sabato 28 marzo 2020

LA DONNA GIUSTA Sandor Márai

LA DONNA GIUSTA 
Sandor Márai
[...]La maggior parte delle persone non sa amare né lasciarsi amare, perché è vigliacca o superba, perché teme il fallimento. Si vergogna a concedersi a un’altra persona, e ancor più ad aprirsi davanti a lei, poiché teme di svelare il proprio segreto… Il triste segreto di ogni essere umano: un gran bisogno di tenerezza, senza la quale non si può resistere[...]
 
LA DONNA GIUSTA
PARTE PRIMA Ehi, guarda quell’uomo. Aspetta, fa’ come se niente fosse, continuiamo a chiacchierare... Se si voltasse potrebbe vedermi, e io non voglio che mi saluti. Ecco, adesso puoi guardarlo... Quello basso, tarchiato, con il cappotto dal collo di martora? Ma figurati! Quello alto, pallido, con il cappotto nero, che sta parlando con la commessa. Si fa incartare della scorza d’arancia candita. Strano, a me non l’ha mai comprata, la scorza candita. Che cosa ho? Niente, cara... Devo soffiarmi il naso. Se n’è andato? Avvertimi quando va via. Sta pagando?... Dimmi, che portafogli ha? Guarda bene, io non voglio voltarmi. Per caso è marrone, di coccodrillo?... Sì? Oh, questo mi fa piacere. Perché? Così. Vedi, gliel’ho regalato io quel portafogli, per il suo quarantesimo compleanno. Più di dieci anni fa. Se lo amavo?... È una bella domanda, mia cara. Sì, credo proprio di sì: lo amavo. È ancora lì?... Se n’è andato, finalmente! Un attimo solo, mi do un po’ di cipria al naso. Si vede che ho pianto?... Lo so che è una stupidaggine, guarda un po’ quanto si può essere stupidi. Mi viene ancora il batticuore quando lo vedo. Vuoi che ti dica chi è? Certo che posso dirtelo, mia cara, non è un segreto: quell’uomo era mio marito. Ti va un gelato al pistacchio? Chissà perché dicono che d’inverno non si può mangiare il gelato. È proprio d’inverno che preferisco venire in pasticceria a prendermi un gelato. A volte credo che si possa fare tutto, perché tutto è possibile, semplicemente, e non perché sia bello o sensato. E da qualche anno a questa parte, da quando sono sola, mi piace venire qui, d’inverno, verso le cinque, e stare un paio d’ore in questa sala rossa, con i suoi mobili degli anni che furono e le commesse di una certa età. Osservo attraverso le finestre a quadrelli la piazza dall’aspetto vivacemente metropolitano, e mi diverte il viavai della gente che viene a sedersi. C’è una specie di calore in tutto questo, un pizzico d’atmosfera fin de siècle. E poi, lo avrai notato... è qui che servono il miglior tè della città... Lo so, le donne moderne non frequentano più le pasticcerie. Vanno nei caffè, dove devi fare ogni cosa di corsa, non hai il tempo di startene seduto con comodo, l’espresso costa quaranta fillér ma in compenso puoi pranzare con un’insalata – è così che va adesso il mondo, un mondo che non mi appartiene. Io ho ancora bisogno di questa pasticceria elegante, con tanto di mobili, tappezzerie di seta cremisi, vecchie nobildonne e specchiere. Non ci vengo tutti i giorni, come puoi ben immaginare, ma quando d’inverno faccio un salto qui mi sento a mio agio. Qui è dove mio marito e io ci trovavamo all’ora del tè – lui usciva dall’ufficio dopo le sei. Sì, anche adesso sta tornando dal lavoro. Le sei e venti, è questo il suo orario. Ancora oggi so con esattezza tutto quello che fa – ogni suo passo, come se vivessi la sua stessa vita. Alle sei meno cinque chiama un commesso, quelli del guardaroba gli spazzolano cappotto e cappello, lo aiutano a indossarli, lui esce dall’ufficio, manda avanti la macchina e la segue a piedi, per prendere un po’ d’aria. Cammina poco, ecco perché è così pallido. O forse anche per altri motivi, chissà. Motivi che non posso conoscere perché non lo incontro mai, non parlo mai con lui, sono tre anni che non ci parlo. Non mi piacciono quelle separazioni stucchevoli in cui gli ex coniugi lasciano insieme l’aula del tribunale e se ne vanno a braccetto in quel famoso ristorante del Városliget, pieni di affetto e di riguardi, come niente fosse; poi, dopo aver divorziato e pranzato, ognuno per la sua strada. Io sono una donna di tutt’altri princìpi, ho un temperamento di tutt’altro genere. Non credo affatto che marito e moglie possano restare buoni amici dopo il divorzio. Il matrimonio è il matrimonio, e il divorzio è il divorzio. Io la penso così. E tu? Già, è vero, tu non sei mai stata sposata. Vedi, io non credo che ciò che l’umanità si è inventata a un certo punto della sua storia e che ha mantenuto per millenni, quasi non potesse farne a meno, sia pura forma. Io credo che il matrimonio sia un sacramento e il divorzio un sacrilegio. Sono stata allevata con questi princìpi. Ma ne sono convinta a prescindere da questo, non sono stati soltanto l’educazione e i precetti religiosi a condizionarmi. Ci credo perché sono una donna, e per me il divorzio non è per nulla una vuota formalità, come non lo è la cerimonia di fronte all’ufficiale di stato civile e in chiesa, che unisce inesorabilmente il corpo e l’anima di due persone. Altrettanto inesorabile è il divorzio, che ne allontana i destini. Quando ci siamo divisi, non mi sono illusa nemmeno per un istante che io e mio marito potessimo restare «amici». Certo, lui ha continuato a essere gentile e premuroso, persino magnanimo – com’è naturale che sia. Ma io non sono stata né gentile né magnanima, mi sono portata via pure il pianoforte, sì, è così che si fa. Ero assetata di vendetta, avrei voluto mettermi in valigia l’intero appartamento, tende comprese, tutto. Ero sua nemica nel momento in cui abbiamo divorziato, lo sono e lo sarò finché vivo. Non sono certo il tipo da accettare il suo amichevole invito a cena al ristorante del Városliget, non mi va di fare la parte della donnetta svenevole, che va a trovare l’ex marito a casa sua e cerca di metter riparo se il domestico gli ruba la biancheria. Fosse per me, possono anche rubargli tutto, e se un giorno venissi a sapere che è malato, manco in quel caso andrei a trovarlo. Perché?... Perché abbiamo divorziato, no? È qualcosa di cui non ci si può dar pace. Aspetta, mi rimangio quello che ho appena detto. Non voglio che si ammali. In fin dei conti, se si ammalasse, andrei a trovarlo in clinica. Perché ridi?... Mi prendi in giro? Pensi che mi auguro che si ammali perché così potrei andare da lui? È ovvio, ho ancora delle speranze e continuerò ad averle per tutta la vita. Però non voglio che si ammali seriamente, solo qualche piccolo disturbo. Hai visto com’era pallido?... Lo vedo sempre così pallido. Ti voglio raccontare tutta la storia. Hai tempo? Io, ahimè, ne ho fin troppo. Oh, ecco il gelato. Com’è cominciato lo sai: dopo il collegio, io avevo trovato lavoro in un ufficio. Tu eri partita subito per l’America, ma ci scrivevamo, la nostra corrispondenza andò avanti tre o quattro anni, vero? Mi ricordo che tra noi c’era quell’amore morboso e stolto, tipico delle adolescenti – un sentimento del quale adesso, a distanza di tempo, non ho una gran considerazione. A quanto pare, non si può proprio vivere senza affetti: all’epoca io volevo molto bene a te. Per di più voi eravate ricchi, noi invece appartenevamo a quella classe media, tre camere e cucina, ingresso direttamente dal ballatoio. Ti ammiravo... e questo genere di adorazione, tra giovani, è già un legame sentimentale. Avevo anch’io una domestica, ma da noi le veniva data acqua calda second hand, diciamo: faceva il bagno in quella che avevo usato io. Questi dettagli contano. Tra ricchezza e povertà c’è una gamma infinita di sfumature. E nella povertà, quante sfumature pensi ci siano?... Tu sei ricca, non puoi sapere quale enorme differenza passi tra i quattrocento e i seicento pengő al mese. Tra i duemila e i diecimila non c’è un divario altrettanto grande. Ormai ne so abbastanza, di queste cose. Da noi entravano ottocento pengő al mese. Mio marito ne guadagnava seimilacinquecento: bisognava farci l’abitudine! In casa loro tutto era «un tantino» diverso da casa nostra. Noi vivevamo in un appartamento in affitto, loro in una villa. Noi avevamo un balcone con i gerani, loro un piccolo giardino, con un paio di aiuole e un vecchio noce. Noi avevamo una ghiacciaia comune, e d’estate dovevamo comprare il ghiaccio, mentre da mia suocera c’era un piccolo frigidaire elettrico, che dava bei cubetti di ghiaccio dalla forma regolare. Da noi c’era una domestica tuttofare, da loro stava a servizio una coppia, domestico e cuoca. Noi avevamo tre camere, loro quattro, anzi cinque se consideriamo anche la stanza d’ingresso. Già, loro avevano una vera stanza d’ingresso con porte tappezzate di chiffon chiaro, noi solo un’anticamera, e lì stava anche la ghiacciaia – una di quelle anticamere buie così comuni a Pest: in un angolo la cassetta per le spazzole e il lucido da scarpe, nell’altro un attaccapanni ormai fuori moda. Da noi c’era una radio a tre valvole comprata a rate da mio padre – un apparecchio che prendeva solo le stazioni che aveva voglia di prendere; loro avevano un vero piccolo armadio – un mobiletto che era insieme radio e grammofono, funzionava a elettricità, cambiava i dischi e faceva echeggiare per la casa persino Radio Giappone. Io ero stata allevata con l’idea che bisogna tirare avanti con quel che c’è. Lui invece con il principio che è opportuno vivere come si deve – con grande raffinatezza, mantenendo abitudini corrette e regolari – e questa è la cosa più importante. Differenze enormi. Io a quel tempo non lo sapevo. Una mattina, eravamo sposati da poco, facendo colazione mi disse: «Mi hanno un po’ stancato quelle fodere color malva in sala da pranzo. Sono così chiassose, è come avere in casa qualcuno che strilla in continuazione. Date un’occhiata in giro, mia cara, e cercate di trovare qualcosa di nuovo per il prossimo autunno». C’erano ben dodici sedie da rifoderare con un tessuto «meno stancante». Lo guardai perplessa, credevo stesse scherzando. Invece non scherzava affatto, leggeva il giornale e il suo sguardo era serio. Si vedeva che aveva riflettuto su quanto aveva detto, quel color malva lo infastidiva davvero, lo innervosiva, un colore che – non posso certo negarlo – era piuttosto volgare. L’aveva scelto mia madre, la fodera era ancora nuova di zecca. Quando uscì, scoppiai a piangere. Non sono stupida, avevo capito bene quel che aveva voluto dirmi... Era una cosa che non si doveva affrontare in modo diretto, non poteva dirmi chiaro e tondo che tra noi c’era una certa differenza di gusti, che io provenivo da un mondo diverso dal suo, anche se avevo imparato quanto c’era da imparare e ora appartenevo come lui all’alta borghesia. Intorno a me ogni cosa aveva una sfumatura diversa – impercettibilmente diversa – da come piaceva a lui, da ciò cui era abituato. Il borghese a queste sfumature è molto più sensibile di un aristocratico. Il borghese deve affermare quella che sarà la sua identità per tutta la vita. L’aristocratico si manifesta per quello che è già al momento della nascita. Il borghese si sente costretto ad accumulare, o quanto meno a salvaguardare. Lui ormai non apparteneva alla generazione di chi accumula, e a dire il vero neppure alla seconda, quella di chi custodisce. Me ne aveva parlato una volta. Stava leggendo un libro tedesco e dichiarò di avervi trovato la risposta alla questione fondamentale della sua esistenza. Io non amo tali «grandi questioni» – sono convinta che intorno a un essere umano ci siano sempre state, e sempre ci saranno, una miriade di minuscole questioni e che solo il loro insieme sia davvero importante –, perciò gli domandai con una punta di sarcasmo: «Così ora sei davvero convinto di conoscere te stesso?...». «Certo» rispose. E, dietro gli occhiali, il suo sguardo era così sincero, così puro e fervido, che mi pentii della mia domanda. «Io sono un artista, solo che non ho trovato la mia forma d’arte. Tra i borghesi capita, e in questi casi una famiglia si estingue». Non ne parlò mai più. A quel tempo non capii. Non si era mai messo a scrivere, o a dipingere, o a far musica: detestava i dilettanti. Ma leggeva moltissimo, «metodicamente» – era questo il termine che amava usare –, troppo metodicamente per i miei gusti. Io leggevo con passione, secondo l’inclinazione e l’umore del momento. Lui leggeva come se stesse adempiendo a uno dei massimi doveri della vita. Quando iniziava un libro, andava avanti fino all’ultima pagina – non se ne staccava neppure se quel libro lo irritava o lo annoiava. Leggere era per lui un dovere irrinunciabile, aveva per le parole stampate la stessa venerazione dei sacerdoti per le Sacre Scritture. Lo stesso valeva per i quadri, e con identica disposizione d’animo si recava ai musei, a teatro, ai concerti. Aveva una grande affinità con tutte le manifestazioni dello spirito. Io mi sentivo affine soltanto a lui. Tuttavia, non aveva trovato la sua «forma d’arte». Dirigeva la fabbrica, era spesso in viaggio, dava lavoro agli artisti – li pagava molto bene. E si guardava bene dall’imporre il proprio gusto, molto più raffinato di quello della maggior parte dei suoi impiegati e collaboratori. Parlava in sordina, quasi volesse – con grande delicatezza, con infinita cortesia – chiedere scusa per qualcosa, come fosse incerto e avesse bisogno di aiuto. Ma all’occorrenza sapeva mostrarsi risoluto quando era il momento di prendere importanti decisioni, soprattutto d’affari. Vuoi sapere chi era mio marito? Il fenomeno più raro al mondo: era un vero uomo. Ma non in senso plateale, da «eroe romantico». Non come lo si direbbe di un campione di pugilato. La sua anima era virile, lui era un uomo riflessivo e coerente, inquieto, uno spirito sempre attento, vigile, previdente. Tutto questo non lo sapevo, a quei tempi. Sono cose terribilmente difficili da capire. In collegio tu e io non abbiamo imparato niente di tutto questo, vero?... Forse dovrei cominciare la storia da quando, un bel giorno, mi presentò il suo amico Lázár, lo scrittore. Lo conosci?... Hai letto i suoi libri?... Io ormai li ho letti quasi tutti. Ho letteralmente rovistato da cima a fondo nelle sue opere, come se lui vi avesse celato un segreto, che poi era il segreto della mia vita. Ma alla fine nei suoi libri non ho trovato nessuna risposta. Certe domande non hanno risposte scritte, sarà la vita a fornircele, talvolta in maniera sorprendente. Prima di allora non avevo mai letto neppure una riga di quello scrittore. Ne avevo sentito il nome, certo. Ma non sapevo che mio marito lo conoscesse, ignoravo che fossero amici. Una sera, torno a casa e trovo mio marito in compagnia di quest’uomo. Fu lì che prese avvio qualcosa di molto strano. Fu quello il momento in cui, dopo tre anni di matrimonio, mi resi conto che non sapevo proprio nulla del mio consorte. Vivevo insieme a un uomo e non sapevo niente di lui. Credevo di conoscerlo, e invece scoprivo di non avere la più pallida idea dei suoi svaghi, dei suoi gusti, dei suoi desideri. Sai che cosa facevano quei due, Lázár e mio marito, quella sera?... Giocavano. Ma che gioco strano, inquietante era il loro! Non una partita a ramino, figuriamoci. D’altronde mio marito ha sempre odiato le forme di svago ripetitive e prive di fantasia come le carte. Giocavano, ma in un modo così grottesco, a dir poco disorientante, che all’inizio non riuscivo assolutamente a capirli: ascoltavo i loro giochi di parole con angoscia, come fossi capitata tra due folli. In compagnia di quell’uomo, mio marito sembrava un altro. Eravamo sposati da tre anni: una sera torno a casa, e in salotto trovo mio marito e un signore sconosciuto che mi viene incontro e, guardando mio marito, mi dice: «Bentornata, Ilonka. Non ti dispiace, vero, che abbia invitato Péter?...». Indicava mio marito, che ora era in piedi e mi guardava con imbarazzo, quasi volesse scusarsi. Pensai che fossero impazziti. Ma loro non si curavano di me. Lo sconosciuto, dando delle pacche sulle spalle di mio marito, proseguì: «L’ho incontrato su viale Aréna. Pensa un po’, non voleva neppure fermarsi, questo balordo, a malapena mi ha salutato e stava per tirare dritto. Naturalmente, non gliel’ho permesso. “Péter, vecchio somaro, non ce l’avrai mica con me?...”. L’ho preso sottobraccio e l’ho portato qui. Suvvia, ragazzi,» disse spalancando le braccia «abbracciatevi. Vi permetto anche un piccolo bacio». Puoi immaginarti come rimasi. Con guanti, borsetta e cappello in mano, me ne stavo lì impalata al centro della stanza e li fissavo a bocca aperta. Il mio primo istinto fu quello di correre al telefono e chiamare il medico di famiglia, o il pronto soccorso. Pensai anche alla polizia. Ma mio marito si avvicinò, mi baciò la mano timidamente e disse a occhi bassi: «Lasciamo perdere, Ilonka. Mi congratulo per la vostra felicità». Poi ci sedemmo a tavola. Lo scrittore si accomodò al posto di Péter e prese a impartire ordini quasi fosse lui il padrone di casa. Mi dava del tu. La cameriera credette ovviamente che fossimo tutti in preda a chissà quale follia, e dallo spavento lasciò cadere l’insalatiera. A me quella sera non spiegarono nulla del gioco. Perché il divertimento consisteva proprio nel tenermi all’oscuro di tutto. Si erano messi d’accordo, loro due, mentre aspettavano che tornassi, e recitavano alla perfezione, come due attori di professione. Il copione prevedeva che io, divorziata da Péter ormai da diversi anni, mi fossi risposata con lo scrittore, amico di mio marito. Péter si era offeso e se n’era andato lasciandoci casa, mobili, tutto. Insomma, adesso era lo scrittore mio marito, Péter lo aveva incontrato per strada e questi lo aveva preso sottobraccio dicendogli: «Senti un po’, non fare storie, quel che è stato è stato, vieni a cena da noi, ormai anche Ilonka avrà piacere di vederti». E Péter era venuto a trovarci. E ora eccoci qui, tutti e tre, nell’appartamento dove un tempo avevamo vissuto io e Péter. Ceniamo insieme da bravi amici, e lo scrittore è mio marito, è lui a dormire nel letto di Péter, lui ha occupato nella mia vita il posto che era suo... Capisci? Ecco cosa stavano mettendo in scena, come due pazzi. A complicare il gioco vi era poi tutta una serie di raffinati dettagli. Péter recitava la parte di chi è a disagio perché tormentato dai ricordi. Lo scrittore invece si mostrava fin troppo disinvolto, spregiudicato: anche lui stava sulle spine in una situazione tanto singolare, e nutriva un forte senso di colpa nei confronti di Péter. Ecco perché era tanto chiassoso e gioviale. Io facevo la parte di quella che... ma no, io non facevo nessuna parte, me ne stavo semplicemente seduta tra loro e fissavo di volta in volta le incomprensibili smorfie dell’uno o dell’altro di quei due uomini adulti e intelligenti. Naturalmente, alla fine riuscii a capire persino le sfumature più sottili di quella finzione e mi piegai alle regole di un così bizzarro gioco di società. Ma quella sera capii anche qualcos’altro. Capii che mio marito, che credevo fosse completamente mio, da cima a fondo, come si suol dire, del quale pensavo di possedere tutto, persino i segreti più profondi della sua anima, non mi apparteneva per niente, era invece un estraneo, che di segreti ne aveva, eccome. Era come se avessi scoperto qualcosa sul suo conto: che era stato in prigione o aveva delle passioni morbose, qualcosa che non corrispondeva per nulla all’immagine che mi ero creata di lui in quegli anni. Scoprii che mio marito rivelava solo una minima parte di sé; per il resto era altrettanto misterioso ed estraneo di quello scrittore che aveva pescato in mezzo alla strada e portato a casa nostra, dove, a mio danno e alle mie spalle, avevano inventato un gioco assurdo, enigmatico, segno della loro complicità. Venni a sapere che mio marito viveva anche in un altro mondo, non soltanto in quello che conoscevo io. E scoprii pure che quell’uomo, quello scrittore, aveva un grande potere sull’anima di mio marito. Dimmi, cos’è il potere?... Di questi tempi se ne scrive e se ne parla molto. Che cos’è il potere politico, per quale ragione un uomo riesce a trasmettere la propria volontà a milioni di altri? E in che cosa consiste il potere di noi donne, la nostra forza? Nell’amore, dici tu. Può darsi che sia l’amore. A volte mi è capitato di dubitare del senso di questa parola. Non nego che l’amore esista, per carità. È la forza più grande che ci sia al mondo. Eppure, talvolta ho la sensazione che gli uomini, quando ci amano – perché proprio non possono fare altrimenti –, sembrano quasi sottovalutare la faccenda. In ogni vero uomo c’è una certa ritrosia, come se egli volesse precludere una parte del suo essere, della sua anima, alla donna amata, come se le dicesse: «Ti concedo di arrivare fino a qui, mia cara, e non oltre. Ma qui, nella settima stanza, ci voglio restare da solo». Le donne stupide impazziscono di rabbia. Quelle intelligenti si intristiscono, si lasciano prendere dalla curiosità, ma alla fine se ne fanno una ragione. E che cos’è il potere esercitato da un essere umano sull’anima di un altro? Perché quell’uomo infelice, inquieto, intelligente, tremendo, e allo stesso tempo imperfetto, ferito, perché quello scrittore aveva potere sull’anima di mio marito? Perché il potere che esercitava su di lui era davvero grande e, come seppi in seguito, malefico, fatale. Una volta, molto tempo dopo, mio marito mi spiegò che quell’uomo rappresentava nella sua vita «il testimone». Tentò di farmi capire che cosa intendesse. Mi disse che nella vita di ogni essere umano c’è un testimone, una persona più forte incontrata in gioventù; e si fa di tutto per nascondere agli occhi di questo giudice spietato qualcosa di disonorevole che è dentro di noi. Il testimone non si fida di noi. Sa qualcosa che nessun altro sa. Diventiamo ministri, vinciamo il Premio Nobel, eppure il testimone ci guarda e sorride. Tu ci credi?... E mi ha anche detto che si finisce per dedicare al testimone ogni nostro atto, quasi volessimo convincerlo di noi o dovessimo dimostrargli qualcosa. La carriera, gli sforzi immani ai quali ogni individuo deve far fronte nella propria esistenza, tutto è vissuto in funzione del testimone. Hai presente il momento, sempre alquanto imbarazzante, in cui i giovani mariti presentano alle mogli «l’amico», il grande compagno di gioventù, e aspettano con ansia di vedere se la loro donna piace all’amico, se questi approva la loro scelta?... Naturalmente l’amico si dà una grande aria di importanza e si profonde in mille gentilezze, ma in fondo in fondo è sempre geloso, perché la donna ha usurpato il suo posto nel cuore dell’altro, comunque lo ha privato di un rapporto umano. Era con questi occhi che mi guardavano, quella sera. E il loro era uno sguardo consapevole, perché quei due conoscevano molte cose delle quali io allora non sospettavo assolutamente nulla. La sera di cui ti parlo, però, dalla loro conversazione capii che i due complici, mio marito e lo scrittore, sapevano qualcosa del rapporto tra uomini e donne, e in generale tra le persone, di cui mio marito non mi aveva mai parlato. Come se non mi ritenesse all’altezza, come se non meritassi di venirne a conoscenza. Quando, passata la mezzanotte, lo strano ospite se ne andò, mi parai di fronte a mio marito e gli domandai apertamente: «Dimmi la verità: tu un po’ mi disprezzi?...». Mi fissò attraverso il fumo del sigaro, con gli occhi socchiusi e un’espressione stanca, come se, reduce da sfrenati bagordi, ascoltasse i miei rimproveri in preda alla nausea che segue la sbornia. In effetti la serata – la prima volta che mio marito aveva invitato lo scrittore a casa nostra, inscenando insieme a lui quello stranissimo gioco – ci aveva lasciato in bocca un sapore più cattivo di quello che si deve provare dopo essersi dati alle gozzoviglie. Eravamo entrambi stanchi e amareggiati. «No» disse con aria seria. «Non ti disprezzo, ci mancherebbe altro. Perché lo pensi? Sei una donna intelligente, di grande sensibilità» disse con convinzione. Riflettevo, e intanto ascoltavo perplessa quello che mi diceva. Ero seduta di fronte a lui – eravamo rimasti seduti tutta la sera intorno alla tavola mezzo sparecchiata, tra noi solo cumuli di mozziconi di sigaretta e bottiglie di vino vuote, non ci eravamo trasferiti in salotto perché così era piaciuto all’ospite – e gli chiesi sospettosa: «Ho una certa intelligenza, e una grande sensibilità, d’accordo. Ma che cosa pensi del mio carattere e del mio spirito?...». Avvertii subito che la domanda suonava un po’ patetica. Mio marito mi guardava attento. Ma non rispose. Era come se dicesse: «Questo è il mio segreto. Accontentati del fatto che ti riconosco intelligenza e sensibilità». Fu più o meno così che cominciò tutto. Quante volte ripensai a quella serata! Lo scrittore veniva di rado a casa nostra, e altrettanto raramente incontrava mio marito. Ma le tracce di quegli incontri occasionali io le percepivo con la stessa intensità con la quale le donne gelose avvertono il profumo di un fugace amoreggiare, le fragranze evanescenti che una stretta di mano femminile lascia sulla pelle dell’uomo. Io, naturalmente, ero molto gelosa dello scrittore e, nei primi tempi, di tanto in tanto insistevo affinché mio marito lo invitasse ancora una volta a cena da noi. In quei casi mio marito eludeva la domanda con un certo imbarazzo. «Fa una vita piuttosto ritirata» diceva senza guardarmi negli occhi. «È un eccentrico, uno scrittore. Lavora». Poi venni a sapere che talvolta si incontravano in segreto. Li vidi per caso in un caffè e lì per lì provai una sensazione malsana e crudele. In quella strada mi sentii trafiggere da una punta affilata – un pugnale, un aculeo ben appuntito. Loro non si accorsero di me, erano seduti in uno dei séparé: mio marito stava dicendo qualcosa, e tutti e due ridevano. Il suo volto era di nuovo così estraneo, completamente diverso da quello che mostrava a casa, da quello che io conoscevo... Mi allontanai in fretta, mi si era gelato il sangue. «Sei pazza» pensai. «Ma cosa pretendi?... Quell’uomo è un suo amico, un famoso scrittore, una persona speciale, di grande intelligenza. Non c’è niente di male se si vedono ogni tanto. Che vuoi da loro?... Perché il cuore ti batte all’impazzata?... Temi che non vogliano farti partecipare al gioco, a uno di quei loro giochi tanto strani e grotteschi?... Temi che non ti ritengano abbastanza intelligente o colta?... Sei gelosa?». Mi venne da ridere. Eppure quelle furiose palpitazioni non si placavano. Il battito del cuore era irregolare, come quando aspettavo il bambino e dovettero ricoverarmi in clinica. Ma la tachicardia della gravidanza, pur forte, era una sensazione dolce, piena di felicità. Camminavo il più veloce possibile, e mi sentivo tradita, esclusa da qualcosa. Con la ragione comprendevo e ammettevo tutto: mio marito non voleva che io incontrassi il bizzarro sconosciuto, che lui solo poteva frequentare – e ne aveva tutto il diritto, giacché si conoscevano sin da giovani. Per di più, mio marito era un uomo taciturno. Eppure sentivo che mi stavano ingannando. La sera, lui tornò a casa alla solita ora, e io avevo ancora le palpitazioni. «Dove sei stato?» gli domandai mentre mi baciava la mano. «Dove sono stato?» e guardava per aria. «Da nessuna parte. Sono tornato direttamente a casa». «Menti» gli dissi. Mi fissò a lungo. Con aria indifferente e un tono leggermente annoiato disse: «Giusto. Me ne ero già scordato. Ho incontrato Lázár strada facendo. Ci siamo seduti in un caffè. Eh sì, me ne ero proprio dimenticato. Ci hai visti al caffè?...». Era sincero, calmo e un po’ sorpreso. Provai vergogna. «Perdonami. Non sapere nulla di quell’uomo mi fa sentire a disagio. Non credo che ti sia veramente amico. E non lo è nemmeno per me, per noi. Lascialo perdere, evitalo» lo scongiurai. Mi guardava incuriosito: «Oh!» disse, mentre si puliva gli occhiali con la solita cura. «Non c’è alcun bisogno di evitare Lázár. Lui non è mai invadente». E non ne parlò mai più. Ormai volevo sapere tutto di Lázár. Lessi i suoi libri – ne trovai alcuni nella biblioteca di mio marito, con dediche autografe piuttosto bizzarre. Cosa c’era di strano in quelle dediche?... Erano... come dire... spietate... no, non è questo il termine giusto... erano piene di un singolare sarcasmo. Come se l’autore disprezzasse non solo la persona alla quale dedicava il libro, ma anche i propri libri, e perfino se stesso perché li aveva scritti. C’era un che di umiliante, di amaro, di triste in quelle dediche. Sembravano dire: «Sì, va bene, non posso fare altrimenti, ma io non sono così». Fino a quel momento, avevo considerato gli scrittori come una sorta di sacerdoti da salotto. E, nei suoi libri, con quanta serietà si rivolgeva al mondo quell’uomo!... Di ciò che scriveva non capivo tutto. Come se non si degnasse di rivelare a me, sua lettrice, tutto quanto c’era da sapere... Ma di questo avevano scritto e detto a sufficienza critici e lettori – anche con quella vena di odio che viene riversata spesso sulle celebrità. Lui non parlava mai dei suoi libri, mai di letteratura. Qualsiasi altro argomento, invece, lo incuriosiva: una sera venne a trovarci e dovetti spiegargli la ricetta della lepre marinata... Hai mai sentito nulla di simile?... Proprio così, la lepre marinata... Fui costretta a dirgli tutti i miei segreti sulla marinatura, volle chiedere persino alla cuoca. Poi cominciò lui a parlare, di giraffe – un discorso molto interessante. Parlava di tutto, sapeva un mucchio di cose; solo di letteratura non parlava mai. Come dici? Questa gente è tutta pazza?... Anch’io la pensavo così. Poi mi sono ricreduta: la questione non è tanto semplice e, del resto, nella vita niente lo è. Non sono pazzi, sono solo infinitamente pudichi. Infine Lázár sparì. Solo i suoi libri e i suoi articoli restavano in circolazione. Ogni tanto si sentiva un pettegolezzo sul suo conto, in relazione a qualche politico o a qualche celebrità femminile; ma si trattava di voci confuse, dalle quali non si poteva dedurre nulla di preciso. I politici giuravano che il famoso scrittore avesse aderito al loro partito, le donne si vantavano di aver conquistato quella strana belva e di tenerla alla catena. Ma la belva finiva per rifugiarsi nella sua tana. Non lo vedemmo per molti anni. Che cosa aveva fatto nel frattempo?... Non lo so. Aveva vissuto. Aveva letto. Aveva scritto. Forse si era anche dato alla magia. A proposito, ti voglio raccontare una cosa. Passarono altri cinque anni. Ho vissuto insieme a mio marito per otto anni. Il bambino nacque il quarto anno del nostro matrimonio. Un maschio, sì. Ti avevo mandato anche la fotografia. Era bellissimo, lo so. Poi non scrissi più a nessuno, neppure a te, non vivevo che per il bambino. Tutti erano come spariti intorno a me, vicini o lontani che fossero. Non si dovrebbe amare fino a questo punto, non si dovrebbe amare nessuno così tanto, nemmeno i propri figli. Ogni amore è sfrenato egoismo. E così smettemmo di scriverci. Tu eri la mia unica amica, ma ormai non avevo più bisogno nemmeno di te, perché c’era il bambino. Sì, i due anni in cui è vissuto sono stati una felicità unica, un delirio di serenità e di apprensione. Sapevo che il bambino non sarebbe vissuto a lungo. Come mai?... Queste cose le sai da subito. Noi abbiamo il presentimento di tutto, intuiamo quale sarà il nostro destino. Sapevo che la gioia, la bellezza e l’amore che quel bambino portava non mi spettavano. Sapevo che sarebbe morto. Non rimproverarmi, ti prego, non condannarmi per quello che sto dicendo. Io lo so meglio di te. Ma quei due anni furono la felicità. Morì di scarlattina. Tre settimane dopo aver compiuto i due anni, in autunno. Dimmi, perché i bambini innocenti devono morire? Te lo sei mai chiesto? Io molto spesso. Ma Dio non risponde mai a domande come queste. Non ho nient’altro da fare nella vita, così ci ho riflettuto molto. Sì, fino a ora. Finché vivrò. Da un dolore simile non si guarisce mai. Ecco l’unico, vero dolore: la morte di un bambino. È il termine di paragone per misurare tutti gli altri dolori. Tu non lo conosci, lo so. Vedi, non saprei dirti se ti invidio o se ti compatisco per non averlo mai provato... ti compatisco, sì. Forse tutto sarebbe andato diversamente se non fosse nato il bambino... Forse, se fosse rimasto in vita... Perché un bambino è il più grande dei miracoli, l’unica presenza che possa dare un senso alla vita; ma allo stesso tempo non bisogna illudersi: io non credo che un bambino possa come d’incanto risolvere le tensioni sotterranee e tutto quel che di irrimediabilmente contorto c’è tra due persone. Ma è peccato parlare di queste cose. Il bambino è nato, è vissuto due anni, poi è morto. Io sono rimasta con mio marito altri due anni, poi ci siamo separati. Ormai so con certezza che ci saremmo separati il quarto anno se nel frattempo non fossi rimasta incinta. Per quale motivo?... Perché allora ero già consapevole di non riuscire a vivere con mio marito. È il peggior dolore che si possa provare nella vita, amare qualcuno e non riuscire a viverci insieme. Come mai?... Fu lui a dirmelo un giorno, quando lo misi alle strette e gli chiesi che cosa non andasse tra di noi. «Tu pretendi che io rinunci alla mia dignità di uomo. Non posso farlo. Preferirei morire» questo disse. Capii immediatamente. «No, non morire. Vivi piuttosto, e resta pure un estraneo». Perché lui faceva sempre quel che diceva: era fatto così. Non passava all’azione subito, spesso occorrevano anni prima che le sue parole si trasformassero in atti. Certuni parlano tanto per parlare, discutono con leggerezza di progetti e di possibilità, dopo cena, per poi dimenticarsene subito; mio marito diceva una cosa e agiva di conseguenza. Come se fosse vincolato da un filo invisibile alle parole da lui pronunciate: su questo non cedeva mai. Se diceva: «Piuttosto morirei», dovevo capire che quell’uomo non era per nulla disposto ad arrendersi a me, avrebbe davvero preferito morire. Ecco qual era il suo carattere, il suo destino... A volte, nel corso della conversazione, capitava che dicesse giusto qualche parola, che esprimesse un giudizio severo su una persona, oppure facesse balenare un’idea, un progetto, poi, a distanza di anni, senza che lui avesse più ripreso l’argomento, un bel giorno mi rendevo conto che la persona criticata era effettivamente sparita dalla nostra vita, e il progetto a cui aveva accennato di sfuggita nell’arco di due anni era stato realizzato. Il terzo anno ero ormai consapevole della gravità dei problemi tra noi. Mio marito è gentile, tenero, si può anche dire che mi ami. Mi è fedele, non conosce altre donne all’infuori di me. Eppure... ora sta’ attenta, non guardarmi, perché sento che sto per arrossire... Eppure, durante i primi tre anni e gli ultimi due del mio matrimonio, non ebbi mai la sensazione di essere sua moglie, bensì... Mi amava, come no. Allo stesso tempo, però, era come se tollerasse la mia presenza in casa sua, nella sua vita. C’era nei suoi modi una sorta di paziente indulgenza, come se dovesse rassegnarsi al fatto che anch’io vivevo lì, nella terza stanza. Così va il mondo. E lui chiacchiera volentieri con me, in modo garbato, si leva gli occhiali, mi ascolta, mi dà consigli, a volte addirittura scherza, andiamo a teatro, in società, e lo vedo mentre ascolta chi gli sta intorno – la testa all’indietro, le braccia conserte, un’espressione alquanto diffidente, bonariamente ironica, scettica. Perché lui non si concedeva mai del tutto a nessuno. Ti stava a sentire, con grande serietà, senso di responsabilità, poi rispondeva: ma nella sua voce c’era sempre una punta di commiserazione, perché sapeva che dietro ogni cosa umana ci sono anche inettitudine, smania, menzogna e ignoranza, che non si deve credere a tutto, nemmeno quando chi ti sta di fronte sta parlando in assoluta buonafede. Questo lui non poteva certo dirlo ai suoi interlocutori, così li ascoltava con affabile noncuranza, serio, diffidente, e nel frattempo sorrideva scuotendo il capo, come a dire: «Continuate pure. Io so quel che c’è da sapere». Prima mi chiedevi se io lo amavo. Ho sofferto moltissimo vivendo accanto a lui. Ma so che lo amavo, e so anche perché... Perché era triste e solo, e nessuno poteva aiutarlo, neppure io. Ma quanto tempo c’è voluto, e quanta sofferenza, prima di capire tutto questo! A lungo ho creduto che mi disprezzasse, che avesse di me un’infima opinione... ma c’era qualcos’altro nel suo atteggiamento. A più di quarant’anni, quell’uomo era solo come può esserlo un eremita nel deserto. Vivevamo in una grande città, con un certo lusso, avevamo molte conoscenze, una nutrita schiera di amici. Eppure eravamo soli. Una volta lo vidi sotto una luce diversa, giusto una volta, per un attimo. Fu quando nacque il bambino, e fecero entrare nella mia camera quell’uomo pallido, triste e solitario. Si avvicinò smarrito, come chi si ritrova a essere il protagonista di una situazione delicata, troppo umana, e se ne vergogna un po’. Si fermò dinanzi alla culla, si chinò con aria incerta, le braccia dietro la schiena, come sempre timido e prudente. Ero stanchissima, in quel momento, ma lo osservai attentamente. Si chinò sulla culla e per un attimo quel volto pallido si rischiarò. Pareva si fosse accesa una luce dentro di lui. Ma non disse una parola. Guardò a lungo il bambino, forse per una ventina di minuti, immobile. Poi venne verso di me, mi pose la mano sulla fronte e restò così a fianco del letto, in silenzio. Non guardava me, fissava fuori dalla finestra. Il bambino era nato in una nebbiosa giornata di ottobre, all’alba. Mio marito restò ancora per un po’ al mio capezzale; mi accarezzava la fronte e il palmo della sua mano era caldissimo. Poi si mise a parlare al medico con l’atteggiamento di chi avesse sbrigato una faccenda e ora potesse passare ad altro. Ma adesso so che in quel momento, forse per la prima e ultima volta in vita sua, era felice. Forse persino disposto a cedere qualcosa di quel segreto che lui chiamava dignità umana. Per tutto il tempo in cui il bambino restò in vita, si rivolse a me in modo diverso, con maggiore confidenza. Certo, sentivo che non mi aveva ancora accolta a pieno titolo nel suo universo, che lottava contro se stesso tentando di vincere una forte resistenza interiore, quello strano groviglio di amor proprio, paura, sdegno, diffidenza che gli impediva di essere uguale agli altri. Per amore del bambino sarebbe stato disposto a far pace con il resto del mondo... almeno per un po’. Finché visse il bambino, animata da una selvaggia speranza, io vidi in che modo quell’uomo andava combattendo contro se stesso: lottava come un domatore contro una bestia feroce. E l’uomo taciturno, orgoglioso e triste si sforzava in tutte le maniere di essere espansivo, modesto, umile. Mi portava in dono tanti piccoli pensieri, ad esempio. E c’era davvero da piangere. Pudico com’era, fino allora si era sempre vergognato di far regali di poco conto, e per Natale, per il compleanno, avevo ricevuto sempre doni costosissimi, sfarzosi – un viaggio, una pelliccia pregiata, un’auto nuova, gioielli... Quel che mi era sempre mancato era il vederlo rientrare a casa una sera con un cartoccio di caldarroste da venti fillér. Mi capisci?... Oppure, che so io, con una manciata di zuccherini. Adesso invece portava anche questo. Mi diede tutto, il miglior medico, la più bella cameretta per il bambino; in quel periodo ricevetti da lui anche questo anello... Sì, è di grande valore... Ma una sera lo vidi anche tornare con un pacchetto ricoperto di carta velina, dal quale, con un sorriso imbarazzato, vergognandosi un po’, tirò fuori un giacchettino e una cuffietta da neonato lavorati all’uncinetto, di fattura finissima. Appoggiò il completino sul tavolo della cameretta, sorrise come a voler chiedere scusa, poi uscì di corsa. Credimi, in quelle occasioni mi venivano le lacrime agli occhi. Di gioia, di speranza. E a tutto questo si mescolava anche un sentimento diverso: la paura. Temevo che non ce l’avrebbe fatta, che non sarebbe riuscito ad avere la meglio su se stesso, che non avremmo resistito insieme, lui, il bambino e io... qualcosa non funzionava. Che cosa?... Andavo in chiesa, pregavo. «Iddio, aiutami!» dicevo. Ma Dio sa che solo noi possiamo essere d’aiuto a noi stessi. E così continuò a lottare contro se stesso. Finché il bambino ebbe vita. Vedi, ormai anche tu cominci a sentirti inquieta. Mi chiedi quali problemi avessimo, che genere di uomo fosse mio marito... È una domanda difficile, mia cara. Mi ci sono arrovellata per otto anni. E continuo a pensarci anche da quando abbiamo divorziato. A volte mi sembra di sapere la verità. Ma ogni teoria ha vari punti controversi. Posso soltanto raccontarti quel che percepivo. Mi chiedi se mi amava... Be’, sì, mi amava. Ma credo che abbia amato davvero solo suo padre e suo figlio. Nei confronti del padre era pieno di tenerezza e di rispetto. Andava a trovarlo ogni otto giorni. Mia suocera veniva a pranzo da noi tutte le settimane. Suocera: com’è amaro il sapore di questa parola! Quella donna, la madre di mio marito, era una delle creature più fini che io abbia mai conosciuto. Quando le morì il marito, e questa ricca e distinta signora rimase sola nel suo grande appartamento, temevo che avrebbe preso l’abitudine di passare sempre più tempo con noi. Si sa, siamo pieni di pregiudizi. Ma quella donna era la personificazione del tatto e della riservatezza. Si trasferì in un appartamento più piccolo, sbrigava da sé le piccole incombenze, senza essere di peso a nessuno, con grande accortezza e intelligenza. Non chiedeva pietà né compassione. Naturalmente, lei sapeva qualcosa del figlio che io ignoravo. Solo le madri conoscono la verità. Sapeva che lui era affettuoso, devoto, attento, eppure... Non le voleva bene? Che parole terribili. Ma non respingiamole, perché, a forza di stare al fianco di mio marito, ho capito che le parole giuste possiedono una specie di virtù creatrice e catartica – l’abbiamo imparato da Lázár. Tra i due, madre e figlio, non ci fu mai una discussione, mai una divergenza di opinioni. «Cara madre» diceva l’uno, «caro figlio» rispondeva l’altra. Sempre baciamani, sempre una cortesia cerimoniosa. Mai una parola detta in confidenza. Non restavano mai a lungo da soli in una stanza; uno dei due si alzava e con qualche pretesto se ne andava, oppure usciva per chiamare qualcun altro. Avevano paura di trovarsi a quattr’occhi, perché in quel caso avrebbero dovuto affrontare un argomento preciso, e ne sarebbe derivata una serie infinita di problemi, di guai seri, sarebbe venuto alla luce il segreto di cui loro due, madre e figlio, non potevano parlare. Avevo questa sensazione. Sarà stato davvero così?... Sì, doveva essere così. Avrei tanto voluto mettere pace tra loro. Ma se non litigavano nemmeno!... Con gran cautela, come quando si toccano membra ferite, qualche volta cercai di tastare il polso a quel rapporto. Ma appena li sfioravo, loro, spaventati, cambiavano subito discorso. Che potevo dire?... Le accuse, le recriminazioni non trovavano alcun appiglio per manifestarsi, non riuscivano a emergere sotto nessuna forma. Avevo forse qualche prova per affermare che madre e figlio avessero peccato in qualche cosa l’uno nei confronti dell’altro? No, perché entrambi «facevano il proprio dovere». Era come se per tutta la vita non avessero fatto altro che sostenere un alibi. Onomastici, compleanni, Natale, le piccole e grandi ricorrenze della vita nel clan familiare venivano celebrate una dopo l’altra con cura e meticolosità. Mamma riceveva il regalo e consegnava il suo. Mio marito le baciava la mano e mia suocera baciava in fronte mio marito. A pranzo o a cena, la mamma occupava il posto d’onore al tavolo di famiglia, e tutti si rivolgevano a lei con tono ossequioso, le parlavano di questioni familiari oppure delle vicende del mondo, stavano ben attenti a non impastoiarsi in qualche polemica, ascoltavano le opinioni pacate, garbate e concise della mamma, poi tornavano a occuparsi dei loro piatti e parlavano d’altro. Ahimè, sempre d’altro... Oh, quei pranzi familiari! Quelle pause tra i discorsi! Quel «parlare d’altro», quel modo così cortese di tacere, in eterno! Non potevo certo dir loro che, tra la minestra e la carne, tra un compleanno e un Natale, tra giovinezza e vecchiaia, non facevano che parlare d’altro! Non potevo dir loro nulla, poiché anche con me mio marito «parlava d’altro», anch’io soffrivo per gli stessi silenzi e le stesse reticenze che facevano soffrire mia suocera, e a volte arrivavo persino a credere che fossimo entrambe colpevoli, sua madre e io, perché non eravamo all’altezza della situazione, non eravamo state capaci di scoprire il segreto di quell’anima, non avevamo saputo svolgere il nostro compito, l’unico, vero compito della nostra vita. Non sapevamo come comportarci con quell’uomo. Lei gli aveva dato la vita, io un figlio... può dare di più una donna a un uomo? Credi che non possa?... Non lo so. Un giorno ho cominciato a dubitarne. E oggi ci siamo incontrate qui, io l’ho visto, e tutto è tornato ad accendersi in me, lo sento e devo pur dirlo a qualcuno – se non altro perché ci penso in continuazione. Ebbene, te lo dirò. Non sei stanca? Hai ancora una mezz’ora? Ascoltami, forse ce la farò a tirar fuori tutto quanto. Può darsi che nutrisse rispetto per noi due, e di sicuro ci voleva bene. Ma né sua madre né io sapevamo come prenderlo. È stato questo il fallimento della nostra vita. Tu dici che non è necessario, anzi non è nemmeno possibile «sapere come si fa» ad amare? Ti sbagli, mia cara. Dicevo lo stesso anch’io, per molto tempo l’ho gridato a mo’ di accusa verso il cielo. L’amore c’è o non c’è. Che altro resta da capire?... Quanto vale il sentimento umano quando dietro ci sono nascoste l’intenzione, la consapevolezza?... Sai, quando si invecchia, si scopre che le cose stanno in modo diverso, che bisogna sempre «sapere come si fa», bisogna imparare tutto, anche ad amare. Sì, è inutile che scuoti il capo, che sorridi. Siamo esseri umani, e ciò che accade nella nostra vita viene filtrato dalla ragione. Ed è sempre attraverso la ragione che i nostri sentimenti e le nostre passioni diventano sopportabili, oppure ci paiono intollerabili. Amare non è sufficiente. Ma non parliamo di questo. Lo so e mi basta. Ho già pagato un prezzo abbastanza alto per questo. Quanto?... Con la vita, mia cara, ho pagato con tutta la mia vita. E adesso me ne sto seduta qui insieme a te, nella sala rossa di questa pasticceria, mentre mio marito si fa incartare scorza d’arancia candita per un’altra. D’altronde, non mi sorprende che ora porti a casa scorza d’arancia candita. Aveva dei gusti talmente volgari per ogni cosa. Chi?... Ma l’altra! Mi dà fastidio pronunciare il suo nome. Quella che poi ha sposato. Non sapevi che si era risposato?... Credevo che la notizia fosse arrivata sino a te, a Boston. Vedi quanto si può essere sciocchi. Delle faccende private, di quelle vere, si è portati a credere che siano eventi di rilievo universale. Mentre succedeva tutto questo, il divorzio, il matrimonio di mio marito, nel mondo accadevano fatti di enorme importanza, interi paesi venivano smembrati, o si preparavano al conflitto, fino a che un giorno non è scoppiata davvero, la guerra... Ci fu poco da stupirsi, anche Lázár aveva detto che quando gli uomini si preparano per qualcosa con volontà, tenacia, previdenza e circospezione – ad esempio, per la guerra –, quell’evento finisce per verificarsi. Ma io non mi sarei sorpresa neppure se in quei mesi, sulle prime pagine dei giornali avessi trovato titoli a caratteri cubitali che davano notizia anche della mia guerra, dei miei conflitti, delle mie sconfitte, delle mie parziali vittorie – in generale di tutto quello che accadeva sul fronte della mia vita di allora... Ma questa è già un’altra storia. Quando nacque il bambino, eravamo ancora lontani da tutto ciò. Potrei forse dire che nei due anni di vita del bambino mio marito aveva fatto pace con me e con il mondo. Non ancora una pace vera, soltanto un armistizio, una tregua. Aspettava e osservava. Si sforzava di mettere ordine nella sua anima. Perché quell’uomo aveva un’anima pura. Ti ho già detto che era un vero uomo. E anche di più: era un gentiluomo. Non di quelli che vanno al casinò e si sfidano a duello, o si sparano perché non riescono a pagare i debiti di gioco. Lui non ci giocava nemmeno, a carte. Una volta disse che un gentiluomo non tocca le carte, poiché l’unico denaro al quale ha diritto è quello che andrà guadagnandosi con il proprio lavoro. In questo senso era un gentiluomo. Dunque era cortese, paziente con i più deboli, severo e corretto nei confronti dei suoi pari. Giacché non conosceva nessuno al di fuori del proprio rango, non riconosceva alcun livello sociale e mondano che gli fosse superiore. Solo gli artisti avevano tutta la sua ammirazione, diceva che tra i figli di Dio sono quelli che hanno scelto la parte più difficile. Non riconosceva nessuno al di sopra di sé. E siccome era un gentiluomo, quando nacque il bambino cercò di sciogliere nella sua anima quella terribile estraneità che mi faceva tanto soffrire, e si sforzò di avvicinarsi a me e al figlio in maniera commovente. Come se una tigre decidesse da un giorno all’altro di diventare vegetariana e di entrare nell’Esercito della Salvezza. Ahimè, quanto è difficile vivere!... Per due anni vivemmo così. Non particolarmente bene, non eravamo felici. Solo tranquilli. Deve aver avuto una forza spaventosa in quei due anni. Ci vuole una forza sovrumana per vivere contro la propria natura. Stringeva i denti, voleva a ogni costo essere felice. Era in preda a una specie di spasimo nervoso, e si sforzava di essere leggero, spensierato, fiducioso. Poverino!... Forse non avrebbe sofferto tanto se io allora lo avessi lasciato libero sul piano emotivo, e avessi riversato tutte le mie pretese, tutto il mio bisogno d’affetto sul bambino. Ma nel frattempo si era verificato anche dentro di me qualcosa che allora non capivo. Io amavo il bambino solo attraverso mio marito. Forse è per questo che Dio ha voluto punirmi. Perché mi guardi con gli occhi sbarrati?... Non mi credi?... O ti ho spaventata?... Eh sì, cara, la mia non è proprio una storiella amena. Adoravo il bambino, vivevo per lui e basta, e solo in quei due anni ho avuto la sensazione che la mia vita avesse un senso e uno scopo... ma il bambino, io lo amavo per lui, per causa sua, capisci? Volevo che il bambino lo legasse a me, anche da dentro, completamente. Sarà terribile a dirsi, ma ormai so che la creatura che io piangerò per tutta la vita era soltanto un mezzo, un pretesto per costringere mio marito ad amarmi. Se dovessi ammettere questo fatto in un confessionale, non riuscirei a trovare le parole. Ma lui lo sapeva, anche senza parole, e in cuor mio, nel profondo dell’anima, anch’io lo sapevo, senza bisogno delle parole giuste, perché allora non riuscivo ancora a trovare le parole per descrivere i fenomeni della vita... Arrivano più tardi, le parole giuste, e per trovarle bisogna pagare un prezzo terribile. Le parole, a quel tempo, le aveva soltanto Lázár. Un giorno me le diede, con apparente noncuranza, come chi fa scattare il meccanismo che apre un cassetto segreto. Ma in quel momento non sapevamo ancora nulla l’uno dell’altro. Tutto in apparenza era in perfetto ordine intorno a noi. Al mattino la nurse portava il bambino in soggiorno, accanto al tavolo della colazione, vestito di celeste e di rosa. Mio marito parlava con lui e con me, poi saliva in macchina e andava alla fabbrica. La sera andavamo a cena fuori, oppure ricevevamo ospiti, che celebravano la nostra felicità, la nostra bella casa, la giovane mamma, lo splendido bebè, l’atmosfera serena. Che cosa pensavano, quando se ne andavano?... Credo di saperlo. Gli stupidi ci invidiavano. Quelli intelligenti e sensibili, invece, tiravano un sospiro di sollievo appena usciti dalla nostra porta, e pensavano: «Finalmente...». Da noi venivano serviti cibi prelibati, si bevevano vini d’importazione rari e pregiati, la conversazione era garbata e civile. Eppure mancava qualcosa, e l’ospite non vedeva l’ora di trovarsi fuori. Anche mia suocera arrivava con un’aria leggermente intimidita, e se ne andava con la stessa curiosa sollecitudine. Noi avvertivamo tutto questo, ma non ne eravamo pienamente coscienti. Mio marito, forse, lo era, lui sì... Ma a quel tempo non poteva fare diversamente, era costretto, a denti stretti, a essere felice. Io non lo lasciavo libero, dentro, nemmeno per un attimo. Il bambino era un mezzo per tenerlo legato a me, tacitamente lo ricattavo con le mie richieste affettive. Se è possibile che esistano tali rapporti di forza tra le persone?... Certo, ne esistono solo di questo tipo. Dedicavo al bambino ogni momento della mia giornata, ma soltanto perché sapevo che finché c’era lui ci sarebbe stato anche suo padre, e sarebbe stato solo mio. Il Signore non perdona queste cose. Non si può amare con un secondo fine. Non si può amare in modo così spasmodico e delirante. Vorresti dire che solo così è possibile?... Be’, questo era il mio modo di amare. Vivevamo grazie alla vita del bambino, e lottavamo l’uno contro l’altro. Lottavamo con passione e in silenzio, con il sorriso sulle labbra, scambiandoci cortesie. Un giorno accadde qualcosa. Fui colta dalla stanchezza. Mi sentivo le braccia e le gambe come intorpidite. Perché anch’io avevo consumato un’immane quantità di energia in quegli anni, non solo lui. Mi sentivo esaurita, come chi sta per ammalarsi. Era un inizio d’autunno, diversi anni fa. Un autunno tiepido, languido. Il bambino stava per compiere due anni, e cominciava a essere così simpatico e carino, aveva già la sua tenera, incantevole personalità... Una sera ero seduta in giardino con mio marito, il piccolo era stato messo a dormire. «Hai voglia di venire a Merano per qualche settimana?...». Due anni prima ero stata io a chiedergli di andare insieme a Merano, proprio all’inizio dell’autunno. Sono superstiziosa – mi piace credere a qualche ciarlataneria: volevo provare la famosa cura dell’uva. Quella volta non volle accompagnarmi, e respinse la mia proposta con una scusa qualsiasi. Sapevo che non gli piaceva viaggiare insieme a me, perché aveva paura dell’eccessiva intimità che nasce quando si è in viaggio, dei giorni in cui due persone, tra luoghi sconosciuti e camere d’albergo, vivono esclusivamente l’una per l’altra. A casa, tra noi si frapponevano le incombenze della vita domestica, il lavoro, gli eventi mondani e i riti quotidiani. Ma adesso voleva saldare in qualche modo il suo debito. Andammo a Merano. Durante quel periodo – com’è usanza – mia suocera si trasferì a casa nostra per prendersi cura del bambino. Fu un viaggio strano. Una luna di miele, un addio, un’occasione per conoscersi meglio – ma anche un’esperienza snervante e umiliante. Mio marito si sforzava di aprirsi con me. Perché una cosa è certa, mia cara, non ci si annoiava per nulla a vivere insieme a quell’uomo. Ho sofferto molto, fin quasi a morirne, a volte ne ero annientata, altre volte mi sentivo invece rinascere al suo fianco, ma nemmeno per un attimo mi sono annoiata. E questo lo dico così, a margine. Dunque, un giorno partimmo per Merano. Era un autunno dorato – gran vita, molto intensa, ambiente lussuoso. Giravamo in automobile, gli alberi erano carichi di frutti gialli. L’aria era satura di un aroma denso e greve, quello di un giardino che comincia ad appassire. Nella luce calda e ambrata i turisti – gente ricca e spensierata – sciamavano come vespe, in un continuo brusio. C’erano americani stesi ad abbrustolirsi al sole nel tepore di quelle giornate fragranti di mosto, signore francesi simili a libellule, inglesi guardinghi. A quell’epoca il mondo non era ancora stato messo a soqquadro, per un attimo l’Europa, la vita, tutto risplendeva di una luce vivissima. Ma in quell’insieme vi era pure una sorta di fretta concitata, di avidità angosciosa. La gente sapeva quale sarebbe stato il suo destino. Noi alloggiavamo nel migliore albergo di Merano, andavamo alle corse, ascoltavamo musica. Avevamo due stanze comunicanti, con vista sulle montagne. Che cosa c’era dietro quelle settimane? Quali attese?... Quali speranze?... C’era una gran tranquillità intorno a noi. Mio marito aveva portato con sé molti libri – con la sua sensibilità per la letteratura, alla stessa maniera di Lázár riusciva a distinguere le note giuste da quelle false, come un grande musicista: al crepuscolo sedevamo sul balcone, io gli leggevo a voce alta liriche di autori francesi, romanzi inglesi, severe prose tedesche, Goethe, e alcune scene dal Florian Geyer, la pièce di Hauptmann. Quel dramma gli piaceva molto. Una volta aveva assistito a una sua rappresentazione a Berlino, e ne conservava un bellissimo ricordo. Gli piaceva anche il Danton di Büchner. E l’Amleto, e il Riccardo III. Mi chiedeva anche di leggergli le poesie di János Arany, il ciclo degli Őszikék. Poi ci vestivamo e andavamo a cena nel grande ristorante dove ci aspettavano vino dolce italiano e gamberi di mare. Vivevamo più o meno come i parvenu, che vogliono rifarsi in un colpo solo delle occasioni perdute, gustare tutto ciò che non hanno avuto dalla vita, e ascoltano Beethoven ruminando cappone innaffiandolo con lo champagne. Ma vivevamo anche come chi si appresta a un addio. Gli ultimi anni prima della guerra li passammo in questa atmosfera, una sorta di commiato inconscio alla vita a cui ognuno era abituato. Questo lo diceva mio marito, io mi limitavo ad ascoltare in silenzio. Io non dicevo addio all’Europa – siamo donne, almeno tra noi possiamo tranquillamente ammettere che non abbiamo molto da spartire con questi concetti astratti –, bensì a un sentimento dal quale, nel profondo, non avevo ancora la forza di staccarmi. A volte mi sentivo soffocare dall’impotenza. Una sera eravamo seduti sul balcone. Il grande vassoio di vetro sul tavolo accanto a noi era carico d’uva e di grandi mele gialle – a Merano era tempo di raccolta. Era tardi, ormai, l’aria era dolcissima, profumava di frutta, come se da qualche parte avessero lasciato aperto un enorme vaso di conserva. Al pianoterra un’orchestra da camera francese suonava antiche arie d’opera italiane. Mio marito aveva fatto portare il Lacrima Christi, un vino di colore bruno, in una bottiglia di cristallo. In tutto questo, persino nella musica, c’era un che di zuccheroso, un po’ nauseante, come un frutto troppo maturo. Mio marito lo avvertì subito. «Domani torniamo a casa» disse. «Sì, partiamo» gli feci eco. All’improvviso, con quella voce profonda, scontrosa, che mi colpiva come il suono estraneo di uno strumento musicale primitivo, domandò: «Dimmi, Marika, che cosa dobbiamo fare, dopo?...». Sapevo a cosa alludeva. Alla nostra vita. La notte era trapunta di stelle. Guardai il cielo, quel firmamento autunnale italiano, e fui percorsa da un brivido. Sentii che era giunto il momento in cui non ha più alcun senso affannarsi, e bisogna dire la verità. Avevo mani e piedi gelidi, ma le palme erano sudate per l’emozione. Dissi: «Non lo so, non lo so. Non ce la faccio a lasciarti. Non riesco a immaginare la mia vita senza di te». «So che è una cosa molto difficile» mi rispose tranquillo. «Non pretendo nemmeno che tu lo faccia. Forse non è ancora giunto il momento. Forse non sarà mai il momento. Ma nella nostra vita, anche in questo viaggio, c’è qualcosa di umiliante, di indecente. Perché non abbiamo il coraggio di dirci qual è il problema tra noi?». Finalmente l’aveva palesato. Chiusi gli occhi, la testa mi girava. Lo ascoltavo tenendo gli occhi chiusi. Dissi soltanto: «Dimmelo tu allora, una volta per tutte, che problema c’è tra noi». Restò a lungo in silenzio, a riflettere. Si accendeva una sigaretta dopo l’altra. In quel periodo fumava certe sigarette inglesi forti e oppiate, il cui fumo mi dava un po’ alla testa. Ma anche quell’odore gli apparteneva, come la fragranza di fieno dell’armadio dove teneva la biancheria – perché voleva che la sua biancheria e i suoi vestiti avessero sempre il profumo di quell’essenza inglese di fieno, un po’ amara, che a lui piaceva tanto. Di quanti dettagli si compone la personalità di un uomo! «Io, in realtà, non ho bisogno di essere amato» dichiarò infine. «Non è possibile» dissi battendo i denti. «Sei un essere umano. Devi avere bisogno d’amore». «È questo che le donne non riescono a credere, anzi, non lo vogliono sapere né arrivano a comprenderlo» continuò, quasi rivolgendosi alle stelle. «Esistono uomini che non hanno bisogno d’amore. Che se la cavano benissimo anche senza». Parlava senza enfasi, con distacco, ma con grande naturalezza. Sapevo che diceva la verità, come sempre. O almeno era convinto di dire la verità. Cominciai a cercare un compromesso: «Non puoi sapere tutto di te stesso. Forse ti manca semplicemente il coraggio di sopportare un sentimento. Bisogna essere più modesti, più umili» dissi in tono implorante. Gettò via la sigaretta. Si alzò in piedi. Era alto – hai visto quanto è alto? –, più alto di me di una spanna. In quel momento lo vidi letteralmente ingigantirsi sopra di me, si appoggiò alla balaustra, e sotto il cielo stellato della notte straniera sembrò ancora più imponente nella sua infelicità – nel cuore quel segreto triste ed estraneo che avrei tanto voluto sciogliere. Incrociò le braccia e disse: «Qual è il senso della vita di una donna? È un sentimento al quale si abbandona completamente, con tutta se stessa. Io questo lo so bene, ma riesco a coglierlo solo con la ragione. Non ce la faccio ad abbandonarmi a un sentimento». «E il bambino?» gli domandai ora con una certa aggressività. «Si tratta proprio di questo» disse ravvivandosi, con la voce che tremava di inquietudine. «Per il bambino sarei disposto a tollerare di tutto. Amo il bambino. E attraverso il bambino amo te». «E io, invece...» cominciai. Ma tacqui. Non ebbi il coraggio di dirgli che, anche nel bambino, io amavo soltanto lui. Quella notte parlammo a lungo, e a lungo tacemmo. A volte mi torna tutto in mente, potrei quasi ripetere ogni parola. Disse anche: «Una donna non può capirlo. Un uomo trova nella propria anima forza sufficiente per vivere. Il resto non è che un’eccedenza, un sottoprodotto. Ma il bambino, eccolo il vero miracolo! Per lui si può raggiungere un compromesso. Facciamo un patto. Restiamo insieme, ma tu amami di meno. Ama di più il bambino, piuttosto» e qui la sua voce era strana, soffocata, quasi minacciosa. «Lasciami libero da vincoli interiori. Sai che non ti chiedo altro, non ho secondi fini, o piani segreti, nel dirti questo. Però non riesco a vivere in una situazione di tensione affettiva come la nostra. Ci sono uomini, dall’indole più femminea, che hanno proprio bisogno di essere amati. Ma esiste anche un altro genere di uomini, quelli che l’amore tutt’al più riescono a tollerarlo. E io sono uno di loro. Tutti i veri uomini sono pudichi, tu dovresti saperlo». «Che cosa vuoi?» dissi in preda al tormento. «Che posso fare?...». «Una sorta di patto» disse. «Per il bambino. Per restare insieme. Sai esattamente quello che voglio» disse ancora, serissimo. «Solo tu puoi aiutarmi. Solo tu puoi allentare questo vincolo. Se volessi andarmene, lo farei. Ma non voglio allontanarmi né da te né dal bambino. Voglio di più, l’impossibile, forse. Voglio che restiamo insieme, ma non come adesso, non in modo incondizionato, per la vita e la morte. Perché io questo non lo sopporto. Mi spiace per te, ma non lo sopporto» disse con garbo. In quel momento gli feci una domanda stupida: «Ma allora perché mi hai sposata?...». La sua risposta fu terribile. «Quando ti ho sposata, io sapevo ormai quasi tutto di me. Ma non sapevo abbastanza di te. Ti ho sposata perché non sapevo che tu mi amassi fino a questo punto». «È forse peccato?» gli chiesi. «È un peccato tanto grave amarti fino a questo punto?...». Rise. Stava in piedi nell’oscurità, fumava, rideva in tono sommesso. Ma era una risata triste, per nulla cinica o sprezzante. «È peggio che un peccato» rispose. «È un errore». Poi aggiunse: «Questa frase non è mia. La pronunciò Talleyrand quando seppe che Napoleone aveva fatto giustiziare il principe di Enghien. È ormai un modo di dire, come forse saprai» spiegò affabilmente. Ma cosa me ne importava di Napoleone e del principe di Enghien! Sapevo esattamente che intendeva dire. Cercai di riaprire le trattative. «Ascolta,» gli dissi «magari tutto questo non è poi così insopportabile. Si avvicina la vecchiaia. E non sarà male avere un nido in cui riscaldarsi, quando tutto diventerà freddo intorno a te». «Ma è proprio questo il problema» disse in tono sommesso. «Dietro a tutto c’è anche la vecchiaia che avanza». Aveva più di quarant’anni quando pronunciò queste parole, ma sembrava molto più giovane. Invecchiò di colpo dopo la nostra separazione. Per quella notte non ne parlammo più. Nemmeno il giorno seguente. Due giorni dopo prendemmo la strada del ritorno. Quando arrivammo a casa, trovammo il bambino già in preda alla febbre. La settimana seguente il piccolo morì. Da quel momento non parlammo mai più di nessuna questione personale. Ci limitavamo a vivere l’uno accanto all’altro, aspettando qualcosa. Forse un miracolo. Ma i miracoli non esistono. Una sera – era passata qualche settimana dal funerale, di ritorno dal cimitero entrai nella cameretta del bambino. Mio marito era lì al buio. «Che ci fai qui?» mi domandò in tono brusco. Poi tornò in sé, e uscì velocemente dalla stanza. «Perdonami» disse di sfuggita, sulla soglia. Quella camera l’aveva arredata lui, lui aveva scelto con cura ogni cosa, lui aveva stabilito tutto, persino la disposizione dei mobili. È vero che quando il bambino era in vita vi entrava molto di rado: si fermava sempre sulla soglia, un po’ imbarazzato, come se temesse di essere ridicolo o troppo sentimentale. Ma ogni giorno chiedeva che gli portassero il bambino in camera, e ogni mattina e ogni sera bisognava riferirgli come aveva dormito il piccolo, se aveva mangiato, se era in buona salute. Dopo, ci era entrato quell’unica volta. D’altronde, la tenevamo chiusa, avevo io la chiave; per due anni, fino a quando non ci separammo, non l’avevamo mai aperta, tutto era rimasto com’era nel momento in cui avevamo portato il bambino in ospedale. Soltanto io ci entravo per fare le pulizie e per... insomma, ci entravo di tanto in tanto, quando non c’era nessuno in casa. In quei giorni ero sull’orlo della pazzia. Ma riuscivo a tirare avanti con una sorta di delirante energia, perché non volevo lasciarmi annientare. Sapevo che probabilmente lui stava peggio di me, che era vicino al crollo totale e che, sebbene lo negasse, aveva bisogno di me. In quei giorni accadde qualcosa tra me e lui, o tra lui e il mondo, non saprei stabilirlo con precisione. Qualcosa si era spezzato dentro di lui. Tutto questo, naturalmente, nel silenzio, come capita in genere per le cose davvero gravi e dolorose. Quando si parla, si piange, si urla, è tutto più facile. Lui anche durante il funerale era rimasto calmo, taciturno. La sua tranquillità aveva pervaso anche me. Seguivamo la piccola bara bianca e dorata in silenzio, senza una lacrima. Ma lo sai che in seguito non è venuto neppure una volta insieme a me al cimitero, sulla tomba del bambino...? Forse ci sarà andato da solo, non so. Un giorno disse: «Quando si comincia a piangere, vuol dire che ormai si cerca di ingannare il prossimo. In quel momento, il corso degli eventi si è già concluso. Non credo alle lacrime. Il dolore è asciutto e muto». E in me che cosa era maturato in quelle settimane?... Adesso, a distanza di tempo, posso dire: la vendetta. Avevo giurato vendetta, ma vendetta contro chi?... Contro la sorte? Contro la gente? Sono parole insulse. Il bambino era stato curato dai migliori medici della città, puoi ben immaginarlo. Sai come si dice in questi casi: «È stato fatto tutto ciò che era umanamente possibile». Sono solo parole. Innanzitutto, non era stato fatto tutto ciò che era umanamente possibile. La gente era presa da un mucchio di altre cose nei giorni in cui il bambino agonizzava, e il più insignificante dei loro problemi era più importante che salvare mio figlio. Naturalmente io non riesco a perdonarli, nemmeno oggi. Ma avevo giurato vendetta anche in un altro senso, non con la ragione, con i sentimenti. Divampò in me la violenta e gelida fiamma di una strana apatia, di un feroce disprezzo. Non è vero che con il dolore ci si purifica, che si diventa migliori, più saggi e comprensivi. Si diventa freddi, lucidi e indifferenti. Quando, per la prima volta nella vita, si comprende veramente cos’è il destino, si acquista una specie di tranquillità. Si è calmi, e soli al mondo – di una solitudine così strana, terribile... Anche in quel periodo andai a confessarmi, come avevo sempre fatto. Ma che cosa avevo da confessare? Dove stava il mio peccato? In che cosa avevo sbagliato?... Mi sembrava che al mondo non ci fosse creatura più innocente di me. Adesso non mi sento più così... Il peccato non è soltanto quello che ci insegna il catechismo. Peccato non è solo ciò che commettiamo. È anche ciò che vorremmo, ma non abbiamo la forza di fare. Quando mio marito – per la prima e l’ultima volta in vita sua – mi aggredì con quella voce così aspra nella stanza del bambino, capii che mi riteneva colpevole di non essere stata capace di salvare il bambino. Vedo che non dici niente, e guardi fisso davanti a te con aria imbarazzata. Ti sembra che solo la disperazione, solo la sensibilità esasperata di un’anima ferita possano portare a tali esagerazioni. Io non ho mai avvertito come ingiustificata questa accusa, nemmeno per un momento. Tu dici che si è fatto di tutto. Ma sì, certo, un giudice istruttore non può farmi arrestare, perché si è fatto tutto quello che, secondo l’opinione comune, si doveva fare. Sono stata seduta per otto giorni al capezzale del bambino, lì dormivo e mi prendevo cura di lui, sono stata io quella che, infischiandosene dell’etica medica, ha chiamato altri dottori quando il primo, e poi il secondo non erano serviti a niente. Si è fatto tutto, sì, ma soltanto perché mio marito vivesse, perché restasse al mio fianco e mi amasse, se non in altro modo, almeno attraverso il bambino. Capisci?... Mentre pregavo per il bambino, io in realtà pregavo per mio marito. Solo la sua vita era importante, quella del bambino lo era unicamente in rapporto alla sua. È peccato, dici!... Che cos’è il peccato?... Io ormai lo so bene che cos’è! Bisogna amare una persona fino in fondo, e tenersela, da dentro, con tutte le forze. Ebbene, tutto questo è crollato quando è morto il bambino. E sapevo di aver perso mio marito, perché, anche senza parole, lui mi accusava. Accuse assurde, ingiuste, dici tu... Non lo so. Non riesco a parlarne. Nel periodo che seguì la morte di mio figlio caddi in uno stato di spossatezza: naturalmente mi ammalai subito anch’io, fui costretta a letto dalla polmonite, guarii, poi ebbi subito una ricaduta. Per mesi la mia salute rimase malferma. Venni ricoverata in una casa di cura, mio marito mi mandava fiori e veniva a trovarmi tutti i giorni, a mezzogiorno e nel tardo pomeriggio, quando usciva dalla fabbrica. Avevo un’infermiera che si prendeva cura di me, ero così debole che non riuscivo nemmeno a mangiare da sola. Sapevo che tutto questo non mi era di nessun aiuto, mio marito non mi avrebbe perdonata, nemmeno la malattia avrebbe potuto farci riconciliare. Era come sempre gentile e premuroso, di una correttezza spaventosa... Quando se ne andava, mi mettevo sempre a piangere. In quei giorni mia suocera veniva spesso a trovarmi. Un giorno – era l’inizio della primavera e io cominciavo appena a rimettermi in forze – seduta accanto alla mia dormeuse, lavorava a maglia, silenziosa come al solito. A un tratto depose i ferri, si tolse gli occhiali, mi sorrise amichevolmente e mi disse in tono confidenziale: «Che pretendi con questa vendetta, Marika?...». «Perché?» chiesi allarmata, arrossendo. «Di quale vendetta parla?». «Quando avevi la febbre, non facevi che ripetere: “Vendetta, vendetta”. Non è necessaria nessuna vendetta, anima mia. Ci vuole solo pazienza». La ascoltavo turbata. Dalla morte del bambino, quella era la prima volta che prestavo attenzione a qualcosa. Poi cominciai a dire: «Non si può sopportare una cosa simile, mamma. Qual è la mia colpa? So di non essere innocente, ma non riesco a capire qual è il mio peccato. Dove ho sbagliato? Non sono fatta per lui? Dobbiamo separarci? Se anche lei, mamma, crede sia meglio, io mi separo da lui. Sa che non ho altro pensiero, non ho altro sentimento che lui. Se non riesco ad aiutarlo, piuttosto divorzio. La prego, mamma, mi dia un consiglio». Mi guardava seria, con aria perspicace e triste: «Non ti agitare, piccola mia. Sai bene che non c’è nessun consiglio da dare. Bisogna vivere, sopportare la vita». «Vivere, vivere!» gridai. «Io non riesco a tirare avanti così, a vegetare come un albero. Si può vivere solo se si ha un motivo per farlo. L’ho incontrato, ho cominciato a volergli bene, e improvvisamente la vita ha acquistato un senso. Poi tutto è andato in un modo così strano... Non posso nemmeno dire che sia cambiato. Non posso dire che adesso mi ami meno di quanto mi amasse il primo anno. Mi ama ancora, ma è pieno di rancore nei miei confronti». Mia suocera taceva. Mi ascoltava come se non approvasse quel che dicevo, senza però essere in totale disaccordo. «Non è così?» le domandai inquieta. «Forse non è proprio così» disse prudente. «Non credo sia arrabbiato con te. O meglio, non è nei tuoi confronti che nutre rancore». «E allora con chi ce l’ha?» chiesi irritata. «Chi gli ha fatto del male?». Quell’anziana signora, quella donna intelligente e sensibile mi guardò con aria molto seria. «È difficile rispondere a questa domanda» disse. Sospirò. Mise da parte il lavoro a maglia. «Non ti ha mai parlato della sua giovinezza?». «Ma certo» dissi. «Qualche volta. A modo suo... con una risata strana, nervosa, come chi si vergogna di parlare di faccende personali. Mi raccontava di persone, di amici. Ma non mi ha mai detto che qualcuno gli avesse fatto del male». «No, non si tratta di questo» disse mia suocera di sfuggita, quasi con indifferenza. «Non è qualcosa che si può definire in questi termini. Fare del male... la vita può ferire una persona in tanti modi». «Lázár» dissi. «Lo scrittore... Lo conosce, mamma? Forse è lui l’unico a saperne qualcosa». «Sì» disse mia suocera. «Gli voleva molto bene, un tempo. Quell’uomo ne sa qualcosa. Ma è inutile che tu provi a parlare con lui. Non è una brava persona». «È curioso» dissi. «Ho anch’io la stessa sensazione». Aveva ripreso a lavorare a maglia. Con un sorriso mite, quasi di sfuggita, mi disse: «Stai tranquilla, figliola. Adesso tutto è molto doloroso, lo so. Ma tra poco ci penserà la vita a mettere a posto, miracolosamente, quel che ora ti pare insopportabile. Uscirai di qui e tornerai a casa, farete un bel viaggio, arriverà un altro bambino...». «Non credo» dissi, con il cuore stretto nella morsa della disperazione. «Ho un brutto presentimento. Sento che qualcosa è finito. La prego, mi dica: il nostro è davvero un matrimonio sbagliato?». I suoi occhi socchiusi mi lanciarono uno sguardo indagatore attraverso gli occhiali. «Non credo che il vostro sia un matrimonio sbagliato» disse fredda. «Strano. A volte credo che sia il peggiore al mondo. Lei, mamma, ne conosce di meglio riusciti?...» continuai amareggiata. «Di meglio riusciti?» chiese stupita, e si voltò, come a guardare lontano. «Forse. Non saprei. La felicità, quella vera, non si rivela in quanto tale. Ma di peggiori ne conosco di certo. Ad esempio...». Tacque di colpo. Come chi si spaventa di quello che sta per dire, e si pente di aver iniziato il discorso. Ma ormai non potevo lasciare la presa. Raddrizzai di colpo la schiena, gettai lontano la coperta e dissi con voce imperiosa: «Ad esempio?...». «Ma sì» sospirò. Andava avanti a sferruzzare. «Mi spiace di averne parlato. Ma, se può esserti di conforto, posso dirti che il mio matrimonio fu molto peggiore del vostro, perché io non amavo mio marito». Lo disse con tale calma da risultare quasi indifferente, come solo le persone anziane riescono a essere quando sono sul punto di congedarsi dal mondo e, conoscendo il vero significato delle parole, non hanno più nulla da temere e stimano la verità al di sopra delle convenzioni umane. Impallidii appena a quella confessione. «È impossibile» dissi ingenuamente, visibilmente turbata. «Vivevate così bene». «Non vivevamo male» disse in tono reciso, sferruzzando diligentemente. «Io avevo portato in dote la fabbrica, lo sai. Lui mi amava. Va sempre così: uno dei due ama più dell’altro. Ma chi ama è facilitato. Tu ami tuo marito, perciò ritieniti fortunata, anche se a volte ti fa soffrire. Io ero costretta a sopportare un sentimento che non ricambiavo. Questo è molto più difficile. Ho sopportato per tutta la vita, come vedi, e ora eccomi qui. La vita offre questo, chi vuole dell’altro vive in uno stato di febbrile entusiasmo. Io non ho mai provato un tale fervore. Ma a te va meglio, credimi. Quasi ti invidio». Reclinò la testa, e mi guardò di lato: «Ma non credere che ne abbia sofferto. Ho vissuto, come tutti. Dico questo solo a te, perché sei così febbricitante, inquieta. Ebbene, ora lo sai. Mi chiedi se il vostro matrimonio sia il peggiore?... Non credo. È un matrimonio» disse tranquilla, severa, come se avesse pronunciato un verdetto. «Lei, mamma, pensa sia meglio che restiamo insieme?» le chiesi, e avevo molta paura della sua risposta. «È ovvio. Ma cosa ti salta in mente?... Che cos’è allora il matrimonio? Un capriccio? Un’idea passeggera?... È un sacramento, una legge che regola la vita umana. Quel pensiero non ti deve nemmeno sfiorare» disse offesa, quasi ostile. Tacemmo a lungo. Guardavo le sue mani ossute, le dita abili e veloci, il disegno della maglia, fissavo il suo volto pallido, tranquillo, dai tratti regolari, incorniciato dai capelli bianchi. Non vedevo traccia di sofferenza su quel viso. E anche se aveva sofferto, pensai, quella donna era riuscita nel più arduo dei compiti di un essere umano, non ne era rimasta schiacciata, anzi, aveva superato con successo l’esame più difficile. Forse non è possibile fare di più. Tutto il resto – desideri, inquietudini – è nulla, in paragone. Indugiavo in queste considerazioni, ma in realtà sapevo che non sarei riuscita a rassegnarmi. «Non so che farmene della sua infelicità!» esclamai. «Se non riesce a vivere felice accanto a me, che vada pure a cercare l’altra». «Chi?» chiese mia suocera, esaminando scrupolosamente i punti del lavoro, come non vi fosse nulla di più importante. «Quella giusta» dissi io in tono aspro. «Ne sai qualcosa?» si informò tranquilla, senza guardarmi. In quel momento, sai, delle due ero io quella confusa. Davanti a loro, madre e figlio, mi sentivo sempre immatura, come chi non è stato ancora iniziato ai segreti della vita. «Di chi?» domandai smaniosa. «Di chi dovrei sapere qualcosa?». «Ma di lei» disse esitando mia suocera. «L’hai detto tu poco fa... Di quella giusta». «Allora esiste? Vive da qualche parte?...» gridai quasi. Chinò il capo sul lavoro. «Da qualche parte vive sempre quella giusta» disse sottovoce. Poi tacque. E su questa faccenda non le sentii più pronunciare una parola. Era proprio come suo figlio, c’era in lei qualcosa di fatale. Alcuni giorni dopo guarii improvvisamente, tanto ero spaventata da quella conversazione. Sulle prime, non avevo capito bene quel che aveva detto mia suocera. Non sembrava nemmeno il caso di nutrire sospetti, aveva parlato in generale, per metafore. Ma certo, da qualche parte del mondo vive sempre la persona giusta. «Ma allora io chi sono?...» mi domandai in un attimo di lucidità. Chi è quella giusta, se non sono io? Dove abita? Com’è? Più giovane? Bionda?... Che sa fare? Ero terribilmente agitata. Con una sorta di affanno, feci di tutto per riprendermi, tornai a casa, ordinai abiti nuovi, non facevo che correre da una parte all’altra della città – il parrucchiere, il tennis, la piscina. Al mio ritorno avevo trovato tutto in ordine... Sì, l’ordine che regna quando qualcuno ha lasciato definitivamente la casa. Qualcuno, oppure qualcosa, sai... quello stato di relativa felicità nella quale avevo vissuto e sofferto durante gli ultimi anni, divorata dall’angoscia perché quella felicità falsa mi sembrava intollerabile, ora era svanito, e io mi resi improvvisamente conto che era stato il massimo che la vita potesse offrirmi. Nell’appartamento ogni cosa era al suo posto, però le stanze sembravano vuote, proprio come se fosse passato l’ufficiale giudiziario a far portare via, con cura e discrezione, tutti i mobili di valore. Quel che anima una casa non è certo il mobilio, ma il sentimento che anima le persone che vi abitano. A quel tempo ormai mio marito era così distante da me che mi pareva fosse andato a vivere in un altro paese. Non mi sarei sorpresa se un giorno, dalla stanza accanto, mi fosse arrivata una sua lettera. Prima, sia pur con grande cautela, come se stesse tentando chissà quale esperimento, qualche volta parlava con me del suo lavoro, mi raccontava della fabbrica, dei suoi progetti; poi, con la testa reclinata, aspettava la mia risposta, quasi mi stesse sottoponendo a un esame. Ma ora non mi parlava più dei suoi progetti; evidentemente, non c’era più nessun progetto particolare nella sua vita. Non invitava più nemmeno Lázár; da oltre un anno non lo vedevamo, leggevamo solo i suoi libri e i suoi articoli. Un giorno – me lo ricordo con precisione, era una mattina di aprile, il quattordici aprile, domenica – ero seduta sotto il portico, ai margini del giardino in cui nei cespugli di euforbie facevano timidamente capolino i primi fiori gialli. Leggevo un libro, quando sentii che mi stava succedendo qualcosa. Prendimi pure in giro, se vuoi. Non voglio fare la Giovanna d’Arco di fronte a te. Non mi sentii chiamare dal cielo, ma provai una delle sensazioni più intense nella vita di un essere umano. Una voce, forte e chiara, mi diceva che non si poteva più andare avanti così, che nulla aveva più senso, che quella era una situazione umiliante, crudele, disumana. Dovevo mutarla, operare il prodigio. Nella vita ci sono momenti del genere, in cui si prova una sorta di vertigine e si vede tutto con assoluta lucidità: si riscoprono energie e potenzialità nascoste e si comprende perché si è stati troppo codardi o troppo deboli. E sono i momenti in cui la nostra vita cambia. Arrivano all’improvviso, come la morte, o una conversione. Fui scossa da un brivido violento, avevo la pelle d’oca, cominciai a tremare. Guardai il giardino e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Che cosa pensavo?... Che solo io ero responsabile del mio destino. Che tutto dipendeva da me. Non si può restare immobili ad aspettare la manna dal cielo, nemmeno nella vita privata, nemmeno nei rapporti umani. Tra me e mio marito qualcosa non andava. Non sapevo come prenderlo. Non lo sentivo mio, quell’uomo non voleva essere tutto per me. Sapevo che non c’era nessun’altra donna nella sua vita... io ero bella, giovane, lo amavo. Anch’io avevo i miei poteri, non solo quello stregone di Lázár. E volevo sfruttare tutte le mie virtù magiche. Sentivo anche una forza feroce, una forza con la quale si potrebbe uccidere – o costruire un mondo nuovo. Forse soltanto gli uomini sono davvero in grado di provare fino in fondo una forza simile nei momenti cruciali della loro vita. Noi donne ne siamo invece terrorizzate, cadiamo in preda a mille dubbi. Ma io non volevo indietreggiare. Quel giorno, il quattordici aprile, domenica, alcuni mesi dopo la morte del bambino, presi l’unica decisione davvero consapevole di tutta la mia vita. Sì, è inutile che mi guardi con quegli occhi spalancati. Sta’ bene a sentire. A te lo voglio dire. Avevo deciso di conquistare mio marito. Come mai non ti metti a ridere?... Non c’è niente di comico, vero? Anch’io ne ero convinta. Tuttavia ero atterrita di fronte alla vastità dell’impresa. Dallo sgomento mi mancava persino il respiro. Ero ben conscia che in quell’incombenza stava il senso di tutta la mia vita, che ormai non potevo più tornare indietro, sperare nel tempo o nel caso, perché qualcosa accadesse. Non potevo neppure rassegnarmi al fatto che, se nulla fosse accaduto, avrei continuato a vivere in quel modo... Ormai sapevo che non ero stata solo io a scegliermi quel compito, ma il compito stesso aveva scelto me. Io e quell’impresa eravamo una cosa sola, per la vita e per la morte, e non avremmo mai ceduto, se non di fronte a qualcosa di decisivo. O quell’uomo tornava da me, con tutto il suo cuore, senza alcuna ritrosia o imbarazzo, o io sarei andata via da lui. Se custodiva qualche segreto a me sconosciuto, io lo avrei portato alla luce scavando con le unghie, se necessario, come i cani con gli ossi, avrei scavato alla stregua di un’amante impazzita che riesuma il cadavere dell’amato, oppure mi sarei arresa di fronte al mio fallimento e mi sarei fatta da parte. Così non potevo andare avanti. Insomma, avevo deciso di sedurre mio marito. A dirlo suona semplice. Ma tu sei una donna, e sai bene che questo è uno dei compiti più difficili al mondo. Quando un uomo si mette in testa di portare a compimento qualcosa, anche se il mondo intero si frappone tra lui e il suo progetto, tra lui e la sua volontà stai pur sicura che ci riesce... Il nostro mondo è la persona che amiamo. Quando Napoleone, del quale peraltro non so molto, tranne che dominò il mondo per un po’ e che fece uccidere il principe di Enghien – e ciò, più che un peccato, fu un errore, l’ho già detto?... –, insomma, quando Napoleone decise di conquistare l’Europa, non si gettò in un’impresa meno difficile di quella che avevo deciso io in quel ventoso giorno di aprile. Qualcosa di simile forse lo prova un esploratore che decide di partire per l’Africa, o per il Circolo Polare Artico, incurante delle belve e del clima, e viene a sapere quello che prima di lui nessuno sapeva, un fatto che non era stato scoperto da nessun ricercatore... Sì, questa potrebbe essere un’impresa paragonabile a quella di una donna che decide di conoscere il segreto di un uomo. Scenderà fino all’inferno, ma alla fine riuscirà a cavarglielo. Proprio questo avevo deciso. Oppure fu la decisione a impadronirsi di me... questo non lo si può stabilire con esattezza. In simili frangenti si agisce spinti da una forza ineluttabile. Così si muovono i sonnambuli, i rabdomanti, gli indemoniati delle campagne, di fronte ai quali popolo e autorità si ritraggono con superstiziosa soggezione, perché nel loro sguardo c’è qualcosa con cui è meglio non scherzare, perché portano un marchio sulla fronte, hanno un’unica, irripetibile e pericolosa missione nella vita, e non si daranno pace fino a quando non l’avranno compiuta... E così aspettavo che lui tornasse a casa, il giorno in cui mi ero risolta ad agire. Fu con questa sensazione che accolsi mio marito, quando a mezzogiorno ritornò dalla sua passeggiata domenicale. Era andato a Hűvösvölgy insieme al suo cane, quel bracco color avana al quale era tanto affezionato e che portava sempre con sé quando usciva a passeggio. Entrarono in giardino, e io stavo in piedi sul primo gradino del portico, immobile, a braccia conserte. La luce era intensa, il vento soffiava tra gli alberi, scompigliandomi i capelli. Mi ricorderò per sempre di quell’istante: il paesaggio, il giardino, tutto splendeva di una fredda luce primaverile, la stessa che, da vera invasata, sentivo ardermi dentro. Padrone e cane rimasero di sasso, mi fissavano guardinghi, come chi contempla stupito un fenomeno naturale, con istintiva soggezione. «Venite,» pensavo tranquilla «fatevi pure avanti, chiunque voi siate, donne sconosciute, amici, ricordi d’infanzia, famiglia, tutti voi che appartenete a quel mondo estraneo e ostile, provate a venire. Io riuscirò a sottrarvi quest’uomo» . E così ci sedemmo a tavola.