che vengono a trovarmi arrivano dal cimitero. Lo faccio entrare, mi ringrazia un po’ imbarazzato. Gli offro un caffè. A Brancion-en-Chalon conosco tutti, anche gli abitanti che ancora non hanno defunti da me. Tutti sono passati almeno una volta dai vialetti del cimitero per il funerale di un amico, di un vicino o della madre di un collega. Lui non l’ho mai visto. Ha un leggero accento, c’è qualcosa di mediterraneo nel suo modo di calcare le parole. È molto bruno, così bruno che i rari capelli bianchi spiccano nel disordine di quelli neri. Ha il naso grosso, le labbra carnose e le borse sotto gli occhi. Somiglia un po’ a Gainsbourg. Si capisce che ha litigato col rasoio, ma non con la grazia. Ha belle mani, dita lunghe. Beve il caffè bollente a piccoli sorsi, ci soffia sopra e si riscalda le mani sulla porcellana della tazza. Continuo a non sapere perché è venuto. L’ho fatto entrare perché qui non è proprio casa mia. Questa stanza è di tutti, è come una sala d’attesa comunale che ho trasformato in soggiorno-cucina, appartiene alle persone di passaggio e agli habitué. Osserva i muri. I venticinque metri quadrati di stanza hanno lo stesso aspetto del guardaroba inverno. Niente alle pareti, niente tovaglia a colori o divano azzurro, niente di ostentato, solo mobili di compensato e sedie per sedersi, tazze bianche, la caffettiera sempre piena e superalcolici per i casi disperati. Qui accolgo lacrime, confidenze, rabbia, sospiri, disperazione e le risate dei necrofori. La camera da letto è al piano di sopra, è il mio retrobottega segreto, la mia vera casa. Camera e bagno sono due bomboniere pastello. Rosa cipria, verde mandorla e celeste: è come se avessi riportato i colori della primavera. Appena c’è un raggio di sole spalanco le finestre e, a meno di non avere una scala, dall’esterno non si vede niente. Nessuno è mai entrato in camera mia com’è oggi. Dopo che Philippe Toussaint è scomparso l’ho interamente ridipinta, ho aggiunto tende, merletti, mobili bianchi e un grande letto con un materasso svizzero che si modella sulle mie forme, in modo da non dover più dormire nella forma del corpo di Philippe Toussaint. Lo sconosciuto continua a soffiare nella tazza. «Vengo da Marsiglia» dice dopo un po’. «Conosce Marsiglia?». «Vado ogni anno a Sormiou». «Nella calanca?». «Sì». «Che combinazione!». «Non credo al caso». Sembra che cerchi qualcosa nella tasca dei jeans. I miei uomini non portano jeans. Nono, Elvis e Gaston sono sempre in tuta da lavoro, i fratelli Lucchini e padre Cédric in pantaloni di terital. Si toglie la sciarpa liberandosi il collo e posa la tazza vuota sul tavolo. «Neanch’io. Sono abbastanza razionale... E poi sono un commissario». «Come Colombo?». Mi risponde sorridendo per la prima volta. «Quello era ispettore». Posa l’indice su alcuni granelli di zucchero sparpagliati sul tavolo. «Mia madre desidera essere inumata qui e non so perché». «Abita in zona?». «No, a Marsiglia. È morta due mesi fa. Riposare qui fa parte delle sue ultime volontà». «Condoglianze. Vuole qualcosa di alcolico nel caffè?». «Ha l’abitudine di far ubriacare la gente la mattina presto?». «Capita. Come si chiamava sua madre?». «Irène Fayolle. Ha voluto essere cremata... e chiesto che le sue ceneri vengano posate sulla tomba di un certo Gabriel Prudent». «Gabriel Prudent?... Gabriel Prudent, 1931-2009. È sepolto nel settore dei Cedri, vialetto 19». «Conosce tutti i morti a memoria?». «Quasi». «Data del decesso, ubicazione e tutto il resto?». «Quasi». «Chi era Gabriel Prudent?». «Ogni tanto viene a trovarlo una donna... la figlia, credo. Era un avvocato. Sulla tomba di marmo nero non c’è epitaffio né fotografia. Non ricordo più il giorno in cui è stato seppellito, ma se vuole posso guardare nei registri». «Registri?». «Annoto tutte le sepolture e le esumazioni». «Non sapevo che rientrasse nei suoi incarichi». «Infatti non ci rientra, ma se uno facesse solo quel che rientra nei propri incarichi la vita sarebbe triste». «È strano sentire una cosa del genere dalla bocca di una... come si chiama il suo mestiere, guardacimiteri?». «Perché, pensa che pianga dalla mattina alla sera, che viva nelle lacrime e nel dolore?». Gli riempio di nuovo la tazza mentre lui mi domanda due volte: «Vive sola?». Alla fine rispondo di sì. Apro il cassetto dei registri e prendo quello del 2009. Cerco per cognome, e trovo subito Prudent Gabriel. Comincio a leggere. 18 febbraio 2009, esequie di Gabriel Prudent, pioggia torrenziale. Centoventotto persone presenti alla sepoltura, tra cui l’ex moglie e le due figlie, Marthe Dubreuil e Cloé Prudent. Su richiesta del defunto, niente fiori né corone. La famiglia ha fatto incidere una targa sulla quale si legge: In memoria di Gabriel Prudent, avvocato coraggioso. “Il coraggio per un avvocato è tutto. Se non c’è, il resto non conta. Tutto è utile all’avvocato, talento, cultura, conoscenza della legge, ma senza il coraggio al momento decisivo rimangono solo parole, frasi che si susseguono, brillano e muoiono” (Robert Badinter2). Niente prete, niente croce. Il corteo funebre si è trattenuto solo una mezz’ora. Quando gli addetti delle pompe funebri hanno finito di calare la bara nella fossa tutti se ne sono andati. Pioveva ancora molto forte. Chiudo il registro. Il commissario sembra frastornato, perso nei suoi pensieri. Si passa una mano tra i capelli. «Mi chiedo perché mia madre voglia riposare accanto a quest’uomo». Per un po’ osserva di nuovo le pareti bianche sulle quali non c’è niente da osservare. Poi si rivolge a me come se avesse qualche dubbio e indica con lo sguardo il registro del 2009. «Posso dare un’occhiata?». In genere faccio vedere i miei appunti solo alle famiglie interessate. Ci penso un attimo, poi glielo do. Si mette a sfogliarlo. Tra una pagina e l’altra mi scruta come se avessi scritte in fronte le parole dell’anno 2009, come se il registro che ha in mano fosse una scusa per guardarmi. «E lei fa questo per ogni defunto?». «Non tutti, ma quasi. Così quando quelli che non hanno potuto assistere al funerale vengono a trovarmi racconto loro qualcosa aiutandomi con gli appunti... Ha mai ucciso qualcuno? Per lavoro, voglio dire». «No».
«È armato?». «Certe volte sì. Stamattina no». «È venuto con le ceneri di sua madre?». «No. Per il momento sono al crematorio... Non mi va di posare le sue ceneri sulla tomba di uno sconosciuto». «Per lei sarà uno sconosciuto, per sua madre pare di no». Si alza. «Posso vedere la tomba di quest’uomo?». «Certo. Le dispiace ripassare fra una mezz’oretta? In genere non vado in giro per il cimitero in vestaglia». Sorride per la seconda volta lasciando il soggiorno-cucina. Automaticamente accendo la plafoniera. Non l’accendo mai quando una persona entra, solo quando esce, per rimpiazzare la sua presenza con un po’ di luce. Una vecchia abitudine da bambina abbandonata alla nascita. Mezz’ora dopo l’ho trovato che mi aspettava in macchina davanti al cancello. Ho visto la targa: 13, dipartimento Bouches-du-Rhône. Doveva essersi addormentato contro la sciarpa, la guancia era segnata, come sgualcita. Mi ero messa un cappotto blu marine sopra un vestito rosso carminio. Il cappotto era abbottonato fino al collo. Sembravo la notte, ma sotto indossavo il giorno. Sarebbe bastato che mi aprissi un po’ il cappotto per fargli sbattere di nuovo gli occhi. Abbiamo camminato nei vialetti. Gli ho detto che il cimitero era diviso in quattro settori: Allori, Fusaggini, Cedri e Tassi, due colombari e due giardini del ricordo. Mi ha chiesto se facevo questo lavoro da molto tempo. «Vent’anni» ho risposto, e ho aggiunto che prima ero guardiana di passaggio a livello. Mi ha domandato che effetto faceva passare dai treni ai carri funebri. Non ho saputo che rispondere, erano successe troppe cose tra l’una e l’altra vita. Ho solo pensato che faceva domande ben strane per essere un commissario razionale. Quando siamo arrivati alla tomba di Gabriel Prudent è impallidito, come se si trovasse davanti alla lapide di un uomo di cui non aveva mai sentito parlare, ma che avrebbe tranquillamente potuto essere un padre, uno zio, un fratello. Siamo rimasti a lungo lì fermi. Faceva talmente freddo che a un certo punto ho cominciato ad alitarmi sulle mani per riscaldarle. Di solito non mi trattengo mai con i visitatori, li accompagno e me ne vado, ma non so perché in quel caso mi era impossibile lasciarlo solo. Dopo qualche minuto che mi è sembrato un’eternità ha detto che si rimetteva in macchina per tornare a Marsiglia. Gli ho chiesto quando pensava di venire a lasciare le ceneri della madre sulla tomba del signor Prudent. Non mi ha risposto. 2 Avvocato e uomo politico francese, più volte ministro della Giustizia, paladino dell’abolizione della pena di morte in Francia sancita nel 1981. 7 Mancherà sempre qualcuno per far sorridere la mia vita: tu Sto rinvasando dei fiori sulla tomba di Jacqueline Victor coniugata Dancoisne (1928-2008) e Maurice René Dancoisne (1911-1997). Sono due belle eriche bianche, sembrano pezzi di falesia in vaso, tra i pochi fiori che resistano all’inverno, insieme ai crisantemi e alle piante grasse. La signora Dancoisne amava i fiori bianchi. Veniva ogni settimana sulla tomba del marito. Facevamo quattro chiacchiere, ma non da subito, verso la fine, dopo che si era un po’ abituata alla perdita del suo Maurice. Nei primi anni era devastata. Il dolore toglie la parola. Oppure fa dire sciocchezze. Poco a poco aveva ritrovato la strada per comporre frasi semplici, chiedere notizie degli altri, notizie dei vivi. Non so perché si dica “sulla tomba”, bisognerebbe dire “sul bordo della tomba” o “accanto alla tomba”. A parte l’edera, le lucertole, i gatti e i cani, nessuno sale su una tomba. La signora Dancoisne ha raggiunto il marito dall’oggi al domani. Un lunedì era qui a pulire la lapide del suo amato e il giovedì mettevo dei fiori accanto alla sua. Da quando è stata seppellita i figli vengono a trovarla una volta all’anno, e per il resto del tempo hanno chiesto a me di occuparmene. Mi piace mettere le mani nella terra dell’erica, anche se è mezzogiorno e il sole pallido di ottobre stenta a riscaldare. Per quanto congelate, le mie dita se la godono, esattamente come quando le tuffo nella terra del mio orto. A pochi metri da me Gaston e Nono stanno scavando una fossa e raccontandosi la serata. Da dove mi trovo, a seconda di come tiri il vento sento frammenti di conversazione. «Ha detto mia moglie... alla televisione... pruriti... sarebbe meglio che non... dovrebbe passare il capo... un’omelette da Violette... l’ho conosciuto... una brava persona... con i capelli crespi, vero?... Sì, doveva avere la nostra età... gentile... la moglie... smorfiosa... canzone di Brel... non bisogna fare i ricchi se non si ha un soldo... una voglia di pisciare... fifa... prostata... fare la spesa prima che chiuda... uova per Violette... se non è iella questa...». Domani alle quattro c’è una sepoltura. Il cimitero avrà un nuovo residente, un uomo di cinquantacinque anni morto per aver fumato troppo. Almeno è quanto dicono i medici. Non dicono mai che un uomo di cinquantacinque anni può morire per non essere stato amato, per non essere stato sentito, per aver ricevuto troppi conti da pagare, per aver fatto troppi debiti con le banche, per aver visto i figli crescere e poi andarsene senza neanche salutare, per una vita di rimproveri e musi lunghi in cui la sigarettina o la cannetta per sciogliere il nodo allo stomaco ci stavano proprio bene. Nessuno dice mai che si può morire per averne avuto troppo spesso le palle piene. Un po’ più in là due esili vedove, la signora Pinto e la signora Degrange, stanno pulendo le tombe dei loro mariti. E siccome vengono qui ogni giorno sono costrette a inventarsi che ci sia qualcosa da pulire. Intorno a quelle tombe c’è la stessa pulizia di un negozio di fai da te che espone rivestimenti per pavimenti. Le persone che vengono a visitare le tombe ogni giorno: quelle sì che sembrano davvero fantasmi, che stanno tra la vita e la morte. La signora Pinto e la signora Degrange sono esili come passerotti alla fine dell’inverno, come se a farle mangiare fossero stati i loro mariti finché erano ancora in vita. Le conosco da quando lavoro qui. Sono più di vent’anni che ogni mattina, andando a fare la spesa, fanno una deviazione per il cimitero, neanche fosse un passaggio obbligato. Non capisco se sia amore o sottomissione o tutti e due, se lo facciano per le apparenze o per affetto. La signora Pinto è portoghese. E, come la maggior parte dei portoghesi che vivono a Brancion, d’estate va in Portogallo. La rimpatriata le dà un bel daffare: ai primi di settembre, quando torna, è sempre magra come al solito, ma con la pelle abbronzata e le ginocchia piene di graffi per aver pulito le tombe di quelli che sono morti al paese. In sua assenza innaffio io i fiori francesi, così per ringraziarmi mi regala una bambolina in abito folcloristico in una scatola di plastica. Ogni anno ricevo una bambolina, e ogni anno dico: «Grazie, signora Pinto, non doveva, per me accudire i fiori è un piacere, non un lavoro». In Portogallo esistono centinaia di costumi folcloristici, quindi se la signora Pinto vive altri trent’anni, e io pure, avrò trenta nuove spaventose bamboline che chiudono gli occhi quando, per spolverare, metto per lungo le scatole che fungono da sarcofago. Dato che di quando in quando la signora Pinto passa da me non posso nascondere le bamboline che mi regala, però non le voglio in camera né posso metterle nella stanza dove la gente viene a cercare conforto, sono troppo brutte. Allora le “espongo” sui gradini della scala che va al piano di sopra, scala che è dietro una porta a vetri e si vede dalla cucina. Quando viene a prendere un caffè da me la signora Pinto le guarda per controllare che siano al loro posto. D’inverno, quando fa buio alle cinque e vedo gli occhietti neri che brillano e i costumini fruscianti, me le immagino che escono dalle scatole per sgambettarmi e farmi cadere dalle scale. Ho notato che, diversamente da altri, la signora Pinto e la signora Degrange non si rivolgono mai ai mariti, puliscono in silenzio, come se avessero smesso di parlare con loro molto prima che morissero, come se quel silenzio fosse una continuità. Neppure piangono. I loro occhi sono asciutti da lustri. Certe volte si incontrano e parlano del tempo, dei figli, dei nipoti e presto, si rende conto signora mia, anche dei bisnipoti. Le ho viste ridere una sola, minima volta, quando la signora Pinto ha raccontato all’altra che la nipote le aveva chiesto: «Nonna, cos’è Ognissanti? Vacanze?». 8 Che il tuo riposo sia sereno come il tuo cuore fu buono 22novembre 2016, cielo azzurro, dieci gradi, ore 16. Sepoltura di Thierry Teissier (1960-2016). Bara di mogano. Niente marmo. Tomba scavata direttamente in terra. Presenti una trentina di persone tra cui io, Nono, Elvis e Pierre Lucchini. Una quindicina di colleghi di Thierry Teissier della fabbrica DIM ha deposto un fascio di gigli: Al nostro caro collega. Una dipendente del reparto oncologico di Mâcon, una certa Claire, ha in mano un mazzo di rose bianche. Sono presenti anche la moglie del defunto e i due figli, un maschio e una femmina rispettivamente di trenta e ventisei anni. Su una targa commemorativa hanno fatto incidere: A nostro padre. Nessuna fotografia di Thierry Teissier. Su un’altra targa è scritto A mio marito con una piccola capinera disegnata sopra la parola “marito”. Una grande croce d’ulivo è stata piantata nella terra. Tre compagni di scuola leggono un po’ per uno una poesia di Jacques Prévert.
Un villaggio ascolta desolato
Il canto di un uccello ferito
È il solo uccello del villaggio
E il solo gatto del villaggio
L’ha per metà divorato
E l’uccello smette di cantare
Il gatto smette di fare le fusa
E di leccarsi il muso
E il villaggio fa all’uccello
Un meraviglioso funerale
E il gatto che è invitato
Segue la piccola bara di paglia
In cui è disteso l’uccello morto Portata da una bimba
Che piange a dirotto
Se avessi immaginato che ti sarebbe dispiaciuto tanto
Le dice il gatto L’avrei mangiato tutto quanto
E poi ti avrei raccontato
Di averlo visto volare via
Volare fino in capo al mondo Là dov’è talmente lontano
Che mai nessuno ne torna
Saresti stata meno addolorata Soltanto un po’ di tristezza e di rimpianti
Non si devono mai fare le cose a metà!
Prima che il feretro venga calato nella fossa prende la parola padre Cédric. «Ricordiamo le parole di Gesù alla sorella di Lazzaro appena morto: “Io sono la resurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà”». Claire posa il mazzo di rose bianche accanto alla croce. Tutti vanno via insieme. Non conoscevo quell’uomo, ma il modo in cui alcuni hanno guardato la sua tomba mi fa pensare che fosse buono.
La sua bellezza e la sua giovinezza sorridevano al mondo nel quale avrebbe vissuto. Poi dalle sue mani è caduto il libro in cui non ha letto niente Ci sono più di mille fotografie distribuite in tutto il cimitero. Foto in bianco e nero, seppia, dai colori vividi o sbiaditi. Il giorno in cui sono state scattate nessuno degli uomini, donne, o bambini che posavano innocentemente davanti all’obiettivo poteva pensare che quell’istante lo avrebbe immortalato per l’eternità. Sono foto di un compleanno o di un pranzo in famiglia, di una passeggiata al parco la domenica, di un matrimonio, di un ballo della scuola, di un Capodanno, di un giorno in cui erano un po’ più belli o tutti riuniti, un giorno speciale in cui erano più eleganti, o magari in divisa militare, in abito da comunione, da battesimo. C’è solo innocenza negli sguardi di quella gente che sorride sulla propria tomba. Spesso, il giorno prima di una sepoltura, sul giornale esce un articolo che riassume in poche parole la vita del defunto. Frasi brevi, una vita non occupa molto spazio nel giornale locale. Leggermente di più se si tratta di un negoziante, un medico o un allenatore di calcio. È importante mettere la foto sulla tomba, altrimenti è solo un nome, la morte si porta via anche i volti. Anna Lave coniugata Dahan (1914-1987) e Benjamin Dahan (1912-1992) sono la coppia più bella del cimitero. Si vedono su una foto colorizzata scattata il giorno del loro matrimonio, negli anni Trenta. Due facce meravigliose sorridono al fotografo: lei bionda come un sole, con la pelle diafana, lui col viso sottile, quasi intagliato, ed entrambi con occhi brillanti come zaffiri stellati. Due sorrisi che loro donano all’eternità. A gennaio pulisco con un cencio le fotografie del cimitero, ma solo sulle tombe abbandonate o poco curate. Uso uno strofinaccio bagnato d’acqua con una goccia di alcol denaturato. Faccio la stessa cosa sulle targhe funerarie, ma con lo strofinaccio imbevuto di aceto bianco. La pulizia delle foto mi porta via cinque o sei settimane. Quando Nono, Gaston o Elvis si offrono di aiutarmi rispondo di no, che hanno già abbastanza da fare con la manutenzione generale. Non l’ho sentito arrivare. Non mi capita spesso, in genere individuo subito i passi della gente sulla ghiaia, riesco anche a capire se si tratta di un uomo, una donna o un bambino, di uno che passa per caso o di un visitatore abituale. Lui però si muove senza fare rumore. Quando sento il suo sguardo alle mie spalle sto pulendo le nove facce della famiglia Hesme: Étienne (1876-1915), Lorraine (1887-1928), Françoise (1949-2000), Gilles (1947-2002), Nathalie (1959-1970), Théo (1961-1993), Isabelle (1969-2001), Fabrice (1972-2003) e Sébastien (1974-2011). Mi volto. È controsole, non lo riconosco subito. Capisco che è lui dalla voce, dal suo «Buongiorno» e, subito dopo la voce, con due o tre secondi di ritardo, dall’odore di cannella e vaniglia che emana. Non credevo che sarebbe tornato. Sono passati più di due mesi da quando mi ha bussato alla porta del lato strada. Sento che il mio cuore si agita un po’ e mi consiglia di stare attenta. Da quando Philippe Toussaint è scomparso nessun uomo mi ha fatto battere il cuore. Da dopo Philippe Toussaint il mio cuore non ha più cambiato ritmo, è come un vecchio orologio che ticchetta distrattamente. Tranne il giorno dei morti, in cui le pulsazioni si accelerano. Mi capita di vendere anche cento vasi di crisantemi, in più devo fare da guida ai numerosi visitatori occasionali che si perdono nei vialetti. Stamattina però, benché non sia il giorno dei morti, il mio cuore si agita. A causa sua. Credo di percepire paura, la mia. Ho ancora lo strofinaccio in mano. Il commissario osserva le facce che sto lucidando e mi fa un timido sorriso. «Sono persone della sua famiglia?». «No, soltanto manutenzione delle tombe». Non sapendo cosa fare delle parole che mi rimbalzano in testa aggiungo: «Nella famiglia Hesme si muore giovani, come se fossero allergici alla vita o la vita non volesse saperne di loro». Annuisce, si tira su il bavero del cappotto e dice sorridendo: «Fa un bel freddo nel vostro paese». «Di sicuro più che a Marsiglia». «Ci va quest’estate?». «Sì, come tutte le estati. Vado a trovare mia figlia». «Vive a Marsiglia?». «No, viaggia un po’ dappertutto». «Cosa fa?». «La prestigiatrice. Professionale». Come per interromperci un giovane merlo si posa sulla tomba della famiglia Hesme e si mette a cantare a squarciagola. Mi è passata la voglia di lucidare le facce. Rovescio l’acqua nella ghiaia e metto nel secchio strofinacci e alcol denaturato. Chinandomi mi si apre un po’ il cappotto grigio lasciando intravedere un lembo del mio grazioso vestito a fiori rosso carminio. Vedo che la cosa non sfugge al commissario. Non mi guarda come gli altri, nei suoi occhi c’è qualcosa di diverso. Per distogliere la sua attenzione da me gli ricordo che se vuole lasciare le ceneri della madre sulla tomba di Gabriel Prudent dovrà chiedere l’autorizzazione alla famiglia. «Non c’è bisogno. Prima di morire Gabriel Prudent ha comunicato al comune che mia madre avrebbe riposato qui con lui... Avevano previsto tutto». Sembra imbarazzato. Si massaggia le guance non rasate. Non gli vedo le mani, ha i guanti. Mi fissa un po’ troppo a lungo. «Vorrei che lei organizzasse qualcosa per il giorno in cui deporrò le ceneri di mia madre, qualcosa che somigli a una festa senza esserlo». Il merlo vola via. È stato spaventato da Éliane che si strofina contro di me elemosinando una carezza. «Ah, ma non spetta a me. Per queste cose deve rivolgersi ai fratelli Lucchini: pompe funebri Tourneurs du Val, in rue de la République». «Le pompe funebri servono per i funerali. Io vorrei solo che mi aiutasse a fare un piccolo discorso il giorno in cui lascerò le ceneri sulla tomba di questo tizio. Non ci sarà nessuno, solo io... Vorrei dire qualcosa che rimanga fra me e mia madre». Si accovaccia per accarezzare a sua volta Éliane. Guarda lei mentre parla con me. «Ho visto che sui suoi registri... insomma, sui quaderni delle sepolture, non so come li chiama... ha trascritto alcuni discorsi. Pensavo che potrei attingere qua e là dai discorsi degli altri... e metterne insieme uno per mia madre». Si passa una mano fra i capelli. Li ha più grigi dell’altra volta, o forse è solo la luce diversa. Oggi il cielo è azzurro e la luce bianca. La prima volta che l’ho visto il cielo era nuvolo. Ci passa accanto la signora Pinto. «Buongiorno, Violette» dice squadrando diffidente il commissario. In questo paese appena uno sconosciuto varca una porta, un cancello o un portico viene guardato con diffidenza. «Alle quattro ho una sepoltura, venga da me stasera dopo le sette nella casa del guardiano. Scriveremo qualcosa insieme». Sembra sollevato, liberato da un peso. Prende in tasca il pacchetto di sigarette, se ne mette in bocca una senza accenderla e mi domanda dov’è l’albergo più vicino. «A venticinque chilometri da qui. In alternativa, subito dietro la chiesa troverà una casetta con le persiane rosse. È della signora Bréant, fa l’affittacamere. Ne ha una sola, ma è sempre libera». Ha smesso di ascoltarmi, ha lo sguardo altrove, è perso nei suoi pensieri. «Brancion-en-Chalon...» dice poi. «Non è successo qualcosa di tragico, qui?». «Tragedie ce ne sono dappertutto, qui intorno. Ogni defunto è la tragedia di qualcuno». Sembra frugare nella memoria senza trovare quello che cerca. Si soffia sulle mani, mormora: «A dopo» e «Grazie mille», poi va verso il cancello percorrendo il viale centrale. I suoi passi sono sempre silenziosi. La signora Pinto mi ripassa accanto per riempire l’innaffiatoio. Dietro di lei Claire, la donna del reparto oncologico di Mâcon, si dirige verso la tomba di Thierry Teissier tenendo in mano una rosa in vaso. La raggiungo. «Buongiorno, signora, vorrei piantare questa rosa sulla tomba del signor Teissier». Chiamo Nono, che è nel suo ufficetto. I necrofori hanno un locale in cui si cambiano, fanno la doccia mattina e sera e lavano i vestiti da lavoro. Nono dice che l’odore di morte non può attaccarsi ai vestiti, ma che nessun detersivo può impedirgli di depositarsi all’interno della sua testa. Mentre Nono scava nel punto in cui Claire vuole piantare la rosa Elvis canta: «Always on my mind, always on my mind...». Nono mette nella buca un po’ di torba e un tutore perché la pianta cresca dritta. Dice a Claire che ha conosciuto Thierry e che era un brav’uomo. Claire voleva darmi dei soldi perché innaffiassi la rosa di Thierry di quando in quando. Le ho detto che l’avrei fatto, ma che non prendevo soldi. Se voleva poteva infilare qualcosa nel salvadanaio a forma di coccinella che sta in cucina da me, sul frigorifero. Le donazioni erano destinate a comprare il cibo per gli animali del cimitero. «Va bene» ha detto. Ha aggiunto che di solito non andava mai ai funerali dei pazienti del suo reparto, che era la prima volta, ma che Thierry Teissier era troppo gentile per finire sottoterra senza niente intorno, così aveva scelto una pianta di rose rosse per ciò che significava e le sarebbe piaciuto se Thierry avesse continuato a vivere attraverso i fiori. Ha concluso dicendo che le rose gli avrebbero tenuto compagnia. L’ho condotta a una delle più belle tombe del cimitero, quella di Juliette Montrachet (1898-1962), sulla quale sono cresciute piante e arbusti di vario tipo che mescolano colori e fogliame in maniera armoniosa senza che nessuno le curi. Una tomba giardino, come se il caso e la natura si fossero messi d’accordo in via amichevole. «Questi fiori sono un po’ come scale verso il cielo» ha detto Claire, poi mi ha ringraziato. Ha bevuto un bicchiere d’acqua da me, ha infilato qualche banconota nel salvadanaio coccinella e se n’è andata. 10 Parlare di te significa farti esistere, non dire niente sarebbe dimenticarti Ho conosciuto Philippe Toussaint il 28 luglio 1985, lo stesso giorno in cui è morto Michel Audiard, sceneggiatore immenso. Forse è per questo che io e Philippe Toussaint non abbiamo mai avuto granché da dirci. I nostri dialoghi erano piatti come l’encefalogramma di Tutankhamon. Quando mi ha detto: «Ce lo andiamo a bere da me, questo bicchiere?» io ho subito risposto: «Sì». Prima di uscire dal Tibourin ho sentito su di me lo sguardo delle altre ragazze, quelle della fila dietro di lui che non aveva smesso di allungarsi da quando aveva girato loro le spalle per guardare me. Quando la musica si è fermata ho sentito i loro occhi truccatissimi fulminarmi, lanciarmi malefici, condannarmi a morte. Neanche il tempo di rispondere di sì ed ero già sulla sua moto con un casco troppo grande in testa e la sua mano posata sul mio ginocchio sinistro. Ho chiuso gli occhi. Si è messo a piovere. Ho sentito le gocce sul mio viso. A Cherleville-Mézières i genitori gli pagavano l’affitto di un monolocale in centro. Mentre salivamo le scale ho continuato a nascondermi nelle maniche le unghie rosicchiate. Appena siamo entrati si è gettato su di me senza dire una parola. Anch’io sono rimasta in silenzio. Philippe Toussaint era bello da mozzare il fiato. Come in quinta elementare, quando la maestra ci aveva fatto una lezione su Picasso e il suo periodo blu: i quadri che ci indicava su un libro con il righello mi avevano mozzato il fiato e avevo deciso che il resto della mia vita sarebbe stato blu. Ho dormito a casa sua stordita da quanto il mio corpo aveva goduto. Era la prima volta che mi piaceva fare l’amore e non chiedevo qualcosa in cambio. Ho sperato che lo facessimo di nuovo, e così è stato. Non me ne sono andata, ho continuato a dormire da lui uno, due, tre giorni. Poi tutto si confonde, le giornate si appiccicano le une alle altre come un treno di cui la mia memoria non distingue più i vagoni. Resta solo il ricordo del viaggio. Philippe Toussaint aveva fatto di me una contemplativa, una bambina piena di meraviglia che guardava la fotografia patinata di un biondo con gli occhi azzurri pensando: “Quest’immagine mi appartiene, posso mettermela in tasca”. Passavo ore ad accarezzarlo, avevo sempre una mano che vagava da qualche parte su di lui. Si dice che la bellezza non si mangia, ma io la divoravo come antipasto, piatto forte e dolce. E se avanzava facevo il bis. Lui non si opponeva. Sembrava che gli piacessi e gli piacessero i miei gesti. Mi possedeva, per me era la cosa più importante. Mi sono innamorata, e per fortuna che non avevo mai avuto una famiglia, sennò stavolta sarei stata io ad abbandonarla. Philippe Toussaint è diventato il mio unico centro d’interesse, ho concentrato su di lui tutto ciò che ero e che avevo, tutto il mio essere su un’unica persona. Se avessi potuto abitare dentro di lui non ci avrei pensato due volte. «Vieni a vivere qui» mi ha detto una mattina. Non ha aggiunto altro, ha solo detto: «Vieni a vivere qui». Ho lasciato la casa famiglia di nascosto, visto che non ero ancora maggiorenne, e mi sono trasferita da Philippe Toussaint con tutto quello che possedevo, cioè ben poco, qualche vestito e Caroline, la mia prima bambola. Quando me l’avevano regalata parlava (“Buongiorno, mamma, mi chiamo Caroline, vieni a giocare con me” e si metteva a ridere), ma le pile scariche, i circuiti bagnati, i trasferimenti, le famiglie affidatarie, le assistenti sociali e le educatrici specializzate avevano mozzato il fiato pure a lei. Avevo anche alcune foto di classe, quattro trentatré giri, due di Étienne Daho (Mythomane e La notte, la notte), uno di Indochine (3) e uno di Charles Trenet (La Mer), cinque album di Tintin (Il loto blu, I gioielli della Castafiore, Lo scettro di Ottokar, Tintin e i Picaros e Il tempio del sole) e l’astuccio che avevo usato durante la poca scuola che avevo frequentato, con le firme a penna biro di tutti gli altri somari (Lolo, Sika, So, Stéph, Manon, Isa e Angelo). Philippe Toussaint ha spostato qualcosa per fare posto alla mia roba, poi ha detto: «Sei proprio una ragazza strana». E io ho risposto: «Facciamo l’amore?». Non avevo voglia di fare conversazione. Non ho mai avuto voglia di fare conversazione con lui. 11 Culla il suo riposo col tuo canto più dolce Una mosca sta nuotando nel bicchierino di porto. La salvo e la poso sul davanzale. Chiudendo la finestra lo vedo risalire la strada a piedi, col cappotto che riflette la luce dei lampioni. La strada che porta al cimitero è fiancheggiata da alberi. In basso si trova la chiesa di padre Cédric, e dietro la chiesa le poche vie del centro città. Il commissario cammina veloce, sembra intirizzito dal freddo. Come ogni sera ho voglia di stare sola, non parlare con nessuno, leggere, ascoltare la radio, fare un bagno, chiudere le finestre, avvolgermi in un kimono di seta rosa. Stare bene e basta. Una volta chiuso il cancello il tempo è mio, ne sono l’unica proprietaria. È un lusso essere proprietari del proprio tempo, lo ritengo uno dei più grandi lussi che l’essere umano possa concedersi. Ho ancora addosso l’inverno sull’estate, mentre di solito a quest’ora indosso solo l’estate. Rimpiango un po’ di aver detto al commissario di passare da me, di avergli offerto il mio aiuto. Bussa, come la prima volta. Éliane non si muove, per lei è già cominciata la notte, sta appallottolata tra le innumerevoli coperte della sua cesta. Mi sorride, dice buonasera. Insieme a lui entra un freddo secco. Chiudo subito la porta e gli avvicino una sedia perché si sieda. Non si toglie il cappotto. Buon segno, vuol dire che non intende fermarsi a lungo. Senza chiedergli niente prendo un bicchiere di cristallo e gli verso un po’ del mio porto annata 1983, quello che mi porta José-Luis Fernandez. Vedendo la collezione di bottiglie allineate nel mobile che funge da bar sgrana i grandi occhi neri. Ce ne sono centinaia. Vincotti, malti, liquori, acquaviti, alcolici vari. «Non faccio traffico clandestino di liquori, sono regali. La gente non osa portarmi fiori. Non si regalano fiori ai guardiani di cimitero, tanto più che io li vendo. A parte la signora Pinto, che ogni anno si presenta con una bambolina sotto vuoto, gli altri regalano bottiglie o vasetti di marmellata. Mi ci vorrebbero parecchie vite per ingurgitare tutto quello che mi danno, così molte cose le regalo ai necrofori». Si toglie i guanti e beve un sorso di porto. «Sta bevendo la cosa migliore che ho». «Divino». Non so perché, ma non mi sarei mai immaginata che potesse pronunciare la parola “divino” sorseggiando il mio porto. A parte i capelli che gli vanno in tutte le direzioni, non c’è fantasia in lui, ha l’aria triste come i vestiti che porta. Prendo carta e penna, mi siedo di fronte a lui e lo invito a parlarmi della madre. Sembra pensarci un attimo, poi inspira profondamente e dice: «Era bionda. Bionda naturale». E basta. Si rimette a osservare le pareti bianche come se ci fossero appesi capolavori. Ogni tanto si porta il bicchiere alle labbra e beve un sorsetto. Vedo che lo sta degustando, e che si rilassa man mano che beve. «Non ho mai saputo fare i discorsi. Penso e parlo come un rapporto di polizia o un documento d’identità. So dirle se una certa persona ha una cicatrice, un neo, un’escrescenza... se beve, le sue misure... A colpo d’occhio sono in grado di sapere statura, peso, colore degli occhi e della pelle e segni particolari di un individuo, ma sono incapace di capire quel che prova... a meno che non abbia qualcosa da nascondere...». Ha finito il bicchiere. Glielo riempio subito e taglio qualche fetta di formaggio che dispongo in un piattino di porcellana. «Ho fiuto per quel che riguarda i segreti. Sono un vero segugio... individuo subito il gesto che tradisce. Cioè, così credevo prima di scoprire le ultime volontà di mia madre». Il mio porto fa lo stesso effetto a tutti, agisce come un siero della verità. «Lei non beve?». Me ne verso una lacrima e brindo con lui. «Tutto qui?». «Sono guardiana di cimitero, bevo solo lacrime... Potremmo parlare delle passioni che aveva sua madre, e non mi riferisco necessariamente al teatro o al salto alla corda, ma al suo colore preferito, al posto in cui le piaceva passeggiare, la musica che ascoltava, i film che guardava, se aveva gatti, cani, alberi, come passava il tempo, se le piacevano la pioggia, il vento o il sole, qual era la sua stagione preferita...». Rimane silenzioso a lungo. Sembra che stia cercando le parole come un escursionista perduto cerca la strada. Finisce il bicchiere e dice: «Le piacevano la neve e le rose». E stop. Non ha altro da dire su di lei. Sembra smarrito, a disagio, come se mi avesse confessato di essere affetto da una malattia rara, quella di non saper parlare di uno dei suoi familiari. Mi alzo e vado all’armadio dei registri. Prendo quello del 2015 e lo apro alla prima pagina. «È un discorso scritto il primo gennaio 2015 per Marie Géant. La nipote non è potuta venire al funerale perché era all’estero per lavoro. L’ha spedito a me pregandomi di leggerlo durante la cerimonia. Porti il registro con sé, legga il discorso, prenda qualche appunto e domattina me lo rende». Si alza e si mette il registro sottobraccio. È la prima volta che un registro esce da casa mia. «Grazie, grazie di tutto». «Dorme dalla signora Bréant?». «Sì». «Ha cenato?». «La signora Bréant mi ha preparato qualcosa». «Torna a Marsiglia domani?». «Sì, alle prime luci dell’alba. Le riporterò il registro prima di partire». «Lo lasci sul davanzale della finestra, dietro la fioriera blu». 12 Dormi, nonna, dormi, e che tu possa ancora sentire le nostre risate infantili dall’alto del cielo DISCORSO PER MARIE GÉANT Non sapeva camminare, correva. Non stava ferma un attimo, gambottava. “Gambottare” è un’espressione dell’est della Francia. “Smettila di gambottare” vuol dire “Siediti una buona volta”. Ebbene, è successo, si è seduta una volta per tutte. Andava a dormire presto e si svegliava alle cinque del mattino. Per non fare la fila era la prima ad arrivare nei negozi. Aveva un sacrosanto orrore delle file. Alle nove, con la sua sporta a rete, aveva già fatto le spese per la giornata. È morta nella notte fra il 31 dicembre e il primo gennaio, un giorno festivo, dopo che per tutta la vita aveva sfacchinato. Spero che non abbia dovuto fare troppa fila davanti alle porte del paradiso, con tutti i festaioli che si schiantano in macchina la notte di Capodanno. Per le vacanze, su mia richiesta mi faceva trovare due ferri da maglia e un gomitolo di lana. Non sono mai andata oltre i dieci ferri. Immaginando di mettere le annate una dietro l’altra devo aver fatto una sciarpa che mi avvolgerà intorno al collo quando la raggiungerò in paradiso. Sempre che mi meriti il paradiso. Al telefono si annunciava dicendo «Sono la nonnetta», e rideva. Ogni settimana scriveva lettere ai figli, tutti lontani. Scriveva come pensava. A ogni compleanno, Natale, Pasqua e festa comandata mandava pacchetti e assegni ai suoi “cocchi”. Per lei tutti i bambini erano “cocchi”. Le piacevano la birra e il vino. Faceva il segno della croce sul pane prima di tagliarlo. Diceva spesso «Gesummaria», era come una punteggiatura, un punto che metteva alla fine di ogni frase. Sulla sua credenza c’era una grossa radio che restava accesa tutta la mattina. Siccome è rimasta vedova molto presto ho spesso pensato che la voce maschile degli speaker le tenesse compagnia. Da mezzogiorno in poi la televisione dava il cambio alla radio, per ammazzare il silenzio. Guardava tutti i quiz più cretini e finiva per addormentarsi davanti a Febbre d’amore. Commentava ogni battuta dei personaggi come se esistessero davvero. Due o tre anni prima della caduta che l’ha costretta a lasciare il suo appartamento e trasferirsi in una casa di riposo le hanno rubato dalla cantina ghirlande e palle di Natale. Mi ha telefonato in lacrime, come se le avessero rubato tutti i Natali della sua vita. Cantava spesso, molto spesso. Anche alla fine della vita diceva: «Ho voglia di cantare». Diceva pure: «Ho voglia di morire». Andava a messa tutte le domeniche. Non buttava niente, meno che mai gli avanzi. Li riscaldava e li mangiava. Certe volte stava male a forza di mangiare e rimangiare la stessa cosa finché non ce n’era più, ma preferiva vomitare pur di non buttare un tozzo di pane nella spazzatura. Scampoli di guerra nello stomaco, presumo. Comprava vasetti di senape decorati che teneva per i nipotini, i suoi cocchi, quando andavano in vacanza da lei. Sul fornello c’era sempre una pentola di ghisa in cui cuoceva a fuoco lento qualcosa di buono. Una gallina al riso le durava una settimana. Metteva da parte il brodo per le cene. Sui fornelli c’era anche una padella con due o tre cipolle o una salsetta che faceva venire l’acquolina in bocca. Ha sempre vissuto in affitto, non ha mai posseduto una casa. L’unica cosa di sua proprietà era la tomba di famiglia. Quando sapeva che stavamo arrivando per le vacanze ci aspettava alla finestra della cucina scrutando le macchine che si fermavano nel piccolo parcheggio in basso. Vedevamo i suoi capelli bianchi dietro la finestra. Appena arrivati ci diceva: «Quand’è che tornate a trovare la vostra nonnetta?», come se volesse che ripartissimo. Gli ultimi anni non ci aspettava più. Se avevamo la sfortuna di arrivare alla casa di riposo con cinque minuti di ritardo per portarla al ristorante la trovavamo a mensa con gli altri vecchi. Dormiva con una retina sulla testa per non sciuparsi la messa in piega. Ogni mattina beveva un bicchiere d’acqua tiepida con un limone spremuto dentro. Aveva un copriletto rosso. È stata la madrina di guerra di mio nonno Lucien. Quando è tornato da Buchenwald non l’ha riconosciuto. Sul comodino aveva una fotografia di nonno Lucien, poi anche la fotografia l’ha seguita alla casa di riposo. Mi piaceva un sacco mettermi le sue sottovesti di nylon. Siccome comprava tutto per posta riceveva una quantità di omaggi, cianfrusaglie di ogni genere. Appena arrivavo a casa sua le chiedevo se potevo andare a frugare nell’armadio. «Come no, vai» diceva, e io rovistavo per ore, trovavo messali, creme Yves Rocher, stoffe, soldatini di piombo, gomitoli di lana, vestiti, foulard, spille, bambole di porcellana. Aveva la pelle delle mani rugosa. Qualche volta le ho fatto la messa in piega. Per risparmiare non faceva scorrere l’acqua quando sciacquava le stoviglie. Negli ultimi tempi, riferendosi alla casa di riposo, diceva: «Che ho fatto al buon Dio per ritrovarmi qui?». Ho cominciato a non dormire più da lei a diciassette anni. Andavo da una zia che abitava a trecento metri da casa sua in un bell’appartamento sopra un grande caffè e un cinema frequentato dai giovani, con calciobalilla, videogiochi e gelati. Mangiavo comunque dalla nonna, ma preferivo dormire dalla zia per le sigarette che fumavamo di nascosto, il cinema tutto il giorno e il bar. A stirare e fare le pulizie dalla zia avevo sempre visto la brava signora Fève, finché un giorno mi sono imbattuta nella nonna che passava l’aspirapolvere nelle camere. Sostituiva la signora Fève che era in ferie o malata. Certe volte capitava, così mi hanno detto. Il giorno in cui è morta non sono riuscita a chiudere occhio a causa del disagio che c’era stato fra noi in quel momento, quando avevo aperto la porta ridendo e l’avevo trovata che faceva le pulizie, piegata in due sull’aspirapolvere per arrotondare il fine mese. Ho cercato di ricordare cosa ci fossimo dette quel giorno, ed è stato questo a impedirmi di dormire. Continuavo a rivedere quella scena, una scena che avevo completamente dimenticato fino a quando non è morta. Per tutta la notte ho aperto quella porta e l’ho trovata che puliva in casa d’altri, per tutta la notte ho continuato a ridere con i miei cugini mentre lei passava l’aspirapolvere. La prossima volta che la incontrerò le domanderò: «Nonna, ti ricordi quando ti ho visto fare le pulizie dalla zia?». Di sicuro farà un’alzata di spalle e dirà: «E i cocchi? Stanno bene, i cocchi?». 13 C’è qualcosa di più forte della morte, ed è la presenza degli assenti nella memoria dei vivi Ho appena trovato il registro del 2015 dietro la fioriera blu. Sul retro del dépliant di una palestra dell’VIII arrondissement di Marsiglia il commissario ha scritto Grazie mille. Le telefono. Sul davanti dello stesso dépliant c’è la foto di una ragazza sorridente con un corpo da favola strappato all’altezza delle ginocchia. Non ha scritto altro, non un commento sul discorso per Marie Géant, non una parola a proposito della madre. Mi chiedo se sia ancora distante da Marsiglia o se sia già arrivato. A che ora si è messo in viaggio? Vive vicino al mare? Lo guarda o non ci fa più caso, come se ci convivesse da così tanto tempo da sentirsene separato? Nono ed Elvis arrivano mentre sto aprendo il cancello. Mi lanciano un «Ciao, Violette!» e parcheggiano il camion del comune nel viale centrale per andare nel loro locale a mettersi in tenuta da lavoro. Li sento ridere mentre percorro i vialetti adiacenti per controllare che sia tutto in ordine, che ognuno sia al proprio posto. I gatti vengono a strofinarsi contro le mie gambe. In questo momento ce ne sono undici che vivono nel cimitero. Cinque di loro appartenevano a persone defunte, almeno mi pare, visto che sono comparsi quando sono stati sepolti Charlotte Boivin (1954-2010), Olivier Feige (1965-2012), Virginie Teyssandier (1928-2004), Bertrand Witman (1947-2003) e Florence Leroux (1931-2009). Charlotte è bianca, Olivier nero, Virginie un soriano, Bertrand è grigio e Florence, che è maschio, ha chiazze bianche, nere e marroni. Gli altri sei sono arrivati nel tempo. Vanno e vengono. Siccome si sa che al cimitero i gatti vengono nutriti e sterilizzati la gente li abbandona qui o addirittura li lancia al di qua del muro.
CAMBIARE L'ACQUA AI FIORI
1 Un solo essere ci manca, e tutto è spopolato Imiei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità. Non leggono, non pagano tasse, non fanno diete, non hanno preferenze, non cambiano idea, non si rifanno il letto, non fumano, non stilano liste, non contano fino a dieci prima di parlare, non si fanno sostituire. Non sono leccaculo né ambiziosi, rancorosi, carini, meschini, generosi, gelosi, trascurati, puliti, sublimi, divertenti, drogati, spilorci, sorridenti, furbi, violenti, innamorati, brontoloni, ipocriti, dolci, duri, molli, cattivi, bugiardi, ladri, giocatori d’azzardo, coraggiosi, fannulloni, credenti, viziosi, ottimisti. I miei vicini sono morti. L’unica differenza che c’è fra loro è il legno della bara: quercia, pino o mogano. 2 Cosa sarà di me se non sento più i tuoi passi? È la tua vita o la mia che se ne va? Non lo so Mi chiamo Violette Toussaint. Facevo la guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo la vita, la bevo a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele. E la sera, quando il cancello del cimitero è chiuso e la chiave appesa alla porta del bagno, sono in paradiso. Non il paradiso dei miei vicini, no. Il paradiso dei vivi: un sorso del porto annata 1983 che José-Luis Fernandez mi regala ogni primo settembre, un rimasuglio di vacanze in un bicchierino di cristallo, una specie di estate indiana che stappo verso le sette di sera sia che piova, nevichi o tiri vento. Due gocce di liquido color rubino, il sangue delle vigne di Porto. Chiudo gli occhi e lo gusto. Basta un sorso per allietarmi la serata. Due gocce, perché mi piace l’ubriachezza ma non l’alcol. José-Luis Fernandez viene a curare i fiori sulla tomba di Maria Pinto coniugata Fernandez (1956-2007) una volta alla settimana tranne che nel mese di luglio, durante il quale lo sostituisco io. Donde la bottiglia di porto per ringraziarmi. Il mio presente è un dono del cielo. Me lo dico ogni mattina appena apro gli occhi. Sono stata molto infelice, addirittura annientata, inesistente, svuotata. Sono stata come i miei vicini, ma in peggio. Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza me dentro, senza la mia anima, che a quanto pare, a prescindere da che uno sia grasso o magro, alto o basso, giovane o vecchio, pesa ventuno grammi. Ma siccome l’infelicità non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata. La sfortuna deve pur finire, prima o poi. Ho cominciato malissimo. Sono nata con un parto in anonimato nelle Ardenne, nel nord del dipartimento, in quell’angolo di territorio che si insinua nel Belgio, là dove il clima è definito “semicontinentale” (forti precipitazioni in autunno e frequenti gelate in inverno), là dove immagino che si sia impiccato il canale cantato da Jacques Brel. Il giorno in cui sono venuta al mondo non ho pianto, così mi hanno appoggiato in un angolo come un pacco da 2,670 kg senza francobollo e senza destinatario in attesa di riempire i documenti in cui venivo dichiarata partita prima di essere arrivata. Nata morta. Bambina senza vita e senza cognome. L’ostetrica doveva trovarmi in fretta un nome da scrivere sul modulo, e ha scelto Violette. Immagino che fossi viola dalla testa ai piedi. Quando ho cambiato colore, quando sono passata dal viola al rosa e si è trovata a dover compilare un atto di nascita, ha mantenuto lo stesso nome. Il fatto è che mi avevano posato su un termosifone, e la mia pelle si era riscaldata. A congelarmi doveva essere stata la pancia di una madre che non mi voleva. Il caldo mi ha riportato alla vita; sarà per questo che adoro l’estate, che non perdo mai occasione di espormi ai primi raggi, come un girasole. Il mio cognome da nubile è Trenet, come il cantautore. A darmelo dev’essere stata la stessa ostetrica che mi ha chiamato Violette. Evidentemente le piaceva Charles Trenet, come in seguito è piaciuto a me. A lungo l’ho considerato un lontano cugino, una specie di zio d’America che non avevo mai conosciuto. Se ti piace un cantante, a forza di cantarne le canzoni acquisisci quasi un legame di parentela. Toussaint è venuto dopo, quando mi sono sposata con Philippe Toussaint. Con un cognome simile avrei dovuto diffidare1. Ma è anche vero che c’è chi di cognome fa Printemps, primavera, e poi picchia la moglie. Un cognome grazioso non impedisce a nessuno di essere uno stronzo. Mia madre non mi è mai mancata, tranne quando avevo la febbre. Quando stavo bene crescevo, venivo su dritta come se l’assenza di genitori mi avesse applicato un tutore lungo la spina dorsale. Mi tengo dritta, è una mia peculiarità. Non mi sono mai piegata, neanche nei periodi di maggior dolore. Spesso mi chiedono se abbia fatto danza classica. Rispondo di no, che è stata la quotidianità a darmi una disciplina, a farmi allenare ogni giorno alla sbarra e sulle punte. 1 Toussaint significa Ognissanti, tuttavia in Francia è il giorno in cui tradizionalmente si vanno a onorare i defunti. Nel linguaggio corrente, quindi, Toussaint equivale a “giorno dei morti”. [Tutte le note sono del Traduttore.] 3 Che mi prendano, che prendano i miei, poiché tutti i cimiteri un giorno diventano giardini Nel 1997, quando il passaggio a livello è stato automatizzato, io e mio marito abbiamo perso il lavoro. Siamo pure finiti sul giornale in quanto vittime collaterali del progresso, i dipendenti che azionavano l’ultimo passaggio a livello manuale di Francia. Per illustrare l’articolo il giornalista ci ha fatto una foto. Philippe Toussaint si è messo in posa passandomi un braccio intorno alla vita. Malgrado il sorriso, Dio che aria triste hanno i miei occhi su quella foto! Il giorno in cui è stato pubblicato l’articolo Philippe Toussaint era tornato dall’ex ANPE, l’ufficio di collocamento, con la morte nel cuore: aveva capito che avrebbe dovuto lavorare. Era abituato che facessi tutto io. Con lui, quanto a fannulloneria avevo vinto primo premio, jackpot e premi aggiuntivi. Per tirargli su il morale gli ho fatto vedere un annuncio: Guardiano di cimitero, un mestiere con un futuro. Mi ha guardato come se fossi diventata matta. Nel 1997 mi guardava ogni giorno come se fossi diventata matta. Forse che un uomo, quando smette di amare la donna che ha amato, la guarda come se avesse perso la ragione? Gli ho spiegato che avevo trovato l’annuncio per caso, che il comune di Brancion-en-Chalon stava cercando una coppia di guardiani che si occupassero del cimitero, che i morti avevano orari fissi e facevano meno rumore dei treni, che avevo già parlato col sindaco ed era pronto ad assumerci subito. Mio marito non l’ha bevuta, ha detto che non credeva al caso e che preferiva morire piuttosto che andare «in quel posto» a fare il becchino. Ha acceso il televisore e si è messo a giocare a Super Mario 64. Lo scopo del gioco era acchiappare tutte le stelle di ogni mondo. Io, ce n’era solo una che avrei voluto acchiappare: la buona stella. È quel che ho pensato vedendo Mario correre dappertutto per liberare la principessa Peach rapita da Bowser. Ho insistito, ho detto che diventando guardiani di cimitero avremmo avuto uno stipendio ciascuno, molto migliore di quello che prendevamo al passaggio a livello, che i morti rendono più dei treni, che avremmo avuto anche la casa e niente spese, che sarebbe stato un cambiamento in meglio rispetto alla casa in cui abitavamo da anni, una bicocca che d’inverno faceva acqua come una bagnarola e d’estate era calda quanto il polo Nord, che sarebbe stato un nuovo inizio e ne avevamo bisogno, che avremmo messo tende alle finestre per non vedere i vicini, cioè croci, vedove e tutto il resto, e che quelle tende sarebbero state il confine tra la nostra vita e la tristezza degli altri. Avrei potuto dirgli la verità, dirgli che le tende sarebbero state la frontiera tra la mia tristezza e quella degli altri, ma era l’ultima cosa da fare, non dovevo neppure accennare a una cosa del genere, dovevo fingere e illuderlo puntando a farlo cedere. Alla fine per convincerlo gli ho promesso che non avrebbe avuto niente da fare, che tre necrofori si occupavano già della manutenzione, delle fosse e della sistemazione del cimitero, che il lavoro consisteva semplicemente nell’aprire e chiudere il cancello, che era solo un fatto di presenza, con orari comodi, vacanze e weekend lunghi come il viadotto della Valserine, e che avrei fatto io tutto il resto. Super Mario ha smesso di correre. La principessa è ruzzolata giù. Prima di andare a dormire Philippe Toussaint ha riletto l’annuncio: Guardiano di cimitero, un mestiere con un futuro. Il passaggio a livello si trovava a Malgrange-sur-Nancy. In quel periodo della mia vita non vivevo, anche se sarebbe più giusto dire “in quel periodo della mia morte”. Mi alzavo, mi vestivo, lavoravo, facevo la spesa e dormivo. Con un sonnifero, se non due o più. E guardavo mio marito guardarmi come se avessi perso la ragione. I miei orari erano tremendamente scomodi. Durante la settimana abbassavo e rialzavo le sbarre circa quindici volte al giorno. Il primo treno passava alle 4.50, l’ultimo alle 23.04. Avevo in testa gli automatismi del segnale sonoro del passaggio a livello, lo sentivo ancora prima che suonasse. Una cadenza infernale che avremmo dovuto spartirci, fare a rotazione, ma le uniche cose che Philippe Toussaint faceva ruotare erano la motocicletta e il corpo delle sue amanti. Oh, quanto mi hanno fatto sognare i viaggiatori che ho visto passare! Eppure erano solo trenini regionali che collegavano Nancy a Épinal e lungo la tratta si fermavano una decina di volte in borghi sperduti per assicurare il servizio agli autoctoni. Invidiavo quegli uomini e quelle donne. Immaginavo che andassero a un appuntamento, appuntamenti che anch’io avrei voluto avere come i passeggeri che vedevo sfilare. * * * Abbiamo fatto rotta verso la Borgogna tre settimane dopo la pubblicazione dell’annuncio. Siamo passati dal grigio al verde, dall’asfalto ai prati, dall’odore di catrame della strada ferrata all’odore di campagna. Siamo arrivati al cimitero di Brancion-en-Chalon il 15 agosto 1997. La Francia era in vacanza. Gli abitanti se n’erano andati, gli uccelli che volano di tomba in tomba avevano smesso di volare, i gatti che si stiracchiano tra i vasi di fiori erano scomparsi. Faceva troppo caldo perfino per le formiche e le lucertole, i marmi erano bollenti. I necrofori erano in ferie, i nuovi morti pure. Mi aggiravo da sola per i vialetti leggendo i nomi di gente che non avrei mai conosciuto, eppure mi ci sono subito trovata bene, al mio posto.
4 L’essere è eterno, l’esistenza un passaggio, la memoria eterna ne sarà il messaggio Quando i monelli non mettono gomma americana nel buco della serratura sono io ad aprire e chiudere il pesante cancello del cimitero. Gli orari variano a seconda delle stagioni. Dal primo marzo al 31 ottobre è aperto dalle otto di mattina alle sette di sera. Dal 2 novembre al 28 febbraio è aperto dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio. Sul 29 febbraio nessuno ha deliberato. Il primo novembre, invece, apertura dalle sette di mattina alle otto di sera. Da quando mio marito è partito, o più esattamente da quando è scomparso, ho rilevato le sue funzioni. Nello schedario nazionale della gendarmeria Philippe Toussaint figura tra le persone scomparse. Nel mio orizzonte restano vari uomini: i tre necrofori, che rispondono ai nomi di Nono, Gaston ed Elvis, gli addetti alle pompe funebri, tre fratelli che si chiamano Pierre, Paul e Jacques Lucchini, e padre Cédric Duras. Tutti quanti passano più volte al giorno da casa mia, vengono a bere o a mangiare una cosa, e mi danno una mano nell’orto se ho sacchi di terriccio da trasportare o perdite d’acqua da riparare. Li considero amici, più che colleghi di lavoro. Anche quando non ci sono, possono entrare in cucina, farsi un caffè, sciacquare la tazza e andarsene. I necrofori fanno un mestiere che ispira repulsione e disgusto, eppure quelli del mio cimitero sono le persone più dolci e piacevoli che conosca. Nono è quello in cui ho più fiducia. È un uomo retto con la gioia di vivere nel sangue, tutto lo diverte e non dice mai di no, a parte quando si tratta di procedere alla sepoltura di un bambino. Lo lascia fare agli altri, «a quelli che ne hanno il coraggio» dice. Nono somiglia a Georges Brassens, e la cosa lo fa ridere perché sono l’unica al mondo a dirgli che somiglia a Georges Brassens. Gaston è l’incarnazione della goffaggine. Ha i movimenti scomposti, e benché beva solo acqua sembra sempre ubriaco. Durante le sepolture si piazza tra Nono ed Elvis, casomai dovesse perdere l’equilibrio. Sotto i suoi piedi c’è il terremoto perenne. Cade, fa cadere, rovescia, schiaccia. Quando viene a casa mia ho sempre paura che rompa qualcosa o si ferisca e, siccome la paura non scongiura il pericolo, ogni volta rompe un bicchiere o si ferisce. Elvis lo chiamano così per via di Elvis Presley. Non sa leggere né scrivere, ma conosce a memoria tutte le canzoni del suo idolo. Pronuncia malissimo le parole, non si capisce mai se canti in inglese o in francese, ma il cuore c’è: «Lov mi tender, lov mi tru...». I fratelli Lucchini hanno solo un anno di differenza l’uno dall’altro: trentotto, trentanove e quaranta. Si occupano di pompe funebri da generazioni, di padre in figlio. Sono anche i fortunati proprietari dell’obitorio di Brancion, attiguo alla loro agenzia. Nono mi ha detto che solo una saracinesca separa l’agenzia dall’obitorio. A ricevere le famiglie in lutto è Pierre, il maggiore. Paul prepara i cadaveri, lavora nel seminterrato. Jacques guida i carri funebri, l’ultimo viaggio tocca a lui. Nono li chiama gli “apostoli”. E poi c’è il nostro parroco, Cédric Duras. Pur non essendo sempre giusto, Dio dimostra un certo gusto. Da quando nella zona è arrivato padre Cédric pare che molte donne siano state colpite dalla rivelazione divina e che la domenica mattina, sulle panche della chiesa, le fedeli siano in aumento. Io non vado mai in chiesa, sarebbe come andare a letto con una collega di lavoro, ma credo di ricevere più confidenze da parte della gente di passaggio di quante ne riceva padre Cédric nel confessionale. La gente rovescia fiumi di parole a casa mia e nei vialetti, sia arrivando che andandosene, spesso tutte e due le volte. Un po’ come i morti, che tramite i silenzi, le targhe funerarie, le visite, i fiori, le fotografie e il modo in cui si comportano i visitatori davanti alla tomba mi raccontano cose della vecchia vita, di quand’erano ancora vivi e dinamici. Il mio mestiere consiste nell’essere discreta, amare il contatto umano e non avere compassione, ma per una donna come me non avere compassione sarebbe come essere astronauta, chirurga, vulcanologa o genetista, non fa parte del mio pianeta né delle mie competenze. Però non piango mai davanti a un visitatore, può succedermi prima o dopo una sepoltura, ma non durante. Il cimitero ha tre secoli. Il primo defunto che ha accolto è una defunta, Diane de Vigneron (1756-1773), morta di parto a diciassette anni. Passando le dita sulla tomba si riesce ancora a leggerne il nome inciso sulla pietra grezza. Sebbene al cimitero manchi spazio non è mai stata esumata, nessuno dei sindaci che si sono susseguiti ha osato prendere la decisione di disturbare la prima inumata, tanto più che gira una leggenda su di lei. Stando agli abitanti di Brancion sarebbe apparsa a più riprese nel suo “abito di luce” davanti alle vetrine dei negozi del centro e nel cimitero. Certe volte, girando per i mercatini dell’usato della zona, trovo Diane raffigurata come un fantasma su piccole stampe del Settecento o vecchie cartoline, una messinscena, una finta Diane mascherata come il più trito dei fantasmi. Girano molte storie intorno alle tombe. I vivi reinventano spesso la vita dei morti. C’è una seconda leggenda a Brancion, molto più recente di quella di Diane de Vigneron. Riguarda Reine Ducha (1961-1982), sepolta nel settore dei Cedri, vialetto 15. La fotografia fissata alla lapide mostra una giovane donna bruna e sorridente. Reine è morta in macchina all’uscita della città. In seguito alcuni giovani l’avrebbero vista sul ciglio della strada, nel punto dell’incidente, tutta vestita di bianco. Il mito delle “dame bianche” ha fatto il giro del mondo. Gli spettri delle donne morte di morte violenta infesterebbero il mondo dei vivi trascinando la propria anima in pena nei castelli e nei cimiteri. Tanto per incrementare la leggenda, la sua tomba si è mossa. Secondo Nono e i fratelli Lucchini dipende da uno smottamento del terreno, succede spesso quando in una tomba si accumula troppa acqua. In vent’anni credo di aver visto molte cose nel mio cimitero, certe notti ho perfino sorpreso ombre che facevano l’amore fra le tombe o direttamente su una pietra tombale, ma non erano fantasmi. A parte le leggende niente è eterno, neanche le concessioni perpetue. Le concessioni possono essere acquistate per quindici, trenta, cinquanta anni o l’eternità, ma dell’eternità è meglio non fidarsi: se dopo trent’anni una concessione perpetua ha smesso di essere tenuta bene (aspetto indecente o cadente) e nessuna inumazione ha avuto luogo per parecchio tempo, il comune ha la facoltà di rientrarne in possesso, e i resti verranno allora trasferiti in un ossario in fondo al cimitero. Da quando sono qui ho visto numerose concessioni scadute essere smantellate e pulite spostando le spoglie dei defunti nell’ossario, e nessuno ha detto niente, perché quei morti erano considerati come oggetti smarriti che nessuno aveva reclamato. Succede sempre così con la morte: più è antica e meno presa ha sui vivi. Il tempo distrugge la vita. Il tempo distrugge la morte. Io e i tre necrofori facciamo di tutto per non lasciare le tombe in stato di abbandono. Non ci va giù di veder apposto sulla lapide l’avviso municipale La presente tomba è oggetto di una procedura di recupero, si prega di contattare con urgenza il comune quando vi appare ancora il nome del defunto. Forse i cimiteri sono pieni di epitaffi proprio per questo, per scongiurare il destino del passare del tempo, per aggrapparsi ai ricordi. Quello che preferisco è: La morte comincia quando nessuno può più sognare di te. È sulla tomba di Marie Deschamps, una giovane infermiera deceduta nel 1917. Pare che sia stato un soldato a deporre la targa nel 1919. Ogni volta che ci passo davanti mi chiedo quanto a lungo l’abbia sognata. Qualunque cosa io faccia, ovunque tu sia, niente ti cancella, penso a te di Jean-Jacques Goldman e Le stelle fra loro parlano solo di te di Francis Cabrel sono le parole di canzoni più citate sulle targhe funerarie. Il mio cimitero è molto bello. I vialetti sono fiancheggiati da tigli centenari. Buona parte delle tombe è piena di fiori. Davanti alla mia casetta vendo qualche vaso di fiori, e quando non sono più vendibili li regalo alle tombe abbandonate. Inoltre ho piantato dei pini. L’ho fatto per il profumo che emanano d’estate, è il mio odore preferito. Li ho piantati nel 1997, l’anno in cui siamo arrivati. Sono cresciuti molto, e conferiscono al cimitero un aspetto maestoso. Prendersi cura del cimitero vuol dire prendersi cura dei morti che vi riposano e rispettarli. Nel caso non siano stati rispettati da vivi, che almeno lo siano dopo morti. Sono sicura che vi sono sepolti anche molti stronzi, ma la morte non fa distinzione fra buoni e cattivi. E poi, chi non è stato un po’ stronzo almeno una volta nella vita? Al contrario di me, Philippe Toussaint ha subito odiato il cimitero, il paese di Brancion, la Borgogna, la campagna, le vecchie pietre, le mucche bianche, la gente del luogo. Non avevo ancora finito di aprire le scatole del trasloco che già andava a farsi giri in moto dalla mattina alla sera. Col passare dei mesi gli capitava di rimanere fuori intere settimane, fino al giorno in cui non è più tornato. I gendarmi non hanno capito perché non avessi denunciato prima la sua scomparsa. Non ho detto loro che era già scomparso da anni, anche quando ancora si sedeva a tavola con me. Eppure, quando dopo un mese ho capito che non sarebbe tornato, mi sono sentita abbandonata come le tombe che pulisco regolarmente, altrettanto grigia, smorta e traballante, pronta per essere smantellata e vedere i miei resti gettati in un ossario. 5 Il libro della vita è il libro supremo che non possiamo chiudere e riaprire a piacimento, vorremmo tornare alla pagina in cui si ama, ma abbiamo già sotto le dita la pagina in cui si muore Ho conosciuto Philippe Toussaint nel 1985 al Tibourin, una discoteca di Charleville-Mézières. Era appoggiato al bancone del bar, io ero la barista. All’epoca inanellavo lavoretti precari mentendo sulla mia età. Un amico della casa famiglia in cui vivevo mi aveva falsificato i documenti per farmi diventare maggiorenne. Ero senza età, avrei potuto avere quattordici come venticinque anni. Mi vestivo solo in jeans e maglietta, avevo i capelli corti e orecchini dappertutto, pure nel naso. Ero esile, e mi truccavo gli occhi di nero per darmi un look alla Nina Hagen. Avevo smesso di andare a scuola, sapevo leggere e scrivere male, ma ero capace di fare i conti. Avevo già vissuto parecchie vite, e il mio unico obiettivo era lavorare per pagarmi un affitto e andarmene al più presto dalla casa famiglia. Poi avrei visto il da farsi. Nel 1985 l’unica cosa regolare che avevo erano i denti. Avere bei denti bianchi come le modelle delle riviste era stata la mia ossessione fin da piccola. Quando le educatrici venivano alla casa famiglia e mi domandavano se avessi bisogno di qualcosa chiedevo regolarmente una visita dal dentista, come se la mia vita e il mio futuro dipendessero dal sorriso che avrei avuto. Non avevo amiche, sembravo troppo un maschio. Mi ero affezionata ad alcune pseudosorelle, ma le ripetute separazioni e i cambi di famiglia mi avevano massacrato. Mai affezionarsi! Pensavo che portare i capelli rasati a zero mi avrebbe protetto, mi avrebbe dato il cuore e la grinta di un ragazzo, ma l’unico risultato era che le ragazze mi evitavano. Ero già stata a letto con qualche ragazzo per fare come tutti, ma niente di trascendente, era stata una delusione, non ci trovavo niente di allettante. Lo facevo tanto per darla a bere agli altri, o per ottenere in cambio un vestito, una stecca di fumo, un ingresso da qualche parte, una mano che stringesse la mia. Mi piaceva molto di più l’amore delle fiabe, quelle che nessuno mi aveva mai raccontato: “Si sposarono ed ebbero molti, molti, molti...”. Appoggiato al bar con in mano un bicchiere di whisky e cola senza ghiaccio, Philippe Toussaint osservava gli amici che ballavano sulla pista. Aveva una faccia d’angelo, una specie di Michel Berger a colori: lunghi riccioli biondi, occhi azzurri, pelle chiara, naso aquilino e una bocca di fragola... pronta per essere mangiata, una fragola di luglio ben matura. Indossava jeans, maglietta bianca e giubbotto nero. Era alto, ben piantato, perfetto. Appena l’ho visto il mio cuore ha fatto bum, come canta il mio immaginario zio acquisito Charles Trenet. Con me Philippe Toussaint avrebbe avuto tutto gratis, anche i bicchieri di whisky e cola. Non doveva fare niente per baciare le belle bionde che gli ronzavano intorno come mosche intorno a un pezzo di carne putrida. Aveva l’aria di fregarsene di tutto, lasciava che fossero gli altri a darsi da fare. Non alzava mai un dito per ottenere quello che voleva, ma soloper portarsi il bicchiere alle labbra tra un bacio fluorescente e l’altro. Mi dava le spalle. Di lui vedevo solo i boccoli biondi che con le luci da discoteca passavano dal verde al rosso al blu. Era più di un’ora che i miei occhi si gingillavano con i suoi capelli. Ogni tanto, chinandosi verso la bocca di una ragazza che gli sussurrava qualcosa all’orecchio, mi dava modo di osservarne il profilo perfetto. Poi si è girato verso il bar e il suo sguardo si è posato su di me per non staccarsene più. A partire da quel momento sono diventata il suo giocattolo preferito. Da principio ho pensato che si mostrasse interessato a me per le massicce quantità di alcol che gli mettevo gratis nel bicchiere. Servendolo facevo in modo che non mi vedesse le unghie mangiate, ma solo i denti bianchi perfettamente allineati. Aveva l’aria di un ragazzo di buona famiglia, ma per me, a parte i colleghi delle case famiglia, tutti sembravano ragazzi o ragazze di buona famiglia. Dietro di lui si era formato un ingorgo di squinzie come al casello dell’autostrada del Sole nei giorni di grande esodo, ma lui continuava a guardare me con occhi pieni di desiderio. Mi sono appoggiata al bancone, di fronte a lui, per essere sicura che stesse guardando proprio me. Gli ho messo una cannuccia nel bicchiere, poi ho alzato gli occhi. Sì, stava guardando me. «Vuole qualcos’altro?» gli ho chiesto. Non ho sentito la risposta. «Come?» ho gridato. Lui mi si è accostato all’orecchio e ha detto: «Te». Mi sono riempita un bicchiere di bourbon alle spalle del principale. Al primo sorso ho smesso di arrossire, al secondo mi sono sentita bene, al terzo ho trovato il coraggio di allungarmi verso il suo orecchio e rispondere: «Potremmo bere una cosa insieme, quando stacco». Ha sorriso. I suoi denti erano come i miei, bianchi e allineati. Quando Philippe Toussaint ha allungato il braccio al disopra del bancone per sfiorare il mio ho pensato che la mia vita sarebbe cambiata. Ho sentito la mia pelle indurirsi, come se avesse avuto un presentimento. Philippe Toussaint aveva dieci anni più di me, una differenza d’età che lo poneva in alto dandomi la sensazione di essere la farfalla che guarda la stella. 6 Poiché verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno Bussano delicatamente alla porta. Non sto aspettando nessuno, del resto è un pezzo che non aspetto più nessuno. Ci sono due porte d’ingresso a casa mia, una dalla parte del cimitero e l’altra dalla parte della strada. Éliane si mette ad abbaiare verso la porta sul lato strada. La sua padrona, Marianne Ferry (1953-2007), è sepolta nel settore delle Fusaggini. Éliane è arrivata qui il giorno del suo funerale e non se n’è più andata. Per le prime settimane le ho dato da mangiare sulla tomba della padrona, poi poco a poco mi ha seguito in casa. Nono l’ha battezzata Éliane come Isabelle Adjani in L’estate assassina, perché ha due begli occhi azzurri e la sua padrona è morta in agosto. In vent’anni ho avuto tre cani che sono arrivati qui insieme ai padroni e sono diventati miei per forza di cose, ma Éliane è l’unica che mi rimane. Bussano di nuovo. Non so se aprire. Sono appena le sette, sto prendendo il tè e spalmando le fette biscottate di burro salato e marmellata di fragole gentilmente offerta da Suzanne Clerc, il cui marito (1933-2007) riposa nel settore dei Cedri. Sto ascoltando musica. Ascolto sempre musica, tranne che nelle ore di apertura del cimitero. Mi alzo e spengo la radio. «Chi è?». Mi risponde una voce maschile un po’ titubante. «Mi scusi, signora, ho visto la luce accesa». Lo sento strofinare i piedi sullo zerbino. «Dovrei farle qualche domanda a proposito di una persona che è sepolta qui». Potrei dirgli di tornare alle otto, quando apro. «Mi dia dieci minuti e arrivo!». Salgo in camera e apro l’armadio inverno per prendere una vestaglia. Ho due guardaroba, uno lo chiamo “inverno” e l’altro “estate”, ma non c’entrano le stagioni, c’entrano le circostanze. L’armadio inverno contiene solo vestiti classici e scuri destinati agli altri, l’armadio estate solo vestiti chiari e colorati destinati a me stessa. Indosso l’estate sotto l’inverno, e quando sono sola mi tolgo l’inverno. Così mi infilo una vestaglia grigia imbottita sopra l’elegante vestaglietta di seta rosa e scendo ad aprire. Sulla porta c’è un uomo di una quarantina d’anni. Da principio ne vedo solo gli occhi neri che mi fissano. «Buongiorno, mi scusi se la disturbo a quest’ora». È ancora buio, fa freddo. Dietro di lui vedo che la notte ha depositato uno strato di brina. Dalla bocca gli escono nuvolette di vapore come se stesse fumando il giorno nascente. Odora di tabacco, cannella e vaniglia. Sono incapace di dire una parola. È come se ritrovassi una persona persa di vista da tempo. Penso che si è presentato troppo tardi, che se fosse arrivato vent’anni fa tutto sarebbe stato diverso. Forse lo penso perché sono anni che nessuno bussa a casa mia dal lato strada, a parte gli ubriachi. Tutti quelli che vengono a trovarmi arrivano dal cimitero. Lo faccio entrare, mi ringrazia un po’ imbarazzato. Gli offro un caffè. A Brancion-en-Chalon conosco tutti, anche gli abitanti che ancora non hanno defunti da me. Tutti sono passati almeno una volta dai vialetti del cimitero per il funerale di un amico, di un vicino o della madre di un collega. Lui non l’ho mai visto. Ha un leggero accento, c’è qualcosa di mediterraneo nel suo modo di calcare le parole. È molto bruno, così bruno che i rari capelli bianchi spiccano nel disordine di quelli neri. Ha il naso grosso, le labbra carnose e le borse sotto gli occhi. Somiglia un po’ a Gainsbourg. Si capisce che ha litigato col rasoio, ma non con la grazia. Ha belle mani, dita lunghe. Beve il caffè bollente a piccoli sorsi, ci soffia sopra e si riscalda le mani sulla porcellana della tazza. Continuo a non sapere perché è venuto. L’ho fatto entrare perché qui non è proprio casa mia. Questa stanza è di tutti, è come una sala d’attesa comunale che ho trasformato in soggiorno-cucina, appartiene alle persone di passaggio e agli habitué. Osserva i muri. I venticinque metri quadrati di stanza hanno lo stesso aspetto del guardaroba inverno. Niente alle pareti, niente tovaglia a colori o divano azzurro, niente di ostentato, solo mobili di compensato e sedie per sedersi, tazze bianche, la caffettiera sempre piena e superalcolici per i casi disperati. Qui accolgo lacrime, confidenze, rabbia, sospiri, disperazione e le risate dei necrofori. La camera da letto è al piano di sopra, è il mio retrobottega segreto, la mia vera casa. Camera e bagno sono due bomboniere pastello. Rosa cipria, verde mandorla e celeste: è come se avessi riportato i colori della primavera. Appena c’è un raggio di sole spalanco le finestre e, a meno di non avere una scala, dall’esterno non si vede niente. Nessuno è mai entrato in camera mia com’è oggi. Dopo che Philippe Toussaint è scomparso l’ho interamente ridipinta, ho aggiunto tende, merletti, mobili bianchi e un grande letto con un materasso svizzero che si modella sulle mie forme, in modo da non dover più dormire nella forma del corpo di Philippe Toussaint. Lo sconosciuto continua a soffiare nella tazza. «Vengo da Marsiglia» dice dopo un po’. «Conosce Marsiglia?». «Vado ogni anno a Sormiou». «Nella calanca?». «Sì». «Che combinazione!». «Non credo al caso». Sembra che cerchi qualcosa nella tasca dei jeans. I miei uomini non portano jeans. Nono, Elvis e Gaston sono sempre in tuta da lavoro, i fratelli Lucchini e padre Cédric in pantaloni di terital. Si toglie la sciarpa liberandosi il collo e posa la tazza vuota sul tavolo. «Neanch’io. Sono abbastanza razionale... E poi sono un commissario». «Come Colombo?». Mi risponde sorridendo per la prima volta. «Quello era ispettore». Posa l’indice su alcuni granelli di zucchero sparpagliati sul tavolo. «Mia madre desidera essere inumata qui e non so perché». «Abita in zona?». «No, a Marsiglia. È morta due mesi fa. Riposare qui fa parte delle sue ultime volontà». «Condoglianze. Vuole qualcosa di alcolico nel caffè?». «Ha l’abitudine di far ubriacare la gente la mattina presto?». «Capita. Come si chiamava sua madre?». «Irène Fayolle. Ha voluto essere cremata... e chiesto che le sue ceneri vengano posate sulla tomba di un certo Gabriel Prudent». «Gabriel Prudent?... Gabriel Prudent, 1931-2009. È sepolto nel settore dei Cedri, vialetto 19». «Conosce tutti i morti a memoria?». «Quasi». «Data del decesso, ubicazione e tutto il resto?». «Quasi». «Chi era Gabriel Prudent?». «Ogni tanto viene a trovarlo una donna... la figlia, credo. Era un avvocato. Sulla tomba di marmo nero non c’è epitaffio né fotografia. Non ricordo più il giorno in cui è stato seppellito, ma se vuole posso guardare nei registri». «Registri?». «Annoto tutte le sepolture e le esumazioni». «Non sapevo che rientrasse nei suoi incarichi». «Infatti non ci rientra, ma se uno facesse solo quel che rientra nei propri incarichi la vita sarebbe triste». «È strano sentire una cosa del genere dalla bocca di una... come si chiama il suo mestiere, guardacimiteri?». «Perché, pensa che pianga dalla mattina alla sera, che viva nelle lacrime e nel dolore?». Gli riempio di nuovo la tazza mentre lui mi domanda due volte: «Vive sola?». Alla fine rispondo di sì. Apro il cassetto dei registri e prendo quello del 2009. Cerco per cognome, e trovo subito Prudent Gabriel. Comincio a leggere. 18 febbraio 2009, esequie di Gabriel Prudent, pioggia torrenziale. Centoventotto persone presenti alla sepoltura, tra cui l’ex moglie e le due figlie, Marthe Dubreuil e Cloé Prudent. Su richiesta del defunto, niente fiori né corone. La famiglia ha fatto incidere una targa sulla quale si legge: In memoria di Gabriel Prudent, avvocato coraggioso. “Il coraggio per un avvocato è tutto. Se non c’è, il resto non conta. Tutto è utile all’avvocato, talento, cultura, conoscenza della legge, ma senza il coraggio al momento decisivo rimangono solo parole, frasi che si susseguono, brillano e muoiono” (Robert Badinter2). Niente prete, niente croce. Il corteo funebre si è trattenuto solo una mezz’ora. Quando gli addetti delle pompe funebri hanno finito di calare la bara nella fossa tutti se ne sono andati. Pioveva ancora molto forte. Chiudo il registro. Il commissario sembra frastornato, perso nei suoi pensieri. Si passa una mano tra i capelli. «Mi chiedo perché mia madre voglia riposare accanto a quest’uomo». Per un po’ osserva di nuovo le pareti bianche sulle quali non c’è niente da osservare. Poi si rivolge a me come se avesse qualche dubbio e indica con lo sguardo il registro del 2009. «Posso dare un’occhiata?». In genere faccio vedere i miei appunti solo alle famiglie interessate. Ci penso un attimo, poi glielo do. Si mette a sfogliarlo. Tra una pagina e l’altra mi scruta come se avessi scritte in fronte le parole dell’anno 2009, come se il registro che ha in mano fosse una scusa per guardarmi. «E lei fa questo per ogni defunto?». «Non tutti, ma quasi. Così quando quelli che non hanno potuto assistere al funerale vengono a trovarmi racconto loro qualcosa aiutandomi con gli appunti... Ha mai ucciso qualcuno? Per lavoro, voglio dire». «No».
«È armato?». «Certe volte sì. Stamattina no». «È venuto con le ceneri di sua madre?». «No. Per il momento sono al crematorio... Non mi va di posare le sue ceneri sulla tomba di uno sconosciuto». «Per lei sarà uno sconosciuto, per sua madre pare di no». Si alza. «Posso vedere la tomba di quest’uomo?». «Certo. Le dispiace ripassare fra una mezz’oretta? In genere non vado in giro per il cimitero in vestaglia». Sorride per la seconda volta lasciando il soggiorno-cucina. Automaticamente accendo la plafoniera. Non l’accendo mai quando una persona entra, solo quando esce, per rimpiazzare la sua presenza con un po’ di luce. Una vecchia abitudine da bambina abbandonata alla nascita. Mezz’ora dopo l’ho trovato che mi aspettava in macchina davanti al cancello. Ho visto la targa: 13, dipartimento Bouches-du-Rhône. Doveva essersi addormentato contro la sciarpa, la guancia era segnata, come sgualcita. Mi ero messa un cappotto blu marine sopra un vestito rosso carminio. Il cappotto era abbottonato fino al collo. Sembravo la notte, ma sotto indossavo il giorno. Sarebbe bastato che mi aprissi un po’ il cappotto per fargli sbattere di nuovo gli occhi. Abbiamo camminato nei vialetti. Gli ho detto che il cimitero era diviso in quattro settori: Allori, Fusaggini, Cedri e Tassi, due colombari e due giardini del ricordo. Mi ha chiesto se facevo questo lavoro da molto tempo. «Vent’anni» ho risposto, e ho aggiunto che prima ero guardiana di passaggio a livello. Mi ha domandato che effetto faceva passare dai treni ai carri funebri. Non ho saputo che rispondere, erano successe troppe cose tra l’una e l’altra vita. Ho solo pensato che faceva domande ben strane per essere un commissario razionale. Quando siamo arrivati alla tomba di Gabriel Prudent è impallidito, come se si trovasse davanti alla lapide di un uomo di cui non aveva mai sentito parlare, ma che avrebbe tranquillamente potuto essere un padre, uno zio, un fratello. Siamo rimasti a lungo lì fermi. Faceva talmente freddo che a un certo punto ho cominciato ad alitarmi sulle mani per riscaldarle. Di solito non mi trattengo mai con i visitatori, li accompagno e me ne vado, ma non so perché in quel caso mi era impossibile lasciarlo solo. Dopo qualche minuto che mi è sembrato un’eternità ha detto che si rimetteva in macchina per tornare a Marsiglia. Gli ho chiesto quando pensava di venire a lasciare le ceneri della madre sulla tomba del signor Prudent. Non mi ha risposto. 2 Avvocato e uomo politico francese, più volte ministro della Giustizia, paladino dell’abolizione della pena di morte in Francia sancita nel 1981. 7 Mancherà sempre qualcuno per far sorridere la mia vita: tu Sto rinvasando dei fiori sulla tomba di Jacqueline Victor coniugata Dancoisne (1928-2008) e Maurice René Dancoisne (1911-1997). Sono due belle eriche bianche, sembrano pezzi di falesia in vaso, tra i pochi fiori che resistano all’inverno, insieme ai crisantemi e alle piante grasse. La signora Dancoisne amava i fiori bianchi. Veniva ogni settimana sulla tomba del marito. Facevamo quattro chiacchiere, ma non da subito, verso la fine, dopo che si era un po’ abituata alla perdita del suo Maurice. Nei primi anni era devastata. Il dolore toglie la parola. Oppure fa dire sciocchezze. Poco a poco aveva ritrovato la strada per comporre frasi semplici, chiedere notizie degli altri, notizie dei vivi. Non so perché si dica “sulla tomba”, bisognerebbe dire “sul bordo della tomba” o “accanto alla tomba”. A parte l’edera, le lucertole, i gatti e i cani, nessuno sale su una tomba. La signora Dancoisne ha raggiunto il marito dall’oggi al domani. Un lunedì era qui a pulire la lapide del suo amato e il giovedì mettevo dei fiori accanto alla sua. Da quando è stata seppellita i figli vengono a trovarla una volta all’anno, e per il resto del tempo hanno chiesto a me di occuparmene. Mi piace mettere le mani nella terra dell’erica, anche se è mezzogiorno e il sole pallido di ottobre stenta a riscaldare. Per quanto congelate, le mie dita se la godono, esattamente come quando le tuffo nella terra del mio orto. A pochi metri da me Gaston e Nono stanno scavando una fossa e raccontandosi la serata. Da dove mi trovo, a seconda di come tiri il vento sento frammenti di conversazione. «Ha detto mia moglie... alla televisione... pruriti... sarebbe meglio che non... dovrebbe passare il capo... un’omelette da Violette... l’ho conosciuto... una brava persona... con i capelli crespi, vero?... Sì, doveva avere la nostra età... gentile... la moglie... smorfiosa... canzone di Brel... non bisogna fare i ricchi se non si ha un soldo... una voglia di pisciare... fifa... prostata... fare la spesa prima che chiuda... uova per Violette... se non è iella questa...». Domani alle quattro c’è una sepoltura. Il cimitero avrà un nuovo residente, un uomo di cinquantacinque anni morto per aver fumato troppo. Almeno è quanto dicono i medici. Non dicono mai che un uomo di cinquantacinque anni può morire per non essere stato amato, per non essere stato sentito, per aver ricevuto troppi conti da pagare, per aver fatto troppi debiti con le banche, per aver visto i figli crescere e poi andarsene senza neanche salutare, per una vita di rimproveri e musi lunghi in cui la sigarettina o la cannetta per sciogliere il nodo allo stomaco ci stavano proprio bene. Nessuno dice mai che si può morire per averne avuto troppo spesso le palle piene. Un po’ più in là due esili vedove, la signora Pinto e la signora Degrange, stanno pulendo le tombe dei loro mariti. E siccome vengono qui ogni giorno sono costrette a inventarsi che ci sia qualcosa da pulire. Intorno a quelle tombe c’è la stessa pulizia di un negozio di fai da te che espone rivestimenti per pavimenti. Le persone che vengono a visitare le tombe ogni giorno: quelle sì che sembrano davvero fantasmi, che stanno tra la vita e la morte. La signora Pinto e la signora Degrange sono esili come passerotti alla fine dell’inverno, come se a farle mangiare fossero stati i loro mariti finché erano ancora in vita. Le conosco da quando lavoro qui. Sono più di vent’anni che ogni mattina, andando a fare la spesa, fanno una deviazione per il cimitero, neanche fosse un passaggio obbligato. Non capisco se sia amore o sottomissione o tutti e due, se lo facciano per le apparenze o per affetto. La signora Pinto è portoghese. E, come la maggior parte dei portoghesi che vivono a Brancion, d’estate va in Portogallo. La rimpatriata le dà un bel daffare: ai primi di settembre, quando torna, è sempre magra come al solito, ma con la pelle abbronzata e le ginocchia piene di graffi per aver pulito le tombe di quelli che sono morti al paese. In sua assenza innaffio io i fiori francesi, così per ringraziarmi mi regala una bambolina in abito folcloristico in una scatola di plastica. Ogni anno ricevo una bambolina, e ogni anno dico: «Grazie, signora Pinto, non doveva, per me accudire i fiori è un piacere, non un lavoro». In Portogallo esistono centinaia di costumi folcloristici, quindi se la signora Pinto vive altri trent’anni, e io pure, avrò trenta nuove spaventose bamboline che chiudono gli occhi quando, per spolverare, metto per lungo le scatole che fungono da sarcofago. Dato che di quando in quando la signora Pinto passa da me non posso nascondere le bamboline che mi regala, però non le voglio in camera né posso metterle nella stanza dove la gente viene a cercare conforto, sono troppo brutte. Allora le “espongo” sui gradini della scala che va al piano di sopra, scala che è dietro una porta a vetri e si vede dalla cucina. Quando viene a prendere un caffè da me la signora Pinto le guarda per controllare che siano al loro posto. D’inverno, quando fa buio alle cinque e vedo gli occhietti neri che brillano e i costumini fruscianti, me le immagino che escono dalle scatole per sgambettarmi e farmi cadere dalle scale. Ho notato che, diversamente da altri, la signora Pinto e la signora Degrange non si rivolgono mai ai mariti, puliscono in silenzio, come se avessero smesso di parlare con loro molto prima che morissero, come se quel silenzio fosse una continuità. Neppure piangono. I loro occhi sono asciutti da lustri. Certe volte si incontrano e parlano del tempo, dei figli, dei nipoti e presto, si rende conto signora mia, anche dei bisnipoti. Le ho viste ridere una sola, minima volta, quando la signora Pinto ha raccontato all’altra che la nipote le aveva chiesto: «Nonna, cos’è Ognissanti? Vacanze?». 8 Che il tuo riposo sia sereno come il tuo cuore fu buono 22novembre 2016, cielo azzurro, dieci gradi, ore 16. Sepoltura di Thierry Teissier (1960-2016). Bara di mogano. Niente marmo. Tomba scavata direttamente in terra. Presenti una trentina di persone tra cui io, Nono, Elvis e Pierre Lucchini. Una quindicina di colleghi di Thierry Teissier della fabbrica DIM ha deposto un fascio di gigli: Al nostro caro collega. Una dipendente del reparto oncologico di Mâcon, una certa Claire, ha in mano un mazzo di rose bianche. Sono presenti anche la moglie del defunto e i due figli, un maschio e una femmina rispettivamente di trenta e ventisei anni. Su una targa commemorativa hanno fatto incidere: A nostro padre. Nessuna fotografia di Thierry Teissier. Su un’altra targa è scritto A mio marito con una piccola capinera disegnata sopra la parola “marito”. Una grande croce d’ulivo è stata piantata nella terra. Tre compagni di scuola leggono un po’ per uno una poesia di Jacques Prévert.
Un villaggio ascolta desolato
Il canto di un uccello ferito
È il solo uccello del villaggio
E il solo gatto del villaggio
L’ha per metà divorato
E l’uccello smette di cantare
Il gatto smette di fare le fusa
E di leccarsi il muso
E il villaggio fa all’uccello
Un meraviglioso funerale
E il gatto che è invitato
Segue la piccola bara di paglia
In cui è disteso l’uccello morto Portata da una bimba
Che piange a dirotto
Se avessi immaginato che ti sarebbe dispiaciuto tanto
Le dice il gatto L’avrei mangiato tutto quanto
E poi ti avrei raccontato
Di averlo visto volare via
Volare fino in capo al mondo Là dov’è talmente lontano
Che mai nessuno ne torna
Saresti stata meno addolorata Soltanto un po’ di tristezza e di rimpianti
Non si devono mai fare le cose a metà!
Prima che il feretro venga calato nella fossa prende la parola padre Cédric. «Ricordiamo le parole di Gesù alla sorella di Lazzaro appena morto: “Io sono la resurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà”». Claire posa il mazzo di rose bianche accanto alla croce. Tutti vanno via insieme. Non conoscevo quell’uomo, ma il modo in cui alcuni hanno guardato la sua tomba mi fa pensare che fosse buono.
La sua bellezza e la sua giovinezza sorridevano al mondo nel quale avrebbe vissuto. Poi dalle sue mani è caduto il libro in cui non ha letto niente Ci sono più di mille fotografie distribuite in tutto il cimitero. Foto in bianco e nero, seppia, dai colori vividi o sbiaditi. Il giorno in cui sono state scattate nessuno degli uomini, donne, o bambini che posavano innocentemente davanti all’obiettivo poteva pensare che quell’istante lo avrebbe immortalato per l’eternità. Sono foto di un compleanno o di un pranzo in famiglia, di una passeggiata al parco la domenica, di un matrimonio, di un ballo della scuola, di un Capodanno, di un giorno in cui erano un po’ più belli o tutti riuniti, un giorno speciale in cui erano più eleganti, o magari in divisa militare, in abito da comunione, da battesimo. C’è solo innocenza negli sguardi di quella gente che sorride sulla propria tomba. Spesso, il giorno prima di una sepoltura, sul giornale esce un articolo che riassume in poche parole la vita del defunto. Frasi brevi, una vita non occupa molto spazio nel giornale locale. Leggermente di più se si tratta di un negoziante, un medico o un allenatore di calcio. È importante mettere la foto sulla tomba, altrimenti è solo un nome, la morte si porta via anche i volti. Anna Lave coniugata Dahan (1914-1987) e Benjamin Dahan (1912-1992) sono la coppia più bella del cimitero. Si vedono su una foto colorizzata scattata il giorno del loro matrimonio, negli anni Trenta. Due facce meravigliose sorridono al fotografo: lei bionda come un sole, con la pelle diafana, lui col viso sottile, quasi intagliato, ed entrambi con occhi brillanti come zaffiri stellati. Due sorrisi che loro donano all’eternità. A gennaio pulisco con un cencio le fotografie del cimitero, ma solo sulle tombe abbandonate o poco curate. Uso uno strofinaccio bagnato d’acqua con una goccia di alcol denaturato. Faccio la stessa cosa sulle targhe funerarie, ma con lo strofinaccio imbevuto di aceto bianco. La pulizia delle foto mi porta via cinque o sei settimane. Quando Nono, Gaston o Elvis si offrono di aiutarmi rispondo di no, che hanno già abbastanza da fare con la manutenzione generale. Non l’ho sentito arrivare. Non mi capita spesso, in genere individuo subito i passi della gente sulla ghiaia, riesco anche a capire se si tratta di un uomo, una donna o un bambino, di uno che passa per caso o di un visitatore abituale. Lui però si muove senza fare rumore. Quando sento il suo sguardo alle mie spalle sto pulendo le nove facce della famiglia Hesme: Étienne (1876-1915), Lorraine (1887-1928), Françoise (1949-2000), Gilles (1947-2002), Nathalie (1959-1970), Théo (1961-1993), Isabelle (1969-2001), Fabrice (1972-2003) e Sébastien (1974-2011). Mi volto. È controsole, non lo riconosco subito. Capisco che è lui dalla voce, dal suo «Buongiorno» e, subito dopo la voce, con due o tre secondi di ritardo, dall’odore di cannella e vaniglia che emana. Non credevo che sarebbe tornato. Sono passati più di due mesi da quando mi ha bussato alla porta del lato strada. Sento che il mio cuore si agita un po’ e mi consiglia di stare attenta. Da quando Philippe Toussaint è scomparso nessun uomo mi ha fatto battere il cuore. Da dopo Philippe Toussaint il mio cuore non ha più cambiato ritmo, è come un vecchio orologio che ticchetta distrattamente. Tranne il giorno dei morti, in cui le pulsazioni si accelerano. Mi capita di vendere anche cento vasi di crisantemi, in più devo fare da guida ai numerosi visitatori occasionali che si perdono nei vialetti. Stamattina però, benché non sia il giorno dei morti, il mio cuore si agita. A causa sua. Credo di percepire paura, la mia. Ho ancora lo strofinaccio in mano. Il commissario osserva le facce che sto lucidando e mi fa un timido sorriso. «Sono persone della sua famiglia?». «No, soltanto manutenzione delle tombe». Non sapendo cosa fare delle parole che mi rimbalzano in testa aggiungo: «Nella famiglia Hesme si muore giovani, come se fossero allergici alla vita o la vita non volesse saperne di loro». Annuisce, si tira su il bavero del cappotto e dice sorridendo: «Fa un bel freddo nel vostro paese». «Di sicuro più che a Marsiglia». «Ci va quest’estate?». «Sì, come tutte le estati. Vado a trovare mia figlia». «Vive a Marsiglia?». «No, viaggia un po’ dappertutto». «Cosa fa?». «La prestigiatrice. Professionale». Come per interromperci un giovane merlo si posa sulla tomba della famiglia Hesme e si mette a cantare a squarciagola. Mi è passata la voglia di lucidare le facce. Rovescio l’acqua nella ghiaia e metto nel secchio strofinacci e alcol denaturato. Chinandomi mi si apre un po’ il cappotto grigio lasciando intravedere un lembo del mio grazioso vestito a fiori rosso carminio. Vedo che la cosa non sfugge al commissario. Non mi guarda come gli altri, nei suoi occhi c’è qualcosa di diverso. Per distogliere la sua attenzione da me gli ricordo che se vuole lasciare le ceneri della madre sulla tomba di Gabriel Prudent dovrà chiedere l’autorizzazione alla famiglia. «Non c’è bisogno. Prima di morire Gabriel Prudent ha comunicato al comune che mia madre avrebbe riposato qui con lui... Avevano previsto tutto». Sembra imbarazzato. Si massaggia le guance non rasate. Non gli vedo le mani, ha i guanti. Mi fissa un po’ troppo a lungo. «Vorrei che lei organizzasse qualcosa per il giorno in cui deporrò le ceneri di mia madre, qualcosa che somigli a una festa senza esserlo». Il merlo vola via. È stato spaventato da Éliane che si strofina contro di me elemosinando una carezza. «Ah, ma non spetta a me. Per queste cose deve rivolgersi ai fratelli Lucchini: pompe funebri Tourneurs du Val, in rue de la République». «Le pompe funebri servono per i funerali. Io vorrei solo che mi aiutasse a fare un piccolo discorso il giorno in cui lascerò le ceneri sulla tomba di questo tizio. Non ci sarà nessuno, solo io... Vorrei dire qualcosa che rimanga fra me e mia madre». Si accovaccia per accarezzare a sua volta Éliane. Guarda lei mentre parla con me. «Ho visto che sui suoi registri... insomma, sui quaderni delle sepolture, non so come li chiama... ha trascritto alcuni discorsi. Pensavo che potrei attingere qua e là dai discorsi degli altri... e metterne insieme uno per mia madre». Si passa una mano fra i capelli. Li ha più grigi dell’altra volta, o forse è solo la luce diversa. Oggi il cielo è azzurro e la luce bianca. La prima volta che l’ho visto il cielo era nuvolo. Ci passa accanto la signora Pinto. «Buongiorno, Violette» dice squadrando diffidente il commissario. In questo paese appena uno sconosciuto varca una porta, un cancello o un portico viene guardato con diffidenza. «Alle quattro ho una sepoltura, venga da me stasera dopo le sette nella casa del guardiano. Scriveremo qualcosa insieme». Sembra sollevato, liberato da un peso. Prende in tasca il pacchetto di sigarette, se ne mette in bocca una senza accenderla e mi domanda dov’è l’albergo più vicino. «A venticinque chilometri da qui. In alternativa, subito dietro la chiesa troverà una casetta con le persiane rosse. È della signora Bréant, fa l’affittacamere. Ne ha una sola, ma è sempre libera». Ha smesso di ascoltarmi, ha lo sguardo altrove, è perso nei suoi pensieri. «Brancion-en-Chalon...» dice poi. «Non è successo qualcosa di tragico, qui?». «Tragedie ce ne sono dappertutto, qui intorno. Ogni defunto è la tragedia di qualcuno». Sembra frugare nella memoria senza trovare quello che cerca. Si soffia sulle mani, mormora: «A dopo» e «Grazie mille», poi va verso il cancello percorrendo il viale centrale. I suoi passi sono sempre silenziosi. La signora Pinto mi ripassa accanto per riempire l’innaffiatoio. Dietro di lei Claire, la donna del reparto oncologico di Mâcon, si dirige verso la tomba di Thierry Teissier tenendo in mano una rosa in vaso. La raggiungo. «Buongiorno, signora, vorrei piantare questa rosa sulla tomba del signor Teissier». Chiamo Nono, che è nel suo ufficetto. I necrofori hanno un locale in cui si cambiano, fanno la doccia mattina e sera e lavano i vestiti da lavoro. Nono dice che l’odore di morte non può attaccarsi ai vestiti, ma che nessun detersivo può impedirgli di depositarsi all’interno della sua testa. Mentre Nono scava nel punto in cui Claire vuole piantare la rosa Elvis canta: «Always on my mind, always on my mind...». Nono mette nella buca un po’ di torba e un tutore perché la pianta cresca dritta. Dice a Claire che ha conosciuto Thierry e che era un brav’uomo. Claire voleva darmi dei soldi perché innaffiassi la rosa di Thierry di quando in quando. Le ho detto che l’avrei fatto, ma che non prendevo soldi. Se voleva poteva infilare qualcosa nel salvadanaio a forma di coccinella che sta in cucina da me, sul frigorifero. Le donazioni erano destinate a comprare il cibo per gli animali del cimitero. «Va bene» ha detto. Ha aggiunto che di solito non andava mai ai funerali dei pazienti del suo reparto, che era la prima volta, ma che Thierry Teissier era troppo gentile per finire sottoterra senza niente intorno, così aveva scelto una pianta di rose rosse per ciò che significava e le sarebbe piaciuto se Thierry avesse continuato a vivere attraverso i fiori. Ha concluso dicendo che le rose gli avrebbero tenuto compagnia. L’ho condotta a una delle più belle tombe del cimitero, quella di Juliette Montrachet (1898-1962), sulla quale sono cresciute piante e arbusti di vario tipo che mescolano colori e fogliame in maniera armoniosa senza che nessuno le curi. Una tomba giardino, come se il caso e la natura si fossero messi d’accordo in via amichevole. «Questi fiori sono un po’ come scale verso il cielo» ha detto Claire, poi mi ha ringraziato. Ha bevuto un bicchiere d’acqua da me, ha infilato qualche banconota nel salvadanaio coccinella e se n’è andata. 10 Parlare di te significa farti esistere, non dire niente sarebbe dimenticarti Ho conosciuto Philippe Toussaint il 28 luglio 1985, lo stesso giorno in cui è morto Michel Audiard, sceneggiatore immenso. Forse è per questo che io e Philippe Toussaint non abbiamo mai avuto granché da dirci. I nostri dialoghi erano piatti come l’encefalogramma di Tutankhamon. Quando mi ha detto: «Ce lo andiamo a bere da me, questo bicchiere?» io ho subito risposto: «Sì». Prima di uscire dal Tibourin ho sentito su di me lo sguardo delle altre ragazze, quelle della fila dietro di lui che non aveva smesso di allungarsi da quando aveva girato loro le spalle per guardare me. Quando la musica si è fermata ho sentito i loro occhi truccatissimi fulminarmi, lanciarmi malefici, condannarmi a morte. Neanche il tempo di rispondere di sì ed ero già sulla sua moto con un casco troppo grande in testa e la sua mano posata sul mio ginocchio sinistro. Ho chiuso gli occhi. Si è messo a piovere. Ho sentito le gocce sul mio viso. A Cherleville-Mézières i genitori gli pagavano l’affitto di un monolocale in centro. Mentre salivamo le scale ho continuato a nascondermi nelle maniche le unghie rosicchiate. Appena siamo entrati si è gettato su di me senza dire una parola. Anch’io sono rimasta in silenzio. Philippe Toussaint era bello da mozzare il fiato. Come in quinta elementare, quando la maestra ci aveva fatto una lezione su Picasso e il suo periodo blu: i quadri che ci indicava su un libro con il righello mi avevano mozzato il fiato e avevo deciso che il resto della mia vita sarebbe stato blu. Ho dormito a casa sua stordita da quanto il mio corpo aveva goduto. Era la prima volta che mi piaceva fare l’amore e non chiedevo qualcosa in cambio. Ho sperato che lo facessimo di nuovo, e così è stato. Non me ne sono andata, ho continuato a dormire da lui uno, due, tre giorni. Poi tutto si confonde, le giornate si appiccicano le une alle altre come un treno di cui la mia memoria non distingue più i vagoni. Resta solo il ricordo del viaggio. Philippe Toussaint aveva fatto di me una contemplativa, una bambina piena di meraviglia che guardava la fotografia patinata di un biondo con gli occhi azzurri pensando: “Quest’immagine mi appartiene, posso mettermela in tasca”. Passavo ore ad accarezzarlo, avevo sempre una mano che vagava da qualche parte su di lui. Si dice che la bellezza non si mangia, ma io la divoravo come antipasto, piatto forte e dolce. E se avanzava facevo il bis. Lui non si opponeva. Sembrava che gli piacessi e gli piacessero i miei gesti. Mi possedeva, per me era la cosa più importante. Mi sono innamorata, e per fortuna che non avevo mai avuto una famiglia, sennò stavolta sarei stata io ad abbandonarla. Philippe Toussaint è diventato il mio unico centro d’interesse, ho concentrato su di lui tutto ciò che ero e che avevo, tutto il mio essere su un’unica persona. Se avessi potuto abitare dentro di lui non ci avrei pensato due volte. «Vieni a vivere qui» mi ha detto una mattina. Non ha aggiunto altro, ha solo detto: «Vieni a vivere qui». Ho lasciato la casa famiglia di nascosto, visto che non ero ancora maggiorenne, e mi sono trasferita da Philippe Toussaint con tutto quello che possedevo, cioè ben poco, qualche vestito e Caroline, la mia prima bambola. Quando me l’avevano regalata parlava (“Buongiorno, mamma, mi chiamo Caroline, vieni a giocare con me” e si metteva a ridere), ma le pile scariche, i circuiti bagnati, i trasferimenti, le famiglie affidatarie, le assistenti sociali e le educatrici specializzate avevano mozzato il fiato pure a lei. Avevo anche alcune foto di classe, quattro trentatré giri, due di Étienne Daho (Mythomane e La notte, la notte), uno di Indochine (3) e uno di Charles Trenet (La Mer), cinque album di Tintin (Il loto blu, I gioielli della Castafiore, Lo scettro di Ottokar, Tintin e i Picaros e Il tempio del sole) e l’astuccio che avevo usato durante la poca scuola che avevo frequentato, con le firme a penna biro di tutti gli altri somari (Lolo, Sika, So, Stéph, Manon, Isa e Angelo). Philippe Toussaint ha spostato qualcosa per fare posto alla mia roba, poi ha detto: «Sei proprio una ragazza strana». E io ho risposto: «Facciamo l’amore?». Non avevo voglia di fare conversazione. Non ho mai avuto voglia di fare conversazione con lui. 11 Culla il suo riposo col tuo canto più dolce Una mosca sta nuotando nel bicchierino di porto. La salvo e la poso sul davanzale. Chiudendo la finestra lo vedo risalire la strada a piedi, col cappotto che riflette la luce dei lampioni. La strada che porta al cimitero è fiancheggiata da alberi. In basso si trova la chiesa di padre Cédric, e dietro la chiesa le poche vie del centro città. Il commissario cammina veloce, sembra intirizzito dal freddo. Come ogni sera ho voglia di stare sola, non parlare con nessuno, leggere, ascoltare la radio, fare un bagno, chiudere le finestre, avvolgermi in un kimono di seta rosa. Stare bene e basta. Una volta chiuso il cancello il tempo è mio, ne sono l’unica proprietaria. È un lusso essere proprietari del proprio tempo, lo ritengo uno dei più grandi lussi che l’essere umano possa concedersi. Ho ancora addosso l’inverno sull’estate, mentre di solito a quest’ora indosso solo l’estate. Rimpiango un po’ di aver detto al commissario di passare da me, di avergli offerto il mio aiuto. Bussa, come la prima volta. Éliane non si muove, per lei è già cominciata la notte, sta appallottolata tra le innumerevoli coperte della sua cesta. Mi sorride, dice buonasera. Insieme a lui entra un freddo secco. Chiudo subito la porta e gli avvicino una sedia perché si sieda. Non si toglie il cappotto. Buon segno, vuol dire che non intende fermarsi a lungo. Senza chiedergli niente prendo un bicchiere di cristallo e gli verso un po’ del mio porto annata 1983, quello che mi porta José-Luis Fernandez. Vedendo la collezione di bottiglie allineate nel mobile che funge da bar sgrana i grandi occhi neri. Ce ne sono centinaia. Vincotti, malti, liquori, acquaviti, alcolici vari. «Non faccio traffico clandestino di liquori, sono regali. La gente non osa portarmi fiori. Non si regalano fiori ai guardiani di cimitero, tanto più che io li vendo. A parte la signora Pinto, che ogni anno si presenta con una bambolina sotto vuoto, gli altri regalano bottiglie o vasetti di marmellata. Mi ci vorrebbero parecchie vite per ingurgitare tutto quello che mi danno, così molte cose le regalo ai necrofori». Si toglie i guanti e beve un sorso di porto. «Sta bevendo la cosa migliore che ho». «Divino». Non so perché, ma non mi sarei mai immaginata che potesse pronunciare la parola “divino” sorseggiando il mio porto. A parte i capelli che gli vanno in tutte le direzioni, non c’è fantasia in lui, ha l’aria triste come i vestiti che porta. Prendo carta e penna, mi siedo di fronte a lui e lo invito a parlarmi della madre. Sembra pensarci un attimo, poi inspira profondamente e dice: «Era bionda. Bionda naturale». E basta. Si rimette a osservare le pareti bianche come se ci fossero appesi capolavori. Ogni tanto si porta il bicchiere alle labbra e beve un sorsetto. Vedo che lo sta degustando, e che si rilassa man mano che beve. «Non ho mai saputo fare i discorsi. Penso e parlo come un rapporto di polizia o un documento d’identità. So dirle se una certa persona ha una cicatrice, un neo, un’escrescenza... se beve, le sue misure... A colpo d’occhio sono in grado di sapere statura, peso, colore degli occhi e della pelle e segni particolari di un individuo, ma sono incapace di capire quel che prova... a meno che non abbia qualcosa da nascondere...». Ha finito il bicchiere. Glielo riempio subito e taglio qualche fetta di formaggio che dispongo in un piattino di porcellana. «Ho fiuto per quel che riguarda i segreti. Sono un vero segugio... individuo subito il gesto che tradisce. Cioè, così credevo prima di scoprire le ultime volontà di mia madre». Il mio porto fa lo stesso effetto a tutti, agisce come un siero della verità. «Lei non beve?». Me ne verso una lacrima e brindo con lui. «Tutto qui?». «Sono guardiana di cimitero, bevo solo lacrime... Potremmo parlare delle passioni che aveva sua madre, e non mi riferisco necessariamente al teatro o al salto alla corda, ma al suo colore preferito, al posto in cui le piaceva passeggiare, la musica che ascoltava, i film che guardava, se aveva gatti, cani, alberi, come passava il tempo, se le piacevano la pioggia, il vento o il sole, qual era la sua stagione preferita...». Rimane silenzioso a lungo. Sembra che stia cercando le parole come un escursionista perduto cerca la strada. Finisce il bicchiere e dice: «Le piacevano la neve e le rose». E stop. Non ha altro da dire su di lei. Sembra smarrito, a disagio, come se mi avesse confessato di essere affetto da una malattia rara, quella di non saper parlare di uno dei suoi familiari. Mi alzo e vado all’armadio dei registri. Prendo quello del 2015 e lo apro alla prima pagina. «È un discorso scritto il primo gennaio 2015 per Marie Géant. La nipote non è potuta venire al funerale perché era all’estero per lavoro. L’ha spedito a me pregandomi di leggerlo durante la cerimonia. Porti il registro con sé, legga il discorso, prenda qualche appunto e domattina me lo rende». Si alza e si mette il registro sottobraccio. È la prima volta che un registro esce da casa mia. «Grazie, grazie di tutto». «Dorme dalla signora Bréant?». «Sì». «Ha cenato?». «La signora Bréant mi ha preparato qualcosa». «Torna a Marsiglia domani?». «Sì, alle prime luci dell’alba. Le riporterò il registro prima di partire». «Lo lasci sul davanzale della finestra, dietro la fioriera blu». 12 Dormi, nonna, dormi, e che tu possa ancora sentire le nostre risate infantili dall’alto del cielo DISCORSO PER MARIE GÉANT Non sapeva camminare, correva. Non stava ferma un attimo, gambottava. “Gambottare” è un’espressione dell’est della Francia. “Smettila di gambottare” vuol dire “Siediti una buona volta”. Ebbene, è successo, si è seduta una volta per tutte. Andava a dormire presto e si svegliava alle cinque del mattino. Per non fare la fila era la prima ad arrivare nei negozi. Aveva un sacrosanto orrore delle file. Alle nove, con la sua sporta a rete, aveva già fatto le spese per la giornata. È morta nella notte fra il 31 dicembre e il primo gennaio, un giorno festivo, dopo che per tutta la vita aveva sfacchinato. Spero che non abbia dovuto fare troppa fila davanti alle porte del paradiso, con tutti i festaioli che si schiantano in macchina la notte di Capodanno. Per le vacanze, su mia richiesta mi faceva trovare due ferri da maglia e un gomitolo di lana. Non sono mai andata oltre i dieci ferri. Immaginando di mettere le annate una dietro l’altra devo aver fatto una sciarpa che mi avvolgerà intorno al collo quando la raggiungerò in paradiso. Sempre che mi meriti il paradiso. Al telefono si annunciava dicendo «Sono la nonnetta», e rideva. Ogni settimana scriveva lettere ai figli, tutti lontani. Scriveva come pensava. A ogni compleanno, Natale, Pasqua e festa comandata mandava pacchetti e assegni ai suoi “cocchi”. Per lei tutti i bambini erano “cocchi”. Le piacevano la birra e il vino. Faceva il segno della croce sul pane prima di tagliarlo. Diceva spesso «Gesummaria», era come una punteggiatura, un punto che metteva alla fine di ogni frase. Sulla sua credenza c’era una grossa radio che restava accesa tutta la mattina. Siccome è rimasta vedova molto presto ho spesso pensato che la voce maschile degli speaker le tenesse compagnia. Da mezzogiorno in poi la televisione dava il cambio alla radio, per ammazzare il silenzio. Guardava tutti i quiz più cretini e finiva per addormentarsi davanti a Febbre d’amore. Commentava ogni battuta dei personaggi come se esistessero davvero. Due o tre anni prima della caduta che l’ha costretta a lasciare il suo appartamento e trasferirsi in una casa di riposo le hanno rubato dalla cantina ghirlande e palle di Natale. Mi ha telefonato in lacrime, come se le avessero rubato tutti i Natali della sua vita. Cantava spesso, molto spesso. Anche alla fine della vita diceva: «Ho voglia di cantare». Diceva pure: «Ho voglia di morire». Andava a messa tutte le domeniche. Non buttava niente, meno che mai gli avanzi. Li riscaldava e li mangiava. Certe volte stava male a forza di mangiare e rimangiare la stessa cosa finché non ce n’era più, ma preferiva vomitare pur di non buttare un tozzo di pane nella spazzatura. Scampoli di guerra nello stomaco, presumo. Comprava vasetti di senape decorati che teneva per i nipotini, i suoi cocchi, quando andavano in vacanza da lei. Sul fornello c’era sempre una pentola di ghisa in cui cuoceva a fuoco lento qualcosa di buono. Una gallina al riso le durava una settimana. Metteva da parte il brodo per le cene. Sui fornelli c’era anche una padella con due o tre cipolle o una salsetta che faceva venire l’acquolina in bocca. Ha sempre vissuto in affitto, non ha mai posseduto una casa. L’unica cosa di sua proprietà era la tomba di famiglia. Quando sapeva che stavamo arrivando per le vacanze ci aspettava alla finestra della cucina scrutando le macchine che si fermavano nel piccolo parcheggio in basso. Vedevamo i suoi capelli bianchi dietro la finestra. Appena arrivati ci diceva: «Quand’è che tornate a trovare la vostra nonnetta?», come se volesse che ripartissimo. Gli ultimi anni non ci aspettava più. Se avevamo la sfortuna di arrivare alla casa di riposo con cinque minuti di ritardo per portarla al ristorante la trovavamo a mensa con gli altri vecchi. Dormiva con una retina sulla testa per non sciuparsi la messa in piega. Ogni mattina beveva un bicchiere d’acqua tiepida con un limone spremuto dentro. Aveva un copriletto rosso. È stata la madrina di guerra di mio nonno Lucien. Quando è tornato da Buchenwald non l’ha riconosciuto. Sul comodino aveva una fotografia di nonno Lucien, poi anche la fotografia l’ha seguita alla casa di riposo. Mi piaceva un sacco mettermi le sue sottovesti di nylon. Siccome comprava tutto per posta riceveva una quantità di omaggi, cianfrusaglie di ogni genere. Appena arrivavo a casa sua le chiedevo se potevo andare a frugare nell’armadio. «Come no, vai» diceva, e io rovistavo per ore, trovavo messali, creme Yves Rocher, stoffe, soldatini di piombo, gomitoli di lana, vestiti, foulard, spille, bambole di porcellana. Aveva la pelle delle mani rugosa. Qualche volta le ho fatto la messa in piega. Per risparmiare non faceva scorrere l’acqua quando sciacquava le stoviglie. Negli ultimi tempi, riferendosi alla casa di riposo, diceva: «Che ho fatto al buon Dio per ritrovarmi qui?». Ho cominciato a non dormire più da lei a diciassette anni. Andavo da una zia che abitava a trecento metri da casa sua in un bell’appartamento sopra un grande caffè e un cinema frequentato dai giovani, con calciobalilla, videogiochi e gelati. Mangiavo comunque dalla nonna, ma preferivo dormire dalla zia per le sigarette che fumavamo di nascosto, il cinema tutto il giorno e il bar. A stirare e fare le pulizie dalla zia avevo sempre visto la brava signora Fève, finché un giorno mi sono imbattuta nella nonna che passava l’aspirapolvere nelle camere. Sostituiva la signora Fève che era in ferie o malata. Certe volte capitava, così mi hanno detto. Il giorno in cui è morta non sono riuscita a chiudere occhio a causa del disagio che c’era stato fra noi in quel momento, quando avevo aperto la porta ridendo e l’avevo trovata che faceva le pulizie, piegata in due sull’aspirapolvere per arrotondare il fine mese. Ho cercato di ricordare cosa ci fossimo dette quel giorno, ed è stato questo a impedirmi di dormire. Continuavo a rivedere quella scena, una scena che avevo completamente dimenticato fino a quando non è morta. Per tutta la notte ho aperto quella porta e l’ho trovata che puliva in casa d’altri, per tutta la notte ho continuato a ridere con i miei cugini mentre lei passava l’aspirapolvere. La prossima volta che la incontrerò le domanderò: «Nonna, ti ricordi quando ti ho visto fare le pulizie dalla zia?». Di sicuro farà un’alzata di spalle e dirà: «E i cocchi? Stanno bene, i cocchi?». 13 C’è qualcosa di più forte della morte, ed è la presenza degli assenti nella memoria dei vivi Ho appena trovato il registro del 2015 dietro la fioriera blu. Sul retro del dépliant di una palestra dell’VIII arrondissement di Marsiglia il commissario ha scritto Grazie mille. Le telefono. Sul davanti dello stesso dépliant c’è la foto di una ragazza sorridente con un corpo da favola strappato all’altezza delle ginocchia. Non ha scritto altro, non un commento sul discorso per Marie Géant, non una parola a proposito della madre. Mi chiedo se sia ancora distante da Marsiglia o se sia già arrivato. A che ora si è messo in viaggio? Vive vicino al mare? Lo guarda o non ci fa più caso, come se ci convivesse da così tanto tempo da sentirsene separato? Nono ed Elvis arrivano mentre sto aprendo il cancello. Mi lanciano un «Ciao, Violette!» e parcheggiano il camion del comune nel viale centrale per andare nel loro locale a mettersi in tenuta da lavoro. Li sento ridere mentre percorro i vialetti adiacenti per controllare che sia tutto in ordine, che ognuno sia al proprio posto. I gatti vengono a strofinarsi contro le mie gambe. In questo momento ce ne sono undici che vivono nel cimitero. Cinque di loro appartenevano a persone defunte, almeno mi pare, visto che sono comparsi quando sono stati sepolti Charlotte Boivin (1954-2010), Olivier Feige (1965-2012), Virginie Teyssandier (1928-2004), Bertrand Witman (1947-2003) e Florence Leroux (1931-2009). Charlotte è bianca, Olivier nero, Virginie un soriano, Bertrand è grigio e Florence, che è maschio, ha chiazze bianche, nere e marroni. Gli altri sei sono arrivati nel tempo. Vanno e vengono. Siccome si sa che al cimitero i gatti vengono nutriti e sterilizzati la gente li abbandona qui o addirittura li lancia al di qua del muro.