mercoledì 11 marzo 2020

  
CUGINO BARBIERE 
(Zoraide)
Estratto da "Accoppiamenti giudiziosi"

Carlo Emilio Gadda 


Il giorno di lunedì 5 ottobre 1915 un tempestar di colpi sull’uscio fece levar il capo e rivolgerlo alla stupenda Zoraide ch’era seduta sur una scranna impagliata e agucchiava. Era seduta in un certo modo succinto e piccante da far venire l’acquolina in bocca a’ suoi ammiratori; ma lì non ce n’era nessuno.
Picchiavano ancora, come a dar segno indubbio d’una volontà e d’una forza: ed ella, lasciato pacatamente il ricamo, certe cadenti ciocche de’ meravigliosi capelli con la mano se le ravviò, gettato il capo all’indietro. Erano d’una luce bionda aurata e ramata, ricchissimi, folti: e i primi, dalla fronte e dai polsi, volevano scenderle sopra il ricamo, sospinti dalla folla tumultuosa degli altri.
Si levò lesta, e tranquilla. «Calma, calma,» disse con calma e insieme con fermezza, quando fu dietro l’uscio, irto di catenacci, catenelle, fermi e stanghette: dava sul ballatoio.
«Chi è?» soggiunse poi subito. «Non sarà la questura, da picchiare a sto modo.»
E, quasi per dar prova a qualcuno della serenità sua, piantò sui fianchi le mani appoggiandole alla rovescia, dal dorso, e leggermente curvandosi in avanti, come se parlasse a un ragazzo insolente, severa e ferma, dall’alto. Eran mani, eran braccia nude, bianche, da morsicarle, a dar ascolto a certi giovani.
«Sono io, apri pure,» disse una voce d’uomo da fuori.
Zoraide la riconobbe.
«Oh! Io, io, io: aprirò se avrai un po’ di maniera... è il modo questo di battere all’uscio della gente?»
«Il campanello non suonava...»
«Lo so. Di obbligo, caro Gildo, capirai bene che non ce n’è, non ti pare?... cosa vuoi?»
«Devo parlarti. Aprimi.» E la voce, ch’era voluta parer forte e sicura, finì, lo si capiva anche a non vedere, in un sciocco e goffo sorriso da bellimbusto in ritirata.
«Va be’, aspetta.»
Zoraide si appressò al cassettone, dove c’era fra molti oggetti inutili un cumulo di lavori di cucito e, quel che più le importava in quel momento, uno specchio. Si ravviò con più studio, con un profondo immergere e un distirar lungo, fra quei capelli che aveva disciolti, d’un pettine largo, bianco avorio, un po’ unto. Poi si guardò volgendosi e distorcendosi, si rassettò, si levò certi filuzzi del ricamo che le si erano posati qua e là nella veste, ma soprattutto in quella regione di essa che una floridezza proterva rendeva come turgida d’ogni possibilità, così almeno interpretavano gli specialisti. Il più ingrato de’ suoi pensieri fu, in quel momento, che troppo le sarebbe spiaciuto che certe dita, con il pretesto di toglier via que’ filuzzi, avessero ad usare nella stima il tatto, dov’era già di troppo la vista.
Da quello specchio in secolare e a certe chiazze gialla avarìa, l’immagine femminea di Zoraide risfolgorava per meravigliosi romanzi: un dannunziano in ritardo ne avrebbe cavato seduta stante uno sproloquio di capolavoro.
Difatti, nel ravviarsi che fece, il suo corpo era passato dall’aspetto squisito e pure consapevole e intento della pacatezza, cui, con un lieve respiro, s’era affidata ricamando, a una linea di fierezza fisica da dar dei brividi a un oplite.
Serrati i talloni, alle caviglie tendinee succedeva la simmetria delle gambe dentro la calza attillata, cui sapienti muscoli rendevano vive per ogni spasimo, e amoroso soccorso. Poi una corta gonnella, corta dalla povertà, non dalla moda: e non facea mistero di quel che celasse. Erano le proposizioni vive dell’essere, compiutamente affermate, che rendono al grembo una corona di voluttà in attesa di manifestarsi: fulgide nei toni del latte e dell’ambra si pensavano misteriose mollezze, che la secreta libidine e il magistero pittorico del vecchio fossero tuttavia pervenuti a riconoscere, al tatto, e quasi a disvelare e a significare per arte. Dall’abetaia e dalle marmaròle, con lo spiro della sera, fasto di dogale porpora: e d’oro.
Né dalla cintura, una banda di tela ricucita, era sorretta la veste, sì a guisa d’una clamide dalle spalle e dalla vividezza dei seni, che non si capiva se fossero carne o che cosa. E le braccia levate scoprivan le ascelle dentro le corte maniche: levata la sinistra nella fatica del regger la massa de’ capelli fulvi ed aurati, la destra con il pettine grande, che ora vi si immergeva distratto, come un favorito già sazio. Le ascelle erano bionde di delicate sete, ravvolte, come da un gioco perverso, in cirri delicatamente profferti allo sguardo. Di chi?
E dal florido viso, un po’ irregolare nel mento di sotto alle labbra piene e un tantino melodrammatiche, che apparivano, stilisticamente, in contraddizione col resto, aveva piantato nello specchio due occhi intenti, iridati d’oro e di cenere, perfidamente taciti e calmi: cui lo specchio si dava a riprodurre implacabile, preso da un attacco di zolianésimo, funzionario della meticolosa analisi, sicuro fotografo de’ lunghi cigli e delle lor ombre d’amore: mentre se fosse stato un uomo, magari anche soltanto un novecentista, la fotografia sarebbe riuscita catastroficamente sintetica. No, la donna dal pettine bisognava prenderla a tradimento: ché con le buone non c’era niente da fare.
Zoraide aprì finalmente ed uscì lei sul terrazzino, decisa. Sui terrazzini da lato e di fronte, nel sole tepido, c’erano già per qualche loro occorrenza altre diciassette donne, quale appoggiata alla ringhiera e quale in sulla porta come per entrare od uscirne, e quale con un rugginoso coltello dal defunto manico a rimestare dentro vasi o cassette di probabili lattughe o di garofani: intenzionata poi a dacquarli, tanto per concludere.
Erano certamente occupate ne’ fatti loro. Qualche triste canarino, qualche mucoso marmocchio. E ragazze segnalate in arrivo da quel particolare semaforo che anche in Zoraide era sensitivo e prontissimo e uno scrittore di polso lo chiamerebbe «l’istinto della donna».
«Cosa vuoi? Ma un’altra volta ricòrdati che sorda non sono,» disse a quel Gildo sorvolando sui convenevoli. E lo guardò seria, stringendo le labbra, con una ruga verticale, improvvisa e diritta, nella fronte bianca. Con le mani impigliò, quasi per non ne saper che fare, delle mani, la catenina di povero argento, che aveva al collo, intricandovi l’esile crocefisso: talché i due avambracci e le gomita vennero a proteggere il seno.
«Va bene, va bene,» disse Gildo, un po’ pallido, quasi con un tremito addosso, e inghiottì la saliva a cui secernere le sue paròtidi avevano lautamente accudito, nel lungo intervallo fra il bussare e il vedersi aprire. Aveva mezza bocca contratta in una specie di sorriso, dondolava con falsa spigliatezza una gamba, postatosi all’indietro sull’altra, i pugni alle tasche.
Era un cugino del marito di Zoraide, all’anagrafe Pescassinetti Spartaco di Ermenegildo, al secolo Gildo, detto el Castègna.
Per via ch’era accaduto non una volta l’avessero ad aver colto in castagna sia con qualche donna, anche stagionatella, qualche concorrente o protettore o magari marito: sia da ultimo la Finanza, i carabinieri e la squadra mobile impegolatisi in un «loro» pasticcio, che si trascinava, oramai, da mesi. Questi, fra tutti e tre, avevano finito per intorbidargli d’attorno le acque sino alla disperazione: e combinato un garbuglio tale che però per tutta la Canonica e il Paolo Sarpi era opinione corrente non ne sarebbe mai venuto a capo nessuno.
Nella lungagnata, ecco, erano entrate a far parte, con lo spirito di corpo della Finanza, della Questura e della Malemerita, così diceva Gildo plagiando la «Gazzetta», anche le più visigotiche, le più pignolose trovate di tutto un repertorio complicatissimo.
Avevano cominciato col tirare in scena quattro biciclette nuove fiammanti, chi diceva Stucchi e chi Bianchi, di cui volevan sostenere per forza che una fosse stata barattata con altre cinque stravecchie e prive di gomme, coi pedali rincagnati, che uno non girava più: e avesse poi cambiato quattordici proprietari in nove giorni, zigzagando fulminea, come fa nei quadri la saetta del fulmine, per Usmate, Rho, Gorgonzola, Seregno, Pizzighettone, Bergamo e Vaprio d’Adda; dove, corri Adua cèrulo, era riuscita a far perdere sue tracce a’ più scaltri segugi, ingolfatasi nelle nebbie provvidenziali del non si sa: e quelli gnào gnào, prèndila prèndila.
Un’altra l’avevano presa in gobbo anche quella, perché fu venduta per un prezzo «proprio da amici» a uno «sportivo», che per combinazione risultò ignoto alla questura. Sotto il deretano del quale, quando i carabinieri di fuori ricevevano i primi avvisi, aveva già galoppato dietro una corsa di catastrofici juniores ed era già sparita in un burrone di discreta profondità, dopo un paracarro e un cartello-svolta del Touring e alcuni agghiaccianti sobbalzi, dalla parte dei Giovi.
Abbandonato il «centauro» fra sterpi e roveti, la bicicletta era riuscita ad arrivare in fondo, per quanto leggermente rattrappita, anzi accartocciata: assumendo l’aspetto, agli occhi de’ valligiani accorsi con molto fiato e con qualche speranza, d’un artistico lampadario. Chi gli parve, anzi, d’un arcolaio.
Le ultime due, da diporto, ridipinte e cambiatogli sella e manubrio, forse perché da corsa «vanno» di più, e questa ipotesi fu Gildo stesso che la prospettò alla questura, furono coinvolte nella liquidazione di una maglieria: poi le persero di vista: quand’ecco se le trovò fra i piedi la Finanza, nel retro d’un sale-e-tabacchi cui aveva sentito il bisogno urgente di onorare d’una visitina. Dalle indagini emersero inoltre i seguenti dati di fatto: il proprietario della maglieria vuota doveva essere della leva di mare e la di lui moglie giocava al lotto: (questa ghiotta notizia Gildo la mollò sottovoce, al «terrone» che lo interrogava); giocando al lotto, aveva perso fior di biglietti da cento, si era ammalata ed era partita: sì, anche lei: i carabinieri dicevano invece «scomparsa»; va bene, ma lì per lì, se sa bên che se podeva minga savè in dôe diavol l’eva andada a casciàss, propi in quel momênt.
Ma i carabinieri non gli davano pace: perché con la loro malvagità consueta nel pittoresco repertorio della maglieria erano riusciti anche a introdurre trentadue dozzine di cravatte di seta, ventotto dozzine fantasia e quattro da lutto, dodici pacchi di mutande da uomo, felpate, sette scatole di saponette al gelsomino, e una quarantina fra bottiglie e fiale di profumi, con le marche un po’ grattate. Inoltre, colmo dei colmi, uno scatolone monumentale che, scoperchiato, rivelò subito alla questura esterrefatta cinquanta pere di gomma per uso irriguo; e poi ancora degli spruzzatori, del dentifricio, della cipria, otto lampadine «Philips», un grammofono che non si riusciva più a farlo cantare, un abito ecclesiastico e una fenomenale gabbia da uccelli in forma di «châlet» svizzero, con disegni di finestre ogivali e due torri certamente gotiche.
Il mistero delle mutande e il sottomistero delle cravatte, se qualche oste intruglia-polpette avesse voluto chiacchierare fuor di proposito, si sarebbero convertiti di colpo in un mistero di bistecche, insalata mista e caffè corretti: ma osti e relative Caroline cascarono diritti diritti giù da tutte le nuvole del cielo, com’è tradizione che gli garbi fare, o parere.
Finalmente, fortuna che era venuta la guerra! Se no quelli chissà fin quando avrebbero seguitato a rimestar la polenta, proprio come i bambini che «ci colgono gusto a star lì apposta», il tocco è del Castagna medesimo, «a rugare», cioè quasi far ghirigori, «col bacchettino nella biacca».
Il poter paragonare i carabinieri a dei bambini dal gusto perverso, procurò a Gildo una salubre soddisfazione: non si accorse, come al solito, che il finale dell’ipotiposi toccava a lui.
Sul terrazzino, davanti la porta, dopo due o tre frasi Zoraide continuava a rimirar la cravatta del giovane, persa come in vagabondi pensieri. Egli cercò invece vanamente gli occhi di lei e per tutto il corpo lo dominava un tremore convulsivo, fatto oramai di cupidità cieca e di timidezza puerile, di speranza, di desolazione, di rabbia: mentre cercava parole da instradare un discorso pur che fosse: ma le esse e le erre gli si confondevano prima d’uscire, in un balbettìo preventivo di tutto quanto il cervello.
Ma l’idea coatta lo riprendeva, di essere forte, spigliato, temibile incendiario de’ cuori. Ma la presenza splendida e calda di Zoraide, non che eccitare, dissipò franchezza e tristizia: davanti alla bella sentì la sua volontà smarrirsi ancora ed ancora, sopraffatta da uno sgomento strano. Gli parve d’essere malato, sudava ne’ palmi chiusi e freddi dentro le tasche, impallidì: così vanno i cenci all’aria in cartiera e nella mala burbanza del mondo.
«Non sapevo,» farfugliò esitando, con un sorriso melenso, «se eri alle volte fuori di casa. Ero venuto per darti notizie del Luigi, poi anche per pregarti... se potevi farmi un piacere.» Lei allora lo guardò, rabbuiandosi.
«So già del resto che sarà difficile...», ebbe un lampo cattivo, un attimo: tornò subito al sospiroso e all’amaro.
«Ti ringrazio,» fece seccamente Zoraide. «Il Luigi so che sta bene. Quanto al piacere, che piacere è?»
«Bene... bene...» disse Gildo, incattivito nel tono e nel volto, staccando le due parole nella pausa dubitante fra parere e parer contrario. «Bene lo dicono quelli che mangian di grasso e la paga la prendono buona, perché fanno l’ufficiale o il prete, o scrivono su per i giornali... venduti alla borghesia...» si ingolfò come in una diatriba che prediligesse, gli si sciolse la lingua, parve dimenticare a un tratto la donna, parlò a voce alta, e lo udiron tutte.
«Scrivono che la guerra ci voleva, e che adesso va come un olio, che è fino un peccato piantarla lì, da tanto che la va bene: e i cannoni in qualche modo bisogna pur goderli, si sa... Ma sicuro!»
Zoraide s’era abbuiata anche più, sembrò muoversi.
«A ogni modo, la cartolina che m’ha scritto è questa qui.» Zoraide, cupa, neppure vi lasciò cader gli occhi.
Lui, porgendola, fece per accostàrlesi, come a leggerla insieme: e fu allora, nuovamente, una disperata ebbrezza, quella che pure un giorno, lo sentiva, sarebbe finalmente finita! O strangolar qualcuno con le sue mani, o dar della testa nel muro, spaccarla contro il muro.
Sopra un terrazzino dirimpetto una ragazza tossì: Zoraide levò un’occhiata vipèrea: tra le gómita e le braccia conserte della fanciulla, appoggiate sulla ringhiera, ne vide sparire gli occhi, e il viso rosso e ridente, quasi a celarsi: dileggio, malizia.
«Ce n’è delle stupide a prendere il fresco!» disse allora a voce alta e spiccata: né le donne fiatarono.
Tutto questo, a Gildo, finì per fargli svaporare dall’anima tutte le arie, quante ne avesse avute in programma. Interruppe la lettura: «Non si può entrare?» mormorò a Zoraide, con una voce d’implorazione; «c’è proprio bisogno di star qui, a dare spettacolo?»
«Drento xe pexo... so maridà da gnanca un ano... col marìo in guerra... non te saré miga mato.»
Gildo sentì bruciare la staffilata di quel «mato».
Cribbio, l’avrebbe voluta rovesciare sul letto, l’avrebbe strangolata, a poco a poco: altro che sposa, e il Luigi, e il Trentino! A qualche interventista, poi, con che gusto gli avrebbe mollato una coltellata nello stomaco! Si consolò un momento, che era una fortuna anche la guerra, dopo tutto, ad aver dietro quella «catabréga di scarafaldoni», cioè quella filza di agenti.
Basta che non lo prendesse lui, questa maledetta guerra dei signori, perché allora avrebbero veduto subito, che aria tirava! «Viva Trieste! Viva Danunsio!» gli interventisti, gli studenti! e poi correre a imboscarsi, ma di volata!
Come quel menestrello di diciannov’anni che era sempre dietro a tutte, a fargli l’asino: e come non bastasse, adesso dicevano che aveva trovato da far buona legna nel bosco, insieme a lei, ma sì, evviva, con lei, con la sposa, proprio: e sera e mattina, o con i libri o senza libri. Riudì una cadenza, assai grave, plagiò inconsciamente con quello spregiato nome dei libri un canto, lento, che aveva udito l’anno prima, in côrs Sempiôn: «O con le sca-rpe, o senza scaa-rpe, i miei alpini li-voglio qua.» Eren propi lôr, quii maledett scarpôni, ma de bôn.
Cosa studiava sto pirla, sto ruffiano, dal momento che lavorava in fabbrica a rubar pane alla gente? «Noi a crepare, vorrebbero, e loro a gridar viva,» pensò: mentre Zoraide gli andava dicendo lei del marito, delle notizie, della posta, della franchigia, della censura, dei numeri dei reggimenti. «Viva cosa?» gridò.
La bella trasecolò, non comprese. «Viva questo, boia di una miseria!...», e fe’ l’atto di lanciare un immaginario coltello, nella immaginaria pancia, d’un immaginario guerrafondaio.
«Cosa gheto, Gildo... mi digo che te ste poco ben, ti, caro...» disse allora Zoraide, tra incuriosita e perfida: e sorellevolmente sgomenta; la segreta ira dei maschi ingelositi l’uno dell’altro le aveva sempre fatto, al primo addàrsene, piuttosto piacere che paura. La cartolina e le notizie dovevano essere omai entrate, a un paio di mesi dai primi arrivi, nel cervello delle comari; un’aura di pietà e simpatia si diffuse in quel vedovo matronèo, lo sentì.
«E adeso, che piasere vorìsto, sentimo...»
«Eh!» disse lui amaro e incurante, «un piacere non lo fai, tu, a uno che è perseguitato dalla questura... A te ti piacciono quelli col termosifone, adesso... appena che viene avanti la nebbia.»
Zoraide arrossì un attimo: «canaja e spia!»: ma volle celare il risentimento. «De la questura?» disse invece, simulando un delizioso stupore. Sapeva, le avevano riferito. Cravatte, saponette, biciclette: roba rubata.
Riprese allora enfaticamente quell’altro, lieto di redimersi davanti alla donna: fiero di avvilirla, come serva dei ricchi.
«Eh già, si capisce... della questura del Salandra: una massa di malviventi, domandalo al tuo Luigi, se puoi avere ancora qualche dubbio. Lo dovresti pur sapere che cercano fuori tutti quelli che lavorano negli stabilimenti, col minimo pretesto, per imballarli allo scannatoio. Per loro non ci ha da essere stanchezza, non c’è né malattie, né miseria. Lavorare come forzati, e signor sì. Questo è il progresso dei nazionalisti, tale e quale lo vorrebbero loro.
«Se tardi cinque minuti, multa; se vai al cesso, multa; se bevi una grappa e ne dici una come ti gira, salta fuori il maggiore, il capitano... Prendi un po’ per esempio il Carlo, el Gibigiàna, quello del Paolo Sarpi: lo conosci bene anche tu. Bene, l’han menato via la settimana passata, con la scusa che era malcontento. E adesso mi vogliono spedire anche me.»
Zoraide conosceva Gildo da parecchi mesi, e sebbene lo avesse percepito o incontrato più di una volta come cugino (un po’ alla lontana) del marito, non s’era curata mai molto d’aver notizie di lui: mentre le notizie della gente, in generale e in particolare, le trovava quasi sempre interessantissime.
«Ma ti, no te si barbiere?... quea volta, te ricòrdito, co Gigi, che tornàvimo dala Fiera dei Bastioni, e te me ghe fato védare quea botegheta, là... un po’ andante, al cantón de via Scaldasóe...»
«Andante o non andante,» interruppe Gildo piccato, «basta che il quaglia butti fuori una qualche mammola, di tanto in tanto, quando gli gratto la pancetta. Neanche voi altri non vivrete d’asparagi, dopo tutto.» Rise d’un risolino che avrebbe voluto cinico e amaro, ma fu soltanto scemo e innocuo. Spéntosi, rimase la faccia: gli occhi frusti e qualche acetoso bitorzolo, sfumato d’un alone violaceo, mettevano note da Folies Bergère di porta Cicca in un gramo pallore.
«Bene, e adesso?» riprese Zoraide.
«Adesso sono dal Cragnoni.»
«Dal?...»
«Dal Cragnoni, stabilimento Cragnoni. Faccio il tornitore.»
«Ah! il meccanico, dal Cragnoni: li conosco...»
«Me l’immagino,» ghignò Gildo; «ero anzi venuto proprio per questo: so che vai a lavorare da quella signora, che sono parenti. Me l’hai detto tu, proprio tu... che è così buona,» ghignò, «che è quasi parente di quel grosso industriale, ti ricordi? Be’, quello è il Cragnoni. Cosa vuoi? Lavoro di parrucchiere, oremai, con più di metà che ce n’è via... Ma il guaio è che la sgagnosa l’è sempre quella di prima: anche i signor sì non li avran mica messi a metà razione, m’immagino.»
«E ti, come gheto fato a imparare così presto... xe difisil?»
Gildo ringalluzzò di quell’àcino insperato.
«Cara mia, c’è chi nasce minchione, e quello può campar cent’anni, ma a stare al mondo non impara mai...»: forse alludeva a qualcuno, lieto nel vanaglorioso confronto. «Ma io!...» fece come se volesse andare, si puntò un indice sul petto, strinse le palpebre dando ombre torve dentro le ciglia alle iridi perché la sentenza venisse fuori più truce: «Io, ricòrdati, sposa, di guerre ne potete fare anche cento», strizzò minaccioso le palpebre, «anche mille, ne potete fare, dele vostre guerre: ma voeuri vedemm squartàa in dôdes tòkk se a me mi pescheranno mai come l’è vera che mi chiamo Spartaco,... sül certificàa, a ben che in famiglia, de fiôlett, me diséven el Scarliga, perché Spartaco», e rifece il verso alla maestra, «dicevano che non è un nome adatto per i bambini. Ma la veritàa l’è... che la me daga a trà a mi, la veritàa l’è che domà sentì Spartaco tüti sti giambôn cônt i vermen, de borghés guerrafondai di un quintale l’uno, viva Danunsio! pènna sentì Spartaco vegnéven smort come tanti lenzuoli a Lambrate, tacà a la cordetta, in di pràa...»
Si allontanò di pochi passi lungo il terrazzino, le mani alle tasche, ripreso ciecamente in un’enfasi: giravoltò: ma la giravolta ampollosa gli venne male, data la strettura. Tornato sui quali passi aveva a dirne una ancora più importante, mentre Zoraide seguitava a tormentar le dita in quella catenina d’argento, presso la fossetta ombrata della sua meravigliosa gola, dispianate le sopracciglia, quasi in pietosa attesa del séguito.
«La guerra, la guerra! Come trucco l’han trovato giusto, propio da scrocchi, loro che prendono le paghe, le indennità, le trasferte: per comandare agli altri, per fare i generali, i ministri: gli assassini, dico io. E noi a crepare soltanto perché ce lo comandano loro, con la sôa Austria. Guardami bene in faccia, sposa mia bella. Ti pare che Spartaco Pescassinetti sia uno di quelli da fargli dire signor sì?»
Zoraide lo guatò davvero stavolta, negli occhi, che le parvero guardar lontano da lei, persi in una solitudine disperata e astratta, nella disumanità d’un delirio: cercò, quasi per rispondere alla domanda, di reperire, in fondo all’arsenale vuoto del suo stomaco, un moto di interesse quale che fosse, o pietà o curiosità donnesca; ma non poté attingerne se non un fastidioso disgusto.
Amava, in un giovane, in un uomo, la pacatezza, la confidenza, la ragione, la forza, il silenzio: e sopra ogni cosa un viso e degli occhi che dicano vigore e letizia, e sicurtà piena del volere. I forsennati, i roboanti, non meno de’ pustolosi, le erano causa di frigidità, di insopprimibile tedio.
Quegli occhi cerchiati e l’iride così vitrea, perduta allora in una fissità da demente, quel viso pallido, que’ foruncoli color tulipano, Zoraide non li poté più sopportare: era il ritratto della trista salute, come se per economia mangiasse lucertole e li spendesse tutti fuoravia con le donne: «Pagarle deve, di certo,» pensò serenamente, perfidamente. Ma a letto insieme con un coso simile, rabbrividiva; non ci sarebbe andata mai, e poi mai!, neanche glie lo avesse comandato l’arciprete.
Aborrì dal pensiero. E suo marito? Le venne da sbadigliare: gera in guera, povareto lu! El gera in Trentìn, poro omo... Andove? née cartoline franchigia no ghe j éra gninte... parchè Cadorna no voéva... parchè el general Komando austriaco no dovéa saverlo ’ndove jera Gigi, Gigi col so regimento: parchè ’l gera un segreto militar... ’maginarse!... E quello seguitava ancora, per conto suo: «... Non ci andrò, non ci andrò! Ma se dovessero trascinarmi per forza, tirarmi su con le corde, legato, chi credi che gli mollerei la prima fucilata nella testa? chi? Dillo un po’ chi? Lo hai capito, eh? Ci vadano un po’ loro all’assalto, se ne han tanta voglia.»
«Bene, ciao,» disse Zoraide: e aprì l’uscio. Gildo si ridestò: la guardò quasi atterrito.
«Senti,» disse: «senti un momento...: adesso mi vorrebbero spedire, il perché te lo dico dopo. Ma tu che vai a lavorare da quei signori, che m’hai detto che sono amici con il mio industriale, deputato, rubadenari, o quel che l’è, cerca ti se te rièss de fa ôn quai còss: di’ che sono tuo cugino, prègali un po’, prova un po’ con le buone... E poi... avrei anche un’altra cosa da dirti: non ho un quattrino. Non ho nessuno, a casa, che possa aiutarmi.»
Zoraide lo trovò laido.
«Ma che cosa è successo?...»
«È successo... che lavoro dalla mattina alla sera: ma certi operai finti, che sono lì soltanto per far la spia e portar via il pane a chi ha da tirar la carretta, quelli in fabbrica non ci hanno da stare. Non li vogliamo, ecco.
«E poi ci ha fatto girar le scatole a tutti. Oggi la Maria, domani la Rosina, e dopo la Carlotta... e dopo quell’altra...»
«Ma di chi parli?» disse Zoraide.
«Perché?» disse Gildo con una luce di perfidia nella faccia. «Lo conosci, forse? è uno di quelli che a casa trovan la limonata pronta, quando gli fa male il pancino: gli corrono intorno tutte, allora: la mammina, la sorellina, la serva, la portinara, la cagnetta...
«È uno che va sempre in giro con la moto, e spara come se fosse lui il padrone di Milano!»
Zoraide impallidì. Gildo la spiava a occhi bassi, ingordo, livido, disperato nella sua rabbia, ma con una gioia addosso, come un trionfo: dimentico perfino che era venuto a chiedere, a raccomandarsi: questa almeno era la ragione confessata.
«Un po’ va bene, un po’ la pazienza è durata: e anche troppo. Ma poi la rollata è venuta, una rollata porca, come doveva venire. Ieri mattina c’era tutta la sala per aria. Si son rivoltati tutti, in un colpo...»
Zoraide lo guardò con un’ira e un pallore nel volto, con labbra esangui, strette: questa volta sentiva lei quanto le sarebbe piaciuto strappargli la lingua, a quel vigliacco dalla pelle di lucertola. Continuò Gildo: «Che se tartagliava un po’ ancora, gli facevamo vedere la strega, lì bell’e che lì... com’è pettinata.»
Zoraide si dominò: con un comando di tutta la volontà eccitata dall’amore, dall’ira, volle essere dolcemente, perfidamente serena, volle essere vita, vita vera, davanti la finta.
«Ma cosa ghe entra tute ste storie ’deso..., ’ndemo...» I colori del viso riprendevano a mentire, una certa deliziosa stupidità.
«C’entrano che è per questo che sono in ballo. La commissione di vigilanza, il capitano, il maggiore, il demonio bugiardo... Si son già informati che mestiere facevo prima, è venuta fuori la questura, il mandamento, la portinaia, i fratelli Branca e tutti i lazzaroni e tutte le spie di Milano. E mi voglion fregare, non c’è madonne, mi vogliono fregare.»
Una pausa.
«Ma lui è fregato però bene anche lui. Allo stabilimento non ci torna più di sicuro. E in guerra ci va: oh! se ci va!» raddolcì, con l’ironia del mentecatto: «Abbiamo già pensato anche a questo, sicuro! e ci va: e speriamo che ci resti.
«Quel ch’è sicuro è che dietro alle ragazze del Procaccini o dietro alle spose diventate vedove per via del Cadorna non lo vedran più girar tanto...»
Il pluralis majestatis non impressionò Zoraide, né le ragazze la ingelosirono, né la turbaron le spose.
«Eh... ’ndarò via ’nca mì, sì... presto...» novellò, simulando uno sbadiglio, «de Milàn ghe n’ò bastansa, torno casa mia... védare che orto che ga me xìa ’Neta, pomi, pérseghi... così.»
«A casa tua?... dove?» fece Gildo: e parve un bimbo ancora contrariato, ma distratto improvvisamente dal tema de’ suoi perversi capricci.
Ella rise: «Che curioso! ai me paesi...» Il cuore però le batteva.
«Dove? A Castelfranco, forse?»
«Vorà dire che te manderò ’na cartoìna... cuxì te vedarè che beésa de posti...»
Gildo si sentì vinto: vide fremere quella gola nella dolcezza delle sue ombre, ridere le labbra, lontane con altro o con altri amanti, per sempre.
Passò all’ecce homo, implorò:
«E così eccomi a dannar l’anima, a mendicare un tocco di pane, perseguitato da tutta la congrega dei delinquenti pagati: e tutto perché sono uno che non si lascia metter sotto, che non vuole spie per i piedi e non ubbidisce e non ubbidirà mai né ai Bava-Beccaris né ai loro assassini di ufficiali...»
Implorò: «Vedi se puoi fare tu qualche cosa, come t’ho detto, che non mi mandino via. E... senti, Zoraide: volevo dirti anche un’altra cosa. Te gavarìset no, di volt, ôn quai dês frank?... per on dì o dùu?»
«Diexe franchi? sito mato?... parchè ghe n’ò tanti, anca...» disse Zoraide nuovamente ridendo, «se propio te ghe n’è de bixogno te ne dago dó... spéteme qua... che vào tórtei...»
Da tutti i ballatoi le comari puntarono gli occhi, come torri binate convergenti verso il bersaglio nella rapidità del brandeggio.
Lei entrò, riuscì con un tondo d’argento, glie lo porse, ferma: «Te saludo, Gildo...» concluse con un sorriso, splendida, «vedarò de metar ’na parola anca per tì. Se po’ i me dirà de nò, mi no ghe n’avarò colpa, se te tocarà ’ndare’nca ti...»
E il battente fu chiuso.
Il verbo andare, in quegli anni, aveva senso di andare alla guerra, come nella vecchia canzone de’ volontari, passati con l’Aosta e la Cuneo di là dal ponte, sul vecchio Ticino. Ardente ancora quasi de’ sospirosi baci dell’amata dilontanò quel canto, cadenzando la marcia, nelle strade e nel fango lontano della pianura: malinconica e dolce e sacra fanfara per gli studenti di Torino a Calmasino e a Rivoli, per i battaglioni del Re Carlo alle colline di Pastrengo, ai ponti di Monzambano e Valeggio, al ponte rotto di Goito. E trasvolò senza più ponte né barche, o Ticino o Mincio o Brenta, ed oltre e dentro i muri e le torri: germini e polvere d’oro che dalla fronda de’ mormoranti cipressi effonda, doglioso e giocondo, il vento, nei cieli di primavera.
Quella canzone era venuta di Toscana: professori di mineralogia e di diritto, studenti, qualche allievo parrucchiere, ed altri scalcagnati, fu il commiato loro da ogni femineo sorriso, da ogni femineo pianto: finché se li trovò fra i piedi Radetzky, impreveduta bohème, la mattina del ventinove maggio, ore dieci, con tanta premura che aveva, proprio quel giorno, di arrivare a Goito in giornata. E pazienza! Il cannone cominciò a lavorarli. Susurran le istorie che i generali piemontesi non fossero in un pensiero eguale con il Re loro, quando a ogni costo voleva «accorressero», per sovvenire alla bombardata ragazzaglia: e forse non ebbero torto. Il fatto è che Benedek e Wohlgemuth riuscirono, ore sedici, a far piazza pulita di Curtatone; Clam e Strassold e poi Benedek stesso, ore diciassette, di Montanara: Liechtenstein arrivava da San Silvestro. Ma intanto era più vicina la notte. E si cita un passo, d’una ottocentesca lettera che il generale von Liechtenstein ebbe a scrivere al vinto De Laugier, dove è parola circa la battaglia degli studenti: «L’unico rimprovero che alle “truppe toscane” possa farsi è di aver combattuto assai meglio di quanto noi avremmo desiderato.» D’un diverso parere fu invece il popolo della generosa Lucca, un giorno che per combinazione era inferocito: e gli urlarono sulla faccia, al De Laugier, che egli aveva venduto il sangue toscano a Radetzky, per 500.000 svanziche.
Né in Piemonte, dopo Novara e Vignale, le facce eran molto più allegre. Il marchese Taparelli non ebbe occasione di beneficiare dell’appoggio del gruppo Morgan, e i settantacinque milioni che costò lo sgombero di Alessandria, della Lomellina e del Novarese furon dovuti pagare sui due piedi, come una multa. E allora tutta la macilenta carovana delle disgrazie e delle recriminazioni entrò dalla porta sconnessa, con il passo funereo richieduto dalle circostanze: d’altronde non si poteva pretendere che il vecchio, infaticabile maresciallo ci trattasse molto meglio di quanto non fece il signor Clemenceau settant’anni dopo; dopo tanta fatica. Né l’Austria «bicipite», con l’idea fissa della sua corda, aveva quarantotto stelle democratiche, dentro lo stemma, a cui far onore.

Ma perché andiamo così rivangando l’orto barocco dei dispiaceri? Sono storie vecchie, dimenticate, finite. Oggi l’Alpe risfolgora, almeno per buona parte, nel sole, libera dai vecchi tiranni; è libero il mare, da Porto Said a La Valletta, da Panama a Gibilterra; e le terre anche loro son libere, salvo alcuni scampoli come le colonie francesi e inglesi, e il campicello di Monroe, chiuso da un leggiadro filo spinato. Sicché siam liberi noi di spargere il seme del futuro dove meglio ci aggrada; nel monte e nel piano, nel deserto e nel Redefossi.1 Le patate allesso, poi, sono un piatto squisito e il brodo di fagioli è semplicemente delizioso: quanto alla minestra, ritengo opportuno di schierarmi a sostegno della tesi idealistico-critica, che cioè non debba esser troppo cotta. Oh! Viva la minestra! Se è magra meglio, così non verrà il cancro a nessuno.
Ma questo andare del ’15 era per molti un andare più cauto, che non fosse il «se ne va» della quarantottesca canzone: era un andare commisurato alle voci della Saggezza, stanziato a malincuore nel bilancio d’una Fede rattoppata lì per lì, ed emaciata, oltre che dal lungo digiuno, anche dall’improvviso mal di denti dei «però», dei «se», dei «forse», dei «tuttavia» e dei «ma».
C’erano, poi, alcune dozzine di batterie da settantacinque.


[I racconti Cugino barbiere, Papà e mamma e Le novissime armi sono frammenti del romanzo La meccanica, la cui stesura risale all’ottobre 1928 - marzo 1929, salvo il capitolo Papà e mamma scritto in due giorni dell’agosto 1924.]