Friederich Glauser
Il vecchio stregone
Dalla stazione alla stretta diramazione per Walkringen la strada era ancora asfaltata, non c’era male, e il commissario di polizia Studer non imprecava troppo, sebbene piovesse a dirotto e soffiasse un vento d’autunno alquanto molesto. A parte il vento, l’unica cosa che faceva pensare il commissario era il Rösti1 che sua moglie gli aveva servito la mattina. Perché al Rösti per colazione il commissario Studer ci teneva, suo padre, un contadino dell’Emmental, lo mangiava a colazione, suo nonno anche; perché lui avrebbe dovuto fare un’eccezione? Ma che stesse invecchiando era un dato di fatto, la digestione non funzionava più come prima, il Rösti gli faceva venire il bruciore di stomaco. Studer ne diede la colpa allo strutto cattivo che sua moglie aveva usato per risparmiare. Quello strutto era un intruglio moderno. Pestò le pozzanghere con le suole pesanti, si strinse nell’impermeabile di gomma. Con quel tempaccio non si riusciva neanche a fumare.
Ecco la diramazione, ci passava appena un carro del liquame, il lato destro digradava ripido verso un ruscello, a sinistra saliva verso l’alto un bosco grondante di pioggia. Il commissario pensava a cose che si pensano proprio quando piove a dirotto e si ha freddo. Una serata trascorsa giocando a Jaß,2 il suo ufficio, suo figlio, che stava per terminare il tirocinio da compositore. Studer aveva una faccia piena e rubiconda, che ora aveva assunto una leggera sfumatura azzurrognola, e un paio di baffi castani che ispiravano fiducia. Tra gli incisivi inscuriti dal fumo sputava ad arte, come un bambino di otto anni, una traiettoria lunga e diritta, e la pioggia non poteva nulla contro tanta abilità, e neppure il vento: Studer ne era felice. Che invece la pioggia gli scendesse giù per le maniche fin nelle tasche gli dava molto fastidio, sicché non sapeva bene che faccia fare. Con quel tempaccio era assai difficile imporre la propria volontà e decidere che faccia fare, perché ogni tanto la pioggia gli entrava negli occhi con le sue dita bagnate, e la larga tesa del cappello non bastava a difenderlo da quegli attacchi proditori.
La strada si fece erta, Studer imprecò, scosse la testa e le gocce di pioggia schizzarono dalla tesa del cappello. In fondo, pensò, se si trovava lì a vagare sotto la pioggia non era colpa del comandante della polizia cantonale. Di solito lassù non si dava molta importanza alle lettere anonime, ma questa volta il caso sembrava un po’ diverso, e tutta la vicenda era piuttosto intricata. Non era ben chiaro da che parte si dovesse incominciare, o quello era un tentativo di prendersi gioco delle autorità, e in tal caso bisognava essere doppiamente prudenti, o dietro c’era qualcosa di molto grosso, un processo sensazionale forse, e allora sarebbero arrivati giornalisti stranieri, e a lui sarebbe toccata un po’ di fama internazionale. Niente male. Mio Dio, non che ne avesse bisogno, era già conosciuto nell’ambiente, soprattutto a Vienna, anche a Parigi, uno o due casi internazionali piuttosto difficili (metà spie, metà ladri) erano caduti nella trappola svizzera. Doveva accontentarsi, soprattutto ora che la pensione era abbastanza vicina – cinque anni, avrebbe resistito ancora cinque anni. Ma leggere il suo nome, sul «Journal» per esempio, con aggettivi lusinghieri, non era da disprezzare. Più o meno in questi termini: «Le distingué inspecteur de la sûreté Studer, dont le talent remarquable est bien connu dans les milieux policiers…», e forse anche la fotografia. Eh sì, i francesi ci sapevano fare, la stampa svizzera era più avara di lodi. Ed ecco comparire un pagliaio a destra della strada. Ci si può riparare un po’, pensò Studer, e si tastò il taschino. Per fortuna sua moglie gli aveva preparato del cognac, il calore del corpo doveva averlo intiepidito, e in quel diluvio universale gli avrebbe fatto bene riprendere un po’ di vigore. Studer si avvicinò al pagliaio, la paglia era asciutta, ne prese una manciata, la strofinò sulle scarpe bagnate, si asciugò le mani in un fazzoletto pulito e trasse di tasca la lettera che aveva messo in allarme il comandante. Solo poche righe:
«Il contadino Berthold Leuenberger di Walkringen seppellisce la quarta moglie. Ha sessant’anni, le tre ultime mogli sono morte nell’arco di tre anni. Erano tutte giovani. Lui dice che l’acqua del suo podere è cattiva. Molti non la pensano così. Quando si deciderà a intervenire la giustizia? Se l’acqua del podere è cattiva, perché lui non si è mai ammalato, né le bestie, né il garzone, né i lavoranti? Adesso se ne va in giro, il contadino, come un leone che ruggisce, alla ricerca della preda da divorare. Ma se il tribunale degli uomini se n’è dimenticato, il tribunale di Dio è sopra di lui».
La calligrafia era contraffatta, la carta grossolana, ricoperta da un reticolo sottile di rettangoli oblunghi. La conclusione lasciava supporre che la lettera fosse stata scritta da un bigotto, un conoscitore della Bibbia. Tre mogli in tre anni, strano. Ma i certificati di morte dovevano essere in ordine, Studer aveva cercato nell’elenco telefonico insieme al comandante, e aveva trovato il nome di un medico noto per la sua coscienziosità. Tempo addietro aveva lavorato all’ospedale, in caso di incidenti la polizia aveva avuto più volte a che fare con lui, era una persona irreprensibile. Ma tutti sanno come vanno le cose in una condotta di campagna, non c’è molto tempo quando si deve andare in giro a far visite… e errare è umano, si sa.
Studer continuò il suo cammino faticoso, il tempo si schiarì appena, la pioggia cessò, ma sulla campagna calò una nebbia impenetrabile e bianca. La nebbia era così fitta che Studer non vide subito le case del paesino di Walkringen. Un ragazzo con i pantaloni corti che gli arrivavano fino a metà dei polpacci nudi, gli zoccoli ai piedi, gli passò accanto con passo pesante. – Dov’è la locanda? – chiese Studer. Dapprima il giovane lo guardò a bocca aperta, quindi con una sudicia mano di fanciullo indicò diritto, poi a sinistra e alzò le cinque dita tese. – Sei muto? – Il ragazzo annuì. Allora la quinta casa a sinistra, pensò Studer, e continuò faticosamente per la sua strada.
La saletta attigua alla minuscola bottega era piccola, bassa e buia. Doveva mancar poco a mezzogiorno. Studer si tolse l’impermeabile gocciolante, si tese il gilè sulla pancia, si tolse anche la giacca che aveva i polsi inzuppati e si sedette. Poi trasse di tasca l’orologio (un orologio d’oro, piatto, che gli era stato regalato per il ventesimo anno di servizio), segnava le dieci. Era presto. Aveva tempo. La saletta rimase a lungo deserta, non compariva nessuno, c’era quell’odore un po’ nauseabondo (ancor più difficile da sopportare a stomaco vuoto) di birra stantia e fumo freddo di pipa. Finalmente comparve sbadigliando una ragazza, che trascinava le pantofole con aria svogliata. Studer ordinò un tre decilitri di rosso e una porzione di prosciutto. Il prosciutto era buono, Studer lo cosparse di abbondante senape, anche il vino non era male. La sala era ben riscaldata, l’aria umida non riusciva a entrare dalla doppia finestra. Studer si sentì meglio, i suoi occhi acquistarono uno splendore chiaro e asciutto, ed egli rifletté sul modo migliore di avvicinare la giovane. Questa cameriera doveva esser stata a servizio in città, aveva i capelli scompigliati dalla permanente, l’abito di seta artificiale, già un po’ liso, ne era la conferma. Per Studer sarebbe stato un errore psicologico invitare una ragazza di paese a una «consommation», come dicevano a Ginevra, ma qui si poteva rischiare. La ragazza stirava dei grembiuli inamidati accanto alla grande stufa di maiolica che veniva alimentata dalla cucina. Studer batté sul tavolo. Era il vecchio commesso viaggiatore perbene, che si concede volentieri una piccola distrazione, sebbene questa volta la distrazione costasse qualche sforzo. Quando la ragazza si avvicinò con aria imbronciata, lui chiese invitante se non volesse prendere qualcosa anche lei, faceva così freddo fuori. La giovane andava matta per il vermut, prese la bottiglia polverosa dalla mensola, disse «Excusez» e «Se permettete», e pigiò il suo corpo magro contro il commissario. E il discorso si sciolse. Studer se la prese comoda (bisogna sempre prendersela comoda), vendeva fertilizzanti, soprattutto le scorie Thomas adesso si compravano bene, un ottimo fertilizzante a base di fosforo, ma prima voleva informarsi un po’ sulla gente della zona. L’automobile l’aveva lasciata alla stazione, perché la strada era troppo brutta. E continuava a chiacchierare, e la ragazza si annoiava e sbadigliava. Era bene che sbadigliasse, che sbadigliasse con tanta sincerità, segno che credeva alla sua storia. E incominciò cautamente a parlare dei contadini dei dintorni e a chiedere chi avesse il podere più grande e chi fosse il miglior acquirente, ma voleva sapere solo di quelli che avevano soldi in casa. Gli avevano fatto le lodi soprattutto di Berthold Leuenberger, aveva un podere così grande, ma di solito i poderi grandi sono indebitati, chissà se era il caso di andare a bussare a quella porta. E che bel vestito che aveva la ragazza, si vedeva subito che non era del posto, e che buone maniere, solo come teneva il bicchiere. Era un fiume di parole sommesso, soporifero, soprattutto i complimenti, perché Studer aveva notato un lieve spavento scuotere il corpo magro accanto a lui, quando aveva fatto il nome di Leuenberger. Tagliuzzò il suo prosciutto. Allora, questo Leuenberger, valeva la pena andarlo a trovare per primo? Veniva spesso alla locanda? Gli occhi smorti della ragazza ebbero uno strano tremolìo. Leuenberger aveva fatto il banchetto funebre da loro il giorno prima. – Banchetto funebre? – chiese il commissario, chi era morto? – Sua moglie.
Allora non conveniva andarci oggi. La ragazza soffiò una risata, vuotò il bicchiere, chiese in tono confidenziale se poteva berne un altro, il commissario annuì, sarebbe stato certo un vantaggio se quella donnicciola fosse stata mezza ubriaca.
E continuò a indagare. E così Leuenberger aveva fatto il banchetto funebre lì, quanti anni aveva, voleva risposarsi? La ragazza faceva la preziosa. Oh, ne sarebbe arrivata una che non credeva a tutto, una coraggiosa. Saltò fuori che quando era ancora viva la moglie, Leuenberger era solito venire di sera alla locanda, e che una donna poteva essere ancora felice con lui. Che uomo è mai, pensò il commissario, questo contadino, non ne ha abbastanza delle quattro mogli che ha sotterrato, no, si prepara la scorta, mentre l’ultima moglie è ancora viva si preoccupa già della successiva. Stava per lasciarsi sfuggire la domanda se lei non avesse paura, le mogli di Leuenberger non avevano una buona stella, ma fece appena in tempo a ingoiarsi quella considerazione, esaminò con cura la foglia esterna del sigaro (odiava accenderlo dalla parte sbagliata) e tacque. Perché adesso conveniva tacere. Il fiume di parole scorreva per conto suo, come se avessero spillato una botte, il vermut aveva fatto il suo effetto. Bastava non interrompere. Si ricordava oscuramente che all’inizio della carriera un vecchio giudice istruttore gli aveva dato questo consiglio: rendersi invisibili quando l’interlocutore incomincia a parlare. Ma non aveva più bisogno di quel consiglio, sapeva che durante gli interrogatori dei testimoni e le confessioni imminenti, il silenzio era un mezzo coercitivo così forte che al confronto le persecuzioni medioevali erano solo uno spauracchio per bambini.
E venne a saperne abbastanza, il commissario, venne a saperne abbastanza per farsi un quadro quasi completo di quel Leuenberger. La ragazza lo descrisse benissimo, un uomo alto, magro, i capelli ancora castano scuro nonostante l’età. Ben rasato. Con la prima moglie aveva vissuto trent’anni. La coppia non aveva avuto figli. Poi la moglie era morta di polmonite, dieci anni prima. Era una donna devota, ma il contadino non si era mai fatto vedere in chiesa, nemmeno all’ora di catechesi. Dopo la morte della moglie era rimasto solo, e aveva amministrato il podere con una serva e tre garzoni. Aveva una cattiva fama, si diceva che avesse stretto un patto col diavolo. La ragazza rise, e mostrò le otturazioni d’oro (un lavoretto modesto, pensò Studer, un prodotto della clinica odontoiatrica), lei non ci credeva, ma era un fatto che molti andassero da Leuenberger, venivano da tutte le parti per chiedergli consiglio quando nella stalla c’era una qualche malattia, e anche quando il dottore non sapeva più cosa fare con la gente. Andava d’accordo con il dottore, Leuenberger, disse la ragazza, per le malattie delle mogli aveva sempre chiamato il medico, il dottor Pfister, che era sempre venuto una volta o due, Leuenberger lo aveva chiamato, ma il medico non era riuscito a trovare niente di preciso. Catarro intestinale, in tutte e tre, una volta aveva pensato perfino al tifo, con la seconda moglie, ma non aveva potuto verificare, perché la moglie era già morta. Eh sì, Leuenberger era molto odiato, soprattutto dalle persone devote, erano state loro a mettere in giro la voce che avesse stretto un patto col diavolo; come se esistesse davvero, un diavolo! La ragazza soffiò ancora quella sua risata, lei era istruita, disse; prima di venire in quel paesucolo aveva un buon posto in città, e adesso qui era come vivere sulla luna, tra quegli incolti. Ma Leuenberger, lui era il migliore dei dintorni, sempre garbato, diceva sempre «signorina Rosa», e una volta aveva perfino chiesto se non le sarebbe piaciuto essere sua moglie, se fosse rimasto ancora vedovo. Perché no? Lei non credeva a tutto quello che gli altri andavano raccontando, e paura non ne aveva neanche un po’. Come moglie di Leuenberger non avrebbe avuto più pensieri, sarebbe stata bene, e Leuenberger le aveva promesso che sarebbe potuta andare a Berna quando avesse voluto, era già molto tempo che pensava di comprarsi un’automobile. E se avesse potuto andare a trovare le sue vecchie amiche e trionfare su di loro, si sarebbe misurata col diavolo ben volentieri, e anche con sua nonna. Ma adesso doveva dare una mano in cucina, si meravigliava che la padrona non fosse ancora venuta a chiamarla, doveva preparare il pranzo, anche il signore voleva mangiare lì? Sì, disse Studer, sarebbe tornato verso la mezza per il pranzo, ora sarebbe andato a bussare a qualche porta, per via dei fertilizzanti.
L’impermeabile era asciutto, fuori un sole tisico cercava di bere la nebbia lattiginosa, ma faceva fatica, ce n’era troppa; rinunciò, era leggermente arrossito per lo sforzo. Il commissario di polizia Studer camminava tra le poche case che costeggiavano la strada di paese, entrava qui, entrava là, assumeva un’aria perbene e decantava le scorie Thomas. A volte, se la moglie era sola in casa e il marito nel bosco a far legna, veniva invitato in cucina, non era difficile portare la donna sull’argomento desiderato. Ma da tutti i discorsi che Studer fece quella mattina, distillò solo due sensazioni imponderabili: la paura che ogni donna aveva di Leuenberger, e la convinzione che Leuenberger avesse ucciso tre mogli.
Ecco il perché della lettera anonima, ma non si può arrestare un uomo in base a delle voci, a delle convinzioni. Studer divenne insicuro. Chiacchiere di donne, pensò, e vide il suo bel processo sensazionale dileguarsi come la nebbia che stava rivelando due graziosi alberelli di un rosso brillante. Splendevano al sole come metallo fuso, e per una curiosa associazione d’idee Studer pensò all’inferno, così come se l’era immaginato da bambino.
Le donne gli avevano già riempito la testa abbastanza di chiacchiere sul diavolo, per tutta la mattina. Già da piccolo Leuenberger era un tipo strano, e vedeva più degli altri. Una vecchissima donna si era ricordata che Berthel, allora appena undicenne, il giorno dei diecimila cavalieri era arrivato a casa verso sera, senza fiato, era crollato sulla soglia, e durante la notte aveva avuto la febbre. Nella febbre parlava sempre di un uomo nero, che cavalcava in groppa a un cavallo nero sulla collina della forca. E il cavaliere, l’uomo sul cavallo, era senza testa, ma faceva un cenno con la mano al bambino. Da quel giorno Leuenberger era cambiato. Aveva sempre letto molto, i grossi volumi di suo padre, anche suo padre era così intelligente, sapeva scacciare le malattie delle bestie con parole magiche, e anche il nonno Leuenberger. Erano arrivati lì da generazioni, i Leuenberger, nessuno sapeva da dove fossero venuti. Forse erano anabattisti, aveva detto la vecchia.
Nessun verbale di autopsia, nessuna denuncia vera e propria, Studer si diede dell’idiota. Prima di arrivare fin lassù avrebbe almeno potuto rivolgersi al medico che aveva curato le donne, e chiedergli se non avesse notato nulla. Il commissario aveva una sensazione sgradevole, rabbrividiva (che si fosse raffreddato la mattina, con quel tempaccio?), era combattuto; doveva tornare alla locanda, pranzare e tornarsene a Berna zitto zitto? Ma c’era qualcosa che lo tratteneva. Non piace fare una figuraccia quando si presta servizio da tanto tempo. E doveva fuggire davanti a questo Leuenberger? Senza che potesse esprimerla a parole, sorse in lui l’oscura convinzione che quei brividi fossero un segno di paura. Macché infreddatura! Quante volte aveva dovuto tener d’occhio qualcuno per strada, con un tempo ancora peggiore di quello! Paura di Leuenberger! Andò avanti furioso, ma così alla cieca che la suola pestò una pozzanghera e l’acqua gli spruzzò i pantaloni. Voleva vedere quel Leuenberger. Macché visioni diaboliche, quello era Medioevo, e adesso rientrava tutto nel campo della psichiatria e delle perizie psichiatriche. Voleva conoscere quel Leuenberger!
Ecco il podere. Studer si accorse che doveva aver sognato, perché ora gli alberelli rossi erano proprio vicini a lui, e quindi non aveva fatto più di dieci passi. Si fece coraggio, i pantaloni bagnati gli sfregavano le ginocchia. Alla sua destra si estendeva un immenso frutteto, vecchi alberi, constatò Studer, ma innestati da poco. E quel frutteto gli ricordò oscuramente qualcosa. Alberi da frutto – parassiti – lotta antiparassitaria.
Che cosa serviva per la lotta antiparassitaria? Arseniato? Studer si fermò un istante davanti alla porta della casa. Gli passò per la mente un processo per avvelenamento in cui aveva testimoniato. Quali erano i sintomi dell’avvelenamento da arsenico? Diarrea? Sì, cos’aveva detto il perito? A volte è difficile accertare un avvelenamento da arsenico, somiglia molto ad altre malattie. Solo l’analisi chimica degli organi interni può dare la sicurezza? Era quello il punto di partenza? Ma perché quel Leuenberger (se era un avvelenatore, e questo non era ancora dimostrato), perché aveva ucciso le sue mogli? Erano tutte povere ragazze, gli avevano detto. Lui non ci aveva guadagnato niente. Perché? Spinse la porta, il commissario Studer, assunse un’espressione perbene ed entrò in cucina. Non c’era nessuno. Qualcuno tossì nella stanza accanto. Studer fece sentire i suoi passi pesanti sulle piastrelle, qualcuno si alzò nella stanza accanto, la porta si spalancò, comparve un vecchio alto che guardò l’intruso.
– Cosa volete? – chiese il vecchio. Studer recitò la sua parte, parlò con fare untuoso di scorie Thomas e fertilizzanti, e chiese se fosse lui il contadino. E mentre parlava, cercava di guardare l’altro negli occhi. Difficile, molto difficile non abbassare le palpebre, reggere quello sguardo. Al commissario venne in mente un vecchio detto: «Quello ne sa una più del diavolo». E mentre Studer continuava a chiacchierare, una paura umida gli salì su per la schiena, gli si annidò sulla nuca, gli invase la testa, lo fece quasi scoppiare, gli occhi gli si riempirono di lacrime, dovette abbassare lo sguardo, poi Studer tacque.
L’altro aspettò, aspettò un bel pezzo. Poi dalla porta giunse una voce stranamente penetrante, il tono di quella voce trasmetteva al corpo delle scosse, non spiacevoli, come una leggera scarica elettrica. – Avvicinatevi, – disse la voce, – siate il benvenuto. Un tempo inclemente per venire in montagna –. Pausa. – Per venire a casa mia, per magnificare i vostri fertilizzanti! Non ci sarà poi tanta fretta. Restate a mangiare qui, mi piace avere un ospite di tanto in tanto, si sente raccontare qualcosa del mondo, e proprio ora siete il benvenuto, ora che sono in lutto.
D’un tratto l’intelletto del commissario Studer aveva dimenticato di funzionare con rigore. Mi rendo ridicolo, pensò passando davanti al contadino nerboruto con il suo corpo tondeggiante.3 Una stanza calda e luminosa, attraverso i piccoli vetri della finestra il sole l’inondava di un giallo liquido. Il commissario aveva la mente confusa. Uno così non l’ho mai incontrato, uno così non l’ho mai incontrato, non faceva che pensare, e si sentiva proprio un novellino, senza superiorità, piccolissimo, come uno scolaretto davanti al maestro. Farà di me ciò che vuole, pensava. Studer, Studer, si disse, se fossi andato alla locanda, se avessi mangiato là e fossi tornato a casa. Studer, cosa ti succede. Hai già messo a terra altra gente, non avrai paura di un contadino come questo. Stai invecchiando, Studer, va’ in pensione.
Il vecchio Leuenberger era affabile, sembrava divertirsi moltissimo a quel gioco muto. Naturale, pensò Studer, non ha creduto affatto alla storia del mio mestiere. Mi ha subito riconosciuto per quello che sono. Ed è così sicuro… una sicurezza imperturbabile. Il comportamento del vecchio Leuenberger fu inappuntabile, non parlò troppo, invitò l’ospite ad accomodarsi sulla panca accanto alla finestra, gli si sedette davanti, tacque. Tacque a lungo.
Studer si fece coraggio. – Così siete in lutto? – chiese con l’aria più innocente che poté, e per un breve istante alzò gli occhi. Lo sguardo di quel vecchio contadino era insopportabile. I suoi occhi sembravano fatti di una pietra opaca, solo in corrispondenza delle pupille uscivano due raggi acuminati, non si poteva chiamarli diversamente, che facevano venire le lacrime. E Studer sbatté le palpebre.
– Sì, – disse Leuenberger, – mia moglie è stata sepolta ieri. Era andata a casa di parenti, ha mangiato qualcosa di cattivo, me l’hanno riportata morente. Il dottore l’ha vista poco prima, poco prima che morisse. Una febbre intestinale. Sì –. E Leuenberger tacque ancora. Aveva incrociato le mani sul tavolo, mani dalle dita lunghe, notò Studer, con le unghie ricurve, unghie giallognole, bombate.
In cucina si aggirava qualcuno. – Rösi, – chiamò Leuenberger con voce dolce, come un miagolìo, e comparve una giovane. – Va’ alla locanda e dì che non aspettino il signore, il signore mangia qui –. La ragazza se ne andò in silenzio. Neanche lei aveva alzato lo sguardo.
– Allora, – disse Leuenberger guardando il vecchio piano del tavolo, – volevate vendermi concimi chimici… vero? – Quando teneva gli occhi bassi non c’era nulla di particolare in quel vecchio contadino, era un vecchio contadino come tanti altri, una papalina rotonda di velluto in testa, ricamata a fiori variopinti di seta. Quale moglie gli aveva ricamato la papalina? pensò il commissario mentre già toccava a lui rispondere, ed ecco ancora quella sensazione sgradevole alle spalle, ricordava, quella sensazione, ciò che si avverte durante una zuffa: bisogna difendersi davanti, e d’un tratto ecco un ammonimento, come se si avessero gli occhi anche dietro, alle spalle c’è uno con il manganello alzato… ed ora colpisce. Il commissario si guardò intorno con timore. Dietro di lui c’era una bassa finestra innocente, nessuno guardava attraverso i vetri, davanti gli sedeva un vecchio, con le mani incrociate. Nessun pericolo lo minacciava. Eppure quella stanza pulita comunicava una sensazione sgradevole – e il commissario gettò una rapida occhiata intorno. Un vecchio armadio, in un angolo l’ampio sedile accanto alla stufa, alla parete una mensola con vecchi libri. Lo sguardo di Studer si fermò sui libri. Leuenberger alzò gli occhi, seguì il suo sguardo, annuì, disse come per rispondere a una domanda: – Vecchi libri, sì, del bisnonno, libri che non si trovano più, con annotazioni a mano. Non amo farli vedere –. E ancora silenzio. In cucina il timido scricchiolìo delle assicelle di legno, la ragazza doveva essere tornata. Strepito di tegami, scorrer d’acqua. Un gallo cantò davanti alla finestra. E neppure un verbale di autopsia, pensò il commissario, come ci si può avvicinare a costui, il gioco deve cominciare. Gli venne in mente un paragone sciocco, dal quale non riusciva a liberarsi: come quando si gioca a Jaß, pensò, l’avversario ha le mani piene di atout, cala l’atout, cala l’atout, spera di prender tutto, ha solo una carta brutta, e al penultimo giro restano ancora in mano due assi, quale bisogna scartare, se si scarta quello sbagliato si perderà. Come in quel momento: l’altro aveva tutti gli atout, ma aveva una carta cattiva, Studer lo sentiva con chiarezza, e doveva scartare, scartare. Se non teneva la carta giusta allora era tutto perduto, tutta la sua vita non avrebbe avuto più alcun valore, qui si stava svolgendo una battaglia, sul suo terreno, anche lui era figlio di un contadino! Dio, i casi internazionali! Non erano poi così intelligenti, e i grossi calibri non arrivavano mai in Svizzera. Ma questo contadino, questo Leuenberger lo irritava, doveva fargliela vedere lui. Intanto il gioco non era ancora incominciato, e dov’era la posta? Stavolta non si trattava di mezzo litro di Fendant,4 era qualcosa di più. Con aria assente Studer prese il fazzoletto di tasca e si terse la fronte. Sudava.
Quel silenzio nella piccola stanza! Era insopportabile. Poi fuori si fece buio, era ricomparsa la nebbia, no, pioveva, le gocce battevano piano piano contro i vetri. Davanti a lui il vecchio tranquillo, con la papalina di velluto e i fiori ricamati. E il contadino giocò il primo atout:
– Vi siete interessato molto a me, signore, – disse con una voce così bassa e indifferente, e rimase tranquillo, solo per un attimo gli occhi di pietra mandarono un lampo. – Cosa volete dire? – chiese Studer senza riflettere, e avrebbe voluto rimangiarsi la domanda, avrebbe dovuto tacere. Il silenzio era la cosa migliore, cos’aveva detto il vecchio giudice? E sospirò pensando: i giudici istruttori hanno un bel parlare, se ne stanno seduti nel loro ufficio, noi abbiamo fatto il lavoro preparatorio, loro troneggiano lassù, hanno autorità. Vorrei vedere un giudice istruttore al mio posto.
Ma anche l’altro sembrava conoscere il gioco, perché tacque anche lui alla domanda del commissario e si limitò a guardarsi le mani incrociate, calmo e zitto. Poi Leuenberger disse con la sua voce tonante: – Sì, ho perso tre mogli negli ultimi anni, ci dev’essere una maledizione sul mio podere, – e sbirciò l’ospite in attesa dell’effetto che avrebbe avuto la parola «maledizione». Ma anche il commissario aveva imparato qualcosa, teneva sì il fazzoletto in mano, ma vi incrociò sopra le dita e annuì con ipocrisia.
La ragazza portò il pranzo, speck, crauti acidi, patate. Gli uomini mangiarono in silenzio. In cucina gironzolavano i garzoni, il commissario li sentì sedersi, sentì il rumore dei cucchiai nei piatti, tese l’orecchio nella speranza di cogliere qualche parola attraverso la porta accostata. I garzoni mangiavano in silenzio. Spinsero all’indietro le sedie, uscirono, la ragazza entrò, sparecchiò, mise sul tavolo una bottiglia di acquavite, due bicchieri, uscì. Non erano bicchierini da liquore, erano bicchieri da vino. Leuenberger li riempì, vuotò il suo in un sorso, il commissario seguì l’esempio, stava per cacciare un’imprecazione ma rimase senza fiato. Quello era acido nitrico! Leuenberger non mosse un muscolo del volto rigido. – Un buon grappino – disse, e il commissario ebbe l’impressione che sogghignasse. Poi giocò il secondo atout: – Perché la polizia di Berna deve occuparsi degli affari miei, e manda fin qui un commissario? Ho fatto qualcosa di male? – Colpa del liquore che incominciava a far effetto, colpa del palese tono di scherno? D’un tratto a Studer si schiarì «la zucca», come diceva lui. Improvvisamente avvertì con estrema chiarezza, questo qui è maturo, basta lasciargli tempo, bere con lui, per tutto il pomeriggio, i pensieri gli si confusero ancora, per un istante, pensò alla sua salute: con il cuore che hai, pensò, ti può venire un colpo, in nome di Dio, continuò a pensare, ormai i ragazzi sono grandi, la vecchia ha la pensione, gli si schiarirono le idee, prese il fazzoletto, si finse imbarazzato, si soffiò il naso prima di rispondere in tono lamentevole:
– Oh, contro di voi non hanno niente di particolare, ma intorno ci sono sempre delle malelingue, e abbiamo ricevuto una lettera che… – esitò visibilmente, poi trasse di tasca la lettera e la mise davanti al contadino.
Ora fu il contadino a prendere il fazzoletto, lo tenne in mano un istante, come esitando, poi comparvero gli occhiali, pulì le lenti e il commissario lo interruppe: – Fumate? – e gli porse un astuccio allungato di toscani neri.5 Leuenberger disse: – Grazie, – ne scelse uno, lo pose accanto a sé, finì di pulire gli occhiali, li inforcò con cura, Studer aveva già acceso un fiammifero, offrì il fuoco al contadino, il fiammifero stava già bruciando le dita al commissario, resistette (sentiva oscuramente che lì tutto dipendeva da simili piccolezze, da un comportamento indifferente, anche a costo di bruciarsi le dita), finalmente il sigaro si accese, Leuenberger soffiò compostamente nuvole di fumo come una locomotiva beneducata, riempì i bicchieri e inghiottì l’acido nitrico osservando il commissario. Un homme averti en vaut deux, pensò Studer, e s’irritò per tutte le parole francesi che quel giorno gli passavano per la testa. Ma vuotò il bicchiere con calma, schioccò perfino la lingua ed ora fu lui a dire: – Un buon grappino –. Leuenberger si chinò sulla lettera. L’esaminò a lungo e con attenzione, poi l’allontanò: – Sì, – disse, – ci sono persone cattive a questo mondo –. Ancora silenzio. La pioggia tamburellava sui vetri, nella stanza c’era una sudicia luce crepuscolare. Gli uomini fumavano. Se solo non ci fosse stato tanto silenzio in quella fattoria. Studer sentiva che il pericolo lo minacciava ancora alle spalle, perciò disse come incidentalmente: – Quelle mogli non staranno bene nella terra bagnata al cimitero, con un tempo simile.
– Cosa m’importa delle mogli, mio nonno ne ha sotterrate sei.
– Ma questa è la famiglia di Barbablù, – fece il commissario, e non aveva neanche finito di dirlo che si sarebbe preso a schiaffi. Dire simili sciocchezze. Eppure doveva essere una buona risposta perché all’altro venne uno strano tic agli angoli della bocca, lo si poteva vedere, gli angoli della bocca gli tremavano. Studer prese la bottiglia dal tavolo e riempì i bicchieri, era contro l’etichetta, lo sapeva, ma al diavolo l’etichetta, doveva ammorbidire il contadino, ammorbidirlo come una pera che si spappola in mano. – Alla salute, – disse, il contadino esitò, poi bevve, e fu ancora Studer che si permise di dire: – Un buon grappino.
Leuenberger si alzò, accese la luce. Poco mancò che il commissario facesse un fischio tra i denti, gli occhi dell’uomo non erano più di pietra, erano umidi, quegli occhi, erano bagnati! In seguito Studer si fece un gran merito di aver mantenuto il silenzio in quel momento, sebbene… Leuenberger non tornò a sedersi, con una voce insolitamente stridula disse che fuori aveva un goccetto eccellente, poteva andare a prenderlo? Lo chiese in tono stranamente sottomesso. Il commissario annuì con indifferenza, anche se d’un tratto si sentì male e gli si annebbiò la vista. Strinse i denti, si soffiò il naso fin quasi a farsi scoppiare la testa, purché non ceda adesso, pensò, altrimenti tutto questo non ha avuto senso, attento ora! Lo gridò a se stesso. E gli servì. Leuenberger uscì, restò fuori a lungo, il commissario sarebbe voluto uscire per vomitare, resistette, come un soldato che combatte una battaglia perduta.
Finalmente il contadino tornò. Recava una piccola bottiglia, coperta di polvere. Ma era già sturata, il contadino teneva in mano il cavatappi con il tappo. Fu questo particolare a insospettire il commissario? In seguito non avrebbe saputo dirlo. Ma Leuenberger commise un’altra sciocchezza, disse: – Io ho bevuto abbastanza, assaggiatelo voi, signore –. Ecco che ha rivelato il colore, il colore della carta cattiva, poco mancò che il commissario l’urlasse, ma si limitò a togliergli di mano la bottiglia e il cavatappi, sfilò il tappo con cura e molta lentezza, turò la bottiglia, se la mise in tasca. Nella stessa tasca in cui teneva i toscani, e disse con voce assolutamente neutra (adesso era di nuovo il commissario di polizia Studer di Berna, un funzionario): – La bottiglia preferisco portarla al chimico legale –. Per un momento Leuenberger rimase dritto come un fuso, poi si sedette, appoggiò la testa al pugno e fissò il tavolo. – Era solo per poter volare, – disse Leuenberger come in un sogno.
Il commissario tacque, voleva fare la commedia quello? Ora doveva vuotare il sacco, e anche se lì non c’erano testimoni per la confessione, ora si poteva richiedere l’esumazione, ora lui, il commissario Studer, aveva tenuto la carta buona, ma non una parola, per carità. Aveva un po’ compassione di quell’uomo, forse era mezzo matto? Provava compassione, ma gli saltarono agli occhi i fiorellini di seta sulla papalina del contadino. Le dita che li avevano ricamati erano imputridite, forse si erano piegate nella lotta contro la morte, e nessuno le aveva aiutate, quelle dita. Era ubriaco, il commissario, a farsi venire idee simili? E l’altro continuò: – Sì, per volare. C’era scritto nel libro del nonno, dopo la morte della settima moglie si acquista la potenza, si può volare. Lui ci era quasi riuscito, ma la settima gli è sopravvissuta. Altrimenti… altrimenti sarebbe riuscito a volare.
– Ma santo cielo, – gli urlò il commissario (urlava davvero, che assurdità, e tutta quella grappa per un pomeriggio intero). – Ma santo cielo, e i voli sulle Alpi? Puoi volare in ogni aeroporto!
Allora Leuenberger gli gettò un’occhiata d’infinita superiorità, gli occhi gli si fecero di pietra, l’antico splendore trafisse le pupille, e con la sua vecchia voce profonda disse piano: – E l’immortalità? Posso comprarmi anche quella all’aeroporto? È scritto: e potrai volare fino alla fine dei giorni del mondo, e nulla ti sarà nascosto –. Balzò in piedi, prese uno dei vecchi libri dello scaffale, lo aprì. A fatica il commissario decifrò l’antica scrittura. Sì, ecco. «Fino alla fine dei giorni».
Si mise il libro sotto il braccio. – Adesso venite con me, Leuenberger, – disse quasi con dolcezza. – Il resto si aggiusterà.
Scesero la montagna, attraversarono il paese silenzioso. Leuenberger non opponeva resistenza. Con una mano il commissario teneva lui, sotto l’altro braccio portava il vecchio libro. Nella cittadina il commissario consegnò l’uomo al carcere distrettuale, dopo una telefonata a Berna.
Ma il commissario Studer ci rimise la sua ben meritata fama internazionale, il «Journal» non riportò né la sua fotografia, né alcuno di quegli aggettivi lusinghieri che i francesi padroneggiano così bene, perché Leuenberger s’impiccò quella stessa notte in cella. E nessuno sa se la sua anima abbia imparato a volare.
Interrogatorio
Lei è un uomo potente, signor giudice istruttore. Un suo gesto, e tutti gli aguzzini sono scomparsi. Non può immaginare quanto io abbia patito nelle ultime ore. Mi incalzavano in sei e mi tormentavano, mi tormentavano con domande peggiori di una tortura medioevale con slogamenti e imbuto. E che sete mi hanno fatto soffrire… ho la bocca riarsa. Ma basta che compaia lei, signor giudice istruttore, e gli aguzzini spariscono, come ho detto, è sufficiente un cenno della sua mano…
No, non deve credere che mi piaccia chiacchierare. È solo la reazione. Pensi come si sentirebbe lei se dovesse comparire davanti a un tribunale rivoluzionario, e se i suoi inquisitori fossero i ladri, i vagabondi, gli ubriaconi che ha avuto tra le mani nella sua lunga vita. Crede che costoro la tratterebbero con riguardo? Io penso di no. E i suoi commissari, ispettori, agenti del servizio segreto (io non mi ci raccapezzo davvero in tutti quei gradi), beh, per me questa gente è massa, plebe, canaglia, come si diceva un tempo. Per questa gente è un piacere tormentare coloro che non hanno la cravatta ben annodata, scarpe basse su misura e pantaloni ben stirati. Non ho ragione?…
Lei tace, signor giudice istruttore. Com’è gradevole il suo silenzio dopo il baccano dei suoi subalterni. Ogni tanto mi si chinavano sopra in tre e mi sputavano in faccia le loro domande. Dapprima ho cercato di rispondere, ma poi ho lasciato perdere. A che scopo? Questi proletari della giustizia.
Ho la bocca riarsa, e faccio fatica a parlare; da ieri sera non mangio nulla, non bevo nulla. Sarebbe così gentile da offrirmi un bicchier d’acqua?…
Molto gentile da parte sua farmi portare del vino e qualcosa da mangiare. Vedrà, appena mi sarò ripreso le spiegherò il mio caso con tanta chiarezza che le sarà impossibile non lasciarmi andare…
Sono un grosso industriale, signor giudice istruttore; nella cittadina industriale in cui vivo una volta mi hanno dato il titolo segreto di borgomastro. Quel titolo mi è rimasto. Perché io non mi occupo per principio di politica, e non appartengo ad alcun partito; così può succedere che la mia parola diventi autorevole e sia decisiva quando due partiti hanno quasi la stessa forza alle elezioni. Le racconto tutto questo solo perché lei si orienti, perché possa farsi un’idea di me, della mia personalità. E non creda che io voglia vantarmi, ma se penso all’impressione che devo farle con questo colletto logoro, gli abiti sgualciti, mi sento come in obbligo di presentarmi a lei quale io sono in realtà.
E quel commissario calvo, o cosa diavolo è, osa chiamare me assassino, me, un uomo incensurato che ha sempre pagato le tasse (certo, in affari esistono delle necessità che non sempre consentono un adempimento sollecito), me, un dirigente.
Non una volta sola, no, innumerevoli volte mi ha gridato in faccia questa parola, me l’ha sussurrata all’orecchio. Io un assassino, ma andiamo, signor giudice istruttore, ho forse l’aspetto… Ah, ecco il vino che ha ordinato. E ci sono anche dei panini imbottiti! Ma spero, signor giudice istruttore, che voglia mangiare con me. Sono convinto che lei non abbia ancora fatto colazione. E che sia stato svegliato così presto… Lo so, lo so.
Senso del dovere… So bene cos’è. Se penso a tutte le notti insonni che ho passato a studiare un miglioramento della mia azienda, un alleggerimento del lavoro… Sì, il dovere…
Naturalmente il caffè è per lei, ne avrà bisogno. Posso solo chiederle di lasciarmene un goccio, ho paura che il vino m’intorpidisca…
Vorrei pregarla di darmi il mio portasigarette, è lì accanto a lei, me l’hanno portato via i suoi scagnozzi, come se contenesse un’arma pericolosa. Haha… Che altro dovrebbe esserci nel portasigarette se non sigarette?
Forse i suoi uomini credevano che ci fosse della dinamite?…
Ha ragione, signor giudice istruttore, restiamo seri, abbiamo scherzato abbastanza… Le sono debitore della storia, la mia storia, la storia della mia avventura. Permetta solo una cosa ancora, qual è il suo nome? Forse la mia domanda è inopportuna, probabilmente i delinquenti che lei interroga di solito la conoscono già. Forse nel suo campo è una celebrità, ma consideri che io sono un incompetente in fatto di giustizia, soprattutto di cause penali (il diritto processuale civile lo conosco bene). Le mie conoscenze criminologiche si limitano a ciò che si legge in treno, romanzi gialli, storie poliziesche… Non è gran cosa quindi, come vede…
Allora, come prego?… Schafroth? Un nome strano, ricorda «Schafott»,6 non trova anche lei?…
Ebbene, la mia storia: volevo andare in Italia con il direttissimo della notte. In aereo mi sento male, in questa stagione non potevo usare l’automobile, le strade sono cattive e i passi innevati. Così ho preferito comprare un biglietto di seconda classe. Sono un tipo senza pretese. Di solito viaggio sempre in terza classe, perché sa, in fondo all’animo sono un democratico. Ma per un viaggio di notte ho dovuto prendere la seconda, altrimenti si arriva stanchi.
Sicuro, avrei dovuto prendere il vagone letto… Ma cosa vuole, in questo periodo di crisi bisogna risparmiare… Sì, quell’affare in Italia era importante, era necessaria la mia presenza, altrimenti avrei di certo mandato un agente… Mia moglie mi aveva accompagnato fino alla stazione, abbiamo cenato in città… Sì, mia moglie è molto più giovane di me. Lo vede lei stesso, ho le tempie grigie, avrò più o meno la sua età, signor… eh… il suo nome?… qualcosa come «Schafott»… No, non Schafott… beh, non mi viene in mente, non importa, allora, signor giudice istruttore, il suo… Ma certo, signor Schafroth…
Un matrimonio d’amore. Mia moglie ha ventinove anni, ma sembra una ragazzina. Si trucca, naturalmente, e anche questo avrà la sua importanza. Il nostro è il matrimonio più armonico che lei possa immaginare, non litighiamo mai. E abbiamo anche un bimbo di cinque anni, si chiama Lovis. Il nome mi piaceva. Forse diventerà un artista. Per quanto l’arte, al giorno d’oggi… Cosa vuole, a me piace leggere, ho anche una bella collezione, solo incisioni, qualche prova di stampa di Whistler,7 le dico, delle perle!… Ma davvero? È un collezionista anche lei? Allora dovrà concedermi il piacere di venire a trovarmi, potrà restare a dormire, le manderò l’automobile, non dica di no, signor giudice istruttore, dovrò pur dimostrare la mia riconoscenza per la sua cortesia; e mia moglie ne sarà tanto felice! È molto ospitale, come me, e quale gioia maggiore a questo mondo del ricevere buoni amici a casa propria?
E così mia moglie mi accompagnò alla stazione. Pioveva. Sa, proprio questa pioggia novembrina che anche adesso batte sui vetri. Trovo uno scompartimento vuoto, cerco il controllore, gli metto in mano una moneta da cinque franchi e gli prometto altrettanto se potrò restare solo fino al mattino. Ebbi la fortuna di imbattermi in una persona ammodo, che conosce la vita, fece sparire il denaro come un prestigiatore, poi fece il saluto militare come se io fossi almeno capo dello Stato maggiore! Mia moglie era salita con me, passeggiammo nel corridoio. Ed ecco che noto un signore, anche lui siede in uno scompartimento vuoto, il volto non si vedeva affatto, era nascosto dietro un giornale. Dico a mia moglie: Irene, dico, quell’uomo mi sembra così strano, come se volesse nascondersi alla polizia. Forse voleva davvero passare il confine, non ne ha ancora accertato l’identità?… Per il momento non ancora? Bene, attendo con fiducia i suoi accertamenti. Comunque io non lo conoscevo, e non lo riconobbi neppure dopo, quando vidi il corpo…
Perché lo faccio rilevare? Ma io non faccio rilevare un bel niente, la prego, signor… eh… giudice istruttore, la diffidenza le acuisce l’udito. Quando si è accusati ci si difende con ogni mezzo. Non è così?
Mia moglie scende, ci salutiamo con tenerezza; accade raramente che io viaggi solo, di solito porto mia moglie con me. Ma il nostro Lovis aveva la tonsillite, e mia moglie aveva paura, come hanno sempre paura tutte le donne, e non voleva lasciar solo il bambino. Sì, noi mariti passiamo sempre in seconda linea davanti ai figli, l’istinto materno. Ma sto divagando.
Il treno si mette in moto, sto al finestrino e faccio un cenno di saluto a mia moglie, ed ecco che alle mie spalle la porta si spalanca, e una vecchia si precipita dentro. Si vedeva subito che non era un tipo da seconda classe; pensi, prima di entrare tira fuori da dietro la gonna due bambini, uno di due, l’altro di tre anni, credo. Alle spalle di questo terzetto compare il controllore, vuole far uscire la donna, io non lo permetto, faccio cenno di no. Perché penso che la vecchia signora (‘signora’ è un eufemismo, era la moglie di un operaio, forse di un capomastro, che voleva andare in Italia con i nipotini) abbia raggranellato faticosamente il denaro per il viaggio in seconda classe. Così faccio un cenno indulgente al controllore e penso subito al signore che ho scorto nascosto dietro il giornale. Noi due uomini, penso, c’intenderemo. Prendo la valigia e cambio scompartimento. Perché chi potrebbe pretendere che io viaggi di notte con dei bambini?
Così vado dal signore del giornale. A pensarci adesso, vorrei aver fatto il viaggio di notte con i bambini. Non me ne starei seduto qui. Ma sono certo che tutto si chiarirà, e uscirò di qui a testa alta, non è vero, signor… signor… giudice istruttore?
Il signore del giornale, non so come chiamarlo altrimenti, il signore del giornale resta nascosto dietro il foglio. Nel caso questo possa interessarle, era il «Temps» che leggeva. Un giornale pratico, grande, fatto apposta per nascondervisi dietro.
L’uomo del giornale siede accanto al finestrino nella direzione di marcia, non alza lo sguardo quando entro nello scompartimento, non alza lo sguardo quando inciampo nei suoi piedi e mi scuso. Borbotta solo qualcosa d’incomprensibile. Sistemo la valigia sulla rete, mi siedo, penso: adesso mi tocca viaggiare nel senso contrario, non mi fa mai bene, mi viene il capogiro. Ma in questo caso non succederà nulla, posso distendermi e voltare la faccia verso la parete, così sono sdraiato nella direzione di marcia, e tutto è a posto. Vede come ricordo bene i miei pensieri, e dovrei ingannarmi in una faccenda così importante come questa accusa? Io, un uomo d’affari, famoso per la sua buona memoria; ho un sistema mnemonico ben preciso, ma questo non è il momento di spiegarglielo…
Eccellente, questo vino… Scusi, lei ha fatto una domanda, io non ho prestato attenzione… Ma no, signor… eh… signor Schaf… signor giudice istruttore. Non deve sempre pensare il peggio della gente, no, assolutamente no, non le chiedo di ripetere la domanda per guadagnar tempo per riflettere… Ma quando si è stati interrogati sei ore come me, e che interrogatorio! deve capire che il cervello è esausto, non reagisce più prontamente come al solito…
Vuole sapere se il signore aveva bagaglio? Aspetti, qui dentro è tutto inciso, inciso all’acquaforte direi quasi. Ma lei sa come ci si sente quando si crede di conoscere molto bene un’incisione, la si guarda una seconda volta e appare completamente nuova, d’improvviso risaltano certi dettagli, certe finezze che prima non si erano affatto notate… Questo non c’entra con la sua domanda?…
Mi permetta, la prego. Devo richiamare alla memoria certi dettagli, come ho detto, osservare con maggiore attenzione certe parti dell’incisione con l’occhio della mente… solo allora potrò darle risposta. E non dimentichi che i suoi proletari mi hanno confuso del tutto… Anche loro mi hanno fatto questa domanda… A quanto mi ricordo, portava una piccola borsa gialla, sicuramente una borsa di pelle di porco; di vera pelle di porco, ne sento ancora l’odore… molto chiaramente, adesso… Proprio così, ed ora ricordo benissimo, quando sono tornato, quando la… disgrazia… beh, quando era stato commesso l’omicidio in mia assenza, non ho più pensato a quella borsa. Ma il mio inconscio deve averlo recepito, perché ora rivedo con chiarezza la rete vuota… La borsa non è stata trovata?… Ciò conferma la mia ipotesi che si tratti di un comunissimo furto sul treno. Forse la borsa conteneva oggetti di valore…
Grazie, signor giudice istruttore, solo una zolletta… Di solito preferisco il caffè senza zucchero, ma oggi farò uno strappo alla regola…
Non voglio lusingarla, ma la sua osservazione testimonia una sorprendente facoltà di collegare i fatti. Il contenuto della borsa potrebbe sicuramente metterci su una buona pista, se trovassimo la borsa addosso a qualcuno potremmo senz’altro dedurre la colpevolezza di questo qualcuno. Ma proprio in ciò consiste la difficoltà. Perché finora la borsa non è ricomparsa, vero?… neppure vagamente?… Forse nelle dichiarazioni dei vari testimoni, del capotreno per esempio?… Ma cosa dice!… No, i suoi subalterni non mi hanno detto nulla… La dichiarazione del capotreno è l’accusa più grave a mio carico? È assolutamente impossibile che qualcun altro sia entrato nello scompartimento, sostiene lui?…
Come fa ad esserne così sicuro? Ricordo di aver letto la recensione di un libro che trattava dell’inattendibilità delle testimonianze; un professore aveva fatto assistere gli studenti a una commediola e poi l’aveva fatta raccontare, per iscritto… Sì, sì, sono certo che lei ha letto il libro, e non solo una critica, come ho fatto io. Ma non crede anche lei che certi testimoni siano poco affidabili, soprattutto un tipo come quello che mentre è in servizio si lascia corrompere da me, e poi non è neppure capace di meritarselo onestamente, quel denaro? Forse si è messo a bere in un angolo del vagone e ha dormito per tutto il tempo del servizio, e adesso vuole scagionarsi a mie spese…
No, non vado in collera, non mi irrito nemmeno. Ma le dirò una cosa, i metodi della giustizia sono scorretti, la giustizia non rispetta le regole.
L’indifferenza è una prova di consapevolezza, l’agitazione è una prova di colpevolezza, l’accusato può comportarsi come vuole, è sempre tutto sbagliato, quale che sia il suo atteggiamento, esso viene sempre interpretato a suo svantaggio. Questo è sbagliato, questo è profondamente sbagliato. Lei vuole, lei deve trovare la verità, non è così? Ma lei non vuole affatto la verità, lei vuole un colpevole…
Credo bene che quasi tutti i prigionieri dicano le stesse parole. Mio Dio, non conosciamo tante formule giuridiche incomprensibili per esprimere fatti semplici nel modo più complicato possibile…
Sto divagando ancora, secondo lei. Ma è colpa sua. Continuerò, allora.
Mi tolsi le scarpe, presi le pantofole di pelle che Irene mi aveva regalato l’ultimo Natale, indossai una giacca da camera e badai a infilare il portafogli nella tasca del revolver. Così facendo mi trovai in mano la mia piccola pistola Walther, la trassi di tasca (sarebbe stata troppo piccola per contenere anche il portafogli) e l’infilai sotto il cuscino gonfiabile che mi ero già preparato. Così facendo gettai un’altra occhiata al mio compagno di viaggio, lui non distoglieva gli occhi dal giornale, e quindi non aveva affatto notato la mia precauzione. Gli chiesi cortesemente se il fumo di una sigaretta lo avrebbe disturbato. Perché altrimenti non riesco a prender sonno. Intuii più di quanto non potessi vedere, scosse il capo ed emise un suono come un eh eh nasale. Non lo disturbavo, quindi. Fumai tutta la sigaretta.
Sarebbe possibile, possibilissimo. Non sarebbe stato difficile osservarmi attraverso il vetro della porta… Anche quest’osservazione è assolutamente degna della sua facoltà di collegare i fatti, signor… signor giudice istruttore. Perché questo è l’unico indizio concreto della storia: che l’omicidio sia stato compiuto con la mia pistola… E che a quanto pare vi siano state rilevate le mie impronte digitali, e solo le mie… Ma non è affatto strano, perché io raccolsi la pistola, quando tornai…
Lei ha un bel dire, avrei dovuto lasciarla dov’era. Fu come un riflesso condizionato. Non si china anche lei quando scorge un oggetto che le pare di conoscere? È così istintivo… Non può servirsi di questo elemento per rovinarmi, signor Schafott, pardon, signor Schafroth.
Bene, la fine è presto detta. Volevo andare alla toilette prima che il treno entrasse nella stazione successiva. Uscii, percorsi il corridoio, non incontrai nessuno, è vero. Devo essermi allontanato per circa dieci minuti, mi lavai le mani, i denti (la prego di notare la precisione con cui rammento anche i dettagli più insignificanti), poi ripercorsi il corridoio. Le tendine alle porte degli scompartimenti erano già chiuse, guardai l’orologio mentre lo caricavo come d’abitudine, erano le otto e mezza in punto, secondo i miei calcoli saremmo dovuti entrare nella stazione successiva dopo un quarto d’ora circa. Anche nel mio scompartimento la tenda era chiusa, me ne meravigliai perché non ero stato io a farlo, e pensai: finalmente il mio uomo del giornale è riuscito a staccarsi dal suo «Temps», bene, così si potrà abbassare la luce e riusciremo a dormire. Ero stanco, la mattina mi ero alzato molto presto, c’erano state tante faccende da sbrigare.
Aprii pian piano la porta scorrevole, la luce era forte, il mio cuscino era rovesciato, la piccola pistola era per terra, come le ho già detto…
Dov’era?… Aspetti… era davanti ai piedi dell’uomo, lui sedeva nel suo angolo con la bocca spalancata, il giornale aperto sulle ginocchia, e il giornale aveva un foro tondo…
Eccolo là, il giornale… e per la prima volta vidi il volto del mio uomo del giornale. Un volto comune, ben rasato, ancora piuttosto giovane, accanto alla mano sinistra, abbandonata sul cuscino con la palma rivolta verso l’alto, vidi un paio di guanti di camoscio grigio…
No, non ho notato nient’altro…
Certamente no, signor giudice istruttore, non c’era nient’altro intorno, la sua borsa era scomparsa, gliel’ho detto, la giacca era aperta, come se qualcuno gli avesse frugato le tasche in gran fretta… Perché questa domanda per la terza volta, è una trappola?… Tenda pure le sue trappole, quando si ha la coscienza pulita come me, non c’è nulla da temere…
Ritagli di carta?… No, non ho visto ritagli di carta… Perché mai sarei stato sfortunato?… Non la capisco… Mi sembra tutto così strano; posso chiederle un fiammifero… grazie…
Dove… dove… l’ha trovato? Questa, questa è… la testa di… No, questa signora non la conosco. Un’impressione momentanea, avevo creduto che fosse Irene, i tratti del volto hanno una certa somiglianza, non posso negarlo. E questo ritaglio di carta, proprio con questo viso, è stato trovato nello scompartimento? Ma davvero…
Io non conoscevo quell’uomo, ripeto… È un’offesa a mia moglie, signor… giudice istruttore, signor Schafroth, no, mia moglie non aveva un amante, non permetto assolutamente insinuazioni del genere. Davvero, ho l’impressione che lei voglia calcare le orme dei suoi predecessori plebei, ma lei pensa che il suo tipo di tortura, la tortura della cortesia sia più efficace… Per questo mi ha fatto portare vino e panini imbottiti… Haha, lo so, lo so, ci crediamo più civili degli arabi, ma quando giungiamo tra quelle cosiddette tribù selvagge e riceviamo il loro invito, e ci offrono pane e sale, allora siamo ospiti, inviolabili… Anch’io ho ricevuto da lei pane e sale – io sono suo ospite, signore, ma lei fraintende l’ospitalità…
Lei ride e si compiace della mia sofferenza… ha in serbo altre sorprese per l’ultima mano… Scopra pure le sue carte, siamo soli, e anche se io… Ma è un’assurdità, lei non ha un cancelliere, non ha voluto alzarsi? Posso raccontarle quello che voglio, prenderla in giro con una confessione falsa, solo per poter finalmente dormire, mi si chiudono già gli occhi, una confessione falsa, che ne dice? E domani ritrattare, che gliene pare? Un avvocato abile potrebbe fare molto in una situazione come questa… Formule come tortura psichica, interrogatorio lungo… di una lunghezza inammissibile, il mio cliente è crollato…
Quale effetto crede che avrebbe sullo spettabile pubblico? Eh? La giustizia non gode di buona fama sui giornali… Continui pure a fare domande, io sono sicuro, sono innocente, non mi può succedere nulla…
Lei continua a tacere… Non interromperò davvero le sue meditazioni…
Ma non crede anche lei che sarebbe ora di andare a dormire? Fuori già spunta l’alba sui tetti… Non si accende la stufa qui?… Ho freddo… Lei tace ancora… Bene, sono capace anch’io…
Questo raschìo che si sente nel silenzio… è già da molto che me ne sono accorto, pensavo che fossero ratti… o topi, ma per essere un rumore d’animale è troppo regolare… Eppure dovrei conoscere questo raschìo, questo stridìo, questo cigolìo… Un dittafono! Ma certo! È un assistente di buona volontà che cambia i nastri quando sono pieni?… Vede, anche a noi indiziati a volte vengono delle idee, anche noi colleghiamo… Molto intelligente… Così potrà produrre ai giudici ogni modulazione della mia voce, intelligente, molto intelligente… Solo che la sua intelligenza non le servirà a nulla…
A lungo andare il suo silenzio diventa penoso… Sarebbe un metodo per piegare la mia resistenza? Vedremo… Guanti di camoscio… guanti di camoscio grigio… Erano vicino al morto… Era un uomo elegante, l’uomo del giornale, era istruito, a quanto pare, perché leggeva il «Temps». Guanti di camoscio grigio…
Che coincidenze vi sono, a volte. Una settimana fa mia moglie mi chiese di accompagnarla in un negozio di guanti, voleva comprare un paio di guanti per suo padre, compiva gli anni, ed io ho buon gusto. L’accompagnai, comprammo un paio di guanti di camoscio, guanti di camoscio grigio… Una coincidenza. Anche i guanti del morto erano nuovi…
Lei continua a tacere. Posso rivedere il ritaglio di carta?… Forse è proprio lei, Irene, solo non l’ho mai vista sorridere così felice… Ma ecco, vede, la donna di cui lei possiede solo l’immagine della testa, quella donna aveva anche un vestito nella fotografia, e il vestito mi ha ricordato un abito estivo di Irene…
Non si riesce a farla uscire dalla sua riservatezza neppure con una mezza confessione… Perché se parlo del vestito, devo pur aver visto la fotografia, penserà lei. Certo che l’ho vista, era vicino al morto, l’ho strappata, non volevo… E i pezzi di carta li ho gettati dal finestrino, pensavo che il vento li avrebbe dispersi, ma il vento mi ha giocato, e ha soffiato nello scompartimento proprio la testa…
È già da un po’ che l’osservo, sta aspettando qualcosa… Ah, neppure lei riesce a dominarsi completamente, ha udito dei passi fuori, qualcuno viene a portare qualcosa… Lei non mi sorprende più, so cosa porta l’uomo che si avvicina… Ma manterrò la calma… Permette che fumi un’altra sigaretta? Ne ho ancora due o tre di una marca più forte… No, grazie, l’accenderò quando arriverà la sua sorpresa…
La borsa di pelle di porco… bagnata fradicia… Può andare, giovanotto, ha fatto bene il suo dovere… Il fiume non era abbastanza profondo, dato che siete riusciti a trovarla così in fretta… Ho detto che ha fatto bene il suo dovere, giovanotto… Può andare, ciò che ho da dire adesso è cosa troppo seria, la gioventù ne riderebbe soltanto… Ed ora a lei, signor giudice istruttore, signor Schafroth, finalmente ho imparato il suo nome, non lo confonderò più con Schafott, mi confiderò solo per ricambiare la sua cortesia…
Non apra la borsa… Mi lasci parlare, prima… Ha ragione, prima mi accenderò la sigaretta… oh, l’ho masticata nell’agitazione, gettiamola nel cestino… Apra pure la borsa… ci sono delle lettere, nel frattempo io potrò concentrarmi… Capisce?… Questi fiammiferi non valgono nulla, si spezzano sempre.
Ecco, dunque… Lettere d’amore, lettere d’amore di mia moglie… Grazie, prendo volentieri un altro goccio di vino, ho un sapore così amaro in bocca…
L’unico elemento che potrei addurre a mia difesa è questo: ho agito così solo per legittima difesa. Ma vede, non posso dimostrare neppure questo. Spenga il dittafono, per favore, non ne abbiamo più bisogno. Domani farò mettere tutto a verbale… se sarà ancora necessario… Grazie, signor Schafroth. Legittima difesa, tre giorni fa ho trovato una lettera tra la corrispondenza, era finita lì per errore; era una lettera di mia moglie, affrancata, con l’indirizzo. Forse ha consegnato questa lettera alla cameriera, e la cameriera l’ha mescolata alle lettere ricevute. A volte le donne sono imprudenti. Basta così. Aprii la lettera, era indirizzata a una casella postale. Non c’era nome. Cosa c’era scritto? Diceva più o meno così: mia moglie confermava a un certo Claude che di lì a due giorni io sarei partito per l’Italia, indicava il treno, tutto era spiegato con chiarezza. Scriveva che lui, Claude, doveva cogliere quella buona occasione. Io presi un’altra busta, scrissi l’indirizzo, a macchina, e la spedii.
L’occasione… la lettera era affettuosa… Ci sono degli incidenti che possono succedere in treno, non fanno troppo rumore, tre righe sul giornale, un necrologio sul giornale locale: il noto industriale… sincero patriota… imperitura memoria… la società corale sotto la direzione esperta di… ha accompagnato le esequie. Si ringrazia.
Non diedi a vedere nulla… È inutile cercare, signor Schafroth, la lettera è stata bruciata, c’era qualcosa come poscritto, e io ho controllato le lettere. Ciò che troverà non è importante. Potrà interpretare le lettere come vuole, contro Irene non potrà provare nulla. È abbastanza che ci vada di mezzo uno solo. Ci rimetterà il suo scandalo, creda a me.
Si sta facendo molto caldo nella stanza, e questo tremito alle gambe. Forse la mancanza di sonno. Farò presto, così mi lascerà in pace.
Il clou di tutta la storia è questo: il buon Claude era un truffatore… Come l’ho riconosciuto? Nonostante si nascondesse dietro il «Temps»? Le ho detto che passeggiammo nel corridoio. Davanti alla porta dell’uomo del giornale Irene trasalì…
Parlo in modo sconnesso… Il clou, dunque: Claude mi offrì di comprare le lettere, non voleva una disgrazia, non voleva togliermi di mezzo… Il ricatto è più semplice, non sconvolge come un omicidio… Io però ho scelto l’omicidio, dice lei. Omicidio? Ho molte attenuanti. Se non fosse stato per questo pezzo di carta, perché il fatto che lei cercasse la borsa… Adesso sa tutto…
Ma non ha notato una cosa… È stato troppo precipitoso, ha voluto leggere le lettere troppo in fretta. La sigaretta, certo, la sigaretta che ho masticato, ora comprende.
Sì, nella sigaretta avevo nascosto qualcosa… per ogni evenienza… Ce l’avevo già da molto tempo. Il regalo di un medico che ora è morto, un mio amico…
Un preparato simpatico, ha un forte effetto, solo una lieve oppressione al cuore, ma passerà… Sì, i guanti di camoscio grigio… L’ho riconosciuto da quelli, anche se Irene non fosse trasalita… Questi guanti di camoscio grigio…
Come sa mentire bene una donna… Ma siamo tutti bugiardi, chi più chi meno… E lei mi fa un po’ pena, giorno dopo giorno dover cercare una verità che non è la verità… Perché la verità non ha niente a che fare con le parole… Non crede anche lei?…
I miei rispetti, signor Schafroth, peccato per i nastri del dittafono… la giustizia lavora sempre in modo irrazionale, sempre… Dovrebbe tenerselo a mente… Oh, non si dia più pena, il medico arriverà troppo tardi… Voglio dormire, buona notte, signor giudice istruttore Schafroth… o meglio buon giorno, si sta facendo così chiaro.
Criminologia
Premetto che la storia è immorale, ma poiché risale a quei tempi lontani in cui la scienza investigativa utilizzava per la prima volta certi metodi, non c’è più niente di male a raccontarla.
Un giovane giudice istruttore era stato nominato in una cittadina sede di corte d’assise. Non accadevano molti crimini, ma il giovane giurista (è stato lui stesso a raccontarmi questa storia, con gli anni era diventato un procuratore equanime, spiritoso) si era prefisso di utilizzare proficuamente i metodi inventati e sviluppati da Locard a Lione e da Reiß a Losanna. Si trattava di analisi di terreno e granelli di polvere, chimiche e al microscopio, fotografie con luce ultravioletta e altre meraviglie che oggi anche un bambino conosce, ma che a quel tempo erano considerate una novità. Fu installato un laboratorio, non troppo costoso perché i fondi erano limitati, comunque si acquistò un buon microscopio e una buona macchina fotografica, perché nel caso di un processo importante il giudice istruttore intendeva sbalordire i giurati con fotografie ben riuscite che avrebbe fatto proiettare in tribunale. A dirigere il centro di ricerca fu chiamata una signora di ventisei anni, di nome Hilde, chimica diplomata.
La giovane signora non era graziosa, ma alquanto risoluta. Non tollerava nessuno nel suo laboratorio; e non era neppure necessario, perché il lavoro bastava appena per lei. Prima fu la volta di un testamento con la data falsificata, poi di un turpe assassinio per il quale stava per esser condannato un innocente a causa di alcune gocce di sangue sospette sul vestito, ma poi risultò che era solo sangue di pollo, e si riuscì a trovare il vero colpevole, un vagabondo. In entrambi i casi il laboratorio, o meglio l’analista aveva addotto le prove necessarie. Entrambe le volte il giudice istruttore era raggiante, e ricevette le lodi del procuratore. Non desiderava di più. La signorina Hilde aveva arredato un appartamento di due stanze in una casetta ai margini della città. Vi abitava sola. Il giudice le faceva visita di tanto in tanto, ma poiché si faceva sempre accompagnare da sua sorella, nessuno trovava niente da ridire. Si mormorava di un matrimonio imminente. In casa la signorina Hilde era solita portare una magnifica vestaglia viola di seta lucente. Le stava bene.
Poi ci fu quella grossa storia. Una sera verso le dieci un ricco commerciante della cittadina venne aggredito in una strada buia, stordito con un pugno e derubato del portafogli con tutto ciò che conteneva. L’uomo si riprese presto e raggiunse vacillando il posto di polizia, dove dichiarò di essere stato derubato di una somma che si aggirava sui cinquemila franchi. Il cappotto (un raglan di un tessuto filaccicoso) era strappato, alla giacca mancavano i bottoni, in breve, si notavano i segni di una grande violenza. Gli chiesero i numeri delle banconote, ma non seppe indicarli: aveva ricevuto dei pagamenti da alcuni contadini, neppure coloro che lo avevano pagato avrebbero saputo dire i numeri, il denaro lo avevano in casa da tempo o lo avevano ricevuto da commercianti di bestiame. Per farla breve, questa traccia non portava da nessuna parte fin dall’inizio.
Il giorno seguente il giudice istruttore chiamò la signorina Hilde e la subissò di teorie. – Quando avremo la persona sospetta, – disse, – sarà facile dimostrarne la colpevolezza. Pensi con quanta violenza è stato strappato il cappotto. Sotto le unghie del colpevole si troveranno sicuramente frammenti di peli. Solo pulviscolo, ma quanto basta per incriminarlo! Quanto basta per incriminarlo! E se nega: la diapositiva! La diapositiva che lei farà! Solo una persona sospetta! Se avessimo solo una persona sospetta!
La sera fu tratto in arresto un certo Niemayer, in seguito alla deposizione della sua padrona di casa. Un bel giovanotto biondo, robusto, di circa ventott’anni, commesso proprio di quel commerciante che aveva subito l’aggressione. La notte precedente Niemayer non era stato affatto in casa, dichiarò la padrona. Il poliziotto che lo aveva tratto in arresto si meravigliò quando il giudice istruttore gli chiese al telefono: – L’uomo si è lavato le mani? – Aspetti, – fece il poliziotto, andò a esaminare le mani del prigioniero, tornò ad annunciare: – No, le mani sono sudice. – Badi che non se le lavi! – Poi il giudice istruttore si recò al carcere distrettuale con la signorina Hilde. Niemayer sedeva nella cella, dovette tendere le mani, con uno stecchino morbido la signorina Hilde gli tolse la sporcizia da sotto le unghie. Niemayer osservò: – Adesso in prigione si fa anche la manicure? – Le faremo una manicure, mio caro, che le costerà almeno qualche annetto –. Il giudice istruttore andò a prendere carta e penna, la sporcizia fu chiusa in una cartina, la signorina Hilde dovette firmare sul pacchetto. Fuori il giudice istruttore aggiunse: – Lei sa che è sotto il vincolo del giuramento, vero, signorina Hilde? – Sì, – disse la giovane donna.
Il giorno seguente Niemayer negò: cercò di giustificare la sua assenza in quella notte con una forte emicrania che lo aveva indotto a fare una passeggiata notturna. La classica scusa. Il giudice istruttore rise. Il raglan del commerciante fu grattato, bisognava confrontare la polvere con la sporcizia delle unghie di Niemayer. Se avessero coinciso, sarebbe stata la fine per Niemayer. Il commerciante aveva dichiarato di non aver mai portato il cappotto in ufficio.
La sera il giudice si recò nel laboratorio. – Ebbene, qual è il risultato? – Negativo – disse freddamente la signorina Hilde. Il giudice istruttore s’infuriò. La signorina Hilde tacque, accese il proiettore. Sullo schermo bianco apparve in un cerchio un intrico di strani vermi lucenti, violetti. – Questo era sotto le unghie di Niemayer, – disse la signorina Hilde. – E questa è la polvere del raglan –. Comparve un altro cerchio, filamenti neri, opachi. Nessuna somiglianza tra i due. – Se non mi crede, – disse la signorina Hilde, – faccia fare l’analisi a un altro laboratorio. Ecco i campioni –. E porse al giudice istruttore due pacchettini di carta. Lui fece cenno di no e se ne tornò a casa affranto. L’inchiesta su Niemayer fu archiviata, testimoni non ce n’erano. Subito dopo Niemayer lasciò la città. Sei mesi più tardi la signorina Hilde si licenziò. Il giudice istruttore rimase scapolo. L’assicurazione coprì il danno del commerciante.
Circa dieci anni dopo il giudice istruttore, che nel frattempo era diventato procuratore, fece un viaggio in automobile in Provenza in compagnia di amici. In una piccola cittadina era stato loro raccomandato un albergo per la sua buona conduzione. Si fermarono là. Il padrone era un uomo biondo, robusto, che l’ex-giudice istruttore e attuale procuratore ebbe l’impressione di conoscere. Ma non perse altro tempo ad almanaccarsi, aveva visto tante facce. Finché al termine della cena comparve la padrona – lui rimase a bocca aperta, e fece per balzare in piedi. L’albergatrice lo guardò ridendo, si chinò sulla sua sedia e gli mormorò in tono risoluto: – Monsieur le procureur, dopo venga un po’ da noi, anche a mio marito farà piacere.
Nel soggiorno della coppia il procuratore bevve prima due bicchieri di Médoc, che lo resero mansueto. La signorina Hilde, attuale signora Niemayer, non si era fatta più graziosa, ma energica lo era rimasta. – La storia è caduta in prescrizione, – disse, – è inutile rivangarla. Io sono felice e ho due figli. Mio marito è un uomo perbene, non mi posso lamentare –. Batté la mano sulle spalle del signor Niemayer. – Ma dovrei raccontarle com’è andata, no? – Il procuratore annuì. – Quella volta lei uscì alcuni minuti dalla cella per prendere carta, inchiostro e penna, ricorda? Io sfruttai quei minuti. Gli dissi: «Io ti faccio uscire di qui, ma tu mi sposi, non voglio restare impiegata per tutta la vita. Con quei soldi apriamo un negozio. Però ti comporterai come si deve. Capito? Ti costringerò io. Il denaro è al sicuro?». Lui annuì. Perché gli dissi questo? Perché mi piaceva. Poi per sicurezza preparai due campioni, uno della sua sporcizia e uno della polvere del raglan. Erano identici. Li ho conservati finché ho avuto la certezza che si sarebbe comportato bene – e anche per costringerlo a restare con me. In seguito non è stato più necessario. Anche lui si è innamorato di me.
– Ma, – disse il procuratore, – le particelle violette che mi mostrò?
– Beh, – disse l’ex-signorina Hilde con pazienza, – poteva anche andar male. Avrebbe potuto aver bisogno di un alibi. In quel caso avrebbe trascorso la notte con me. Non è vero?
– E così quei lucenti fili violetti erano…
– Dio mio, – lei scrollò le spalle con indulgenza, – li ho grattati un po’ dalla mia vestaglia.
La coppia discorde
Due operai dei telefoni, che stavano riparando una linea tra Baden e Turgi lungo la Limmat8 – avevano dovuto fare delle ore di straordinario, la giornata estiva volgeva al tramonto – videro un corpo trasportato dalla corrente. Guadarono l’acqua e riuscirono a trarre a riva il corpo inanimato di una giovane. I corti capelli castani erano incollati alla testa, il volto aveva conservato un’espressione corrucciata. I due operai tentarono la respirazione bocca a bocca, ma già dopo un quarto d’ora desistettero dall’inutile tentativo e portarono il corpo in una fattoria vicina. Il contadino indicò loro un ripostiglio vuoto destinato agli attrezzi, ove deposero il corpo su un mucchio di vecchi sacchi. Poi uno di loro telefonò a Baden, prima a un medico che conosceva, poi alla polizia.
Il medico giunto una mezz’ora più tardi accertò la morte della giovane, il cui corpo era rimasto in acqua per circa tre ore e mezza, e graffi ai polsi; due poliziotti, che arrivarono in bicicletta dieci minuti dopo il dottore, cercarono i documenti, ma non ne trovarono. La biancheria era marcata con due «E» incrociate.
– Quindi l’omicidio è stato compiuto tra le sei e mezza e le sette non lontano da qui, probabilmente a valle di Baden, – disse uno dei due agenti. Era caporale e si riteneva esperto di criminologia. Così dedusse anche che si trattava di omicidio – per via dei graffi. Il medico scrollò le spalle, non volle dire nulla di preciso e risalì in macchina.
– Comunque, – continuò l’agente rivolto al contadino, che fumava davanti alla porta del ripostiglio, – è troppo tardi per trasportare il cadavere stasera. È meglio che lo lasciamo qui, se per voi non fa niente –. Per lui era lo stesso, fece il contadino. I due operai e i poliziotti montarono in bicicletta e tornarono in città.
Prima di separarsi, entrarono tutti e quattro in un’osteria per bersi un litro. C’erano pochi clienti, in un angolo, piuttosto al buio, sedeva un giovane magro, di circa ventitré anni, dai capelli biondo chiaro. I quattro parlavano a voce piuttosto alta del ritrovamento del corpo, e uno degli operai raccontò una storia del suo paese. Anni prima avevano tratto dall’acqua una giovane, e il medico aveva detto che era morta. Ma il padre non si era dato per vinto, e per dieci ore aveva cercato di rianimarla, sì, si era sdraiato sul corpo già freddo per riscaldarlo, e le aveva soffiato in bocca. Il mattino dopo la ragazza era viva, e il medico aveva fatto una figuraccia. Lui non aveva visto con i suoi occhi, disse l’operaio, ma quella storia era sicuramente vera.
Il giovane nell’angolo aveva ascoltato con attenzione, ora ordinò due cognac uno dopo l’altro, li trangugiò, gemette in modo così strano che gli agenti si volsero verso di lui. Il giovane si spaventò e uscì in fretta dall’osteria.
Il giorno dopo una certa signora Egger denunciò alla polizia la scomparsa della figlia Emma, avvenuta il pomeriggio precedente; fornì una descrizione piuttosto precisa della giovane scomparsa, lamentando che quella ragazza le aveva dato solo preoccupazioni: si era presa una cotta per un giovane impiegato delle poste, che non aveva né una posizione sicura né denaro, e voleva sposarlo. – Ma noi non abbiamo dato il nostro consenso, Emma poteva prendere un ottimo partito, il proprietario… – A questo punto il piccolo commissario grasso l’interruppe, le rivolse uno sguardo stranamente perplesso con i suoi occhi azzurri e le chiese se la biancheria di sua figlia fosse marcata con due «E» incrociate. La signora Egger annuì. Allora era meglio che la signora Egger andasse subito con lui, forse sua figlia era morta, il giorno prima avevano tratto un cadavere dalla Limmat, nei pressi di Turgi. La donna si soffiò rumorosamente il naso e asserì che sarebbe stata forte. Ma quel farabutto, quello Schütz, lui aveva sua figlia sulla coscienza, quella storia doveva essere chiarita.
– E così l’impiegato delle poste si chiama Schütz, – disse tristemente il commissario di polizia Studer. – Bene, di lui ci occuperemo più tardi.
Verso le nove di mattina due macchine si fermarono davanti alla casa del contadino. La seconda era un’ambulanza. Il poliziotto, orgoglioso del suo ruolo, stava per condurre il commissario Studer al ripostiglio degli attrezzi, ma il contadino si parò loro davanti. Durante la notte il cadavere era scomparso, disse seccamente. Studer tacque. La signora Egger, che si era avvicinata lentamente, prese a imprecare a gran voce, contro la polizia, contro i medici; d’un tratto tacque, quando guardò il piccolo Studer con i suoi occhi tristi, senza speranza. – Forse ha ripreso vita e se n’è andata a casa? – domandò asciugandosi la bocca con un fazzoletto rosso. Poiché gli Egger avevano il telefono, si chiamò a casa loro. Emma non era ricomparsa.
– Allora non ci resta che l’impiegato delle poste Schütz, – disse Studer con un sospiro. – Lei potrebbe restare qui, signora Egger, finché non sapremo qualcosa di più preciso –. Fece un cenno all’agente, e tornarono a Baden.
Il commissario non amava le azioni di polizia in grande stile, si avvicinò con il compagno allo sportello dell’ufficio postale e chiese di Schütz. Si alzò un giovane, che dichiarò di essere il ricercato Schütz.
– Vorremmo parlarle un momento, – disse gentilmente Studer. L’impiegato disse che era impegnato, in servizio.
– Allora forse può dirci dov’era ieri sera? – disse Studer, evitando di guardarlo. Quello incominciò a balbettare:
– Io… io… non l’ho uccisa…
– Nessuno ha ancora parlato di omicidio, – disse dolcemente Studer, – ma poiché è stato lei a cominciare con questo argomento, sarà meglio che ci segua, perché possiamo chiarire la faccenda.
Mentre Schütz lasciava il suo posto, l’agente sussurrò al commissario: – Ieri quello era all’osteria e ha ascoltato l’operaio che raccontava la storia della ragazza resuscitata.
– È ovvio che c’era anche lui, – disse Studer. I tre salirono in macchina. Studer oppose un silenzio stanco alle dichiarazioni d’innocenza dell’impiegato postale. La giornata estiva era calda, lungo il percorso Studer fece voltare la macchina in una stradina che portava al fiume. Giunti alla riva i tre scesero, non c’era molto da vedere, una piccola lingua di terra coperta di cespugli si protendeva nell’acqua accecante.
– Grazioso posticino per un ultimo appuntamento, – disse Studer, senza guardare il giovane. Quello tacque.
Giunsero alla casa del contadino. Due poliziotti avevano perlustrato la zona senza trovare nulla. La signora Egger non si sentiva bene, si era coricata in casa del contadino. Quando lo seppe, l’impiegato postale Schütz trasse un respiro di sollievo. Ma poi dovette appoggiarsi alla parete di legno, perché Studer aveva detto con calma, senza guardarlo:
– Non vuole mostrarci il luogo dove ha trascinato il corpo?
– Ma io non l’ho uccisa –. L’uomo singhiozzò, e le lacrime gli rigarono le guance.
– No certo, – disse Studer. – Lei è stato solo un vigliacco. Ma adesso si renda utile, vada con lui –. L’agente era a bocca aperta, fece cenno a un collega. Barcollando Schütz attraversò il campo con i due uomini, e si diresse verso il boschetto vicino. Nell’aria silenziosa si udirono ancora a lungo i suoi singhiozzi infantili.
– Queste mezze tacche! – disse Studer rivolto al medico legale. – Un tipo come lui uccidere una ragazza? Ma io preferisco un vero omicidio. Tutto questo è un po’ nauseante –. Studer si asciugò le labbra. – Una ragazza romantica, che si lascia coinvolgere. «Te o nessun altro!» avrà detto, avrà accusato i genitori di crudeltà. Ultimo incontro, ultimo abbraccio: «Gettiamoci in acqua insieme». Lui annuisce, la vede andare a fondo. Ma non ha il coraggio di seguirla, va a bere in un’osteria per dimenticare. Allora sente l’operaio che racconta quella strana storia. Torna a prendere il corpo, lo trascina nel bosco, e credo che abbia provato… ma non si può dimostrare. Forse aveva solo paura che la ragazza potesse svegliarsi. E poi? Che figura ci avrebbe fatto? È un vigliacco. Guardi, dottore, lo dico in tutta sincerità, preferisco un omicidio inequivocabile, cosa si fa con gente del genere? Lasciarli andare, perché facciano infelice un’altra ragazza? Grazie a Dio di casi come questi ce ne sono pochi.
Sfortuna
… e la colpa è solo delle circostanze, signor giudice istruttore, solo delle circostanze… Ho avuto sfortuna, una sfortuna nera. Io non sono di quelli che violano le leggi a cuor leggero, eppure… Cosa vuole, a volte ci si trova in situazioni in cui si perde ogni controllo di sé, e allora…
Ma devo spiegarmi meglio, forse lei mi sarà riconoscente per aver tolto di mezzo un caso disperato. Lo so, in tribunale non piacciono i casi che bisogna archiviare…
Io faccio il casellante, signor giudice istruttore, e quindi devo sorvegliare il passaggio a livello, abbassare le sbarre, poi devo stare davanti alla mia casetta con una bandiera rossa in mano ad aspettare che i treni mi passino davanti; sono già vent’anni che presto servizio. La mia casa sorge isolata lungo i binari, vedo i direttissimi, vedo gli accelerati… Mia moglie ha quarant’anni, abbiamo una figlia già grande, si chiama Anna. È fidanzata…
Quell’uomo l’ho visto per la prima volta tre settimane fa, un giovedì. Portava un abito semplice, grigio, se ne stava al margine del bosco e guardava verso casa mia. Ho notato chiaramente i suoi occhiali di corno, ogni tanto se li toglieva, se li rimetteva. Poi portò la mano alla fronte per farsi schermo agli occhi… Mi sono chiesto cosa volesse. Non sapevo niente del caso, allora. I giornali arrivano sempre in ritardo. La mia casa è tanto lontana, e poi il giornale che prendo io esce solo due volte la settimana. Gliel’ho già detto, era un giovedì quando l’uomo comparve per la prima volta, eppure seppi subito che cosa voleva…
Devo essere più chiaro? Mi sarà difficile. Parlare, sa… Prima, eh sì, era diverso, una volta ero presidente del coro maschile e dovevo tenere dei discorsi di saluto. Ma è passato tanto tempo. E i discorsi di saluto non sono così difficili come il racconto…
Il direttissimo da Parigi passa davanti alla mia casetta a mezzogiorno. E quel giovedì mi volò davanti ai piedi un portafogli. Alzai lo sguardo, un finestrino della carrozza di prima classe era aperto, si sporse un uomo con gli occhiali di corno… Ma successe tutto così in fretta, non riuscii a vedere altro. Gli occhiali di corno li notai chiaramente, però, e così non mi stupii quando quella sera vidi l’uomo al margine del bosco togliersi e mettersi gli occhiali, farsi schermo agli occhi con la mano e guardare verso casa mia… Cerca il portafogli, mi dissi, ma perché non si avvicina? Ha la coscienza sporca? Ma per quale motivo? Comunque è strano che uno getti un portafogli gonfio dal finestrino… Perché c’erano molti quattrini nel portafogli, questo non l’ho ancora detto, credo che fossero… Ma lei lo sa meglio di me, era su tutti i giornali, quando si parlò dell’omicidio del treno… Dell’uomo strangolato in uno scompartimento di prima classe…
Quel giovedì sera l’uomo con gli occhiali di corno non venne da me. Rimase sul limitare del bosco per un quarto d’ora circa, poi scomparve. Non mostrai a nessuno ciò che avevo trovato, né a mia moglie né a mia figlia. Le donne fanno subito un gran baccano quando succede qualcosa d’insolito. Nascosi il portafogli, posseggo una vecchia cassetta dove conservo le mie carte e i ricordi e le lettere di un tempo, la chiave la porto sempre con me…
Il giorno dopo l’uomo era ancora sul limitare del bosco. Era un venerdì. Si avvicinò. – Buona sera, come va? – L’accento, l’aspetto di uno straniero. Pallidissimo, stanco, l’abito sgualcito. Pensai che avesse dormito nel bosco. Siamo in estate, e le notti sono calde. Ma perché aveva dovuto dormire nel bosco? Non sembrava affatto un vagabondo… – Buona sera, – faccio anch’io. – Lei non ha per caso, – dice l’uomo, e si sistema gli occhiali di corno, – lei non ha per caso trovato qualcosa? – Avrei potuto tranquillizzarlo. Ma dico solo: – Trovato? – e taccio. L’uomo mi guarda attraverso le lenti, ha gli occhi tristi, a dire il vero mi fa pena. Ha una faccia da scalognato… Quella sera non succede altro. Alle dieci mia moglie andò a dormire, mia figlia era uscita, aveva un appuntamento con il fidanzato, rincasò solo all’una.
L’aspettai, e nell’attesa contai il denaro… Molto denaro, signor giudice istruttore, banconote, non pezzi grossi, facili da usare… Mi sarei potuto comprare una casa…
Il giorno dopo arrivò il giornale. «Omicidio a scopo di rapina sul direttissimo da Parigi… L’assassino in fuga… Si tratta di un giovane, forse il nipote della vittima, che ha sottratto allo zio un portafogli contenente una somma considerevole… Comunicazioni utili… eccetera…». Conosce lo stile…
Naturalmente, signor giudice istruttore, io avrei dovuto mettermi in contatto con la polizia. Ma si fa sempre ciò che si dovrebbe? Quell’uomo mi faceva pena, aveva un’aria così triste, proprio come chi non ha mai avuto fortuna, forse non voleva assolutamente uccidere lo zio? Cosa ne so? Succedono liti in famiglia, non è vero… E il portafogli non l’aveva affatto preso, era volato fuori dal finestrino…
La sera eccolo di nuovo. – Deve nascondersi, – gli dissi. – La polizia la sta cercando. Deve andare all’estero, dopo. Se vuole la nascondo io, conosco una capanna nel bosco, là non ci arriva nessuno, le porterò da mangiare… – Tutto questo mi uscì così, che vuole, so cosa significa essere scalognati… Anch’io una volta credevo di diventare qualcosa di meglio, ho frequentato il ginnasio, ma poi mio padre morì, ed io andai in ferrovia. Ora ho dimenticato tutto questo… L’uomo con gli occhiali di corno mi lanciò uno sguardo cattivo: – Mi dia i soldi! – disse. – Calma, – risposi, e a poco a poco montai in collera, come si permette questo assassino? Non voglio togliergli i suoi soldi, cosa crede? Ma gli dissi con molta calma: – Se le do i soldi lei cercherà di scappare, e la prenderanno di certo. La polizia la sta cercando. I soldi sono più sicuri a casa mia. Ne parleremo in seguito. Ora venga con me, prima che mia moglie la veda. Piace chiacchierare, a mia moglie… – Allora vidi che stava cedendo: – Bene, – disse soltanto, e si lasciò condurre alla capanna nel bosco. Là c’è una grande quercia, dalle foglie dure e trasparenti… Sì, i quattrini e la casa! Signor giudice istruttore, il mio sogno è sempre stato quello di allevare cani, di razza… Un sogno come questo è duro a morire, lo sa?… Ma no, lei non può saperlo. Per quattordici giorni portai da mangiare all’uomo con gli occhiali. Mi raccontò che suo zio l’aveva derubato; la vittima era il fratello di suo padre, il suo tutore… Avevano litigato in treno, lui non voleva ucciderlo, non voleva diventare un assassino, l’uomo con gli occhiali di corno, lo scalognato… All’ultimo istante lo zio aveva gettato il portafogli dal finestrino. Ieri l’altro il mio protetto è andato su tutte le furie, voleva il suo denaro, diceva che ora poteva fuggire… E ogni sera, quando le donne erano a letto, io avevo contato i soldi… Molti soldi, signor giudice istruttore…
È stata legittima difesa, davvero, è stata legittima difesa. Stava per saltarmi alla gola, quello scalognato. Ma io sono più forte. Ci ha lasciato la pelle… Adesso pende da un grosso ramo della quercia, quella quercia dalle foglie così trasparenti… E qui c’è il portafogli…
Cosa vuole, signor giudice istruttore, è stata una sfortuna, una sfortuna nera…
Re Zucchero
Fin dall’inizio era apparso il caso squallido par excellence, come il commissario di polizia Kreibig aveva immediatamente constatato sul luogo del delitto. Ambiente dei trafficanti – il morto steso a terra con una ferita da punta al petto che lo aveva dissanguato si chiamava Jakob Kußmaul, secondo il passaporto era di Riga, ma forse non si chiamava affatto Kußmaul, forse era di Bucarest, con gente come quella non si era mai sicuri… E il commissario Kreibig sospirò. Erano trascorsi quattro anni dalla guerra mondiale, Vienna era alla fame, e tutti trafficavano. Kreibig pensò sospirando che forse sarebbe diventato Consigliere aulico se ci fosse stata ancora la vecchia monarchia, ma così… E invece ecco qui questo Jakob Kußmaul, che forse non si chiamava affatto in quel modo, steso a terra, la camicia di seta rosa era strappata sul petto a sinistra, e una larga macchia di sangue aveva reso rigida e brunastra la stoffa delicata.
Il morto giaceva accanto a un tavolo, e sul tavolo c’era una scacchiera con gli scacchi. Una partita incominciata. Vicino alla scacchiera due tazze di caffè nero, mezze vuote, e accanto (che lusso!) due zuccheriere d’argento: in una, uno di quei pacchettini quadrati che contengono tre pezzi delle cosiddette zollette di zucchero, l’altra vuota.
Per terra giaceva Jakob Kußmaul, e nella destra teneva il re nero, nella sinistra un pacchetto quadrato di zollette, il pacchetto che doveva essere stato sul tavolo, nella zuccheriera vuota.
– Per quanto tempo è rimasto in vita? – chiese il commissario Kreibig al medico legale.
– Oh, due o tre minuti, credo…
– Era ancora in sé?
– Penso di sì, penso di sì. Un tipo del genere ha una vita tenace, mi creda, signor Consigliere aulico.
– E ciò che tiene in mano significa qualcosa, secondo lei?
– Sarebbe possibile… Ma cosa? Un re nero e tre zollette di zucchero?… Che significa?… Lei lo capisce, signor Consigliere aulico?
– Forse, – disse il commissario, al quale il «Consigliere aulico» del dottore carezzava piacevolmente gli orecchi. – Forse la vittima ha voluto fornirci un’indicazione, un’indicazione, capisce, dottore, per arrivare all’assassino. Perché lo zucchero avrà un significato…
– E il pezzo degli scacchi… – osò osservare con modestia il poliziotto Hochroitzpointner. Aveva dei miseri baffi rossi, la fronte corrugata.
– Sì, – disse il commissario, – il re nero… Conosco un re Haber, conosco un re Lear e tutti quei re di Shakespeare, Enrico e Riccardo, e conosco anche il re Ottokar ma non un re Zucchero. Re Zucchero… – ripeté scuotendo la testa. Si guardò intorno per la stanza. Una stanza d’albergo come tante altre. Un tappeto logoro, carta verdognola alle pareti, sbiadita fino a un rettangolo sopra il letto dove una volta doveva essere appeso un ritratto dell’Imperatore. La finestra dava su un cortile a lucernario, c’era una luce fosca nella stanza, fuori pioveva, e si stava facendo sera.
Il dottore si congedò, il commissario Kreibig studiò a lungo la partita incominciata, di tanto in tanto scuoteva la testa, il poliziotto in borghese Hochroitzpointner se ne stava zitto zitto, alla fine sussurrò:
– Devo chiamare il cameriere?
Kreibig annuì. Fissava il morto. Un aspetto antipatico, davvero. Triplo mento, pelle cerea, fronte bassa e labbroni. Di quella famosa «maestà della morte» nessuna traccia.
Kreibig distolse lo sguardo dal corpo e si avvicinò a un tavolo quadrato, accanto alla finestra. Era coperto di carte, fatture, lettere di carico, lettere commerciali: «In riferimento al Vs. pregiato ordine del 15 corrente ci pregiamo di offrirVi…». Un portafogli logoro, stracolmo. Kreibig l’aprì: lire turche, franchi svizzeri, dollari, sterline inglesi, due assegni. Kreibig contò meccanicamente il denaro, sospirò pensando allo stipendio che riceveva in valuta inflazionata, ripose con cura le banconote quando notò nascosto, stropicciato, un pezzo di carta. Lo espose alla luce. Dietro di lui il poliziotto Hochroitzpointner scivolava per la stanza sulle silenziose suole di gomma.
Il pezzo di carta era il ritaglio di un giornale francese: da un lato l’annuncio di un astrologo, ma il testo non era completo, era tagliato a metà, mancava tutta la seconda parte. Dall’altro un articolo segnato con la matita rossa:
«Le traitement rationnel du diabète par le professeur Durand».
L’avviso di un libro sul trattamento del diabete, evidentemente. Gli occhi di Kreibig passarono dal ritaglio di giornale al tavolo. Diabete?… Zucchero?…9
Due persone avevano giocato a scacchi sedute a quel tavolo, bevendo il caffè, ma tutte e due avevano bevuto il caffè zuccherato… Uno dei due, l’assassino, aveva lasciato il suo pacchetto nella zuccheriera d’argento, Kußmaul invece, prima di cadere dalla sedia, aveva fatto in tempo ad afferrare il pacchetto con la sinistra, mentre la destra… ma a questo avrebbe pensato dopo. Allora la sinistra aveva afferrato lo zucchero, l’assassino si era alzato, era uscito tranquillamente dalla porta, poi Kußmaul era caduto a terra, era morto e il corpo si era irrigidito in una posizione assai strana. Perché gli avambracci, dal gomito in giù, erano ritti. La mano sinistra serrava un pacchetto di zucchero, la destra un re nero…
Il cameriere al piano Pospischil Ottokar, coniugato, residente nella Mariahilferstraße 45, non pareva nutrire eccessiva stima per la vittima Kußmaul. Beveva, dichiarò, per notti intere, e giocava anche, con «amichetti» e donne… ma di questo lui, Pospischil, non voleva parlare. E poi Kußmaul era anche malato, diabetico, non poteva mangiare dolci, aveva consultato anche uno specialista, una volta era venuto da lui un signore distinto, cilindro e ghette bianche e una bella barba bianca, ma il nome non se lo ricordava.
– Sì, signor Consigliere aulico, – disse il cameriere Pospischil, che aveva un aspetto da morto di fame, – è meglio che lasci perdere, quest’uomo aveva delle conoscenze, le dico, veniva a trovarlo un colonnello della delegazione americana, e parlavano inglese, e poi di visite ne riceveva tutto il giorno, qui venivano turchi e russi e argentini – e anche gentaglia – se vuole sapere la mia opinione, signor Consigliere aulico, costui era un tipo losco…
– Sì, – disse il commissario Kreibig, carezzandosi i capelli bianchi che rilucevano come seta, – sì, mio caro Pospischil, l’ho pensato anch’io, l’ho detto subito, non è vero, Hochroitzpointner? Ho detto subito, il caso squallido par excellence, non ho detto così?
E Hochroitzpointner annuì in silenzio.
– Può andare, Pospischil… anzi no, aspetti. Per quanto riguarda lo zucchero, Hochroitzpointner, la cosa è chiara, vede qui il ritaglio di giornale, non è vero, «Il trattamento del diabete» di un professore francese di nome Durand. Ora si sa che i diabetici, proprio perché lo zucchero è stato loro proibito, ne hanno sempre voglia, e così Kußmaul, quando si è accorto che stava per morire, ha afferrato il pacchettino di zucchero per soddisfare il suo ultimo desiderio, per così dire. Non è vero? Che ne pensa, Hochroitzpointner?
Hochroitzpointner non rispose niente, teneva le mani penzoloni all’altezza delle spalle, il che gli conferiva una certa somiglianza con un cane in attesa d’elemosina. Il commissario Kreibig detestava quell’atteggiamento.
– E risponda, quando le si chiede qualcosa! – soffiò. L’agente del servizio segreto Hochroitzpointner non rispose, fece una domanda, e la fece al cameriere Pospischil:
– Con chi era solito giocare a scacchi il signore?
– Di preferenza con Swift, un inglese. Il signore… eh… il morto diceva che Swift era l’unico che sapesse giocare bene. Gli altri erano solo pivellini…
– E il signor Swift era qui anche oggi pomeriggio?
– Sì, è arrivato alle tre e mezza. Poi Kußmaul… eh… il morto ha suonato e ha ordinato due tazze di caffè con latte…
– Due tazze di caffè con latte? Ma dov’è il latte?
– Lo abbiamo terminato, e così ho portato due caffè neri… E allora il signor Kußmaul mi ha gridato perché gli avevo portato lo zucchero, lo so bene che non può prendere zucchero, e l’altro signore, il signor Swift, neanche lui può prendere zucchero, per il fatto che anche lui è diabetico…
– Ah… – fece l’agente della polizia segreta Hochroitzpointner, e scomparve.
– Può andare, Pospischil, – disse il commissario, – ma aspetti un momento, ha visto andare via Swift?
– Sì, signor Consigliere aulico, alle tre e tre quarti sono andato a chiamarlo, perché qualcuno al telefono aveva chiesto di lui.
– E Kußmaul era ancora vivo?
– Non lo so, mi perdoni, signor Consigliere aulico, non lo so davvero. Ho bussato e ho detto: «Telefono per il signor Swift». Allora una voce ha risposto: «Yes», la porta si è spalancata e io sono indietreggiato, perché sa, signor Consigliere aulico, a Kußmaul non piaceva quando entravo in camera, e una volta mi ha…
– Questo non mi interessa, Pospischil.
– Mi ha gettato in testa una bottiglia vuota… Sì, dunque, il signor Swift è venuto con me al telefono, ha parlato, in inglese, e io non ho capito niente, poi se n’è andato. Mi ha detto di riferire a Kußmaul che non poteva terminare la partita… Ma io ho fatto tardi, avevo da fare, hanno chiamato altri clienti, oh Dio! Il signor Consigliere aulico non sa com’è difficile per noi correre tutto il giorno, e le mance misere, i trafficanti sono avari…
– Va bene, Pospischil, e quando è entrato nella stanza?
– Verso le quattro e mezza, signor Consigliere aulico, e Kußmaul… eh, la vittima, nessuno sa se Kußmaul sia il suo vero nome, una volta uno lo ha chiamato in un altro modo, e allora era steso a terra, e ho telefonato alla polizia…
– E lei si chiama Ottokar di nome, Pospischil?
– Per servirla, signor Consigliere aulico, Ottokar, sì, come mio nonno…
– Fortuna e rovina di re Ottokar… – borbottò il commissario Kreibig.10
– Comanda, signor Consigliere aulico?
– Nulla, Pospischil, è il titolo di un’opera del viennese Grill-parzer, ma lei non lo conosce…
– No, signor Consigliere aulico, un cliente con questo nome non l’abbiamo mai avuto nel nostro albergo.
– E lei ha un coltello, Pospischil?
Il re nero… re Ottokar… allora lo zucchero non c’entrava… ma Swift era diabetico, forse Hochroitzpointner aveva ragione, ma Swift, Swift… non aveva scritto drammi di re, solo quelle storie di giganti…11 Gulliver? Sì, Gulliver… Kreibig aveva la mente un po’ confusa.
– Lei ha un coltello, Pospischil? – ripeté, mentre il cameriere taceva.
– Oh, solo un temperino, signor Consigliere aulico, – e con un sorriso che esprimeva un imbarazzo commovente mostrò i denti cariati.
– Me lo mostri!
– Prego, subito…
Dai pantaloni neri e lucidi Pospischil trasse un coltello lungo quanto il mignolo. Kreibig l’osservò, l’aprì: pieno di tacche, arrugginito; scrollò le spalle.
– Può andare, Pospischil.
– Agli ordini, signor Consigliere aulico –. E Pospischil scomparve in silenzio come l’agente della polizia segreta Hochroitzpointner.
Kreibig prese una sedia, l’accostò al tavolino rotondo sul quale era disposta la partita incominciata, e reggendosi il mento con le mani studiò la posizione degli scacchi.
Il signor Swift aveva il bianco. Sembrava prediligere la vecchia, provata tecnica di gioco. Kreibig era un buon teorico degli scacchi. Il bianco aveva giocato il gambetto di re, il nero lo aveva accettato, quante mosse avevano fatto i due giocatori? Al massimo dieci. Il bianco aveva sacrificato un cavallo, quindi aveva provato a giocare il vecchissimo gambetto Kieseritzky,12 ma evidentemente il nero conosceva la variante. Chi aveva trovato la confutazione, la confutazione di questo attacco che una volta passava per buono? Era un tizio, come si chiamava? Süßkind? No. Schokoladentorte?13 Che sciocchezza! Un maestro degli scacchi del secolo passato. Chi c’era? Anderssen?14 No. Morphy?15 No. Pilger? Quello era un teorico…
Kreibig rinunciò… Fissò il morto. In una mano, il re nero, nell’altra tre zollette di zucchero… L’elemento importante era lo zucchero o il re? Aveva ragione Hochroitzpointner, che era appena uscito, a cercare l’inglese Swift per arrestarlo? Swift, anche lui diabetico? Kußmaul, pensò Kreibig che sotto la monarchia sarebbe arrivato a diventare sicuramente Consigliere aulico, e che ne aveva anche l’aspetto, non c’era da meravigliarsi che tutti lo chiamassero così – Dio mio, perfino con la repubblica –, Kußmaul, pensò il commissario Kreibig, la tua morte è il caso squallido, ingrato par excellence, questo è vero, ma sembra che tu abbia sentito la necessità di lasciarci un piccolo rebus. Dovremmo essertene riconoscenti. Dio mio, la vita è così noiosa. Che senso ha cercare il tuo assassino, Kußmaul, nessuno sentirà la tua mancanza, neppure i tuoi «amichetti», come dice Pospischil. Non hai combinato molto di buono in vita tua, te lo si legge in faccia, hai ingannato la gente, hai sedotto le donne, sono certo che sei un ricattatore, sei un avvoltoio, Kußmaul, eppure io devo cercare il tuo assassino. Cosa vuoi, il dovere è dovere, siamo abituati così. E poi, se non risolvo il tuo piccolo rebus del «re Zucchero», forse riderai di me, laggiù, dove adesso vaghi qua e là come facevi su questa terra…
L’oscurità si era infittita. Kreibig balzò in piedi, accese la luce. Il morto tendeva ancora i pugni semichiusi verso il soffitto…
… Ma chi aveva trovato una confutazione del gambetto Kieseritzky?…
Kreibig si chinò ancora sul morto, aprì la camicia che il medico legale aveva abbottonato. La ferita era piccola, pulita, con i labbri netti, non frastagliati…
… Come fatta con una lancetta, pensò Kreibig, andò alla porta, la chiuse dall’esterno e scese le scale.
– Che aspetto ha il signor Swift? – domandò al portiere.
– Il signor Swift? È basso, vecchio, e ha un forte tremito alle ginocchia e alle mani…
– Ah, – fece solo Kreibig, s’infilò i guanti glacé, piuttosto logori.
In ufficio si fece portare un elenco degli specialisti di Vienna. Scorse i nomi. D’un tratto, quasi al termine della lista, balzò in piedi e incominciò a battersi la fronte con il palmo della destra. – Naturalmente! – disse. – Ma certo! Il gioco reale! Il re del gioco! Il campione! Il campione di scacchi! Il campione dello zucchero! – E continuò a battersi la fronte. Finché Hochroitzpointner aprì pian piano la porta, scrutò spaventato nella stanza e disse sottovoce:
– Credevo che il signor Cancelliere aulico avesse suo figlio con sé e gli stesse dando una sventola –. E a questo punto va detto che sventola è l’espressione viennese per schiaffo.16
– E Swift, caro Hochroitzpointner? – chiese Kreibig.
– Swift è una specie di corriere della legazione inglese. È partito. In automobile. Volevo chiedere se bisogna diramare l’allarme ai posti di confine…
– Non è necessario, non è necessario, ma prenda una sigaretta, caro Hochroitzpointner…
Un gesto nobile, perché una semplice «Drama» a quel tempo costava…
– Potrei parlare col professore? – chiese Kreibig.
– Credo… – rispose il cameriere.
– È importante, commissario Kreibig, mi annunci.
Il signor professore portava una finanziera nera, un panciotto bianco, ma la lunga barba era molto più bianca del panciotto. Il signor professore era nervoso. Disse ciò che si dice sempre in situazioni del genere:
– A cosa devo l’onore?
– Signor professore, – disse il commissario Kreibig, – perché ha pugnalato quel filibustiere? – (Filibustiere è un’espressione plastica per farabutto).17
– Filibustiere? Pugnalato?
– Non tema, signor professore, – disse Kreibig affabile. – Non le accadrà nulla. Anche altre persone sono contente della morte di Kußmaul. È più che altro un mio trionfo privato, perché il morto mi aveva lasciato un rebus, ed io l’ho risolto. Infatti ha rivelato con estrema chiarezza il nome del suo assassino.
– Ah sì? E come?
– Zollette di zucchero in una mano, il re degli scacchi nell’altra.
– E allora?
– E il nero ha giocato la confutazione del gambetto Kieseritzky.
– Mi scusi, signor commissario, ma io non ho proprio tempo…
– Lei è il signor professore Zuckertort, specialista per diabetici…
– Sì, e allora?
– Nel secolo scorso lei aveva un omonimo, un famoso giocatore di scacchi, anche lui si chiamava Zuckertort.18 E ammetterà che la buonanima di Kußmaul (c’è da chiedersi se adesso sia una buon’anima) non avrebbe potuto trovare allusione migliore al suo nome. Il re, il campione, il cui nome incomincia con Zucker… Ed ora mi dica perché l’ha ucciso. Non ho alcun mandato di arresto, sono certo che lei aveva ragione, il procedimento verrà sospeso. Ma mi concede il trionfo privato?
– Perché ho pugnalato quel porco? Perché?
Il volto dalla barba bianca si fece di fuoco.
– Perché quel filibustiere mi aveva consegnato acqua di fonte invece di insulina, e c’è mancato poco che due casi gravi morissero di sepsi.
– Ah, – disse il commissario Kreibig, – acqua di fonte invece di insulina… – e si congedò.
Perché l’insulina è l’unico farmaco dall’effetto abbastanza sicuro nei casi gravi di diabete.
Kreibig sostò ancora un momento davanti alla targa del medico, la lesse sottovoce, tra sé. C’era scritto:
PROF. DOTT. REGIS ZUCKERTORT
SPECIALISTA IN MALATTIE DEL RICAMBIO
– E per di più anche «Regis», genitivo di rex, e al ginnasio ho imparato che rex significa re. Troppa grazia davvero.
Il commissario Kreibig s’infilò i guanti logori scuotendo la testa e in strada aprì l’ombrello, perché piovigginava. Scomparve nella confusione della strada, mentre da una finestra al primo piano lo seguiva con lo sguardo un signore con la barba bianca, che forse per la prima volta nella sua lunga carriera di medico riteneva necessario lambiccarsi il cervello su un problema psicologico.
Lamento funebre
Ora sono trascorsi cinque minuti, e non è venuto nessuno. Nella casa non hanno sentito il colpo. Così posso restare seduta ancora mezz’ora qui accanto a te e parlarti. Tu non mi senti più, ed è bene così. Vieni, ti abbottonerò la giacca blu del pigiama sul petto, per non vedere più il piccolo foro scuro. Non ha quasi sanguinato. E la Browning, che sembrava un giocattolo, te la lascerò in mano. Come sei riuscito a strapparmela? Eh sì, sei sempre stato abile.
Domani ti troveranno, ed io sarò già lontana. Nessuno mi ha vista venire, ho fatto attenzione, e nessuno mi vedrà uscire dalla casa. Domani… domani mi sposerò. È un buon uomo, e mi vuole bene. Avrò una casa e dei figli, e dimenticherò i sei anni che ho perso con te. Sai, sei anni sono molti per una donna. Vedi, adesso ho già ventinove anni, e quanto mi hai fatto patire! Non sei davvero qualcuno di cui si possa fare sfoggio, non sei un uomo di cui una donna possa essere orgogliosa. Non c’è bisogno che tu sorrida in modo così sprezzante. Hai bruciato le mie lettere? Con quel tuo disordine…
Sì, eri così perbene… Ma questo cos’è? Lo hai scritto stasera? Sapevi?…
«Ne ho abbastanza. La faccio finita. Poiché non posseggo nulla non serve neppure un testamento». E la tua firma. Breve e conciso, non di molto gusto. Perché non qualche parola triste? Sarebbe stato così bene sul giornale. Così si leggerà solo, in piccolo, sotto «Incidenti e cronaca nera»: «Ieri si è suicidato nel suo appartamento un certo N.N. L’indigenza è la probabile causa del triste gesto». Punto. Fine. E sotto «Cronaca mondana» ci sarà scritto: «La famosa violinista XY si è sposata oggi con il signor direttore tal dei tali. La cerimonia ha avuto luogo eccetera eccetera». Sì, andrà così, perché oggi finisce tutto sul giornale. E nessuno saprà che siamo stati insieme sei anni. Perché nessuno ti conosce, ed io sono sempre stata così prudente… Questo appartamento di una sola stanza l’ho affittato io per te, tu hai vissuto con i miei soldi, per sei anni. Non proprio. All’inizio guadagnavi qualcosa anche tu, e mi aiutavi quando ero in difficoltà. Ma dopo… A onor del vero devo dire che ti ho sempre aiutato di mia spontanea volontà, tu non mi hai mai chiesto niente. Ma com’eri pigro! Dio mio! Volevi sempre dormire, e quando volevi dormire io non potevo esercitarmi. A cosa servono esseri come te? Perché esistono a questo mondo? Vite degenerate, inutili, hanno ragione i galantuomini, quelli che tu chiamavi borghesucci. Che cos’hai combinato? Alcune poesie, che sono brutte, alcune critiche, che erano immature, immature come te… Ben ti sta… e non credere che ti rimpiangerò, tu… tu… parassita…
Gli uomini, gli uomini veri, quelli che affrontano la vita, vedendoti scrollavano le spalle. E tu li sfuggivi. È naturale, avevi paura di loro. Eri un vigliacco. Solo con gli animali, con i bambini e con le vecchie, con loro ti sentivi a tuo agio. Ti ricordi, sei anni fa? Io avevo un cane. Era molto fedele, mi seguiva ovunque – ma appena eri in casa tu, voleva stare solo con te. Lo avevi stregato? Con le tue mani? Hai mani così strane, sempre calde e asciutte. Le tue mani mi erano molto care. Ora sono fredde, ora non carezzeranno più nessuno, non carezzeranno più il collo di un cavallo – ti ricordi il cavallo del nostro lattaio, ti conosceva, girava sempre la testa quando passavi… Allora toglievi le mani di tasca, lo prendevi per la criniera e gli parlavi, molto meglio che con un uomo. Con gli uomini non hai mai saputo parlare bene – solo con me. E a dire la verità a volte dicevi cose molto intelligenti. Ti intendevi perfino di musica, sì, devo ammetterlo, il concerto per violino di Mozart non lo avrei mai suonato così se tu non me lo avessi spiegato; mi hai fornito la chiave, quella volta: «Una danza macabra», hai detto, «lo devi suonare come una lieta danza macabra. La morte è lieta, non lo sai?». Mi sono impegnata, e i critici hanno scritto frasi come «interpretazione molto personale». Quei cretini.
Sì, così ho chiamato i critici quella volta. E tu cos’hai risposto? Hai detto: «Ah, sono solo dei poveri diavoli. Perché arrabbiarsi con la gente?». Per te erano tutti dei poveri diavoli. Un modo comodo per sentirsi al di sopra degli altri. Quale motivo avresti avuto per darti importanza? Nessuno. Eri una nullità… Una nullità? Non proprio. Sapevi tante cose. Ti ricordi, all’inizio ti chiamavo sempre enciclopedia ambulante. Sono stati i libri a corromperti. Cosa sapevi della vita? Evitavi ogni battaglia. Ogni litigio. Non abbiamo mai – sì, davvero – non abbiamo mai litigato. Fino a questa sera. E sei stato tu a provocare la lite, sei diventato volgare, finché io ho preso la pistola – è partito un colpo, e tu sei caduto sul letto. E quando mi sono chinata su di te mi hai tolto dolcemente l’arma di mano, hai sorriso – e il sorriso ti è rimasto sul volto. Era tutto predisposto? Era il tuo regalo di nozze? La tua morte? Per lasciarmi in pace? Rispondi! Non tacere in modo così ostinato. Ti chiuderò gli occhi…
Avevi dei bravi piedi. Ho sempre detto che i tuoi piedi sembravano così bravi. Veri piedi di bambino, nell’espressione, intendo. Perché anche i piedi nudi possono avere un’espressione. E avevi una schiena amabile. Mi piaceva carezzarla. C’era caldo accanto a te, io avevo sempre tanto freddo. Eri una buona stufa…
Mi viene quasi da ridere, eppure è triste che tu sia così rigido, e i tuoi piedi siano severi e diritti, non più come prima… Svegliati. Vogliamo… sì, cosa vogliamo? Ricominciare da capo? Sei anni sono molti per una donna… E io voglio avere dei figli, voglio avere un marito, una casa… Me li puoi dare tu? No. Io devo sempre e solo aiutarti. E quando hai dei soldi, vai a ubriacarti. No, facciamola finita, ho avuto abbastanza pazienza con te. Capisci?… Ah, non ha più senso ormai.
Pazienza? Ho avuto davvero tanta pazienza con te? Non sono stata insopportabile anch’io qualche volta? Non me ne hai parlato, tacevi quasi sempre. Troppo. Avresti dovuto parlare di più, stare di più insieme agli altri. Avevi delle buone attitudini. Ma dicevi sempre che non ti interessava. Cosa ti interessava in realtà?
Sì, ti credo quando dici che mi volevi bene. Mi davi dei nomi tanto strani. Non li ricordo tutti. Nomi di animali, per lo più. Beh, è normale che gli innamorati si chiamino «colombella» o cose simili. Perché mi avevi battezzata «capriolo delle nubi»? Non ha senso. Suonava bene quando lo dicevi, ma era infantile. Eravamo sempre infantili l’uno con l’altra. Abbiamo parlato seriamente qualche volta? Credo di sì. Ma l’ho dimenticato.
Il capriolo delle nubi… Ho davvero l’aspetto di un capriolo? Sono una donna forte, che sa ciò che vuole, voglio salire, non vegetare eternamente in basso. Ed è anche per questo che sposo il signor direttore, un uomo, mi senti? Il signor direttore mi chiama Klärli, mi chiamerà sempre Klärli, forse mi chiamerà «mamma» o «madre», se avremo dei figli. Ma non gli verrà mai in mente di chiamarmi capriolo delle nubi…
Sarà gentile con me, il signor direttore, una passione ponderata, un uomo nel fiore degli anni, ma dovrò guardarmi bene dal piangere davanti a lui… Mi ha già detto che odia le donne isteriche. Me lo terrò bene a mente. Con te potevo piangere, mi carezzavi i capelli e citavi Morgenstern:
Sono così sciocco, sei così sciocca,
vieni, andiamo a morire…19
Tu sei andato a morire. Ed ora anche il capriolo delle nubi è morto. Sai, quando eravamo veramente felici, sdraiati l’uno accanto all’altra (e fuori pioveva, sul tetto a vetri del nostro piccolo atelier tamburellava la pioggia), io cantavo, sottovoce, per te. «Ma il capriolo delle nubi sa anche cantare?» mi chiedevi. E io continuavo a cantare. Come un bimbo piccolo quando è molto contento. Fu un periodo strano. Ricordi che la nostra calligrafia era diventata quasi uguale? Nessuno dei due aveva imitato l’altro. Le due calligrafie si erano avvicinate, proprio come noi, allora. E ballavamo anche insieme, soli soli, nell’atelier, la fiamma a gas bruciava. Ecco là il mio vecchio grammofono. Ti piacciono ancora tanto i dischi hawaiani? Io li trovavo terribilmente dolci, ma a te piacevano, e si ballavano bene. Non hai mai voluto che io mi occupassi della cucina. Eri sempre tu a cucinare e a lavare i piatti. «Ti rovini solo le dita», dicevi. Cucinavi bene. Soprattutto il risotto. Ti ricordi? E spazzavi anche il pavimento. Eri un buon uomo…
Giaci così tranquillo. Solo i capelli sono scompigliati, come sempre. Vieni, voglio pettinarti. Perché tu non sia così in disordine quando domani ti troveranno. Cosa faranno di te? Faranno l’autopsia e poi ti seppelliranno. Non verrà nessuno al tuo funerale. E i tuoi bravi piedi…
Pensiamo a qualcos’altro. Ti ricordi, l’estate al lago? Vedi, quella volta mi avevi mentito. Dicevi che sapevi nuotare magnificamente, e non riuscivi neppure a stare a galla. Eri fatto così. E a me piaceva tanto nuotare, l’acqua era tiepida, tu sedevi sulla riva e avevi acceso un fuoco per scacciare le zanzare. E giocavi col nostro cane. Ed io ero gelosa del cane e l’ho regalato… Tu sedevi sulla riva e tossivi, quando il fumo ti entrava nel naso. Ma intanto fumavi una sigaretta dopo l’altra. Sempre quelle francesi, quelle forti. Per poco non hai attaccato questo vizio anche a me. Ti ricordi, per un certo periodo ho fumato molto, e sei stato tu a insegnarmelo. Poi ho smesso.
A quell’epoca, l’ultimo anno al conservatorio. Non avevo denaro. Allora sei andato a lavorare come manovale. Eravamo molto economi. Poi ho ricevuto l’eredità. Devo dire che mi hai sempre aiutato molto, quando era necessario. E in fondo, il denaro è tanto importante? So che non ti era facile eseguire un lavoro manuale così semplice, ma lo hai fatto, e per me.
Sei strano, così sdraiato, col tuo sorriso rigido. A volte sorridevi così anche nel sonno. Sì. Allora mi arrabbiavo sempre. Perché pensavo che ridessi di me. Eri un tipo strano. Ti ricordi quando mi aveva dato di volta il cervello, e mi ero innamorata di quell’idiota, quel medico, e te l’avevo detto? Hai sorriso anche allora. E ciò mi aveva fatto infuriare a tal punto che ti avevo tradito con lui. E ti avevo raccontato anche questo. Non hai neppure pianto quella volta, ma io singhiozzavo, perché pensavo di aver distrutto qualcosa di bello. Perché quel tipo, il medico, era una persona impossibile, un inetto, un presuntuoso. Non lo potevo più vedere, dopo. Poi tu hai dovuto consolarmi, sai cos’hai detto? «Sembra che questo sia il mio destino», hai detto, «prima le donne provano a ingannarmi, come si suol dire, e poi mi tocca anche consolarle». E hai aggiunto che non si era rotto nulla, al contrario, ora saremmo stati ancora più vicini l’uno all’altra. Ed era vero. Poi venne quel periodo bello, maturo; quanto tempo è durato? Un anno? Io avevo successo. Non sei mai voluto venire a un concerto. Ma a casa mi correggevi sempre. E Dio sa se te ne intendevi. Uomini come te cosa fanno a questo mondo? Vedi, devi scusarmi. Sono ancora così borghese. Mi sarebbe piaciuto sposarti. Ma tu non hai mai voluto. Era troppo complicato per te. Troppo borghese.
Sì, quell’anno. Fu davvero strano. Non avevamo solo la stessa calligrafia, parlavamo la stessa lingua. Una lingua muta. Strano, ci capivamo, solo con gli occhi. Ti ricordi quella visita dell’impresario, a Parigi, io avrei dovuto esibirmi da qualche parte, e lui si diede alla fuga perché si sentiva a disagio? Noi non dicevamo una parola, e lui aveva l’impressione di sedere davanti a dei fantasmi. Ed erano solo un capriolo delle nubi e un fratellino.
A quel tempo ti chiamavo sempre fratellino. Forse per la canzone:
Fratellino bello, non essere arrabbiato…
Dimmi, tu che sapevi spiegare tutto, perché sto diventando così sentimentale? I ricordi sono sempre sentimentali? Oppure sto confondendo qualcosa? Io non sono sentimentale, o «piena di sentimento», come dicevi sempre. Vedo solo immagini, e in tutte queste immagini ti muovi tu, fratellino. Stasera posso ancora piangere, per l’ultima volta, accanto a te. E domani diventerò una gran signora, farò una bella figura al braccio di mio marito (tu avresti sogghignato se avessi sentito questa parola, lui non riderà mai quando dirà: «Moglie mia, vedi, dipende solo dai punti di vista…»), quando al braccio di mio marito riceverò le congratulazioni.
Fratellino, lui non ha un grammofono, il signor direttore, ha solo una radio. Purché non trasmettano musica hawaiana, altrimenti non garantisco nulla… Dirò che ho il raffreddore… Se dovrò piangere. E Morgenstern non lo leggerò più.
Per te è passata, ragazzo, ragazzo mio. Sai, ti chiamavo spesso così, quando avevi paura. Avevi spesso paura. Non dovevo difenderti? Come una madre il suo bambino? Forse adesso avrò dei piccoli veri, nuovi di zecca, come dicevi sempre. E avevi sempre tanta paura che avessi un figlio da te. Ragazzo sciocco.
Adesso la mezz’ora è passata. Non ho pianto affatto. Giaci così immobile. Te la sei svignata. In un modo originale, devo dire. Facendo di me un’assassina. Assassina? Non provo alcun senso di colpa. Che fine avresti fatto senza di me? Perché avevi capito bene che come moglie del direttore non sarei più venuta in tuo aiuto. Non mi avresti ricattata. Eri troppo corretto per farlo. Che ne sarebbe stato di te? Ti avrebbero internato da qualche parte. Ora stai meglio.
Senti, fratellino, adesso non devi più essere arrabbiato, davvero. Ti ho visto piangere solo due volte, la prima volta, ricordi?, perché eri felice. E poi una settimana fa, quando ti ho detto che mi sarei sposata. Non avevi un bell’aspetto mentre piangevi. Come un ragazzino. Ma non ho saputo consolarti. Non dovevo commuovermi, capisci. Dovevo uscire dal fango, mi avresti tirata sempre più in fondo, nella tua pigrizia, nella tua indolenza, nella tua indifferenza. Io voglio vivere, capisci?
No, non sei arrabbiato, stai sorridendo. Tu capisci tutto. Sei un buon uomo. Perdonami per averti chiamato parassita. Non lo sei affatto. Una volta ti ho chiamato anche anima storpia. Perdona anche quella cattiveria. Non lo eri. Eri un buon uomo, ho imparato molto da te. Sei contento? Cos’ho imparato? Forse a non prendermi troppo sul serio. Il mio violino… Eh sì, la moglie del direttore suonerà qualcosa, quando avrà ospiti. Applaudiranno con discrezione, mormoreranno: «Peccato per quel talento meraviglioso…». Mi perdoni, fratellino, non è vero?
Sento che dici: «Capriolo delle nubi, è stato un favore reciproco. Tu mi hai risparmiato la fatica di uccidermi, io ti ho liberata di un peso. Ci rivedremo, capriolo delle nubi. Credimi».
Non eri credente. Ma a volte parlavi di un altro mondo. Là sarà diverso, fratellino, diverso da qui, speriamo, un mondo meno volgare… Ora non ti soffierò più negli orecchi, ti arrabbiavi tanto quando lo facevo. Addio, il capriolo delle nubi se ne va.
Addio, fratellino, ragazzo mio, bimbo mio…
Scarpe che scricchiolano
A quel tempo, nell’anno millenovecentodiciannove, Jakob Studer, che da un anno e mezzo era commissario della polizia municipale di Berna, dovette cercare un nuovo appartamento perché la casa in cui abitava, tre stanze con cucina, veniva demolita. Ora, traslocare è sempre una faccenda spiacevole, ma ancor più spiacevole è cercare, quando durante il giorno si ha poco tempo. E così fu colpa della signora Hedwig Studer se la coppia traslocò in ottobre, e se in seguito il commissario rimase a letto tre settimane per una pleurite. Si trascinano i mobili su per le scale, li si accosta prima a una parete, poi all’altra, si suda, non si fa attenzione quando piove – e quando finalmente ci si potrebbe riposare nelle nuove stanze incomincia una tosse tormentosa, fitte alla schiena, appena sopra i fianchi; volto arrossato, fronte imperlata di sudore, la moglie dice: – Köbi, tu hai la febbre! – e cerca il termometro smarrito durante il trasloco…
Trentotto e nove. Viene il dottore, una seccatura, perché fino a quel momento non si aveva idea di cosa volesse dire essere malati. Petto nudo, il dottore percuote la schiena, bisogna inghiottire l’aspirina che brucia lo stomaco, non ci si può alzare, e la signora Hedwig Studer telefona in ufficio che il marito è molto malato e nei prossimi giorni non potrà venire. A letto, con gli occhi doloranti, si sente quel parlare monotono, ci si arrabbia, ma ci si arrabbia ancor più per la carta da parati. Non s’intona – anzi, contrasta col suo gusto. E poi la casa è rumorosa. Lassù, al terzo piano, una ragazzina suona scale, poi studi, poi una sonatina e infine un valzer, mentre nell’appartamento della casa accanto qualcuno pianta un chiodo alla parete – il chiodo non va bene, forse è stato piantato nel punto sbagliato, si sente toglierlo dal muro, e i colpi ricominciano due centimetri più a destra…
Grazie a Dio la telefonata è finita, ma il pianoforte continua a suonare, il rimbombo del martello non cessa, la moglie entra nella stanza, cammina lieve in punta di piedi, ma non riesce a chiudere la porta senza far rumore. Fuori la bufera d’autunno brontola per le strade, nell’appartamento c’è corrente, e la porta sbatte. Non può stare attenta, chiede alla moglie il malato nel letto. Hedwig Studer ha una smorfia di disappunto, perché lei è stata attenta! È colpa sua se nel nuovo appartamento c’è corrente? Non può farci nulla! dice adirata, si lascia cadere in poltrona e incomincia a leggere. Legge volentieri, la moglie del commissario, romanzi dal frontespizio variopinto, e i litigi che scoppiano di tanto in tanto sono colpa di questi libri, che non sono neppure rilegati, ma solo in brossura.
– Ehi! – dice il malato nel letto, con voce roca. – Ho sete! – Sospiro. La moglie si alza, esce dalla stanza (questa volta la porta non sbatte), e torna dopo dieci minuti con l’infuso di tiglio. – Grazie! – dice il marito, riempie una tazza, mescola un cucchiaio di zucchero nel liquido bollente e incomincia a bere. – Non fare quel rumore! – dice la moglie, e il marito brontola. Sono le tre, e la figliola è ancora a scuola. L’uomo della casa di fianco ha smesso di martellare, al terzo piano il pianoforte tace. Il commissario della polizia municipale vorrebbe leggere, ma non ha voglia di chiedere nulla alla moglie. Così se ne sta a letto, le mani incrociate sotto la testa, il naso chiuso, la gola che gli fa male.
È inutile spiegare meglio in quale strada si trovava la casa in cui Jacob Studer a quell’epoca aveva affittato un appartamento. Basti dire che era una strada curiosa, dove lo sguardo spaziava dalle finestre. Ma la stazione era vicinissima, e cinque binari passavano sul lato opposto della strada. Nei pressi c’era una cabina di manovra, una casetta di vetro, illuminata di notte, una casupola sollevata da terra, sorretta da un’impalcatura d’acciaio. Quando Studer si alzava perché passava la notte insonne, riusciva a vedere l’uomo che tirava una leva, abbassava una leva e aspettava che il direttissimo o l’accelerato entrassero in stazione sferragliando sulle rotaie. Le notti in cui stava meglio gli venivano in mente quelle passate, quando la febbre lo svegliava e il rintronare dei treni gli faceva male alla testa col suo rimbombo, quando sentiva l’arrivo dei convogli, il loro strepito, il passaggio fragoroso, e finalmente il silenzio. E quel silenzio improvviso era un tormento, mentre le ruote erano immobili in stazione, e i freni stridevano ancora per un po’, dopo uno schianto delle ruote sui giunti delle rotaie – mentre la febbre gli pulsava in testa, anche le ruote strepitanti cantavano la loro canzone sconosciuta nella loro lingua sconosciuta –, e non si sapeva se fosse una canzone o una storia, una storia incomprensibile quella che raccontavano…
Il commissario della polizia municipale di Berna odiò fin dall’inizio l’appartamento in cui gli era toccato di traslocare, perché la vecchia casa dove aveva vissuto per tanti anni era diventata vecchia, e bisognava demolirla. E doveva dominarsi per non rinfacciare alla moglie di aver preso in affitto quell’appartamento che solo la strada separava da cinque rotaie, dove notte e giorno si udivano i treni in arrivo e in partenza. Si destavano i sogni, e nei sogni vedeva i luoghi di provenienza e di destinazione dei treni, il sud, il mare, le montagne, le isole del nord, le miniere di carbone inglesi, Napoli, il Canale di Suez – in quei sogni affioravano immagini sempre più lontane, che tormentavano il corpo febbricitante col sudore e col freddo nordico… Ma c’erano due cose che rendevano l’appartamento ancora più odioso.
Per prima cosa la carta da parati della stanza: un tecnico aveva pensato a una pergola di rose, e se ne vedevano i fili ben disegnati dai quali pendevano foglie di rosa e tralci e fiori e boccioli; la carta costringeva il malato a pensare all’estate, a un parco e a fiori profumati.
C’era poi un rumore più odioso dello sferragliare dei treni. Il muro al quale era accostata la testiera del letto doveva separare la camera dalle scale. Perché sempre – e cioè alla stessa ora – si udivano dei passi. Ora salivano, ora scendevano. E poiché era a letto malato e non poteva vedere niente, si lambiccava il cervello chiedendosi chi potesse essere colui che saliva, poi scendeva. Un uomo… Senza dubbio un uomo… Un passo di donna sarebbe stato più leggero – anche se si fosse trattato di una donna grassa si sarebbe sentito il ticchettio dei tacchi, e il passo di una giovane sarebbe stato lieve. Un uomo, quindi… Ma che aspetto poteva avere?… Le suole scricchiolavano, forse le scarpe erano state suolate male – perché l’uomo non portava suole di gomma, per esempio? C’era un altro elemento strano: le ore in cui si sentivano i passi. Che mestiere faceva l’uomo? Alle dieci di mattina scendeva lentamente le scale, a mezzogiorno tornava. Il pomeriggio pareva che restasse a casa. Ma alle sette e mezza le suole scricchiolavano ancora sui gradini, quando i passi scendevano. E a mezzanotte, al più tardi alla mezza, tornavano a salire, però non si fermavano al terzo piano, dove ogni pomeriggio una ragazzina si esercitava al pianoforte, ma continuavano a salire… La casa era di tre piani – oltre l’ultimo c’erano le soffitte. Allora… Allora l’uomo dalle scarpe scricchiolanti doveva abitare in una soffitta.
Anche il commissario aveva diritto a una soffitta, ma fino a quel momento non se n’era interessato. C’erano dei mobili – cioè sua moglie vi aveva stipato vecchi mobili, valigie, oggetti inutili dai quali le donne si separano malvolentieri, ed era piena. Studer aveva pensato di affittarla ammobiliata, quando fosse guarito. Non sarebbe stato un cattivo affare, e avrebbe diminuito un poco l’alto costo della pigione. Certamente un inquilino della casa aveva già attuato quel piano, e una soffitta era affittata. A chi? Da chi? Al pianterreno c’era un ufficio che trattava la vendita di oli lubrificanti. Il proprietario non era da prendere in considerazione. Al primo piano abitava un professore universitario, che poteva permettersi una cameriera. Alla giovane aveva destinato una soffitta, era certo. Ma chi abitava al terzo piano?
Dopo otto giorni il commissario non aveva più la febbre alta nelle ore mattutine e pomeridiane. Quando la signora Hedwig Studer aveva terminato i lavori di casa, sedeva nella sua poltrona e leggeva. Una volta il marito le chiese: – Senti, Hedy! – Chi abitava al terzo piano? La risposta incominciò con un «Eh?» interrogativo, segno che la signora Studer era immersa nella lettura del suo libro. Il commissario ripeté paziente la domanda. Ma fu inutile, perché un treno entrò strepitando in stazione, e Studer dovette ripetere la domanda per la terza volta.
– Chi abita lassù? – E perché interessava a Köbi?
– Così!
L’uomo si chiamava Sobel e aveva una tabaccheria da qualche parte in città. Aveva affittato la soffitta a un musicista, se gli interessava saperlo, e a quanto aveva sentito, il violinista se l’intendeva con la moglie del tabaccaio.
– Ma Hedy! Se l’intende! Non parlare così!
Come sempre in situazioni simili la donna s’invelenì e osservò che il signor commissario era diventato un terribile moralista… Tutti i piedipiatti erano persone così fini?
Il commissario preferì rinunciare a rispondere. E così nella soffitta abitava un violinista – ma dove suonava? In un caffè? Nel teatro municipale? E quel musicista approfittava dell’assenza del tabaccaio per flirtare con la moglie… Mm… così diceva la signora Studer, e potevano essere solo chiacchiere; perché ci sono donne che amano immischiarsi negli affari dei propri vicini.
Violinista!… Dalle dieci a mezzogiorno aveva le prove. La sera lavorava… In ufficio sarebbe stato facile saperne il nome – ma a casa, a letto? Meglio aspettare. Era a letto già da dieci giorni, e il dottore aveva detto che un’angina non durava più di quattordici giorni. In seguito sarebbe stato più prudente restare a letto per circa un’altra settimana – potevano insorgere complicazioni renali… E va bene. Non era troppo difficile portare pazienza ancora per undici giorni…
E Jakob Studer, commissario della polizia municipale di Berna, non dovette neppure aspettare tanto. Perché quattro giorni dopo, una domenica, era sfebbrato, e senza tener conto delle prescrizioni del dottore sconosciuto si alzò, perché inghiottire non gli faceva più male; quel giorno la moglie era andata con la figliola da una zia a Koppigen, e Studer si sentiva così solo nel nuovo appartamento che si coprì a dovere e verso le tre del pomeriggio – fuori il tempo era caldo per il föhn – uscì. Proprio mentre stava girando la chiave nella serratura, udì al piano superiore uno scricchiolio di suole. Sorrise sotto i baffi, che durante la malattia erano diventati lunghi, e aspettò. Poi una porta si aprì, e una voce di donna disse: – Salve, Arnold –. Un borbottio di risposta. La voce di donna continuò: Agathli si era esercitata abbastanza. Non voleva prenderla un po’ con sé?… Silenzio. Un altro borbottio di risposta, e la voce di donna disse che avrebbe preparato subito la bambina. Il suo cappotto era già lì, Arnold poteva aspettare qualche minuto?… Ora s’intese chiaramente un «Sì, certo!» breve e duro.
Il commissario di polizia fu felice che la chiave fosse difficile da maneggiare. Si sentì un po’ incerto sulle gambe: quattordici giorni a letto non passano senza lasciare traccia, i muscoli delle mani, dei polpacci, delle cosce si comportano in modo strano, in breve, quando Studer ebbe chiuso finalmente la porta di casa, sentì lo scricchiolio delle suole sui gradini tra il terzo e il secondo piano.
Il commissario si fermò tranquillo e si appoggiò al muro. Allora sul pianerottolo tra il secondo e il terzo piano vide una strana coppia. E mentre le rumorose suole di cuoio proseguivano, al piano superiore si chiuse una porta.
Le suole scricchiolanti erano attaccate a un paio di scarpe basse – ed erano scarpe vecchie. L’uomo che le portava aveva un cappotto misero e consunto, un cappello tondo e rigido sulla testa quasi calva, e nella destra teneva un bastone da passeggio al quale si appoggiava con regolarità, ma che non faceva rumore, perché la punta era di caucciù.
– Buon giorno, – disse gentilmente Studer levandosi il cappello a larga tesa. Anche il signore calvo si tolse il cappello rigido, la bambina, che teneva la sinistra del vecchio, chinò la testa. Portava trecce lunghe e bionde, e aveva circa dodici anni. Ma cio che stupì maggiormente il commissario fu la scatola che il vecchio teneva stretta sotto il braccio destro – e che non gl’impediva di appoggiarsi al bastone. Non era la custodia di un violino, un violoncello assolutamente no, forse era uno strumento a fiato, ma Studer non ne conosceva il nome. Era un corno, un oboe, un flauto?
– Sono il suo nuovo vicino, – disse gentilmente Studer, in buon tedesco. Nessuna risposta. Ma la bambina disse: – Deve scusare il papà, ci sente male!
– Ah! Scusi! Mi perdoni, signorina!
I due continuarono a scendere le scale, Studer seguì la strana coppia, ma doveva tenere un passo più lento del vecchio musicista e della bambina. Perché quando il commissario uscì dal portone non li vide più. Solo un treno sferragliava su uno scambio, poi l’uomo di turno nella casetta di vetro abbassò una leva. Studer proseguì lentamente sul marciapiede, e la strada gli parve estranea perché non la vedeva da quattordici giorni, e l’aveva guardata solo per brevi istanti, durante il trasloco. La sua andatura era un po’ incerta – i guanti gli avrebbero dato fastidio, così teneva le mani incrociate dietro la schiena. Dal cielo azzurro di novembre veniva un vento afoso, scivolava lungo le case e alzava mulinelli di polvere, sicché bisognava tenere le palpebre semichiuse per proteggere gli occhi. Passò sferragliando un altro treno domenicale, alcuni uomini fissavano fuori dai finestrini e aspiravano il fumo dei sigari, di tanto in tanto ridevano senza motivo, le donne reggevano uno specchietto da borsetta, s’incipriavano le guance o sistemavano la veletta. Studer si fermò, nella testa gli rimbombava lo strepito delle ruote, e ne era infastidito a tal punto che fece ancora alcuni passi, raggiunse una locanda, aprì la porta e sedette all’unico tavolo libero. Ordinò un boccale di birra chiara e un Brissago – due cose che a dire il vero dovevano nuocere alla sua salute, ma non gliene importava, perché voleva solo dimenticare in fretta le ultime due settimane, il mal di gola, la febbre, le notti insonni. Ma si accorse ben presto di aver commesso un errore, perché la testa gli doleva e gli occhi gli bruciavano. E poiché incominciava anche a tossire, gridò: – Il conto! – e uscì dalla locanda sospirando un po’, perché in un angolo accanto alla finestra sedevano quattro giocatori di Jaß, e in quel momento uno di loro poteva dichiarare cento con l’asso di atout…
Svoltò in un vicolo e si allontanò dal tormento dei treni sferraglianti. Così gli venne in mente la coppia che aveva incontrato per le scale, e trovò molte spiegazioni. La bambina dalle trecce bionde doveva essere la figlia dell’uomo che portava le scarpe basse con le suole scricchiolanti. Come si chiamava la ragazzina che ogni giorno si esercitava per un’ora al pianoforte – scale, studi, sonatine, valzer? E dove lavorava l’uomo duro di orecchi, con le suole scricchiolanti e la punta del bastone silenziosa sui gradini? Non guadagnava molto, quell’uomo – lo stipendio non gli bastava neppure per la pigione di un appartamento, e doveva accontentarsi di una mansarda…
Ma dove abitava la ragazzina dalle lunghe trecce?
Sicuramente anche l’ufficio al pianterreno aveva diritto a una soffitta – e lì viveva la figliola. La famiglia al terzo piano era probabilmente una coppia senza figli, e la moglie si prendeva cura della bambina – per passare il tempo, per avere qualcosa da fare, chiamava il musicista «Arnold…» e gli dava del tu, e per questo le donne si erano fatte l’idea sbagliata che quella signora avesse una relazione con il vecchio musicista. Nulla provava quella sciocchezza. Forse il vecchio Testapelata mangiava con la figlia in casa della coppia e pagava la pensione – la madre della ragazzina era certamente morta, ed era una comoda soluzione per tutti – per entrambe le coppie. Un uomo che ha una tabaccheria non dispone di grandi entrate, l’affitto dell’appartamento al terzo piano era alto, sicuramente – e per questo conveniva non solo affittare la soffitta, ma anche accettare due pensionanti…
Mm… Studer si passò il palmo della mano sul mento e si accorse che non si era fatto la barba. Ne fu contrariato, e se ne tornò a casa. La signora Hedwig non c’era ancora, erano appena le quattro e mezza, Studer sedette nella poltrona accanto alla finestra dove sua moglie aveva prestato il servizio da infermiera, sul tavolino da lavoro trovò uno di quegli odiosi fascicoli, incominciò a sfogliarlo e lo gettò via. Fece un lungo sbadiglio, s’irritò perché era domenica, e non poteva farsi tagliare i capelli e i baffi. Tutti i barbieri erano chiusi… Si passò il pollice e l’indice della destra sugli occhi dolenti, fece un altro sbadiglio profondo – e d’un tratto balzò in piedi.
Al piano di sopra era successo qualcosa di allarmante. Un grido lamentoso mise in agitazione il commissario – e non si capiva se a gridare fosse stato un uomo o una donna… Poi un tonfo. Passi frettolosi avanti e indietro, una porta sbatté – colpa del föhn, entrato dalle finestre aperte… Poi silenzio. Il commissario sedeva nella poltrona di sua moglie, le mani serravano i braccioli, e ascoltava, ascoltava. Strano, per le scale non si sentiva un passo.
Studer sedeva immobile in poltrona, passò un treno, e il commissario pensò all’uomo nella casina di vetro che abbassava una leva. Poi silenzio – silenzio nel nuovo appartamento che aveva preso in affitto, nessuna voce al secondo e al terzo piano. Si poteva pensare che la casa fosse deserta… Passò lentamente un’automobile, passarono due che litigavano. Ma non si capiva cosa dicessero.
Allora il portone si chiuse, dei passi salirono le scale, passarono davanti all’appartamento di Studer, continuarono a salire, il rumore di una chiave che girava nella serratura…
E risuonò un grido, il grido di una donna.
Il commissario balzò in piedi, si avvolse una sciarpa di lana attorno al collo, spalancò la porta e raggiunse il piano superiore salendo due gradini alla volta; la porta era aperta, qualcuno piangeva forte. Studer entrò – gli attaccapanni erano vuoti, la cucina, due camere erano buie; ma in una stanza la luce era accesa.
Studer aveva mal di testa, e il capogiro. Ma entrò nella stanza illuminata – o meglio, si fermò sulla soglia.
La bambina dalle lunghe trecce bionde giaceva a terra, e accanto a lei era inginocchiata una donna sconosciuta.
– Cos’è successo?
La donna in ginocchio levò lo sguardo, lacrime lucenti solcavano le guance grasse e avevano sciolto la cipria.
– Chi siete? – chiese la donna, e Studer si presentò. – Della polizia, quindi? – fece la donna in ginocchio. Studer annuì. – Grazie a Dio! – Perché?
– Guardi! – La ragazzina era morta… Strangolata, probabilmente!… Da uno sconosciuto!…
Il commissario odiava le esagerazioni; così spinse da una parte la donna grassa – già lo strato di cipria rigato di lacrime lo irritava – e si chinò per osservare più da vicino la giovanetta.
Strangolata!… Sul collo non si notavano tracce di dita… Ma la ragazzina aveva battuto la nuca per terra – si capiva chiaramente, perché si vedeva una tumefazione, e la testa era così obliqua da far supporre che il collo fosse spezzato.
– Io non posso far nulla, – disse Studer. – La cosa migliore sarà telefonare alla polizia e chiamare un dottore.
La donna grassa, che doveva essere la moglie del tabaccaio, non si era neppure tolta la giacca grigia, e aveva ancora i guanti. Questo era un vantaggio, pensò il commissario, sarebbe stato più facile per via delle impronte digitali. – Qual è il suo nome?
– Ma signor Studer, come sua vicina di casa dovrebbe conoscermi!
Il commissario alzò le spalle massicce: – Sono stato malato… per questo non conosco nessuno in questa casa…
– Ma sì! È vero! Ha avuto un’infiammazione alla gola!… Non è imprudente che lei salga quassù, da noi?…
Due cose irritavano Studer: la donna grassa, che finalmente si era alzata e non era più in ginocchio, cercava di parlare un tedesco corretto – ed era orgogliosa di essere la vicina del commissario della polizia municipale. Perché quando gli aveva chiesto chi fosse, aveva recitato la commedia. Domande simili non si poteva prenderle sul serio. Poiché la donna voleva parlare un buon tedesco bernese, Studer le fece il verso e chiese: – Non ha telefono, signora… signora…?
– Signora Staub!20 Lei sa il mio nome, signor commissario. Vero?
– No… Purtroppo no!
La donna fece l’offesa, uscì dalla camera, la luce si accese nella stanza accanto, poi: – Se vuole telefonare da qui…
– Volentieri… Grazie!…
La moglie di Studer e il sostituto di Studer giunsero nello stesso momento. Alcuni minuti più tardi comparve il tabaccaio Staub, e sulla porta di casa incominciò a raccontare della partita a scacchi che aveva vinto quel pomeriggio al club. Quando seppe della morte di Agathli tacque, e un’espressione stanca gli si diffuse sulla faccia grassa, dalle guance venate.
Per mezz’ora la signora Staub non aveva tenuto a freno la lingua. Aveva parlato soprattutto della bontà che aveva dimostrato al vicino, il suonatore del teatro municipale Arnold Walter, che doveva a lei la soffitta, lei era riuscita ad affittarla contro la volontà del marito, e il musicista doveva a lei anche la seconda stanza in cui viveva Agathli. Una mattina aveva discusso per tre ore con il signor Eichenberger, il proprietario dell’ufficio per oli lubrificanti al pianterreno, e aveva ottenuto che il povero vecchio pagasse solo dieci franchi al mese per la stanza. Certo non era ammobiliata, ma lei, la signora Staub, era riuscita a scovare nella sua riserva un letto, due sedie, un tavolo, perché la giovane potesse vivere decorosamente. E la stanza del padre, che era diventato sordo dopo una grave malattia, era stata affittata con i mobili. I due, padre e figlia, potevano mangiare a casa sua, e per le due stanze con pensione non aveva mai chiesto più di duecentoventi franchi al mese. Non erano regalate? Soprattutto se si pensava che il signor Arnold Walter – suonava il clarinetto – guadagnava solo trecento franchi al mese. Erano regalate o no?… Studer alzò le spalle massicce per non dover rispondere, perché calcolò che al vecchio restavano solo ottanta franchi per i vestiti, la biancheria – e sicuramente gli piaceva fumare, o doveva andare dal barbiere, di tanto in tanto. Il commissario sospirò… Trovava che era difficile vivere a questo mondo…
In quel momento entrò il sostituto del commissario, il sergente Reinhard. Poi comparve la signora Studer con la figlia, rimproverò il marito e profetizzò una ricaduta; prese la figlia per mano e lasciò l’appartamento in cui c’era una morta. Se n’era appena andata, ed ecco il signor Staub, il proprietario della tabaccheria, che sulla porta di casa riprese a raccontare della sua partita a scacchi. Studer se ne stava in silenzio in sala da pranzo accanto alla ragazza, era appoggiato alla parete e aveva mal di testa. Una domanda continuava a tormentarlo: dov’era il clarinettista? Perché il padre non si occupava della povera figlia?
Giunse il medico legale, aveva la faccia scura perché era stato disturbato di domenica pomeriggio. S’inginocchiò, tastò il giovane corpo, soprattutto la nuca, scosse la testa meravigliato, constatò che le palpebre erano chiuse… – È stato lei, Studer? – domandò. Il commissario scosse la testa. Il mal di testa gli stava aumentando, non sapeva cosa stesse cercando lì. Non era lui che doveva svolgere un’indagine. Chiese piano alla signora Staub dove fosse il clarinettista – Arnold si chiamava? – quel pomeriggio. – Aveva avuto una matinée fino alle quattro, a dire la verità avrebbe dovuto essere già di ritorno da un bel pezzo.
Di ritorno… Le parole si fissarono in mente a Studer. Riaccese il Brissago che si era spento. E mentre teneva il fiammifero acceso in mano, d’un tratto lo lasciò cadere. Dal piano superiore giungeva la sommessa melodia di un flauto. Flauto?… O era un clarinetto? La melodia era molto triste, e ricordava una delle sonatine che la ragazzina morta suonava ogni pomeriggio.
Quella musica lontana e sommessa faceva una strana impressione. Il medico inginocchiato era a bocca aperta, il sergente Reinhard si mise il mignolo nell’orecchio destro, come per sentirci meglio. La signora Staub si asciugò le guance, trasse dalla borsa uno specchietto e s’incipriò, come una di quelle donne al finestrino del treno domenicale, il signor Staub, il proprietario della piccola tabaccheria, rimise il sigaro nel pacchetto, il sigaro che aveva appena preso per incominciare a fumarselo…
La giovane giaceva a terra con il collo spezzato, e le palpebre chiuse erano bianche, come cera.
– Chi… chi… sta suonando? – chiese il sostituto di Studer.
– Il padre, – disse il commissario senza muoversi. D’un tratto comprese perché dopo il tonfo c’era stato tanto silenzio per le scale.
– Va’ a prendere l’uomo, Reinhard! – ordinò Studer, e il sostituto annuì ubbidiente. Prima di uscire dalla porta si volse e domandò: – Stai meglio, Studer? – Il commissario annuì con aria assente…
Mentre il sergente Reinhard non c’era la signora Staub piangeva, e suo marito sedeva con imbarazzo sul divano accanto alla finestra, le gambe accavallate; di tanto in tanto scuoteva il testone, tra il pollice e l’indice della destra teneva il sigaro spento e lo rigirava tra le dita.21
– Alla decima mossa, Martha, Nägeli ha commesso un errore. Voleva trarmi in inganno sacrificando un cavallo, però io me ne sono accorto e non ho abboccato, ho mosso la regina da h3 in e6; questa mossa ha confuso Nägeli, e così ha perso la partita. Abbiamo giocato per due ore, e alla trentesima mossa ha rinunciato. Cosa vuoi, sarebbero state solo mosse obbligate…
– Adesso taci! – ordinò la signora Staub, togliendosi finalmente la giacca e i guanti. Tornò nella stanza, prima spense la luce nel corridoio e poi chiuse la porta. Al piano di sopra la musica continuava, s’interruppe, si udirono dei passi sui gradini – ma non i passi delle suole scricchiolanti. In realtà si udiva solo un passo – il sergente Reinhard aveva scarpe dalla suola pesante, il compagno calzava le pantofole.
E Studer ripensò ai passi che aveva sentito nel suo appartamento. Erano stranamente silenziosi, aveva sentito sbattere solo una porta.
Suonò il campanello, e la signora Staub andò ad aprire.
Il signor Arnold non aveva colletto né giacca – solo una vecchia giacca da casa. Zoppicava un poco, perché non aveva il bastone. Sotto il braccio destro stringeva il clarinetto. Si fermò sulla soglia – Studer notò che portava pantofole di feltro –, si avvicinò a piccoli passi, si fermò accanto al cadavere della figlia. Il sergente Reinhard gli fece delle domande che rimasero senza risposta.
– Sei… sei morta, Agathe? – chiese il musicista. Studer vide il sangue salirgli alla testa, la pelle del cranio calvo si fece rosso-bluastra. – Sei morta, dunque? – Il vecchio se ne stava lì, immobile, nella sua giacca da casa marrone, le mani sprofondate nelle tasche. – Se parli, – disse sottovoce il musicista, – ti capirò di certo! Dimmi chi… Gli altri muovono le labbra in modo così strano che io non riesco a capire cosa dicono. Ma te… te… ti ho sempre capita! – Il vecchio parlava un tedesco insolito, insolito a dire il vero solo per i presenti, abituati al tedesco svizzero. La lingua del musicista aveva un accento singolare – Studer pensò che somigliava al tedesco parlato da uno slavo. Eppure Arnold era sicuramente tedesco.
– Agathe, – disse il vecchio, i radi capelli sulla nuca erano arruffati, e il cranio pelato era imperlato di minuscole gocce di sudore…
D’un tratto il clarinetto cadde con un tonfo sul parquet, il vecchio crollò in ginocchio e prese la destra della figlia morta. Tremava. – Com’è fredda la tua mano! – disse, alzò la sinistra e la pose sulla fronte della figlia. – Chi ti ha… chi ti ha… Agathe!… – Silenzio. Poi: – Forse non vuoi che lo sappia nessuno, vero? – Suonò come una domanda. Studer era ancora appoggiato al muro, nell’angolo sinistro della bocca teneva il Brissago spento.
– Cosa devo fare, Studer? – chiese il sergente Reinhard. Era basso, il suo volto ricordava un topo, ma portava un colletto alto – forse perché era il sostituto del commissario.
– Fare? – ripeté Studer. Si sentiva stanco. Sicuramente stava ricominciando il tormento della febbre, e doveva aspettarsi una ricaduta. Com’erano noiose le cosiddette indagini.
– Dammi da accendere, Reinhard! – ordinò. E quando finalmente il sigaro fu acceso si staccò dal muro, si avvicinò al giocatore di scacchi che continuava a giocherellare col suo sigaro spento.
– Perché lo ha fatto, signor Staub? – chiese il commissario malato. – Cosa le aveva fatto la ragazza? – Nella stanza c’era silenzio. La signora Staub sbarrò gli occhi inorriditi. – Tu, Alfred? È una menzogna! Tu sei stato a giocare a scacchi! Vero?
L’uomo sul divano crollò.
– Non è colpa mia, – disse sottovoce. – Non è colpa mia. Stava facendo esercizio quando sono arrivato a casa, e le ho tirato un po’ le trecce… Nient’altro… Allora è caduta a terra. Caduta a terra, così… Ma era giusto! Mi senti? Giusto che morisse! Perché quest’uomo, il musicista, lui che non guadagna niente, lui che è sordo, deve avere una figlia, e noi due siamo soli, sempre soli? Quante volte abbiamo aspettato un figlio, eh? Parla! Dì la verità!
La donna taceva. Le guance appena incipriate si rigarono di lacrime.
Il commissario della polizia municipale alzò le spalle larghe. Andò lentamente verso la porta, con passo incerto.
– In fondo – e parlava un buon tedesco, – sei il mio sostituto, Reinhard. Concludi tu la faccenda… la faccenda… per me… Sai, io sono stanco. E questa febbre! – Tossì. Il Brissago era spento. Lo teneva tra il pollice e l’indice come il tabaccaio, e lo rigirava.
– Buona notte… – balbettò. – Buona notte… a tutti…
Nella stanza scese un silenzio così profondo che ognuno udì distintamente il passo dell’uomo pesante, fuori nel corridoio, la porta che si chiudeva, i passi che scendevano e si andavano spegnendo. Al piano di sotto squillò il campanello, i cardini cigolarono, la porta si chiuse. Silenzio. E la voce della signora Hedwig Studer risuonò forte e acuta.
Fine del mondo
1
Dal rapporto confidenziale del cancelliere Paul Montandon al dottor Hans Fehlbaum, presidente del Dipartimento dei funzionari del Tribunale superiore (15 settembre 1931)
… e mi permetta pertanto di affrontare brevemente questo caso, poiché la sua risoluzione è strettamente connessa al ricorso che il signor procuratore Schönthal si è sentito in dovere di avanzare contro il mio superiore.
Brand fu catturato la mattina del 4 agosto dal gendarme Kohli e tradotto nel locale carcere distrettuale, accusato di furto in casa dell’agricoltore Gäumann. Nel corso dell’interrogatorio condotto il giorno seguente dal mio superiore, il giudice istruttore Max Jutzeler, l’accusato ammise il furto, ma fece rilevare di avere agito solo per necessità, e di non aver rubato altro che una salsiccia e mezza pagnotta. Il fatto era avvenuto nella notte tra l’1 e il 2 agosto. Durante l’interrogatorio il comportamento di Brand fu assolutamente corretto, egli espose i fatti con un singolare senso dell’umorismo, come se si trattasse del divertente scherzo di uno scolaretto. Poi Brand versò qualche lacrima, ed essendogliene stato chiesto il motivo incominciò a narrare la propria vita.22 Poiché in seguito il giudice istruttore ed io abbiamo deciso di non allegare agli atti trasmessi alla procura il verbale di questa deposizione, La prego, egregio dottore, di voler fare un uso strettamente confidenziale anche del mio rapporto. I fatti sono giunti a conoscenza delle autorità a causa del successivo comportamento di Brand. L’accusato raccontò di essere fuggito dall’ospizio dei poveri di Breitiwyl insieme a un’altra ospite, Pulfer Margareth, anch’ella assistita colà, di aver vagato due mesi per il Giura e di aver campato stentatamente intrecciando cestini che poi vendeva. Il 15-5-1931 la sua compagna fu catturata dalla polizia municipale di Biel, e per decisione del consigliere di prefettura internata per un anno nella casa di lavoro cantonale di Hindelbank in base alla legge dell’11 maggio 1884, art. 4, par. 2. L’accusato continuò a vagare senza meta, ammette di essere entrato di nascosto in alcune fattorie per procacciarsi il cibo, e infine fu catturato dal gendarme Kohli in un pagliaio dove aveva trascorso la notte. Brand riferisce inoltre che dal diciassettesimo anno di età fu quasi sempre internato, prima nell’istituto di rieducazione di Trachselwald, quindi a Witzwil, da dove fuggì, poi a Thorberg. Poiché erano sorti dubbi sulla sua sanità mentale, l’istituto psichiatrico di Waldau richiese una perizia, in base alla quale si giunse alla conclusione che Brand soffriva di una manifesta malattia mentale. Conformemente a quella perizia Brand fu definitivamente internato nell’istituto psichiatrico, fuggì, fu catturato dopo aver commesso diversi furti. Come pericolo pubblico venne ricondotto a Thorberg, dove fu rinchiuso per il periodo provvisorio di cinque anni. Sfruttò questo tempo per studiare radiotecnica con l’aiuto di una scuola per corrispondenza, superò l’esame finale con la votazione di uno23 (a richiesta del signor Jutzeler, Brand esibì il certificato relativo). Il direttore del carcere si adoperò per il suo allievo, ne caldeggiò il rilascio e l’assegnazione temporanea all’istituto di Breitiwyl, finché l’ufficio assistenziale per i detenuti rilasciati non avesse trovato un posto adeguato alle capacità di Brand. Ma Brand scappò dopo soli quattordici giorni insieme alla sunnominata Pulfer, che pare averlo istigato al piano di fuga. La donna è zoppa, e la causa scatenante per Brand deve esser stata la compassione. Quantunque incoraggiato a motivare meglio l’odio per l’ospizio, odio che affiorava chiaramente dai suoi discorsi, si rifiutò di farlo.
Prima che io, egregio dottore, spieghi nei dettagli il modo in cui il giudice istruttore Jutzeler ha risolto il caso Brand, vorrei brevemente chiarire la mia posizione nei confronti del mio superiore. Il dottor Max Jutzeler non è molto benvoluto nella nostra città. Tuttavia l’umanità con cui conduce le indagini gli è valsa la simpatia degli accusati che sono venuti a contatto con lui. Quando due anni fa fu scelto per questo incarico si trovò a dover superare diverse difficoltà, la maggiore delle quali è forse il fatto che sua moglie è straniera. Come poi il dottor Jutzeler mi disse in colloqui confidenziali, ha trascorso due anni in Danimarca per motivi di studio, e là si è anche sposato. La signora Lilly Jutzeler-Jürgensen sa bene il tedesco, ma stenta a parlare il dialetto locale. Inoltre conduce una vita molto ritirata. Fino ad oggi la coppia non ha avuto figli. Il riserbo opposto dalla coppia agli abitanti della città è stato interpretato come superbia. Io sono orgoglioso del fatto che fin dall’inizio il mio superiore mi abbia considerato un collaboratore di pari diritti, ed è stato anche tanto gentile da invitarmi spesso a casa sua. Nei casi più complessi il dottor Jutzeler non ha mai mancato di chiedere il mio parere, perché io, da più lungo tempo di lui in questa città, ho maggior esperienza con la gente del luogo. La nostra città costituisce un distretto giudiziario, e la popolazione dei dintorni è prevalentemente contadina; non c’è da stupirsi quindi se il dottor Jutzeler, cittadino e grande viaggiatore, abbia dovuto affrontare alcune difficoltà. Vorrei richiamare la Sua attenzione soprattutto sul comportamento del signor procuratore Schönthal, che fin dall’inizio ha creato difficoltà al mio superiore, e ha sempre criticato i risultati delle sue indagini. Poiché Lei, egregio dottore, mi ha chiesto un rapporto confidenziale, sono certo che non utilizzerà queste note contro di me. Il signor procuratore Schönthal è l’esatto opposto del mio superiore: politicamente molto attivo, membro di diverse associazioni, è originario della nostra città, come la moglie. Ciò significa che è imparentato con numerose famiglie, gode di una larga popolarità, lui e la moglie sono presenti ad ogni manifestazione, e qui se ne contano molte. Il mio superiore al contrario è, come ho detto, piuttosto riservato, d’indole casalinga. Ama fare musica, e a questo proposito devo aggiungere che è un virtuoso del violino, e che la moglie lo accompagna in modo eccellente al pianoforte. Poiché anch’io amo molto la musica, quantunque non ne sia un esecutore, comprenderà che le serate che ho avuto modo di trascorrere in un ambiente familiare di sentimenti così cordiali sono state per me sommamente preziose. Per quanto è stato in me, ho cercato di risparmiare al dottor Jutzeler ogni fastidio, e ci sono riuscito fino a questo caso Brand, di cui Le riferirò brevemente l’esito, quantunque Lei possa esserne venuto a conoscenza da altra fonte.
Dopo l’interrogatorio dell’accusato il signor giudice fu del parere di concedere a Brand un’altra possibilità. Le condanne precedenti, la sua vita infelice ci erano note solo attraverso le sue dichiarazioni. Ufficialmente non ne sapevamo nulla. Ricordai al signor giudice che era suo dovere raccogliere altre informazioni su Brand. Tuttavia egli si oppose a questa richiesta, ed io dovetti inchinarmi alle sue alte argomentazioni morali. Avevano un grande valore etico, poiché si basavano sulle riflessioni del filosofo Schopenhauer, che in uno scritto memorabile riconosce la compassione come il principio di ogni etica.24 Il mio superiore ha commesso una scorrettezza formale tralasciando di allegare agli atti trasmessi alla procura le dichiarazioni di Brand sulla sua vita passata. Nelle sue conclusioni il dottor Jutzeler spiegò dettagliatamente che nel caso specifico si trattava di furto lieve di commestibili, che non superava il valore di venti franchi. Dopo aver esaminato le brevi pratiche il procuratore Schönthal ne dispose il trasferimento al tribunale di polizia, che condannò Brand a una settimana di carcere. Fu rilasciato l’11-8, andò a far visita al giudice istruttore e ne ricevette un aiuto in denaro. Quella sera Brand diede fuoco al fienile e alle stalle dell’ospizio di Breitiwyl. Il danno, che è coperto dall’assicurazione, ammonta a circa quindicimila franchi. Brand fu preso quella sera stessa, in flagrante per così dire, e trasferito nel vicino carcere preventivo. Poiché il reato è stato commesso in un altro distretto giudiziario, noi non avremo ufficialmente più nulla a che fare col caso. Ma il signor procuratore non ha mancato di rimproverare il mio superiore per la leggerezza con cui ha condotto le indagini, e di minacciarlo di avanzare ricorso al Dipartimento dei funzionari, minaccia che ha attuato, come risulta evidente dalla Sua pregiata lettera del 13 c.
Nella speranza che Lei, egregio dottore, sappia apprezzare le motivazioni profondamente umane ed etiche del mio superiore…
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Da una lettera della signora Lilly Jutzeler-Jürgensen a sua sorella, Inge Jürgensen, maestra, Copenaghen (senza data)
… che Max mi preoccupa ogni giorno di più, e poiché in quest’orribile cittadina non ho una sola amica, devo tormentare te. Già all’epoca in cui Max frequentava la nostra casa ti eri meravigliata delle sue «stranezze», come le chiamavi tu. Mi hai raccontato perfino che si lavava le mani venti volte al giorno. Mi facesti notare anche la singolare concezione che lui, l’uomo di legge, aveva della giustizia. Devo ammettere che tutte queste stranezze non m’interessavano molto, e nei primi anni del nostro matrimonio non si notavano quasi. Il nostro rapporto non è mai stato passionale, mi sembrava piuttosto che lui vedesse in me la madre. La situazione non è molto cambiata. Ero felice che Max cercasse sempre in me rifugio e consolazione, due cose tanto importanti per lui che io gli davo volentieri, poiché la sua carica richiedeva l’esercizio di un’autorità molto forte, estranea alla sua indole. Ma da circa quattordici giorni noto in Max qualcosa che non va. Ti farò alcuni esempi: ricevevamo spesso la visita di un certo signor Montandon, il cancelliere di mio marito; è costui un signore strano e grasso con una larga pelata e il volto acceso, la bocca coperta da un paio di baffi cespugliosi. È scapolo, e sempre contento di venire da noi, perché, come dice lui, ne ha abbastanza di passare il tempo all’osteria, e ama la compagnia di persone simpatiche, e non quella dei borghesucci. Sembra apprezzare molto anche la nostra musica, lo ha affascinato soprattutto la sonata in sol per violino di Mozart che Max suona benissimo, e che io capisco un po’. Si ha l’impressione che un uomo debba assistere a una danza macabra, ha detto una volta, e che canti per cacciare l’orrore.25 Un parere alquanto originale per un cancelliere. Ora, da quattordici giorni Max non tocca il suo violino, mi aggredisce con asprezza quando mi siedo al pianoforte e strimpello qualche nota d’invito. Mi lascia sola per quasi tutto il tempo con il signor Montandon, che allora si accarezza con imbarazzo i folti baffi e in un buon tedesco stranamente colorito tenta di spiegarmi ciò che capita a mio marito. Perché questo è il lato strano di tutta la vicenda, il fatto che il cambiamento avvenuto in Max dipenda da una certa storia. Come mi ha raccontato il signor Montandon, si trattava di una specie di vagabondo che Max trovava simpatico per imperscrutabili motivi, che lui ha coperto – sebbene meritasse una pena grave –, al quale ha dato di nascosto del denaro quando è stato rilasciato. Poi questo vagabondo ha incendiato un fienile – e naturalmente Max si sente colpevole. Non dorme quasi più, va avanti e indietro nel suo studio per quasi tutta la notte, e quando è a letto tiene la testa sollevata dal cuscino e l’accosta alla parete restando in ascolto in modo così strano che a volte gli chiedo con paura: «Max, senti qualcosa?». Lui scuote la testa e mi guarda, con gli occhi vuoti. Allora ho sempre la strana impressione di parlare solo con la metà di un uomo, l’altra vive in un mondo diverso dove cresce fino ad assumere proporzioni inimmaginabili per poi irrompere nel nostro. Faccio fatica a spiegarmi, ma tutta la situazione è complicata.
Inoltre Max ha molte seccature con il suo diretto superiore, il procuratore Schönthal; io ho visto questo signore una volta sola, ma l’ho trovato molto antipatico. Immagina una faccia bianca, liscia, un colorito che ricorda il grasso vegetale, nella quale si spalanca l’enorme fessura della bocca, quasi senza labbra, sicché il signor procuratore somiglia moltissimo a una rana scolorita. Gli piace darsi importanza, spesso sorprende Max nel suo ufficio, pretende di sbirciare nelle pratiche, forse per coglierlo in errore. A lungo andare questa sfiducia logora un uomo sensibile e coscienzioso quale è Max. Poiché quest’insonnia persistente lo aveva estenuato, abbiamo deciso di consultare un neurologo. Io l’ho accompagnato. Quel signore non mi è piaciuto affatto. Era sordo, si dava terribilmente importanza, ci ha chiesto le cose più strane, del nostro rapporto, ha parlato a lungo di complessi e repressioni, infine ha consigliato a Max di lasciar perdere la musica per dedicarsi al disegno e dar forma alle immagini che emergono in lui. Avrebbe avvertito così un senso di liberazione. Contro l’insonnia ha consigliato pediluvi caldi e Sedormid. Tutto ciò non è servito a nulla. Max si è procurato una scatola di pastelli e a volte disegna per notti intere. I suoi disegni farebbero schiattare d’invidia i poveri espressionisti. Sono creature terribili, metà uomo, metà bestia, ma non centauri mansueti alla Böcklin,26 bensì mostri gotici, come usciti dalla demonologia. Sorellina, io qui sono molto sola, e tutti mi sono ostili. Lo avverto quando cammino per strada. Non si direbbe che questa cittadina sia così malvagia nel suo intimo. Forse non è affatto malvagia, sono solo io che sento così. Sorge su un lago, in lontananza si vedono le montagne bianche, le case del centro sono antiche, i marciapiedi sono rialzati e bisogna scendere alcuni gradini per giungere sulla strada. L’ufficio di mio marito è nel vecchio castello sulla collina che domina la città; da lassù si gode una bella vista sulle montagne vicine, il lago e il fiume che si snoda attraverso la valle come un luminoso serpente di metallo quando è illuminato dal sole. Ma ora, in novembre, la nebbia copre tutto, e disperde minuscole gocce d’umidità, tanto che anche da una breve passeggiata si torna a casa bagnati fradici. Gli uomini paiono contagiati da questa umidità: sono viscidi. Solo Max e questo strano e grasso signor Montandon sono d’indole diversa. Mi paiono come inariditi, come se il vento del mare ne avesse prosciugato l’anima. Non sono adatti a stare tra questi pan di zucchero che in lontananza si danno arie d’importanza e simulano maestosità, quando si degnano di mostrare il loro famoso rosseggiare delle vette alpine. Come ho detto, gli altri sono parte di questo luogo, forse hanno buon cuore, ma poiché non parlo la loro lingua mi trattano come una reietta. Io non posso andare ai ricevimenti! Chiacchierano tanto. Il mare non ha mai insegnato loro il silenzio, hanno il loro piccolo lago, hanno la loro piccola politica, che si comporta come il loro lago. A volte si avverte un pericolo incombente. Ma poi non succede nulla. I minuscoli vaporetti con le loro ruote a pale avanzano tranquilli. Che noia, sorellina, e a ciò si aggiunge la paura…
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Dal rapporto della Procura del Distretto giudiziario al presidente del Dipartimento dei funzionari del Tribunale superiore (6 febbraio 1932)
… vorrei sottoporLe anche i seguenti casi, che sembrano rafforzare la validità del ricorso da me avanzato a suo tempo contro il giudice istruttore Jutzeler. La misura delle scorrettezze e delle pesanti infrazioni di cui si è reso colpevole il suddetto signore mi sembra ora colma, e devo insistere perché questa faccenda sia trattata in modo esemplare, poiché non mi sarà più possibile coprire con la mia autorità questa vergogna inaudita della nostra giustizia; chiedo pertanto che una commissione plenipotenziaria esamini i casi da me portati a Sua conoscenza.
Caso 1. Il 25 gennaio 1932 in località Steffigen fu ritrovato nel cimitero del paese il cadavere di un signore anziano, vestito con eleganza. La commissione del tribunale composta dal giudice istruttore Jutzeler, dal suo cancelliere Montandon, dal sergente di polizia Studer dispose il trasporto del cadavere all’obitorio. Poiché due medici generici rifiutarono di eseguire l’autopsia, sostenendo che nelle ventiquattr’ore successive a un’autopsia non potevano dare assistenza a un parto, fu chiamato dalla città vicina il dottor Sieber, che fece l’autopsia. Come causa della morte fu accertato un colpo al cuore. Il giudice istruttore avrebbe dichiarato subito che si trattava evidentemente di suicidio, sebbene il dottor Sieber ribadisse l’impossibilità di un simile fatto: gli abiti dell’uomo non solo erano intatti, ma una mano estranea aveva abbottonato camicia, gilè, giacca e cappotto, perché è impensabile che un uomo colpito al cuore sia in grado di riassettarsi gli abiti. Il giudice Jutzeler apostrofò aspramente il medico, dicendogli che doveva limitarsi a dettare il verbale dell’autopsia, le deduzioni criminologiche spettavano alla commissione del tribunale. Subito dopo il dottor Sieber m’informò del deplorevole errore del mio sottoposto. Ma era troppo tardi. Le indagini sul luogo del delitto – evidentemente, e la mia opinione coincide con quella del dottor Sieber, si trattava di un omicidio – sono state insufficienti, eventuali impronte di piedi sono state cancellate. Fino ad ora non sono state accertate neppure le generalità del morto. Ma ancora oggi il signor giudice insiste sulla sua opinione che si tratti di un suicidio. Avendo io ribadito l’impossibilità di una simile conclusione, il signor giudice istruttore dichiarò di avere determinati appigli, di essere lui a condurre le indagini, e di non tollerare intromissioni intempestive di terzi.
Caso 2. Blum Christian, manovale, incensurato, fu tratto in arresto due mesi fa per un furto occasionale dell’ammontare di dieci franchi, evidentemente commesso in stato di ubriachezza. Sebbene per questa infrazione si prevedano al massimo dieci giorni di carcere, forse con la condizionale, l’uomo è in carcerazione preventiva da due mesi e da sette settimane non viene interrogato. L’uomo ha moglie e due figli, la gente è molto irritata, perché Blum era benvoluto. Ogni commento a questo caso è superfluo, soprattutto considerando il comportamento del signor giudice istruttore nel caso Brand. In attesa di una sollecita risoluzione…
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(senza data)
Caro signor Montandon,
mi venga in aiuto. Mio marito si è chiuso a chiave nel suo studio da ieri pomeriggio, non sono riuscita a entrare, non risponde, non ha mangiato nulla. Anche i giorni scorsi sono stati terribili. Perché non è passato da noi? Non conosco nessun altro al quale potrei rivolgermi, se non Lei. La prego, venga prima che può.
Sua Lilly Jutzeler
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Dal secondo rapporto confidenziale del cancelliere Montandon al presidente del Dipartimento dei funzionari ecc. (14 febbraio 1932)
… considero un grande segno della Sua fiducia, egregio dottore, il fatto che Lei si rivolga proprio a me per avere ragguagli sulla sventura che ha colpito il mio stimato superiore, dottor Max Jutzeler.
Dopo aver ricevuto la lettera allegata non datata della signora Jutzeler-Jürgensen, alcune stranezze che negli ultimi giorni non avevo potuto fare a meno di rilevare nel comportamento del signor giudice istruttore trovarono la corretta spiegazione. Vorrei notare tra parentesi che mi sorprende come anche il signor procuratore Schönthal non abbia notato queste anomalie. Per un subalterno è sempre difficile compiere i passi giusti in situazioni come queste, l’ostilità che ancor oggi circonda il malato di mente è troppo forte per poter prendere i provvedimenti necessari. La lettera della signora Jutzeler mi fu recapitata da un fattorino nell’ufficio dal quale il mio superiore mancava già da due giorni. Mi aveva fatto solo una breve telefonata per comunicarmi che si sentiva male e che doveva restare a letto. Devo dire che collegai le stranezze del comportamento del dottor Jutzeler con questo malessere (certe malattie infettive nel loro lento esordio causano un mutamento della personalità, questo lo so anch’io). Dalla lettera della signora Jutzeler mi parve risultare più evidente un’altra possibilità, e così mi misi prima in contatto telefonico con un medico del vicino istituto per malattie nervose, pregandolo di periziare un caso critico, e per ogni evenienza di farsi accompagnare da due infermieri. Poi mi recai alla casa del giudice istruttore. La moglie mi accolse sulla porta. Seppe dissimulare bene la paura che traspariva dalla sua lettera. Mi pregò solo di evitare ogni scandalo e di indurre il marito a uscire finalmente dallo studio. Aveva trascorso tutta la notte davanti alla porta chiusa, aveva bussato chiedendo di entrare, ma invano. Non aveva udito alcun rumore nella stanza. Andai davanti alla porta dello studio, chiamai più volte il signor giudice per nome, ma senza risultato. Mi chinai per guardare attraverso il buco della serratura, ma la chiave era infilata dall’interno. Non volevo ricorrere a un fabbro, temendo che lo scandalo che ne sarebbe nato avrebbe potuto cagionare danno anche alla salute della signora. Poiché sono di corporatura massiccia (io peso, nel caso questo possa interessarLe, egregio dottore, quasi un quintale), e quella era una porta comune, non molto robusta, presi una breve rincorsa e la porta si aprì. Il legno si scheggiò un poco, ma il danno non è ingente. Perdoni l’inevitabile comicità del mio racconto, perché è solo malvolentieri che mi accingo a descrivere lo spettacolo che mi si offrì.
Mi colpì dapprima un disegno che mi parve d’immense proporzioni (a un esame più attento non risultò più grande di un normale foglio da disegno, 65 x 50 cm), fissato con quattro puntine alla parete sopra la scrivania. Rappresentava un’orribile salamandra bianca delle grotte, dal volto umano e dalle braccia umane. E con le braccia il mostro cingeva una quantità di creature infelici, i cui volti si riconoscevano facilmente, nonostante le piccole dimensioni. Nella prima fila si riconosceva quel tale Brand, del quale Le avevo riferito a suo tempo. Ecco poi il signore elegante del cimitero, per il cui caso di morte la procura ha avanzato ricorso. Si distingueva anche Blum Christian. Il volto della salamandra bianca, che s’innalzava sorridente su tutte quelle figure, era somigliantissimo a quello del nostro procuratore Schönthal. Per lungo tempo non riuscii a distogliere lo sguardo da quello strano disegno, che nonostante i colori molto accesi (lo sfondo era di un verde velenoso misto a blu, mentre tutti gli omini erano avvolti in mantelli rosso sangue) era come rigido e morto. Allora udii un lieve grido. Era la signora Jutzeler. Il signor giudice era appoggiato alla parete, di fronte al disegno. Quando dico che era appoggiato non mi esprimo con precisione. Era a piedi nudi, i talloni a circa dieci centimetri dalla parete, solo la nuca toccava il muro, sicché il corpo si trovava in una posizione stranamente obliqua e rigida, come un’asse appoggiata alla parete. Il dottor Jutzeler doveva essere rimasto nella stessa posizione per ore, o almeno così mi parve. Teneva le mani appoggiate sul petto. Riuscii a muovere il corpo solo a fatica, lo adagiai su un divano vicino e comunicai alla signora Jutzeler che mi ero permesso di chiamare in aiuto uno psichiatra. Accettò la notizia con straordinaria padronanza di sé…
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Dalla perizia dell’istituto per malattie nervose… al presidente del Dipartimento dei funzionari ecc. (1 marzo 1932)
… il periodo di latenza può essere più lungo, ma i prodromi sono senz’altro riconoscibili da un occhio esperto. Nel caso attuale si è avuto l’immediato sospetto di una schizofrenia latente, e ciò sarebbe risultato anche al medico che consultammo se avesse fatto un’anamnesi abbastanza precisa. L’irrequietudine riscontrabile nella vita passata del soggetto, il suo isolarsi da qualunque compagnia, il suo almanaccare su complessi problemi filosofici, la sua esaltazione, non armonizzabile con la realtà quotidiana, per tutto ciò che si avvicina ad un’idea della giustizia astratta e assolutamente ideale lasciano dedurre a tutta prima un quadro di patologia schizofrenica. Questa diagnosi trova conferma nei disegni del soggetto, dai quali traspare chiaramente la perdita del senso della realtà descritta da Bleuler.27 L’habitus fisico del soggetto è quello cosiddetto astenico, la qual cosa secondo le ricerche sulla costituzione di Kretschmer28 rafforzerebbe il fatto che egli va incluso tra i tipi cosiddetti schizoidi. Riporterò ora alcuni brani del diario del soggetto che le forniranno, egregio signor presidente, un quadro della dissociazione presente già da tempo nella psiche del paziente.
«5 agosto. Caso Brand. Mi pare che l’uomo sia stato costantemente sospinto alla disperazione. So di aver agito in modo scorretto dal punto di vista giuridico, ma non m’importa. Cosa viene prima, il diritto o l’umanità? L’umanità, la compassione per un essere perseguitato fin dalla giovinezza, mi sembra più preziosa e al contempo un dovere». (Nota dell’esperto: si noti il tono artificioso di queste argomentazioni, anche questo è un sintomo da non sottovalutare). «Ho commesso un’appropriazione indebita: ho sottratto il verbale del curriculum di quell’uomo. Gli darò del denaro. Se avessi la fede pregherei con lui, e sono certo che guarirei le ferite che lo tormentano. Perché si può diventare un delinquente anche per dolore.
«12 agosto. Brand ha dato fuoco a un fienile. Ha voluto vendicarsi, è colpa mia. Perché non l’ho convinto a raccontarmi cos’era successo in quell’istituto? Alla donna fuggita con lui era capitato di peggio. E lui ha agito per compassione. Penso che sia andata così: ha parlato con lei, una volta, due volte, la gente ha chiacchierato. Una volta hanno fatto una passeggiata, e li hanno visti. La ragazza si vergognava di tornare. E lui l’ha seguita. Un tipo coraggioso davvero. Si rinchiudono le persone per anni senza che possano vedere una donna, e tanto meno parlarle. Sappiamo cosa succede nell’animo di queste persone? Li affrontiamo sempre nelle vesti di rappresentanti della legge, mai come pari loro, come possiamo poi pretendere che ci dicano la verità? Li biasimiamo, li puniamo, cosa vedono in noi? Mai i compagni. Lo so, non costa molto avere compassione. Ma come aiutare? Come trovare la strada che porta al loro livello? Conclusione: in realtà sono io il colpevole dell’incendio, dovrò espiare.
«1 settembre. Ho uno strano mal di testa. Gira di qua e di là. E ho l’impressione che voglia aggredire gli occhi. Gli uomini paiono ombre, le case sono irreali. Solo il mio cancelliere, il vecchio Montandon, mi sembra che viva ancora, tutti gli altri sono fantasmi che vagano senza vita e non lo sanno. Devo trovare una punizione per me.
«10 settembre. Non riesco più a toccare il mio violino, ho l’impressione che sia vivo e che parli. E anche il pianoforte parla. E ciò che dicono è terribilmente cattivo. Non annoterò queste cattiverie. Lilly è così fredda con me, è certo uno dei miei nemici e vuole sedurmi con il linguaggio della musica e portarmi alla pazzia. Un neurologo mi ha consigliato di disegnare. Lo faccio. È un tormento terribile, perché il mal di testa aumenta durante questi tentativi. Ma poi subentra uno strano rilassamento, e riesco a dormire un’ora o due. Appena ho disegnato i mostri fissandoli sulla carta, è come se potessi combatterli davvero, non più invisibili in me, nelle pareti dove bisbigliano in continuazione – cose che non posso mettere per iscritto.
«6 novembre. Montandon è sempre stato dalla mia parte. Ora mi combatte anche lui con turpi dicerie. Quando siede alla sua macchina da scrivere, sento che tiene nascosta da qualche parte una macchina elettrostatica con la quale mi infligge subdole scosse.
«6 dicembre. Sarò finalmente salvo quando riuscirò a disegnare il mio grande nemico, l’avversario. Ha una faccia di rana e il corpo di salamandra, e schiaccia tutti coloro che gli si avvicinano. Scruta sempre nel mio ufficio, perché vorrebbe trovare la fonte, la fonte che mi dà il potere su di lui. E non sa che vi passa sempre vicino: le mie matite! Oggi è stato arrestato un uomo, un manovale, Blum. Un grosso delinquente, anche se pare che abbia rubato solo dieci franchi. Ma scoprirò il suo gioco. È per lo meno un assassino. È un nemico, un grande inviato della forza perniciosa, che non conosce la compassione. Si dice anche che picchi la moglie e i figli. Lo terremo per un po’ in galera, come dicono in Germania.29 E il nemico mortale non sarà abbastanza scaltro da trovarlo.
«25 gennaio 1932. L’insonnia continua, e quando la mattina devo andare in ufficio le strade mi sembrano una scenografia teatrale, e Lilly, che è ancora a letto quando esco, pare un cadavere, lei non sa di essere già morta. Perché anche mia madre è morta. Ma della mamma non voglio parlare. Questo è… questo è…
«Hanno trovato un cadavere al cimitero. Il medico che ha fatto l’autopsia voleva convincermi che si trattava di omicidio. Era un omicidio, naturalmente. Ma che senso ha trovare l’assassino? E consegnarlo alla grande macchina con la bocca di rana e il corpo di salamandra? Lei lo metterà in prigione, per anni, e quale sarà il risultato? Nessuno. Mia è la vendetta, dice il Signore. Il nemico voleva convertirmi all’ipotesi dell’assassinio. Gli ho riso in faccia. Suicidio, dico io, e la faccenda è chiusa.
«12 febbraio. Ora ho visto il nemico. E voglio disegnarlo come mi è apparso, con tutte le sue vittime. Poi lo combatterò con lo sguardo. Per due giorni, e digiunerò. A Lilly non posso dir nulla, cercherebbe di trattenermi».
Dopo queste citazioni posso supporre, egregio presidente, che lei riuscirà a seguire meglio il mio ragionamento. Giungo infatti alla conclusione che…
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Il Dipartimento dei funzionari ecc., dopo aver ascoltato le argomentazioni del dottor ecc., preso atto dei ricorsi avanzati da ecc., dispone:
per Jutzeler Max, figlio di Alfred e Marie Hoffman, nato il 6-6-1893 a ecc., coniugato con ecc., in base alla perizia ecc., un anno di congedo per malattia. Trascorso tale periodo si richiederà un’altra perizia psichiatrica, in base alla quale ulteriori disposizioni ecc.
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Il presidente del Dipartimento dei funzionari del Tribunale superiore alla Procura del Distretto giudiziario (10 marzo 1932)
… la nostra profonda irritazione per i Suoi continui ricorsi contro il giudice istruttore Jutzeler, attualmente ricoverato all’istituto per malattie nervose di R., e ciò tanto più in quanto lo stato mentale del signore in questione era stato notato anche dal cancelliere, presso il quale Lei avrebbe potuto informarsi. Oggigiorno anche per i giuristi si presuppone una dimestichezza, per quanto minima, con i problemi psichiatrici, tanto che un comportamento quale fu il Suo è da considerarsi inqualificabile anche secondo il parere degli esperti di psichiatria. Le raccomandiamo pertanto di lasciar cadere ulteriori sospetti sui Suoi colleghi, in caso contrario…
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Il Dipartimento dei funzionari del Tribunale superiore di Berna (11 marzo 1932)
Egregia signora Jutzeler,
con grande rammarico ho appreso la notizia della disgrazia che ha colpito Suo marito, dottor Max Jutzeler. Abbia la certezza che condivido la Sua pena e ammiro altamente il coraggio che ha dovuto dimostrare come straniera tra gente a Lei ostile. Quando avrà in parte superato l’afflizione per la malattia di Suo marito, sarei lieto di poterLa ricevere a casa mia. Serbo un buon ricordo del dottor Jutzeler, quando era giovane mi rallegrava spesso suonando il violino in modo eccelso. Pensi, egregia signora Jutzeler, che portiamo tutti in noi il nostro destino, e il destino di Suo marito era ineluttabile. Questo almeno è l’orientamento delle più recenti ricerche. Che certe mancanze di riguardo da un lato, mancanze sulle quali non voglio dilungarmi, abbiano accelerato il manifestarsi della malattia, e che forse, come dicono gli esperti, esse siano state la causa scatenante, a ciò Lei dovrà rassegnarsi. Nessuno di noi può smentire la propria natura, questo è un dato di fatto, e certi antagonismi sono così virulenti che di solito hanno fine con il crollo catastrofico di una parte.
Per concludere vorrei assicurarLe ancora una volta la mia profonda stima, nella speranza che le mie poche parole possano esserLe di qualche consolazione. Farò visita a Suo marito appena i miei pressanti e numerosi impegni di lavoro me lo consentiranno, e sono fermamente convinto di trovarlo già in via di miglioramento. Non dimentichi mai che Suo marito trova in Lei un valido appoggio.
Suo devotissimo
Dott. H. Fehlbaum
(firma)
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Secondo estratto da una lettera della signora Lilly Jutzeler alla signorina Inge Jürgensen, Copenaghen
… ho quasi l’impressione che il periodo peggiore sia passato. Durante la mia ultima visita all’istituto Max mi ha riconosciuta, ha mangiato l’uva che gli avevo portato e con un sorriso titubante mi ha detto: «Ho sempre creduto che volessi avvelenarmi». Il medico ci aveva lasciato una stanza solo per noi, davanti alla porta c’era un infermiere, nel caso che Max avesse un’altra delle sue crisi d’eccitazione. Ma era tenero come un bambino. Ho congedato l’infermiere. Poi mi sono seduta accanto a Max. D’un tratto mi ha messo la testa in grembo e ha incominciato a piangere. Io gli carezzavo i capelli. Il medico col quale ho parlato più tardi, un uomo alto col camice bianco, un sorriso stranamente rigido ma cordiale, mi ha detto una cosa strana. Le esperienze infantili, soprattutto il legame con la madre, a volte sono così forti che… Ma è difficile da spiegare. Comunque ha parlato di una prognosi favorevole. Ma costoro non riescono mai a liberarsi dal proprio gergo, c’è da pensare che siano felici solo quando riescono a mettere in fila tante parole straniere. Ma dimostrano una profonda umanità. D’altra parte credo davvero che lo stato di Max migliorerà rapidamente. Tuttavia una «restitutio ad integrum», come dicono qui (grazie a Dio non ho dimenticato completamente il mio latino, con questo intendono una guarigione completa), tuttavia questa cosa complicata non potrò aspettarmela. Max dovrà vivere per un certo periodo in campagna e svolgere un lavoro fisico. Sarebbe la cosa migliore. Grazie alla cortesia del signor Fehlbaum, il quale è riuscito a fare in modo che lo stipendio di mio marito continui ad essere versato, non ci sono difficoltà in questo senso. Ma sai, ho sempre quella scena davanti agli occhi: Max nel suo studio, che fissa quel terribile disegno a colori. La scienza è una bella cosa, eppure…
Il caporale veggente
Padre Matthias30 era alsaziano e viveva da tre anni a Géryville, un luogo lontano da ogni traffico; la stazione più vicina, Bouk-Toub, era a 140 chilometri. Ma il padre era contento di quella solitudine. Era un omino sottile, malaticcio, sulle sue membra rinsecchite l’ampio mantello bianco cadeva come su un’intelaiatura. La scescia rossa, quel berretto a forma di tronco di cono, gli allungava la testa da uccello in proporzioni grottesche.
Géryville si trova su un altopiano, nell’interno dell’Algeria, e l’altopiano sorge a millecinquecento metri sul mar Mediterraneo, come testimonia un’iscrizione su una colonna di pietra al centro del vasto cortile della caserma. La caserma è in uno stile moresco inventato dai francesi, con numerosi archi a ferro di cavallo che non hanno motivo di essere e un tetto piatto che nessuno utilizza. È comprensibile: lassù in inverno infuriano le tempeste di neve, violente come non lo sono neppure sulle Alpi, e in estate il sole scotta con una forza tanto convincente che nessun ufficiale ha voglia di salire lassù a prendersi un’insolazione. La mezza stagione, così come sono la primavera e l’autunno da noi, non esiste a Géryville. Il clima è estremo, e ha costretto anche gli abitanti al proprio andamento. Perché gli abitanti sono di una razza che ha ben poche affinità con le altre genti dell’Algeria. Sono rimasti stranamente puri e incontaminati. Gli incroci sono rari, i mulatti, così frequenti nel bassopiano, lassù mancano completamente. I lineamenti degli indigeni sono fini e nobili, la pelle è di un giallo avorio quasi trasparente, che talvolta al sole può apparire bianco.
L’inutilità della propria missione avrebbe sicuramente afflitto padre Matthias se egli fosse stato più giovane. Il suo assistente, un giovane bretone di Quimper dalle larghe spalle quadrate e una testa che pareva di legno duro, non faceva mistero della propria delusione. Gli abitanti della cittadina mandavano i figli alla missione (un edificio basso di mattoni essiccati su una base di sassi), questo è vero, i mantelli nuovi che i padri distribuivano non erano da disprezzare. Ma a nessun bambino saltava in mente di abbracciare l’unica vera fede della religione cattolica. Appena i bambini erano un po’ cresciuti non volevano più saperne dei due pastori di anime; perché avevano paura dei loro padri e parenti carnali. A Géryville non si era mai visto un rinnegato.
A questo proposito padre Matthias aveva elaborato una filosofia personale. «Tutti coloro che vengono da noi», spiegava a padre Markus, «sono creature di Dio. È nostro dovere aiutarle. Se nonostante i nostri sforzi si rifiutano di accettare la beatitudine eterna, questo non è un segno di orgoglio, che per noi sarebbe peccato mortale, ma forse una certa forza d’inerzia, una legge di natura e come tale stabilita da Dio. La violazione di questa legge sarebbe come un miracolo, e noi ci renderemmo partecipi del peccato di orgoglio se pretendessimo da Dio una simile violazione della legge naturale. A noi si addicono la modestia e l’umiltà, come si addicono al seminatore che getta il suo seme, e dopo aver fatto tutto ciò che è nelle sue facoltà per farlo nascere, lascia che sia il Signore a farlo germogliare».
Padre Markus ascoltava questi ragionamenti a bocca aperta, il dono dell’eloquio a lui era rimasto interdetto, ed ammirava il più anziano che sapeva accostare così bene le parole «come perle sul filo». Questa era l’espressione preferita di Markus, una reminiscenza dei suoi studi in seminario, e scoppiava in una risata fragorosa quando padre Matthias rispondeva ogni volta con una citazione latina: «Nec margaritas ante porcos».
Eppure succedeva che di tanto in tanto un’anima cadesse nella rete del padre. Anno dopo anno la caserma ospitava un battaglione della Legione straniera. E poiché nella sua casupola padre Matthias aveva allestito una sala di lettura, succedeva spesso che alcuni legionari frequentassero quella sala; quasi sempre i migliori, che continuavano a preferire un libro o una rivista al litro di vino o alla puttana. In inverno la stanza era riscaldata, in estate si rinfrescava l’aria spruzzando di frequente il pavimento. Inoltre padre Matthias era un incallito fumatore, e i legionari potevano esser certi di trovare sempre tabacco e cartine per sigarette in quantità. Ma nessuno dei due missionari importunava i visitatori. Soprattutto padre Matthias sapeva chiarire al nuovo ospite che lui era sempre pronto a un discorso serio; era lì se c’era bisogno di lui, spiegava; ma poi spariva in una stanza accanto, lasciava la porta aperta, e aspettava finché al visitatore veniva voglia di confessarsi. Poi ascoltava in silenzio, il suo volto s’increspava in quello strano sorriso, quando il penitente scodellava bugie troppo grosse. Sapeva che ci voleva tempo perché gli uomini diventassero sinceri: all’inizio cercavano d’impressionare l’ascoltatore; alcuni inventavano avversità del destino, altri esageravano i propri vizi. Anche ascoltando le frottole più grossolane non si poteva mostrare impazienza; com’era facile spaventare un’anima che incominciava ad aver fiducia! Questa necessità di parlare doveva invece essere coltivata; le bugie cessavano spontaneamente. Poi per alcuni giorni il visitatore si faceva silenzioso, parlava del tempo, degli avvenimenti di tutti i giorni. Anche allora bisognava assecondare, parlare di cose di poco conto come faceva l’altro, nascondersi finché l’interlocutore dimenticava completamente la presenza del confessore. A quel punto non poteva nuocergli portarlo con sé alla messa che si celebrava la domenica in una piccola stanza adibita a cappella. Padre Markus non suonava male l’armonium, e un vecchio invalido francese serviva la messa. «Una messa ha l’effetto di un calmante», spiegava padre Matthias al suo assistente. «Chi ne ha provato l’effetto non potrà farne a meno in caso di un altro accesso di dolore. “Oppio per il popolo” dicono con acrimonia. Eppure tutta la medicina andrebbe al diavolo senza l’oppio. E senza la religione le anime non vanno neppure al diavolo, ma sprofondano nel dolore, nella paura, nel terrore. Noi non ci faremo portar via il nostro oppio».
Dopo il tempo delle stupidaggini, come padre Matthias chiamava questi due periodi, una sera nel bel mezzo del discorso il paziente dimenticava la presenza del confessore. Quella era la vittoria di padre Matthias; la grande disperazione si metteva in moto; l’uomo singhiozzava e gemeva, malediceva la propria vita, la vita sbagliata, invocava la morte. Questo sfogo era diverso a seconda delle persone. I tranquilli erano coloro che avevano minor ritegno, mentre gli spacconi e i chiacchieroni cercavano anche in quel momento di mascherare la vera disperazione. In quei casi padre Matthias perdeva la pazienza, derideva l’uomo insincero, lo cacciava; a volte quella cura brutale aveva effetto, il peccatore tornava e si umiliava; se non andava così, padre Matthias si limitava a scrollare le spalle.
Fu padre Matthias a scoprire per primo le singolari capacità del caporale Collani. E se questi avesse seguito il suo pastore di anime, avrebbe risparmiato gravi sofferenze ai compagni e a molti indigeni. Ma lo spronava il desiderio di mettersi in vista, non voleva rinunciare alla fama che credeva di poter pretendere come ricompensa per le sue capacità, e si sarebbe rovinato o sarebbe finito davanti alla corte marziale con tutti coloro che aveva trascinato in quella follia, se alla fine il vecchio padre non l’avesse liberato a modo suo dalle insidie del diavolo.
Il caporale Collani lavorava come aiutante del furiere nell’ufficio della compagnia mitraglieri. Troppo vecchio e troppo debole per un altro servizio, era stato assegnato a quel posto dal capitano Pécould, un ex-cameriere che aveva fatto carriera durante la guerra. Ma basso e gracile, senza muscoli, brutto corpo e brutta faccia, Collani pativa molto sotto il sergente maggiore Dutreuil (ex-cameriere di vagone letto della Parigi-Lione-Marsiglia) e il furiere Levithan, un ebreo tedesco dalle gambe ad O (ex-segretario privato di Stinnes,31 come diceva lui, hazzān della sinagoga di Strasburgo, come dicevano i suoi nemici). Lo canzonavano per la sua pelata, gli mettevano il pepe nel vino o la cenere di sigaretta nel cibo, quand’erano riuniti alla mensa sottufficiali. Il capitano proteggeva un po’ Collani, perché Collani era un vecchio soldato, perché aveva tredici anni di servizio sulla groppa e si era arruolato nella Legione straniera solo per maturare i tre anni che gli mancavano alla pensione. Per la truppa regolare era troppo malato e troppo vecchio. Avrebbe potuto fare una vita tranquilla senza i suoi due aguzzini, perché per i numerosi anni di servizio gli spettava una buona paga. Nella compagnia era benvoluto: non era avaro. Gli piaceva invitare soprattutto i giovani attendenti a bere un litro di vino, e distribuiva sigarette con generosità.
Aveva trovato la strada che portava a padre Matthias piuttosto tardi, e l’aveva percorsa molto malvolentieri. A poco a poco il padre venne a sapere che Collani aveva frequentato il seminario, e che anzi aveva ricevuto l’ordine del suddiaconato. Ma era finito su una cattiva strada, era fuggito, aveva tirato avanti con lezioni private finché nuovi traffici l’avevano portato in conflitto con la polizia. Era stato in prigione due anni. Poi era entrato nella Legione sotto falso nome, si era distinto, era stato attendente di un colonnello. Con il suo appoggio era stato assegnato alla truppa regolare all’inizio della guerra; si era guadagnato la medaglia militare e la croce di guerra con due rami di palma e quattro stelle. Alla fine della guerra era rientrato nella Legione straniera.
La confessione di Collani si svolse più tranquillamente delle altre a cui il padre era abituato. Ma proprio quella tranquillità aveva qualcosa di piuttosto inquietante: Collani sedeva rigido sulla sedia, le mani magre con i rilievi blu delle vene posate sulle cosce, e gli occhi gialli (gialla l’iride, e solo di una sfumatura più chiara la cornea) erano sbarrati come quelli di un uccello notturno, rivolti a un punto lontano. Per quegli occhi la parete doveva essere davvero trasparente, perché Collani, giunto al termine della sua confessione, non tacque ma proseguì nello stesso tono balbettante: – Perché Mamadou prende il lenzuolo dal letto e se lo nasconde sotto il cappotto? Ah, vuole venderlo in città, quel vigliacco! E io sono responsabile degli effetti del magazzino. Ora scende le scale, attraversa il cortile e va verso il portone. È naturale, non osa passare davanti alla sentinella. E al portone lo aspetta Bielle, gli prende il lenzuolo e corre via. Dove va? Dove va? – e questo in un tono così forte e lamentoso che il giovane padre Markus infilò la sua testa intagliata nel legno nello spiraglio della porta aperta, entrò silenziosamente e si fermò davanti all’uomo che parlava. Ma Collani parve non vedere il nuovo arrivato, continuò il suo balbettio monotono e nasale come quello di un pappagallo. Padre Matthias, contento di non essere più solo con l’inquietante ospite, si alzò, prese il suo penitente per le spalle e lo scosse, dicendo con un leggero affanno: – Svegliati, figliolo, svegliati! Sei indemoniato, non cedere, lotta. È il male, il proibito che si prende gioco di te. Lotta, figliolo, lotta –. Ma a nulla valsero gli esorcismi del vecchio. Padre Markus dovette reprimere un sorriso, sembravano due vecchi uccelli spennacchiati, due fantastici uccelli preistorici, perché le pieghe della tonaca bianca del padre si gonfiavano come ali, e anche il cappotto verde reseda di Collani, rialzato sulla schiena per la sua ampiezza eccessiva, aveva assunto la forma di due ali. Il piccolo caporale si era alzato, se ne stava ritto nella stanza semibuia, agitò minaccioso la mano contro un essere invisibile: – E così vuoi vendere il lenzuolo all’ebreo del vicolo? Aspetta, scoprirò il tuo gioco. Domani ti farò vedere io chi è Collani. Credi che ti abbia sempre regalato le sigarette perché tu vada a vendere sotto banco ciò che è di proprietà dell’esercito? Te la farò vedere io! – La voce s’incrinò per l’ira. Le sopracciglia cespugliose dell’omino erano imperlate di grosse gocce di sudore.
Padre Matthias pareva inorridito per l’effetto insolito della confessione. Scuotendo il capo si volse al suo assistente e gli chiese sottovoce: – Cosa pensi che significhi tutto ciò? In verità ho l’impressione che il mio sapere sia agli sgoccioli. Quale potenza misteriosa si è impadronita d’un tratto di quest’anima? È la potenza di Dio o del diavolo? Vede attraverso le pareti, o piuttosto crede di riuscirci. Dobbiamo capire prima di tutto se ha detto il vero, o se il suo sguardo è stato vittima di un’allucinazione –. Collani era ripiombato sulla sedia, fissava davanti a sé con aria assente e pareva aver dimenticato tutto ciò che lo circondava e le ultime parole che aveva pronunciato. Il giovane padre Markus era più sorpreso per le domande del vecchio che per l’evento che non aveva ancora ben compreso. – Forse ha recitato solo la commedia, – disse poi con disprezzo, ma il vecchio padre scosse la testa pensieroso. – No, no, – sospirò. – Era vera chiaroveggenza, credi a me. E domani ne avremo la conferma –. Collani si alzò a fatica, d’un tratto parve accorgersi che la sera era già inoltrata. Forse il debole e lontano richiamo di un corno lo aveva destato dal suo torpore. Il suo volto appariva stanco e cadente quando si diresse verso la porta.
– Cosa ti è successo, amico mio? – gli gridò il padre con voce tremante. – Ricordi ancora ciò che hai visto?
– Visto? – Collani strascicò la parola con voce roca. – Visto? Niente. Ma so che questa sera Bielle ha venduto un lenzuolo all’ebreo del vicolo per tre franchi. E domani lo riferirò al capitano –. Augurò arcigno la buona notte, poi lo udirono strascicare le scarpe chiodate sul selciato.
Nella fresca sera d’aprile Collani fece ritorno alla caserma di pessimo umore. Era indispettito per essersi lasciato indurre a confessarsi. Chi lo aveva costretto a rivangare cose morte e sepolte? Le esperienze giovanili avevano tanta forza da riemergere dopo anni e anni, doveva pentirsi di qualcosa? Aveva pagato per tutto, almeno così gli pareva. Aveva ancora bisogno di atti purificatori, di parole e gesti purificatori? Bisognava davvero far pace col cielo? Così fantasticava oscuramente tra sé. Ma quando tornava a quei pensieri e a quelle domande aveva sempre l’impressione di dimenticare qualcosa di molto importante che non aveva nulla a che fare col suo passato, no, qualcosa che costituiva l’immediato presente. Ma non gli era chiaro in che cosa consistesse quel presente.
Si ricordava del furto del lenzuolo, ma non lo metteva in relazione con ciò che stava cercando. Tentava inutilmente di ricordare chi gli avesse riferito quella storia, doveva esser stato un testimone degno di fede, altrimenti, così pensava, essa non avrebbe potuto persistere nella sua memoria con tanta chiarezza.
Mentre attraversava il cortile buio, era così immerso nei propri pensieri che non udiva tutti coloro che lo chiamavano. Giunse nell’ufficio, una stanza spoglia, in un angolo accanto alla porta c’era il suo letto. Contro la finestra che dava sulla notte chiara si stagliavano pile di documenti. L’aria odorava di carta polverosa e petrolio. Collani accese la lampada, il cilindro di vetro tintinnò debolmente nel silenzio. Allora l’uomo solo trasalì quando qualcuno bussò con una nocca alla finestra. Un volto magro premeva contro il vetro, e una mano faceva cenno. Collani tirò indietro il catenaccio. Riconobbe Stahl, un tedesco, e immediatamente ricordò: Stahl dormiva nella stanza di Mamadou, il negro, e il capostanza di Stahl era Bielle, il caporale Bielle, un francese dai baffi rossicci, che era andato in città con il lenzuolo. Immerso nei propri pensieri Collani si sfregò la fronte e non sentì le prime parole che Stahl gli bisbigliò in fretta: – Ora so dove prende sempre i soldi Bielle. Stasera gli ho fatto la posta. È andato in città con un lenzuolo. Gliel’ha dato di nascosto Mamadou. Volevo dirlo a te per primo, perché mi hai sempre dato le sigarette. Ma domani vado dal capitano. Ha promesso una ricompensa per chi denuncia un furto, non è vero? – Come dici? – Collani era immobile, sporgeva leggermente il busto dalla finestra. Gli occhi da uccello erano fissi nelle orbite. Chi gli aveva già raccontato quella storia quel giorno? – So già tutto, – mormorò.
– Allora qualcuno mi ha preceduto, – continuò eccitato Stahl con un bisbiglio precipitoso. – Eppure non è possibile. Da quando Mamadou è andato al portone, io ho aspettato qui davanti alla tua finestra perché volevo essere il primo a raccontarti questa storia. Oppure qualcuno te lo ha detto strada facendo? Parla. Qualcuno ti ha aspettato per via. Ma chi? Gli altri della stanza sono tutti alla mensa, perché Despiaux ha ricevuto soldi da casa. Solo io sono rimasto fuori. E tu sei stato ancora dai Padri Bianchi? O no?
– Va bene, va bene. Non parlare tanto. Ecco, – Collani frugò nel cassetto del tavolo, prese un pacchetto di sigarette e lo porse a Stahl. – E adesso va’ a dormire. La faccenda si chiarirà. Domani potrai farti ricevere dal capitano e raccontargli la storia. Ora sono stanco –. Chiuse la finestra. Poi prese la lampada a petrolio, la pose su una sedia accanto al letto, vi mise accanto un libro, uno di quei volumi con la copertina dai colori vivaci e dal titolo allettante: Rocambole, il re dei ladri.32 Poi si tolse l’uniforme, la piegò con cura e la stese in fondo al letto, tenne la camicia, le mutande e le calze di lana e s’infilò tremando sotto le coperte.
Incominciò a leggere. La storia era così avvincente che gli avvenimenti della serata persero pian piano ogni vigore, fino a trascinarlo nella corrente della vicenda. Rocambole aveva depredato un castello in circostanze misteriose. La polizia non sapeva che pesci pigliare. Nessun abitante del castello aveva sentito niente, eppure la mattina erano scomparsi non solo i gioielli e il denaro, ma anche i preziosi quadri e i mobili antichi. Ma quando tutti dubitano che gli oggetti di valore vengano ritrovati e che il ladro venga scoperto, ecco entrare in scena la vecchia balia del castellano. È cieca, eppure riesce a raccontare come sono andate le cose, descrive l’aspetto dei ladri, ne indica il percorso, un vecchio passaggio che nessuno conosce. I suoi occhi sono così acuti che la polizia riesce a trovare il nascondiglio degli oggetti rubati.
Collani aveva letto fino a questo punto, quando lasciò cadere il libro sulla coperta. Mormorò parole confuse: – L’ho visto io stesso, io stesso. Sognato? Forse ho sognato. Ma era realtà. Stahl lo ha confermato. E so con assoluta precisione da quale ebreo è stato Bielle –. Tacque, perché i suoi pensieri correvano troppo in fretta: era veggente, poteva vedere le cose lontane, vederle così bene come se accadessero davanti ai suoi occhi. Quale futuro per lui! Quello era certamente un dono di Dio per la sua confessione. Perché non l’aveva fatto prima? Non avrebbe avuto più bisogno di entrare nell’esercito. Avrebbe vissuto nell’agio. La gente sarebbe venuta da lontano. Quanti soldi avrebbe guadagnato! Oh, la sua misera pensione! Vi avrebbe rinunciato con gioia, se solo avesse potuto andarsene. Ma doveva riuscirci. Era vecchio e malato. Costava solo una visita del dottore, il maggiore, un accenno velato alle sue meravigliose capacità, con estrema delicatezza si poteva anche dare a intendere che non avrebbe dimenticato un aiuto, in seguito, quando si fosse arricchito. Se prima Collani aveva tremato per il freddo, ora il suo corpo scottava. La coperta era troppo calda, il peso del lenzuolo insopportabile. Magro e deforme, vestito solo dei panni di sotto giaceva come un vecchio animale dalla pelle non più tesa sul corpo, ma stranamente raggrinzita. Poi Collani spense la lampada e rimase a lungo sdraiato nell’oscurità, a occhi aperti.
Il giorno seguente fu denso di avvenimenti per tutto il battaglione. Voci confuse volavano come scintille da una baracca all’altra; l’edificio moresco adibito a caserma per la compagnia mitraglieri ronzò per tutta la mattina. Alle nove Mamadou e il caporale Bielle furono chiamati nell’ufficio del capitano. Stahl c’era già. Il confronto non durò a lungo. Mamadou confessò per primo, alle parole del capitano tremava come una foglia, e il suo francese era ancora più goffo del solito. Stahl ricevette cinque franchi, mentre i due colpevoli furono portati in cella da quattro uomini con la baionetta inastata. L’ebreo della città che aveva comprato il lenzuolo li seguì dopo un’ora. Bielle non aveva voluto fare il nome del compratore. La voce stridula del capitano Pouette non riuscì a impressionarlo. I suoi baffi rossi avevano un tremito impertinente, come se celassero un sorriso irrispettoso. Neppure Mamadou poté dire il nome dell’ebreo. L’atmosfera nel piccolo ufficio era tesa. Tornò il furiere Levithan: aveva perquisito la stanza degli accusati. I lenzuoli c’erano tutti. Bielle, che apriva bocca per la prima volta, fece notare con voce calma che per il momento non esistevano prove decisive contro di lui. Stahl aveva visto Mamadou, e Mamadou aveva confessato. Ma che valore avevano le testimonianze di un tedesco e di un negro? Levithan stava per montare su tutte le furie, ma si dominò. Non era bene vantarsi della sua origine tedesca. E mentre gli accusatori si guardavano con imbarazzo, una voce gracchiò: – Io so dove abita l’ebreo –. Come faceva a saperlo? Aveva partecipato anche lui? chiese il capitano. Era molto agitato, il pizzetto biondo gli tremava. E Collani: lo avrebbe spiegato più tardi. Ora si trattava di prendere l’ebreo. I due accusati erano gravemente sospettati e furono condotti via, Mamadou guaiva come un animale prigioniero, Bielle era imperturbabile. Davanti alla porta dell’ufficio si pettinò a lungo i baffetti rossi per l’ultima volta. In cella gli tolsero la spazzolina.
Due sentinelle seguirono il piccolo caporale Collani. A debita distanza veniva il capitano Pouette, accompagnato dal sottotenente Pécould. Volevano vedere la fine di quella strana storia. Sebbene nutrisse nascostamente qualche dubbio, Collani procedeva veloce. Sentiva la necessità di fermarsi, di chiudere gli occhi per vedere con maggiore chiarezza l’immagine della sera precedente; già allora era abbastanza indistinta, e da quel momento era ancor più sfumata. Ma gli era impossibile, i due ufficiali alle sue spalle lo sospingevano, e così celò la propria insicurezza dietro un’espressione di malcontento. Una sentinella, un belga dalla lunga barba da gallo e dalla faccia rosso vino, fece qualche tentativo di avviare un discorso. Collani continuava a tacere.
A Géryville il quartiere europeo non è nettamente distinto da quello arabo. Il numero dei bianchi è troppo limitato: la cittadina non è neppure una sous-préfecture, vi abitano solo degli ufficiali, i due maggiori negozi di alimentari appartengono ad ebrei spagnoli che non si possono contare tra i francesi. Collani percorse un tratto della via principale, quasi deserta nelle tarde ore del mattino. Alcuni vecchi nei loro ampi mantelli grigi col cappuccio spingevano innanzi asini macilenti, carichi di ceste. Ogni tanto le bestie si fermavano, e mandavano un verso stridulo e malinconico. Al termine della via principale attraversarono la grande piazza dietro la caserma. Due compagnie erano impegnate nelle esercitazioni, divise in piccoli plotoni. Da una parte le trombe e i tamburi, la «clique» del battaglione, provava una marcia monotona. Gli uomini interruppero le loro esercitazioni per fissare il gruppetto. Ma non per molto. Erano appena apparsi i due ufficiali che le esercitazioni ripresero, e gli ordini dei caporali risuonarono con maggior vigore nell’aria fresca e acidula.
In un angolo della piazza sorgeva una casa bassa. Dapprima Collani cercò di evitarla compiendo un lungo giro: così si tenne al centro della piazza. Ma un filo invisibile lo attirava verso quella casa: era la casa dei Padri Bianchi, lo sapeva bene, pensò che fosse la cattiva coscienza a sospingerlo verso il suo confessore. Non tradiva un atto divino servendosi dell’Illuminazione ricevuta da Dio per guadagnarsi onori terreni? Ma si consolò subito. Era incerto, non sapeva con precisione dove abitasse l’ebreo. Aveva una visione oscura e confusa di un vicolo, ma non poteva dire dove dovesse cercarlo. Il giorno prima, per un breve istante, subito dopo la confessione aveva visto chiaramente la strada presa da Bielle. Ma ora la prima parte della visione era scomparsa dalla sua mente, era rimasta solo l’immagine del vicoletto, del negozio in cui abitava l’ebreo, e la testa dell’ebreo con il berretto nero a cono e la barba grigia e arruffata.
Per quanto Collani cercasse di resistere, dovette passare davanti alla piccola casa con la porta dipinta di rosso scuro. E proprio mentre stava passando davanti alla porta, questa si aprì e dalla casa uscì padre Matthias. Collani fece un balzo indietro perché il padre aveva cambiato aspetto. La pelle del volto era grigia, e le rughe più profonde che mai. Il padre benedisse in silenzio il suo penitente con un lieve segno della croce. – Dove vuoi andare, figliolo, così di primo mattino, e cosa significa il seguito che porti con te? – Collani balbettò una risposta incomprensibile. – Hai fatto un buon ritorno a casa ieri? – Strano, ma se ne accorse anche Collani: il padre aveva perso la propria spensieratezza. Sembrava cercare parole che non riusciva a trovare. – Stasera verrai da me? Vero? Posso contarci? Dovremo discutere di una faccenda importante. Ma fino ad allora prega, prega. Perché altrimenti il male avrà il predominio su di te. Non sarai già in suo potere?
I due ufficiali si erano avvicinati. Il capitano Pouette salutò il padre. Il suo saluto era un miscuglio di devozione e scherno. Padre Matthias rispose con un saluto distratto, e parve non vedere affatto il sottotenente.
«Devo pregare», pensò Collani. «Ha ragione. Forse servirà». E mentre continuava pian piano per la sua strada, gli venne in mente il rosario. Per contare le «Ave Maria» usava le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni, e piegava le dita quando terminava una preghiera. Non ebbe bisogno di continuare per molto quell’esercizio. Quando entrambe le mani furono serrate a pugno, riaffiorò con chiarezza l’immagine della sera prima. Era così convincente che per un attimo egli credette di essere Bielle. Precedette gli altri, la testa china verso terra. Gli si aprì davanti una stradina, la percorse finché giunse a un vicolo. Era solo un passaggio, la seconda casa a sinistra era un negozio. Collani spinse la porta fissata a un cardine solo. Dietro il banco sedeva su uno sgabello una figura ricurva dalla barba arruffata e il berretto nero a tronco di cono. L’ebreo balzò in piedi, agitò le braccia in aria. Strillava parole incomprensibili, ma il lenzuolo che trasse da sotto il banco era di proprietà dell’esercito: in un angolo spiccava il timbro rosso del 1° reggimento della Legione straniera.
– Ben fatto, Collani –. Il capitano Pouette posò delicatamente la mano inguantata sulle spalle del suo sottoposto, rimase così per alcuni istanti. Poi si arricciò la barba. – Ma come faceva a saperlo? – Collani era troppo impaziente per rispondere con calma al capitano. – Più tardi, – ansimò, – più tardi spiegherò tutto. – Bene, bene –. La mano inguantata ripeté il gesto tranquillizzante sulle spalle dell’uomo inquieto. – L’importante è condurre via l’ebreo. – Toi hemschi prison,33 – disse rivolto al vecchio. L’ebreo levò alti gemiti. Un fiume di querimonie sgorgò dalla bocca sdentata, e le povere mani scarne compirono gesti supplichevoli. Ma le due sentinelle lo presero per i gomiti, e così scomparve fuori dalla porta, lasciandosi alle spalle uno svolazzo di lamenti.
Collani poté riprendere la via di casa tra gli ufficiali. Com’era orgoglioso! Pareva che le sue prime aspettative per il futuro si stessero avverando. Aveva visto giusto la sera prima. Nell’ebbrezza del successo non si preoccupava troppo del modo in cui visioni simili si sarebbero ripetute. Gli bastava il successo del momento. Ancora un po’ affannato prese a raccontare agli ufficiali la storia della sua «illuminazione». Era così immerso nel proprio trionfo che non si avvide del sorriso di scherno che compariva lentamente sulla faccia del capitano, e si diffondeva come un riflesso anche sul volto del sottotenente.
– E noi dovremmo crederle, Collani? Perché vuole rendersi interessante? Perché non dirci apertamente che grazie ai suoi buoni rapporti con la truppa è venuto a sapere questa storia prima di noi? Sarebbe meritorio. Basta così –. Il capitano troncò i giuramenti di Collani con un gesto che aveva visto compiere a Lyautey34 e che aveva fatto proprio.
Resterà sempre un mistero il modo in cui nelle comunità maschili una novità si diffonde e al contempo di solito cambia a tal punto da avvicinarsi alla verità più dello stesso evento reale. Quella volta la notizia uscì dalla cucina, e fu diramata ovunque da coloro che verso le undici e mezza dovevano portare il pranzo nelle baracche. Bielle si era tradito da solo. Aveva raccontato tutta la vicenda a qualcuno (per certuni era Clarion della seconda compagnia, per altri l’attendente dell’aiutante di campo), quello non era riuscito a tenere la bocca chiusa e così era saltata fuori tutta la storia. La spiegazione del caporale Jorand della terza divisione della compagnia mitraglieri non servì a molto; egli sosteneva infatti che la sera prima il suo amico Bielle, che adesso era in prigione, gli aveva raccontato la spedizione. Bielle si era spesso guardato intorno durante il tragitto, e aveva avuto sempre l’impressione di essere seguito da un’ombra. Un’ombra che a un’occhiata più attenta si era confusa con l’oscurità. E gli era parso che quell’ombra fosse uguale alla figura ricurva di Collani.
Ma la cosa più strana fu che non venne assolutamente nominato il vero traditore, Stahl. Ciò che di tutta la vicenda rimase in fondo agli animi fu il fatto che Collani, in virtù di chissà quali poteri magici e con l’aiuto dei Padri Bianchi aveva inviato la sua ombra, e in quella forma aveva seguito Bielle ovunque. Quindi Bielle e il negro Mamadou erano diventati vittime di macchinazioni infernali: erano da commiserare. Il malanimo verso Collani aumentava di ora in ora. Alcuni di coloro che si ritenevano parte dell’aristocrazia spirituale del battaglione predicavano la calma e la riflessione. Non servì a molto. Quel pomeriggio alle esercitazioni di tiro della seconda compagnia il caporale Jorand disse che avrebbe tenuto in serbo una cartuccia per Collani.
Fu durante il pranzo alla mensa sottufficiali che lo stesso Collani ebbe la netta sensazione del repentino cambiamento dello stato d’animo nei suoi confronti. Tutti si allontanarono da lui, prima di tutti il sergente maggiore Dutreuil. Nessuno gli versò il pepe nel cibo, alcuni dei vecchi sergenti compirono gesti misteriosi per proteggersi dal suo sguardo malvagio: ognuno a suo modo, così come aveva appreso quelle precauzioni nel suo paese.
Ma anche al tavolo degli ufficiali la storia di Collani preoccupava gli animi. Già alla minestra il comandante Barsouin, un pancione bonario con qualche rado peluzzo biondo sul grasso labbro superiore, ansimava come un asmatico mentre il capitano Pouette raccontava gli avvenimenti della mattina. – Incredibile – soffiò la minestra dal cucchiaio perché si era orribilmente scottato, tanta era l’attenzione che aveva prestato alla storia. – Naturalmente lei ride, Pouette. Questo le si addice, perché è orgoglioso del suo scetticismo. Ma aspetti di aver raggiunto la mia età, e le passerà la voglia di schernire gli altri. Se durante la guerra avesse dovuto vivere anche solo la metà di quello che è toccato a me parlerebbe diversamente, mi creda. La cosa più importante è che prima io stesso parli con Collani. Poi il nostro «toubib», il nostro illustrissimo dottor Cantacuzène, lo visiterà. Non è vero, Anatole? – Si rivolse a un uomo magro che stava entrando e appendeva il berretto di velluto rosso all’attaccapanni. – Mi renderai un servizio visitando Collani. Tu hai fatto un anno a Ste. Anne.
Anatole Cantacuzène, medico del battaglione, prima si soffiò accuratamente il naso, poi andò al suo posto e fece finta di non aver sentito. Gli occhi di tutti seguivano i viaggi che il cucchiaio compiva dal piatto alla bocca. Quando finalmente il medico ebbe terminato, chiese distrattamente: – Cosa c’è? Un simulatore? Un paralitico? Eh? – Staccava ogni domanda con un morso. Barsouin dimenticò la costata che aveva nel piatto. Con ampi gesti raccontò la storia del «caporale veggente» Collani, così come Pouette gli aveva descritto gli avvenimenti. Si permise qualche abbellimento. I giovani sottotenenti simulavano attenzione. Il medico non si lasciò distrarre. Ingurgitava il cibo usando coltello e forchetta, e solo di tanto in tanto alzava le palpebre troppo grandi per il suo volto sottile e gettava al comandante uno sguardo rapido e mordace come le sue domande.
– Isterico, – borbottò brevemente quando Barsouin finalmente tacque. – Senza dubbio. Un caso d’isteria maschile. Ma perché no? Potrebbe essere davvero un caso di chiaroveggenza –. Allontanò il piatto, si accese con cura una pipa di porcellana ricurva, una vera pipa da contadino che sul fornello recava un’immagine di Napoleone dagli strani colori. Poi continuò la sua lezione, sazio e appagato, ora succhiando la cannuccia, ora frugandosi i denti da cavallo con una penna appuntita. – Dovremo esaminare il caso. Propongo di organizzare delle sedute medianiche –. Un lungo «ah» corse tra i presenti. Il medico soffiò fuori il fumo con rabbia. – Credete che vi inviterò? Vi sbagliate. Per questa faccenda mi servono uomini veri, non dei poppanti che se la farebbero sotto se dovessero assistere a una materializzazione. Potremo aver bisogno di te, Bobby, – disse rivolto al comandante. Barsouin era raggiante. – E forse anche di Fonjallaz della quarta. Quanto più uno beve, – rispose alla muta protesta dei presenti, – tanto meglio. Sarà meno influenzabile. E poi, Bobby, vedi di portare il padre –. Barsouin fece un viso dubbioso. Il medico si arrabbiò. – Devi. È necessario. Digli che può fare degli esorcismi se crede di avere a che fare col diavolo –. E aggiunse sottovoce, come per se stesso: – Sarà uno spettacolo interessante: la lotta tra due potenze. Haha.
Fu così che quella sera Collani non poté rispondere all’invito di padre Matthias. Verso le quattro fu chiamato dal medico. La visita durò due ore. Il dottor Cantacuzène sottopose a un’analisi accurata l’infanzia del suo paziente. Dalle sue brevi annotazioni non veniamo a sapere molto di nuovo. I genitori di Collani erano morti prematuramente, e già a otto anni egli era stato accolto in un orfanotrofio cattolico. Il padre era un ubriacone, la madre tisica, molto devota. Era stata lei ad affidare il figlio alla chiesa cattolica. Alla domanda se già nella giovinezza avesse osservato in sé fenomeni psichici di quel tipo, Collani non seppe rispondere. Non che le parole usate gli fossero ignote. Al contrario, si sentiva lusingato che qualcuno parlasse con lui in modo «colto». Fin dal primo istante la personalità del vecchio dottor Cantacuzène aveva avuto su di lui un grande effetto. Dal prete era stato rimproverato per la sua vita peccaminosa, ne aveva ricevuto una condanna, e quella condanna di azioni passate aveva risvegliato la coscienza di Collani, una faccenda sempre spiacevole. Anatole Cantacuzène sapeva recitare a meraviglia la parte del «confidente», così come appare nelle commedie del teatro comico leggero: scettico, ironico, che giustifica tutto. Non c’è da stupirsi che Collani fosse più franco della sera prima. Ma com’era prevedibile, a visita ultimata mancava per il momento ogni traccia di chiaroveggenza.
Il medico tracciò un grosso segno sotto i suoi appunti, nascose il volto fra le mani e si massaggiò vigorosamente le guance e gli occhi con le dita. Poi si alzò e prese a camminare avanti e indietro a lunghi passi nella stanza semibuia. Collani se ne stava comodamente seduto in una bassa sedia a braccioli e fumava una sigaretta. Il medico incominciò a parlare con voce monotona: – Possiamo riassumere la sua storia all’incirca così, caporale: lei viene da una famiglia alquanto provata, non è vero? Durante la giovinezza ha ricevuto un’educazione religiosa, tra i quindici e i sedici anni ha attraversato perfino una vera e propria crisi religiosa, non è vero? Senza che nel frattempo si manifestasse alcun fenomeno di chiaroveggenza o di genere occulto, non è vero?
– Mi viene in mente, – l’interruppe Collani, – che a quell’epoca dovetti andare da un francescano, perché i miei compagni di stanza dicevano che di notte si udivano dei colpi alla parete accanto al mio letto, mentre io me ne stavo lì tranquillo. Ma poi il fenomeno cessò del tutto –. Collani parlava sottovoce, pareva sfinito. La pelle flaccida delle guance era solcata di rughe.
Il medico annotò brevemente qualcosa stando in piedi, poi continuò con voce monotona: – Ah, colpi alla parete, molto interessante, non è vero? Ma ora lei è stanco e vorrebbe riposare. La rimanderò subito nella sua stanza, poi potrà dormire quanto vorrà. Ma devo farle ancora alcune domande. Può chiudere gli occhi. Chiuda pure gli occhi. Ecco, adesso viene il sonno, non è vero? Ma non deve resistere, un po’ di pace fa bene, si addormenti, si rilassi. Come fa bene la pace, non è vero? Allora, dorme? Cosa vede?
Collani incominciò a parlare, e la sua voce era monotona e inespressiva come quella del medico: – C’è una casa in città, arabi e legionari siedono insieme. Conosco solo due soldati: ecco Vonzugarten della terza e Stahl della nostra compagnia. Stahl sta parlando di me. Dice: «Dovete stare attenti a Collani!». «D’accordo», dice l’arabo, il più alto, che porta un ricco turbante. «Collani lo faremo fuori. Un’altra cosa», dice l’arabo. «Giovedì prossimo la compagnia mitraglieri è di guardia all’ingresso. Fissiamo questo giorno. Informerò io gli altri. Saremo in duecento, e se voi due riuscirete a lavorarvi anche i tedeschi del battaglione prenderemo la caserma senza troppa fatica. A tutti coloro che ci aiuteranno promettiamo il trasferimento sicuro in Marocco in territorio non occupato, poi il ritorno in patria».
Nella grande stanza si andava diffondendo una fresca oscurità, e l’atmosfera si fece leggermente sgradevole. Collani sembrava un apparecchio senza vita, un ricevitore radio che restituisce voci lontane e resta insensibile e freddo. Il vecchio medico s’inginocchiò con cautela davanti al camino e incominciò ad attizzare con un cartone le braci ormai deboli. – E allora? – chiese soltanto. – Allora Stahl si alza, – continuò la voce stridula e monotona, – e dice: «Il capitano ha una grande fiducia in me e non sa che ho tradito Bielle solo per liberarmi di lui. Ora posso girare di notte indisturbato e parlare con gli altri. Per giovedì ce la faremo». Torna a sedersi. «Adesso dovete andare», dice l’arabo di nobile condizione, «altrimenti noteranno la vostra assenza». «Ma», dice Stahl, «abbiamo bisogno di denaro. Tu capisci; dobbiamo pagare da bere e distribuire sigarette. Ci crederanno solo se vedranno che abbiamo denaro. Altrimenti rideranno di noi». L’arabo prende un portafogli, è rosso con i bordi gialli di pelle intrecciata, e dà delle banconote a Stahl, due-quattro-sei biglietti da venti franchi. E Stahl se li mette in tasca. Ora va verso la porta, e Vonzugarten lo segue.
Collani trasse un sospiro profondo, tacque. L’oscurità nella stanza era fitta. Fuori dalle finestre c’era tanto silenzio che si udiva il respiro dei dormienti; a poco a poco si trasformò in un lieve rantolo. Il medico scivolò verso la porta, la chiuse dal di fuori, scese con cautela le scale, poi si mise a correre nella sera fresca e raggiunse senza fiato la sentinella all’ingresso della caserma. Fece chiamare il sergente che comandava le sentinelle e gli ordinò brevemente di trarre in arresto Stahl della compagnia mitraglieri e Vonzugarten della terza appena fossero tornati, e soprattutto di perquisirli. Ordine particolare del comandante, dal quale stava recandosi adesso. Sarebbero seguiti altri ordini. Poiché Cantacuzène rivestiva il grado di capitano e, cosa forse più importante, era amato per la bontà che dimostrava al soldato semplice, il sergente Petroff si limitò a rispondere: – Agli ordini –. Il medico fece un saluto amichevole e, tutto agitato, scomparve in fretta nell’oscurità.
Quando tornò nella sua stanza, Collani dormiva ancora. Non fu difficile svegliarlo. Bastò chiamarlo a mezza voce. – Ricorda i suoi sogni? – chiese il medico con noncuranza, mentre accendeva la lampada a petrolio. E come la sera precedente, Collani riuscì a ricordare solo alcuni particolari di ciò che aveva «visto». Parlò di congiura, fece il nome di Stahl. In quella storia erano coinvolti anche degli arabi. – Venga con me, – disse Cantacuzène; d’un tratto parve aver preso un’altra decisione perché spense la lampada, prese Collani per mano e uscì a tentoni con lui.
Padre Matthias aveva avuto una giornata agitata. Aveva girato per la cittadina, aveva fatto visita a due bambini malati, più tardi aveva letto distrattamente il breviario e altrettanto distrattamente aveva cenato. Poi era incominciata la logorante attesa del suo penitente. In un vecchio numero della «Revue psychologique» lesse distrattamente un articolo del professor Hyslop sugli esperimenti telepatici. Scosse più volte la testa grigia da uccello. Quelli erano tentativi all’acqua di rose, la loro riuscita non era niente di terribile! Ma rivide il volto di Collani, quando la sera prima si era improvvisamente irrigidito. «Non può non essere pericoloso, non può non essere pericoloso. Ispirazione divina non è di certo. Dio non aveva bisogno di un tradimento per mostrare la sua potenza. Di nessun tradimento!». Quella parola gli si fissò in mente. Il tradimento lo disgustava. Si scosse. Cercò invano di consolarsi: quelli che hanno catturato sono dei ladri. Un sentimento molto forte si ribellava in lui al tradimento. Dio non c’entrava per niente in quella storia. Anche Giuda era stato un traditore. E cos’aveva fatto il suo penitente se non giocare al tradimento? Non riusciva a liberarsi da quei pensieri.
Padre Markus sedeva di fronte al vecchio e intagliava un cucchiaio in un pezzo di legno duro. – Chi denuncia i compagni, – lo apostrofò d’un tratto padre Matthias, – è gretto e meschino, non è vero? E io so come quelli là – e agitò il pugno verso la caserma, – trattano i prigionieri. Andrò subito dal comandante per vedere cos’è successo –. Si mise un mantello grigio col cappuccio sulla tonaca bianca, la notte era fresca, e attraversò frettoloso la piazza solitaria diretto alla casa del comandante, che sorgeva all’estremità opposta della cittadina.
Per la strada vide che tutte le finestre erano illuminate. Padre Matthias era abituato al fumo, eppure trovò soffocante l’aria della stanza nella quale entrò. Tossì a lungo e si asciugò le lacrime: solo allora riconobbe i presenti. Come il presidente di una corte marziale la figura gonfia del comandante Barsouin troneggiava su una poltrona a capo del tavolo allungato. Come Don Chisciotte accanto a un gigantesco Sancho Panza si ergeva accanto a lui la figura secca di Anatole Cantacuzène. Gli altri erano più insignificanti. Il capitano Pouette sbadigliava spesso, e teneva le mani giunte davanti alla bocca. II sottotenente Pécould aveva un foglio bianco davanti a sé, e si sentiva importante nelle vesti di segretario. Il piccolo Collani sembrava mimare l’accusatore. Perché si protendeva sul tavolo pronunciando parole cariche d’odio.
– Figliolo, – disse padre Matthias con voce dolce e un tono di lieve rimprovero. – Perché stasera mi hai fatto aspettare tanto? – Senza attendere la risposta si rivolse al comandante che si era alzato e gli tendeva la mano. Si salutarono. Barsouin era imbarazzato. – Ah, il nostro uomo di scienza e della miscredenza libera da ogni dubbio, – disse padre Matthias e strinse la mano del medico. La piccola battuta innocente suonò vuota e raggelante. Per spezzare quell’atmosfera d’imbarazzo il padre riversò un fiume di parole rivolgendosi ora all’uno ora all’altro dei presenti. Chiedeva una spiegazione, sbottò. Collani era un suo penitente, si sentiva responsabile delle sue azioni e delle sue parole. La sera prima era avvenuto un cambiamento in quell’uomo, e quel cambiamento aveva avuto delle conseguenze. Bene, desiderava sapere qualcosa di più di quelle conseguenze. Chiedeva una spiegazione. Era una faccenda che non poteva considerare esclusivamente scientifica; fortuna e sfortuna, per non dire vita e morte di alcuni uomini dipendevano da quegli eventi. Si trattava di persone indifese, consegnate alla grazia o allo sfavore di una potenza ignota, e lui si sentiva obbligato ad assumerne la difesa. Quando era entrato, quell’assemblea gli era parsa un penoso tribunale, l’accusatore faceva una triste figura (uno sguardo di rimprovero colpì Collani che lo restituì con arroganza), ma ciò che più gli dispiaceva era che si procedesse in assenza degli accusati, addirittura in assenza del loro difensore. Non poteva tollerare una cosa simile. Lui era il rappresentante della giustizia su questa terra, della giustizia divina (appena si lasciò sfuggire quella ripetizione sentì che era sbagliata, ma era troppo tardi per ritirarla). Bene, per il momento poteva lasciare Dio fuori dal gioco, se era questo che volevano. Ma non dovevano lasciarlo all’oscuro degli ultimi avvenimenti.
Seguì un lungo silenzio. Finalmente Barsouin disse: – Credo… – Il medico annuì, si sedette. – Bene, sottotenente Pécould, legga il verbale.
Il sottotenente incolore lesse gli appunti che aveva davanti: era stata scoperta una cospirazione, i sospetti Stahl e Vonzugarten erano stati arrestati; addosso al primo era stata ritrovata la somma di 120 franchi, riguardo la cui provenienza l’interrogato si rifiutava di rispondere. Resoconto del medico circa un fenomeno telepatico osservato sul caporale Collani, fenomeno che forniva tutti i chiarimenti desiderati circa la suddetta cospirazione. Su richiesta del comandante lo stesso caporale Collani si era detto disposto a ripetere il tentativo sotto il controllo del medico. Per facilitare le cose si era mandato a prendere dalla prigione l’imputato Vonzugarten. Accompagnato da due uomini e in presenza del comandante Barsouin, del medico del battaglione, del capitano Pouette e del sottotenente Pécould il caporale Collani aveva afferrato l’imputato Vonzugarten per il gomito. Poi il suddetto Collani si era fatto bendare gli occhi. Nonostante l’aperto rifiuto dell’imputato Vonzugarten, dopo alcune esitazioni Collani aveva individuato il ritrovo dei congiurati. Ali ben Mochamed, commerciante di cavalli, e Abdallah ben Yahiha, sceicco della tribù dei Sidi Medjahed, erano stati arrestati in quella casa e trasferiti nella prigione militare. Al ritorno dalla spedizione, Vonzugarten era stato interrogato dall’aiutante del battaglione, Crache. Mezz’ora più tardi aveva reso una confessione completa, che coincideva in ogni particolare con quanto aveva detto in stato sonnambolico il caporale Collani. In base a quella confessione si era dovuto procedere ad altri sei arresti, che tuttavia non avevano portato scompiglio nel battaglione. Dopo un interrogatorio collettivo anche i sei nuovi prigionieri avevano confermato le dichiarazioni del loro capo Vonzugarten. Si trattava di un piano per attaccare la caserma con l’aiuto della tribù dei Sidi Medjahed. Munizioni, armi ed equipaggiamento erano destinati ai ribelli di Tafilalet.35 Una truppa formata da russi, svizzeri e belgi, che comprendeva uomini di tutte le compagnie, era partita da un quarto d’ora per attaccare di sorpresa i Sidi Medjahed.
Padre Matthias si reggeva la testa con le mani e gemeva sommessamente. Quando Pécould tacque, gettò al padre uno sguardo di cortese meraviglia, come se trovasse assolutamente disdicevole manifestare tale afflizione per un evento quale la scoperta di una congiura, che in fondo poteva essere considerato una fortuna. Anche gli altri tacquero e guardarono il padre, come se aspettassero da lui una dichiarazione. Allora Collani si avvicinò con passo esitante all’uomo che gemeva e chiese: – Il pericolo è cessato, e non ve ne rallegrate? Avrebbe danneggiato anche voi –. Padre Matthias alzò la testa con risolutezza; gli ascoltatori si fecero attenti alla predica che sarebbe seguita. Ma il padre li deluse. Giunse solo le mani, chiuse gli occhi, e col viso rivolto verso l’alto disse con voce alta e chiara: – Dio, perdona loro, perché non sanno il dolore che arrecano alle tue creature. Non punirli troppo duramente, e lascia che io sia con loro quando la tua punizione sarà matura, e lascia che io li aiuti perché conoscano la tua potenza. Così sia –. Poi si alzò e andò verso la porta, eretto, senza un saluto.
Nelle settimane seguenti la fama di Collani crebbe; ma anche gli ufficiali e i sottufficiali che avevano contribuito a soffocare la congiura non furono dimenticati. Il generale Laroumette che comandava la divisione giunse a Géryville. In suo onore la «clique» suonò marce per tutta la sera, la tribù dei Sidi Medjahed mise a disposizione musicanti e danzatrici. Dopo essersi impegnato a pagare una multa di diecimila «douros» (cinquantamila franchi), lo sceicco fu rilasciato. Vonzugarten e Stahl furono condotti alla corte marziale di Orano e condannati a cinque anni di «travaux publics». Bielle e Mamadou, i due ladri di lenzuoli, furono giudicati solo da un tribunale di battaglione e condannati a sessanta giorni di carcere. Il generale approvò la pena e tenne loro un discorso toccante. Bielle lo ascoltò con un sorriso che celò sotto i baffetti rossi e arruffati. Da un fondo segreto fu versata a Collani la somma di cinquecento franchi. Egli ricevette anche le lodi del generale davanti al battaglione che sfilava in parata.
La sera prima che il generale partisse il comandante Barsouin aveva deciso di offrire uno spettacolo straordinario. Il medico aveva convinto Collani a tenere una seduta spiritica. Alcune sedute che si erano svolte nelle sere precedenti erano riuscite: il tavolino rotondo aveva scricchiolato forte e chiaro, battendo uno dei piedi aveva dettato una serie di frasi più o meno sensate, e alla fine in compagnia dei partecipanti aveva eseguito una danza che aveva lasciato il comandante senza fiato, ma pienamente felice e soddisfatto.
Per conferire alla seduta una parvenza di romanticismo, si era deciso di organizzarla sul tetto piatto sopra la casa del comandante. La faccenda era stata trattata con la massima segretezza, a Collani era stato imposto il silenzio assoluto. Il comandante gli aveva anche promesso di riformarlo se la seduta avesse avuto buon esito. E Cantacuzène aveva aggiunto: – Stasera non occorre procedere in modo scientifico. Deve succedere qualcosa che impressioni il generale. Non controllerò con rigore, ricordatelo, amico mio, ma chiuderò tutti e due gli occhi se avrai bisogno di aiutarti un po’ –. Collani aveva annuito. Aveva un brutto aspetto. Gli occhi erano stanchi e spenti, la cornea venata di rosso, come infiammata. Non riusciva a reprimere un lieve tremito del mento. – Farò del mio meglio, – disse con voce opaca.
Il progetto non era rimasto del tutto segreto. Doveva essere trapelato qualcosa, perché nel pomeriggio padre Matthias comparve inaspettato davanti al comandante. – Ho sentito del tuo progetto, Bobby, – disse serio, – e ti avverto. Annulla lo spettacolo. Dio non permette che ci si prenda gioco di lui impunemente. E voi vi state prendendo gioco di lui. Spettacoli come questi non sono sempre all’acqua di rose, a volte affiorano entità che potrebbero fare un gioco pericoloso.
Per un momento il comandante rimase meditabondo. Poi rise a cuor leggero facendo traballare la pancia. – Dovrei annullarlo adesso? Impossibile. Che figura ci farei? In fondo faccio tutto questo per aiutare il tuo penitente. Deve poter andare a casa, perché è ammalato. E sono certo che il nostro buon Collani sia felice di guadagnarsi la libertà in questo modo. Sarà una buona pubblicità per lui, se vorrà diventare un veggente famoso a Parigi. Potrà sempre contare sulle referenze di un generale.
Padre Matthias scosse tristemente la testa. – Comunque, – disse, – in fondo sono io il responsabile di tutta questa faccenda. Così me ne assumerò la responsabilità. Forse potrò evitare una disgrazia –. La sera di primavera era greve, in cielo splendeva una grande luna bianca e i suoi raggi parevano accrescere l’afa. Ogni lato del tetto piatto e quadrato scendeva a picco per circa sei metri fino a un lastricato che circondava la casa. Non c’era ringhiera.
Nel corso della serata gli uomini avevano portato sul tetto due tavoli. L’attendente del comandante aveva disposto acquavite e acqua minerale su uno di essi. L’altro rimase libero, un po’ in disparte. Era un semplice tavolo rotondo di legno, costruito dal falegname del battaglione senza chiodi o altre parti metalliche, secondo le indicazioni del medico.
Alle nove comparve il generale, accompagnato da Barsouin. Laroumette era di media statura, magro e molto curato. I baffi candidi lasciavano scoperta la bocca sottile, pallida. I due uomini sedettero al tavolo apparecchiato. L’attendente riempì i bicchieri senza far rumore. I due bevvero in silenzio. Poco dopo giunse Cantacuzène con il suo protetto Collani. Collani ebbe il permesso di sedersi, il generale lo salutò con un cenno condiscendente della mano. Poi il medico sussurrò alcune spiegazioni scientifiche, di cui il generale prese atto con interesse cortesemente simulato. Ultimo degli invitati apparve il capitano Pouette nella bianca uniforme di gala; pareva un fantasma in mezzo agli altri vestiti di scuro.
– Cominciamo, – annunciò il medico. I mozziconi volarono oltre il parapetto,36 lasciando una breve scia di faville. L’attendente scomparve silenzioso giù per il passaggio che univa il centro del tetto all’interno della casa.
Collani portava una leggera uniforme cachi con i pantaloni lunghi, senza mollettiera. Ai piedi aveva scarpe leggere con le suole di paglia. Prese posto per primo, il viso rivolto alla luna, alla sua destra Cantacuzène, alla sua sinistra il generale. Veniva poi il comandante, mentre il capitano Pouette chiudeva il cerchio tra lui e il medico.
– Ebbene, cosa impareremo di nuovo? – scherzò il generale. – Ci verrà svelato il destino della Francia, o gli spiriti ci riveleranno fatti personali? – Silenzio, prego, – disse con severità Cantacuzène. Calò un profondo silenzio. Alla muta richiesta del medico tutti posero le mani sul tavolo, le dita allargate in modo da formare una catena ininterrotta. Per cinque minuti non accadde nulla. Poi il corpo di Collani ebbe un tremito, il mento gli si abbassò, gli occhi si stravolsero; la luna illuminava con tanto chiarore quel volto contratto che la cornea bianca si distingueva perfettamente sotto le palpebre abbassate.
Il tavolo batté lentamente due colpi con un piede. Il medico incominciò una domanda: – Chi… – disse. Allora si verificò un fatto incomprensibile. Come afferrato da una forza sconosciuta, Collani venne trascinato verso l’alto. La sedia si rovesciò. Anche gli altri furono strappati dalle loro sedie. Dapprima lentamente, poi sempre più in fretta avanzavano verso il margine del tetto. Gli ufficiali tentavano invano di staccare le mani dal tavolo. Ma dovettero rinunciare. Non potevano fare a meno di fissare quel volto irrigidito, che alla luce della luna pareva raggiante, soffuso di una gioia congelata. Il margine del tetto era sempre più vicino, i tacchi di Collani erano già sul bordo: il muro si sbriciolò, e i frammenti caddero rumorosamente sul selciato. Allora il capitano Pouette sentì una mano sulla spalla, poi due braccia lo afferrarono e lo trassero indietro. – Apage Satanas! – gridò una voce squillante. Sul volto di Collani parve che qualcosa si spezzasse. Le sue mani si staccarono dal tavolo, si protesero verso la luna, in un gesto di difesa, poi il corpo cadde rigido all’indietro. Il tonfo sordo sul selciato destò gli altri dall’incantesimo. Il primo a scuotersi fu il vecchio generale. Col pollice e l’indice si liberò le labbra dai baffetti, si avvicinò a padre Matthias con la mano tesa: – Ah, – disse con voce chiara, – credo che lei ci abbia davvero liberati dal diavolo.
Padre Matthias era triste. Fece lentamente il segno della croce. – Andrò a pregare per il mio penitente. Non sono stato io a precipitarlo nella sventura?
Cantacuzène stava per ribattere qualcosa. – Più tardi, – disse il padre, – quando non sarò più qui, potrà fornire la sua spiegazione scientifica, – e sottolineò con astio le due ultime parole. – Ma aspetti che abbiano portato via il corpo –. Alzò la mano in un gesto di minaccia: – Lei sa per certo che il morto non la sente più? E se la sentisse, non temerebbe la sua vendetta? – La figura di padre Matthias scomparve lentamente giù per il passaggio.
– Ah, questi preti con la loro superstizione, – disse sottovoce Anatole Cantacuzène. Ma Barsouin alzò la mano per chiedere silenzio. – Beviamo qualcosa allo spavento che abbiamo avuto, piuttosto, – disse con voce un po’ roca. E il collo della bottiglia tintinnò in modo preoccupante contro l’orlo del bicchiere, mentre lui tentava di versare da bere.
La morte del negro
Fui molto contento quando il caporale Charles Seignac venne con me volontario in Marocco.37 Mi piaceva, forse proprio perché era negro e come unico sottufficiale di colore gli toccava di patire molto nella compagnia a causa degli altri. A volte la nostra simpatia per un uomo si alimenta solo con l’antipatia dimostratagli dai più. Inoltre Seignac era un tipo perbene e di una bellezza gradevole, il che potevo dire di pochi altri compagni. Era molto alto, magro, spalle larghe e fianchi stretti. Sul cranio allungato i capelli neri parevano un elmo di maglia di ferro, arricchito di ornamenti su un filo d’argento. Aveva orecchi piccoli, e il colore della pelle era fresco, come caffè freddo scuro.
Avevo un solo cruccio: che anche Farny si fosse arruolato per il Marocco, e che dovesse comandare il nostro distaccamento. Non potevo soffrire quel tipo. Mi ricordava una sardina grondante olio, piatta, viscida, indigesta. Se lo s’incontrava di mattina, per tutto il giorno restava nell’animo un sapore rancido. Ma soprattutto per via di Seignac non mi andava che Farny venisse con noi; sebbene Seignac si fosse presentato solo dopo aver avuto la certezza che partisse anche Farny. Tra quei due c’era qualcosa, nonostante non si parlassero mai. Sembrava quasi che si fossero già incontrati prima, in quei tempi leggendari quando si possedeva ancora un abito borghese e forse perfino un’amica fedele. Seignac era taciturno, e costituiva un mistero. Laggiù dove tutti sono conti, generali, principi mascherati, sempre che non preferiscano essere re dei ladri o mercanti di donne bianche, un uomo che non racconti nulla del proprio passato rappresenta un enigma e quindi un’attrazione.
Farny era sergente e doveva condurci fino ad Atschana, un campo nel sud del Marocco. Durante il cammino Seignac faceva quello che c’era da fare; solo quando Farny impartiva degli ordini, faceva il sordo. E Farny accettava quel modo silenzioso d’ignorarlo (non si poteva neppure dire che fosse sprezzante) come un fatto ovvio; non mostrava mai ira o impazienza. Dopo due o tre tentativi inutili faceva scrosciare i propri ordini su chi ci sentiva bene. Farny aveva l’indiscutibile natura di un servo, e quindi amava il comando come una droga. Quando poteva comandare, strabuzzava gli occhi per il sommo piacere. Una vista disgustosa.
Che tra i due aleggiasse qualcosa d’invisibile divenne sempre più chiaro durante i giorni di marcia, poi in treno, infine sui camion. Nella guarnigione in Algeria non era stato così evidente. Con questo non so che d’invisibile non intendo qualcosa di spettrale, poteva trattarsi di un ricordo, di un avvenimento. Ma nessuno cercava di scoprirlo, il che era strano, perché laggiù le chiacchiere proliferano come in ogni comunità numerosa. Forse Farny aveva confidato qualcosa del suo rapporto col negro al suo attendente, per certi motivi non ho mai potuto sincerarmene. Questo attendente Lohmer era un tedesco biondo e pulito che ci faceva pena, perché il sergente aveva una cattiva fama ed era malato.
Alla fine del nostro viaggio Lohmer incominciò ad avvicinarsi a Seignac. Il negro sopportava in silenzio. Erano piccoli gesti d’aiuto, gli raccoglieva oggetti che lui aveva dimenticato. Una volta, al momento di mettersi in marcia (credo che fosse a BouDenib), Seignac non riusciva a trovare il cappotto. Lohmer sosteneva che lo avevano rubato, e si mise alla ricerca. Tornò con il cappotto e raccontò di aver scoperto il ladro e di averlo steso con un pugno.
Seignac offrì una borraccia di vino e un pacchetto di sigarette. Più tardi gli dissi: – Ascolta, è stata una macchinazione, Lohmer ti ha imbrogliato, è stato lui a nasconderti il cappotto per darsi importanza, oppure è stato Farny a suggerirglielo, e tu ci sei cascato –. Seignac disse con calma: – Che novità. Credi che non lo sappia? Ma lascia che facciano. M’interessa quello che ne verrà fuori. È meglio che tu non faccia niente di simile, Fred –. Era l’unico che mi chiamasse Fred, e devo confessare che mi faceva sempre piacere. Ne ero anche orgoglioso.
Una sera entrammo nel campo di Atschana. La pianura era rossastra, rosse erano le montagne a nord, una luce chiara appariva dietro le colline a sud, là c’era il deserto, ci dissero. Sembrava che in quel campo gli uomini si annoiassero. Le baracche avevano il tetto di lamiera ondulata, che il vento aveva smerigliato con la sabbia. Noi venti appena arrivati stavamo lì a farci guardare a bocca aperta dagli altri. Anche il capitano venne a salutarci. Con i suoi baffi grigi e cespugliosi sembrava un Nietzsche affetto dall’adipe.38 Ma si mostrò compassionevole, e ci chiese come stavamo. Poi fummo assegnati alle diverse baracche. A Seignac e a me toccò la stessa sezione. Per noi andava bene, almeno io ero molto soddisfatto, e credo che anche Seignac lo fosse, nonostante la sua faccia eternamente altera.
Ci si adatta presto a un nuovo ambiente, laggiù. Dopo otto giorni ci eravamo abituati. Forse ci aveva aiutato anche il sottotenente Lartigue, che comandava la nostra sezione; parlava volentieri di tutto con noi, di musica e d’arte. Seignac, il negro, sapeva molte cose, conosceva perfino i poeti moderni. Inoltre il suo francese era inappuntabile. Chi lo sa, forse aveva studiato alla Sorbona.
Grazie al sottotenente Lartigue ottenni un posto tranquillo nell’ufficio della compagnia; a dire la verità Seignac sarebbe stato più adatto, ma il colore della pelle glielo impediva. Sebbene in genere i francesi non abbiano troppi pregiudizi razziali, pare che il colore della pelle abbia la sua importanza. A quasi tutti i bianchi capita di vedere nel negro la cattiva coscienza, forse è questa l’origine della loro avversione.
Persi un po’ di vista Seignac, perché non dormivo più nella baracca con gli uomini, ma – grande onore! – dividevo la stanza con il sergente maggiore, un uomo scaltro che sapeva come provvedere alla propria borsa e alla piccola amica creola, cameriera (barista sarebbe stato dir troppo) al villaggio, nell’unica bettola nel raggio di cento chilometri. Dopo una settimana il mio capo si lamentò – si chiamava Narciso, e come il suo omonimo della mitologia greca era innamorato del proprio volto – che quel dannato negro ronzava intorno alla sua amica come un verro in calore. Seignac non mi sembrava capace di un comportamento simile. E poi ne sentivo molto la mancanza. Inoltre, continuò il capo, quel tipo aveva tanti soldi che faceva impazzire la ragazza, e anche il fatto che fossero dello stesso sangue aveva la sua importanza. Per farla breve, il capo era così esacerbato, che prelevò una bella somma dalla cassa della compagnia per andare a bere e per rallegrare l’umore dell’amica con delle tolette (ciò che laggiù chiamavano tolette). Naturalmente dovetti coprire tutto – non fu difficile, data quella contabilità così complicata, ma mi costò un pomeriggio intero, e mi toccò passare anche la sera nel piccolo ufficio sudando sette camicie. Inoltre dovetti trafficare un bel po’ con il francese che dirigeva il deposito dei generi alimentari per cinque sacchi di farina e tre sacchi di caffè, che il capo aveva registrato come ricevuti e pagati. Ero arrabbiato perché avrei voluto parlare con Seignac. Dove aveva trovato tutti quei soldi da un momento all’altro? In Algeria era sempre stato in miseria, varie volte avevamo unito il nostro denaro per permetterci un litro di vino, ed ora d’un tratto aveva il portafogli pieno, come aveva saputo il capo dalla creola.
Volevo averne la certezza e mi recai dal telefonista che si occupava anche della posta. Sì, Seignac aveva ricevuto una lettera assicurata da Parigi, carta profumata, l’indirizzo vergato da un’inconfondibile calligrafia femminile; aveva preso in giro il negro per la donna ricca che aveva lasciato in Francia. – Non è ciò che lei pensa, – aveva risposto Seignac con sgradevole cortesia. – Non avrei mai importunato la signora. Ma si è reso necessario per motivi che non la riguardano –. Il telefonista aveva ricordato la frase parola per parola, ed io riconobbi il modo arrogante di esprimersi proprio di Seignac quando si arrabbiava per qualcosa. Tuttavia quella frase mi stupì e decisi di andare da Seignac. Nella baracca c’era ancora luce, dalla porta guardai nella stanza debolmente illuminata da due mozziconi di candela; Seignac venne al mio richiamo. Andammo nel recinto dove si tenevano i muli della compagnia. (Avevamo dei muli, perché la nostra compagnia era in parte a cavallo). Là eravamo indisturbati.
– Senti un po’… – dissi. Non mi lasciò continuare. – Hai bisogno di soldi? – chiese. – Sarei già venuto da te, ma non voglio litigare con Narciso. Adesso va bene. Allora… – Trasse il portafogli e mi porse due biglietti da venti franchi. Mi chinai in avanti e vidi che erano gli ultimi quattrini che gli restavano. – Sì, ma… – cercai di dire. – Lo so, – disse con un cenno di diniego, – il capo ti ha detto che ho molto denaro, ma lo vedi che sono al verde. È vero, ho ricevuto del denaro, e molto anche, ma non era per me. Potevo tenere solo cento franchi. Sono stato sciocco a mostrare tutta la somma, ma speravo d’incontrare l’uomo al quale era destinata. Queste, – e indicò le banconote che tenevo in mano, – le ho serbate per te. Siamo ancora amici, no? – Annuii con imbarazzo, perché aveva bisogno di parole così grosse? Amici! Come se quel dato di fatto dovesse essere dichiarato! – Sì, e a te non resta niente, – feci in tono di rimprovero.
– Io non ne ho più bisogno –. Fu una constatazione tranquilla, e la sua voce non era affatto triste. Credo che già allora sapesse come sarebbe andata a finire. Poi mi posò la mano sul braccio, era magra e affusolata, le labbra erano solo una linea sottile nel volto dalla pelle trasparente come miele scurissimo alla luce della luna. Perché brillava la luna, e posava su ogni cosa un drappo dipinto di vernice luminescente.
– Dovresti raccontarmi… – dissi.
– Sì, se avesse importanza –. Seignac rifletté, scosse la testa. Infine parve che si fosse deciso a parlare, si chinò in avanti.
Allora dal campo salì un grido ripugnante, acuto e lamentoso al contempo. Seignac mi afferrò il polso. – È Farny. Vieni –. Mi meravigliai che avesse riconosciuto la voce. Corremmo. Quando giungemmo su uno spiazzo libero tra le baracche, una figura solitaria urlava alla luna agitando le braccia. Un gruppo di uomini assisteva allo spettacolo, ma da lontano, nessuno osava avvicinarsi. Seignac si diresse verso la figura, era davvero Farny, ma un Farny completamente nuovo, i tratti del volto rigidi come una maschera. Lo seguii esitante; mio Dio, non si è sempre coraggiosi. Forse la mia codardia era anche un po’ colpa della luce della luna.
Seignac non disse una parola. È possibile che fosse la sua statura a intimidire l’altro, perché Farny era basso. Comunque il negro fece un cenno con la mano e lo precedette. Le urla di Farny cessarono, come mozzate. E Farny ubbidì al cenno e seguì il negro. Poi scomparve dietro una porta, e Seignac tornò. – Buona notte, Fred, – disse. L’ombra della baracca l’inghiottì. Non ho più sentito la sua voce.
In seguito il capo mi raccontò che Farny aveva bevuto tutta la sera nella bettola, e che aveva pagato da bere anche agli altri. Sulla via del ritorno aveva incominciato a smaniare e a urlare, e non aveva lasciato avvicinare nessuno. Tutti avevano avuto paura di lui. Poi il capo si lamentò della sua amica. Era innamorata pazza del negro, per tutta la sera non aveva fatto che parlare di Seignac, finché lui non ne aveva potuto più. Due mattine dopo Seignac fu trovato nelle vicinanze del villaggio arabo che noi chiamavamo ksar; fu proprio il giovane Lohmer, l’attendente di Farny, a trovare il corpo. Io non volli vederlo, così seppi solo per vie traverse che gli avevano fracassato l’occipite. Si suppone che fossero stati alcuni abitanti dello ksar, e durante il rapporto il capitano ci diffidò dall’entrare nello ksar. Non andai neppure al funerale, guardai dal muro del campo, il cimitero era vicinissimo. Fui coinvolto in una discussione sorta fra gli ufficiali: si trattava del simbolo da porre sulla tomba. Ai cristiani toccava una croce, ai maomettani una mezzaluna e ai negri (per lo più senegalesi), dei quali non si poteva accertare la confessione religiosa, un cuore. Io fui per il cuore, sebbene fossi convinto che Seignac fosse battezzato, ma mi parve che il cuore gli si addicesse di più. Feci valere la mia opinione. A capo della tomba venne piantato un bastone, al quale fu inchiodato un cuore di latta dipinto di rosso. Ricordava un po’ le immagini di cattivo gusto del «Sacro Cuore», in vendita nei negozi di articoli religiosi.
La morte di Seignac trasformò l’atmosfera del campo. I primi giorni dopo il funerale furono tranquilli. Solo di tanto in tanto qualche sussurro correva per la compagnia, simile al lieve vento della sera che a volte giungeva dalle montagne rosse. Farny aveva marcato visita. Correva voce che soffrisse di un attacco di febbre; il capo era di buonumore, perché il suo «rivale» era sparito.
Lenta come un’epidemia la passione del gioco prese il campo. Incominciò nella sezione in cui Seignac era stato caporale. Per notti intere si giocava a diciassette e quattro (il gioco si chiamava anche «vingt-et-un»), e si continuava anche di giorno, in ogni ora libera – e in estate ce n’erano molte. C’erano lotte al coltello, molti perdevano la paga di mezzo anno in anticipo, e cinque turchi che avevamo nella compagnia facevano da usurai e prestavano denaro, chiedendo il cento per cento d’interesse. Un caldo ostinato gravava sul campo, il sole era sfacciatamente importuno, il paese che si estendeva sabbioso fino alle montagne di pietra rossa era ferro incandescente sul quale i cespugli grigi di erba alfa galleggiavano come scorie vulcaniche. Per tutto il mezzogiorno non c’era ombra da nessuna parte, nelle baracche ronzavano fitti sciami di mosche. Ma questo non era un motivo sufficiente a giustificare l’agitazione che andava lentamente crescendo; anche nelle estati precedenti era stato così, e avevano sopportato in silenzio, dicevano gli anziani. Perché quell’anno era diverso? L’agitazione pareva aver contagiato anche i muli. C’era Seppl, per esempio, una bestia grigia e tranquilla che Seignac aveva cavalcato. Di solito era spiritoso come un filosofo pessimista, un po’ alticcio. Per alcuni giorni dovette restare al campo, perché non c’era bisogno di lui. Poi uscì per una breve esercitazione di marcia che il capitano aveva ordinato, forse per spezzare quell’atmosfera. Seppl si lasciò sellare, lasciò anche che il suo nuovo padrone lo montasse. Ma quando la compagnia passò davanti allo ksar (molti dissero che era proprio il punto in cui era stato trovato il cadavere di Seignac, e ciò rifletteva perfettamente la superstizione che imperversava ovunque), Seppl fece un balzo, il suo cavaliere fece un infamante volo a capofitto e si ruppe il braccio. Anche l’attendente Lohmer ricevette un calcio nel basso ventre e fu portato in infermeria. Non lo andò a trovare nessuno. Nel campo correva voce che l’attendente avesse ucciso Seignac, perché nessuno voleva credere che fossero stati gli arabi. Fu un bene che Farny se ne restasse tranquillo in camera sua, già allora alcuni gruppetti erano appostati presso la sua porta.
Il capitano fu contento quando giunse l’ordine di ritirare un trasporto di generi alimentari da Midelt. Restammo al campo in pochi. Il capo, Farny, il cavaliere malconcio e l’attendente Lohmer sono gli unici che io ricordi. C’era anche un sottotenente incolore di cui ho dimenticato il nome; si faceva vedere di rado, e quando compariva strisciava con gli occhi stanchi e la schiena ricurva come se dovesse portare a spasso il suo duro destino per fargli prendere una boccata d’aria. Qualche altra figura si trascinava al sole, uomini malaticci che si riconoscevano ma si dimenticavano subito, appena tornavano a rintanarsi – tanto era vaga la loro presenza.
Una sera (la compagnia era ancora in viaggio) Anny, l’amica creola del capo, piombò al campo e fece un baccano infernale nell’ufficio della compagnia. Fui coinvolto anch’io in quel trambusto, perché pareva che la giovane Anny sapesse che ero stato l’unico amico di Seignac. Dovevo dire a tutti che buon uomo fosse stato Seignac, e lo feci, sebbene il capo mi guardasse con occhi furiosi. Era ben triste che un uomo simile fosse caduto vittima di un complotto, gridava Anny. Nella sua collera spifferò alcune cose. Accusò il capo di essere stato con Farny, il sergente, la sera prima dell’«incidente» di Seignac (fu lei a usare quella parola), e insieme avrebbero fatto ubriacare l’attendente Lohmer. Era fin troppo chiaro, urlò Anny, cos’era successo dopo. Il capo si confuse quando lo guardai con aria interrogativa, poi si schiarì la voce e disse che quella dava i numeri. Allora Anny incominciò a strillare tanto da farsi sentire in tutto il campo. Non dava fastidio a nessuno, perché il campo era quasi deserto, ma le ombre degli uomini malati si trascinavano all’intorno, il sottotenente oppresso dal duro destino passò davanti alla porta e si fermò. Questo spiega forse come quell’esplosione potesse rimanere nell’aria per avvelenarla ancor più.
Ciò che Anny urlava ci sarebbe parso ridicolo se non avessimo avvertito che le sue parole celavano un sentimento forte e sincero. Seignac l’aveva trattata con rispetto; aveva cercato di convincerla a cambiar vita: doveva cercarsi un posto in città o da un fattore per guadagnarsi faticosamente da vivere con il lavoro delle sue mani (come dice la moralistica espressione), invece di farsi mantenere da questo e da quello. Sembrava che Anny ne fosse rimasta colpita, nessuno le aveva mai parlato in quel modo. Infine saltò fuori anche che Seignac le aveva dato un po’ di denaro, per facilitarle la partenza. Devo confessare che il povero Seignac nelle vesti di salvatore di ragazze traviate, di angelo custode negro per così dire, mi pareva un po’ buffo. Ma ero convinto che lo avesse fatto solo per onestà. Il suo comportamento in questo caso si addiceva alla sua immagine, e incominciai a supporre che anche nel caso di Farny avesse giocato un comportamento simile. Forse alla fine la ragazza gli avrebbe disubbidito, perché che fosse innamorata di lui era certo, ma dopo la sua morte non aveva più alcun pretesto per restare ancora. Il giorno seguente rinunciò al suo posto e se ne andò con un camion che la compagnia aveva guidato al nostro campo. Al loro arrivo gli uomini erano stanchi e contrariati. Durante l’assenza della compagnia l’ufficio arabo, che doveva chiarire le discordie tra gli indigeni e i bianchi, aveva compiuto un’indagine rigorosa sulla morte di Seignac. Lo ksar era stato setacciato, ma non si era scoperto nulla. Quando si comunicò al nostro capitano che le indagini non avevano avuto esito, fece una smorfia di disgusto (io ero proprio accanto a lui), e capii che sapeva, ma che lottava contro la propria convinzione: infatti odiava mandare alla corte marziale uno dei suoi uomini. Gli pareva un’inammissibile intromissione nella sua sfera di competenza. Ma cosa doveva farne dell’assassino? Andò a trovare l’attendente Lohmer in infermeria, vi rimase a lungo, lo si sentiva imprecare e urlare. Alcuni sostenevano di aver udito il tedesco che piagnucolava. Sta di fatto che dopo che il capitano se ne fu andato, Lohmer vomitò sangue: le ferite interne dovevano essere piuttosto gravi. Morì la notte seguente, solo. Lo udirono lamentarsi fino a mezzanotte. Ma nessuno poté aiutarlo. Al campo non c’era morfina, e il medico veniva solo quando lo si chiamava.
Una volta decisi di andare da Farny, che non si faceva vedere da tanto tempo. Prima della sua stanza c’era un’anticamera buia, che serviva da magazzino della compagnia. Là mi fermai, perché sentii parlare Farny e pensai che avesse visite. Ma era un borbottio monotono: sembrava che qualcuno avesse incominciato un discorso da tanti anni, e non potesse fermarsi per l’eternità. Bussai, il discorso non s’interruppe, continuò, io entrai. Al centro della piccola stanza con le pareti tappezzate di fotografie di donne poco vestite della via Parisienne, c’era Farny. Mi voltava le spalle e parlava rivolto alla parete: – E sulla montagna c’era un angelo dal volto nero, s’inchinava verso settentrione, e la sua voce mugghiava come la tempesta calda che piega le palme. Anche tu sei giunto come l’oscuro messaggero del silenzio che… – Salve, Farny! – gridai. – Alle armi! – urlò, si volse, aveva gli occhi infiammati, e i baffi radi e setolosi brillavano di sudore. Il sergente era magro e debole; forse è la febbre a farlo parlare in tono così apocalittico, pensai, ma allora perché non è a letto? Mi riconobbe subito. – Allora, impiegatuzzo, – la sua voce strillava, non recitava più come prima, – sei venuto per spiare? Il tuo amico, il negro, non è qui, cercalo adesso. Ma prima portami da bere –. Sul tavolo nell’angolo scorsi una lettera, carta a mano azzurra, aguzzai la vista ma non riuscii a leggere. Così uscii e gli portai una borraccia di vino.
– È giusto, – disse Farny, – bisogna sempre ubbidire ai superiori, quando non si è che uno straccio di caporale. Perché altrimenti… altrimenti… – Poiché non riusciva a finire la frase, si attaccò alla bottiglia e bevve. Mi avvicinai guardingo alla lettera. Calligrafia femminile, appuntita… «Il signor Seignac, che ho pregato di occuparsi di te, ti consegnerà una certa somma che faciliterà la tua fuga…». La lettera mi fu strappata, finii carponi davanti alla porta. Fui contento che Farny non avesse le scarpe chiodate… Il signor Seignac? Allora in passato il negro era stato il signor Seignac. E aveva ricevuto l’incarico di proteggere un bianco. Doveva esser stato un compito adatto a lui, pensai. Proveniva sicuramente da un’antica stirpe di capi, e la necessità di dominio era insita in lui; in fondo cosa sono aiuto e protezione se non un surrogato del dominio?
Soprattutto la sera la stanza di Farny, dalla quale giungeva ancora quel parlottìo monotono, esercitava una singolare attrazione sugli uomini. Com’era prevedibile, la storia di Anny aveva fatto il giro del campo. E quanto più veniva dipinta a tinte sentimentali, tanto più aveva effetto. L’immagine di Seignac crebbe fino a diventare una figura eroica come Schinderhannes, il protettore dell’innocenza perseguitata.39 La sua morte fomentò la vendetta. Un sentimento primitivo, ma molto comprensibile! Quella morte era un esempio tangibile dell’oppressione che bisognava sopportare. Ma il capro espiatorio doveva essere Farny, che rivestiva un ruolo oscuro in quel dramma, ma che come superiore diretto era più odiato degli altri piccoli tiranni, gli ufficiali di grado superiore, troppo estranei, troppo indifferenti per essere vittime di una vera collera.
Per due sere gli uomini si affollarono davanti al magazzino della compagnia, dietro la stanza di Farny. Io osservavo quell’assembramento: aveva qualcosa di eccitante. La voce monotona dietro la parete d’argilla – e il cupo silenzio della folla. Lartigue, il sottotenente che si dilettava di letteratura, osservava il fenomeno da lontano, il capitano spinse il suo corpo grasso attraverso la folla, pronunciò parole concilianti, ma non riuscì a scaricare l’alta tensione di quel silenzio.
La terza sera finalmente la tensione si ruppe, perché dietro la parete d’argilla regnava un silenzio assoluto. Pareva che la voce monotona avesse avuto un effetto soporifero; ora che taceva l’incantesimo si spezzò. Dapprima grida: – Farny!… Assassino!… – Pugni alzati in segno di minaccia. I sottufficiali sparirono. Da una finestra della mensa-ufficiali il capitano fissava la penombra rumoreggiante. Poi la folla irruppe attraverso la porta del magazzino, io, rimasi fuori, sentii schiantarsi la seconda porta, urla di rabbia.
Sapevo già che la stanza era vuota. Poco dopo il pranzo, mentre tutto il campo faceva la sua pesante siesta, una figura era uscita di soppiatto dal portone. Aveva percorso china la strada per lo ksar, ed era scomparsa nelle vicinanze di un uliveto. Era stato Seignac a condurre le trattative per la fuga con un indigeno. E Farny non era schizzinoso: si guardava bene dal disprezzare le buone azioni dell’angelo custode negro.
La folla rifluì; un gruppo se ne staccò. Marciò in testa trascinando vari oggetti: un baule di legno, bottiglie vuote, biancheria, fotografie strappate. Ora, in uno strano silenzio, il corteo marciò fuori dal portone, e la sentinella all’ingresso vi si unì. Lo seguii anch’io. Lassù alla finestra la pelata del capitano brillava alla luce della luna come un disco d’argento.
Andammo al cimitero, sulla riva del fiumicello; mi sedetti sul muro d’argilla che lo circondava. Alcuni portarono della paglia, altri erba alfa secca. Formarono una grossa catasta: vi furono ammonticchiate sopra il baule le fotografie, la biancheria di Farny. Poi s’innalzò una fiamma bianca. Gli oggetti di Farny vennero bruciati sulla tomba del negro; fu come un sacrificio espiatorio, col quale si cercava di allontanare uno spirito. Il cuore di latta dipinto di rosso pareva ardere.
Gli uomini tornarono al campo in silenzio. Andai a bere qualcosa nella bettola. Quando uscii incontrai il capitano. – Credi che adesso sia finita? – mi chiese. Feci cenno di sì. – Allora va bene. E Farny? Se n’è andato? Grazie a Dio. Io non lo farò certo seguire. Il capitano non è così stupido.
Il giorno dopo gravava sul campo un senso di abbattimento. Il capitano girava qua e là in punta di piedi; tre anni di Marocco gli avevano insegnato che è bene rinunciare alla disciplina quando le acque sono agitate. Neppure l’automobile dell’ufficiale contabile che giunse nel pomeriggio riuscì a destare la compagnia da quel torpore. L’avevano scortata gli Spahis.40 Era giunta anche una signora. Il nostro capitano e il sottotenente Lartigue l’accompagnarono alla mensa, entrambi erano a capo scoperto e tenevano in mano i berretti con la visiera. Poco dopo fui chiamato anch’io.
La signora era vecchia, i capelli corti erano bianchi come il casco coloniale che teneva sulle ginocchia. Premetto questo per prevenire il sospetto che io voglia raccontare frottole sentimentali. La vita, sapete, manca disperatamente di sentimento.
– Ecco l’uomo, – disse il capitano, e se la svignò. Io ero impacciato, perché la signora mi ricordava la nonna che aveva abbuiato la mia infanzia con un’ora quotidiana di ammaestramento morale. Anche la signora aveva occhi grigi come i suoi.
– Si accomodi, – disse. – Sono voluta venire di persona per vedere se ogni cosa era in ordine, perché il signor Seignac non ha risposto alla mia lettera. Neppure mio figlio ha risposto –. Si alzò, si diresse a passi rapidi verso la porta, la spalancò. Quando vide che la stanza era vuota tornò a sedersi. – È meglio che non ci ascolti nessuno, – disse. – Allora il signor Seignac è morto, come mi ha detto il capitano, quindi non ha colpa. E mio figlio è scomparso; meglio così, altrimenti non sarebbe vivo neppure lui –. Il tono asciutto della signora era gradevole. Trasse dalla tasca un portasigarette, incominciò a fumare. – Deve raccontarmi del signor Seignac, Fred, io so il suo nome, mi aveva scritto di lei.
Solo a fatica riuscii a rollarmi una sigaretta che si potesse fumare. E raccontai quello che sapevo, quello che supponevo: dell’attendente Lohmer che si era avvicinato a Seignac per poi ucciderlo, e che Seignac sapeva bene ciò che lo aspettava. – Sì, – disse la signora. – Avevo fatto un preciso quadro di mio figlio al signor Seignac, quando decise di andare a cercarlo nella Legione. Sebbene io non abbia mai capito come gli sia potuta venire quest’idea. Forse era innamorato della mia sorella più giovane, che non riusciva a dimenticare mio figlio e parlava sempre di questa storia. A quel tempo il signor Seignac stava per diventare una celebrità. Aveva pubblicato un romanzo. Poi andò nella Legione. Proprio allora avevamo saputo che Edmund era diventato sergente nella Legione… – (Che Farny si chiamasse Edmund, che una donna l’avesse chiamato così quand’era piccolo! che quell’uomo lubrico, rancido, un tempo fosse pulito, un bambino «nuovo di zecca», ammorbidiva i contorni della sua figura). – Non ho capito affatto il signor Seignac. Mia sorella non voleva un negro. Forse era questo il motivo –. Io sogghignai, la signora parve offesa. Che ne sapeva lei di Seignac! Ma non potevo tenerle una lezione di psicologia per spiegarle che anche un romanziere negro civilizzato può desiderare l’avventura a tal punto da approfittare della prima motivazione nobile per svignarsela dalla buona società. – Mi ha scritto che mio figlio voleva disertare, che dovevo mandare del denaro. L’ho fatto. Spero di non vedermelo più davanti. Ma non parli dei soldi. Ho fatto il mio dovere, voglio dire –. La parola «dovere» è sempre l’ultima scusa della generazione alla quale quella signora apparteneva. Si alzò, fui congedato. Mentre uscivo pensai che anche mia nonna avrebbe parlato così.
Di Farny non ho mai saputo più nulla. Ma una volta ho rivisto Seignac, e se non lui, allora un negro che gli somigliava – in un film moderno. Appariva nudo, il suo corpo era bellissimo, sulla schiena aveva un’intelaiatura che simulava le ali. Prendeva in braccio un bambino colpito da una palla di neve e lo portava via, poi tornava, e dalle carte di un giovane sceglieva un asso di cuori. Il film era di Cocteau, ma questo signore non poteva sapere del cuore rosso che stava a capo di una tomba in Marocco.41
Assassinio. Una storia della Legione straniera
Sabato alle dieci il piccolo Weichhardt giunse a Bel-Abbès con un distaccamento di dieci uomini, lunedì conobbe il sergente Saduner, giovedì ricevette la paga di 250 franchi per il suo arruolamento nella Legione straniera, e venerdì verso le otto di mattina fu portato su una barella nel cortile della caserma con la gola tagliata e le tasche vuote.
Il primo che si avvicinò alla barella fu il comandante Constant. Scostò il lenzuolo. Le mosche si alzarono come un ronzante fumo nero e tornarono a posarsi sulla ferita aperta.
– Dove lo avete trovato? Laggiù al village nègre? Al fiume? Lo ha trovato la pattuglia? Quando?… Ah, alle sei. E arrivate solo adesso?… Inaudito. Che disordine.
Il comandante corse nell’edificio centrale, spalancò la porta che dava nell’ufficio del colonnello Boulet-Ducarreau e raccontò l’accaduto al grassone che sedeva eretto e sonnolento alla scrivania. La rotondità del colonnello non si lasciò smuovere dal suo stabile equilibrio: – Uno di più, uno di meno, – sbuffò sotto i baffi da gatto, – gli uomini non ci mancano, ce ne arrivano a sufficienza. Perché tutta questa agitazione? Chiami Vanagass, Constant.
Vanagass era stato avvocato a Odessa. Aveva un naso a patata e si muoveva sulle gambe ad O. Era sergente e redigeva gli atti d’accusa per la corte marziale di Orano, dove faceva da interprete.
– Ha già sentito? – gli chiese il colonnello quando entrò. Vanagass annuì e sedette su una sedia senza che nessuno glielo dicesse. Con voce tranquilla espresse il suo parere:
– Radunerò gli uomini del servizio segreto e m’informerò su quali persone il giovane ha incontrato in questi ultimi giorni. L’assassino va ricercato tra coloro che saranno congedati tra poco. Richiederò anche il rapporto del capopattuglia al village nègre. È il quarto omicidio in sei mesi – constatò con distacco.
Il capopattuglia non aveva visto niente. Ma Beucler, un lussemburghese butterato, capostanza dei nuovi arrivati, raccontò che il piccolo Weichhardt era uscito due volte con il sergente Saduner. Vanagass gli diede un lasciapassare e lo incaricò di cercare il sergente Saduner. Cinquanta franchi aveva fissato il colonnello per la cattura dell’assassino. Beucler fece rapidamente i conti: cinquanta franchi erano cinquanta pacchetti di sigarette Job e venticinque litri di vino. Si mise alla ricerca.
Il cortile della caserma era inondato di luce bianca fino ai tetti che brillavano come acciaio ossidato. Pochi alberi proiettavano ombre grige. In quella calura bianca il sergente Saduner strisciava con le ginocchia piegate verso la mensa, che si trovava in un angolo vicino al quadrilatero della prigione. Beucler lo raggiunse e lo toccò dolcemente sulla spalla. Saduner trasalì e sbatté le palpebre tatuate.
– Cosa vuoi? – gracidò con voce roca. Le mani tese in avanti tremavano, la pelle del volto punteggiata di blu era cascante, e il corpo era flaccido sotto l’uniforme gialla e sgualcita.
– La tua uniforme è lavata di fresco? – chiese Beucler guardandolo di sottecchi. Alla mensa Saduner ordinò un litro di rosé e cambiò un biglietto da cento franchi. I due sedettero. Dietro il banco lo spagnolo grasso si riappisolò. C’era fresco e buio, e le mosche ronzavano nell’odore aspro di vino.
– E hai anche dei soldi, quanti soldi! – fece Beucler lusinghevole. Saduner rise, tossì, sputò per terra. – Risparmi, – disse brevemente. Tacquero e bevvero.
– A proposito, – disse Beucler, – tu conoscevi il piccolo Weichhardt che hanno trovato stamane?
– Conoscevo? – ripeté Saduner, e col vino che aveva rovesciato disegnò una testa con due occhi. Nel punto del collo incise profondamente il legno con l’unghia del pollice.
– Sei andato a prenderlo qualche volta di sera?
– Andato a prenderlo? – ripeté Saduner con aria ottusa.
– Dov’eri ieri sera?
Saduner scoppiò in una fragorosa risata che finì in un accesso di tosse. Poi balbettò in fretta: – Ieri sera? Bello, ti dico io. Una negra, ti dico io. E per niente cara. Una negra. Haha.
– Allora eri al village?
– Al village nègre? Alla villa Schneck? No no, in una bettola spagnola. Una cameriera.
Saduner continuò a fissare davanti a sé con aria assente. Beucler si avvide che non faceva progressi. – Andiamo in città, – disse. Il sergente era d’accordo. Camminava avanti e indietro nel locale stretto. Intanto si passava l’indice sul pomo d’Adamo come una sega e faceva «cuic, cuic».
– Aspetta, vengo anch’io, – gli gridò dietro Beucler, ma Saduner proseguì, attraversò il cortile con straordinaria sicurezza e si fermò poi accanto al sottufficiale della guardia, al quale parve spiegare faticosamente qualcosa. Quello che so è ben poco, può benissimo avermi preso in giro, pensò Beucler. Saduner uscì dal portone. Beucler lo raggiunse e lo prese per il braccio. Entrarono in alcuni bar, dove gli spagnoli con cravatte dai colori inverosimili sbadigliavano e soffiavano il fumo delle sigarette dalle narici gialle. Per la strada passeggiavano le mogli degli ufficiali.
I due attraversarono la piazza d’armi che separa la città dal quartiere arabo. La torre bianca della moschea si stagliava chiara contro il cielo dal colore intenso da cartolina. Poi incominciava il village nègre. Un vicolo stretto e sudicio fiancheggiato da case che parevano cubetti variopinti, le porte aperte, donne di tutte le razze accovacciate sulla soglia. Erano truccate a colori forti, e adescavano con le palpebre grevi. Dietro di loro nella stanze buie si scorgeva il letto. Arabe, piccole, con rosse macchie rotonde sulle guance e tatuaggi sulla fronte, negre che ruotavano il ventre, la testa appoggiata allo stipite della porta. Vecchie francesi, la pelle del volto ruvida come un vecchio tubo di gomma. Tutte facevano cenno, e di tanto in tanto strillavano. Dei giovanetti recavano dolci impolverati su piatti di legno. Un negro rinsecchito arrostiva pezzetti di fegato infilzati su un fil di ferro. Saduner comprò uno spiedino e lo mangiò rumorosamente.
Il vicolo sboccava in una piazza silenziosa. A sinistra sorgeva una costruzione simile a un decrepito cubo d’argilla. Saduner trasse Beucler dentro la porta aperta. Dal pavimento accanto alla parete di fondo sorse una figura gigantesca, il volto scuro brillava di grasso. Beucler ebbe paura quando vide il mulatto che accolse Saduner con un abbraccio, e con i suoi occhi bianchi osservò diffidente la spia. Saduner si accoccolò per terra e disse: – Milhoud, dammi del kif –. Milhoud sciolse dalla cintura un sacchetto di pelle, e riempì una pipa di terracotta rossa grande quanto un ditale con una miscela di foglie di canapa finemente tritate e polvere di tabacco. Pose una brace sulle erbe, diede un tiro e passò la pipa a Saduner. Questi la finì con due tiri e restituì la pipa.
– Amr Sbsi, – aggiunse, – riempimi la pipa.
Nella piccola stanza aleggiava l’aroma di sigarette per asmatici, e la fragranza di lontani prati di montagna che inaridiscono al sole, e l’odore di ampie pianure percorse dal vento, a mezzogiorno. Pareva che il fumo avesse effetto. D’un tratto Saduner incominciò a parlare in modo sconnesso. Beucler si era rannicchiato in un angolo e lo fissava con spavento.
– Hahaha, cuic, cuic, – disse Saduner passandosi ancora l’indice sul collo. – Con una negra ieri. Milhoud è testimone, Milhoud c’era. Non è vero, Milhoud? Questo qui è una spia. Milhoud è testimone che ieri ero da lui, ma tu credi che io abbia ucciso il piccoletto. Credi che non sappia che sei del Service spécial? Il vecchio Saduner non è un idiota, sa quello che succede. Riconosce le spie alla prima occhiata. Ti ho riconosciuto già alla mensa. Beh, ti voglio raccontare la storia. Una bella storia. Devo raccontargli la storia, a questa spia che lavora con quei porci? Perché c’era anche Milhoud. Non potrai prenderci. Ce ne andremo via, lontano, da qualche parte nel bled,42 in Marocco. E il sergente Saduner avrà tante donne e giovanetti, quanti ne vorrà. Diventerà sceicco di una tribù. Avranno un bel cercarlo. Quattrocento franchi aveva il piccoletto con sé. I risparmi del suo paese e la paga. E il rasoio lo ha comprato lui stesso. Saduner, ha detto, hai una faccia così ruvida, ti comprerò un rasoio. E lo ha comprato. E un pennello e sapone. Non gli è servito a niente. Era destino che morisse. Per dodici anni mi è toccato di faticare. Adesso dovrei tornare in Europa dove non mi conosce nessuno? E qui non posso restare. Devo tornare a casa, così vuole il regolamento. Allora è meglio crepare qui. È più divertente. Insieme a Milhoud, all’amico Milhoud, Milhoud sa orientarsi, conosce la strada che passa per Figuig.43 Non ci si metterà di mezzo nessuna spia. Sì sì, hai visto che ho lavato il vestito cachi e che ho fatto cuic cuic. Hai capito. Avresti dovuto prendermi in caserma. Ora non ti servirà a niente denunciarmi. Mi basterà dire che racconti una storia solo per incassare i cinquanta franchi. Sì, farò anche questo.
Beucler portò due dita alla bocca e fece un fischio acuto. Ma una mano larga gli calò sulla testa e lo scaraventò a terra. Saduner strillava come una ragazza a cui si fa il solletico. Non la smetteva più di ridere.
– Volevi chiamare la pattuglia. Il capo della pattuglia di ieri mi ha visto ma non mi ha riconosciuto. E il piccoletto portava un mantello da donna, il mantello della moglie di Milhoud. La moglie di Milhoud avrà una collana di corallo. E poi al ruscello l’ho solo abbracciato, ma perché mi voleva bene anche lui? E poi con il rasoio. Quattrocento franchi. Prendi del vino, Milhoud, ho sete –. Fece ancora qualche passo di danza e crollò esausto. Giaceva a terra con la bocca aperta.
Il gigantesco mulatto gli s’inginocchiò accanto. Raccolse con la mano dell’acqua da un vaso di terracotta e spruzzò la fronte dell’uomo esanime. Intanto mormorava parole incomprensibili. Saduner aprì gli occhi, si guardò intorno e si alzò lentamente. – Molto denaro, – balbettò, e il mulatto annuì. – Non ti prenderanno, e neanche me –. Beucler fece ancora per alzarsi, ma il mulatto lo guardò con aria minacciosa facendo il gesto di sgozzarlo. Così si rintanò nell’angolo e seguì i due con lo sguardo; Milhoud portò Saduner fuori dalla porta.
Beucler osò uscire solo dopo dieci minuti. La piazzetta era deserta. La strada del piacere era silenziosa. Era tardi. In lontananza suonava un corno.
Nell’ufficio del colonnello Beucler raccontò tutta la storia. Sul bordo della scrivania il comandante Constant si teneva in equilibrio su una natica. Il colonnello rise.
– Perché gli ha regalato un rasoio. È solo colpa sua se è stato ucciso con quell’arnese –. Constant annuì convinto e devoto alla divertente battuta del superiore, mentre Vanagass assisteva con aria di ripulsa.
Nel febbraio 1937 Stefan Brockhoff pubblicò sulla «Zürcher Illustrierte» un articolo in cui enunciava i dieci comandamenti del romanzo poliziesco. Glauser gli rispose il 25 marzo dello stesso anno con una lettera aperta, in realtà poi mai pubblicata sulla rivista. I due testi vengono qui riproposti.
Dieci comandamenti
per il romanzo poliziesco
per il romanzo poliziesco
Un romanzo poliziesco è una partita. Una partita tra i singoli personaggi del romanzo e una partita tra l’autore e il lettore. A una prima occhiata l’autore pare in forte vantaggio. Distribuisce le carte e controlla con occhio vigile che al compagno tocchino solo determinate carte. Ma proprio per questo, proprio perché può mescolare i biglietti della lotteria e distribuirli, dovrebbe farsi un dovere di non ingannare i lettori durante il gioco e di rispettare certe regole, senza le quali ogni romanzo poliziesco diventa un imbroglio sleale. Ho compilato quindi una tavola dei comandamenti e dei divieti, e la consegno ora ai lettori del mio nuovo romanzo affinché durante la partita alla quale ci accingiamo possano verificare se il gioco è leale oppure no. So che in questo modo mi complico la vita, perché mi vincolo a certe regole che dovrò osservare e senza le quali la partita sarebbe molto più facile per me. Ma spero che il mio gioco sarà così leale da poter osare di essere controllato. Facciano attenzione dunque, rivelerò ora i dieci comandamenti del romanzo poliziesco.
1. Tutti gli eventi misteriosi che si verificano nel corso del romanzo, alla fine devono essere spiegati e risolti. Se all’inizio avvengono dieci furti, venti rapimenti, trenta assassinii, alla fine devono essere chiariti dieci furti, venti rapimenti, trenta assassinii. Non abbiano timore che i miei romanzi siano così terribili! Ma ciò che io faccio accadere trova la sua spiegazione – al contrario di un certo autore classico del romanzo poliziesco, nelle cui opere succede tre volte tanto, ma che risolve solo la metà.
2. Gli eventi che si sciorinano al lettore non devono essere creati al solo scopo di metterlo sulla strada sbagliata. Tutto ciò che succede deve trovare una giustificazione nella struttura complessiva del romanzo. Chi inventa episodi solo per spingere il sospetto del lettore nella direzione sbagliata è un compagno di gioco disonesto.
3. Il narratore non deve cercare l’originalità ad ogni costo. Un omicidio deve avvenire con i mezzi tradizionali, come pistola, fucile, veleno e altre belle conquiste della mente umana. Ci sono autori di romanzi polizieschi che si lambiccano il cervello giorno e notte: come faccio morire qualcuno in modo particolarmente originale? E a tal scopo escogitano marchingegni misteriosi e complicatissimi, raggi mortiferi, animali addestrati e cose simili. Esiste un confine oltre il quale la raffinatezza diventa stupidità.
4. L’assassino dev’essere un uomo, un uomo malvagio, certo (in generale), ma pur sempre un uomo. Non deve possedere forze sovrannaturali, non deve agire con mezzi occulti, ma deve mettere in opera i propri misfatti come gli uomini sono generalmente soliti fare. Non deve disporre di possibilità illimitate, non dev’essere il misterioso capo di una banda di duecento uomini, né il capo mascherato di un gigantesco apparato poliziesco statale che dispone di ogni mezzo. Anche a misteriosi passaggi sotterranei, a botole che si aprono prontamente e a simili stregonerie romantiche il narratore deve – se può – rinunciare. Altrimenti l’autore faciliterà troppo se stesso e complicherà troppo la vita al lettore.
5. Anche l’investigatore dev’essere un uomo, un uomo abile e ingegnoso, certo, ma pur sempre un uomo. Non deve avere né il dono dell’ubiquità né dell’onniscienza, qualità che di solito un essere umano non possiede. Per trovare deve cercare, per chiarire deve mettere in moto il suo cervello umano. Un investigatore che indovini ogni cosa in anticipo come il buon Dio, che sia presente in ogni occasione «per caso», che d’un tratto veda tutto chiaro, è una personalità di grande effetto, ma le sue qualità sono troppo belle per essere vere.
6. Un romanzo poliziesco deve rappresentare la lotta tra le azioni insidiose di un criminale e le riflessioni intelligenti e puntuali dell’investigatore che scopre i suoi trucchi. Non dev’essere una corrispondenza di guerra in cui si narrano battaglie di materiali e spostamenti di eserciti, in cui si mobilita l’arsenale di interi popoli e gli uomini cadono a destra e a sinistra. Essere avvincente – questo è il suo compito, ma essere avvincente con il minor impiego di mezzi – questa è la sua arte.
7. L’assassino deve stare al posto giusto nell’intreccio delle azioni e dei personaggi. Il lettore deve conoscerlo, ma non deve ri-conoscerlo. Deve avere un ruolo abbastanza importante, in modo da suscitare interesse anche per sé e per le proprie azioni; non può quindi essere una figura marginale. Ma non può neppure esser messo troppo in risalto, perché altrimenti si tradirebbe troppo facilmente. Valutare quale sia il posto giusto per lui, questo è il compito principale dell’autore.
8. In un romanzo poliziesco non si può mostrare tutto ciò che succede. Moventi, assassini, mezzi devono restare per lo più in ombra, ma di tutto ciò che accade il lettore deve venire a sapere qualcosa, sia che si tratti dell’effetto finale, o di un qualche altro effetto o di un certo indizio che richiami l’attenzione sul crimine. Non deve mai succedere qualcosa di cui il lettore venga a sapere che è successo solo durante la spiegazione finale. Il narratore deve nascondere molti elementi, certo, ma non deve mai nasconderli del tutto, una piccola punta deve comunque emergere sempre.
9. L’autore non deve stancare il lettore. Udienze interminabili, verbali dettagliati, scrupolosi sopralluoghi della corte sono da evitare. Ciò che è indispensabile per la conoscenza dei fatti deve avere naturalmente il suo posto, ma tutto ciò che ha il suo posto dev’essere davvero indispensabile per l’azione e la sua risoluzione. Mentre legge, il lettore non potrà sempre valutare il significato di questa scena o di quel dialogo, certo. Ma alla fine dovrà sapere che era importante, e perché.
10. È auspicabile che il lettore assista agli avvenimenti decisivi e vi partecipi. Per quanto possibile deve avere la sensazione di esser stato sempre presente a tutto. Nessun personaggio del romanzo deve narrargli a posteriori se e dove qualcosa è successo, chi legge deve vedere gli eventi con i propri occhi. È facile che i racconti mediati risultino noiosi, e riducano in ogni caso la forza immediata dei fatti. Il lettore deve poter seguire i personaggi e le loro azioni con i propri occhi. Non deve ascoltare ciò che gli si racconta, ma vedere ciò che effettivamente accade. Dev’essere presente.
Questi sono i dieci comandamenti che regoleranno il nostro gioco. Spero di non averli trasgrediti. Nel mio primo romanzo, Sparo sul palcoscenico, c’era ancora qualche colpo a vuoto, ma il secondo, Musica nel vicolo dei morti, suonava già una melodia migliore. E ora spero che per il terzo, Tre chioschi sul lago, potranno darmi un buon voto, e che ne trarranno il divertimento che ci si aspetta da un gioco onesto e corretto. Facciano ben attenzione, e se noteranno che contravvengo alle regole del gioco, se ne lamentino con me.
STEFAN BROCKHOFF
La Bernerie (Francia), 25 marzo ’37
Egregio e caro collega Brockhoff,
qualche tempo fa lei ha promulgato dal Sinai della «Zürcher Illustrierte» dieci comandamenti per il romanzo poliziesco, e sulle sue richieste avrei volentieri discusso con lei. Alcune affermazioni hanno suscitato obiezione e critica da parte mia – ma avrei voluto farla partecipe delle mie osservazioni a voce. Non mi pare giusto che lei debba sopportare un mio monologo in silenzio senza poter intervenire per correggere, per rettificare nel caso io commetta un errore o fraintenda i suoi pensieri. Ma poiché noi – proprio come i due figli di re – non possiamo incontrarci,44 la nostra disputa, la nostra disputa pacifica e amichevole deve aver luogo sulle colonne della «Zürcher Illustrierte». Assumerà la forma di una tenzone poetica, in cui il pubblico rivestirà il ruolo di Elisabeth (così si chiamava la dama per la quale Wagner compose l’arrivo dei cantori, vero?).45 Senza accompagnamento musicale. Ed è bene così.
Sono sempre stato dell’idea che con i dieci comandamenti – la cui trasgressione, sia detto per inciso, continua a fornirci il materiale per i nostri romanzi – il Vecchio Testamento abbia creato un deplorevole precedente. Tutti coloro che avvertono l’oscuro impulso a fissare norme destinate ai propri simili tormentati, da quel momento si sentono in dovere di suddividere la materia in dieci parti, anche se con cinque, quattro o tre comandamenti l’argomento sarebbe chiuso. Così ci hanno tediato con i dieci comandamenti per la donna di casa e i dieci comandamenti per lo scapolo – anche i possessori di un aspirapolvere e i radioascoltatori hanno avuto l’onore di essere afflitti dal numero dieci.
Dieci comandamenti!… E sia. Vada pure per «Dieci comandamenti per il romanzo poliziesco». Forse mi permetterà di osservare che un romanzo come prodotto umano, come oggetto inanimato non sa cosa farsene dei comandamenti. I comandamenti valgono per lo scrittore. Ma devo ammettere che il titolo «Dieci comandamenti per lo scrittore di romanzi polizieschi» non sarebbe suonato molto bene…
Forse in cambio mi concederà di aggiungere che una parte delle sue richieste è ovvia. Il Detection Club di Londra, che raggruppa alcuni autori del genere letterario di cui ci stiamo occupando – Agatha Christie, Dorothy Sayers, Crofts, Cunningham – prescrive nei propri statuti ai suoi membri ciò che lei, caro collega, ha elaborato: verosimiglianza dell’azione, rinuncia alle bande, capi compresi, gioco leale, elusione di ogni esagerazione inutile, lingua decorosa.
Lingua decorosa. Nel nostro caso, tedesco decoroso. Non ho trovato questo postulato tra i suoi comandamenti. Forse a torto; forse le è parso così ovvio che non ne ha fatto cenno.
Il romanzo poliziesco, così come fiorisce, prospera e prolifera oggi nei paesi anglosassoni, è, come lei dice giustamente, una partita: una partita che si gioca secondo certe regole. Il rispetto di queste regole è solitamente cosa ovvia – ma a volte è difficile attenervisi. Ne converrà anche lei.
Tramite l’elemento giocoso insito in sé, il romanzo poliziesco è imparentato con quel suo fratello più salottiero che si chiama semplicemente «romanzo», e rivendica il diritto di essere annoverato tra le opere d’arte. E queste opere d’arte furono lette finché divennero prodotti d’arte, prodotti artificiali, affari di alcune cricche, di alcuni snob. Finché vi si praticò solo un’analisi minuziosa dell’anima, o l’autore si mise a fare filosofia, psicologia, metafisica dimenticando le esigenze principali del romanzo quali il favoleggiare, il raccontare, la rappresentazione degli uomini, del loro destino, dell’atmosfera in cui si muovevano. Il buon romanzo doveva avere anche tensione. Era un tipo di tensione diversa da quella che domina nel romanzo poliziesco, ma una tensione doveva comunque esserci.
E poiché il romanzo rifiutava la tensione in quanto elemento non artistico, il fratello disprezzato, il romanzo poliziesco, visse quel successo che agli occhi di certuni gl’impresse il marchio di parvenu.
Ma tutto questo lei lo sa meglio di me, e non è per tenerle una lezione sullo sviluppo del romanzo che le scrivo. Eppure questa premessa era necessaria.
Perché di tutte le caratteristiche che fanno il romanzo, quello poliziesco ha conservato solo la tensione. Un genere particolare di tensione. Un po’ favoleggia anche lui, ma senza abbandonare i sentieri sicuri. E volontariamente rinuncia all’elemento più importante: la rappresentazione degli uomini e della loro lotta contro il destino.
Gli uomini e il loro destino! Il romanzo poliziesco opera una rinuncia consapevole a questa prerogativa artistica. Nella sua forma attuale è astratto, di un’assoluta logicità formale. E soprattutto questo vorrei rispondere ai suoi «dieci comandamenti»: un romanzo scritto secondo questa ricetta non ha fortuna. L’omicidio, l’omicidio semplice, doppio, triplo, all’inizio, a metà, e fors’anche alla fine avviene solo per fornire a una macchina pensante materiale per deduzioni logiche. Ammetto che possa essere affascinante. Quando il metodo era nuovo – pensi a I delitti della rue Morgue, e al padre di tutti gli Sherlock Holmes, Hercule Poirot, Philo Vance, Ellery Queen, al nonno di tutti gli ispettori, di tutti i commissari di Scotland Yard: allo chevalier Dupin di E. A. Poe46 – quando il metodo era nuovo, era perfino artistico, ma forse solo perché era un poeta a servirsene. Oggi è logoro – per non dire di cattivo gusto.
Ciò che si dice un buon romanzo poliziesco – sia che l’eroe risolutore appartenga all’autorità costituita, sia che indaghi per conto proprio – è sempre strutturato come segue:
All’inizio l’autore creava l’elenco dei personaggi e lo poneva, per risparmiare l’attività cerebrale del lettore, sul retro del frontespizio. Nel primo capitolo avviene l’omicidio. Poi le pagine si succedono vuote e deserte fino all’arrivo della vecchia volpe. Questi è un uomo, «un uomo abile e ingegnoso, certo» – come scrive lei, dotato di uno sguardo psicologico. Di questo sguardo si serve per risolvere gli enigmi. E ogni personaggio dell’elenco ne cela uno in petto – e lo custodisce gelosamente. Ma invano. Compare la vecchia volpe, lancia al personaggio la sua occhiata psicologica introducendola in una fessura invisibile, tira l’anello della macchinetta automatica ed ecco la confessione con tutti gli indizi necessari. Non deve far altro che tendere la mano. Lo stesso procedimento si ripete per ogni personaggio – e quando la vecchia volpe ha gettato su tutti la sua occhiata psicologica e ha ricevuto il suo biglietto, va a comprarsi l’assassino come con una mazzetta di buoni sconto. La soluzione gli fiorisce come un fiorellino lungo la strada. Il fiorellino della soluzione la vecchia volpe se lo mette sul cappellino, o se lo infila all’occhiello e continua il suo cammino verso altre imprese. Ma l’assassino, «un uomo malvagio, certo (in generale)» – come scrive lei –, l’assassino sconta i suoi crimini sulla sedia elettrica, sulla ghigliottina, sul patibolo – sempre che non preferisca suicidarsi. Bene. D’accordo! Ma perché l’assassino è «un uomo malvagio, certo»? Esistono uomini certamente malvagi in generale e non certamente buoni in particolare? Ma esistono uomini buoni e uomini malvagi? Gli uomini non sono semplicemente uomini – né bestie né santi –, uomini mediocri, né eroi, né vecchie volpi, né abili, né ingegnosi, né «malvagi, certo», ma semplicemente uomini, si chiamino essi Glauser, Brockhoff, Hitler, Riedel o Emma Künzli o Guala? Non abbiamo noi scrittori il dovere – anche quando creiamo tensione, anche quando idealizziamo –, sempre e comunque (senza tenere prediche, s’intende), di far notare che esiste solo una differenza piccolissima, appena visibile tra l’«uomo malvagio, certo (in generale)» e tra quello «abile, ingegnoso, dalle riflessioni puntuali»? Vede, gli interrogativi mi tormentano come tafani in luglio. Ma se lei è pronto a eliminare botole, bande, marchingegni misteriosi e complicatissimi che lanciano raggi mortiferi, se è pronto a eliminare le «stregonerie romantiche» e a proibirle, allora dovrà anche eliminare la distinzione tra uomini buoni e malvagi. Perché questa distinzione è un imbroglio romantico come le povere botole e gli accessori di scena che si usavano in un’epoca più semplice della nostra.
L’azione di un romanzo poliziesco si racconta benissimo in una pagina e mezza. Il resto – gli altri centonovantotto fogli dattiloscritti – sono un riempitivo. Ora il problema è che farne di questo riempitivo. La maggior parte dei romanzi polizieschi sono nel migliore dei casi degli aneddoti diluiti – perché nella nostra epoca caotica i generi letterari non si distinguono più in base al contenuto, ma solo e soltanto in base alla lunghezza: tre pagine: short story, storia breve. Da quindici a venti pagine: novella. Cento pagine: romanzo breve. Eh sì, succede anche questo! Non rida. Il romanzo breve è stato inventato da persone che non sapevano l’inglese, e che hanno tradotto short novel, che era semplicemente un racconto, con «romanzo breve». Oltre le cento pagine incomincia il romanzo, il romanzo poliziesco, questo ermafrodito, metà cruciverba, metà problema di scacchi…
Perché non è qualcosa di più? Perché non mira più in alto?
Le persone che vi compaiono non sono altro (di solito, ma esistono delle eccezioni) che macchinette automatiche: dipinte di rosso, blu, verde, giallo. Macchinette automatiche nella cui fessura la vecchia volpe, invece di una volgare monetina da venti centesimi, introduce il suo sguardo psicologico. Non sono uomini. Stanno, queste macchinette automatiche (e lei le conosce bene quanto me: la moglie del milionario o la figlia del milionario, il maggiordomo, che di solito si chiama Butler, il medico – abietto oppure no –, la cameriera, il segretario, eccetera eccetera), stanno in uno spazio vuoto. Perché tutte le ville, tutti i buildings, tutti i palazzi da milionario che ci vengono presentati non hanno neppure la realtà tangibile di un marciapiede ferroviario esposto alle correnti d’aria (il luogo ove dovrebbero stare le macchinette automatiche), col suo odore di fumo di carbone, col suo bagagliaio che odora di cuoio e tabacco, con la musica monotona dei suoi apparecchi di segnalazione…
La tensione è un elemento eccellente; attenua la fatica della lettura. Distoglie dalle avversità della vita lo spirito, lo spirito tormentato dalle preoccupazioni, aiuta a dimenticare. Proprio come un’acquavite, proprio come un vino. Ma come esiste un vero kirsch e la sua imitazione, così esiste la vera tensione e la tensione scadente – perdoni la nuova parola.47 E tensione scadente chiamo quella tensione che conosce un solo scopo: la soluzione, la fine del libro. E non permette, questo surrogato di tensione, di considerare ogni pagina del libro come momento presente in cui il lettore vive per alcuni minuti o secondi. Il fatto che questi brevi istanti, questi minuti e secondi possano diventare per lui ore, giorni e mesi, proprio come in sogno, il risveglio di questi sentimenti mi sembra dimostrare l’autenticità di una tensione. Finché la tensione rifiuta il presente, è il futuro che paga il conto. Leggendo un libro i sintomi non sono così eclatanti. Solo un cattivo sapore in bocca, un senso di vuoto in testa dimostrano che la tensione era contraffatta. Mirava a una soluzione, non ha risvegliato le belle visioni di sogno, nulla echeggia, perché nulla è stato fatto vibrare in noi. Questa corsa precipitosa verso il futuro a scapito del presente non è la maledizione del nostro tempo? Abbiamo dimenticato l’esistenza di un presente che vuole essere vissuto. Abbiamo dimenticato che vale la pena di vivere questo presente, senza trangugiarlo come se fossimo un abbuffone che inghiotte minestra, carne e verdura perché pensa solo al dolce che lo aspetta alla fine del pranzo. L’uomo di oggi si comporta come un ciclista, che ansima attraversando un paesaggio meraviglioso solo per guadagnarsi una qualche maglia colorata che non lo renderà più bello – al contrario, che sottolineerà ancor più la sua somiglianza con una scimmietta malata.
Stimolare la riflessione e la meditazione durante la lettura, anche con le nostre modestissime forze e i nostri modestissimi mezzi, dovrebbe essere per noi un dovere. Mi creda, vale la pena di deludere coloro che dopo le prime dieci pagine sfogliano il libro sino alla fine solo per sapere il più presto possibile chi è l’assassino…
Sono d’accordo con lei quando scrive che l’assassino deve avere un ruolo abbastanza importante, in modo da suscitare interesse per sé e le sue azioni. Ma cosa succederebbe se riuscissimo a creare una tensione tale per cui al lettore sarebbe quasi indifferente l’identità dell’assassino? Se con grandi insidie riuscissimo ad attirare il lettore nella nostra trama di sogno, se lui sognasse con noi in piccole stanze che non ha mai visto, se parlasse con persone che d’un tratto gli paiono più reali dei conoscenti più stretti, se le cose della vita quotidiana a cui non ha mai fatto caso perché gli sono diventate troppo consuete gli apparissero d’un tratto in una nuova luce, nella luce del riflettore che abbiamo inventato per lui? Ma che succederebbe se riuscissimo a caricare ogni capitolo della nostra storia con una corrente diversa, non con quella primitiva che lo sospinge in avanti, con una diversa, ho detto! Se riuscissimo a destare in lui simpatie e antipatie per le nostre creature, per le case in cui abitano, per i giochi che fanno, per il destino che li sovrasta e li minaccia o arride loro?
Tutto questo lo realizzava prima il «romanzo» per eccellenza, l’opera d’arte. Non sarebbe per noi un compito proficuo riguadagnare dei lettori per mezzo del suo disprezzato fratello, il romanzo poliziesco? Forse riusciremo a liberarlo dal disprezzo che per lui provano le persone di gusto, le persone dotate di discernimento. E se saremo abili, se riusciremo a tener viva anche l’altra tensione, la «tensione poliziesca», forse riusciremo a raggiungere coloro che leggono solo John Kling o Nick Carter… Abbiamo bisogno di produrre letteratura poliziesca, e non dovremmo vergognarcene. Non hanno descritto il crimine e la sua soluzione anche personaggi più grandi di noi? Schiller non ha tradotto Pitaval48 e Conrad non ha scritto L’agente segreto? E Stevenson il suo Club dei suicidi?
Ma come un buon libro di cucina da solo non basta a preparare un risotto a regola d’arte, così «dieci comandamenti» non bastano per scrivere un buon romanzo poliziesco. Lei perdonerà se mi sono permesso di completare le sue richieste con alcune altre. Le mie non sono nuove – e forse non avrei mai potuto formularle se non mi fossi accorto che qualcuno le ha utilizzate. E prima di parlare brevemente di colui che se ne è servito, mi permetterà di riassumerle.
Umanizzare! Fare della macchinetta automatica un essere umano. E soprattutto non idealizzare più la macchina pensante, la vecchia volpe con il fiorellino della soluzione all’occhiello. Concordo con lei su questa richiesta. Non scrive anche lei che dev’essere un uomo? Vorrei continuare. Non occorre che sia abile e ingegnoso. Basta che disponga di capacità d’immedesimazione e di un sano buon senso. Ma soprattutto: dobbiamo averlo vicino, e non vederlo aleggiare su quelle vette lontane dove dopo una pioggia resta asciutto e tutti i rasoi tagliano alla perfezione. Deve scendere dal suo piedistallo, la vecchia volpe! Deve reagire come lei e come me. Rendiamolo capace di queste reazioni, diamogli una famiglia, una moglie, dei figli – perché dev’essere sempre scapolo? E se deve peregrinare attraverso la vita senza una moglie, intento solo a risolvere enigmi polizieschi, che abbia almeno un’amica che gli renda la vita amara… Perché è sempre vestito in modo inappuntabile? Perché ha sempre abbastanza quattrini? Perché non si gratta quando ha prurito, e perché non ha un’espressione un po’ tonta – come me – quando non capisce qualcosa? Perché non si decide a cercare contatti con i suoi simili, a vivere l’atmosfera in cui vivono le persone di cui si occupa? Perché non partecipa al loro destino? Perché non pranza con loro e maledice tra sé la minestra che si è attaccata – quanta tensione si può nascondere in una minestra che si è attaccata! – o ascolta con loro una conferenza sul matrimonio tenuta da un famoso professore alla radio? In simili occasioni le persone sono se stesse – sbadigliano. Quante cose può svelare uno sbadiglio…
E se il colletto della vecchia volpe è bagnato di sudore – che rivelazione! Per non parlare di un calzino bucato!…
No, non rido di lei, non saboto la nostra discussione. Ho parlato del destino, della sua irragionevolezza. Possiamo nascondere che assume forme tragicomiche? È lecito parlare del destino solo quando appare perfettamente stirato come un paio di pantaloni appena usciti dalla sartoria, o quando è nero come un vestito da lutto tinto di fresco?
In un autore ho trovato riunito tutto ciò che non ho trovato in tutta la letteratura poliziesca. L’autore si chiama Simenon e ha creato un tipo che, sebbene avesse qualche predecessore, nessuno aveva mai dotato di una simile passionalità: il commissario Maigret. Un agente di pubblica sicurezza nella media, ragionevole, un po’ trasognato. Non il caso poliziesco in sé, con la scoperta dell’assassino e la soluzione costituiscono il tema principale, ma le persone e soprattutto l’atmosfera in cui si muovono. Soprattutto l’atmosfera: un piccolo porto e il suo caffè elegante – nel Cane giallo; la chiusa di un canale interno – nel Carrettiere della provvidenza; una cittadina di provincia nel sud – nel Matto di Bergerac; una casa d’affitto di Parigi – nel Gioco delle ombre cinesi. Ma perché allungare l’elenco? L’aspetto insolito di questi romanzi – che sono in realtà novelle lunghe – è questo: in fondo si resta indifferenti alla soluzione, sebbene la trama sia costruita secondo una ricetta sperimentata. Ma tra le righe nere spira quell’aria di sogno, splende quella luce che richiama in vita anche le cose più piccole e più modeste – una vita a volte spettrale. L’assassino? È un uomo come tutti gli altri, come succede nella vita di ogni giorno. E che venga scoperto non è affatto importante, alla fine non si tira un sospiro di sollievo, non c’è un colpo di scena, in realtà la storia non ha una fine, cessa – è un brano di vita, ma la vita continua, illogica, avvincente, triste e grottesca al contempo.
Vorrei ringraziare Georges Simenon. Quello che so l’ho imparato da lui. È stato il mio maestro – non siamo tutti allievi di qualcuno?…
Sto divagando. Forse tutto ciò che ho scritto lei lo sa molto meglio di me. Purtroppo non ho mai avuto l’occasione e il piacere di leggere uno dei suoi romanzi. Ma sono certissimo che tutti i miei rimproveri al genere «romanzo poliziesco», ai suoi «eroi», alle sue «vecchie volpi», non la riguardino. Sono convinto che lei abbia ottenuto un grande successo con il suo romanzo Tre chioschi sul lago. Se la mia lettera le avesse fatto l’impressione di un ammaestramento, la prego di credere che ciò non era nelle mie intenzioni. Per me si trattava piuttosto di poter formulare con chiarezza alcuni pensieri. E come farlo senza cercare di esprimerli a parole?
Con i sensi della più viva amicizia, suo devotissimo
FRIEDRICH GLAUSER
Note
1 Piatto nazionale svizzero a base di patate.
2 Gioco di carte svizzero per due, tre, o quattro giocatori con 36 carte.
3 Il commissario Studer che incontreremo in questi racconti – basso, grasso, corpo tondeggiante, occhi tristi, senza speranza – ha poco in comune con il futuro sergente dei romanzi polizieschi.
4 Vino bianco vallese.
5 Nei futuri romanzi polizieschi Studer non fumerà più i toscani (in italiano nel testo) ma i Brissago.
6 Schafott: patibolo, gioco di parole intraducibile.
7 James Abbott Mac Neill Whistler, pittore e incisore americano (1834-1903), visse per lo più a Londra e a Parigi. Numerose incisioni e litografie ritraggono vedute di Londra e Venezia.
8 Fiume svizzero, affluente dell’Aare.
9 La traduzione italiana non può rendere l’associazione d’idee che il testo originale desta nel lettore: «Zuckerkrankheit (malattia dello zucchero, diabete)?… Zucker (zucchero)?…».
10 Tragedia in 5 atti che Franz Grillparzer scrisse nel 1825.
11 Glauser si riferisce allo scrittore irlandese Jonathan Swift e al suo capolavoro,I viaggi di Gulliver, pubblicato nel 1726.
12 Lionel Kieseritzky, geniale e spregiudicato scacchista russo (1806-1853), analizzò e giocò una variante del gambetto di re, considerata giocabile ancora oggi e che da allora porta il suo nome.
13 Il senso di questo cognome, che tradotto letteralmente significa «torta di cioccolata», si capirà solo alla fine del racconto.
14 Adolph Anderssen, scacchista tedesco (1818-1879), nella sua epoca fu considerato il miglior giocatore del mondo.
15 Paul Morphy, scacchista americano (1837-1884), sconfisse tutti i migliori giocatori europei. Dal 1859 abbandonò gli scacchi a causa di gravi disturbi nervosi. È considerato uno dei genii della storia degli scacchi per la qualità delle sue partite.
16 Il testo originale contrappone ‘Watschen’ a ‘Ohrfeigen’.
17 L’autore usa l’espressione austriaca ‘Falott’.
18 Hermann Johannes Zuckertort, scacchista polacco (1842-1888), specialista nel gioco alla cieca, il suo record fu di sedici partite simultanee alla cieca giocate a Londra nel 1876. Tradotto letteralmente il suo cognome significa «torta di zucchero», e giustifica l’associazione con i nomi ‘Süßkind’ (in cui compare l’aggettivo ‘süß’, dolce) e ‘Schokoladentorte’ (torta di cioccolata) ricordati in precedenza da Kreibig.
19 Si tratta dei due versi centrali della poesia Die beiden Esel (I due asini), compresa nella raccolta poetica Galgenlieder (Canti del patibolo) che Christian Morgenstern (1871-1914) pubblicò nel 1905: Ein finstrer Esel sprach einmal / zu seinem ehlichen Gemahl: / «Ich bin so dumm, du bist so dumm, / wir wollen sterben, gehen, kumm!». / Doch wie es kommt so öfter eben: / die beiden blieben fröhlich leben. (Un asino malinconico disse una volta / alla legittima consorte: / «Sono così sciocco, sei così sciocca, / vieni, andiamo a morire!». / Ma come spesso accade: / i due continuarono a vivere allegramente).
20 Si tratta di una svista di Glauser, perché nelle pagine precedenti la signora Studer non dice Staub, ma Sobel.
21 Si tratta di un’altra svista dell’autore, che poche righe prima scrive: «… rimise il sigaro nel pacchetto, il sigaro che aveva appena preso per incominciare a fumarselo…».
22 La medesima vicenda ritorna nel capitolo «Storia di Barbara» del romanzo di Glauser Il Cinese, Sellerio editore, Palermo 1988.
23 In Svizzera e in altri paesi di lingua tedesca la votazione massima corrispondente al nostro dieci è uno.
24 L’opera a cui Glauser si riferisce è Il mondo come volontà e rappresentazione, che il filosofo tedesco scrisse nel 1819.
25 Anche nel racconto Lamento funebre l’autore parla di una composizione di Mozart, un concerto per violino che paragona a una danza macabra.
26 Arnold Böcklin, pittore svizzero (1827-1901), attivo a Weimar, a Monaco, in Svizzera e in Italia dove morì, creatore di opere popolate di divinità ed esseri favolosi.
27 Eugen Bleuler, psichiatra svizzero (1857-1939), professore a Zurigo e direttore dell’istituto di Burghölzli – dove Glauser fu sottoposto ad esame psichiatrico nel 1920 –, coniò il termine schizofrenia e introdusse la psicanalisi freudiana nella psichiatria universitaria.
28 Ernst Kretschmer, psichiatra tedesco (1888-1964), caposcuola della teoria tipologica fondata sulla corrispondenza tra temperamento e tipo somatico.
29 ‘Kittchen’, popolare per ‘Gefängnis’.
30 La vicenda del caporale veggente ritorna anche nel romanzo poliziesco di Glauser Il grafico della febbre, Sellerio editore, Palermo 1985.
31 Il famoso imprenditore tedesco Hugo Stinnes (1870-1924).
32 Rocambole, protagonista di mirabolanti avventure narrate in una lunga serie di romanzi da Pierre-Alexis Ponson du Terrail (1829-1871).
33 Tu va’ in prigione.
34 Louis-Hugert-Gonzalve Lyautey, maresciallo e accademico francese, operò in Marocco come alto commissario e in seguito come residente generale, dopo essere stato nominato per un breve periodo ministro della Guerra nel 1917. Fu anche membro dell’Académie Française.
35 Gruppo di oasi nel sud-est del Marocco, ricche di palme da dattero e ulivi.
36 Contraddizione dell’autore, che più sopra scrive: «… non c’era ringhiera…».
37 I personaggi di questo racconto ritornano anche nelle ultime pagine del romanzo di Glauser Gourrama, Sellerio editore, Palermo 1990, sebbene la vicenda presenti alcune variazioni.
38 Il filosofo Friedrich Nietzsche portava un paio di baffi assai folti.
39 Schinderhannes, in realtà Johann Bückler (1783-1803), che Karl Zuckmayer scelse come soggetto della sua opera omonima (1927), capo di banditi, molto amato dalla popolazione per le sue imprese patriottiche.
40 Indigeni nordafricani che costituivano un reggimento a cavallo dell’esercito francese.
41 Glauser si riferisce al terzo episodio del film Le sang du poète (1931) di Jean Cocteau (1889-1963), in cui l’angelo nero è interpretato dall’attore Féral Benga.
42 Retroterra nell’Africa del nord; nell’argot militare ‘terra di nessuno’.
43 Oasi nel Marocco orientale prossima al confine algerino, ricca di duecentomila palme da dattero.
44 L’autore si riferisce a un’aria popolare del 1500: «1. Es waren zwei Königskinder, / die hatten einander so lieb, / sie konnten zusammen nicht kommen, / das Wasser war viel zu tief. / 2. “Ach, Liebster, kannst du nicht schwimmen, / so schwimme doch her zu mir. / Drei Kerzen will ich dir anzünden, / und die sollen leuchten dir”. / 3. Das hörte eine falsche Nonne, / die tat, als wenn sie schlief, / sie tat die Kerzen auslöschen, / der Jüngling ertrank so tief. / 4. Ein Fischer wohl fischte lange, / bis er den Toten fand: / “Sieh da, du liebliche Jungfrau, / hast hier deinen Königssohn”. / 5. Sie nahm ihn in die Arme, / und küsst’ ihm den bleichen Mund. / Es musst’ ihr das Herze brechen, / sank in den Tod zur Stund’». («1. C’erano una volta due figli di re che si amavano tanto, non riuscivano a raggiungersi, l’acqua era troppo fonda. 2. “Ah, mio bene, non sai nuotare, coraggio, nuota da me. Ti accenderò tre candele che ti faranno luce”; 3. La sentì una falsa suora, finse di dormire e spense le candele, il giovane annegò. 4. A lungo un pescatore pescò, finché il corpo trovò: “Ecco, dolce signora, ecco il tuo figlio di re”. 5. Lei lo prese tra le braccia, la pallida bocca gli baciò. Il cuore le si spezzò, e nella morte precipitò»).
45 Glauser si riferisce al secondo atto dell’opera romantica Tannhäuser di R. Wagner, nel quale Elisabeth, nipote del langravio, assiste alla tenzone poetica il cui vincitore avrà la sua mano.
46 I delitti della rue Morgue è uno dei tre racconti di E. A. Poe, insieme a Il mistero di Marie Roget e a La lettera rubata, in cui l’investigatore Auguste Dupin riesce a risolvere casi ritenuti insolubili.
47 La traduzione non può rendere l’originale Fuselspannung, composta da Fusel (acquavite cattiva, di qualità scadente) e Spannung (tensione). L’uso della parola Fusel si giustifica in rapporto ai precedenti acquavite, vino, kirsch.
48 François Gayot de Pitaval, giurista francese (1673-1743), autore dell’opera Famosi e interessanti casi giudiziari.
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