SOLITUDINE
Mattia Ferraresi
Abbiamo vinto, il nostro Io viene prima di tutto. Ma il prezzo da pagare è la solitudine
Sergio Belardinelli
Ci sono parole che sono capaci di illuminare un’epoca. Ma bisogna individuarle, studiarle, dar loro voce, ascoltarne i suoni e le connessioni: questo è il difficile. Tanto è vero che il più delle volte esse passano inosservate, ne vediamo la superficie anziché lo spessore, le utilizziamo senza accorgerci della loro luce, nemmeno tanto nascosta. Se ci pensiamo bene, uno spreco indicibile. Finché qualcuno non ci scuote dalla nostra pigrizia, squadernandocene qualcuna davanti agli occhi. In questi casi la meraviglia si mescola a un profondo senso di gratitudine: esattamente quanto ho provato leggendo Solitudine, il libro di Mattia Ferraresi, pubblicato da Einaudi, in questi giorni nelle librerie.
Da decenni la sociologia e le scienze umane richiamano l’attenzione sul progressivo disgregarsi dei legami sociali, sull’isolamento crescente degli uomini del nostro tempo e sul bisogno di comunità che ci contraddistingue. In Gran Bretagna hanno istituito addirittura un ministero per la solitudine, tanto il problema è diventato drammatico. Di solitudine ormai si muore e, peggio ancora, si uccide. Ovvio che il tema sia andato ben oltre l’orizzonte d’interesse dei filosofi, dei letterati e dei sociologi e riguardi sempre di più quello dei medici e di coloro che hanno il compito di fronteggiare le molteplici patologie sociali. Nel caso della solitudine, e Ferraresi ce lo mostra in modo direi quasi compiuto, siamo di fronte, non da oggi, a una vera e propria epidemia. Si pensi ai cosiddetti Hikikomori giapponesi (persone, per lo più giovani, che decidono di chiudersi nel perimetro della propria stanza, rinunciando a qualsiasi relazione con l’esterno che non sia tramite web), al numero impressionante di giovani che non studiano non lavorano, né sono inseriti in percorsi di formazione, i cosiddetti Neet (pare che in Italia siano circa due milioni), ai giovani perennemente incollati al cellulare o agli anziani che muoiono senza che nessuno se ne accorga; ma si pensi anche ai molti suicidi e omicidi “senza perché” che riempiono quotidianamente le nostre cronache. Suicidi e omicidi “anomici” li avrebbe definiti Durkheim. Ovunque un devastante senso di solitudine che, come dice assai bene Mattia Ferraresi all’inizio del suo libro, “è qualcosa di più complicato e oscuro di una propensione sociale: è lo stato esistenziale dell’uomo contemporaneo”.
Ma come è potuto succedere? A che cosa è dovuto questo essiccamento progressivo delle relazioni umane?
La risposta di Ferraresi, diretta e assai poco diplomatica, vista l’aria che tira, è la seguente: “La solitudine di cui la nostra epoca si duole è l’esito di un’idea precisa, quella dell’individualismo, inteso anzitutto come autodeterminazione e autocompimento della persona. Questa scelta ideologica è uno dei cardini della modernità. Nel divincolarsi dalle autorità, dalle gerarchie e dalle costrizioni tradizionali che lo opprimevano, l’uomo moderno si è ritrovato solo. Ha abbracciato un’antropologia solitaria e su quella ha immaginato di dare vita a un mondo nuovo, salvo scoprirsi poi amareggiato e deluso. Ha perseguito un ideale di liberazione che oggi si presenta come una prigionia”. E’ questa la grande eterogenesi dei fini della modernità occidentale, i cui frutti vediamo oggi un po’ ovunque e che Ferraresi approfondisce con rara competenza e sensibilità. I suoi lunghi soggiorni negli Stati Uniti evidentemente gli hanno affinato lo sguardo. E’ là, infatti, che la solitudine mostra, forse più che altrove, le sue molteplici sembianze, nonché i suoi spesso inutili rimedi, ma anche le sue analisi più profonde. Belle e malinconiche le pagine che Ferraresi dedica al successo dei robot come veri e propri equivalenti funzionali di persone in carne e ossa che non si trovano più per farci compagnia: un vano palliativo alla solitudine, dietro al quale sta, non tanto l’umanizzazione dei robot, quanto l’accettazione di una sorta di robotizzazione dell’umano, ridotto a semplice fascio di funzioni o di ruoli. Importanti, tanto per fare qualche nome, i riferimenti a La folla solitaria di Riemann, a La cultura del narcisismo di Lasch, a Fuga dalla libertà di Erich From e agli scritti di Robert Nisbet sulla crisi dell’autorità e della comunità: certamente, ancora oggi, riferimenti decisivi per comprendere il senso della crisi e della solitudine delle nostre società occidentali. Crisi della famiglia, crisi della scuola, crisi dei legami sociali, crisi demografica, spaesamento generalizzato, ripiegamento su un eterno presente e sfiducia nel futuro sono tante manifestazioni di una stessa malattia: il ripiegamento su se stesso dell’individuo moderno fino a rendere difficile il riconoscimento dell’altro e il senso stesso della propria libertà.
Per essere veramente liberi non basta che si possa fare ciò che ci piace; bisogna anche sapere perché vogliamo fare una determinata cosa. Per questo la libertà va “coltivata”, ha bisogno di cultura, diciamo pure, ha bisogno di essere collegata a un’idea di vita buona alla quale aspiriamo e intendiamo conformarci. E’ questo che dà senso alla libertà. Una libertà di fare ciò che ci piace che perde di vista il perché vogliamo farlo è destinata a sfociare nell’indifferenza e nel non senso. Possiamo andare dappertutto, ma non sappiamo più dove andare per avere, non dico la felicità, ma almeno una vita decente. E’ questa, e Ferraresi lo fa vedere molto bene, la vera rovina del soggetto moderno. Volevamo essere liberi da qualsiasi legame sociale, liberi di affermare semplicemente la nostra volontà? Siamo stati accontentati: il nostro self, almeno a parole, viene prima di tutto il resto. Ma il prezzo che dobbiamo pagare è precisamente la solitudine in una società che funziona come se noi non ci fossimo. Proprio come i costruttori di Babele, ai quali Ferraresi dedica pagine molto belle, è come se, per uno spasmodico desiderio di autoaffermazione (di “darci un nome”, dice il testo biblico), avessimo sacrificato noi stessi alla vana costruzione di una torre.
A questo punto la domanda fatidica: che fare? Ferraresi non offre ricette in proposito, ma nell’ultimo capitolo del libro indica una strada. Se la radice ultima della nostra solitudine “è la mancanza di un’ipotesi credibile intorno al senso dell’esistenza”, questo almeno ci dicono i “veggenti” della solitudine, da Tom Wolfe a Michel Houellebeq, è precisamente su questa mancanza che bisogna lavorare, con la fiducia che, come diceva Hölderlin, “dove crescono i pericoli, là cresce anche la speranza di salvezza”. Di certo non possiamo tornare al passato, ai bei tempi della comunità e della religione capace di legare tutto, che poi belli non erano affatto. Dovremmo invece prendere sul serio il bisogno dell’altro, di un Tu che dia senso alle nostre relazioni, come pure il fatto che ancora oggi l’esperienza religiosa continua a rappresentare “l’opposto della solitudine”, per conseguire, non saprei come dirlo, una modernità più riflessiva, più consapevole del fallimento delle sue declinazioni individualiste. Forse, dopo aver parlato tanto dell’uomo, visti i risultati, è tempo che si torni a parlare anche di Dio. Il resto potrebbe esserci dato in sovrappiù.
Chiudo con una nota autobiografica, che a Ferraresi certamente non dispiacerà. Una quindicina d’anni fa, mi capitò di chiedere al cardinale Joseph Zen, allora vescovo di Hong Kong, di indicarmi quale fosse secondo lui il principale problema del momento storico che stavamo attraversando. Ricordo che improvvisamente il cardinale si fece serio, poi, col suo italiano perfetto, mi diede una risposta indimenticabile, che forse sintetizza bene anche il non detto, la speranza, di Solitudine: “Ovunque registriamo una preoccupante incapacità di dare senso alle nostre povere vite, privi come siamo di valori forti in grado di sostenerci. Torniamo a Dio attraverso i poveri, accogliamoli come un’occasione di conversione: questa mi sembra la strada che ci viene suggerita dal tempo presente. Se sapremo avvicinarci, se sapremo avvicinare i giovani alla sofferenza dei nostri simili, possiamo star certi che nulla sarà più come prima nella nostra vita; ci sentiremo tutti più forti e meno soli”.
SOLITUDINE
Mattia Ferraresi
Introduzione La solitudine è uno dei mali piú insidiosi della nostra epoca. Da decenni la sociologia e le scienze umane rilevano il progressivo disgregarsi dei legami e la crisi del capitale sociale, sforzandosi di illuminare i pericoli di queste tendenze atomizzanti. Non una novità sconvolgente per chi abita il mondo delle pubblicità profilate, dei pasti monoporzione, del selfie, del single come stato sommamente desiderabile. Ma grattando la superficie delle osservazioni quantitative e delle cronache si intuisce che la solitudine è qualcosa di piú complicato e oscuro di una propensione sociale: è lo stato esistenziale dell’uomo contemporaneo. Forse è la condizione che contiene e rappresenta tutti i malesseri del tempo in cui viviamo. La sua natura è sfuggente. Che cosa sia, quali siano le sue cause remote e le sue manifestazioni non è affatto chiaro. Lo scopo di questo libro è perforare la crosta di questo fenomeno –profondamente sentito e altrettanto profondamente eluso –per addentrarsi nei suoi anditi piú nascosti. La traiettoria parte dalla diagnosi dell’« epidemia» che stiamo vivendo e arriva sulle soglie di un «tu» trascendente, una forma di sacro, che gli uomini da sempre cercano per trovare una compagnia sicura. Nel mezzo giace il paradosso che è il cuore di ciò che leggerete: la solitudine di cui la nostra epoca si duole è l’esito di un’idea precisa, quella dell’individualismo, inteso anzitutto come autodeterminazione e autocompimento della persona. Questa scelta ideologica è, come vedremo, uno dei cardini della modernità. Nel divincolarsi dalle autorità, dalle gerarchie e dalle costrizioni tradizionali che lo opprimevano, l’uomo moderno si è ritrovato solo. Ha abbracciato un’antropologia solitaria e su quella ha immaginato di dare vita a un mondo nuovo, salvo scoprirsi poi amareggiato e deluso dalla sua creazione. Ha perseguito un ideale di liberazione che oggi si ripresenta come una prigionia. Il percorso si svolge in tre tappe. Il primo capitolo è una radiografia delle forme in cui la solitudine si presenta oggi. Innanzitutto, la dimensione clinica. Si parla del fenomeno come di un morbo letale e sempre piú spesso correlato ad altre patologie, dalle malattie cardiache agli stati depressivi. Di solitudine si muore, e in certi laboratori si lavora anche alla pillola per non sentirsi soli. S’incontrano poi alcune figure della solitudine contemporanea. Il Giappone, avanguardia dell’isolamento sociale, è la patria dell’hikikomori, il preadolescente autorecluso che abbandona il mondo per stare con sé stesso. La pratica è stata esportata in molti paesi occidentali ed è replicata in diverse versioni. Anche l’Italia ha i suoi ragazzi in esilio volontario nella propria camera da letto. L’epidemia si manifesta anche in forme meno estreme, piú diffuse. La problematica questione dei rapporti con device digitali e robot serve a comprenderle, cosí come l’analisi della crisi, oggi riscontrabile, del sesso e dell’intimità. Ma anche il cambiamento della percezione della morte, supremo mistero che della solitudine è la massima esasperazione esistenziale. Oggi si muore di solitudine, ma si muore sempre piú spesso in solitudine, senza presenze al capezzale né cerimonie funebri dove la comunità si raduna. Si dà conto poi del fatto che entità di governo di ogni livello hanno preso nota del problema sociale dilagante e si stanno attrezzando per offrire soluzioni. Dal ministero per la Solitudine inglese alle start up sussidiate, tutte le iniziative sembrano benintenzionate e drammaticamente inadeguate. Nel secondo capitolo si entra nel cortocircuito della modernità occidentale: armata di una certa idea di libertà, ha generato la piaga sociale che ora i figli di quella stessa modernità s’affannano per contenere. Sotto la guida di Alexis de Tocqueville si ripercorrono le origini dell’individualismo che oggi si esprime in molti modi, dal narcisismo esasperato che alimenta i meccanismi dei social media, con le sue perversioni e persino i suoi sacrifici rituali, alla politica dell’identità, dove ciò che divide le persone precede e supera ciò che le unisce. Si racconta del giorno esatto in cui la solitudine è diventata un diritto, del rapporto fra autorità e potere e dell’emergere del populismo, che pur nelle sue diverse varianti appare accomunato da una promessa, uno slogan subliminale universale: «Tu non sei solo». Un approfondimento particolare è dedicato alla fraternità, categoria potente dell’esperienza umana che i giacobini hanno messo nel trittico dei valori su cui rifondare l’uomo e lo stato: liberté, egalité, fraternité. Dopo averla formalmente elevata nell’Olimpo, i rivoluzionari l’hanno dimenticata, facendone una stampella traballante delle prime due virtú. La decantata e assai poco praticata fraternità è stata cosí lasciata da parte nel discorso della modernità, per poi ricomparire illuminata da ulteriori riflessioni e gravata da nuovi problemi che oggi come non mai implorano di essere affrontati. L’edificazione dell’impianto del liberalismo è il punto in cui il cortocircuito raggiunge l’apice, ed è sulla solitudine liberale che si conclude la seconda tappa del percorso. L’ultimo capitolo ha il proposito temerario di descrivere la ricerca di un «tu» che possa rispondere adeguatamente al malessere che pesa sul presente. L’ipotesi di partenza è che la solitudine, nel suo senso piú profondo, sia assenza di significato, difficoltà di trovare uno scopo per cui vivere. La mancanza di senso è l’inizio di un viaggio che passa da Babele, dove va in scena una delle storie piú pregnanti e fraintese di sempre, approda nelle steppe dell’Asia con il pastore errante di Giacomo Leopardi, per poi arrivare ai tormenti metafisici dei romanzi di Michel Houellebecq, un «veggente» che ha portato la tragedia del postmoderno sulle soglie della meditazione religiosa. La teoria della secolarizzazione è interiorizzata da generazioni, specialmente in Europa, ma si fa largo la controipotesi di un ritorno del religioso, un ravvivarsi di quella ricerca di significato che promette di strappare la solitudine dalle radici, non semplicemente di contenerne gli effetti. Gli abitanti del presente «disincantato» cercano ancora quella comunione che l’epoca digitale ha retrocesso a mera connessione. Su queste note si esaurisce il breve segmento di una traiettoria umana inesauribile. L’intento limitato di queste pagine è fornire alcuni strumenti di riflessione e problematizzare laddove tutto cospira a semplificare. Nella speranza che in ogni passo del percorso la presunzione di spiegare sia sempre superata dal desiderio di capire. Capitolo 1 L’epidemia Morire di solitudine. Di solitudine si muore. Non è un’iperbole. Il carattere letale dell’esser soli, il suo pervasivo potere mortifero è documentato da un corpo di studi scientifici che ogni giorno si arricchisce di nuovi, sconfortanti contributi. Pur affrontando il problema da prospettive e secondo metodologie diverse, tutte le ricerche convergono sul fatto che il processo di disgregazione delle relazioni umane non è soltanto un carattere dell’epoca contemporanea, un modo di vita. Deve invece essere considerato un malessere diagnosticabile, una patologia, una malattia mortale che va sottratta dalle rarefatte indagini di sociologi e filosofi per affidarla alle rigorose cure di medici e ufficiali sanitari. Questi, a loro volta, dovrebbero farsi carico di persuadere i politici a contrastare con misure adeguate la silenziosa pestilenza che sta travolgendo milioni di persone e colpisce con particolare ferocia le società segnate dal benessere. In America si discute se sia corretto parlare di una «epidemia», termine che nel tempo è stato utilizzato per parlare dell’Aids, della povertà, dell’abuso di oppiacei, delle malattie mentali, dell’incarcerazione di massa, delle intolleranze alimentari. Qualcuno vorrebbe trattare anche le sparatorie che insanguinano tante città americane, da Chicago a Baltimora, come questioni di salute pubblica. In ognuno di questi casi, la scelta del registro epidemiologico ha messo l’accento sulla natura contagiosa e incontrollabile del fenomeno, aumentandone il potere drammatico. Ogni malanno, ormai, merita la promozione al rango patologico. Nonostante le obiezioni di alcuni fra i piú autorevoli studiosi della solitudine e dei danni che produce, la stessa retorica si è largamente affermata nei media, dove ormai «epidemia di solitudine» è diventato un tropo per titolisti pigri. L’inevitabile passo successivo è la dichiarazione di guerra. Il governo americano ha recentemente fatto la guerra, fra le altre cose, alla povertà, alla droga e al terrorismo; la solitudine è una vittima predestinata dell’irresistibile metafora bellica. Cosí nel giro di mezzo secolo la solitudine si è trasformata da questione esistenziale a fatto clinico di massa, da contrastare affidandosi a coalizioni scientifico-politiche che sappiano trovare i rimedi giusti contro uno dei mali della nostra epoca. S’invocano pianificati interventi di assistenza sociale per ricucire le fibre rotte della società, gli osservatori piú tormentati dal problema sembrano sognare la scoperta del vaccino contro la solitudine. Stephanie Cacioppo, ricercatrice della University of Chicago, sta sperimentando su soggetti solitari una cura a base di pregnenolone, un ormone normalmente associato alla memoria e allo stress. Riportarlo a livelli ottimali per l’organismo potrebbe anche riattivare l’area del cervello che induce a creare legami. Se la natura del problema è in fondo chimica e fisiologica –procede il ragionamento –si potrà risolvere con una pillola. Si sono offuscate le distinzioni e le cautele di Frieda Fromm-Reichmann, pioniera degli studi psichiatrici sull’isolamento, che separava nettamente la solitudine come espressione dei «sentimenti oceanici», uno stato generativo che è parte dell’esperienza umana, dalla condizione «non-costruttiva, se non disintegrativa, che si manifesta, o infine conduce, allo sviluppo di stati psicotici» 1. Quando, sul finire degli anni Cinquanta, non meglio chiarite «forze interiori» l’hanno spinta a scrivere On Loneliness, il documento fondativo della letteratura scientifica sul tema, l’analista di origine tedesca era alla ricerca della real loneliness, uno specifico stato ansiogeno che blocca l’accesso al mondo, riducendo il soggetto in una condizione di prigionia nella quale la comunicazione con gli altri è severamente ostacolata o del tutto impossibile. Il suo era un trattato seminale sulla solitudine come manifestazione perversa ed estrema del disturbo mentale, non un’osservazione sulle attitudini della società contemporanea. La qualità di questi studi psicopatologici s’è progressivamente annacquata nell’incontro con una crescente letteratura umanistica, corredata da ampi commentari giornalistici, sulla rottura dei legami sociali. Una propensione generalizzata che assume forme diverse a seconda degli ambiti che si considerano, dal lavoro alla dimensione associativa, dalle abitudini ricreative alle tendenze di consumo. Che la parcellizzazione del lavoro nella società industriale fosse un fattore disgregativo non era sfuggito a Karl Marx, che aveva documentato l’alienazione dell’operaio dalla propria essenza, dagli altri, dal prodotto del suo lavoro e dalla sua attività professionale. Herbert Marcuse ha poi aggiornato le tesi marxiane al mutato contesto sociale, ispirando con il suo L’uomo a una dimensione la vena della ribellione sessantottina contro le disumanizzanti leggi della civiltà industriale. Ma il tema della disconnessione dell’individuo dal suo prossimo fa capolino dietro ogni piega della contemporaneità. Gli urbanisti americani lo hanno visto materializzarsi nell’epocale metamorfosi delle periferie che ha cambiato il volto del paese negli anni Sessanta. La scomparsa del front yard, il giardino davanti a casa, per fare spazio al backyard, l’area sul retro, è diventata il simbolo della ritirata dagli spazi comuni, aperti ed esposti alla comunicazione con il vicinato, per rinserrarsi in zone circoscritte e invisibili, aperte soltanto agli invitati. L’atteggiamento Nimby (Not in my backyard) indica appunto l’idiosincrasia verso opere e riforme orientate al benessere della comunità in nome della difesa degli spazi privati. L’angustia del giardino in cui si consuma il barbecue al riparo dagli sguardi altrui è l’immagine di una piú generale riduzione dell’orizzonte mentale. Se la suburbanizzazione che l’America ha inventato ed esportato su scala globale è sostanzialmente coincisa con una introflessione, anche le evoluzioni nei processi produttivi e il nuovo assetto delle economie sviluppate portano in seno il germe della solitudine. L’èra post industriale, dominata dai servizi, non è meno alienante di quella messa sotto accusa da Marcuse. Al centro della scena c’è l’utente-consumatore accuratamente profilato e pedinato da aziende che si contendono la sua attenzione. Algoritmi e intelligenze artificiali sono addestrati per scovare interessi e caratteristiche specifiche del singolo, che diviene obiettivo di strategie di marketing personalizzate, con le pagine web che si modellano attorno alle preferenze di chi guarda lo schermo. Nemmeno la pubblicità, onnipresente comune denominatore delle masse nella società dei consumi, ci unisce piú. La dinamicità della gig economy nasconde una realtà di lavoratori senza una trama di relazioni professionali stabili e spazi di co-working che sono efficienti incubatori di solitudini, piú che laboratori di incontro creativo. L’industria alimentare genera profitti davvero generosi sui prodotti monoporzione.Ancora meglio se pronti per la consegna a domicilio in appartamenti che, sempre piú spesso, sono abitati da una persona soltanto. L’impatto della rivoluzione digitale, e in particolare dei social network, sul tessuto delle relazioni umane merita una trattazione a parte. Ma i paradossi della filter bubble e dell’iperconnessione che ci allontanano invece di unirci s’inscrivono in un piú vasto processo di separazione fra esseri umani. La rete ha accelerato e amplificato tendenze già in atto. Il parallelo proliferare degli studi di carattere medico e della saggistica culturale sulla solitudine ha reso il tema un enigma da risolvere per decifrare la nostra epoca. Dopo le osservazioni cliniche della scuola neo-freudiana e quelle dei sociologi del Dopoguerra, primo fra tutti David Riesman, autore del fondamentale La folla solitaria, ci si è cominciati a interrogare sulla natura di questo fenomeno. Che cos’è, esattamente, la solitudine? Un sentimento? Uno stato mentale? La mera separazione fisica dagli altri? Un inestirpabile fatto umano? Una malattia da curare? E, in seconda battuta, come si riconosce la solitudine? Si può misurare? Come si stabilisce il grado di «solitarietà» di una società? Lo psicanalista Harry Stack Sullivan l’ha definita una «esperienza terribilmente spiacevole e travolgente, causata da insufficiente scarica del bisogno di intimità umana» 2. Sullivan, figlio di immigrati irlandesi, cresciuto all’inizio del secolo scorso in una cittadina ferocemente anticattolica nello stato di New York, conosceva per esperienza diretta le miserie dell’emarginazione. Quell’insoddisfatto bisogno di intimità che, per tutta la carriera, ha cercato di afferrare e curare, concentrandosi sulla dimensione interpersonale dei pazienti. La sua definizione è stata traghettata nelle riflessioni degli anni Settanta da Robert Weiss, decano degli studi sull’isolamento sociale, che per primo ha riunito il gotha degli esperti in materia per tentare di identificarne l’essenza. Lo psichiatra americano ha dedotto che la solitudine è una malattia cronica che non dà pace e non offre possibilità di redenzione. Questa condizione è una ferita insanabile nel mondo contemporaneo, non uno stato passeggero o l’anticamera di un qualche approdo mistico. La meticolosa analisi sviluppata da Weiss non ha risolto però il rompicapo connesso alla sua natura: a volte la presenta con i tratti impalpabili e cangianti di un’emozione, in altri casi la fa coincidere con la separazione fisica fra gli individui, un dato oggettivo che si può agevolmente quantificare. Nel tentativo di sciogliere questa duplicità e offrire uno strumento d’indagine, sul finire degli anni Settanta un gruppo di ricercatori della University of California Los Angeles (Ucla) ha messo a punto una scala per misurare la solitudine, che si è imposta come indice fondamentale per lo studio del fenomeno. Tale metodo correggeva precedenti scale nate da criteri troppo intricati o soggettivi per dare risultati affidabili. Nella sua versione originaria era fondata su venti affermazioni alle quali gli intervistati dovevano rispondere in base alla frequenza con cui sperimentavano un certo stato (mai, spesso, a volte, sempre). Il questionario, composto di proposizioni in forma esclusivamente negativa, si apre con «sono infelice nel fare cosí tante cose da solo» e contempla situazioni di esplicito isolamento (« mi sento isolato dagli altri»). Poi s’addentra anche in territori emotivi piú incerti e scivolosi, indagando la percezione di non essere compresi, di non avere nessuno che davvero ci capisca o al quale affidarci in caso di bisogno e la difficoltà nel fare nuove amicizie. L’ultimo elemento del questionario sintetizza uno dei paradossi della solitudine dell’èra contemporanea, dove tutto è a un clic di distanza: «Le persone sono intorno a me, ma non con me». La Ucla Loneliness Scale è per la solitudine un po’quello che il Pil è per l’economia, ma non è l’unico metodo per misurare il grado di solitudine di una comunità. La sociologa olandese Jenny de Jong Gierveld ha concepito una scala per quantificare, con un’unica indagine, due aspetti collegati eppure distinti, quello «sociale» e quello «emotivo». La solitudine sociale si manifesta quando il circolo di amicizie e relazioni stabili è piú ristretto di quanto si desidererebbe, mentre quella emotiva riguarda il livello di intimità che il soggetto vorrebbe con i suoi confidenti piú vicini, ma che non riesce a raggiungere. La prima considera la dimensione quantitativa delle relazioni, la seconda implica una valutazione qualitativa e osserva la profondità dei rapporti di amicizia. La solitudine, secondo questo modello, è la discrepanza fra ciò che si vuole e ciò che si ha, il minaccioso fossato che divide i desideri dalla realtà. Tuttavia, nemmeno i metodi di misurazione che hanno resistito ai test di generazioni di esperti possono spiegare le cause remote della solitudine. Tentare una sociologia dell’animo umano è un’impresa destinata al fallimento, checché ne dicano i sostenitori dell’onnipotenza delle scienze umane. Ciò che la moltiplicazione di studi, indicatori e scale ha contribuito a creare, però, è una generale presa di coscienza rispetto a questo male oscuro della nostra epoca. Cosí il fenomeno è apparso nei radar dell’opinione pubblica di tutto l’occidente, si è fatto largo nelle aule dei parlamenti, attorno alla questione è fiorita un’ampia letteratura e reti associazionistiche si sono mobilitate. Tutti, scienziati e politici, hanno lavorato alacremente per comunicare al pubblico che noi, occidentali perlopiú istruiti e professionalmente performanti, siamo sempre piú soli. E questa condizione contagiosa ci sta uccidendo. Vivek Murthy, che dal 2014 al 2017 è stato surgeon general degli Stati Uniti, una specie di medico della nazione che detta le linee guida in fatto di salute pubblica, ha elevato la solitudine al rango di emergenza da fronteggiare non soltanto a suon di convegni e buone intenzioni, ma con la potenza di intervento di cui soltanto i governi sono capaci. In un’intervista del 2017 ha ricordato le domande che gli facevano quando studiava Medicina a Boston: «Mi chiedevano: qual è la malattia piú diffusa che vedi? Il diabete? Le malattie cardiache? Il cancro? Rispondevo che non era nessuna di queste: la malattia piú diffusa che vedo in America è l’isolamento, un isolamento che nasce dalla mancanza di significato» 3. Appoggiandosi sulla copiosa mole di testi scientifici disponibili, Murthy ha spiegato che questo problema è «associato a una riduzione dell’aspettativa di vita simile a quella causata da quindici sigarette al giorno ed è maggiore di quella legata all’obesità». Il lavoro di Julianne Holt-Lunstad, psicologa della Brigham Young University, mostra che i danni causati dalla solitudine sono quattro volte superiori a quelli dell’inquinamento atmosferico. Un’altra mastodontica metaricerca ha incorporato, razionalizzandoli, centinaia di studi indipendenti e ha osservato per sette anni un campione di quasi tre milioni e mezzo di persone in tutto il mondo. I risultati mostrano, fra le altre cose, che la probabilità di avere un infarto cresce del trenta per cento nelle persone che vivono uno stato di solitudine permanente; aumenta anche l’incidenza delle malattie cardiovascolari, la pressione alta, gli stati di ansia. Il rischio di morte sale del trentadue per cento per chi abita da solo. E la gran parte dei dati è stata raccolta prima dell’esplosione dei social network e della diffusione capillare dello smartphone, dunque l’alienazione da eccesso tecnologico non può essere l’imputata unica in questo processo. Altri studi hanno rilevato correlazioni fra solitudine e attacchi di cuore, disordini alimentari, insonnia, abuso di droghe, alcolismo, depressione. Durante i mondiali di calcio i suicidi diminuiscono, presumibilmente per quello spirito di appartenenza e solidarietà che pervade il mondo per qualche settimana. Alzata la coppa, la flessione statistica torna ad appianarsi. Qualche ricercatore sostiene che chi ha poche relazioni stabili sperimenta un’accelerazione nel declino delle facoltà cognitive ed è piú esposto all’Alzheimer. In molti casi la solitudine non è che la causa indiretta delle patologie. Spesso favorisce cattive abitudini che possono condurre sull’orlo dell’abisso. Nessuna condizione può azzerare volontà e libertà dei singoli individui, ma non serve aver sperimentato il gorgo nero dell’isolamento per sapere che da soli tutto è piú difficile. Avere una persona accanto è una spinta formidabile per mangiare cibi piú sani, mantenersi in forma ed evitare di lasciarsi andare. C’è chi nella comunità scientifica sostiene che la strada che collega il fenomeno alla malattia è a doppio senso: la solitudine conduce agli stati patologici, ma sono anche le malattie a spezzare i legami sociali. Non è sempre facile distinguere le cause dalle conseguenze. Tutto questo associare e correlare ha prodotto a volte qualche esagerazione. Un documento pubblicato nel 2004 dalla American Sociological Review sosteneva che un americano su quattro non ha nessuno con il quale confidarsi, un preoccupante balzo indietro rispetto agli anni Ottanta, quando la statistica parlava di uno su dieci. Bastava tornare indietro di pochi decenni per osservare un panorama relazionale piú luminoso. Si è scoperto qualche anno piú tardi che i dati su cui si basava lo studio erano fasulli. Molte persone che non avevano voluto rispondere ai quesiti dei ricercatori erano state erroneamente incluse nel novero degli americani senza amici stretti, invalidando il campione. Nonostante la correzione pubblicata dalla rivista, la statistica gonfiata continua a essere citata regolarmente dai media. Anche le iperboli e le falsificazioni hanno contribuito a fare della solitudine un’emergenza globale. Murthy non l’ha citata, quando i membri del Senato, chiamati a confermare la sua nomina, gli hanno chiesto di elencare le minacce piú gravi per la salute degli americani. Ha parlato dell’obesità, della smisurata diffusione degli oppiacei, del diabete, dell’inquinamento, si è riferito alla depressione e ad altri disturbi mentali. La solitudine non era fra le sue priorità. Lo è diventata dopo, una volta che il surgeon general ha preso a tracciare linee di collegamento fra le epidemie piú gravi, rinvenendo analogie e denominatori comuni. «Alcuni di questi problemi apparentemente insolubili, che sembrano resistere alle nostre soluzioni semplici, ci hanno spinto a domandarci: c’è qualcosa di piú profondo che sta succedendo? Qualcosa di piú profondo che contribuisce agli stati depressivi?» È allora che ha riconosciuto l’isolamento come precondizione, postura esistenziale che catalizza un vasto insieme di stati patologici, pur non essendo, in sé, una malattia con sintomi e decorso perimetrabili. È l’invisibile concime che fertilizza la coltura della morte. Smarcandosi dal suo raggio d’azione professionale, il medico scelto da Barack Obama come guardiano della salute pubblica s’è avventurato in una lettura antropologica del problema, che fino a quel momento aveva osservato solo in termini clinici: A un livello piú profondo, il problema è che tipo di società vogliamo essere. Siamo una società che crede che ogni vita ha davvero un valore? Ci battiamo gli uni per gli altri, non solo quando è facile ma anche quando è difficile? E infine, siamo una società che rifiuta di essere governata dalla paura, che è la malattia da cui siamo affetti oggi, ma che sceglie invece di alzarsi, di unire le forze per costruire una società informata e ispirata dall’amore? La scelta che abbiamo davanti è fra l’amore e la paura. Questa è la domanda piú importante che dobbiamo fare a noi stessi4. Mettendo l’accento sulla dimensione morale della solitudine, Vivek Murthy e i suoi alleati nell’opera di ricucitura della società sfilacciata hanno riportato un tema ancestrale al centro della scena odierna. E non hanno soltanto scosso le coscienze, ma hanno ispirato iniziative di governi e istituzioni internazionali. Il quadro clinico. Lo psicologo John Cacioppo ha avuto una specie di rivelazione quando è miracolosamente sopravvissuto a un incidente stradale devastante. Ha capito allora che l’amore e le connessioni sociali sono ciò che davvero importa nella vita, e ha deciso di occuparsi del loro studio in maniera sistematica. Cacioppo è stato l’esperto che ha contribuito di piú negli ultimi decenni all’analisi della solitudine e dei suoi effetti da un punto di vista scientifico. Negli anni Novanta è diventato uno dei pionieri della branca interdisciplinare chiamata neurologia sociale. Fino alla sua morte, nel 2018, Cacioppo è stato accompagnato nella vita e nella ricerca dalla moglie Stephanie, che condivideva con lui anche la scrivania alla University of Chicago. L’assunto da cui parte è che gli uomini sono animali socievoli, strutturalmente desiderosi di relazioni, e questo tratto è dimostrato tanto dalla psicologia evolutiva quanto dagli studi etnografici. Fin dalla prima infanzia, gli uomini procedono per imitazione dei propri simili, si identificano con gli altri, si nutrono di rapporti affettivi senza i qualiprovano un sentimento di paura di una specie del tutto particolare. Anche l’osservazione dell’organizzazione dei popoli conferma un elemento sociale dominante: Cacioppo ne ha avuto prova esaminando alcune popolazioni remote che in età moderna hanno continuato a vivere da cacciatori-raccoglitori. Il loro sistema elementare, fortemente sociale, proverebbe che i condizionamenti esterni e la produzione di strumenti culturali sofisticati non sono elementi necessari di questo innato bisogno dell’altro. «Ora la maggior parte dei neuroscienziati ritiene che per decine di migliaia di anni a guidare l’espansione del manto corticale del cervello umano, e l’ampliamento della sua connettività interna, sia stato il bisogno di inviare e ricevere, di interpretare e riferire messaggi sociali sempre piú complessi. In altre parole, è stato il bisogno di avere a che fare con gli altri che ha fatto di noi quelli che siamo oggi» 5, ha scritto Cacioppo in un fondamentale saggio del 2008. L’idea è che l’uomo ha accresciuto e sviluppato nel tempo la necessità di legami, e questo lo ha portato a diventare un essere sempre piú sociale anche dal punto di vista biologico e neurologico. L’intera storia umana è segnata da egoismi, comportamenti antisociali e ovviamente dalla violenza, ma «il cervello piú sviluppato –capace di tenere traccia di miriadi di collegamenti complessi –insieme all’impulso di evitare la sofferenza della solitudine mantenendo questi collegamenti, continuò a fornire un vantaggio per la sopravvivenza sufficiente a far sí che le caratteristiche prosociali diventassero dotazione ordinaria di tutti gli esseri umani, tranne pochissime eccezioni» 6. Le osservazioni di Cacioppo sono in linea con quelle proposte da un grande psicologo di nome Abraham Maslow, il quale nel 1943 ha formulato una teoria delle motivazioni umane in un articolo che ha fatto scuola. Maslow ha compilato una gerarchia dei bisogni essenziali degli uomini, disponendola in una piramide: alla base ci sono le necessità fisiologiche, in cima l’auto-realizzazione. Ci sono sei gradini nella piramide: solo quando il primo bisogno è soddisfatto si può passare al secondo, poi al terzo e cosí via. Questa è la regola fondamentale di uno schema teorico che viene usato ancora oggi in psicologia. Subito dopo i bisogni fisiologici primari –il cibo, innanzitutto –e l’esigenza di sicurezza –un tetto sotto il quale ripararsi –, viene l’« appartenenza sociale», che si articola nell’amicizia, nell’intimità e nei legami famigliari. Senza una risposta adeguata a questi bisogni, non si può passare al livello successivo, quello dell’autostima. Sintetizzando in maniera stringata il complesso pensiero maslowiano, si può dire che il compimento di una vita umana passa in modo necessario e inevitabile attraverso la dimensione dell’appartenenza. Senza il senso di legami essenziali, la strada per la realizzazione di sé è bloccata. Questa spiccata, dominante socievolezza, riconoscibile in tutte le stagioni e i contesti dell’esperienza umana, non si presenta senza elementi di tensione. La vita di ogni persona si svolge all’interno di una costante dialettica fra l’io e l’altro, fra individualità e rapporto. Il neonato si calma quando si appoggia al corpo nudo della madre perché non ha ancora imparato la differenza fra sé e lei. La vita adulta è segnata invece dall’affermazione dell’indipendenza individuale, ma sempre all’interno di un reticolo di legami. Cacioppo ha paragonato spesso la solitudine alla fame o al dolore, «un’intimazione a fare qualcosa per modificare una condizione sgradevole e forse pericolosa» 7. Il «dolore sociale» che si prova nel perdere contatto con un gruppo è un invito, emotivamente assai convincente, a recuperare il livello di connessione necessario per sentirsi protetti e accolti. La solitudine, per Cacioppo, è legata a doppio filo alla paura. Da una parte, non c’è paura piú terribile di quella di rimanere soli. «Se vi trovaste a passare la notte in un villaggio nella savana e se nel buio vedeste brillare debolmente gli occhi dei leoni appena al di là dell’anello dei fuochi per cuocere il cibo, potreste iniziare a capire perché, per i primi esseri umani, le sensazioni di isolamento erano collegate alla paura, la paura che sta ancora al centro della nostra esperienza della solitudine» 8. Dall’altra parte, il disagio che sprona a cercare compagnia è anche lo stesso sentimento che rende socialmente inadeguati, respingenti o fuori luogo. Chi ha paura tende a esagerare le difficoltà, reagire in modo impulsivo e scaricare le colpe sugli altri. Studi clinici citati da Cacioppo dicono che chi è impaurito impiega piú tempo a recuperare lo stress accumulato nella vita quotidiana. L’impulso che ci spinge è anche il freno che ci blocca. Cacioppo ha tentato a lungo di descrivere le conseguenze cliniche di questo stato diffuso. Ne ha concluso, ad esempio, che «la solitudine cronica aumenta le probabilità di morte prematura del venti per cento», percentuale che la rende analoga all’obesità. Ma, aggiunge lo studioso, «l’obesità non è umanamente cosí devastante». Un altro aspetto su cui si è concentrato è l’analisi del rapporto fra solitudine e depressione. La vulgata vuole che la prima possa essere interpretata come un’anticamera della seconda. Lo psicologo sostiene invece, basandosi su analisi neurologiche, che solitudine e depressione sono due dimensioni distinte dell’esperienza. «Anche dal punto di vista diagnostico, sappiamo che la depressione è diversa, tra l’altro perché non provoca la stessa costellazione di reazioni suscitate dalla solitudine. La solitudine stimola un desiderio di associazione, ma provoca anche sensazioni di minaccia e di terrore. Quando l’esperienza si fa piú intensa, la sensazione di minaccia stimola la tendenza a criticare gli altri. La solitudine rispecchia come ci si sente riguardo alle relazioni con gli altri. la depressione rispecchia come ci si sente, punto e basta» 9. C’è però un elemento comune fra questi due fenomeni: la diminuzione del «controllo personale». Le persone isolate tendono a ritirarsi nella passività, a crogiolarsi nell’apatia. Chi è solo rischia facilmente di cronicizzare la propria condizione, creando uno scenario dove potrebbero comparire sostanze stupefacenti o, com’è sempre piú frequente, oppiacei che anestetizzano e conducono docilmente verso il baratro, quasi un suicidio al rallentatore. La diminuzione dell’autocontrollo è in contrasto con le ragioni per cui la solitudine esiste, cosí come sono descritte dalla maggior parte dei ricercatori che hanno affrontato il fenomeno dal punto di vista clinico e biologico. La condizione di paura e disagio dovrebbe essere il motore della liberazione, cioè del ritorno a una rete di relazioni necessarie, mentre invece è l’inizio di una spirale negativa. Per tutta la vita Cacioppo s’è affannato su questo paradossale rompicapo, senza giungere a un’ipotesi chiara attorno alla natura della solitudine e ai metodi efficaci per contrastarla. A ogni modo, se conosciamo molto di questo morbo, è soprattutto grazie al lavoro pionieristico e interdisciplinare di studiosi come lui. Le vaste parti descrittive della sua opera poggiano su un monumentale impianto di dati e ricerche, cosa che gli ha permesso di tracciare un quadro clinico dettagliato del problema. Quando però si avventura nell’interpretazione, collegando i dati neurologici a quelli culturali e antropologici alla ricerca di soluzioni, l’impianto si fa piú fragile, il ragionamento vacilla. Come combattere questo male che si può misurare ma non si lascia afferrare? Cacioppo sostiene che l’unico modo per affrontarlo è prenderne coscienza, per esorcizzarlo. Indica il self-help come la via maestra per un corpo a corpo serrato con la solitudine, ributtando il problema nel campo delle abilità individuali, dell’introflessione, dell’autocoscienza. Sembra di vedere il Barone di Münchhausen che emerge indenne dalle sabbie mobili tirandosi per i propri capelli. Figure della solitudine contemporanea. La sera del 4 maggio del 2000 un ragazzo di diciassette anni armato di un grosso coltello da cucina è salito su un autobus nella cittadina di Dazaifu, nel sud del Giappone, prendendo in ostaggio l’autista e venti passeggeri. Un’ora prima dell’assalto, con il nome di Neomugicha, si era connesso su 2channel, il portale piú frequentato dai giovani giapponesi, dove aveva annunciato le sue intenzioni criminali. Gli utenti lo avevano ridicolizzato, bollandolo come il solito mitomane che non si avventura oltre la tastiera. Per dimostrare che faceva sul serio, il giovane ha sgozzato un passeggero mentre le televisioni trasmettevano in diretta le immagini del sequestro. Ne ha feriti altri due piú tardi, pochi istanti prima che le forze speciali facessero irruzione nel veicolo per arrestarlo. Ligia alle regole sulla diffusione delle generalità dei minorenni, la stampa giapponese non ha mai rivelato il vero nome dell’attentatore, che dopo quattro anni fra il riformatorio e i servizi sociali è stato rimesso in libertà. Il delitto è passato alla storia come l’incidente di Neomugicha, enigmatico episodio di cronaca nera senza un movente, con un attentatore senza nome e il volto pixellato. La particolarità della vicenda è che, prima dell’attentato, Neomugicha non era uscito per anni dalla casa dei suoi genitori. Dicono che sgusciasse fuori dalla camera soltanto qualche volta, di notte, per entrare di nascosto nella fabbrica di manichini dall’altra parte della strada, e lí trovare qualche fugace piacere negli attriti con il silicone. Per il resto, il ragazzo viveva in una specie di esilio volontario permanente, circondato da fumetti e videogiochi. La chat era l’unica forma di rapporto con il mondo esterno che aveva conservato: 2channel offriva l’allora inesplorato brivido della costruzione di un’identità digitale piú attraente di quella reale. Neomugicha era quello che i giapponesi chiamano un hikikomori, un giovane eremita postmoderno che si rinchiude in casa e lí consuma la propria vita in solitudine, rinunciando a tutti i rapporti umani a eccezione di quelli mediati –e opportunamente distorti –dalla tecnologia. L’hikikomori rifiuta di andare a scuola, non lavora, non rispetta convenzioni e doveri, non partecipa alla vita famigliare, non si assume responsabilità e riduce al minimo le interazioni. Esaminare la ritirata dalla vita sociale è essenziale per tentare di afferrare le contraddizioni odierne del Giappone, paese in una fase di rapidissimo invecchiamento, dove molti giovani si asserragliano dentro i loro gusci esistenziali per non uscirne piú. Non era certo la prima volta che un giovane in un simile stato di isolamento si lasciava andare a uno sfogo violento. Nel 1996 un ragazzo delle scuole medie aveva ucciso il padre a bastonate. Mesi prima la madre era andata via da casa, non potendo piú tollerare le sempre piú frequenti esplosioni di rabbia del figlio. Tutti i tentativi di aiutare il ragazzo a riemergere dalla propria prigione erano andati a vuoto. Anzi, piú i genitori agivano in modo deciso per spezzare il cerchio della solitudine, piú il ragazzo diventava aggressivo. Era una tragedia scritta, in attesa di essere consumata. Diversi casi analoghi si sono poi susseguiti, ma sono stati rapidamente archiviati come fatti di cronaca nera, tremendi e incomprensibili atti di follia omicida slegati da una tendenza specifica e associati genericamente a turbe psichiche. *