lunedì 23 marzo 2020

SPILLOVER
David Quammen


IL CAVALLO VERDE 
Hendra, Australia, 1994 Il virus oggi noto come «Hendra» non fu certo il primo di una serie di nuovi e spaventosi patogeni, né il peggiore. Sembrava anzi essere molto meno grave di altri: in termini numerici la mortalità era inizialmente bassa e da allora è rimasta tale; inoltre si manifestò in un ambito molto circoscritto e gli episodi successivi non si verificarono troppo lontano dal focolaio. Tutto partì da una località vicina a Brisbane, in Australia, nel 1994. I primi casi segnalati furono due, di cui uno mortale. No, aspettate, ho sbagliato: gli umani colpiti furono due e ci fu un morto umano. Altri individui ne soffrirono e ne morirono, circa una quindicina, ma erano cavalli. La loro storia è parte di questa storia. Le malattie animali e quelle umane sono, come vedremo, due fili strettamente intrecciati. La prima apparizione del virus Hendra non sembrò foriera di minacce né degna delle prime pagine, tranne che per chi si trovasse nell’Australia orientale. Non era pari a un terremoto, una guerra, una sparatoria in una scuola, uno tsunami. Ma aveva delle peculiarità. Era sinistro. Oggi è un po’ più conosciuto, perlomeno tra gli infettivologi e gli australiani, dunque fa un po’ meno paura, però rimane abbastanza strano. È un virus a due facce: a diffusione limitata ed episodica, ma al tempo stesso rappresentativo di qualcosa di più grande. Proprio per questo motivo è un buon punto di partenza per iniziare a capire cosa significhi l’emergenza di certe nuove virulente realtà sul nostro pianeta, responsabili, tra l’altro, della morte di più di trenta milioni di individui dal 1981 a oggi. Sono realtà che coinvolgono il fenomeno della zoonosi. Si definisce zoonosi ogni infezione animale trasmissibile agli esseri umani. Ne esistono molte più di quanto si potrebbe pensare. L’AIDS ne è un esempio, le varie versioni dell’influenza pure. Guardandole da lontano, tutte insieme, queste malattie sembrano confermare l’antica verità darwiniana (la più sinistra tra quelle da lui enunciate, ben nota eppure sistematicamente dimenticata): siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia. Esaminate una per una, partendo magari da questo caso australiano relativamente poco noto, ci forniscono un salutare promemoria del fatto che ogni cosa, pestilenze incluse, deve avere un’origine. Hendra, il paese dei cavalli Nel settembre 1994 in un sobborgo della zona nord di Brisbane si registrarono i primi casi di una grave malattia equina. I colpiti erano purosangue, cavalli snelli e coccolati, selezionati geneticamente per la corsa. Il paese, chiamato Hendra, era tranquillo e vecchiotto, pieno di ippodromi, appassionati di cavalli, casette di legno convertite in stalle, edicole che vendevano fogli specializzati in scommesse ippiche e caffè con nomi tipo The Feed Bin («La mangiatoia»). La prima vittima fu Drama Series, una cavalla baia che aveva smesso di gareggiare ed era all’epoca utilizzata per la riproduzione – infatti era gravida di parecchi mesi. Drama Series aveva iniziato a manifestare problemi fuori dall’allevamento, in un prato recintato qualche chilometro a sud di Hendra dove i cavalli da corsa venivamo mandati a riposare. Era stata spedita lì allo scopo di farla riprodurre e ci sarebbe rimasta quasi fino al termine della gravidanza, se non si fosse ammalata. In un primo momento i sintomi non erano nulla di grave, perlomeno così sembrava. Però non aveva una bella cera e il suo allenatore aveva preferito farla rientrare. Costui era Vic Rail, un esperto ometto dai capelli scuri lisciati all’indietro, dotato di una simpatia contagiosa e di una dubbia reputazione nel locale mondo delle corse. Secondo una fonte era «un tipo tosto, non uno stinco di santo, ma simpatico». Non tutti lo amavano, ma nessuno negava la sua competenza nel campo dell’ippica. Fu la fidanzata di Rail, Lisa Symons, a trasportare la cavalla da lì all’allevamento. Drama Series pareva non aver voglia di muoversi, sembrava stanca. Presentava dei rigonfiamenti alle labbra, alle palpebre e alla mascella. Tornata nella sua modesta stalla a Hendra, si mise a sudare a profusione e a comportarsi come se avesse sonno. Nel tentativo di farle recuperare le forze, Rail provò ad alimentarla forzatamente con un pastone di carote grattugiate e melassa, ma la cavalla non mangiò nulla. L’allenatore lasciò perdere e si lavò le mani e le braccia – non abbastanza a fondo, col senno di poi. Era il 7 settembre 1994, un mercoledì. Rail chiamò il suo veterinario di fiducia, un certo Peter Reid, uomo alto, sobrio e professionale nei modi, che venne subito a dare un’occhiata alla cavalla. Era stata trasferita nel suo box personale, a stretto contatto con gli altri animali della scuderia. Il dottor Reid non riscontrò perdite da naso e occhi né punti doloranti, ma Drama Series sembrava tuttavia il pallido riflesso del robusto purosangue di un tempo. Era «in stato depressivo», il che in gergo veterinario indica una sofferenza fisica e non psicologica. Temperatura e pulsazioni erano alte; il gonfiore al muso persisteva. Il dottor Reid le aprì la bocca per esaminare le gengive e vide i resti delle carote grattugiate che la cavalla non aveva voluto o potuto deglutire. Le fece un’iniezione di antibiotici e una di analgesici e se ne tornò a casa. Poco dopo le quattro dell’indomani mattina, ricevette una chiamata: Drama Series era uscita dal box ed era svenuta nel cortile. Era in fin di vita. Quando il dottore arrivò trafelato alla scuderia, la cavalla era già morta. La fine era stata veloce ma brutta. Con l’aggravarsi dei sintomi, si era agitata e aveva approfittato di un momento in cui il cancello era aperto per uscire barcollando dal box. Era caduta più volte, tagliandosi una zampa fino all’osso; arrivata all’aperto era caduta di nuovo e lì era stata bloccata a terra da un inserviente per evitare che si facesse ancora del male. Si era liberata con un gesto disperato, era finita a sbattere contro un mucchio di mattoni ed era stata immobilizzata di nuovo con l’aiuto di Rail. L’allenatore l’aveva liberata dal muco schiumoso che le usciva dalle narici, per aiutarla a respirare, ma poco dopo era sopraggiunta la fine. Il dottor Reid esaminò il corpo e notò le tracce di muco fresco sul muso, ma non effettuò l’autopsia, da un lato perché Vic Rail non poteva permettersi una così costosa curiosità, dall’altro perché nessuno allora prevedeva l’insorgere di un’emergenza sanitaria in cui tali dati si sarebbero rivelati preziosi. La carcassa di Drama Series fu portata via senza troppe cerimonie dal solito servizio di smaltimento e gettata nella fossa dove vanno a finire di solito i cavalli di Brisbane. La causa di morte era incerta. Un serpente? Qualche erba velenosa che aveva mangiato in quel pratone desolato dove era stata a riposare? Ipotesi come queste tramontarono rapidamente tredici giorni dopo, quando altri suoi compagni di scuderia si ammalarono a loro volta. Cadevano come birilli. Dunque non era il morso di un serpente o una tossina vegetale, ma qualcosa di contagioso. Tutti gli altri cavalli colpiti presentavano febbre, difficoltà respiratorie, occhi arrossati, spasmi e instabilità nel movimento; alcuni perdevano muco da bocca e narici; pochi manifestavano gonfiore al muso. Il dottor Reid trovò un cavallo che cercava freneticamente di lavarsi la bocca in un secchio d’acqua; un altro prese a sbattere la testa come impazzito contro un muro di cemento. Nonostante gli sforzi eroici del veterinario e di altri specialisti, dodici cavalli morirono nel giro di pochi giorni, alcuni dopo atroci agonie, altri abbattuti per misericordia. Reid disse poi che «la velocità con cui la malattia si propagò aveva dell’incredibile». In quei momenti, però, nessuno sapeva di cosa si trattasse. Qualcosa si trasmetteva da cavallo a cavallo. Nel periodo peggiore della crisi, sette cavalli morirono, da soli o per mano dell’uomo, nel giro di dodici ore. Era una carneficina, anche per un veterinario che ne aveva viste di tutti i colori. Una cavalla chiamata Celestial Charm morì scalciando e annaspando in modo tanto violento che Reid non riuscì ad avvicinarsi per farle la misericordiosa iniezione finale. Un altro cavallo, un castrone di cinque anni, fu mandato in un diverso luogo di riposo a nord di Brisbane, dove arrivò già malato e presto fu abbattuto. Un veterinario del posto effettuò l’autopsia e trovò numerose emorragie interne. Nel frattempo a Hendra un castrone della scuderia situata accanto a quella di Rail diede di matto con gli stessi sintomi e fu anch’esso abbattuto. Qual era la causa di tutto ciò? Come si trasmetteva la malattia da un animale all’altro, perché tanti cavalli ne erano colpiti tutti insieme? Si parlò di mangime contaminato da una tossina, o di veleno somministrato da qualche rivale. Reid prese a chiedersi se non ci fosse di mezzo qualche virus esotico, come quello responsabile della peste equina africana (siglata con AHS, da African Horse Sickness), diffusa nell’Africa subsahariana e trasmessa dalle punture dei moscerini del genere Culicoides. L’AHS colpisce anche muli, asini e zebre, ma non è mai stata segnalata in Australia e in genere non è contagiosa da cavallo a cavallo. Inoltre, i pestiferi moscerini del Queensland di solito non sono attivi a settembre, mese dalle temperature più fresche. Dunque l’AHS centrava poco. Magari era un altro strano bacillo. «Mai visto un virus con simili effetti» disse poi Reid. Uomo non incline alle esagerazioni, ricordava quei giorni come «piuttosto traumatici». In assenza di una diagnosi precisa, aveva cercato di curare gli animali malati con i mezzi che aveva a disposizione: antibiotici, antishock, reidratazione. Nel frattempo si erano ammalati anche Vic Rail e lo stalliere. All’inizio sembrava solo un po’ di influenza – benché di un tipo particolarmente aggressivo. Rail fu ricoverato in ospedale, si aggravò, fu trasferito in terapia intensiva e dopo una settimana morì. Alla fine i suoi organi non funzionavano più e non riusciva a respirare. L’autopsia rivelò che aveva i polmoni pieni di sangue e altri fluidi, che esaminati al microscopio elettronico mostrarono la presenza di un certo virus. Lo stalliere, un uomo generoso chiamato Ray Unwin, rimase a casa per curarsi da solo la febbre e migliorò. Il dottor Reid, che era stato a contatto con gli stessi cavalli malati e aveva toccato lo stesso muco infetto, non manifestò nessun sintomo. Anni dopo lui e Unwin mi raccontarono le loro storie, dopo che li ebbi rintracciati con un paio di telefonate e una ricerca in loco. Al Feed Bin domandai di Unwin. «Ray Unwin?» chiese un tale. «Ah sì, vada alla scuderia di Bob Bradshaw e lo trova di sicuro». Seguii le indicazioni e arrivato sul posto vidi un uomo sul vialetto di ingresso che trasportava un secchio pieno di granaglie. Era Unwin. Nel frattempo si era fatto un signore di mezza età, con capelli rossicci raccolti a coda di cavallo e un’aria di triste rassegnazione. Non gradiva particolarmente le mie domande, visto che ne aveva già sentite a sufficienza dai dottori, dai funzionari della sanità e dai giornalisti locali. Alla fine ci sedemmo a far due chiacchiere. Diceva testualmente di non essere un «piagnone» ma che da allora la sua salute era stata «schifosa». Con il numero dei cavalli morti in crescendo, il governo del Queensland intervenne con una task force composta di veterinari e specialisti del Department of Primary Industries (DPI) (il ministero competente per l’agricoltura, l’allevamento e la fauna selvatica in quello stato) e di personale della Sanità. I veterinari iniziarono le autopsie, sezionando i cavalli in cerca di indizi. Incominciarono proprio dalla scuderia di Vic Rail, il cui cortile fu ben presto cosparso di teste e arti mozzati, sacchi pieni di organi da analizzare e rivoli di sangue e altri fluidi. Un vicino di Rail di nome Peter Hulbert, anche lui gestore di una scuderia, mi raccontò quel che aveva intravisto dell’orrendo spettacolo, servendomi una tazza di caffè solubile nella cucina di casa. Mentre l’acqua bolliva, Hulbert descrisse il modo in cui venivano raccolti i resti animali: «Ha presente quei bidoni della spazzatura con le ruote? Ecco, fuoriuscivano teste e gambe dei cavalli – zucchero?». «No grazie, lo prendo amaro». «Dicevo, teste e gambe e budella e altre schifezze, tutto in quei bidoni. Uno spettacolo rac-ca-pric-cian-te!». A metà pomeriggio di quel giorno, disse, la notizia si era sparsa ed erano arrivati gli operatori della tv con le loro telecamere. «Amico mio, è stato davvero tremendo». Poi fu il turno della polizia, che recintò la scuderia di Rail come se fosse stato il luogo di un delitto. C’era forse lo zampino di uno dei suoi nemici? Il mondo delle corse ha il suo sottobosco, come tutti gli ambiti in cui circola denaro – forse anche più della media. Sentito come testimone, a Hulbert fu chiesto papale papale se era possibile che Vic avesse avvelenato i suoi cavalli e poi si fosse suicidato. Mentre la polizia cercava prove di sabotaggio o truffa ai danni dell’assicurazione, gli ufficiali sanitari avanzavano altre preoccupanti ipotesi. Una si chiamava hantavirus, un gruppo di virus noti da tempo per aver colpito in Russia, Scandinavia e altrove, ma emersi con prepotenza all’attenzione pubblica l’anno precedente, nel 1993, quando un nuovo virus di quella famiglia si era fatto tragicamente sentire uccidendo dieci persone nella regione di Four Corners1 nel sudovest americano. L’Australia è giustamente molto attenta a non fare entrare malattie esotiche nei suoi confini, e gli hantavirus sarebbero stati una notizia ancora peggiore della peste equina africana (tranne che per i cavalli). I tecnici del ministero raccolsero quindi campioni di sangue e tessuti dagli animali morti e li spedirono in contenitori refrigerati all’Australian Animal Health Laboratory (AAHL), un laboratorio di massima sicurezza situato nella città di Geelong, a sud di Melbourne. Un’équipe di microbiologi e veterinari sottopose i campioni a diversi test, nel tentativo di mettere in coltura e identificare l’agente responsabile della malattia equina. Trovarono un virus. Non era un hantavirus, né la peste africana. Era una specie nuova, che i ricercatori dell’AAHL non avevano mai visto, ma che per forma e dimensioni ricordava i membri di un particolare gruppo di virus, i paramyxovirus. Era però diverso dai paramyxovirus conosciuti perché portava una doppia corona di spicole. Un altro team dell’AAHL riuscì a sequenziare un tratto del genoma del virus e a confrontarlo con quelli contenuti in un assai ampio database; risultò una debole compatibilità con un sottogruppo dei paramyxovirus, il che confermava la prima stima dei microscopisti: si trattava dei morbillivirus, tra cui si trovano gli agenti della peste bovina e del cimurro (che infettano gli animali) e del morbillo (che infetta gli umani). La misteriosa creatura di Hendra fu così battezzata e classificata in via provvisoria sulla base di questa identificazione parziale: morbillivirus equino (EMV), cioè in pratica morbillo dei cavalli. Circa nello stesso periodo, i ricercatori dell’AAHL esaminarono un campione di tessuto prelevato dai reni di Vic Rail nel corso dell’autopsia e vi trovarono un virus identico a quello dei cavalli. Era la conferma del fatto che questo tipo di morbillivirus non infettava solo gli animali. In seguito, quando ci si rese conto di quanto la malattia fosse unica, la sigla EMV fu abbandonata a favore del luogo in cui si era manifestata per la prima volta: Hendra. L’identificazione del nuovo agente virale era solo il primo passo verso la soluzione del mistero e si era ancora lontani dall’inquadrare la malattia in un contesto più ampio. Il passo successivo era scoprire la tana del virus: dove si tratteneva quando non era occupato ad ammazzare uomini e cavalli? Infine era necessario capire come fosse uscito dal rifugio, con quali modalità e perché proprio lì. Dopo il nostro primo incontro in un bar di Hendra, Peter Reid mi diede un passaggio fino al luogo dove Drama Series si era ammalata. Era situato parecchi chilometri a sudest, oltre il fiume Brisbane, in una zona detta Cannon Hill. Un tempo terra di pascoli ai confini della città, l’area si era trasformata in un sobborgo in piena espansione a pochi passi dall’autostrada M1. Dove un tempo c’erano stalle, ora si vedevano file di villette a schiera affacciarsi su strade private. Della campagna rimanevano ben poche tracce, ma al fondo di una via, in una rotonda chiamata Calliope Circuit, c’era un grande Ficus macrophylla, sotto le cui fronde i cavalli un tempo trovavano riparo dal feroce sole tropicale che splende in quella parte d’Australia. «È quello» disse Reid. «Il maledetto albero». Voleva dire: è lì che stavano i pipistrelli. Uomini, animali, zoonosi Le malattie infettive sono dappertutto. Rappresentano una sorta di collante naturale, che lega un individuo all’altro e una specie all’altra all’interno di quelle complesse reti biofisiche che definiamo ecosistemi. Il meccanismo dell’infezione è uno dei processi fondamentali studiati dagli ecologi, come la predazione, la competizione, la decomposizione e la fotosintesi. I predatori sono bestie più o meno grandi che consumano le prede dall’esterno. I patogeni (cioè tutti gli agenti causa di malattie, virus compresi) sono per contro bestie assai piccole che le divorano da dentro. Le malattie infettive sono un argomento triste e terribile, certo, ma in condizioni ordinarie sono eventi naturali, come un leone che sbrana uno gnu o un gufo che ghermisce un topo. Però le condizioni non sono sempre ordinarie. Come i predatori, anche i patogeni hanno le loro prede preferite, abituali bersagli dei loro attacchi. E proprio come un leone, abbandonando occasionalmente il suo normale comportamento, può uccidere una mucca anziché uno gnu, o un essere umano al posto di una zebra, anche i patogeni possono scegliere un altro bersaglio. Sono incidenti, aberrazioni, ma accadono. Le circostanze possono cambiare, e con loro le esigenze e le opportunità. Quando un patogeno fa il salto da un animale a un essere umano e si radica nel nuovo organismo come agente infettivo, in grado talvolta di causare malattia o morte, siamo in presenza di una zoonosi. È un termine vagamente tecnico, che a molti riuscirà insolito, ma ci aiuta a inquadrare i complessi fenomeni biologici che si celano dietro gli annunci allarmistici sull’influenza aviaria o suina, sulla SARS e in generale sulle malattie emergenti o sulla minaccia di una nuova pandemia globale. Ci aiuta a capire perché la scienza medica e la sanità pubblica sono riuscite a debellare terribili malattie come il vaiolo e la poliomielite ma non altre come la dengue e la febbre gialla. Ci racconta un dettaglio essenziale sull’origine dell’AIDS. È una parola del futuro, destinata a diventare assai più comune nel corso di questo secolo. Ebola è una zoonosi, come la peste bubbonica. Lo era anche la cosiddetta influenza spagnola del 1918-19, che si originò in una specie di uccello acquatico selvatico e che, dopo essere passata da vari animali domestici intermediari (anatre della Cina meridionale? maiali dell’Iowa?), finì con l’uccidere cinquanta milioni di persone, secondo alcune stime, per poi sparire nel nulla. Tutti i tipi di influenza umana sono zoonosi. E lo sono anche il vaiolo delle scimmie, la tubercolosi bovina, la malattia di Lyme, la febbre emorragica del Nilo, la febbre emorragica di Marburg, la rabbia, la sindrome polmonare da hantavirus, l’antrace, la febbre di Lassa, la febbre della Rift Valley, la toxocariasi, la febbre emorragica boliviana, la malattia della foresta di Kyasanur e una strana malattia emersa di recente detta encefalite da virus Nipah, che ha ucciso maiali e allevatori di maiali in Malesia. Tutte derivano dall’azione di un patogeno capace di passare dagli animali all’uomo. L’AIDS è in origine una zoonosi, perché è nata quando un virus è riuscito a trasferirsi nell’uomo grazie ad alcuni eventi accidentali e sporadici in Africa centrale e occidentale; ora passa da uomo a uomo e ha infettato milioni di individui. Questo salto interspecifico è più comune che raro: si verifica abitualmente o si è verificato di recente nel 60 per cento circa delle malattie infettive dell’uomo oggi note. Alcune di queste – come per esempio la rabbia – sono conosciute da tempo, molto diffuse e ancora terribilmente letali, responsabili della morte di migliaia di persone, nonostante lotte secolari per contrastarne gli effetti, sforzi pianificati a livello internazionale per sradicarle o metterle sotto controllo e una comprensione ben chiara dei loro meccanismi. Altre sono recenti o inspiegabilmente episodiche, capaci di emergere in questo o quel posto, uccidendo pochi individui (Hendra) o qualche centinaio (Ebola), per poi sparire dalle scene per anni. Per fare un controesempio, il vaiolo non è una zoonosi. È causato dal Variola virus, che in condizioni naturali infetta solo gli esseri umani. (In laboratorio è un’altra faccenda, e il virus è stato talvolta inoculato sperimentalmente in primati non umani o in altri animali, in genere per ricerche sui vaccini). Questo è uno dei motivi per cui la campagna di eradicazione lanciata dall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) ebbe successo già nel 1980. Il virus del vaiolo fu debellato perché, non essendo in grado di vivere e riprodursi se non negli esseri umani (o in animali di laboratorio in condizioni molto controllate), non aveva dove nascondersi. Un’altra malattia non zoonotica è la poliomielite, che ha flagellato l’umanità per millenni ma che (per ragioni paradossalmente legate alle migliori condizioni igieniche e al contatto tardivo dei bambini con il virus) assunse le dimensioni minacciose di una epidemia nella prima metà del ventesimo secolo, soprattutto in Europa e in Nordamerica. Negli Stati Uniti il picco si ebbe nel 1952, quando morirono più di tremila individui, molti dei quali bambini, e ventunomila rimasero parzialmente o totalmente paralizzati. Poco tempo dopo i vaccini sviluppati da Jonas Salk, Albert Sabin e Hilary Koprowski (un virologo della cui carriera non specchiata torneremo a parlare in seguito) furono usati su larga scala, eliminando infine la poliomielite dalla maggior parte del mondo. Nel 1988 l’OMS e altre organizzazioni lanciarono una campagna di eradicazione globale, in seguito alla quale il numero dei casi è diminuito del 99 per cento. Le Americhe, come l’Australia e l’Europa, sono state dichiarate polio free, libere dalla poliomielite. Solo in cinque paesi, stando alle ultime rilevazioni del 2011, si registrava ancora una sporadica presenza della polio, limitata a pochi casi: Nigeria, India, Pakistan, Afghanistan e Cina. L’obiettivo della sua eliminazione totale potrebbe dunque essere raggiunto, a differenza di quanto è accaduto per altre campagne ugualmente meritorie e costose. Un simile risultato è possibile perché la vaccinazione di massa è relativamente economica, facile da attuare e ha effetti duraturi, ma soprattutto perché il poliovirus, scacciato dagli esseri umani, non ha altri posti dove nascondersi. Non è una zoonosi. I patogeni delle zoonosi possono invece nascondersi. Ed è questo che li rende interessanti, complicati e portatori di problemi. Il vaiolo delle scimmie è una malattia simile al vaiolo umano, causata da un parente stretto del Variola virus, che ancora oggi costituisce una minaccia concreta per le popolazioni dell’Africa centrale e occidentale. Differisce dal suo cugino per un importante particolare: è in grado di infettare i primati (da cui il nome) e altri mammiferi come topi, ratti, scoiattoli, conigli e cani delle praterie americani. Anche la febbre gialla può colpire uomini e scimmie; è dovuta a un virus che si trasmette da un individuo all’altro, talvolta dalla scimmia all’uomo, con la puntura di certe specie di zanzare. Questa modalità di diffusione è più complessa, il che implica, fra l’altro, che la febbre gialla difficilmente verrà eliminata nella popolazione umana – a meno che l’OMS non riesca a uccidere tutte le zanzare che ne sono vettori o le scimmie potenzialmente contagiose nella fascia tropicale di Africa e Sudamerica. L’agente della malattia di Lyme, un batterio, si nasconde con grande efficacia nel peromisco dai piedi bianchi (un roditore) e in altri mammiferi di piccola taglia. Ovviamente questi patogeni non agiscono coscientemente: si trovano quel determinato ospite e si spostano in quel determinato modo perché queste soluzioni, trovate casualmente, si sono dimostrate vincenti in termini di sopravvivenza e successo riproduttivo. Secondo la fredda logica darwiniana della selezione naturale, l’evoluzione codifica i casi fortunati in strategie innate. La strategia di più basso profilo è di annidarsi in quello che viene chiamato ospite serbatoio, o reservoir. L’ospite serbatoio (da alcuni definito ospite naturale) è un organismo vivente che porta con sé il patogeno, un parassita al quale dà asilo permanente, senza riceverne danno o quasi. Quando una malattia infettiva sembra dileguarsi tra un’epidemia e un’altra (come Hendra dopo il 1994), l’agente che ne è la causa dovrà pur essere da qualche parte, no? Forse è proprio scomparso dal pianeta – ma più probabilmente no. Forse si è estinto in quell’area specifica e ricomparirà solo quando i venti o i casi del destino ce lo riporteranno. O forse è lì intorno, dentro qualche ospite serbatoio. Un roditore, magari, o un uccello, una farfalla, un pipistrello. Rimanere anonimi all’interno di un ospite serbatoio è probabilmente più facile dove c’è un’elevata biodiversità e l’ecosistema è relativamente indisturbato. È vero anche il contrario: certi cambiamenti dell’equilibrio ecologico possono far uscire allo scoperto le malattie. Se scuotete i rami di un albero, qualche cosa cadrà giù. Quasi tutte le zoonosi vengono trasmesse da sei tipi di microrganismi patogeni: virus, batteri, funghi, protisti (creature microscopiche ma complesse, come le amebe, che un tempo venivano erroneamente classificate come protozoi), prioni e vermi. Il morbo della mucca pazza è causato da un prione, una proteina ripiegata in modo bizzarro che fa propagare lo stesso tipo di errore in altre molecole, come il frammento di «ghiaccio nove» dell’omonimo romanzo di Kurt Vonnegut, in grado di indurre una reazione a catena che trasforma l’acqua in ghiaccio. La malattia del sonno è causata dal protista Trypanosoma brucei, trasportato dalle mosche tse-tse e in grado di infettare mammiferi selvatici e domestici, oltre che l’uomo, nell’Africa subsahariana. Responsabile dell’antrace è un batterio in grado di starsene in letargo nel suolo per anni e poi, se scalzato dal suo luogo di riposo, di infettare l’uomo attraverso il bestiame che bruca l’erba. La toxocariasi è una zoonosi non grave portata da certi vermi nematodi. La si prende dai cani e fortunatamente basta sverminarli (e sverminarsi) per farla sparire. I virus sono quelli che danno più problemi. Si evolvono con rapidità, non sono sensibili agli antibiotici, sono a volte difficili da trovare, possono essere molto versatili e portare tassi di mortalità altissimi. E tuttavia sono diabolicamente semplici, se paragonati ad altre creature viventi, o quasi-viventi. Ebola, febbre emorragica del Nilo, Marburg, SARS, vaiolo delle scimmie, rabbia, Machupo, dengue, febbre gialla, Nipah, Hendra, Hantan (malattia e fiume della Corea dove furono identificati per la prima volta gli hantavirus), chikungunya, Junin, Borna, influenze e gli HIV (ce ne sono due: HIV-1, principale responsabile della pandemia di AIDS, e HIV-2, meno diffuso): sono tutti virus – e la lista completa è assai più lunga. Esiste anche un patogeno dall’evocativo nome di «virus schiumoso delle scimmie» (Simian Foamy Virus, o SFV) che infetta scimmie e umani in Asia. Il salto di specie avviene in quei luoghi (ad esempio i templi buddhisti e induisti) dove la gente viene a stretto contatto con popolazioni di macachi semi-domestici. E tra coloro che visitano i templi e regalano cibo alle scimmiette ci sono anche turisti stranieri, che in questo modo si espongono al rischio di contrarre SFV e si portano a casa un regalino aggiuntivo, oltre alle foto e ai souvenir. Secondo il grande specialista Stephen S. Morse «i virus non hanno organi locomotori, ma molti di loro hanno viaggiato in tutto il mondo».2 Non corrono, non camminano, non nuotano, non strisciano. Si fanno dare un passaggio. Cacciatori di virus Per i biologi chiusi nei loro laboratori di massima sicurezza all’AAHL, isolare Hendra fu un compito arduo. Qui per «isolare» si intende trovare un esemplare del virus nei campioni da analizzare e moltiplicarlo in coltura. Si ottiene in tal modo una popolazione vitale di virus in cattività, potenzialmente pericolosa se anche uno solo dovesse sfuggire, ma utile per la ricerca in corso. Le particelle virali sono talmente piccole che possono essere viste solo al microscopio elettronico, il che però comporta la loro uccisione, e quindi per rivelarne la presenza durante il processo di isolamento occorre utilizzare un metodo indiretto. Si parte con un frammento di tessuto, una goccia di sangue o qualche altro campione prelevato da un individuo infetto, nella speranza che contenga il virus. Lo si aggiunge, quasi fosse lievito da cucina, a una coltura di cellule vive immerse in un mezzo nutriente, si mette il tutto in incubatrice e si aspetta, osservando che cosa succede. Spesso non accade nulla, ma talvolta si è fortunati. Si capisce che il tentativo ha avuto successo quando il virus si è replicato a sufficienza da causare danni visibili alle cellule, sotto forma di placche e grandi buchi nella coltura che corrispondono ai luoghi della sua azione devastatrice. La procedura richiede pazienza, esperienza, strumenti precisi e costosi e straordinarie precauzioni per evitare la contaminazione (che darebbe risultati falsati) o la fuga accidentale (che potrebbe infettare voi, danneggiare i vostri collaboratori e magari gettare una città nel panico). Quelli che studiano i virus in laboratorio non sono in genere spacconi, non li trovate che si sbracciano al bar vantandosi delle loro imprese. Di solito sono concentrati, sobri e taciturni, come i tecnici di una centrale nucleare. Scovare un virus nell’ambiente naturale è un lavoro ben diverso. È un’attività all’aria aperta che comporta livelli di rischio un po’ meno controllabili, visto che può capitare ad esempio di catturare un orso per spostarlo su un altro territorio. Quelli che vanno a caccia di virus selvatici non sono più approssimativi o fracassoni degli specialisti in camice bianco – non se lo possono certo permettere. Le loro ricerche, tuttavia, si svolgono in un ambiente pieno di rumori, cose che si muovono e imprevisti vari: il mondo intero. Se c’è il sospetto che un virus appena scoperto nell’uomo sia zoonotico (come succede nella maggioranza dei casi), la ricerca può portarli in boschi, paludi, campi, vecchi edifici, fogne, cave o anche scuderie di cavalli da corsa. Il cacciatore di virus ideale è un biologo «sul campo», con una solida formazione in medicina, o in veterinaria, o in ecologia, o in una combinazione di queste discipline. Deve essere una persona affascinata da un mestiere in cui le risposte si trovano catturando ed esaminando gli animali – profilo che corrisponde perfettamente a quello di un uomo allampanato e gentile di nome Hume Field, che era sui trentacinque anni quando iniziò a occuparsi di Hendra. Field era cresciuto in varie cittadine sulla costa del Queensland, da Cairns a Rockhampton. Era un ragazzo amante della natura, che si divertiva ad arrampicarsi sugli alberi e a fare escursioni nel bush. Suo zio aveva una fattoria, dove Hume passava le vacanze scolastiche; suo padre era un ispettore di polizia, quasi una prefigurazione del suo futuro mestiere di cacciatore di virus. Mentre studiava scienze veterinarie all’Università del Queensland, il giovane Field fece anche del volontariato in un ricovero per animali selvatici feriti. Si laureò nel 1976 e andò prima a lavorare in uno studio veterinario di Brisbane, poi in giro per tutto lo stato a fare da tappabuchi («luogotenente», dicono da quelle parti), in assenza dei titolari. In quegli anni si fece una certa pratica con i cavalli, ma capì pure che la sua vera passione erano gli animali selvatici, non quelli da compagnia o da lavoro. Così, all’inizio degli anni Novanta, ritornò all’Università del Queensland per ottenere un dottorato in ecologia. Il suo interesse principale era la conservazione della fauna selvatica. Quando arrivò il momento di scegliere un tema per la dissertazione finale, rivolse la sua attenzione ai gatti inselvatichiti, che causavano notevoli danni alle specie native australiane perché sterminavano uccelli e piccoli marsupiali ed erano vettori di malattie. Quando i primi casi di Hendra si manifestarono nella scuderia di Vic Rail, Field stava girando per il paese a catturare gatti selvatici per fornirli di un radiocollare con cui seguirne gli spostamenti. Uno dei suoi relatori, uno scienziato che collaborava con il DPI, gli chiese se fosse interessato a cambiare progetto di ricerca, perché al ministero c’era bisogno di qualcuno che indagasse l’aspetto ecologico della nuova malattia. «Fu così che lasciai perdere i miei gatti» mi raccontò molti anni dopo, quando gli feci visita all’Istituto di Ricerche sugli Animali del DPI, vicino a Brisbane, «e cominciai a cercare gli animali selvatici che avrebbero potuto fare da serbatoi del virus Hendra». Iniziò dal «paziente zero», la prima vittima equina, ripartendo dalla sua storia clinica e dai luoghi in cui era stato l’animale. Era Drama Series, la cavalla gravida che si era ammalata nel recinto di Cannon Hill. Field sapeva solo che era stata colpita da un paramyxovirus e che da quelle parti qualche anno prima era stato trovato un nuovo paramyxovirus in un roditore. Allestì dunque nel recinto un sistema di trappole per catturare ogni possibile vertebrato di taglia medio-piccola: ratti, opossum, bandicoot (piccoli marsupiali), rettili, anfibi, uccelli – ogni tanto anche un gatto selvatico. A tutti, anche se i sospettati numero uno erano i roditori, prelevava un campione di sangue, che inviava al laboratorio del ministero, dove si verificava l’eventuale presenza di anticorpi di Hendra. La ricerca di anticorpi è ben diversa dall’isolamento del virus, allo stesso modo in cui un’impronta non è una scarpa. Gli anticorpi sono molecole fabbricate dal sistema immunitario dell’organismo ospite in risposta alla presenza di materiale biologico estraneo. Sono fatti su misura per legarsi al particolare virus o batterio o patogeno in generale che sta portando l’attacco e per distruggerlo. La loro azione specifica e il fatto che rimangano nel flusso sanguigno anche dopo che l’intruso è stato debellato li rendono un prezioso segnale di un’infezione passata o in corso. Erano queste prove indirette che Hume Field sperava di trovare. Ma i roditori di Cannon Hill non avevano anticorpi, e le molecole non furono trovate in nessun altro animale. Era un bel mistero: o stava cercando la cosa giusta nel posto sbagliato, o la cosa sbagliata nel posto giusto, o la cosa giusta al posto giusto ma al tempo sbagliato. Forse quest’ultima ipotesi era sensata. Drama Series si era ammalata a settembre, sei mesi prima; il suo sospetto era che «la presenza del virus o dell’ospite fosse in qualche modo stagionale» a Cannon Hill, e che il periodo da marzo a maggio non fosse propizio. Anche lo screening di topi, gatti e cani nei dintorni della scuderia di Rail non diede risultati positivi. Oltre alla stagionalità, poteva essere in azione un meccanismo di oscillazione temporale a scala più breve. I pipistrelli, per esempio, si davano appuntamento in gran numero di notte per alimentarsi nell’area di Cannon Hill, ma di giorno se ne andavano a dormire da qualche altra parte, dove avevano i posatoi. Secondo gli abitanti della zona, quando scendeva l’oscurità «le volpi volanti erano tante quante le stelle in cielo». Il dottor Reid, il veterinario, aveva già consigliato ai tecnici dell’AAHL di fare ricerche sui pipistrelli, ma il suo suggerimento evidentemente non era stato colto. Hume Field e i suoi collaboratori rimasero con un pugno di mosche fino all’ottobre dell’anno dopo, il 1995, quando uno sfortunato evento fornì loro un nuovo e promettente indizio. Mark Preston, un giovane contadino che viveva nei pressi di Mackay, quasi mille chilometri a nord di Brisbane, era stato portato dalla moglie in ospedale dopo un episodio simile a un attacco epilettico. Il quadro clinico era allarmante, anche perché poco più di un anno prima, nell’agosto 1994, aveva avuto una crisi dalle cause misteriose, con emicrania, vomito e rigidità cervicale. Gli era stata diagnosticata una generica forma di meningite, ma si era ripreso. «Meningite» è un termine applicabile a ogni tipo di infiammazione delle membrane che ricoprono il cervello e il midollo spinale, causata da un virus, un batterio o anche dalla reazione a un farmaco. In alcuni casi la malattia se ne va come è venuta, senza spiegazioni. Preston aveva continuato a fare una vita molto attiva nella sua azienda, aiutato dalla moglie Margaret, una veterinaria che lavorava laggiù in campagna, tra le piantagioni di canna da zucchero e i cavalli. La nuova crisi di Mark Preston era forse indice della nuova insorgenza della misteriosa meningite? In ospedale manifestò i sintomi di una grave encefalite dalle cause sempre ignote. Le crisi erano controllate dai farmaci, ma l’elettroencefalogramma presentava comunque molti segni di disfunzione. Secondo il referto, «rimase privo di coscienza con febbre persistente e morì venticinque giorni dopo l’accettazione».3 Il suo siero sanguigno, prelevato durante la seconda e fatale crisi, risultò positivo alla presenza di anticorpi per Hendra. Lo stesso si verificò per i campioni prelevati l’anno precedente, che l’ospedale aveva conservato: il suo sistema immunitario stava combattendo il virus già allora. L’autopsia rivelò la presenza di anticorpi nel tessuto cerebrale e in altri luoghi. Evidentemente il virus aveva attaccato, poi si era messo in quiescenza, rimanendo latente per un anno, e poi aveva rialzato la testa e l’aveva ucciso. Era un quadro inedito e preoccupante. Dove se l’era preso? Ricostruendo la storia a ritroso, i ricercatori scoprirono che nell’agosto 1994 erano morti due cavalli nella fattoria di Preston, per una malattia improvvisa e dal rapido decorso infausto. Mark aveva aiutato la moglie a curarli e le aveva dato una mano, in modo marginale, durante l’autopsia. Margaret Preston aveva in quell’occasione conservato dei campioni di tessuti, che risultarono anch’essi positivi per Hendra. Nonostante l’esposizione al contagio, la donna non sviluppò la malattia – proprio come il dottor Reid, venuto a contatto con il virus qualche settimana dopo nella scuderia di Vic Rail. Il fatto che i due veterinari fossero in buona salute poneva la questione della reale infettività4 del nuovo virus; mentre il caso di Mark Preston, verificatosi a una tale distanza dal sito del primo focolaio, sollevava interrogativi allarmanti sulla estensione raggiunta dal contagio. Prendendo la distanza tra Hendra e Mackay come raggio di possibile diffusione del virus e tracciando due cerchi centrati sui due focolai, si copriva un’area abitata da dieci milioni di persone, quasi metà della popolazione australiana. Il problema era davvero serio? Il virus si era già diffuso ovunque? Le redini furono prese in mano da un gruppo di ricercatori capitanato dall’infettivologo Joseph McCormack, che lavorava nello stesso ospedale di Brisbane dove era morto Vic Rail. Prelevarono siero sanguigno a cinquemila cavalli del Queensland (in pratica ficcarono un ago in tutti gli equini che trovavano sulla loro strada) e a duecentonovantotto esseri umani che avevano avuto qualche tipo di contatto con il caso Hendra. Nessuno dei campioni, né equini né umani, risultò positivo agli anticorpi. Possiamo immaginare che questi risultati furono accolti con un sospiro di sollievo dalle autorità sanitarie e con una certa seccata perplessità dai ricercatori. Nella relazione finale del gruppo di McCormack si legge: «Sembra che per la trasmissione da cavallo a uomo sia richiesto un contatto molto stretto».5 Ma erano parole al vento, che non spiegavano perché Margaret Preston, con un contatto così stretto, fosse sopravvissuta e suo marito no. In realtà perché un individuo si infettasse ci voleva anche una buona dose di sfortuna, più forse un paio di altri fattori ancora, dei quali nessuno aveva la minima idea. Comunque, il caso di Mark Preston fornì preziosi indizi a Hume Field: un secondo punto sulla mappa e una seconda data nel calendario. Nell’agosto 1994 Hendra era a Mackay e a settembre 1994 era a Cannon Hill e nella scuderia di Vic Rail. Field si trasferì allora a Mackay e ripeté la procedura già adottata, catturando animali, prelevando il sangue e verificando la presenza di anticorpi. E anche questa volta non trovò niente. Raccolse anche campioni da animali selvatici feriti o debilitati che erano curati in cattività prima dell’eventuale rilascio. In Australia la pratica è abbastanza diffusa, grazie a un gruppo non troppo organizzato di naturalisti dilettanti di buon cuore chiamati localmente carers, «badanti». Di solito si specializzano per categoria zoologica, e ci sono dunque carers di canguri, uccelli, opossum e così via, compresi i pipistrelli. Hume Field ne aveva conosciuto qualcuno negli anni in cui aveva praticato come veterinario; in un certo senso era stato uno di loro, da studente, quando lavorava come volontario al ricovero. Li contattò e prelevò campioni dagli animali affidati alle loro cure. Maledizione: ancora nessun segno di Hendra. Nel gennaio 1996, mentre la ricerca sembrava a un punto morto, Field prese parte a un brainstorming di scienziati e funzionari governativi, convocati dai responsabili del DPI. L’obiettivo era capire dove stavano sbagliando, come riorganizzare la campagna e come prevedere una possibile nuova emergenza Hendra. Il mondo delle corse ippiche del Queensland era a rischio di perdite multimilionarie, oltre al fatto che c’erano anche vite umane in ballo. Da enigma scientifico il caso si era trasformato in un urgente problema di governance e di immagine. Nella riunione si evidenziò una linea di indagine potenzialmente utile: la biogeografia. Era ovvio che l’ospite (o gli ospiti) serbatoio, qualunque fosse, doveva essere normalmente presente sia a Mackay sia a Cannon Hill, perlomeno per alcuni mesi all’anno, compresi agosto e settembre. Questo fatto puntava le indagini in direzione di quelle specie o largamente diffuse o in grado di spostarsi facilmente in tutto lo stato. I convenuti, aiutati anche da un dato di natura genetica, cioè l’assenza di ceppi virali distinti (dunque era il virus a spostarsi e cambiare ospite), si sbilanciarono a favore della seconda ipotesi: l’animale in questione era assai mobile, capace di percorrere centinaia di chilometri su e giù per il Queensland. Gli indiziati principali divennero allora gli uccelli... e i pipistrelli. Field e colleghi, come ipotesi di lavoro, scartarono gli uccelli per due ragioni: non era noto alcun caso di paramyxovirus che avesse fatto il salto da una specie aviaria all’uomo; in secondo luogo, un ospite serbatoio mammifero sembrava semplicemente più probabile, visto che risultavano infettati solo cavalli ed esseri umani. L’esistenza di un comun denominatore tra i vari ospiti serbatoio la dice lunga sulle preferenze dell’agente infettante, sulla sua provenienza e sulla probabilità che possa insediarsi in una certa specie. I pipistrelli, com’è noto, sono mammiferi. E si spostano con facilità. E come è noto sono portatori di un altro terribile virus, quello della rabbia – anche se all’epoca si pensava che l’Australia ne fosse immune. (Negli anni a seguire si sarebbero scoperte numerose altre connessioni biologiche tra pipistrelli ed esseri umani, ma nel 1996 l’idea non era così scontata). Da quella riunione, Field uscì con una nuova direttiva: occhio ai pipistrelli! Più facile a dirsi che a farsi. Catturare queste bestie al volo o anche soltanto nei loro posatoi non è come mettere qualche trappola per topi in un prato. I più grandi e diffusi pipistrelli autoctoni del Queensland sono le cosiddette volpi volanti, suddivise in quattro specie del genere Pteropus. Sono animali magnifici, pipistrelloni giganti che si nutrono di frutta e che possono avere un’apertura alare maggiore di un metro. I loro abituali siti di riposo sono le mangrovie, gli stagni dove fiorisce la melaleuca o i rami più alti degli alberi della foresta pluviale. Per catturarli si dovevano progettare metodi e strumenti nuovi. Come prima cosa Field fece una seconda visita ai carers che tenevano pipistrelli in cattività. In una clinica casalinga a Rockhampton, a nord di Brisbane verso Mackay, trovò un gruppo di animali in cura, tra cui alcuni esemplari di volpi volanti nere (Pteropus alecto). Fece qualche prelievo e... tombola: il sangue di uno di questi animali aveva gli anticorpi del virus Hendra. Ma una sola conferma non era sufficiente per uno scienziato scrupoloso come Hume Field. Aveva dimostrato che le volpi volanti nere erano «ricettive» al virus Hendra, ma non necessariamente che erano un serbatoio – o addirittura il serbatoio – da cui il patogeno era partito per infettare i cavalli. Il suo gruppo continuò le indagini. Nel giro di tre settimane la positività agli anticorpi per Hendra fu riscontrata anche nelle altre tre specie: la piccola volpe volante rossa (Pteropus scapulatus), la volpe volante dagli occhiali (Pteropus conspicillatus) e la volpe volante dalla testa grigia (Pteropus poliocephalus). I test condotti su vecchi campioni, conservati in alcuni casi per dodici anni, provarono che la popolazione locale di pipistrelli era stata esposta al virus ben prima che si manifestasse nella scuderia di Vic Rail. Nel settembre 1996, due anni dopo l’inizio di tutto, i ricercatori trovarono una femmina di volpe volante dalla testa grigia gravida impigliata in una recinzione di filo spinato. L’animale abortì spontaneamente due feti e fu soppresso. Non solo risultò positiva agli anticorpi, ma la particolarità del ritrovamento permise di isolare per la prima volta il virus nei pipistrelli. Nei fluidi uterini si trovarono patogeni vivi, che si dimostrarono indistinguibili da quelli reperiti nei cavalli e negli esseri umani. Era sufficiente, pur con tutte le cautele tipiche della ricerca scientifica, per etichettare le volpi volanti come «probabili» ospiti serbatoio di Hendra. Man mano che Field e colleghi procedevano con le ricerche, le prove a carico aumentavano sempre più. Nei primi test circa il 15 per cento delle volpi volanti era risultato positivo. Questo parametro, cioè il rapporto fra il numero degli individui che mostrano segni di contatto, presente o passato, con il patogeno e quello degli individui sani, è detto sieroprevalenza. È una stima, seppur basata su un campione limitato, di quale potrebbe essere l’incidenza in tutta la popolazione. Con il procedere dei test, la sieroprevalenza aumentava. Dopo due anni e millequarantatré volpi volanti esaminate, risultò pari al 47 per cento. Detto a parole: quasi metà dei grandi pipistrelli dell’Australia orientale erano o erano stati portatori di Hendra. Sembrava quasi che il virus dovesse calare in massa dal cielo. Gli scienziati pubblicarono le loro scoperte in riviste come il «Journal of General Virology» o «The Lancet», ma un’eco di tutto ciò giunse alla stampa. Un giornale titolò a caratteri cubitali: PAURA PER IL VIRUS DEI PIPISTRELLI, MONDO DELLE CORSE IN ALLARME. La polizia che erige barriere e le carcasse smembrate dei cavalli alla scuderia di Rail erano eventi troppo ghiotti perché le troupe televisive li ignorassero, e l’interesse del pubblico non fece che crescere. Alcuni di questi reportage erano precisi e pieni di buon senso, ma molti non lo erano affatto, e in generale non erano tranquillizzanti. La gente iniziò a preoccuparsi. L’identificazione delle volpi volanti come serbatoi virali e l’alta sieroprevalenza furono un brutto colpo all’immagine di un gruppo di animali che già normalmente non suscitava troppe simpatie. Se di solito la gente non ama granché i pipistrelli, in questa occasione le loro quotazioni in Australia scesero ancora. In un assolato sabato all’ippodromo, tra una corsa e l’altra, uno tra i più importanti allenatori di cavalli mi diede la sua opinione in merito. Alla sola menzione del virus Hendra si incendiò come un cerino: «È colpa loro, non dovrebbero permetterlo!». («Loro» si riferiva a qualche autorità statale non specificata). «Dovrebbero far fuori i pipistrelli! Quelle bestie sono la causa della malattia! Stanno appesi a testa in giù e si cagano addosso!». (Davvero? Lì per lì mi sembrava fisiologicamente implausibile). «E cagano sulla gente! È tutto il contrario di come dovrebbe essere, è la gente che dovrebbe cagare addosso a loro! A cosa servono? Buttiamoli via! Perché non si può? Glielo dico io: perché ci sono quelle mezzeseghe degli ecologisti!». Eravamo nel bar riservato ai soci del circolo ippico, una specie di sancta santorum per gli addetti del settore a cui ero stato ammesso insieme con Peter Reid. La lamentela non era finita: «Il governo dovrebbe proteggerci! Dovrebbe stare dalla parte dei ve-te-ri-na-ri, come il mio amico Peter!». E giù una serie di grugniti. L’allenatore era una specie di leggenda nel mondo delle corse australiano, un ottantenne irascibile e basso di statura, che portava i lunghi e ondulati capelli grigi pettinati all’indietro come un dandy. Non osavo contraddirlo, perché come ospite del suo club gli dovevo un minimo di rispetto, o perlomeno un po’ di tolleranza. A sua parziale discolpa, tutto ciò avveniva poco dopo la morte di un’altra vittima di Hendra, un veterinario del Queensland chiamato Ben Cunneen che si era ammalato prestando cure ai cavalli infettati. Indubbiamente, il rischio di lasciarci le penne per chi aveva a che fare con i cavalli e il rischio economico per l’intero settore delle corse in Australia erano elevati. Persino tra i carers, così amici degli animali e di sicuro «ecologisti mezzeseghe» nella visione del tizio, cominciavano a serpeggiare i timori, man mano che le prove scientifiche si accumulavano. Avevano due grosse preoccupazioni: l’una che il virus rendesse i loro amati chirotteri ancora più impopolari, rinforzando la voce di quanti (come l’allenatore) già ne chiedevano l’abbattimento, l’altra la paura di venire loro stessi infettati durante lo svolgimento della loro caritatevole missione. Quest’ultima era un’apprensione di tipo nuovo, che deve aver creato più di un ripensamento. Loro erano appassionati di pipistrelli, mica di virus. Un virus è fauna selvatica? Per la maggior parte di noi, no di certo. Molti chiesero di essere sottoposti al test per gli anticorpi di Hendra, il che aprì la strada a un’indagine a più ampio raggio, messa in piedi rapidamente e condotta sotto la guida di Linda Selvey, una giovane epidemiologa dell’Università del Queensland. Selvey si mise in contatto con i gruppi di conservazionisti dell’Australia sudorientale finché trovò centoventotto amici dei pipistrelli disposti (con maggiore o minore entusiasmo) a farsi esaminare. Il suo team prelevò campioni di sangue e sottopose i partecipanti a un questionario, che rivelò come molti di loro fossero stati per lungo tempo a diretto contatto con le volpi volanti – nutrendole e manipolandole, riportando non di rado graffi e morsicature. Uno aveva ricevuto un morso profondo alla mano da parte di un pipistrello Hendra-positivo. Il risultato più sorprendente di questa indagine fu la percentuale di carers che risultarono positivi: zero. Nonostante mesi e anni di promiscuità, nonostante i graffi, i morsi, il contatto con la saliva e il sangue, nessuno di loro presentava i segni immunologici dell’infezione da virus Hendra. Selvey, all’epoca studentessa di dottorato, pubblicò il suo rapporto nell’ottobre 1996. In seguito sarebbe diventata direttore dell’Ufficio Malattie infettive presso il ministero della Sanità del Queensland. La incontrai qualche anno più tardi in un rumoroso bar di Brisbane e le chiesi di parlarmi un po’ di quei famosi carers. «Non saprei come definirli» mi rispose. «Amanti degli animali, suppongo». Sono più uomini o donne? «In maggioranza donne». Forse perché, congetturava amabilmente, le donne senza figli hanno più tempo e avvertono maggiormente il desiderio di siffatti surrogati. In genere prestavano le cure agli animali nelle loro case, dotate di gabbie spaziose e confortevoli, dove i pipistrelli potevano riposare quando non venivano trattati. Non riuscivo a capacitarmi del fatto che contatti così stretti tra le due specie, con in più un’alta sieroprevalenza, non avessero portato ad alcuna infezione nell’uomo. Nessun positivo su centoventotto. E questo cosa voleva dire, per il virus? «Che ha bisogno di una sorta di amplificatore» rispose Selvey. Alludeva ai cavalli. Amplificatori involontari Soffermiamoci un attimo su una malattia degli animali di cui tutti hanno vagamente sentito parlare: l’afta epizootica. Roba da allevatori e mandriani. Anni fa ebbe un momento di celebrità grazie al film Hud il selvaggio, interpretato da Paul Newman. Pochi sanno, però, che questa malattia può colpire anche gli esseri umani ed è quindi, perlomeno a bassa intensità, una zoonosi. L’agente infettante appartiene ai picornavirus, un gruppo che comprende anche il virus della polio e altri virus simili a quelli del raffreddore. Gli esseri umani vengono infettati raramente, con sintomi quasi mai più gravi di eruzioni cutanee su mani e piedi o afte in bocca. Più spesso, e con conseguenze ben più gravi, vengono colpiti gli animali domestici «a unghia fessa» (artiodattili), come bovini, pecore, capre e maiali. Ugualmente suscettibili al virus sono le specie selvatiche che condividono questa caratteristica, come cervi, alci e antilopi. I sintomi clinici principali sono febbre, debolezza e la comparsa di vescicole sul muso, nella bocca e sulle zampe. Nelle femmine che allattano si possono trovare vesciche anche sui capezzoli, che a volte si rompono causando ulcere: pessima situazione, per la madre e per i piccoli. La mortalità è relativamente bassa, ma la morbilità (cioè la frequenza all’interno di una popolazione) è in genere elevata. La malattia si diffonde rapidamente negli allevamenti, provocando nelle bestie il rifiuto del cibo, e ciò dà luogo a un calo di produttività che in aziende grandi e con ridotti margini di profitto può avere conseguenze disastrose. In considerazione di tali perdite e dell’elevato rischio di contagio, se si presenta anche un solo caso tutti gli animali vengono di regola abbattuti, affinché il virus non possa ulteriormente propagarsi. Nessuno comprerebbe mai bestiame potenzialmente infetto, e se si sparge la notizia di un’epidemia in un certo paese le esportazioni crollano a zero. Bovini, ovini e suini diventano merci senza valore, anzi: costi aggiuntivi da accollarsi. «Dal punto di vista economico, è la più importante malattia animale al mondo» afferma una fonte autorevole. In base ai calcoli, «un’epidemia di afta epizootica negli Stati Uniti potrebbe costare fino a 27 miliardi di dollari in mancati incassi».6 Il virus si propaga per contatto diretto, con le feci, con il latte e anche per via aerea sotto forma di aerosol: è capace di spostarsi da un allevamento all’altro sulle ali di un venticello umido. Gli effetti dell’afta sono diversi da animale ad animale. Gli ovini in genere restano asintomatici. I bovini invece ne soffrono le conseguenze; il contagio avviene per contatto diretto (sfregando muso contro muso, per esempio) o per trasmissione madre-figlio tramite l’allattamento. I suini sono un caso a parte, perché sono straordinariamente contagiosi, sia come quantità di virus diffusa sia a livello di durata del periodo infettivo. Ogni loro atto respiratorio, starnuto, grufolata, colpo di tosse o rutto è una bella iniezione di patogeni nell’aria. Secondo uno studio sperimentale, il fiato dei suini contiene trenta volte la quantità di germi di quello dei bovini o degli ovini infetti; una volta nell’aria, il virus può viaggiare per chilometri e chilometri. Ecco perché i suini sono considerati il classico esempio di amplificatore. Un ospite di amplificazione è un organismo in cui un virus o un altro patogeno si moltiplica – e dal quale si diffonde – in misura straordinaria. Ciò accade per vari motivi, che hanno a che fare con la fisiologia dell’ospite, o con il suo sistema immunitario, o per una particolare storia pregressa di contatti con il patogeno, o per chissà quale altro motivo. L’ospite di amplificazione diventa così un anello intermedio della catena tra un ospite serbatoio e qualche altro animale sfortunato, una vittima che ha necessità di una dose più elevata di patogeni o di un contatto più prolungato per ammalarsi. Si può vedere il fenomeno in termini di soglia minima: l’amplificatore ha una soglia molto bassa per accogliere il patogeno, di cui moltiplica la quantità fino a farla diventare pari alla soglia, più alta, richiesta perché avvenga l’infezione in un altro animale. Non tutti i patogeni zoonotici hanno necessità di un ospite di amplificazione per lanciare con successo il loro attacco agli esseri umani, ma alcuni, evidentemente, sì. Di quali si tratta e come funziona nei dettagli il meccanismo di trasmissione? È quanto stanno cercando di capire gli specialisti in malattie infettive, che devono rispondere anche a molte altre domande aperte. Per adesso l’idea di «amplificatore» è un’ipotesi di lavoro teorica. Linda Selvey non menzionò il caso paradigmatico dell’afta epizootica quando lasciò cadere il termine «amplificatore» nel corso della nostra chiacchierata su Hendra, ma il concetto mi era chiaro. Sia come sia, perché i cavalli e non, che so, i canguri, i vombati, i koala o altri marsupiali? Già, perché i cavalli che fungono da amplificatori – e questo è un fatto ovvio che merita attenzione – non sono originari dell’Australia, ma animali esotici, portati per la prima volta nel paese dai coloni europei appena due secoli fa. Hendra invece è un virus antico, stando ai messaggi nascosti nel suo genoma decifrati dagli studiosi di evoluzione molecolare. Ed è possibile che dopo essersi differenziato, in un lontano passato, dai suoi cugini morbillovirus sia rimasto in Australia, senza farsi notare, per un tempo molto lungo. Anche i pipistrelli fanno parte dell’ecosistema locale da un bel po’; secondo le testimonianze fossili, nel Queensland erano presenti già cinquantacinque milioni di anni fa, e le volpi volanti potrebbero essere comparse in zona nel Miocene antico, circa venti milioni di anni fa. L’arrivo dell’uomo è assai più recente e risale a poche decine di migliaia di anni or sono. Gli eroici antenati dei moderni aborigeni approdarono nell’Australia nordoccidentale circa quarantamila anni fa, o forse anche prima, dopo un lungo viaggio fatto di passaggi di isola in isola, a bordo di barchette di legno, dall’Asia sudorientale attraverso il Mar cinese meridionale e le isole della Sonda. Ricapitolando, tre delle quattro creature coinvolte in questa complessa interazione biologica, il virus Hendra, le volpi volanti e gli esseri umani, coesistono probabilmente dal Pleistocene. I cavalli, invece, giunsero nel gennaio 1788. Paragonato a quel che sarebbe successo poi, fu un evento abbastanza insignificante. I primi cavalli arrivarono a bordo delle navi della Prima Flotta, che agli ordini del capitano Arthur Phillip partì dalle isole britanniche per fondare una colonia penale nel Nuovo Galles del Sud. Dopo cinque mesi di navigazione nell’Atlantico, la flotta fece sosta presso una colonia olandese vicino al Capo di Buona Speranza, per fare provviste e imbarcare gli animali domestici. Continuò poi il suo viaggio verso est, circumnavigò la Terra di Van Diemen (l’odierna Tasmania) e piegò a nord lungo la costa dell’Australia. James Cook aveva già «scoperto» il nuovo continente e il gruppo di Phillip era il primo nucleo di europei a stabilirsi laggiù. Arrivati in un punto accanto a dove ora sorge Sidney, in un eccellente porto naturale, la flotta sbarcò il suo carico di 736 detenuti, 74 maiali, 29 pecore, 19 capre, 5 conigli e 9 cavalli. Tra i cavalli c’erano due stalloni, quattro femmine e tre puledri. Prima di quel giorno, nessuna testimonianza fossile o storica registra la presenta del genere Equus in Australia. Né esistono tradizioni orali (o se esistono non sono state divulgate) che parlino di casi di Hendra tra gli aborigeni. Il 27 gennaio 1788, dunque, i protagonisti della storia erano quasi sicuramente tutti lì: il virus, l’ospite serbatoio, l’ospite di amplificazione e la vittima potenziale. Ecco però un nuovo mistero. Dai cavalli del capitano Phillip a quelli di Vic Rail sono passati duecentosei anni: perché il virus ha aspettato tanto tempo per emergere? Forse si era già manifestato in passato, magari più volte, e nessuno l’aveva riconosciuto? Quanti casi di Hendra negli ultimi due secoli sono stati erroneamente attribuiti, magari, al morso di un serpente? A queste domande gli specialisti non sanno ancora rispondere, ma ci stanno lavorando. Le malattie del futuro L’emergere di Hendra nel 1994 non fu che una perla in una collana di sciagure, che si era andata arricchendo in modo sempre più evidente, rapido e vistoso nei cinquant’anni precedenti. Quando e come iniziò l’èra delle moderne malattie emergenti di origine zoonotica? Scegliere un singolo evento è un po’ una forzatura, ma un buon candidato potrebbe essere la comparsa del virus Machupo tra le popolazioni boliviane tra il 1959 e il 1963. All’epoca non lo si chiamava così, anzi non si sapeva neppure che fosse un virus. Il primo caso ufficialmente registrato della malattia passò quasi inosservato: un caso di febbre molto alta, non fatale, in un contadino della zona durante la stagione delle piogge nel 1959. Altri casi più gravi si manifestarono nella stessa zona nel corso dei tre anni successivi, con sintomi come febbre alta, brividi, nausea, vomito, dolore diffuso, epistassi e sanguinamento gengivale. La malattia, localmente nota con il nome di tifo negro (cioè «tifo nero», perché tale era il colore del vomito e delle feci liquide), a fine 1961 si era presentata in 245 casi, il 40 per cento mortali. Continuò a uccidere le sue vittime fino a quando il virus fu isolato, l’ospite serbatoio identificato e le dinamiche di trasmissione comprese a sufficienza da poter essere contrastate con misure preventive (la cattura sistematica dei topi). Le ricerche scientifiche furono in gran parte condotte sul campo, tra enormi difficoltà, grazie a un team improvvisato di americani e boliviani, guidato da un giovane e dinamico ricercatore di nome Karl Johnson. Johnson era un uomo schietto e dalle opinioni decise, che provava una forte attrazione per la pericolosa bellezza dei virus. Si prese il Machupo e per poco non ne morì. Tutto ciò accadeva prima che i Centers for Disease Control and Prevention (CDC, «Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie») di Atlanta spedissero in loco squadre di lavoro ben equipaggiate. Il team di Johnson si inventò tutto lì per lì, tecniche e metodi di indagine. Dopo aver combattuto contro la febbre alta in un letto d’ospedale a Panama, il giovane ricercatore sarebbe diventato una figura importante nella lunga saga delle malattie emergenti. In un elenco dei momenti topici e più ansiogeni di questa saga, oltre a Machupo non possono mancare Marburg (1967), Lassa (1969), Ebola (1976, con un nuovo coinvolgimento in prima persona di Karl Johnson), HIV-1 (riconosciuto indirettamente nel 1981, isolato nel 1983), HIV-2 (1986), Sin Nombre (1993), Hendra (1994), influenza aviaria (1997), Nipah (1998), febbre del Nilo occidentale (1999), SARS (2003) e la tanto temuta ma in ultima analisi poco grave influenza suina (2009). Ci sono più drammi e virus in questa storia di quanti ne ospitasse la povera cavalla di Vic Rail. Si potrebbe pensare che questa lista sia una sequenza di eventi tragici ma non correlati, una serie di sfortunate coincidenze che ci hanno colpito per motivi imperscrutabili. Messa così, Machupo, HIV e SARS sono, in senso sia figurato sia letterale, «calamità naturali», dolorosi accidenti alla pari di terremoti, eruzioni vulcaniche e meteoriti, di cui si possono forse minimizzare le conseguenze ma che rimangono inevitabili. È una posizione passiva e quasi stoica, ed è sbagliata. Che sia chiaro da subito: c’è una correlazione tra queste malattie che saltano fuori una dopo l’altra, e non si tratta di meri accidenti ma di conseguenze non volute di nostre azioni. Sono lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica e una sanitaria. Sommandosi, le loro conseguenze si mostrano sotto forma di una sequenza di malattie nuove, strane e terribili, che emergono da ospiti inaspettati e che creano serissime preoccupazioni e timori per il futuro negli scienziati che le studiano. Come fanno questi patogeni a compiere il salto dagli animali agli uomini e perché sembra che ciò avvenga con maggiore frequenza negli ultimi tempi? Per metterla nel modo più piano possibile: perché da un lato la devastazione ambientale causata dalla pressione della nostra specie sta creando nuove occasioni di contatto con i patogeni, e dall’altro la nostra tecnologia e i nostri modelli sociali contribuiscono a diffonderli in modo ancor più rapido e generalizzato. Ci sono tre elementi da considerare. Uno. Le attività umane sono causa della disintegrazione (e non ho scelto questa parola a caso) di vari ecosistemi a un tasso che ha le caratteristiche del cataclisma. Tutti sappiamo come ciò avvenga a grandi linee: la deforestazione, la costruzione di strade e infrastrutture, l’aumento del terreno agricolo e dei pascoli, la caccia alla fauna selvatica (strano, quando lo fanno gli africani è «bracconaggio», quando lo fanno gli occidentali è uno «sport»), l’attività mineraria, l’aumento degli insediamenti urbani e il consumo di suolo, l’inquinamento, lo sversamento di sostanze organiche nei mari, lo sfruttamento insostenibile delle risorse ittiche, il cambiamento climatico, il commercio internazionale di beni la cui produzione comporta uno o più problemi sopradescritti e tutte le altre attività dell’uomo «civilizzato» che hanno conseguenze sul territorio. Stiamo, in poche parole, sbriciolando tutti gli ecosistemi. Non è una novità recentissima. Gli esseri umani hanno praticato gran parte di queste attività per molto tempo, anche se a lungo con l’ausilio di semplici strumenti. Oggi però siamo sette miliardi e abbiamo per le mani moderne tecnologie, il che rende il nostro impatto ambientale globale insostenibile. Le foreste tropicali non sono l’unico ambiente in pericolo, ma sono di sicuro il più ricco di vita e il più complesso. In questi ecosistemi vivono milioni di specie, in gran parte sconosciute alla scienza moderna, non classificate o a malapena etichettate e poco comprese. Due. Tra questi milioni di specie ignote ci sono virus, batteri, funghi, protisti e altri organismi, molti dei quali parassiti. Gli specialisti oggi usano il termine «virosfera» per identificare un universo di viventi che probabilmente fa impallidire per dimensione ogni altro gruppo. Molti virus, per esempio, abitano le foreste dell’Africa centrale, parassitando specifici batteri, animali, funghi o protisti, e questa specificità limita il loro raggio d’azione e la loro abbondanza. Ebola, Marburg, Lassa, il vaiolo delle scimmie e il precursore dell’HIV sono un campione minuscolo di quel che offre il menù, della miriade di altri virus non ancora scoperti che in alcuni casi stanno quieti dentro ospiti a loro volta ignoti. I virus riescono a moltiplicarsi solo all’interno delle cellule vive di qualche altro organismo, in genere un animale o una pianta con cui hanno instaurato una relazione intima, antica e spesso (ma non sempre) di mutuo soccorso. Nella maggioranza dei casi, dunque, sono parassiti benevoli, che non riescono a vivere fuori del loro ospite e non fanno troppi danni. Ogni tanto uccidono una scimmia o un uccello qua e là, ma le loro carcasse vengono rapidamente metabolizzate dalla giungla. Gli uomini non se ne accorgono quasi mai. Tre. Oggi però la distruzione degli ecosistemi sembra avere tra le sue conseguenze la sempre più frequente comparsa di patogeni in ambiti più vasti di quelli originari. Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale ha due possibilità: trovare una nuova casa, un nuovo tipo di casa, o estinguersi. Dunque non ce l’hanno con noi, siamo noi a esser diventati molesti, visibili e assai abbondanti. «Se osserviamo il pianeta dal punto di vista di un virus affamato» scrive lo storico William H. McNeill «o di un batterio, vediamo un meraviglioso banchetto con miliardi di corpi umani disponibili, che fino a poco tempo fa erano circa la metà di adesso, perché in venticinque-ventisette anni siamo raddoppiati di numero. Siamo un eccellente bersaglio per tutti quegli organismi in grado di adattarsi quel che basta per invaderci».7 I virus, soprattutto quelli di un certo tipo, il cui genoma consiste di RNA e non DNA e dunque è più soggetto a mutazioni, si adattano bene e velocemente a nuove condizioni. Tutti questi fattori non hanno portato solo all’emergere di nuove malattie e di tragedie isolate, ma a nuove epidemie e pandemie, di cui la più terribile, catastrofica e tristemente nota è quella provocata da un virus classificato come HIV-1 gruppo M (ne esistono altri undici parenti), cioè quello che causa la maggior parte dei casi di AIDS nel mondo. Ha già ucciso trenta milioni di persone dalla sua comparsa una trentina di anni fa e oggi altri trentaquattro milioni circa sono infetti. Nonostante la sua diffusione planetaria, pochi conoscono la fatale combinazione di eventi che portò il virus HIV-1 gruppo M a uscire dalla remota giungla africana dove i suoi antenati stavano ospiti delle scimmie, in apparenza senza causare danni, e a entrare nel corso della storia umana. Ben pochi sanno che la vera storia dell’AIDS non inizia tra la comunità omosessuale americana nel 1981 o in qualche metropoli africana negli anni Sessanta, ma cinquant’anni prima, alle sorgenti di un fiume chiamato Sangha, nella giungla del Camerun sudorientale. Ancora meno hanno avuto notizia delle sorprendenti scoperte degli ultimi anni, che ci hanno permesso di aggiungere dettagli alla storia e di rivedere le nostre posizioni. Ne parleremo nel capitolo 8; però sappiate fin d’ora che se anche l’argomento delle zoonosi fosse limitato all’emergere dell’AIDS basterebbe da solo a richiedere seria attenzione e sforzi da parte nostra. Ma come abbiamo già visto, c’è molto altro in ballo: pandemie e catastrofi sanitarie del passato (la peste bubbonica, l’influenza), del presente (la malaria, l’influenza) e del futuro. Le malattie del futuro, ovviamente, sono motivo di grande preoccupazione per scienziati ed esperti di sanità pubblica. Non c’è alcun motivo di credere che l’AIDS rimarrà l’unico disastro globale della nostra epoca causato da uno strano microbo saltato fuori da un animale. Qualche Cassandra bene informata parla addirittura del Next Big One, il prossimo grande evento, come di un fatto inevitabile (per i sismologi californiani il Big One è il terremoto che farà sprofondare in mare San Francisco, ma in questo contesto è un’epidemia letale di dimensioni catastrofiche). Sarà causato da un virus? Si manifesterà nella foresta pluviale o in un mercato cittadino della Cina meridionale? Farà trenta, quaranta milioni di vittime? L’ipotesi è ormai così radicata che potremmo dedicarle una sigla, NBO. La differenza tra HIV-1 e NBO potrebbe essere, per esempio, la velocità di azione: NBO potrebbe essere tanto veloce a uccidere quanto l’altro è relativamente lento. Gran parte dei virus nuovi lavorano alla svelta. Fin qui ho usato termini come «malattia emergente» come se fossero noti a tutti, e forse avete intuito di cosa si tratta. Per gli esperti è pane quotidiano, tanto che esiste addirittura una rivista specializzata al riguardo, «Emerging Infectious Diseases», pubblicazione mensile dei CDC. Ma è meglio a questo punto darne una definizione precisa. Nella letteratura scientifica se ne trovano diverse. La mia preferita è questa: una malattia emergente è «una malattia infettiva la cui incidenza è andata aumentando dopo la prima introduzione in una nuova popolazione di ospiti». I termini chiave qui sono, ovviamente, «infettiva», «aumento» e «nuovo ospite». Una malattia riemergente, invece, «ha incidenza crescente in una popolazione ospite già esistente, come risultato di mutamenti di lungo periodo nella sua epidemiologia». La tubercolosi è un esempio di malattia riemergente ed è un serio problema, soprattutto in Africa: il batterio che la causa sta sfruttando nuove opportunità, come infettare i pazienti di AIDS dal sistema immunitario compromesso. La febbre gialla, per citare un altro caso, riemerge periodicamente ogni qual volta la zanzara Aedes aegypti ha l’opportunità di ricominciare a trasportare il virus tra scimmie infette e uomini sani. La dengue, anch’essa trasmessa da punture di zanzara e con le scimmie come ospite serbatoio, è riemersa nell’Asia sudorientale dopo la seconda guerra mondiale a causa della maggiore urbanizzazione, dell’inefficiente controllo delle popolazioni di zanzare e di altri fattori ancora. Lo spillover è un concetto diverso dall’emergenza, a cui è comunque collegato. Nell’uso corrente in ecologia ed epidemiologia (viene utilizzato anche dagli economisti, con un altro significato), lo spillover (che potremmo tradurre con «tracimazione») indica il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un’altra. È un evento ben localizzato nel tempo: gli spillover di Hendra sono accaduti quando è passato dai pipistrelli ai cavalli (Drama Series) e da questi agli esseri umani (Vic Rail), nel settembre 1994. L’emergenza di una malattia è invece un processo, una tendenza: l’AIDS è emerso nella seconda metà (o magari, come vedremo, all’inizio) del ventesimo secolo. Uno spillover porta all’emergenza quando un patogeno che ha infettato qualche individuo di una nuova specie ospite trova in questa condizioni particolarmente favorevoli e si propaga tra i suoi membri. In questo senso più ristretto Hendra non è ancora completamente emerso come virus umano, ma è candidato a farlo. Non tutte le malattie emergenti sono zoonosi, ma la maggioranza sì. D’altronde, da dove potrebbe mai saltar fuori un patogeno, se non da un altro organismo? È vero, certe novità sembrano emergere dall’ambiente in generale, senza la necessità di trovare rifugio in un ospite serbatoio. Il caso classico è dato dal batterio oggi chiamato Legionella pneumophila, che uscì dall’impianto di condizionamento di un albergo a Filadelfia nel 1976, causando così il primo focolaio noto di legionellosi o morbo del legionario, che uccise trentaquattro persone. Ma è un evento assai meno tipico rispetto a una zoonosi. I microbi che infettano gli organismi viventi di un certo tipo sono i candidati più plausibili a diventare agenti infettanti di organismi viventi di un altro tipo. Questo fatto è stato dimostrato per via statistica da vari studi recenti. Uno di questi, a cura di due ricercatori dell’Università di Edimburgo, pubblicato nel 2005, ha esaminato 1407 specie note di patogeni umani e ha scoperto che il 58 per cento sono di origine animale. Solo 177 sul totale si possono considerare emergenti o riemergenti, e tre quarti dei patogeni emergenti provengono dagli animali. In parole povere: ogni nuova e strana malattia, con grande probabilità, arriva dagli animali. Un altro studio condotto in parallelo dal gruppo di Kate E. Jones, della Zoological Society di Londra, è stato pubblicato su «Nature» nel 2008. Gli autori esaminavano più di trecento malattie infettive emergenti (EIDs, Emerging Infectious Diseases, nella scrittura abbreviata dell’articolo) apparse tra il 1940 e il 2004, interrogandosi sulle variazioni di tendenza nonché sui pattern spaziali del fenomeno. Benché la loro lista di «eventi» fosse indipendente dall’elenco di patogeni dei ricercatori di Edimburgo, Kate Jones e colleghi trovarono quasi la stessa percentuale di zoonosi (il 60,3 per cento). «Inoltre il 71,8 per cento di questi eventi EIDS zoonotici erano causati da patogeni provenienti da animali selvatici»,8 distinti quindi da quelli domestici. Essi citavano Nipah in Malesia e la SARS nella Cina meridionale. Inoltre, la maggiore incidenza delle malattie associate alla fauna selvatica, a differenza di quelle dovute agli animali domestici, tendeva ad aumentare nel tempo: «Le zoonosi di origine selvatica rappresentano la più consistente e crescente minaccia alla salute della popolazione mondiale tra tutte le malattie emergenti» è la conclusione degli autori. «Le nostre scoperte mettono in evidenza la necessità ineludibile di monitorare lo stato di salute globale e di identificare nuovi patogeni potenzialmente trasmissibili all’uomo nella fauna selvatica come misura preventiva nei confronti di future malattie emergenti». Sembra una proposta ragionevole: teniamo d’occhio gli animali selvatici, perché mentre li stiamo assediando, accerchiando, sterminando e macellando, ci passano le loro malattie. E sembra persino fattibile. Ma mettere in evidenza la necessità di un controllo costante e di misure preventive significa anche sottolineare l’urgenza del problema e la frustrante realtà di quanto poco sappiamo. Chiediamoci per esempio: perché Drama Series, la prima vittima, si è ammalata proprio in quel momento? è stato perché ha cercato l’ombra sotto il grande ficus e ha brucato erba contaminata con urina di pipistrello infetta? come ha trasmesso l’infezione agli altri cavalli nella scuderia di Vic Rail? perché Rail e Ray Unwin si sono ammalati e Peter Reid, l’eroico veterinario, no? perché a Margaret Preston è stato risparmiato il fato del marito? perché i due focolai di Hendra sono scoppiati ad agosto e settembre nel 1994, vicini nel tempo ma distanti nello spazio? perché tutta quella gente che curava i pipistrelli non ha contratto il virus, nonostante i mesi se non gli anni di stretto contatto con le volpi volanti? Questi enigmi locali a proposito di Hendra non sono che versioni ridotte di grandi questioni che specialisti come Kate Jones e il suo gruppo, i ricercatori di Edimburgo, Hume Field e molti altri sparsi per il globo si pongono da tempo. Perché certe strane malattie emergono proprio in quel luogo e in quel momento? Accade oggi con maggiore frequenza rispetto al passato? Se sì, perché le nostre azioni ne aumentano l’incidenza? È possibile invertire la rotta o minimizzare le conseguenze, prima di essere colpiti da un’altra devastante pandemia? Ed è possibile farlo senza infliggere una terribile punizione a tutte le altre specie animali infettate con cui condividiamo il pianeta? Le dinamiche sono complesse, le possibilità molteplici. La scienza lavora con i suoi tempi lenti, ma vorremmo che rispondesse in fretta alla domanda delle domande: che tipo di germe brutto e cattivo, dall’origine imprevedibile e dagli effetti inesorabili, salterà fuori la prossima volta? Incontro con una sopravvissuta Durante un viaggio in Australia ho fatto tappa a Cairns, una stazione climatica situata circa 1500 chilometri a nord di Brisbane, dove avevo appuntamento con una giovane veterinaria. Non ricordo come avessi avuto i suoi contatti, perché la donna teneva un basso profilo e non desiderava che il suo nome uscisse sui giornali; ma aveva accettato comunque di parlarmi della sua esperienza con il virus Hendra. Era stata breve ma intensa, perché era avvenuta nel duplice ruolo di dottore e di paziente. All’epoca del nostro incontro era l’unica sopravvissuta alla malattia di cui si avesse notizia oltre a Ray Unwin, l’inserviente della scuderia che aveva anche lui contratto il virus e non ne era morto. Ci incontrammo nella piccola clinica veterinaria dove lavorava. Era una donna piena di energia. Aveva ventisei anni, occhi azzurro chiaro e capelli scuriti con l’henné, raccolti in una stretta crocchia. Indossava un paio di pantaloncini corti, una camicetta rossa a maniche corte con il logo della clinica e degli orecchini d’argento. Era presente al colloquio anche un affettuoso border collie, che mi dava colpetti sulla mano per chiedere carezze, mentre cercavo di prendere appunti. La donna mi raccontò di quella notte dell’ottobre 2004 in cui era uscita per visitare un cavallo malato. I proprietari si erano preoccupati perché l’animale, un castrone di dieci anni, aveva una brutta cera. Il cavallo viveva in una piccola fattoria a conduzione familiare a Little Mulgrave, trenta chilometri a sud di Cairns. Ne ricordava ancora il nome, Brownie – anzi, ricordava tutto di quella notte. Brownie non era un purosangue, non era allevato per le corse ma come animale da compagnia, particolarmente amato dalla figlia adolescente dei proprietari. Alle otto di sera il cavallo, che fino ad allora non aveva avuto problemi, cominciò a sentirsi male. La prima ipotesi fu una colica, un’intossicazione da piante velenose. Verso le undici fu chiamata la clinica, dove era di turno la giovane veterinaria, che saltò subito in macchina per raggiungere la fattoria. Al suo arrivo Brownie era in condizioni disperate: ansimava, aveva la febbre e non si alzava da terra. «La temperatura e le pulsazioni erano altissime, fuori da ogni logica» mi disse «e dal naso usciva del muco striato di sangue». Dopo un rapido esame obiettivo e il monitoraggio delle funzioni vitali, si avvicinò al muso del cavallo, che proprio in quell’istante starnutì. «Mi presi un po’ di quella schiuma rosa sulle braccia». La proprietaria e la figlia erano molto sporche di sangue, perché erano state accanto a Brownie per confortarlo. Il cavallo nel frattempo era peggiorato, non riusciva più ad alzare il capo. Stava morendo e la veterinaria, come suo dovere, disse ai proprietari che era il caso di sopprimerlo. Andò alla macchina, prese fiala e siringa ma quando tornò nella stalla Brownie era già morto. Negli ultimi spasmi dell’agonia aveva emesso altro muco insanguinato dalle narici e dalla bocca. Le chiesi se avesse indossato i guanti. Rispose di no. La procedura ne prevedeva l’uso per l’autopsia ma non per le cure agli animali vivi. «Ero vestita proprio come adesso. Scarpe con calzette corte, pantaloncini, camicia a maniche corte». E la mascherina? Non l’aveva. «Sa, in laboratorio è facile ricordarsi di prendere precauzioni. Ma a mezzanotte, sotto il diluvio, al buio, con i fari della macchina come unica fonte di luce, con una famiglia isterica che ti soffia sul collo, non è la stessa cosa. E poi non ne avevo proprio idea». Non aveva idea di cosa le stesse davanti, ovviamente. «Proprio non pensavo a qualche malattia infettiva». Era sulla difensiva, perché nell’indagine che era seguita qualcuno aveva parlato, col senno di poi, di negligenza. La donna era stata giudicata non colpevole (a sua volta aveva sporto reclamo per non esser stata avvertita del pericolo); però il fatto avrebbe potuto crearle qualche problema professionale, e per questa ragione preferiva rimanere anonima. Da un lato voleva raccontare la sua storia, dall’altro voleva lasciarsela alle spalle in fretta. Subito dopo la morte di Brownie si era cambiata d’abito per l’autopsia e aveva indossato scarponcini, pantaloni lunghi e guanti al gomito. I proprietari volevano sapere a tutti i costi se il cavallo avesse ingerito qualche erba velenosa potenzialmente pericolosa per gli altri loro animali. La veterinaria aprì l’addome di Brownie e vide che l’apparato digerente sembrava normale, senza blocchi o congestioni possibili cause di coliche. Durante la procedura si prese «qualche schizzo di fluido sulla gamba» – fare l’autopsia a un cavallo senza sporcarsi è praticamente impossibile, mi disse. Passò poi a esaminare la cavità toracica, attraverso una piccola incisione tra la quarta e la quinta costola. Sospettava un problema cardiaco e in effetti vide subito che ci aveva azzeccato: «Il cuore era molto aumentato di dimensioni. I polmoni erano pieni di fluido con tracce di sangue, fluido presente anche nella cavità toracica. Dunque la causa di morte era cardiomiopatia congestizia. Le mie conclusioni furono quelle, non potevo capire allora se fosse stata causata da una malattia infettiva». Chiese ai proprietari se desiderassero altre analisi in laboratorio, ma risposero di no: ne sapevano già abbastanza, la spesa non valeva la pena. Avrebbero seppellito il povero Brownie con una ruspa, semplicemente. Le chiesi se c’erano pipistrelli in giro. «Dappertutto» rispose. Non solo a Little Mulgrave, ma in tutto il Queensland settentrionale. «Vede là quel prato? Se si incammina in quella direzione ne trova almeno duecento». Cairns e dintorni sono il territorio ideale per i pipistrelli frugivori, che possono contare su clima caldo e abbondanza di alberi da frutto. L’inchiesta che seguì all’incidente, comunque, non rilevò situazioni particolari di contatto tra Brownie e le volpi volanti. «Nessuno ha capito perché si sia infettato proprio quel cavallo, se ci fossero motivi diversi dal puro caso». Sepolto sotto tre metri di terra, senza campioni di sangue e tessuto in giro per i laboratori, l’animale fu etichettato come «infetto» solo per via indiretta, inferendolo dagli eventi successivi. Subito dopo aver effettuato l’autopsia, la veterinaria si lavò accuratamente mani e braccia, si ripulì le gambe e tornò a casa per farsi una doccia con il Betadine, un antisettico usato da tutti i suoi colleghi in quelle situazioni. Si diede una bella strigliata, come un chirurgo prima di un’operazione, e si infilò nel letto, stanca dopo un turno faticoso ma abbastanza di routine. Solo nove o dieci giorni dopo cominciò a sentirsi male, con forti mal di testa. Il dottore ipotizzò che si trattasse di un forte raffreddore, o di influenza, o magari tonsillite, malattia a cui la donna era soggetta di frequente. Le prescrisse una cura di antibiotici e la rispedì a casa. Non andò al lavoro per una settimana, in preda a sintomi simili a quelli dell’influenza o della bronchite: lieve dolore al petto, gola infiammata, tosse persistente, affaticamento muscolare, debolezza. Un collega più anziano le chiese dopo un po’ se avesse considerato l’ipotesi di aver contratto il virus Hendra dal cavallo morto. La giovane donna aveva studiato a Melbourne, situata molto più a sud nella zona temperata, e prima di trasferirsi ai tropici non aveva quasi mai sentito parlare di questa malattia. Era ancora una novità misteriosa, che inoltre non colpiva la zona di Melbourne. È vero, due delle quattro specie di pipistrelli ospiti del virus vivevano anche laggiù a sud, ma non erano motivo di preoccupazione. Si decise a fare un esame del sangue, poi un altro di conferma e in effetti venne fuori che era positiva per gli anticorpi di Hendra. Nel frattempo era di nuovo in piedi ed era tornata al lavoro. L’infezione le era passata da sola. Quando ci incontrammo, più di un anno dopo, mi disse di sentirsi bene, salvo momenti di stanchezza e nervosismo – ma era qualcosa di più di un semplice stato d’ansia. Conosceva il caso di Mark Preston, che si era infettato durante l’autopsia di un cavallo, si era ristabilito ed era stato bene per un po’, fino alla ricaduta fatale: non poteva illudersi che il virus se ne fosse andato per sempre. Il suo caso era monitorato dagli ufficiali sanitari, che l’avevano pregata di avvisarli immediatamente ai primi segni di emicrania, vertigini, crisi convulsive, tremore o anche semplicemente forte tosse e raffreddore. «Vado sempre dagli specialisti di malattie infettive per i controlli» mi disse. «E al DPI mi fanno periodicamente il check up». Gli esami del sangue evidenziavano ogni volta bizzarre fluttuazioni nella concentrazione di anticorpi. Negli ultimi tempi erano nuovamente risaliti: era segno di una prossima ricaduta o magari il suo sistema immunitario si era corazzato ed era diventata immune? La cosa che le faceva più paura, disse, era l’incertezza: «La malattia è nuova e nessuno sa dirmi se correrò rischi in futuro». Come sarebbe stata di lì a sette anni? e a dieci? quanto erano alte le probabilità di ricaduta? Mark Preston era morto all’improvviso un anno dopo il contagio. Ray Unwin non si sentiva troppo bene. La giovane veterinaria di Cairns voleva che qualcuno le dicesse quello che tutti vorremmo sapere: che cosa accadrà? 2 TREDICI GORILLA Mayibout 2, Gabon nordorientale Pochi mesi dopo i fatti avvenuti nella scuderia di Vic Rail, si verificò un altro spillover, questa volta in Africa centrale. Lungo il corso superiore del fiume Ivindo, nel Gabon nordorientale ai confini con la Repubblica del Congo, si trova un villaggio chiamato Mayibout 2, una sorta di insediamento satellite situato pochi chilometri a monte di Mayibout propriamente detto. Nel febbraio 1996, diciotto abitanti di questo villaggio si ammalarono dopo aver macellato e mangiato uno scimpanzé. I sintomi ricorrenti erano febbre, emicrania, vomito, occhi arrossati, gengive sanguinanti, singhiozzo, dolore muscolare, mal di gola e diarrea con tracce di sangue. Su decisione del capo villaggio, tutti e diciotto i malati furono trasportati fino all’ospedale di Makokou, la capitale della provincia. Ci sono solo ottanta chilometri in linea d’aria tra il villaggio e la cittadina, ma in piroga lungo il sinuoso corso dell’Ivindo ci si mettono sette ore, attraverso una densa giungla. Quattro di loro arrivarono in fin di vita e morirono nel giro di due giorni. I cadaveri, riportati a Mayibout 2, furono sepolti secondo i riti tradizionali, senza prendere particolari precauzioni per evitare la trasmissione del germe che li aveva uccisi, qualunque fosse. Un quinto individuo fuggì dall’ospedale, si trascinò in qualche modo fino a casa e lì morì. Ben presto si registrarono casi tra coloro che si erano presi cura degli infettati, amici o parenti, o che avevano toccato i cadaveri. Alla fine si contarono trentun casi, di cui ventuno fatali, con una mortalità di quasi il 68 per cento. A raccogliere i dati relativi alla vicenda furono i membri di un gruppo di lavoro, composto da ricercatori gabonesi e francesi, che era arrivato a Mayibout 2 nel mezzo della crisi. Tra di loro c’era un energico francese chiamato Eric M. Leroy, che aveva studiato veterinaria e virologia a Parigi e lavorava allora al Centre International de Recherches Médicales di Franceville (CIRMF), cittadina nel sudest del Gabon. Leroy e colleghi trovarono il virus Ebola nel materiale organico prelevato ad alcuni pazienti e dedussero che la causa del contagio fosse lo scimpanzé macellato: «L’animale sembra essere stato il caso primario che ha infettato direttamente diciotto persone»1 scrissero nel rapporto. Facendo ricerche sul caso scoprirono anche che la scimmia non era stata uccisa dai locali, ma era stata trovata morta nella giungla e portata al villaggio. Quattro anni dopo, mi trovavo in un accampamento lungo il corso superiore del fiume Ivindo, in sosta nel corso di un’impegnativa spedizione africana. Ero accompagnato da una decina di uomini della locale forza lavoro. Venivano quasi tutti da villaggi della zona ed erano in marcia da giorni. Tra i loro compiti c’era quello di portare pesanti zaini e montare tutte le sere l’accampamento per il capo missione, un biologo chiamato Mike Fay, la cui maniacalità e il cui senso del dovere erano il motore propulsivo della spedizione. Fay è un uomo stravagante, anche per un biologo che lavora sul campo in zone tropicali: fisicamente indistruttibile, testardo, libero pensatore, intelligente e strenuamente impegnato nella conservazione dell’ambiente naturale. La missione, da lui battezzata Megatransect, consisteva in una camminata di tremila chilometri attraverso le zone più intatte della giungla centroafricana. Raccoglieva dati passo dopo passo, che si trattasse di escrementi di elefanti, orme di leopardi, piante non identificate: migliaia di appunti scritti nei suoi taccuini dalla copertina impermeabile gialla, con una illeggibile grafia da mancino. L’equipaggio, nel mentre, trascinava faticosamente il suo computer, il suo satellitare, le sue scorte di batterie e il suo equipaggiamento speciale, oltre a tende, provviste e medicine sufficienti per tutti. Quando lo incontrai in quel punto del Gabon, Fay camminava ormai da duecentonovanta giorni. Aveva attraversato la Repubblica del Congo con un equipaggio di tosti uomini locali, quasi tutti della tribù bambendjellé (appartenente a quel gruppo etnico caratterizzato da bassa statura, i pigmei), ma al confine con il Gabon li avevano respinti. Fay era stato dunque costretto a reclutare altri lavoratori e li aveva trovati quasi tutti all’interno di un gruppo di avamposti minerari lungo il corso superiore dell’Ivindo. Evidentemente, quegli uomini induriti preferivano farsi strada nella giungla a colpi di machete e portare pesanti zaini piuttosto che cercare oro nel fango sotto il sole equatoriale. Uno dei portatori faceva anche le funzioni di cuoco: ogni sera, al campo, preparava porzioni colossali di riso o fufu (una pappa amidacea di farina di manioca, che sembra la versione commestibile della colla da tappezziere) su cui spargeva mestolate di un’indefinibile salsa marrone. Gli ingredienti del condimento cambiavano di giorno in giorno a seconda dell’umore dello chef: passata di pomodoro, pesce secco, sardine in scatola, burro di noccioline, carne secca e pili-pili (peperoncino). Nessuno si lamentava del rancio e tutti avevano sempre una fame da lupi; d’altronde, dopo un giorno passato ad arrancare con fatica nella giungla, peggio di una porzione di quella roba c’era solo una piccola porzione della stessa roba. Ero lì in missione per conto del «National Geographic»; il mio compito consisteva nel seguire Fay per raccontare il suo lavoro e il suo viaggio in una serie di articoli. Lo accompagnavo dieci giorni in un posto, due settimane in un altro e poi me ne tornavo negli Stati Uniti, lasciavo che i piedi massacrati guarissero (indossavo sandali) e scrivevo un pezzo. Ogni volta che mi ricongiungevo alla spedizione, le modalità del nostro rendez-vous cambiavano: tutto dipendeva da quanto isolato era il luogo in cui Fay si trovava in quel momento e da quanta urgenza aveva di ricevere nuove provviste. Lui di sicuro non deviava di un millimetro dal suo zigzagante itinerario prestabilito, e toccava a me darmi da fare per raggiungerlo. Qualche volta viaggiai con un piccolo aereo e su una canoa a motore assieme al suo fido luogotenente ed esperto di logistica, un ecologista giapponese di nome Tomo Nishihara. In quei casi Tomo e io ci infilavamo nella canoa stringendoci per far posto alle cose necessarie alla prossima tappa del viaggio di Fay: sacchi di fufu, riso e pesce secco, scatole di sardine, latte d’olio e burro d’arachidi, pili-pili e batterie. Ma a volte nemmeno un viaggio in canoa bastava per raggiungere il remoto punto in cui Fay e la sua ciurma aspettavano i rinforzi, affamati e stravolti. In una di queste occasioni, mentre la spedizione stava attraversando un lungo tratto di giungla presso il parco di Minkébé, io e Tomo calammo dal cielo in un rombante elicottero Bell 412, una grossa macchina capace di trasportare tredici persone fornita a caro prezzo dall’esercito gabonese. Il tetto della foresta, altrove spesso e continuo, era punteggiato in quell’area da cupole di granito alte decine di metri che spuntavano oltre le chiome degli alberi, simili al monolite di El Capitan, nel Parco nazionale di Yellowstone, che si erge sopra uno strato di nebbia verde a bassa quota. In cima a una di queste «montagne-isola» era situato il punto di atterraggio individuato da Fay, una sessantina di chilometri a ovest di Mayibout 2. La marcia di quel giorno era stata relativamente agevole, senza paludi o tratti di macchia folta che scorticavano la pelle, né attacchi da parte di elefanti provocati dal tentativo di Fay di filmarli molto da vicino. Stavano bivaccando in attesa dell’elicottero, che nel carico di provviste aveva anche della birra. Quella sera l’atmosfera attorno al fuoco era allegra e gioviale. Tra le chiacchiere, venni presto a sapere che due uomini del gruppo, Thony M’Both e Sophiano Etouck, venivano da Mayibout 2 ed erano stati testimoni dello scoppio di Ebola. Thony, estroverso, magro e più volubile dei compagni, era ben disposto a parlarne. Mi raccontò cosa era successo in francese, mentre Sophiano, uomo timido con un fisico da culturista, l’espressione accigliata, il pizzetto e una balbuzie nervosa, stava in disparte senza dire una parola. A sentire Thony, il compagno aveva perso un fratello e gran parte dei nipoti. Non me la sentivo di insistere per ottenere altre informazioni da due persone appena incontrate. Due giorni dopo iniziammo la tappa successiva, sempre dentro la foresta di Minkébé, a sud delle formazioni granitiche. Le difficoltà pratiche dell’avanzare a piedi nella giungla, senza sentieri o piste, non consentivano distrazioni e la sera eravamo tutti esausti (soprattutto loro, che faticavano più di me). A metà percorso, dopo una settimana di difficile cammino, dopo aver condiviso avversità e cene attorno al fuoco, Thony si sbottonò un poco e mi raccontò qualche altro particolare. I suoi ricordi in genere erano compatibili con il rapporto del CIRMF, tranne qualche piccola differenza sui numeri, ma il suo punto di vista era più personale. La chiamava l’épidémie. Si ricordava bene del 1996, quando a un certo punto i soldati francesi erano arrivati a Mayibout 2 su un gommone a motore e si erano accampati vicino al villaggio. Non si capiva se fossero in missione (riparare una vecchia pista d’atterraggio, si diceva) o se volessero distrarsi un po’. Si sentivano sparare i fucili e Thony mi disse che forse avevano anche delle armi chimiche – dettagli significativi, perché l’uomo pensava che potessero avere a che fare con l’epidemia. Un giorno dei ragazzi del villaggio uscirono per una battuta di caccia con i cani, in cerca di istrici. Tornarono però con uno scimpanzé, non ucciso dai cani ma trovato morto. Era marcio, disse Thony, con la pancia tutta gonfia e puzzava. Ma poco importava, la gente aveva fame ed era contenta di aver trovato della carne; macellarono la scimmia e se la mangiarono. Nel giro di due giorni, tutti quelli che avevano mangiato o anche solo toccato la carne cominciarono a sentirsi male. Vomitavano e soffrivano di diarrea. Qualcuno andò in barca fino all’ospedale di Makokou, ma non c’era abbastanza carburante per trasportare tutti i malati, né abbastanza barche. Undici persone morirono all’ospedale, altre diciotto al villaggio. Sì, da Franceville erano arrivati subito dei dottori speciali, disse Thony, con le tute bianche e i caschi, ma non avevano salvato nessuno. Sei parenti di Sophiano morirono, tra cui una nipotina tra le sue braccia. Eppure lui non si era ammalato, e nemmeno Thony. Sulle cause della malattia si speculava molto e giravano cupe storie. Thony aveva il sospetto che i soldati francesi avessero ucciso la scimmia con le loro armi chimiche e l’avessero lasciata lì a marcire per avvelenare il villaggio. A ogni modo, la vicenda era servita come lezione: nessuno ora nel villaggio mangiava più gli scimpanzé. Gli chiesi che ne era stato dei cacciatori. Erano tutti morti, rispose Thony, ma i cani no. C’era mai stato qualcosa di simile al villaggio? «Non, c’était la première fois» mi rispose. Mai successo. Come era stato cucinato lo scimpanzé? Thony mi rispose sorpreso, come se avessi fatto una domanda sciocca: alla solita maniera africana. Mi feci l’immagine di uno stufato di scimmia coperto da salsa di arachidi e pili-pili e accompagnato da fufu. Oltre a questa sgradevole pietanza, non riuscivo a scacciare dalla mente un particolare che Thony aveva menzionato in una chiacchierata precedente. Mentre il villaggio era in preda al caos e al lutto, lui e Sophiano avevano visto uno spettacolo assai strano lì vicino nella giungla: tredici gorilla morti accatastati. Tredici gorilla? Era un’informazione che mi aveva fornito spontaneamente, non avevo chiesto nulla a proposito degli animali selvatici. Sappiamo bene che i racconti aneddotici tendono a essere parziali, imprecisi, a volte del tutto falsi, anche se forniti da testimoni oculari. «Tredici» poteva significare dodici o quindici, o semplicemente «tanti», troppi perché un uomo con ben altre preoccupazioni si fermasse a contarli. Parenti e amici stavano morendo, i ricordi potevano essere confusi. Li aveva visti davvero? Magari erano stati avvistati da un amico di cui si fidava ciecamente, o forse ne aveva sentito parlare da qualcuno della cui autorevolezza non dubitava. Mi sembrava che la testimonianza di Thony potesse ascriversi alla prima categoria epistemologica: affidabile anche se non necessariamente precisa. Ero sicuro che avesse visto dei gorilla morti, una dozzina, magari ammassati e non impilati; forse li aveva anche contati. L’immagine di tredici cadaveri di scimmie uno sull’altro su un letto di foglie era tremenda ma plausibile. E ricerche successive hanno dimostrato che i gorilla sono molto suscettibili a Ebola. I dati scientifici sono assai diversi dalle testimonianze aneddotiche. Non brillano per iperboli poetiche o per ambiguità, sono particolareggiati, quantitativi, solidi. Raccolti con meticolosa precisione e interpretati con rigore, possono rivelare informazioni non subito chiare. Ecco perché Mike Fay stava attraversando l’Africa centrale a piedi con i suoi taccuini gialli: per cercare tendenze generali nascoste in una massa di dati particolari. Il giorno dopo proseguimmo la marcia. Eravamo a più di una settimana di cammino dalla strada più vicina. La zona era l’habitat ideale per i gorilla, ben strutturato, ricco di piante a loro gradite e quasi incontaminato dall’uomo: niente piste, campi o tracce della presenza di cacciatori. Dovevano essercene tanti di primati, perlomeno ce ne erano stati tanti nel recente passato. Il censimento dei gorilla del Gabon effettuato venti anni prima, a cura di due ricercatori del CIRMF, aveva fornito una stima di 4171 esemplari nella zona del Minkébé. Eppure, nella settimana trascorsa nel folto della giungla, non ne scorgemmo nemmeno uno. L’assenza di segnali della loro presenza era assai strana, tanto che Fay pensava ci fosse qualcosa di eclatante dietro. Fenomeni come questi, positivi o negativi che fossero, erano esempi di quelle tendenze generali che il suo progetto di ricerca voleva sviscerare. Durante l’intero percorso aveva preso nota nei suoi taccuini di tutte le tane di gorilla, di tutti gli escrementi di gorilla, di tutti i segni del fatto che un gorilla aveva morsicato una pianta (lo stesso per ogni altro animale, dallo sterco di elefante alle tracce del passaggio dei leopardi e così via). Al termine della tappa nel Minkébé tirò le somme. Dopo ore passate chiuso nella sua tenda a registrare le ultime osservazioni sul portatile, uscì a parlarmi. Nei quattordici giorni precedenti avevamo incontrato 997 escrementi di elefante e nessuno di gorilla. Eravamo passati accanto a milioni di steli di alte piante erbacee, comprese alcune della famiglia Marantaceae del cui germoglio nutriente i gorilla sono molto ghiotti, ma nessuno di questi mostrava segni di morsicature. Non avevamo sentito un solo richiamo fatto dai maschi battendosi il petto, né avevamo visto una sola tana. Era un po’ come la storia curiosa del cane che non abbaiava di notte – un’assenza che fornì a Sherlock Holmes la prova che qualcosa non andava.2 I gorilla del Minkébé, un tempo abbondanti, erano scomparsi. L’inevitabile conclusione era che qualcosa li aveva sterminati. Ebola Lo spillover di Mayibout 2 non fu un evento isolato, ma parte di una serie di focolai epidemici nell’Africa centrale il cui significato complessivo ancora ci sfugge ed è ancora oggetto di dibattito. La malattia in questione, un tempo nota come febbre emorragica di Ebola, oggi è chiamata semplicemente Ebola. La serie di fenomeni parte dal 1976 (prima emergenza registrata del virus) e dura fino ai giorni nostri, da un lato all’altro del continente africano, dalla Costa d’Avorio al Sudan e all’Uganda. Il virus si manifesta in quattro varianti distinte, collettivamente denominate «virus Ebola». A scala locale, nel Gabon, si è avuta di recente una concentrazione di incidenti: tre in meno di due anni, tutti vicini geograficamente. Mayibout 2 è stato il secondo episodio di questa serie. Un focolaio antecedente si ebbe nel dicembre 1994 negli accampamenti di minatori d’oro lungo il corso superiore dell’Ivindo, la stessa zona in cui Mike Fay avrebbe poi reclutato i suoi portatori. In questi insediamenti, situati una quarantina di chilometri a monte di Mayibout 2, si ammalarono almeno trentadue individui, che presentavano tutti i sintomi caratteristici di Ebola (febbre, emicrania, vomito, diarrea, sanguinamento). La fonte di contagio non fu facile da individuare, anche se un paziente raccontò ai dottori di aver ucciso uno scimpanzé entrato nel campo che si comportava in modo strano. Forse l’animale in questione era infetto e aveva portato il contagio tra quegli uomini affamati. Secondo un’altra testimonianza, il primo colpito dalla malattia fu un tale che aveva trovato un gorilla morto nella giungla, l’aveva portato al campo e l’aveva spartito con altri. Era morto, come pure tutti quelli che avevano toccato la carne. Più o meno allo stesso tempo circolavano storie di avvistamenti nella giungla di carcasse di scimmie. In generale la sola presenza dei minatori (e delle loro famiglie, perché questi accampamenti erano villaggi a tutti gli effetti), che avevano necessità di cibo, riparo e carburante, aveva turbato l’ambiente della giungla e gli animali che l’abitavano. In quell’occasione i malati furono trasferiti via fiume (come sarebbe poi successo a Mayibout 2) all’ospedale generale di Makokou. Si manifestarono allora casi di infezione secondaria, sia nei dintorni dell’ospedale sia nei villaggi vicini. In uno di questi si trovava un nganga, un guaritore tradizionale, la cui casa potrebbe essere stata il punto di incontro tra un minatore malato, che era andato da lui per cercare conforto nella medicina popolare, e uno sfortunato abitante del luogo, che si era rivolto al guaritore per un problema meno tragico di Ebola. Forse il virus passò proprio per le mani del guaritore. A ogni modo, quando l’emergenza terminò si registrarono quarantanove casi e ventinove decessi, con una mortalità di quasi il 60 per cento. Un anno dopo fu la volta di Mayibout 2, il secondo episodio di quella serie. Otto mesi dopo, i ricercatori del CIRMF e altri colleghi dovettero affrontare un altro focolaio, vicino alla cittadina di Booué nel Gabon centrale. Qui tutto era iniziato con ogni probabilità tre mesi prima, nel luglio 1996, con la morte di un cacciatore in un accampamento di taglialegna contrassegnato con la sigla SHM, una sessantina di chilometri a nord di Booué. In seguito si scoprì che i sintomi di questo malcapitato erano compatibili con Ebola. Un altro cacciatore morì misteriosamente nello stesso accampamento sei settimane più tardi. Poi un terzo. Che tipo di carne mangiavano lassù? Con ogni probabilità molte specie diverse di animali selvatici, tra cui scimmie, piccole antilopi, potamoceri, istrici e forse (nonostante fosse illegale) gorilla. Anche in questo caso si videro carcasse di scimpanzé nella giungla, morti non per mano umana. I primi tre casi sembravano dovuti a tre contagi indipendenti, come se ognuno avesse contratto il virus tramite il contatto con una creatura selvatica. I problemi si aggravarono proprio con la terza vittima, che divenne anche un veicolo di infezione. Fu ricoverato per un po’ a Booué, ma scappò dall’ospedale eludendo i controlli delle autorità sanitarie, giunse in un villaggio vicino e chiese aiuto al nganga locale. La medicina tradizionale non poté nulla: il cacciatore morì, e poco dopo morirono anche il guaritore e suo nipote. Era iniziata una reazione a catena. Nel corso di ottobre e nei mesi successivi si registrarono parecchi casi nella zona di Booué, il che faceva pensare a contagi tra esseri umani. Molti pazienti furono trasportati all’ospedale di Libreville, la capitale del Gabon, e lì morirono. Un dottore che aveva curato uno di questi pazienti si ammalò a sua volta e, dimostrando poca fiducia nel sistema sanitario del suo paese, volò a Johannesburg in cerca di cure migliori. A quanto pare lui sopravvisse, ma un’infermiera sudafricana che gli era stata vicino si infettò e morì. Ebola era uscito per la prima volta dall’Africa centrale e si era manifestato in un’altra parte del continente. Il bilancio complessivo del terzo episodio, tra Booué, Libreville e Johannesburg, fu di sessanta casi e quarantacinque morti. Il tasso di mortalità ve lo potete calcolare da soli a mente. In tutti questi diversi eventi, si notano alcune caratteristiche comuni: attività umana che disturba l’ecosistema della foresta nel punto in cui si registrano i primi casi, presenza di primati morti, poi il contagio passa agli umani, poi compaiono casi di contagio secondario, dovuto al ricovero in ospedale o al ricorso a guaritori, e un’alta mortalità compresa tra il 60 e il 75 per cento. Se si esclude la rabbia, rispetto ad altre malattie infettive queste percentuali sono altissime, probabilmente maggiori anche di quelle della peste bubbonica nei peggiori periodi della Morte Nera. Dopo il 1996 si sono verificati altri casi di Ebola tra uomini e gorilla nella regione di Mayibout 2. Una delle zone più colpite si trova lungo il fiume Mambili, subito dopo il confine tra Gabon e Congo; anche qui ci sono vari villaggi sparsi in una densa giungla, oltre a un parco nazionale e un sito di protezione dei gorilla creato di recente, il Lossi Gorilla Sanctuary. Avevo visitato la zona nel marzo 2000 con Mike Fay, quattro mesi prima del nostro appuntamento tra le formazioni granitiche del Minkébé. Lì i gorilla non mancavano di certo, contrariamente a quanto avremmo visto in seguito. Ma due anni dopo, nel 2002, un gruppo di ricercatori stanziati a Lossi iniziarono a trovare cadaveri di gorilla, alcuni dei quali positivi al test degli anticorpi di Ebola (prova meno diretta della presenza effettiva del virus, ma non di meno un forte indizio). Nel giro di pochi mesi, il 90 per cento degli individui da loro seguiti individualmente, cioè centotrenta animali su centoquarantatré, erano scomparsi. Quanti avevano cambiato zona e quanti erano morti? Estrapolando in modo approssimativo i dati sicuri in loro possesso, i ricercatori pubblicarono un articolo su «Science», dal titolo forte (ma esagerato nella sua assenza di dubbi): Ebola Outbreak Killed 5000 gorillas (5000 gorilla morti per epidemia di Ebola). I gorilla fantasma Nel 2006 tornai sulle rive del fiume Mambili. Mi accompagnavo in quell’occasione con un team guidato da William (Billy) Karesh, all’epoca direttore del Field Veterinary Program presso la Wildlife Conservation Society (wCS) di New York e ora direttore della EcoHealth Alliance. Billy Karesh è un veterinario di formazione ed è un’autorità in materia di zoonosi. È un uomo in perenne movimento, originario di Charleston, nella Carolina del Sud, grande appassionato in gioventù dei documentari naturalistici commentati dal popolare zoologo Marlin Perkins. Oggi porta la barba e non si separa mai dal suo cappellino da baseball e dalla sua maglietta azzurra da chirurgo. Ha un atteggiamento empirico nei confronti del mondo ed evita come la peste le affermazioni generali e categoriche. Parla poco e quasi senza muovere la bocca, che a volte si apre in un accenno di sorriso, quasi a significare un divertito stupore nei confronti delle meraviglie naturali e del variegato spettacolo dell’umana stoltezza. Ma quella volta nella zona del Mambili c’era ben poco da ridere. La sua missione era sparare ai gorilla, non per ammazzarli ma per addormentarli, prelevare campioni di sangue e verificare la presenza di anticorpi del virus Ebola. Eravamo diretti a un sito noto come Moba Bai, una zona di radure naturali sulla riva orientale dell’alto corso del Mambili, non lontano dalla riserva di Lossi. Nell’Africa francofona un bai è una zona paludosa che si staglia come un’enclave all’interno della giungla, in genere dotata di depositi minerali che attirano gli animali in cerca di supplementi nutritivi. Oltre a Moba Bai propriamente detto, nella zona c’erano altri tre o quattro di questi bai. I gorilla frequentano questi siti, pieni di acqua e di luce, per fare scorpacciate di carici e asteracee ricchi di sodio, che crescono in assenza di alberi. Arrivammo a Moba navigando controcorrente in una canoa di legno stracarica dotata di un motore fuoribordo da 40 cavalli. Eravamo in undici, con un sacco di equipaggiamento: un frigorifero a gas, due thermos ad azoto liquido (per conservare i campioni), siringhe e aghi accuratamente imballati, fiale, guanti chirurgici, tute anticontaminazione, tende e tele cerate, riso, fufu, tonno e piselli in scatola, svariati cartoni di pessimo vino rosso, numerose bottiglie d’acqua, due tavolini da campeggio e sette sedie pieghevoli di plastica bianca. Armati di tali strumenti e generi di conforto, ci accampammo sulla sponda opposta del fiume rispetto a Moba. Facevano parte del gruppo una guida locale esperta di nome Prosper Balo, altri veterinari specializzati in fauna selvatica, portatori e un cuoco. Prosper aveva lavorato a Lossi prima e durante l’epidemia. Era la guida ideale per addentrarsi nei bai, con la loro ricca vegetazione, dove un tempo tanti gorilla convergevano per nutrirsi e riposare. Billy Karesh era già stato sul posto due volte, prima dell’arrivo di Ebola, per raccogliere dati sulle statistiche vitali dei gorilla. Nel 1999 era arrivato a registrare la presenza di sessantadue scimmie in un solo giorno. Un anno dopo, si era portato dietro un fucile a dardi tranquillanti per cercare di catturarne qualcuno. «In ognuno dei bai si trovava almeno un gruppo famigliare al giorno» mi disse. Per non turbare troppo la popolazione di gorilla, ne aveva immobilizzati solo quattro, per pesarli, verificare l’eventuale presenza di malattie evidenti (come la framboesia, un’infezione della pelle causata da un batterio) e prelevare un po’ di sangue. Tutti i quattro individui erano risultati negativi al test per gli anticorpi di Ebola. Questa volta la situazione era diversa: Ebola era già entrato in scena nella regione e nel 2002 aveva fatto strage di gorilla. Billy intendeva raccogliere campioni di siero sanguigno nei sopravvissuti. E così iniziammo, aspettandoci grandi cose. Ma i giorni passavano, e di gorilla superstiti neanche l’ombra. O meglio: se c’erano, erano troppo pochi perché il tiro a segno al gorilla con freccette di anestetico (oltretutto un’impresa non priva di rischi, sia per chi spara sia per il bersaglio) fosse produttivo in termini di dati. Gli appostamenti a Moba durarono più di una settimana. Tutte le mattine attraversavamo il fiume, raggiungevamo a piedi senza far rumore un bai, ci nascondevamo nella folta vegetazione ai margini della radura e aspettavamo pazientemente che comparisse qualche gorilla. Il che non avvenne mai. Spesso eravamo immobili sotto la pioggia. Quando usciva il sole, mi mettevo a leggere il librone che mi ero portato dietro o mi appisolavo sdraiato a terra. Karesh era sempre lì con il suo fucile ad aria compressa carico di fiale colme di Tiletamina e Zolazepam – gli anestetici più indicati per mettere fuori combattimento i gorilla. A volte marciavamo nella giungla, seguendo da vicino Prosper Balo, mentre si aggirava qua e là cercando invano tracce di gorilla. Il mattino del secondo giorno, su un sentiero fangoso che portava a un bai, scorgemmo orme di leopardi, elefanti, bufali e scimpanzé, ma niente che indicasse la presenza di un gorilla. Il terzo giorno Karesh disse: «Penso che siano morti. Ebola è passato da qui». Riteneva che ne rimanessero pochissimi, scampati al virus per caso o abbastanza robusti da guarirne. «E questi sono quelli che ci interessano» ribadì, perché erano probabili portatori di anticorpi. Il quarto giorno Balo e Karesh si allontanarono dal gruppo e riuscirono a localizzare un maschio solitario grazie ai suoi richiami (vocalizzi e tambureggiamenti del petto con i pugni). Si avvicinarono nella fitta macchia fino a una decina di metri dall’animale, che all’improvviso si alzò sulle zampe posteriori e fece spuntare la testa dalla vegetazione. «Avrei potuto farlo secco, sparargli proprio in fronte» raccontò poi Karesh. Ma il suo obiettivo era immobilizzarlo con una siringa sparata nel fianco e dunque non premette il grilletto. Il gorilla emise un latrato finale e scappò via. Nella mia pagina di diario del sesto giorno scrivevo: «Niente gorilla, nada, nada, nada». Il settimo giorno, l’ultimo utile, Balo e Karesh seguirono le tracce di altri due individui per ore sul terreno paludoso ma non li videro neanche di sfuggita. I gorilla erano diventati rarissimi dalle parti di Moba Bai, e i pochi rimasti avevano paura. La pioggia, frattanto, continuava a cadere incessante. Le tende erano coperte di fango e il livello del fiume saliva. Nei momenti liberi al campo, passavo il tempo a chiacchierare con Karesh e altri tre veterinari della wCS di stanza in Africa. Uno di loro si chiamava Alain Ondzie. Era un congolese alto, magro e timido, che aveva studiato a Cuba e parlava perfettamente spagnolo, francese e varie lingue centroafricane. Aveva il simpatico vezzo di abbassare lo sguardo e ridacchiare felice ogni volta che sentiva una battuta ironica o divertente. Il suo compito principale era raccogliere le segnalazioni di tutte le morti sospette di gorilla o scimpanzé nel paese, recarsi in loco il più velocemente possibile, prelevare campioni di tessuto e verificare la presenza di Ebola. Mi raccontò nel dettaglio le procedure, che prevedevano il maneggiare una carogna spesso putrefatta con il sospetto (prima dell’eventuale smentita) che fosse piena zeppa di virus. La sua divisa in quelle occasioni consisteva in tuta anticontaminazione, casco, stivali di gomma, grembiule e tre paia di guanti, fissati ai polsi con del nastro adesivo. La prima incisione dell’autopsia era sempre un terno al lotto, perché capitava che la carcassa fosse piena di gas ed esplodesse. C’erano poi gli insetti necrofori che la ricoprivano, dalle formiche ai moscerini e a certi tipi di api. Ondzie mi raccontò che una volta tre api si infilarono sotto le maniche della tuta, si fecero un giro nel casco, scesero verso il tronco e cominciarono a pungerlo mentre lavorava. Una puntura d’ape può trasmettere Ebola? Nessuno lo sa. Gli chiesi se non avesse paura. Ora non più, mi rispose. Ma perché lo faceva, perché quel lavoro (come era evidente) gli piaceva? «Ça, c’est une bonne question» mi disse, con la solita risatina e abbassando lo sguardo. Poi si fece serio e aggiunse: «Perché mi permette di applicare quello che ho imparato, di continuare a imparare e magari di salvare qualche vita». Della squadra faceva parte anche Patricia Reed (detta Trish), una biologa in Africa da quindici anni. Aveva studiato la febbre di Lassa e l’AIDS, aveva lavorato per il CIRMF a Franceville, si era fatta le ossa sul campo in Etiopia e poi era tornata temporaneamente in America per prendere una seconda laurea in veterinaria alla Tufts University di Boston. All’epoca faceva ricerche al CIRMF sulle malattie virali delle scimmie. Era stata scelta da Karesh come sostituta di un’altra veterinaria della wCS, morta in un incidente aereo in una remota zona del Gabon. Reed mi disse che il suo lavoro riguardava varie malattie infettive dei gorilla, di cui Ebola era la più esotica. Le altre erano più prosaicamente affezioni degli esseri umani a cui le scimmie sono suscettibili per via della loro stretta affinità genetica con noi: tubercolosi, poliomielite, morbillo, polmonite, varicella eccetera. I gorilla sono esposti a simili infezioni ovunque vi siano persone malate che camminano, tossiscono, starnutiscono e defecano nella giungla. Uno «spillover inverso» di questo tipo – dagli esseri umani a specie non umane – è noto come antroponosi. I famosi gorilla di montagna, ad esempio, corrono il rischio di prendersi il morbillo dagli ecoturisti che vengono a osservarli tutti felici (questi gorilla sono una sottospecie a grave rischio di estinzione confinata sulle ripide pendici del vulcano Virunga nel Ruanda e in poche altre zone. Il gorilla di pianura occidentale, Gorilla gorilla gorilla, abitante delle foreste pluviali centroafricane, ha una popolazione più numerosa ma è ben lontano dall’essere fuori pericolo). Sommate alla distruzione dell’ambiente naturale a causa della deforestazione e della caccia di frodo (la carne è consumata in loco o venduta nei centri abitati africani), le malattie infettive potrebbero far precipitare il gorilla occidentale dagli attuali livelli di relativa abbondanza (si stima vi siano centomila individui in tutto) a una situazione precaria in cui sopravvivono solo piccole popolazioni isolate, come quelle dei gorilla di montagna, con estinzioni a livello locale. La foresta dell’Africa centrale è ancora relativamente estesa, in confronto alle pendici del Virunga, e il gorilla occidentale, a differenza del suo cugino di montagna, non riceve le visite di molti ecoturisti nel suo impenetrabile e scomodo habitat. Morbillo e tubercolosi non sono quindi i peggiori dei suoi problemi. Per la specie occidentale «la più grande minaccia, senza alcun dubbio, è costituita da Ebola» disse Reed. Quello che rende la malattia così pericolosa per i gorilla, mi spiegò, non è soltanto la sua virulenza ma anche la mancanza di dati. «Non sappiamo se in questa parte dell’Africa fosse presente anche prima. Non conosciamo il tasso di sopravvivenza. Ma dobbiamo assolutamente scoprire come si diffonde. E dove si trova». Quest’ultima domanda ha due aspetti: quanto è ampia la distribuzione di Ebola nell’Africa centrale? in quali specie serbatoio si nasconde? L’ottavo giorno smantellammo il campo, caricammo tutto sulle barche e ripartimmo seguendo la corrente del Mambili, senza nemmeno un campione da analizzare o un dato da aggiungere. La nostra missione era stata vanificata dall’evento stesso che ne aveva giustificato l’organizzazione: la sparizione dei gorilla. Anche in questo caso, l’indizio era dato dall’assenza di qualcosa. Billy Karesh aveva visto un individuo a pochi metri ma non era riuscito a sparargli la fiala di anestetico e aveva seguito le tracce di altri due, grazie all’occhio fino di Prosper Balo. Gli altri esemplari, che un tempo frequentavano le paludi a decine, si erano trasferiti chissà dove o erano... tutti morti? A ogni modo, da queste parti i gorilla prima erano numerosi e ora non c’erano più. Anche il virus sembrava sparito. Ma sapevamo tutti che era solo ben nascosto. Un ago in un pagliaio Nascosto dove? Per quasi quarant’anni, l’identità dell’ospite serbatoio di Ebola ha costituito il piccolo grande mistero dell’infettivologia. Quel mistero, e gli sforzi per risolverlo, ci riportano alla prima emergenza ufficialmente riconosciuta del virus, nel 1976. In quell’anno si verificarono in Africa, in modo indipendente ma quasi simultaneo, due epidemie a diffusione locale: una nel nord dello Zaire (attualmente Repubblica democratica del Congo) e una nel Sudan sudoccidentale (oggi stato indipendente col nome di Sudan del Sud), a quasi cinquecento chilometri di distanza. Cronologicamente il primo episodio avvenne in Sudan, ma l’evento dello Zaire è più famoso, in parte perché un corso d’acqua locale, il fiume Ebola, ha dato nome al virus. Epicentro del contagio in Zaire fu il piccolo ospedale di una missione cattolica nel villaggio di Yambuku, nel distretto chiamato Bumba Zone. Verso metà settembre del 1976 un medico locale segnalò una ventina di casi di una nuova, sconvolgente malattia. Non era la solita febbre malarica, ma qualcosa di più terrificante, di più cruento, caratterizzato da vomito emorragico, diarrea con perdita di sangue, epistassi emorragica. Nel cablogramma spedito alle autorità di Kinshasa, il dottore riferiva che quattordici pazienti erano morti e che altri erano in pericolo di vita. I primi giorni d’ottobre l’ospedale chiuse i battenti per un tragico motivo: quasi tutti coloro che vi lavoravano erano spirati. Una squadra di emergenza internazionale arrivò in zona varie settimane dopo, su invito del ministro della Sanità zairese, per effettuare uno studio intensivo sulla nuova malattia e dare consigli su come arginarla. Della Commissione internazionale, come venne chiamata, facevano parte esperti di Francia, Belgio, Canada, Zaire, Sudafrica e Stati Uniti; nove erano membri dei CDC di Atlanta. Capo del gruppo era Karl Johnson, il medico e virologo americano che abbiamo già incontrato quando abbiamo menzionato l’epidemia boliviana di Machupo del 1963. In quell’occasione aveva contratto il virus da lui studiato e ne era uscito parecchio malconcio. Ora, tredici anni dopo, non aveva perso energie e passione per il lavoro, né sembrava segnato dall’esser stato a un passo dal morire. Aveva fatto carriera ed era a capo della divisione Patogeni speciali presso i CDC. Johnson aveva dato un contributo fondamentale alla soluzione della crisi di Machupo concentrandosi sugli aspetti ecologici dell’epidemia, cioè sulla necessità di scoprire la specie in cui il virus si nascondeva quando non attaccava i poveri boliviani. La ricerca dell’ospite serbatoio, in quel caso, si era rivelata fruttuosa in poco tempo: era una specie di topo locale, che portava la malattia nelle case e nei granai. Per sradicare l’epidemia era bastato sterminare il roditore. In quest’altra occasione, nei frenetici e angosciosi giorni di quell’ottobre africano, Johnson e colleghi si confrontarono con un killer invisibile e ignoto, che mieteva vittime a centinaia, ma trovarono comunque il tempo per porsi la stessa domanda: da dove arriva questo accidente? Nel frattempo si era scoperto che il patogeno era un virus, isolato velocemente dopo aver spedito campioni prelevati in loco a vari laboratori sparsi per il mondo, tra cui i CDC (vi aveva lavorato anche Johnson, prima di partire per lo Zaire). Somigliava al Marburg, altro virus letale identificato nove anni prima, nel 1967. Il microscopio elettronico ne rivelò la struttura filamentosa e contorta, simile a quella di un verme sulla difensiva. I test di laboratorio mostrarono però che Ebola era sufficientemente distante da Marburg per essere considerato qualcosa di nuovo. Alla fine questi due virus vermiformi, Ebola e Marburg, sarebbero stati raggruppati come «filovirus» nella nuova famiglia Filoviridae. Il gruppo di Johnson era anche convinto che Ebola risiedesse in qualche animale – qualcosa di altro da noi –dove manteneva una presenza meno distruttiva ma costante. Ma la questione dell’ospite serbatoio era meno urgente rispetto ad altre più pressanti: ad esempio, come interrompere la trasmissione del virus da una persona all’altra, come tenere in vita i malati, come porre fine all’epidemia. «Le indagini ecologiche furono limitate»3 si legge nel rapporto, e diedero tutte un risultato negativo. Da nessuna parte c’era segno di Ebola tranne che nell’uomo. Visto retrospettivamente è un dato interessante, perlomeno ci dice a quali specie pensarono quei primi ricercatori. Analizzarono ottocentodiciotto cimici dei letti, raccolte in villaggi infestati da Ebola, senza trovare traccia del virus. Poi passarono alle zanzare, ma niente anche lì. Presero il sangue a dieci maiali e una mucca, tutti non toccati da Ebola. Catturarono centoventitré roditori, di cui sessantanove topi, trenta ratti e otto scoiattoli. Frugarono nelle viscere di sei scimmie, due piccole antilopi e sette pipistrelli: tutti puliti. I membri della commissione erano turbati. «Negli ultimi trent’anni non c’è stata nel mondo una epidemia più drammatica, o potenzialmente esplosiva, di una nuova malattia acuta di origine virale»4 scrissero nel rapporto. Il tasso di letalità dell’88 per cento era secondo solo a quello della rabbia (quasi il 100 per cento qualora il paziente non venga trattato prima dell’insorgere dei sintomi). La commissione fece sei raccomandazioni urgenti al governo dello Zaire, che comprendevano misure sanitarie a livello locale e monitoraggio a livello nazionale. Tra esse non figurava l’identificazione dell’ospite serbatoio. Era un problema scientifico, un po’ più astratto rispetto alle questioni pressanti che il governo del presidente Mobutu avrebbe dovuto affrontare. Dunque poteva aspettare. E aspettare. Tre anni dopo Yambuku, Karl Johnson e altri membri della commissione si ritrovarono per riconsiderare il problema e decisero di fare un altro tentativo. Senza i fondi necessari per organizzare un’altra spedizione dedicata esclusivamente a stanare Ebola, si aggregarono a una ricerca già in corso relativa al vaiolo delle scimmie in Zaire, coordinata dall’OMS. È una grave malattia, anche se non quanto Ebola, ed è causata da un virus che si nasconde in uno o più ospiti serbatoio all’epoca non ancora identificati. Dunque sembrava naturale ed economico unire gli sforzi e utilizzare lo stesso protocollo per analizzare una stessa popolazione campione. Ancora una volta, il gruppo di ricerca si mise a raccogliere bestie varie nei villaggi e nella giungla del distretto di Bumba e di altre zone dello Zaire settentrionale e del Camerun sudoccidentale. Le loro battute di caccia, unite ai premi in denaro per i locali che avessero consegnato animali vivi, fornirono un bottino di oltre millecinquecento esemplari di centodiciassette specie. C’erano scimmie, ratti, topi, pipistrelli, manguste, scoiattoli, pangolini, toporagni, istrici, antilopi, tartarughe e serpenti. A tutti furono prelevati campioni di sangue e di tessuto di fegato, reni e milza, poi refrigerati e spediti ai CDC per essere analizzati. La speranza era quella di rintracciare gli anticorpi di Ebola nel siero sanguigno e magari riuscire a coltivare in vitro il virus. I risultati furono comunicati senza troppi fronzoli sul «Journal of Infectious Diseases» da Johnson e colleghi: «Non si è trovata nessuna traccia di infezione da Ebola».5 A rendere la caccia all’ospite serbatoio particolarmente difficile è fra l’altro la sporadicità della malattia nelle popolazioni umane, perché può sparire del tutto per anni. Questa è una manna dal cielo per la sanità pubblica ma una iattura per la scienza. I virologi che frugano in ogni foresta e dentro ogni specie africana a caccia di Ebola stanno cercando un ago minuscolo in un pagliaio enorme. Le occasioni migliori per la ricerca si presentano ogni volta che da qualche parte c’è gente che muore di Ebola. E per un lungo periodo non c’erano stati decessi dovuti a quella malattia – o perlomeno le autorità sanitarie non ne erano a conoscenza. Dopo le epidemie del 1976 e due episodi minori, ancora in Zaire e Sudan, tra il 1977 e il 1979, Ebola in pratica sparì dal continente africano per quindici anni. Col senno di poi, si sospetta che nei primi anni Ottanta ci siano stati casi isolati, ma non ci fu alcuna epidemia accertata che facesse scattare l’allarme; e in tutti quei casi minori la catena del contagio sembrava essersi interrotta spontaneamente poco dopo. L’esaurirsi spontaneo è un aspetto molto importante di questi patogeni altamente letali e relativamente poco contagiosi. Significa che la maggior parte dei contagiati muore prima di poter infettare altri individui, mentre altri (pochi) guariscono, e il virus dopo un po’ smette di propagarsi. Gli incidenti minori si risolsero da soli prima che le truppe d’assalto dell’OMS, dei CDC e di altre organizzazioni avessero il tempo di accorrere. Dopo qualche anno, però, ricominciarono le epidemie serie, tra cui quella di Mayibout 2, di altri luoghi in Gabon e di un caso particolarmente allarmante: quello di Kikwit. Kikwit è una città congolese situata circa cinquecento chilometri a est di Kinshasa, ed è diversa da Yambuku, Mayibout 2 e dai campi di Booué per un motivo fondamentale: è una città con oltre duecentomila abitanti, con vari ospedali e collegamenti con il mondo esterno. Anche questo luogo, comunque, è immerso nella giungla. Il primo caso confermato di Ebola a Kikwit fu un uomo di quarantadue anni che lavorava nella foresta o ai margini della stessa. Benché in misura limitata, la disturbava. Coltivava mais e cassava in vari appezzamenti di terra disboscata e produceva carbone di legna, il tutto a otto chilometri dal centro cittadino. E come si procurava la legna, come aveva trovato le radure dove far crescere le sue piante? Presumibilmente tagliando gli alberi. L’uomo si ammalò il 6 gennaio 1995 e morì di febbre emorragica una settimana dopo. Nel frattempo aveva contagiato direttamente, in modo letale, almeno tre famigliari e dato il via alla catena delle infezioni nella più ampia cerchia dei membri del suo clan, tra cui si contarono altre dieci vittime. Con ogni probabilità alcune di queste persone portarono il virus nell’ospedale ostetrico della città, dove si ammalò un tecnico di laboratorio, e di lì al Kikwit General Hospital. In quell’ospedale il tecnico, sottoposto a intervento chirurgico (inizialmente per appendicite, poi per sospetta perforazione intestinale da febbre tifoide), infettò vari componenti dell’équipe operatoria oltre a una suora italiana, la quale a sua volta contagiò tre religiose (sue connazionali) che contrassero il virus assistendola. Pochi giorni dopo il tecnico morì e ben presto seguirono altri decessi tra le suore e il personale ospedaliero.6 I funzionari locali ipotizzarono un nuovo tipo di dissenteria epidemica – un errore che permise al virus di propagarsi tra i pazienti e i collaboratori di altri ospedali della zona.